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eddyburg nel 2015. Sappiamo già che dovremo continuare a farlo nel 2016. Speriamo di diventare più numerosi e più determinati, perciò più efficaci. La Repubblica, 31 dicembre 2015

Il suo nome è Valletta del Silenzio, per il senso di pace che questo lembo di paesaggio veneto custodisce sotto La Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio fra il 1565 e il 1569. Continuerà a chiamarsi così anche quando verrà smontato il cantiere aperto nell’ottobre scorso e che trasformerà una stradina di campagna in una strada con marciapiedi, dissuasori anti velocità e pali d’illuminazione, affiancandole un parcheggio, una pista ciclabile, un’area per il pic-nic? E, dovessero arrivare altri finanziamenti, aggiungendo alcune attrezzature per attività di didattica ambientale, compreso un edificio? Gli interrogativi inquietano cittadini e associazioni che inviano esposti al ministero per i Beni culturali, alla sottosegretaria Borletti Buitoni, all’Unesco e al Comune di Vicenza, artefice dell’iniziativa. Protestano contro un intervento nato per migliorare l’accessibilità alla villa palladiana, e perciò finanziato dal Mibact, e risoltosi invece — questa la denuncia — in una sistemazione stradale che non riguarda le visite al monumento e che serve soprattutto chi abita in questi luoghi, chi frequenta un campo di calcio lì vicino e che, soprattutto, rischia di stravolgere un paesaggio fatto di natura e di architettura, trasformandolo in una sciatta periferia urbana.

Tante contestazioni per una strada rimessa in sesto e qualche posto macchina? Certo, replicano gli esponenti delle due associazioni più impegnate, Civiltà del verde e Osservatorio urbano territoriale: «Questo pezzo di campagna è la culla dell’ispirazione da cui è scaturita l’opera palladiana ». La villa e il paesaggio circostante, insistono gli ambientalisti citando Denis Cosgrove, uno dei più importanti studiosi palladiani, «sono parte della medesima scenografia».

L’intervento, segnalano le associazioni, investe un’area protetta dall’Unesco che da qualche anno è sconvolta. A poche centinaia di metri svetta il mastodontico insediamento di Borgo Berga, il cui cantiere è stato sequestrato dalla Procura, che ha indagato l’ex responsabile dell’ufficio urbanistico, ora direttore generale del Comune di Vicenza, Antonio Bortoli (per paradosso, la Procura ha sede in uno degli edifici di Borgo Berga). Di fronte, poi, sotto il monte Berico, e sotto la villa Valmarana ai Nani, con affreschi dei Tiepolo, dovrebbe spuntare un tunnel a due piani, stradale in alto, canale scolmatore in basso (la zona è a rischio idrogeologico).

E ora si mette mano alla stradina sotto La Rotonda. Un primo progetto che interessava la Valletta del Silenzio era stato curato nel 2001 da Bruno Dolcetta, professore a Venezia (a detta delle associazioni, «un ottimo esempio di restauro paesaggistico»). Ma nell’aprile 2013 il Comune presenta un altro progetto al Mibact per usufruire di un finanziamento di 130mila euro destinato a una migliore accessibilità ai siti protetti dall’Unesco. Si propone di costruire un parcheggio, di allargare la strada e di costruire marciapiedi e pista ciclabile.

A gennaio del 2015 però la scena cambia. La parte di finanziamento destinata alla strada cresce del 30 per cento, da 83 a 110mila euro. Quella per il parcheggio, che doveva essere il cuore del progetto per ottenere il contributo, scende da 51 a 22mila euro, il 50% in meno. Al Comune spiegano che un parcheggio è già stato realizzato con soldi regionali. Ma allora, insistono le associazioni, si sono chiesti soldi per garantire un parcheggio ai visitatori e invece si è sistemata una strada che serve i residenti della zona. Come d’altronde ha spiegato l’assessore ai lavori pubblici del Comune, Cristina Balbi, che più volte ha rassicurato chi abita vicino alla Rotonda sulle intenzioni dell’amministrazione: migliorare la loro mobilità.

Ultima questione sollevata dalle associazioni. Presentando al Mibact la variante al progetto nel gennaio del 2015, il Comune sostiene che i progetti definitivi «sono già stati ultimati e acquisiti i relativi pareri». Compreso quello della Soprintendenza: che è positivo, con qualche lieve prescrizione, che però risulta essere arrivato solo il 21 ottobre del 2015, a cantiere già aperto.

Ilfattoquotidiano.it, 29 dicembre 2015

«La provincia di Salerno è pronta ad accettare la sfida. Noi vogliamo interpretare al meglio il nostro nuovo ruolo e stiamo organizzando l’ente per svolgere al meglio il ruolo di ‘Ente di servizio’, di ‘hub’». Così ha detto il Presidente della provincia di Salerno, Giuseppe Canfora, nella relazione introduttiva al Consiglio del 21 dicembre. Sul tavolo l’approvazione dello schema di bilancio preventivo per il 2015. Ma anche molto altro. Come il piano di alienazione che coinvolge anche il Palazzo che ospita l’Archivio di Stato, in piazza Abate Conforti. Un edificio dalla lunga storia.

Prima del 1934, quando è divenuto sede dell’Archivio Provinciale, in seguito Archivio di Stato, ha sempre ospitato uffici giudiziari. Prima, forse già nel XV secolo, sede della Regia Udienza, una magistratura risalente al periodo aragonese, e poi sede del Tribunale di Prima istanza e della Gran Corte Criminale. Dopo l’Unità di Italia ha ospitato il Tribunale Civile e Correzionale e la Corte d’Assise. Insomma un pezzo di storia della città. Un luogo nel quale si conserva una documentazione quasi sterminata. Circa centomila pezzi di documentazione cartacea e più di mille pergamene, oltre ad una biblioteca di circa ventiquattromila volumi. Per ricostruire le vicende dell’Antico Regime, del decennio francese e della Restaurazione e del periodo post-unitario non si può davvero prescindere dai fondi dell’Archivio. Almeno finora.

La scelta di mettere in vendita il palazzo che ospita l’archivio sembra mettere fine a questa lunga storia. I 16 milioni di euro che si spera di guadagnare con la vendita dell’immobile di Piazza Abate Conforti, una parte del tesoretto che la Provincia conta d’incassare. Poco importa se nel Palazzo medievale, al piano terra, si conserva la cappella di San Ludovico con gli affreschi del XIII secolo. Aperta al pubblico dopo i lavori di restauro conclusi nel2009. Irrilevante la circostanza che i documenti dell’archivio non saranno più consultabili, dal momento che ancora incerto risulta il luogo nel quale saranno spostati.

Nonostante la decisione sia stata presa in coincidenza con le festività natalizie, non sono mancate le reazioni. L’Associazione Sunia ha deciso di proporre un incontro pubblico “per discutere eventuali iniziative idonee a bloccare questo assassinio costante e continuo degli spazi pubblici dedicati al sociale e alla cultura”. «Paghiamo più di 60mila euro all’anno all’ente che potrebbero essere usati per restaurare il patrimonio che abbiamo. La Provincia è tenuta alla manutenzione straordinaria che non avviene, il terrazzo di copertura dell’edificio torre perde acqua, questo crea danni anche a documenti. Quando piove si allaga parte della struttura, gli intonaci in alcuni luoghi hanno pesanti lesioni. Abbiamo sempre chiesto alla Provincia la manutenzione, ma non ci hanno mai risposto», ha detto Eugenia Granito, direttrice dell’archivio storico, durante l’incontro di qualche giorno fa all’Archivio di Stato, tra associazioni e comitati, organizzato da Italia Nostra Salerno, per fare il punto su tutte le questioni nate sul territorio comunale.

Quanto la scelta di fare a meno dell’Archivio di Stato sia irragionevole è di facile comprensione. Di più. Addirittura ingiustificabile per chiunque ritenga scriteriato il privarsi di uno dei luoghi identitari di Salerno. Perché è più che evidente che quel è stato deciso dalla Provincia si abbatterà sulla città. «Tentiamo di essere al passo con le tecnologie più avanzate, sperimentiamo, valorizziamo i luoghi che sono diventati un caposaldo di promozione turistica. Stiamo insistendo sul progetto turismo di questa città con azioni mirate di rapido consumo», diceva ad aprile Vincenzo Napoli, il vice sindaco che ha sostituito nelle funzioni De Luca, dopo la sua elezione a governatore della Campania.

«Si conferma l’intenzione di procedere sulla strada della valorizzazione e della promozione del nostro enorme patrimonio culturale… Bisogna fare di tutto per perseguire quello sviluppo che manca da troppo tempo, proprio perché le nostre straordinarie bellezze non sempre sono state adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», ha dichiarato ad agosto Giuseppe Canfora. E’ più che probabile che «le azioni mirate di rapido consumo», al quale accennava il sindaco Napoli e «le straordinarie bellezze non sempre adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», richiamate dal presidente Canfora non contemplino il salvataggio dell’Archivio di Stato. D’altra parte perché mai dovrebbero preoccuparsi di un Palazzo storico nel quale ci si reca quasi esclusivamente per studiare dei vecchi documenti? Il nuovo corso salernitano è evidentemente interessato ad altro.

Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)



LA FONDAZIONE HA SBAGLIATO I CONTI.
IL QUIRINALE GLIELI HA CORRETTI

di Paolo Berdini

Le meravigliose logge dei tiratori di Gubbio hanno avuto la sfortuna di entrare nel patrimonio della Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia a capo della quale c’era Carlo Colaiacovo, una delle famiglie più ricche e influenti di Gubbio. E’ da allora che iniziano i suoi guai perché entra nel grande meccanismo che deve aumentare il valore delle proprietà, costi quel che costi. Il caso di banca Etruria e banca Marche ha reso evidente che molti istituti di credito hanno finanziato oltre la decenza ogni valorizzazione immobiliare e ogni avventura edificatoria di spregiudicati speculatori. Per ripianare la voragine di bilancio Banca Etruria sceglie di alimentare il mercato delle obbligazioni speculative e l’esito sono le decine di migliaia di risparmiatori a cui hanno sottratto i risparmi.

La Fondazione della cassa perugina sceglie un’altra strada: quella di valorizzare gli immobili di proprietà che - prassi come noto molto diffusa - vengono spesso iscritti a bilancio per un valore notevolmente superiore a quello reale. Il pareggio di bilancio è nel breve periodo assicurato ma occorre concludere i processi di valorizzazione e il caso delle logge di Gubbio dimostrano che non ci si ferma nemmeno di fronte alla storia e all’identità di una città. Esse sono infatti una caratteristica peculiare della storia di Gubbio, una parte dell’identità storica del popolo eugubino: ciononostante si vuole chiuderle con una gigantesca vetrata aumentando la superficie (e il valore economico) dell’immobile e la sua destinazione d’uso.

Inizia così la pressione verso il comune per ottenere il permesso di chiudere con “moderne” vetrate il grande loggiato per ottenere un parere positivo. L’ostacolo sembrava insuperabile poiché l’attuale sindaco Filippo Maria Stirati era stato eletto due anni fa perché si era chiaramente espresso contro la chiusura della loggia. Evidentemente la proprietà possiede efficaci mezzi di convincimento se quello stesso sindaco è oggi a favore del progetto.

La potente proprietà ha sbagliato solo un calcolo: non ha pensato che un intelligente comitato di cittadini chiamasse la popolazione di Gubbio ad opporsi all’insensato progetto. Questa opera si sensibilizzazione si è giovata anche di illustri esponenti del mondo della cultura come Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Gli appelli portati avanti dal comitato hanno avuto così la forza di arrivare nel colle più alto di Roma e il della Presidente della Repubblica, tramite il suo consigliere per la conservazione, Louis Godart, si è espresso in modo inequivocabile contro lo scempio. Del resto, il Quirinale è il baluardo della Costituzione che ha come pilastro l’articolo 9 dove si afferma solennemente che la Repubblica tutela i beni culturali del paese e non le ignobili speculazioni immobiliari.

LE LOGGE RESTINO APERTE
PAROLA DI PRESIDENTEe

di Giovanna Nigi

Regalo di Natale a Gubbio. C’è un no pesante alla vetrificazione del monumento voluta da Cassa di Risparmio: quello di Mattarella

Gubbio. Dopo due anni di lotta sembrava tutto perduto. I lavori per chiudere le Logge dei Tiratori di Gubbio, con enormi pannelli di vetro e acciaio secondo i progetti presentati dal proprietario, con il nuovo anno sembravano ormai prossimi all’inizio. Ma una lettera dal Quirinale, alla vigilia di Natale, ora sembra aver rimesso tutto in dubbio. Tutto in moto. Procediamo con ordine. È l’ottobre 2013 quando a Gubbio si costituisce un Comitato cittadino a cui aderiscono fin da subito le associazioni Italia Nostra e Terra Mater.

L’obiettivo è quello di ribellarsi alla riduzione a ennesimo centro servizi - di fatto una sala congressi, il salotto buono della Fondazione - di uno storico monumento che avrebbe dovuto restare pubblico: le Logge dei Tiratori della Lana, rarissimo opificio preindustriale, sistema basamentale dello straordinario paesaggio urbano della città.

Le Logge sono state costruite sotto la spinta dell’Arte della Lana nel 1603 sopra il lungo edificio dello Spedal Grande, eretto nel 1323, pensate come spazio aperto per “tirare” i panni e farli asciugare dopo averli tinti. Oggi il monumento, biglietto da visita della città, è di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, alla cui presidenza siede il cavaliere Carlo Colaiacovo, proprietario del più grande cementificio cittadino, la Colacem. La procedura che intende snaturale e che - ove mai andasse in porto - passerà alla storia come “vetrificazione delle Logge”, segue un iter veramente curioso.

È la commissaria straordinaria Maria Luisa D’Alessando, moglie di Gianlorenzo Fiore, membro della Fondazione Cassa di Risparmio, a dare il primo placet del Comune a un’operazione che la stampa definisce «dal sapore bancario», che serve a quintuplicare il valore dell’immobile. La proposta di trasformazione riguarda una porzione significativa dell’intero complesso edilizio, in particolare del loggiato superiore. L’intervento deturpante e impattante che si preannuncia è la sua chiusura con enormi pannelli di vetro. Anche al primo piano è prevista la ridistribuzione di tutte le superfici, con cambi di destinazione d’uso. Uno stravolgimento di quella che è, da sempre, edilizia operaia e popolare.

La procedura, si legge nel ricorso presentato al Tar da Italia Nostra, è davvero anomala: «Contrariamente a quanto previsto dalle leggi regionali, il parere della commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio è intervenuto dopo il parere della soprintendenza», parere dato con una rapidità mai riscontrata in precedenza dai funzionari della Soprintendenza nazionale. Escono sulla stampa articoli di aperta critica all’operazione. Il manifesto sin dall’inizio raccoglie la battaglia del comitato. La vicenda comincia a circolare. La Soprintendenza è costretta a indire un tavolo tecnico al ministero dei beni culturali per valutare il progetto. Le conclusioni del tavolo oscillano tra il patetico e l’esilarante. Si arriva a sostenere che senza la chiusura con i vetri un vento più forte del solito potrebbe scoperchiare il tetto; e che il guano dei volatili è causa di degrado dell’edificio, come se l’edificio non stesse al suo posto da oltre 400 anni e al ministero fossero sconosciute le nuove tecnologie, ampiamente sperimentate altrove, per rimediare al problema dei volatili.

Quello di cui non si parla invece è l’impatto paesaggistico della vetrificazione: nessuno studio viene fatto in merito, e nessuno si sogna di denunciare l’effettivo aumento di volumi che farebbe lievitare di cinque volte il valore dell’immobile. Al primo convegno organizzato dal comitato cittadino accorrono in massa i politici: la campagna elettorale è alle porte, c’è bisogno di voti. Filippo Mario Stirati, ex Pd e all’epoca ostile al partito del cemento, è in quel momento candidato sindaco: e afferma pubblicamente la sua contrarietà alla vetrificazione; una volta eletto, da primo cittadino di Gubbio, si rimangerà tutto. Il comitato insorge e lo accusa di aver tradito la buona fede di tanti cittadini. In risposta il comitato viene accusato di immobilismo e antimodernità. Le Logge, replica l’architetto e artista Nello Teodori, «sono uno straordinario esempio di architettura preindustriale europea e devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero diventare museo di se stesse e nello stesso tempo magnifica piazza aperta e coperta. Non sono le funzioni a costringere l’edificio ad adeguarsi ad esse, ma il contrario», spiega.

Il metodo di lotta scelto per contrastare il silenzio dei media locali è quello dei manifesti cittadini: dall’ottobre 2013 a oggi sono decine quelli affissi nel centro storico. Vengono organizzati altri convegni e coinvolti i più importanti studiosi del settore: da Salvatore Settis a Tomaso Montanari, da Vezio De Lucia, a Paolo Berdini, al giurista Paolo Maddalena, a Goffredo Fofi, a Giulia Maria Mozzoni Crespi a Leonardo Piccinini. Vengono anche presentate interrogazioni regionali (Brutti e Goracci) e parlamentari (Zaccagnini, Fratoianni, Giordano). Ma non ottengono nessun effetto. Da Roma tutto tace. Il comitato allora va a Roma, cerca inutilmente di essere ricevuto dal ministro Dario Franceschini, distribuisce volantini sotto il ministero e, infine, organizza a Gubbio una mostra, «Le Logge della Bellezza», per i due anni di opposizione al progetto. Alla mostra aderiranno e parteciperanno artisti da tutto il mondo.

È a questo punto che il parere negativo del nuovo soprintendente umbro Stefano Gizzi su una variante al progetto scatena un putiferio: un dossier della presidente della Regione Catiuscia Marini e di vari sindaci, con quello di Gubbio in prima fila, ne chiede la rimozione in quanto «poco collaborativo». Il comitato non si dà per vinto: Italia Nostra fa un ricorso al Tar e una petizione che raccoglie 1100 firme e viene presentata al presidente della Repubblica, all’Unione europea e all’Unesco. La sorte delle Logge sembra tuttavia segnata e il processo di disneyzzazione di Gubbio magnificamente avviato.

Poi, due giorni prima di Natale, il colpo di scena. La lettera che arriva dal Quirinale e che nella sostanza contiene la solidarietà del presidente Sergio Mattarella. Un fatto tanto straordinario quanto inaspettato. Il presidente ha ricevuto i materiali sulle Logge, spiega nella missiva il professor Luis Godart, consigliere per la conservazione del patrimonio artistico del Quirinale, «e mi prega di risponderLe. Condivido pienamente la posizione del Comitato che difende l’antico opificio del Seicento le “Logge dei Tiratori dell’Arte della Lana”. Vetrificare questo mirabile monumento significa ferirlo e deturparlo. Trasmetto copia di questa mia lettera al ministro Franceschini». Un vero regalo di Natale: i due anni di resistenza hanno finalmente un riconoscimento. La lettera di Mattarella è un macigno sulla strada di un progetto inaccettabile.

La televendita. E' ormai un metodo di comunicazione dell'intero governo. I beni culturali non sfuggono a questa logica. Anzi ne sono al centro. Le Domus restaurate e riaperte nei giorni scorsi a Pompei? Tutto merito di Renzi e Franceschini. Non è vero, il merito risale al governo Letta e al ministro Bray. Ma lo sanno e lo dicono in pochi. Non sto a continuare. Nei giorni scorsi il ministro Franceschini ha divulgato la lieta novella: nel 2016 le risorse per i Beni culturali aumenteranno del 27% e saliremo oltre i 2 miliardi. Vero, ma nel 2015, già col governo Renzi-Franceschini, il settore aveva avuto in assoluto una delle cifre più basse della storia: soltanto 1 miliardo e 521 milioni. Aveva fatto peggio di così soltanto Berlusconi nel 2011.

Seconda osservazione: il bilancio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2014 anche per il Turismo), non segna certo un record, in realtà torna col 2016 al di sopra dei 2 miliardi di euro dopo anni e anni di tagli. Ma al di sopra di questa quota - tanto reclamizzata dal ministro Franceschini - il MiBAC era già arrivato nell'ormai lontano 2000, esattamente a 2,103 miliardi quando si avvicendarono alla guida del governo di centrosinistra, Massimo D'Alema e Giuliano Amato. Già allora erano 18 i milioni di euro in più. Che, con l'inflazione intercorsa, salgono verso una settantina di milioni di differenza in più.

Coi governi Berlusconi, dal 2001 al 2006, ci fu un primo calo che fece scendere di qualche punto - e questo è il dato più significativo - l'incidenza percentuale della spesa per i Beni culturali sul bilancio dello Stato, dallo 0,39 del 2000 allo 0,29 del 2006. Il crollo vero e proprio tuttavia lo si registrava col nuovo governo Berlusconi (quello del 2008, dopo la burrascosa parentesi Prodi/Ulivo, durato sino al 2011) con tagli pesantissimi che portarono il bilancio annuo del MiBAC ad appena 1,4 miliardi di euro e ad un miserevole 0,19 per cento del bilancio dello Stato, meno della metà dell'incidenza del 2000.

Un autentico dissanguamento che ha portato, volutamente, questo Ministero allo stremo: a dover mendicare sussidi e interventi privati, a non avere personale tecnico-scientifico sufficiente per le incombenze quotidiane della tutela e della conservazione, a non poter indire concorsi, ad avere funzionari di età mediamente elevata (circa 52 anni). Con un personale di custodia pure inadeguato. Tutti poi sottopagati, naturalmente: dal soprintendente al custode. Coi governi Monti e Letta si è registrata una leggera ripresa dei finanziamenti per la cultura. Del tutto insufficiente però per le esigenze della rete della tutela.

Alla fine del 2013 ai Beni e alle Attività Culturali è stato accorpato anche il Turismo che, dopo l'abolizione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, era rientrato nelle competenze della Presidenza del Consiglio. Ovviamente dal bilancio di previsione 2014 il MiBAC, diventato nel frattempo MiBACT, si è portato dietro i finanziamenti previsti per il personale (531.971 euro) e quelli concernenti le politiche turistiche (qualche decina di milioni). Quindi questo trasferimento di competenze ha incrementato in cifra assoluta le risorse del Ministero che però deve pensare a finanziare anche il turismo.
Per il 2016 la legge di stabilità prevede di aumentare le risorse complessive del Ministero - come ho già detto - sino a 2,085 miliardi di euro. Con ciò il governo Renzi non fa che riportare il bilancio dei Beni culturali (più Turismo) un po' al di sotto i livelli 2000. Come incidenza sul bilancio dello Stato siamo ancora a 5 punti percentuali sotto la spesa prevista dai governi D'Alema e Amato 2000. Un primo risarcimento insomma. Ma nelle tabelle della legge di bilancio stabilità lo stesso governo in carica indica per il 2017 e per il 2018 cifre nettamente inferiori: 1,7 e 1,6 miliardi di euro. Cresceranno? Probabilmente sì. Se non altro per annunciare con le trombe: abbiamo provveduto ad aumentare le risorse per la cultura rispetto alle previsioni...

Ps: tanto per memoria, la Francia destina alla Cultura lo 0,75 % del bilancio dello Stato, cioè 2-3 volte tanto l'Italia, la Spagna lo 0,67 e altrettanto l'Austria. Per farla breve soltanto Grecia, ma non sempre, e Romania vi destinano meno di noi che risultiamo al 22° posto in Europa.

Il Comitato La Goccia ci invia la denuncia di un caso macriscopico di malcostume urbanistico, criticabile da più versanti:quelli della salute della città e dei cittadini, della tutela di quel che resta di natura e di bellezza, della correttezza professionale dei diversi potenti e potentini coinvolti, dell'inerzia dell'opinione pubblica. Un appello, non indirizzato solo ai milanesi

Un preliminare di progetto urbanistico secretato, di cui gli organi collegiali del Politecnico prendono atto senza conoscerlo. Una completa confusione o commistione di ruoli tra proprietari delle aree e responsabili della pianificazione, ed anzi un potenziale conflitto di interesse nella persona dell’assessore all’urbanistica, Alessandro Balducci, professore e già pro-rettore vicario del Politecnico. Una fretta indiavolata: progetto urbanistico entro due mesi, si direbbe per condizionare la nuova amministrazione comunale che uscirà dalle urne. Una densità edilizia ipotizzata (circa 8 mc reali, vuoto per pieno, per ogni mq di superficie territoriale) incredibile, come non succedeva neppure nei più lontani anni 50, tanto meno su aree di questa estensione; ed insostenibile in una città afflitta da una qualità dell’aria largamente fuori dalle norme europee. E sullo sfondo una bonifica avviata violando, o se si preferisce disapplicando disinvoltamente la legge, giusto quanto serve per avere la possibilità di segare uno splendido bosco urbano di alto fusto.

Non sono gli ingredienti di una fiction, ma le modalità con cui, al crepuscolo del mandato di questa giunta milanese, si sta realmente consumando la vicenda della progettazione dell’Ambito di trasformazione urbana (ATU) Bovisa, nel silenzio generale dei media e nell’ignoranza non solo dei cittadini ma persino degli addetti ai lavori.

L’area di Bovisa nota come la Goccia, cioè quella occupata dai gasometri e dalle altre attrezzature industriali dismesse per la produzione del gas di città è una enclave pressoché sconosciuta perché chiusa all’accesso del pubblico, e tuttavia carica di interesse e di valori ambientali e paesaggistici: decine di affascinanti edifici di archeologia industriale sparsi in un’area popolata da più di duemila alberi di alto fusto tra i quali si è ormai insediata anche una variegata presenza faunistica.

In qualunque città civile un’area siffatta sarebbe stata da tempo oggetto di un attento rilevamento, da pubblicizzare al massimo in modo da promuovere il più largo confronto di idee sul modo di utilizzare questo gioiello, unico dentro un contesto per il resto totalmente cementificato.

Da noi sta avvenendo esattamente il contrario. Mentre si tengono serrati i cancelli dell’area con la

scusa della sua contaminazione, in modo che i cittadini siano generalmente inconsapevoli di quale tesoro si nasconda dietro i muri di recinzione, mentre si segano gli alberi con il pretesto di una bonifica che riteniamo in violazione di legge, costosa per l’erario e non necessaria, e dopo un lungo e inconcludente workshop “di partecipazione”, relativo solo ad una porzione minore dell’area, un piccolissimo gruppo di addetti disegna invece, segretamente, il futuro di tutto l’ambito di trasformazione urbana, curando di conciliare a priori gli interessi degli stakeholder, in modo da fare poi fronte compatto contro le possibili reazioni dei cittadini. Così almeno sembrerebbe di capire, a giudicare dalle modalità “carbonare” con le quali la progettazione è stata avviata e viene mantenuta riservata.

Il Comitato la Goccia ha fatto la sua parte, ricorrendo al Presidente della Repubblica contro la bonifica fuori legge e chiedendone la sospensione. L’assessore in carica, come di solito non succede, ha preferito accelerare piuttosto che attendere almeno il giudizio sulla sospensiva. Ha così fatto iniziare i lavori del lotto 1A, a partire dal taglio del bosco, che è già stato realizzato. Verrebbe da dire, nell’ evidente tentativo di porre il Consiglio di Stato, che giudicherà il ricorso, di fronte al fatto compiuto ed irreversibile.E’ dunque guerra aperta, e come in tutte le guerre agli attacchi conseguono e conseguiranno inevitabilmente i contrattacchi.

Il Comitato la Goccia chiede perciò al Consiglio comunale di Milano di intervenire per fermare le ostilità, e per richiamare tutti a considerare prioritariamente l’interesse generale della città, piuttosto che quelli degli operatori, privati o para pubblici che siano.

Il Comitato La Goccia

Antonella Adamo, Giuseppe Boatti, Luciana Bordin, Filippo Davide Cucinella, Andrea Debosio, Cinzia Del Manso, Francesca Grazzini, Maria Grazia Manzoni, Maurilio Pogliani, Francesco Radino, Edi Sanna, Marina Susana, Patrizia Trevisan, Alessandro Vimercati)

Perapprofondimenti:

La Repubblica, bloc "articolo 9", 27 dicembre 2015

C'è una cosa in cui Matteo Renzi è veramente bravo: nella televendita di se stesso.

In mimetica in Libano, a Pompei estasiato cantore dell'«Italia che riparte». Un superspot a costo zero, da spararsi alla vigilia di Natale: quasi un remake della conferenza stampa con Angela Merkel di fronte al David. Con «il patrimonio storico e artistico della nazione» ancora una volta a fare da sfondo.

Ora, non c'è dubbio che Pompei sia ripartita. Non per merito di Renzi e Franceschini: sia chiaro. La svolta di Pompei è merito del nuovo assetto di governo del Grande Progetto e della Soprintendenza voluto e attuato da Massimo Bray. E basterebbe questo a rendere un po' abusivo il trionfalismo dell'attuale governo. Che si è limitato a non far danni – una volta tanto.

Ma quel trionfalismo non è solo abusivo e sguaiato: è anche pericoloso. Perché, lo ha notato Salvatore Settis, la ripartenza di Pompei «è un segnale di speranza in un momento di difficoltà», ma quelle difficoltà sono in buona parte create dal governo stesso. E se quel segnale viene strumentalizzato per coprire le difficoltà, e chi le provoca, il risultato sarà perverso.

Questo vale per Pompei stessa. L'ex sottosegretrario ai Beni culturali Roberto Cecchi, che di Pompei è stato commissario, ha scritto una lettera al "Corriere della sera" in cui prova a ridimensionare il successo dell'attuale gestione. Da chi aveva così clamorosamente fallito ci si aspetterebbe un decoroso silenzio, ma è innegabile che Cecchi abbia ragione rammentando che «gli interventi finora sono stati 14, quelli in corso 28. Se nel 2017 si arrivasse anche a farne 70, sarebbe solo meno del 5% del totale delle domus». Dati che rendono grottesca l'autocelebrazione di Renzi. E quando Cecchi scrive (in una replica alla risposta del soprintendente di Pompei Massimo Osanna) che «bisogna evitare di dare alibi a destra e a manca, alla politica in particolare, dicendo che tutto è a posto», egli impartisce una imbarazzante lezione di buon senso, e senso delle istituzioni.

Ma il 24 dicembre la politica, a Pompei, si è presa ben più di un alibi. Renzi ha provato a nascondere dietro sei domus riaperte (come dietro ad un concorso per 500 giovani chiamati a conservare a mani nude ciò che egli stesso si appresta ad «asfaltare») il fatto che il suo governo sta letteralmente calpestando il patrimonio culturale italiano. Cito soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale, per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l'annunciato rilassamento della legislazione sull'esportazione delle opere d'arte.

Quanto ai musei, la riforma, la sua pessima applicazione e i nomi scelti per la nuova governance li hanno messi direttamente nelle disponibilità della politica: avviandoli sulla strada della Rai. E proprio ora, come ha notato Settis in quella intervista, il governo si è fatto dare una delega in bianco per eliminare le soprintendenze archeologiche, accorpandole a tutte le altre: non per migliorare la tutela, ma per diminuirne la capacità di disturbare il manovratore, cioè lui stesso.

Fedele al suo programma 'culturale' («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è stato il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l'articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.

Un quadro davvero troppo nero per essere nascosto da una mano di rosso pompeiano, data a favore di telecamere alla vigilia di Natale.

    Micropolis, novembre 2015, con postscriptum

    Ogni istanza e ogni rivendicazione, Marx ce l'ha insegnato, possono trasformarsi in “spettri” che si aggirano per l'Europa. Lo spettro che fa più paura al potere, in questo momento, nelle nostre città, è quello della partecipazione, è quel legame, un tempo inscindibile, che si instaura tra la città e i cittadini che la vivono, la amano e la difendono.

    Cose semplici, naturali, sembrerebbe. Così non la vedono però i centri del potere, che hanno decretato la cacciata dei cittadini dalle loro città, a qualsiasi costo, facendo chiudere tutte le attività non turistiche, grazie al proliferare dissennato di 1, 100, 1000 centri commerciali. E' insopportabile, per chi vuole impadronirsi dei nostri centri storici per farne hotel a 5 stelle a uso esclusivo dei turisti, che qualcuno si ostini ancora a voler vivere la città, che i cittadini si sentano tali, tutt'uno con le loro case, i loro quartieri e i monumenti, che si intestardiscano a difendere un 'identità che è anche la loro.
    E' quanto sta succedendo a Gubbio da due anni a questa parte, dove un Comitato, nato spontaneamente e rappresentato da cittadini di ogni appartenenza politica, e a cui aderiscono Italia Nostra e Terra Mater, si è ribellato alla riduzione a ennesimo centro servizi di uno storico monumento che avrebbe dovuto restare pubblico: le Logge dei Tiratori della Lana ,di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, alla cui presidenza siede il cavaliere Carlo Colaiacovo, professione : cementiere.
    Le Logge, rarissimo opificio preindustriale, sistema basamentale dello straordinario paesaggio urbano di Gubbio, sono state costruite sotto la spinta dell'Arte della Lana nel 1603 sopra il lungo edificio dello Spedal Grande, eretto nel 1323,pensate come spazio aperto per “tirare” i panni e farli asciugare dopo averli tinti.
    La procedura che intende snaturale e che passerà alla storia come “vetrificazione delle Logge”, segue un iter veramente curioso: E' la commissaria straordinaria Maria Luisa D'Alessando, moglie di Giandomenico Fiore, membro della Fondazione Cassa di Risparmio, a dare il placet del Comune a un'operazione che la stampa nazionale definisce“dal sapore bancario”. La delibera 37 del 10/9/2013 adotta il piano attuativo.
    La proposta di trasformazione riguarda una porzione significativa dell'intero complesso edilizio, in particolare del loggiato superiore. L' intervento deturpante e impattante che si preannuncia è la sua chiusura con enormi pannelli di vetro. Anche al primo piano è prevista la ridistribuzione di tutte le superfici, con cambi di destinazione d' uso. Uno stravolgimento di quella che è, da sempre, edilizia operaia e popolare.
    La procedura, a quanto si legge nel ricorso presentato al Tar da Italia Nostra, non emana un buon odore: “Contrariamente a quanto previsto dalle leggi regionali, il parere della commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio è intervenuto dopo il parere della soprintendenza”, parere dato con una rapidità mai riscontrata in precedenza dalla dottoressa Di Bene. Escono sulla stampa nazionale articoli di aperta critica all’operazione, e a stessa Soprintendenza si vede costretta a indire un tavolo tecnico al Ministero per valutare il progetto. Le conclusioni oscillano tra il patetico e l’esilarante. Si arriva a dire che senza la chiusura con i vetri un forte vento potrebbe scoperchiare il tetto, si dice anche che il guano dei volatili è causa di degrado dell’edificio, come se a tutti i componenti del tavolo fosse sconosciuto il fatto che esistono varie tecnologie, ampiamente sperimentate, per rimediare al problema.

    Per finire, un tocco squisitamente Deamicisiano suggella il tutto: l’intervento, si legge, è pensato per permettere anche i disabili (sic!) di fruire delle bellezze eugubine. Si registra invece l' evidente l'assenza di qualsiasi studio, da parte del tavolo ministeriale, riferito al vincolo paesaggistico. La vetrificazione delle Logge modificherà per sempre il carattere dell’edificio con interventi incompatibili, contrari ai principi di salvaguardia e tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico sanciti dalla Costituzione.

    Dell'aumento di volumi, poi, di cui aveva parlato a suo tempo il consigliere comunale Pavilio Lupini, nessuna menzione: “Il Comune”osserva Lupini,”avrebbe dovuto richiedere innanzitutto un parere della Soprintendenza sul piano attuativo e solo dopo sul progetto esecutivo. Si è invece proceduto al contrario. Una seconda obiezione tiene conto delle difformità rispetto al piano regolatore del Comune di Gubbio: "In tutti gli edifici del centro storico, tranne quattro o cinque motivatamente individuati, vale la normativa che impedisce la realizzazione di nuovi volumi. Le Logge, chiuse con vetrate, vengono trasformate da spazio aperto a chiuso e dunque sono incrementati i volumi.”

    Al primo convegno organizzato dal Comitato cittadino accorrono in massa i politici: sta per iniziare la campagna elettorale e c'è da fare un buon bottino di voti. Filippo Mario Stirati si dice pubblicamente contrario alla chiusura delle Logge, salvo poi rimangiarsi tutto appena avvenuta la sua elezione a Sindaco di Gubbio. l Comitato insorge contro questo voltafaccia e lo accusa di aver carpito la buona fede di tanti cittadini. Di contro, si accusano i membri del Comitato di immobilismo e di anti modernità.
    Le Logge, come replica l'architetto Nello Teodori, membro del Comitato, “sono uno straordinario esempio di architettura pre-industriale europea e per questo devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero essere museo di se stesse o magnifica piazza aperta e coperta, cerniera ideale tra piazza San Giovanni e piazza Quaranta Martiri. Un luogo dove l’attivazione di nuove funzioni pubbliche moderne e contemporanee è compatibile con la tutela storica di un edificio dalla forte connotazione architettonica e simbolica. “ Le funzioni non devono costringere l'edificio ad adeguarsi ad esse, ma è vero il contrario, dice.

    In una delle tavole rotonde promosse dal Comitato cittadino per la tutela dei beni culturali e del paesaggio, Paolo Berdini denuncerà: “Sotto questa operazione c'è un aumento del valore dell'immobile di almeno 5 volte!” Il Comitato, ignorato dai media locali e regionali, ampiamente disponibili per chi invece è a favore alla “vetrificazione”, sceglie altre strategie di informazione contro un'operazione che vorrebbe lasciare un “segno” sulla città da parte del potere che la governa e influenza.
    Dall'ottobre 2013 a oggi saranno 14 i pubblici manifesti affissi nel centro storico, due i convegni e una mostra per i due anni di opposizione al progetto a cui aderiranno con le proprie opere artisti di rilevanza internazionale, cittadini e turisti. Autorevoli personalità sostengono e appoggiano le iniziative: da Settis a Montanari, da De Lucia, a Berdini, a Maddalena, a Fofi, a Mozzoni Crespi, da Piccinini a Manganelli. E' un coro generale di protesta ,quello che si leva contro i nuovi vandali che vogliono distruggere e snaturare il nostro patrimonio storico.
    Ma anche Interrogazioni regionali (Brutti e Goracci) e parlamentari (Zaccagnini, Fratoianni, Giordano) sembrano non sortire effetto. Sgarbi, invitato dalla committenza, aveva suggerito, come diplomatico ripiego, una cella interna, visto che le Logge gli fanno pensare a un tempio greco e come tale non riesce ad immaginarlo vetrificato.
    Recentemente, il parere negativo del nuovo Soprintendente Gizzi su una variante al progetto accende un vespaio : in un dossier del Presidente della Regione e di vari sindaci ne chiede al Presidente Renzi la rimozione in quanto “poco collaborativo”. Al momento attuale, per dirla con il titolo di un'opera presentata alla mostra contro la vetrificazione “Non ci resta che piangere”. Nonostante gli sforzi fatti, infatti, il ricorso al Tar di Italia Nostra, e una petizione che, con quelle raccolte tra Change,org e la mostra ormai naviga sulle 1100 firme, sembra che la committenza sia intenzionata ad andare avanti. I lavori potrebbero iniziare a breve.
    A consolazione, qualche stralcio dal video inviato da Tomaso Montanari alla mostra “Le Logge della Bellezza”:“...Questo vorrei dire a voi, del Comitato per le Logge di Gubbio contro la vetrificazione. Voi svolgete un servizio pubblico che Comune, Regione, Sovrintendenza, Ministero per i Beni Culturali, avrebbero dovuto svolgere, e che in parte provano a svolgere, almeno per la Soprintendenza, fra mille difficoltà. Voi svolgete un servizio pubblico da privati, e in un paese in cui le istituzioni pubbliche invece fanno gli interessi privati, questo è rivoluzionario. Vi dico “andate avanti”, perché voi fate un servizio per tutti noi, voi rappresentate tutto il popolo italiano, voi applicate quella che Calamandrei chiamava la Grande Incompiuta, la Costituzione, voi in questo momento cercate di dire a tutti: “Dobbiamo attuare l’articolo 9”. Le Logge di Gubbio, anche se sono privatizzate, sono di tutti noi, a titolo di sovranità, quindi voi avete il dovere e il diritto di parlare, di dire quello che pensate.” Alla faccia di chi, questo diritto, vorrebbe depennarlo per sempre dal codice dei “cittadini perfetti”...
    La buona notizia.
    Inviata a eddyburg da Giovanna Nigi il 25 dicembre 2015:
    P.S Anche la suprema carica dello Stato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riconosce quanto sia deturpante la “vetrificazione” delle Logge dei Tiratori. Pubblichiamo il testo integrale della lettera ricevuta oggi 23 dicembre 2015 in risposta alla petizione con oltre 1100 firme inviatagli dal nostro Comitato.
    «Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica Il Consigliere per la conservazione del patrimonio artistico
    «Roma, 11 dicembre 2015 Gentile...
    «il Presidente ha ricevuto la Sua lettera e mi prega di risponderLe. Condivido pienamente la posizione del Comitato che difende l’antico opificio del Seicento le “Logge dei Tiratori dell’Arte della Lana”. Vetrificare questo mirabile monumento significa ferirlo e deturparlo. Trasmetto copia di questa mia lettera al Ministro Franceschini. Con viva cordialità, Suo Prof. Luis Godart »

    Suggerimenti per un riuso corretto (dal punto di vista delle persone) delle grandi aree dismesse. Milano. Non averli seguiti ha comportato una perdita per la città. La Repubblica, ed. Milano, 20 dicembre 2015

    Considerarela proprietà dei suoli come depositaria di diritti astratti (indici diedificabilità), in assenza di una guida strategica da parte della manopubblica, porta a esiti devastanti sul fronte del fare città. Tanto più per legrandi aree dimesse. Costellata com’è di straordinarie occasioni perdute,l’esperienza milanese dell’ultimo quarto di secolo è lì a dimostrarlo.

    Gliindici volumetrici allora non contano? Tutt’altro; il problema è se hanno unavalenza programmatica in senso civile. Ovvero se sono sorretti da un’idea dicittà e dunque da adeguate simulazioni/prescrizioni sui possibili esiti su trefronti: coesione sociale, vitalità degli spazi pubblici, architettura deiluoghi. Decenni di sperimentazioni sul recupero delle grandi aree dismesse diMilano mi portano a dire che, se si supera la soglia dei 0,5 mq di superficielorda di pavimento su 1 mq di superficie territoriale, gli esiti sonoinevitabilmente squilibrati: verranno a mancare le dotazioni in termini diverde e servizi necessarie per infondere qualità urbana ai comparti interessati.Si obietterà che, con l’Accordo di Programma che non ha avuto il via libera dalConsiglio comunale, le volumetrie previste dalla Giunta Moratti (1mq/1mq) sonostate ridotte del 33%. Il passo avanti è apprezzabile, ma non basta. Vannoulteriormente riviste le quantità, ma soprattutto è il processo che vagovernato. Il Comune non può stare alla finestra aspettando solo di incassaregli oneri di urbanizzazione. Deve entrare nel processo come soggettoprogettante e come tutore del bene collettivo. Come? Richiedendo lacostituzione di una Società di Trasformazione Urbana (STU), sotto il propriocontrollo.

    Sonoin gioco aree la cui proprietà è in capo a un soggetto pubblico come leFerrovie della Stato. Le Ferrovie hanno goduto di facilitazioni per larealizzazione dei loro impianti: le aree che si liberano sono di proprietàdella comunità civile, presente e futura. Anche per la loro posizione, questivasti spazi si prestano a essere inseriti in un disegno più ampio, volto arinsaldare parti di città in una logica di riqualificazione estesa. Sinergie econnessioni che devono andare ben aldilà delle aree direttamente investite dallatrasformazione. È l’occasione per fare qualcosa di concreto per le periferie eper dar vita a un vero policentrismo rinsaldando la città compatta. Oltre aricondurre gli indici nella misura sopra indicata, l’Accordo di Programma deve dunquecontenere prescrizioni che guidino gli investitori al conseguimento diobiettivi civili – integrazione, vivibilità, urbanità, sostenibilità e bellezza– da cui può trarre vantaggio la stessa iniziativa privata.

    Con il recupero degli scali ferroviari si apre dunque unnuovo capitolo di importanza capitale per la città ambrosiana. A ben vedere,dopo quattro anni di governo, è questo il primo vero banco di prova dellaGiunta Pisapia. Si vedrà da qui se l’Amministrazione arancione è effettivamentein grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della cittàtutta venga finalmente posto al centro della strategia politica. Dopo l’euforiavacua che ha connotato la stagione di Expo, è tempo di scelte concrete esostanziali. Altro che schermaglie sulle primarie: è dopo le decisioni sugliscali (e sulle caserme) che si potrà fare un bilancio vero su cinque anni

    Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale sono state rigidamente separate dalla riforma Franceschini. Ad unirle, ormai, è un orizzonte egualmente nero. Pochi giorni fa un emendamento (il 174bis) alla legge di stabilità ha attribuito al ministro per i Beni culturali la facoltà di accorpare con un suo decreto le soprintendenze archeologiche a quelle già miste per le belle arti e il paesaggio, e di fare altrettanto con le direzioni centrali. Potenzialmente questa facoltà riguarda anche gli archivi e le biblioteche. Sconcertante è innanzitutto il metodo: all’indomani di una riforma radicale, si torna ad intervenire, ma non lo si fa con un dibattito nel Paese e nel Parlamento, bensì con poche righe infilate in corsa. Siamo al limite della costituzionalità, visto che ad essere investita è una funzione (la tutela) garantita dalla Carta al rango più alto, quello dei principi fondamentali. Nel merito, infatti, si va verso una compressione estrema della componente essenziale della tutela, quella tecnica. Ed è un passo funzionale alla sottomissione delle soprintendenze, così unificate, alle prefetture: l’obiettivo indicato dalla legge delega Madia.
    Sul fronte della valorizzazione la notizia è che la politica prende direttamente il controllo dei musei, procedendo verso un modello che inizia ad assomigliare a quello del cda della Rai.

    La riforma ha coinvolto direttamente gli enti locali: Comuni e Regioni nominano ora parte dei comitati scientifici dei musei nazionali. Un federalismo museale evidentemente incostituzionale: perché l’articolo 9 parla di patrimonio «della nazione» proprio per evitare quella che, in Costituente, Concetto Marchesi bollò come una pericolosa «raffica regionalista». Perché il sindaco di Firenze e il presidente della Toscana devono mettere bocca nella conduzione scientifica degli Uffizi? Che d’ora in poi Maroni abbia il diritto di influenzare la politica culturale di Brera, Brugnaro quella dell’Accademia di Venezia, De Luca quella di Capodimonte non è una buona notizia: è un altro passo verso la balcanizzazione di quell’unità culturale che è il più importante collante della nazione.

    Se a questo si somma l’appello con cui Dario Franceschini ha supplicato le grandi imprese di «adottare» i venti supermusei (evidentemente orfani dello Stato), promettendo esplicitamente un posto nella governance, è chiaro che stiamo andando verso la trasformazione dei grandi musei pubblici in fondazioni di partecipazione, con enti locali e privati alla guida. È facile prevedere che questo aumenterà la mercificazione del patrimonio, con ulteriore asservimento delle ragioni della conoscenza agli interessi del mercato, e all’invadenza delle oligarchie locali.

    Ma la politica si fa invadente anche al centro: la riforma dà al ministro il potere di scegliere i direttori chiave, e nominare interamente i cda dei musei. E Franceschini sta nominando i suoi fedelissimi. Nel cda degli Uffizi ha collocato il suo vero braccio destro, e autore materiale della riforma, il giurista Lorenzo Casini. Nessun dubbio sulla sua preparazione, ma Casini è stato il membro chiave nella commissione che ha scelto i superdirettori, e con lui entra nel cda degli Uffizi un’altra componente di quella commissione, Claudia Ferrazzi: un intreccio come minimo assai inopportuno.

    Non basta: Franceschini ha nominato un altro suo consigliere (Stefano Baia Curioni) nel cda di Brera, oltre che in quello del Piccolo di Milano. E prima aveva nominato gli stessi Ferrazzi e Baia Curioni nel Consiglio Superiore dei Beni Culturali, il cui regolamento prevede che i membri del Consiglio stesso «non possono essere membri del Consiglio di amministrazione di istituzioni o enti destinatari di contributi o altre forme di finanziamento da parte del Ministero», quali evidentemente i musei. A
    Ancora più inquietante è la notiza, apparsa sul Corriere del Mezzogiorno e mai smentita, secondo la quale Franceschini avrebbe chiesto e ottenuto dal presidente della Campania di recedere dalla nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel comitato scientifico di Capodimonte. E il motivo era la dichiarata contrarietà di Spinosa alla riforma dei musei attuata da Franceschini. Davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una sorta di maccartismo contro gli storici dell’arte non allineati: queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla guida del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Nella stessa direzione si può ora leggere la determinazione con cui Franceschini ha voluto direttori stranieri. Il punto non è certo la nazionalità, ma l’estraneità ai nostri ranghi tecnici: la politica — questa politica — preferisce servirsi di moderni capitani di ventura pronti a render conto solo al potere che li ha nominati. Espulsione dei saperi tecnici e invadenza della politica: ad essere rottamato è il progetto della Costituzione.
    Non è solo "modello Rai". E' ciò che sta accadendo in tutti i settori in cui il governo Renzi "riforma": dalla cultura alla scuola, dalla sanità all'amministrazione dello stato, dalla finanza ai mass media. Si chiama "regime feudale": un uomo solo solo al comando, oggi il ragazzo di Rignano, domani chissà poi una piramide di feudatari fedeli perchè grati. Al posto della ruota dentata e della stella contornata dallela fronde di quercia e , il simbolo delle "Voce del padrone", che abbiamo scelto come icona

    Ecco perché per Milano è stato meglio non approvare un progetto di ulteriore mercificazione e densificazione della città. La città invisibile rivista online, n. 33, 20 dicembre 2015
    «Le aree ferroviarie sono un’occasione per la riconfigurazione delle città italiane e anche a Firenze c’è in questione il destino di un’area ferroviaria analoga a quella milanese, vicenda analizzata in questo contributo di Sergio Brenna: le ex Officine ferroviarie di Porta a Prato con la ex stazione Leopolda e il nuovo Teatro dell’Opera. Un corredo eccellente per i 54.000 mq che l’Amministrazione Comunale ha lasciato alla “Città dei Balocchi” per grandi ricchi, sottraendo alla città dei cittadini risorse essenziali rappresentate da quelle ex Officine. (rbg)»

    La Giunta Pisapia la scorsa settimana ha subìto un imprevisto rovescio con la mancata ratifica in Consiglio comunale dell’Accordo di programma con FS sul riuso degli ex scali ferroviari milanesi, per il voto contrario, oltre quello prevedibile del centro-destra, dei due consiglieri di Sinistra per Pisapia, Rizzo e Sonego, del socialista Biscardini, presidente della commissione urbanistica, e a causa di altre assenze e astensioni persino di alcuni consiglieri PD.

    I “renitenti” alla ratifica dell’Accordo nella forma in cui è stato sottoscritto con FS dal Sindaco con l’avallo della Dirigenza del settore Urbanistica sono stati subito bollati come autori di un gesto inconsulto, contrario all’interesse della città e quelli di maggioranza come traditori del programma politico-amministrativo e minacciati di “confino politico” nella prossima campagna elettorale.

    Il nuovo assessore all’urbanistica, l’urbanista Balducci, sembra aver assunto un atteggiamento di distacco neutrale sui suoi contenuti, avendoli integralmente ereditati dalle trattative con FS condotte dal precedente assessore e vicesindaco, l’avvocato Lucia De Cesaris, dimessasi improvvisamente nel luglio scorso con motivazioni mai del tutto chiarite.

    Il riutilizzo degli scali ferroviari è il primo grande piano di trasformazione urbana gestito direttamente dalla Giunta Pisapia e non ereditato dalle precedenti Giunte Albertini e Moratti, come quelli ex Fiera/Citylife ed ex Centro Direzionale/Porta Nuova. L’Accordo con FS, quindi, dovrebbe costituire il banco di prova della capacità dell’Amministrazione arancione di essere effettivamente in grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della città tutta venga finalmente posto al centro della strategia politica, fuori dall’orgia di vanagloria che, nel suo “piccolo”, ha saputo essere la stagione di Expo (poiché i problemi dell’alimentazione mondiale richiedono ben diverso e più duraturo impegno per essere avviati a soluzione).

    Perché, dunque, è stato invece un bene per la città non aver ratificato in quella forma l’Accordo di Programma con FS e perché i consiglieri di maggioranza che vi si sono opposti andrebbero ringraziati?

    Perché la ratifica di quell’Accordo così come sottoscritto dal Sindaco e avallato dalla Dirigenza dell’Ufficio Grandi Progetti Urbani (che – voglio ricordarlo – è la stessa che ha contribuito a definire gli sciagurati piani di riutilizzo di ex Fiera/Citylife e dell’ex Centro Direzionale/Porta Nuova) produrrebbe gli stessi effetti di densità abitativa di questi precedenti, così tenacemente voluti dalle Giunte Albertini/Lupi e Moratti/Masseroli e subìti nella loro attuazione da quella Pisapia/De Cesaris.

    Attuazioni di cui oggi, tuttavia, la stessa Giunta Pisapia si fa vanto come modello di una Milano in rilancio grazie ad una “metrolife style” (shopping e happy hour in un ambiente di pareti specchiate, luci e colori, fontane zampillanti, piazze più che altro simili a studi televisivi, ecc.) di facile gradimento per stili di vita ritenuti emergenti e modello riproponibile per la Milano del futuro nelle ancor più ampie trasformazioni urbane quali gli ex scali ferroviari e le ex caserme.

    Insomma, nemmeno più solo un quartiere dei divertimenti – come in uso in alcune metropoli occidentali – ma l’intera Milano come una Città dei Balocchi, magari sotto l’egida bi-partisan del “conducator” di Expo, Beppe Sala.

    Ciascuno è libero di valutare se è questo è lo stile di vita che gradisce veder realizzato per la Milano futura, ma certo è bene poi assumersene la responsabilità.

    Si possono risolvere queste incongruenze? Certamente! rimodulando le quantità edificabili e la ripartizione tra spazi pubblici territoriali e di quartiere o avviando meccanismi “perequativi” con altre grandi proprietà. Non sto a entrare nei dettagli tecnici che ho già esposto più ampiamente altrove: lo si può fare anche abbastanza celermente, soprattutto se le fasi progettuali successive non verranno “delegate” totalmente alle scelte della proprietà, ma tenute direttamente sotto controllo pubblico tramite una Società di Trasformazione Urbana, che sappia massimizzarne l’utilità collettiva (edilizia sociale e in affitto, spazi associativi ecc.) e la forma urbana voluta.

    Invece, voler riproporre subito una nuova ratifica dell’accordo tal quale, come sta facendo la Giunta Pisapia, è un atto di protervia con cui si vuole precettare il Consiglio comunale. Quasi a voler dire: se l’hanno già firmato il Sindaco e la Dirigenza, come si permette il Consiglio comunale di intromettersi?

    Non è davvero un bel clima per questa Giunta: mi pare ricordi troppo quello vissuto all’epoca di quelle Albertini e Moratti, che Pisapia col Movimento arancione aveva promesso di cancellare.

    La discussa sostituzione di una sala cinematografica centrale con uno dei simboli assoluti della globalizzazione griffata archistar: nuove funzioni di qualità, o banale appiattimento commerciale? La Repubblica Milano, 18 dicembre 2015, con postilla e contropostilla

    Una grande struttura di vetro sopra, nello stile di tutti i loro store nel mondo che poi si sviluppano al piano sotto. E disegnata da un architetto di fama internazionale come Norman Foster. Apple ha presentato alla giunta, in via informale, il progetto del megastore che vuole realizzare in piazza Liberty, al posto degli spazi dell’ormai ex cinema Apollo.

    Chi l’ha visto racconta che il progetto dell’archistar inglese prevede appunto una scatola di cristallo che spunterà in piazzetta Liberty e una grande scalinata che porterà giù allo store, che da solo darà lavoro a 200 addetti negli spazi finora occupati dal cinema. Il richiamo al mondo cinematografico, richiesto da più parti in città, è stato rispettato: sulle facciate di vetro ci sarà la possibilità di proiettare immagini di grandi film italiani e stranieri, come fossero maxischermi. Non solo. La multinazionale di Cupertino ha inserito nel suo progetto anche molti alberi nella piazza e una fontana con giochi d’acqua.

    La sovrintendenza avrebbe già dato un parere positivo al progetto di Foster. Nei prossimi giorni partirà ufficialmente anche l’iter urbanistico mirato a ottenere il permesso di costruire convenzionato. L’obiettivo della Mela è quello di aprire in città entro il 2017. E di realizzare non un semplice negozio, avrebbero raccontato i collaboratori di Norman Foster alla giunta, ma uno spazio che si inserisca perfettamente nel contesto della città con l’obiettivo di diventare un luogo rappresentativo di Milano. «L’intervento è di grande qualità — spiega l’assessore all’Urbanistica, Alessandro Balducci — l’obiettivo è di rendere il luogo molto vivo».

    Da anni Apple tentava lo sbarco milanese senza trovare però la sede adatta. La notizia dell’addio del cinema Apollo, un paio di mesi fa, aveva diviso la città. Ormai però è praticamente cosa fatta il passaggio di proprietà del cinema, uno dei pochissimi che erano rimasti in centro, dall’Immobiliare Cinematografica alla società di Cupertino. Il progetto va ancora definito in alcuni dettagli e poi approvato. Poi i fan della Mela morsicata saranno accontentati.

    postilla

    In principio era la protesta di chi vedendo spegnersi l'ennesimo schermo cinematografico in centro storico lamentava sia la fuga di alcune attività verso le brume indistinte dello sprawl metropolitano di multisale, o la loro scomparsa, sia il rischio concreto che le residue funzioni «normali». In una città che ha già nei decenni visto cancellata residenza, negozi, servizi, scompaiano sotto l'alluvione del processo soprannominato in tutto il mondo «Clone Town», e che vede una piccola manciata di marchi e loghi, a loro volta rigidamente gerarchizzati e inquadrati nelle relazioni reciproche, invadere come un esercito ogni spazio urbano disponibile. Da ora in poi, presumibilmente il dibattito locale si focalizzerà invece soprattutto sulla qualità del progetto di architettura griffato e il tipo di spazio pubblico-privato che va a definire. Resta però aperta la questione speculare, di un processo anche potenzialmente positivo, se si pensa che di Apple Store ufficiali nell'area metropolitana milanese ce ne sono già due, localizzati in due centri commerciali rispettivamente della Tangenziale Est (al Carosello di Carugate) e Ovest (al Fiordaliso di Rozzano), e questo Cubo di Foster rappresenterebbe invece un ritorno all'ovile. E certamente di una attività che induce molto movimento e vita a tutte le ore, se si pensa al flusso di clienti sia per l'acquisto che i servizi del cosiddetto Genius Bar, il quale visto da una certa prospettiva è l'equivalente terzo millennio della bottega del ciclista o del calzolaio. Certo, poi ognuno ha le due opinioni, sperando non si tratti di pregiudizi dettati dal sospetto (f.b.)


    Contropostilla.
    Il miocommento a questo articolo,che racconta uno dei mille episodi analoghi che avvengono ovunque, sarebbe stato, ed è, del tutto diverso. A me non sembra rilevante che in una determinata area vengano indotti movimenta e vita perchè quell'area possa essere definita un soddisfacente sopazio pubblico. E i frequentatori di eddyburg lo hanno certamente appreso. Nè m'interessano molto le polemiche sulla scomparsa o meno dinunìa sala cinematografica nel centro di una città

    A me vengono in mente altre considerazioni, più drammatiche di quelle che hanno suscitato l'attenzioneBottini. La prima, indubbiamente marginale, è che logica formale dell’edificio della Apple è del tutto uguale a quella che condusse Ieho Wing Pei a realizzare il nuovo ingresso al Grand Louvre a Parigi. Ciò testimonia la scarsa creatività di alcune archistar o dei loro uffici. Ma ciò che soprattutto mi colpisce sono le differenze abissali della sostanza: queste ci fanno comprendere la profondità dell’abisso nel quale siamo precipitati in un quarto di secolo. A Parigi si è trattato di ampliare e rafforzare, con sapienti interventi di diversi campi del sapere, un gigantesco patrimonio culturale dell'umanità Milano di costruire la vetrinai uno dei peggiori protagonisti dalla commercializzazione fine sìa se stessa (e.).

    La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

    Il governo fa marcia indietro sulle trivellazioni in mare e lo fa presentando un emendamento alla legge di stabilità che ripristina nell’Adriatico il divieto di perforazioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa.

    Vince così la sua lunga battaglia ambientalista la Regione Abruzzo perché uno dei primi progetti a saltare potrebbe essere quello che interessa Ombrina Mare, della società inglese Rockhopper, che prevede la trivellazione di sei pozzi a sette chilometri dalle spiagge, davanti a San Vito Chietino. Sono comunque almeno una decina gli altri progetti di sfruttamento di idrocarburi liquidi e gassosi che potrebbero trovarsi in bilico.
    Negli ultimi mesi sono state molteplici le manifestazioni e le proteste che hanno fatto pressione sull’esecutivo per spingerlo a fare dietrofront in tema di trivelle: dai 60mila scesi in piazza a Lanciano, nel maggio scorso, alle centinaia di persone che un mese fa hanno sfilato sotto al ministero dello Sviluppo economico durante una conferenza dei servizi.
    L’onda delle proteste ha anche portato tre mesi fa dieci regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) a depositare in Cassazione sei quesiti referendari contro le trivellazioni entro le dodici miglia, che chiedono l’abrogazione di un articolo dello Sblocca Italia e di cinque articoli del decreto Sviluppo. Quesiti a cui la Cassazione ha dato il via libera il 28 novembre scorso.
    «Tutto è partito dall’iniziativa referendaria decisa a luglio con i presidenti delle Regioni Marche, Molise, Puglia, Basilicata e Calabria. Anch’esse minacciate da progetti di escavazione petrolifera», commenta soddisfatto il presidente dell’Abruzzo Luciano D’Alfonso. «Oggi raccogliamo i frutti di quell’intesa, anche grazie all’attenzione che ci ha riservato il governo».
    Un’attenzione su cui si è scatenata una piccola polemica politica. «È incredibile la giravolta di Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, tra i fautori della legge Sblocca Italia. Oggi dice che voterà sì al referendum antitrivellazioni: voterà contro una legge che con tutto se stesso ha contribuito a far approvare » commentano i deputati del Movimento 5 stelle delle commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera. «Ben venga che si sia reso conto che trivellare il mare è sbagliato. Ma evidentemente era più importante assecondare i progetti pro-fossili del governo».

    «Non è un'analisi tecnica, ma è piuttosto un tentativo di sintesi ampio e didascalico che cerca di analizzare politicamente una deriva, senza sconti per nessuno. Un contributo per informare, per aprire a pubblici nuovi, per discutere e quindi per poter andare avanti».

    Aree protette, una forma di tutela specifica

    I parchi naturali - o aree protette, termine che però ha significato tecnico più ampio - sono strumenti di tutela della natura, del paesaggio e del territorio tra i più visibili e popolari.

    Non è difficile comprendere i motivi di questa popolarità. Si tratta di porzioni di territorio precisamente delimitate all’interno delle quali valgono regole particolari, che hanno per lo più come fine la salvaguardia di “oggetti” cari all’immaginario collettivo (quell’animale, quel bosco, quella specie botanica, quella montagna o quel tratto di costa, quel panorama). Inoltre tra i loro scopi fondamentali ci sono l’educazione naturalistica e il turismo sostenibile cosicché gli enti che li gestiscono svolgono da sempre un’intensa attività promozionale che accresce la visibilità e la popolarità delle loro ricchezze, ambientali e antropiche. In alcuni paesi - Stati Uniti in testa - i parchi rappresentano storicamente delle componenti essenziali dell’identità nazionale.

    All’interno della cultura urbanistica più avvertita si è più volte messa in discussione la logica che sta alla base della creazione dei parchi. Si è denunciato la limitata efficacia di una tutela territoriale che si applica a frazioni - spesso molto piccole - di territorio a volte con il risultato di distogliere l’attenzione dalla necessità di tutelare adeguatamente il territorio nel suo complesso. In qualche caso si è arrivati a imputare alle aree protette una sorta di funzione consapevolmente compensativa e consolatoria: proteggere qualche emergenza per avere mano libera di mettere a sacco senza troppe critiche o remore il resto del territorio.

    Il caso italiano nei decenni più recenti, dallo slancio alla crisi

    Se queste critiche possono avere qualche fondamento per qualche caso specifico o in specifici contesti e se possono più in generale puntare utilmente il dito su culture della tutela “orbe”, incapaci cioè di farsi carico della complessità e della totalità del territorio, il caso italiano parla però di un’altra storia.

    Il momento più alto dei parchi italiani, quello che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta, è stato infatti animato da un movimento ampio e articolato che ha ragionato in modo sistemico dei parchi e li ha spesso progettati in ottiche globali, connesse alla tutela complessiva dell’ambiente, alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo, in relazione ad altre forme di tutela e con un ambizioso sguardo al futuro. Non isole “belle”, capaci di acquietare i bisogni eterei di élite romantiche, ma strumenti di governo e di sviluppo dei territori incardinati in visioni più ampie e gestiti democraticamente. La legge quadro sulle aree protette, la n. 394 del 1991, costituisce il frutto più maturo di questa visione e dell’operato di quel movimento e non casualmente è stata approvata nella medesima legislatura in cui fu approvata un’altra grande legge di governo del territorio, la n. 183 del 1989, sulla difesa del suolo.

    Se il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta può essere effettivamente considerato il punto di massimo slancio ed incisività del movimento, quello delle sue massime realizzazioni, al tempo stesso costituì il momento dell’inizio del suo declino. Erano gli ultimi barlumi della grande spinta democratica e progressista avviatasi alla metà degli anni Sessanta, presto sepolti dall’avvento del berlusconismo e ancor più dai suoi cascami neoliberisti che si prolungano fino ad oggi acquistando peraltro un’aggressività sempre maggiore. Non è un caso che le due grandi leggi appena citate, quella sulle aree protette e quella sulla difesa del suolo, sono rimaste largamente inapplicate oppure inapplicate in diversi loro aspetti cruciali.

    I parchi naturali italiani, conquista di civiltà, frutto del lavoro benemerito di élite illuminate dagli anni Dieci agli anni Sessanta e in seguito frutto della crescita culturale e politica di larghissime fasce di popolazione, vivono di conseguenza da un ventennio in una spirale di crisi crescente e per molti aspetti drammatica. E diversi segnali recenti parlano di un aggravamento ulteriore di questo quadro di crisi, senza alcun segno che vada in controtendenza.

    Ho cercato di isolare quelli che a mio avviso sono gli elementi strutturali di questa deriva. E li elenco.

    L’asfissia finanziaria

    Da diversi anni, anzitutto, si sta procedendo in Italia a un lento strangolamento dei parchi attraverso la progressiva decurtazione delle disponibilità finanziarie e all’imposizione di pastoie burocratiche che rendono molto difficile spendere in modo efficiente. Questa modalità non è però specifica delle aree protette: coerentemente con le premesse della politica economica neoliberista dominante nei paesi occidentali da quasi un quarantennio essa investe la stragrande maggioranza delle istituzioni pubbliche rivolte ai servizi alla collettività. Ne sono affetti del pari il sistema formativo (scuole, università), il sistema sanitario, gli enti locali, i vari sistemi di controllo e di tutela, quelle che erano le partecipazioni statali.

    Alla base del progressivo ischeletrirsi della capacità di spesa dello Stato è innegabile che ci siano l’ormai insostenibile servizio del debito pubblico e la restrizione della base imponibile dovuta alla crisi economica in atto dal 2007-2008. E tuttavia l’abolizione di alcune fondamentali forme di prelievo fiscale da un lato (caso esemplare: ICI/IMU) e dall’altro la scelta plateale di non intaccare per alcun motivo le spese riguardanti il monopolio statale della forza interna ed esterna (caso esemplare: F35) e i provvedimenti che favoriscono le lobby imprenditoriali e finanziarie legate a doppio filo con gli apparati di partito (caso esemplare: ponte sullo Stretto) mostrano come sia all’opera oggi in Italia un meccanismo neoliberista lucido, determinato e sempre più implacabile di smantellamento di tutto l’intervento pubblico, anche quello basilare, nel campo dei diritti di cittadinanza: salute, istruzione, ambiente, cultura, previdenza, infrastrutture civili. La nuova “crisi fiscale dello Stato” viene anzi impugnata come pretesto per smantellamenti sempre più radicali.

    I parchi stanno pienamente dentro questa bufera, per di più come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Se infatti l’istruzione, la sanità, la previdenza e in parte anche la cultura si possono privatizzare “valorizzandone” i pezzi vendibili e chiudendo o lasciando tutto il resto all’abbandono, per la “natura di valore” non c’è sostanzialmente mercato. E anzi, se mercato c’è è pressoché soltanto per consumarla indiscriminatamente: cioè proprio per fare ciò che i parchi devono scongiurare.

    Il lucido smantellamento degli strumenti di tutela

    Che questa sia l’intenzione di coloro che si sono alternati al governo negli ultimi anni, con una decisa e non casuale impennata decisionista più recente, è dimostrato dal combinato di disposizioni con al centro il cosiddetto “decreto Madia” che aboliscono la più che secolare autonomia di due fondamentale corpi di tutela, culturale e ambientale, come le Soprintendenze e la Forestale per metterli rispettivamente sotto il controllo delle Prefetture e dei Carabinieri. Tale abolizione fa al tempo stesso venire meno la specificità della loro missione e l’efficacia del loro operato, lasciando così più assai più libere le mani a chi voglia disporre senza pastoie dei beni culturali e ambientali italiani. Ed è ben difficile credere alle ragioni di economicità e di razionalizzazione addotte dal legislatore quando appare ben evidente da un lato che questi provvedimenti non producono risparmio di sorta e da un altro lato che avevano carattere squisitamente programmatico le parole dell’allora sindaco di Firenze e oggi Presidente del Consiglio quando affermava nel 2010 che «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba [...] un potere monocratico che non risponde a nessuno».

    Dei contorni e dei possibili esiti di questo programma neoliberista di “stato minimo” nel campo della tutela artistica ha di recente stilato un’analisi illuminante Vittorio Emiliani introducendo un incontro dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, una lettura che fa impressione e alla quale non posso che rimandare.

    La latitanza delle strutture di governo

    La crisi progressiva delle aree protette italiane dipende in modo cospicuo dalla latitanza, che in qualche caso è cronica e in qualche altro è sopravvenuta di recente, degli organi di governo istituzionale da cui esse dipendono: il governo centrale - e in particolare il Ministero dell’Ambiente - e le Regioni. Se la legge quadro prevedeva un ruolo attivo e dinamico del Ministero attraverso una serie di strumenti gestione assai avanzati, quel che è successo è da un lato che tali strumenti sono stati presto messi da parte in modo tale che la funzione di coordinamento e indirizzo centrale è totalmente saltata già a livello normativo e da un altro lato si sono succeduti ministri e direttori generali che hanno totalmente abbandonato a se stesse le aree protette, salvo vessarle di tanto in tanto con circolari burocratiche, paralizzanti e di nessuna utilità e procedere con le nomine nei modi e coi criteri che presto vedremo.

    Da molti anni insomma il Ministero, puramente e semplicemente, non c’è, a differenza della quasi totalità degli altri paesi europei e possono passare indisturbati provvedimenti che dimidiano la stessa legge quadro, come la sottrazione alle aree protette della competenza sul paesaggio. Le Regioni, protagoniste di un eccezionale moto di rinnovamento e di protagonismo negli anni Settanta e Ottanta, stanno anch’esse nel loro complesso tirando i remi in barca. Anche alcune di quelle che in passato si sono maggiormente distinte per intraprendenza e capacità di governo stanno rinnovando “al ribasso” le proprie normative, a testimonianza di un interesse e di una volontà politica che stanno rapidamente scemando. Proprio di queste ore è ad esempio il caso, denunciato da un drammatico appello delle associazioni ambientaliste, della Regione Marche che si appresta a mandare in bancarotta il sistema delle proprie aree protette dimezzando la loro dotazione finanziaria.

    Ma la cronica assenza ministeriale e la lenta ritirata delle Regioni si manifesta plasticamente in questa chiusa di 2015 con un evento a suo modo storico: lo smembramento di fatto del Parco Nazionale dello Stelvio, che infatti rimarrebbe unitario e nazionale soltanto sulla carta. E’ la prima volta in Europa che un parco nazionale così antico (1935), così vasto (130.000 ettari, per decenni di gran lunga la più ampia riserva italiana) e così importante dal punto di vista naturalistico viene di fatto abolito. E’ vero che la sua eliminazione è stato obiettivo storico dei politici sudtirolesi sin dal 1945, perseguito con una tenacia prossima all’ossessione in quanto imposizione “italiana” su un territorio “tedesco”. E’ vero - come sottolinea Franco Pedrotti e come avvertirono lucidamente già all’epoca le associazioni ambientaliste - che tale esito era potenzialmente segnato già nelle norme di attuazione dello Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige nel 1974. Ma è altrettanto vero che in oltre quarant’anni quest’esito è stato evitato, in taluni casi anche in modo drammatico come quando nel 2011 il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto che attuava tale disegno. Oggi invece, in armonia con lo spirito dei tempi, la morte annunciata può finalmente verificarsi: “il governo Renzi - comunica Salvatore Ferrari di Italia Nostra - ha dato il via alla nuova governance del Parco Nazionale dello Stelvio, che tradotto significa soppressione del Consorzio del Parco istituito con DPCM nel 1993 e smembramento del Parco in 2 parchi provinciali ‘speciali’ e un parco regionale ‘ordinario’, quello lombardo”.

    Abbiamo così i politici sudtirolesi che fanno finta di piangere lacrime di coccodrillo ma assaporano una così a lungo sospirata vittoria, le istituzioni della tutela silenti, il mondo ambientalista italiano pervaso da stupore e da un dolore sordo e impotente e l’Europa che guarda con ulteriore preoccupazione a un Paese come il nostro capace di conquistare il record di primo paese europeo ad abolire la gestione unitaria - l’unica che può dargli senso e reale efficacia - di un grande parco nazionale di importanza mondiale mentre gli altri paesi, a partire dalla confinante Svizzera, continuano a potenziare le loro reti di parchi istituendo riserve di ogni livello.

    Presidenze e direzioni: appendici partitiche e funzionari sotto ricatto

    Il silenzio delle istituzioni di tutela, e dei parchi stessi in particolare, non è però casuale.

    Della grande anomalia storica degli anni 1965-95 che ha portato alla legge quadro e alla decuplicazione della superficie territoriale protetta da parchi faceva parte un notevole grado di autonomia dei direttori e dei presidenti dei parchi. Non che non ci fossero nomine squisitamente politiche o persino direttamente partitiche, ma molte figure di direttori e di presidenti erano valide espressioni del mondo scientifico o ambientalisti convinti e per lo più operavano con notevole indipendenza operativa e progettuale. Alcune di queste figure hanno fatto la storia dei parchi italiani mantenendo un rapporto fortemente dialettico con il mondo politico: l’ossatura dell’attuale legge quadro, tanto per dare un’idea di questo rapporto, non è nata in uffici ministeriali né nelle commissioni parlamentari ma soprattutto da successive riscritture avvenute nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, a Pescasseroli.

    Si trattava di un’anomalia istituzionale? Può darsi. Ma in questo modo il contributo che le aree protette hanno dato in quegli anni allo sviluppo della protezione della natura in Italia è stato formidabile in termini di idee, di denuncia, di proposte, di stimolo culturale.

    Bene, quell’anomalia è stata progressivamente “sanata”, sia nella prassi corrente sia operando sui meccanismi di nomina.

    Dopo un periodo in cui Alleanza Nazionale ha tentato - peraltro con un momentaneo successo - di fare delle presidenze dei parchi nazionali una propria “specialità” all’interno di coalizioni di governo che aveva la testa in tutt’altre cose, il pallino è definitivamente tornato nelle mani dei partiti (o meglio: degli eredi dei partiti) che avevano “fatto” i parchi regionali e la legge quadro, cioè il Pci e la Dc ora nella nuova veste di partito unico. Ma ci è tornato non più nell’ottica che animava (almeno nominalmente) la legge quadro, quella cioè della partecipazione democratica alla gestione delle aree protette, ma in quello di un controllo diretto di presidenze e direzioni. Si è assistito così a nomine sempre più politiche, sempre più sganciate da competenze e da storie di coinvolgimento serio nella protezione della natura e da una marcatura sempre più stretta sui direttori, che oggi infatti possono essere magari ottimi amministratori ma appaiono quasi sempre soggetti politicamente inerti e silenti, contrariamente a quanto avveniva nella fase precedente. Su alcuni casi di nomine si sono addirittura incentrate battaglie nazionali, come nel delicatissimo caso della presidenza del Parco nazionale d’Abruzzo verificatosi lo scorso anno.

    Ma se è difficile effettuare una ricostruzione e una interpretazione globale delle vicende che nel corso degli anni, anche più recenti, hanno riguardato le nomine nelle aree protette italiane, il disegno di azzerare l’autonomia dei direttori è chiarissima nella volontà dei legislatori tanto berlusconiani quando “democratici”. Circola infatti da due anni una proposta di riforma della legge quadro del 1991, presentata in chiusura di legislatura dal senatore berlusconiano Antonio D’Alì e poi significativamente ripresentata con i medesimi contenuti e in gran parte con l’identico testo in apertura della nuova dal senatore “democratico” Massimo Caleo. Tra i punti chiave di questa “riforma” (che evita con cura di affrontare alcuni nodi cruciali del funzionamento delle aree protette - pur lucidamente additati da molti - ma si concentra quasi esclusivamente su aspetti “corporativi” e di “valorizzazione”) sta la modifica della composizione dei consigli direttivi e il criterio di nomina del direttore dei parchi nazionali. I consigli direttivi vedono radicalmente decurtata la rappresentanza “generale” (mondo scientifico, ambientalismo, ministeri) che passa da oltre la metà a circa un terzo e al contrario vedono amplificata la rappresentanza “locale” (comuni) che passa dal 38,5% al 45% alla quale si aggiunge però un’inedita e incongrua rappresentanza di “categoria”: quella delle associazioni agricole.

    Alla realizzazione di un antico sogno di controllo locale sui parchi nazionali si aggiungerebbe inoltre la nomina del direttore, non più scelto come oggi dal ministero tra una rosa di tre iscritti a uno speciale albo cui si accede per concorso ma sarebbe nominato direttamente dal presidente del Parco (a sua volta di nomina politica tout court) sulla base di sue preferenze personali che non passano al vaglio di nessun organo o criterio stringente.

    Anche in questo caso si avvera un antico sogno: quello, appunto, di “sanare” l’anomalia italiana di tecnici troppo autonomi, troppo ligi alla missione istituzionale delle aree protette e troppo capaci di progettualità e di iniziativa. Come potranno essere amministrati in queste condizioni i parchi nazionali italiani del futuro non è difficile prevederlo.

    Un mondo in ogni caso attraversato da lampi di responsabilità civica

    Se si vuole essere onesti, bisogna tuttavia ammettere che - come avviene in molta della pubblica amministrazione italiana - il sistema delle aree protette italiane non si è finora afflosciato su se stesso e non è caduto totalmente preda della disperazione o dello sbando grazie al lavoro paziente e appassionato di una parte cospicua dei suoi dipendenti e dei suoi responsabili. Nonostante le difficilissime condizioni di lavoro, le restrizioni progressive e il disinteresse del mondo della politica l’ampio corpo delle aree protette italiane continua a produrre una quantità strategica e assolutamente preziosa di ricerca scientifica, di educazione ambientale, di sensibilizzazione, di governo del territorio e di tutela della natura. Lo fa - è bene ripeterlo ancora - in condizioni sempre più sfavorevoli e con prospettive sempre più cupe, ma lo fa e resta in tal modo un prezioso baluardo di civiltà, di coesione sociale e di infrastrutturazione culturale e civile.

    Un associazionismo in qualche caso poco incisivo e in qualche caso complice. Comunque diviso

    Un’altra nota dolente è costituita dalla situazione del mondo dell’associazionismo, che è stato probabilmente il maggior protagonista storico, dalla metà degli anni Sessanta in poi, della crescita e dell’affermazione delle aree protette italiane. Italia Nostra prima di tutte le altre, poi il World Wildlife Fund Italia, il Club Alpino Italiano, Legambiente e in tempi più recenti anche il Comitato per la Bellezza hanno dato un contributo decisivo, soprattutto negli anni Ottanta, alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sia a livello di iniziative nazionali sia a livello di iniziative regionali e locali. Il momento di massima incisività è stato sicuramente quello tra il 1985 e il 1991, quando il sostegno attivo di diverse forze politiche e la concorde spinta associativa, ben rappresentata nelle aule parlamentari da figure come Michele Cifarelli, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti, ha consentito la promulgazione di provvedimenti chiave come il decreto Galasso (1985), la legge sui suoli (1989) e quella sulle aree protette (1991).

    Da quei tempi il peso reale dell’associazionismo è diminuito in vari sensi. Il senso dell’urgenza della questione ambientale, la sensibilità collettiva al riguardo si è appannata, riducendo così la base di consenso e la conseguente spinta dal basso. Ma a ciò bisogna aggiungere che l’universo dei partiti e della vita politica in generale ha cominciato ad avvertire non più come stimolante, ma come fastidioso e persino accessorio il contributo che veniva dall’associazionismo. La figura dell’attuale Presidente del Consiglio e la sua retorica da messaggeria telefonica rappresentano plasticamente la piena maturazione di questo tipo di atteggiamento: battute ad effetto come quelle riguardanti i “gufi”, i “professoroni” e i “comitatini” esprimono come meglio non si potrebbe un profondo disprezzo per i corpi intermedi della società civile e soprattutto per quelli che svolgono un ruolo di riflessione critica e di proposta alternativa. Oltre - naturalmente - una postura mentale non lontana dalla famosa frase di un non dimenticato despota “orientale” che chiedeva sprezzantemente quante divisioni avesse il Papa.

    L’associazionismo si ritrova così indebolito, con frequenti problemi di bilancio, con stimoli dalla base e dai territori più flebili che in passato e non sempre riesce a tenere efficacemente il punto. Nel caso delle aree protette, come si osserva da molti anni a volte con troppa enfasi ma non sempre a torto, il meccanismo delle rappresentanze ambientaliste negli enti parco può provocare spesso atteggiamenti locali di auto-moderazione e di avallo a linee e provvedimenti che altrimenti verrebbero valutati criticamente. Anche chi si batte con maggiore energia trova sempre meno ascolto e anzi - peggio - sempre più porte sbarrate, cosa che in altri tempi non avveniva. La voga “decisionista” porta sempre più a fare a meno anzi di qualsiasi confronto pubblico, di qualsiasi dialogo. Per altri, invece, la tentazione di una sorta di “ambientalismo di governo” è diventato un vero e proprio habitus che consente di tenere posizioni associative e personali a scapito della limpidezza delle iniziative e delle battaglie. Faccio due esempi, e assai dolorosi, tanto per non lasciare le cose nel vago.

    Ermete Realacci, ormai all’invidiabile traguardo del quarto mandato, conserva la possibilità di rappresentare l’associazionismo ambientalista italiano in Parlamento - possibilità via via negata ad altri - grazie a una elasticità tale che lo ha portato a votare senza fare una piega i provvedimenti riguardanti Soprintendenze e Forestale che ho citato più sopra. Il premio per l’attivo sostegno di Federparchi, l’organizzazione delle aree protette italiane discendente dal glorioso coordinamento fondato nel 1989, alle politiche bipartisan di depotenziamento dei parchi è invece ben rappresentato da un articolo della proposta di riforma della legge quadro che fa di essa una sorta di agenzia parastatale con delega al controllo e all’orientamento delle aree protette.

    Questa deriva, e non poteva essere altrimenti, ha finito col produrre persino spaccature clamorose come quando i “governativi” sono arrivati a tacciare una presa di posizione congiunta di FAI, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf come «ambientalismo da giovani marmotte».

    Pezze peggiori dei buchi: dal nesso tutela/ecosviluppo al nesso branding/composizione di interessi locali

    Chi ha più potere e interlocuzione politica in mano pensa oggi di uscire da questa grave crisi delle aree protette non più mediante ambiziose proposte di rilancio oppure mediante ragionevoli proposte che correggano le storture e i malfunzionamenti più palesi e al contempo con un appello alla mobilitazione della società civile più sensibile, come è sempre stato negli ultimi decenni. L’idea dominante appare piuttosto quella di spingere a fondo in direzione di un adeguamento delle aree protette all’esistente, cioè al predominio della cultura neoliberista e degli interessi locali e privati.

    Mentre nel momento alto degli anni Settanta-Ottanta si puntava su un rapporto audace da costruire tra tutela ambientale e forme di economia sperimentali, più rispettose degli uomini e della natura e più eque, possibili paradigmi per il futuro da esportare al resto della società, nelle proposte di “riforma” della legge quadro presentate dalla maggioranza con il sostegno di Federparchi e Legambiente - quest’ultima con qualche più recente ripensamento - tutto viene ridotto all’ingresso dei portatori di interessi privati (imprenditoria) nei consigli direttivi e alla monetizzazione di attività potenzialmente devastanti.

    Un altro punto fondamentale, sul quale si consumarono scontri epici tra forze promotrici dei parchi e della legge quadro, è quello della partecipazione democratica, una volta inteso come elemento di dialogo, di progettazione e di crescita comune di tecnici, studiosi, esperti, ambientalisti, amministratori locali e popolazioni e oggi ridotto a un occhiuto controllo consociativo da parte dei partiti politici e degli amministratori locali sull’attività dei parchi grazie ai nuovi meccanismi di nomina dei consigli e dei direttori.

    In questo clima le dirigenze più “avanzate” del mondo dei parchi italiani appaiono quelle oggi freneticamente impegnate nel vendere il brand della propria riserva saltando da una fiera enogastronomica a una borsa turistica, in Italia o all’estero, quando non - come avviene ormai strategicamente nel parco regionale toscano di San Rossore-Massaciuccoli - nell’offrire la parte più pregiata della riserva come location per qualsiasi grande evento si preannunci a portata di mano, dai raduni di massa ai vertici internazionali. Una impostazione che vuole apparire (e a qualcuno effettivamente finisce con l’apparire) una brillante e audace navigazione tra le tendenze più avanzate della società postindustriale e che invece costituisce un triste e rischioso cabotaggio nelle miserie di un modello economico e culturale in crisi profonda. Un cabotaggio, peraltro, del tutto subalterno: che finisce col togliere alle aree protette non solo gran parte della specificità della loro missione, ma anche la possibilità - che in altri tempi c’è stata, e forte - di additare nuovi approcci e nuove strade alla società tutta intera.

    Sperare, ma in cosa?

    Abolizione del Parco Nazionale dello Stelvio, fine dell’indipendenza della Forestale, mercificazione delle aree protette e loro riduzione a location, proposte di riforma della legge quadro inadeguate e al tempo stesso gravide di rischi: diversamente da come è avvenuto in altre fasi storiche, quando esisteva un ampio consenso e una vasta mobilitazione popolare, questa sembra un’onda di risacca inarrestabile rispetto alla quale sembrano avere voce in capitolo solo coloro che l’assecondano.

    Eppure bisogna rimanere convinti che c’è uno spazio per resistere, per continuare a denunciare, a discutere, a dialogare, a sensibilizzare, a fare proposte alternative, a progettare futuri diversi. In molti, in questi anni e anche nei mesi scorsi, hanno fatto sentire cocciutamente la propria voce, con iniziative e appelli. E continuano a farlo, proponendo di continuare a battersi e a discutere in sedi pubbliche.

    La storia non finisce qui: a partire dalla nostra capacità di scriverne, di analizzare, di confrontarsi o , per dirla con Edward Said, di «dire la verità».

    Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2015

    «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, piuttosto che permettere ai fortunati partecipanti della Leopolda visite gratuite ai musei fiorentini, dovrebbe trovare i soldi per tenere sempre aperti e gratuiti tutti i musei italiani sul modello del British Museum». Salvatore Settis interviene sulla polemica per l’apertura notturna straordinaria nei giorni della Leopolda di tre musei fiorentini.
    Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa dal 1999 al 2012, e oggi presidente del consiglio scientifico del Louvre di Parigi, invoca l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
    Professor Settis, a Firenze i primi trecento iscritti partecipanti alla Leopolda, da domani a domenica, potranno godere di una visita gratuita a tre importanti musei di Firenze: Palazzo Vecchio, Palazzo Strozzi e Opera del Duomo. Saranno aperti oltre l’orario consueto, in notturna per l’occasione. È legittimo che la corrente di un partito consenta un privilegio del genere?
    «I musei dovrebbero essere aperti il più possibile e dovrebbero essere gratuiti per tutti, come il British Museum. Ci risiamo a Firenze, in passato fu addirittura affittato Ponte Vecchio alla Ferrari per una cena esclusiva con Luca Cordero di Montezemolo. . . Il messaggio che rischia di passare è questo, musei riservati a privilegiati e non musei di tutti. Lo ritengo molto grave e contro l’articolo 9 della Costituzione».

    Per Palazzo Vecchio la Fondazione Open, la cassa della Leopolda, pagherà al Comune di Firenze 1500 euro. Sono poche per l’opportunità concessa?
    «Il punto è che il premier Matteo Renzi dovrebbe essere così bravo nel suo ruolo da trovare i fondi per tenere sempre i musei aperti, in tutta Italia, e gratuiti per tutti, sul modello del British Museum, questo sarebbe in linea con quanto prescritto dalla nostra Costituzione».
    Se una cosa di questo tipo l’avesse fatta a suo tempo Berlusconi per simpatizzanti di Forza Italia avrebbe suscitato più indignazione?
    «Sinceramente non ho mai sentito che una manifestazione partitica debba essere legata alla visita gratuita di un museo, ma prendiamola positivamente: zero privilegi, moltiplichiamo le occasioni, musei aperti per tutti, non solo per quelli che vanno alla Leopolda. Insomma, a voler essere ottimisti, prendiamola come un primo segno di attenzione verso il patrimonio museale del Paese».

    Professore non sembra convinto neppure lei...
    «Certo, ho difficoltà a vedere in questa iniziativa davvero una funzione pubblica in applicazione di quell’articolo 9 della Costituzione che chiarisce la differenza tra diritto e privilegio rispetto ai musei. Farne, anche temporaneamente, un privilegio per un gruppo di qualsiasi genere e natura no, non è la direzione giusta».

    Il manifesto, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)

    L’attacco è al «podestà» Renzi. E ai suoi vassalli, valvassori e valvassini. Eh sì, secondo il coordinamento «No Ombrina», che combatte contro la petrolizzazione selvaggia, il governo attuale, con le sue decisioni unilaterali, è a metà tra il «becero autoritarismo» e i passacarte. «E mentre a Parigi, nella Conferenza internazionale sul clima, il nostro premier proclama di voler salvare il pianeta e l’economia, e spinge per un mondo di rinnovabili, in Italia fa carne da macello. All’estero dà un’immagine verde e poi s’affretta a distruggere il suo, il nostro paese»: Alessandro Lanci, coordinatore del movimento, non si risparmia.

    Il gruppo antitrivelle dall’Abruzzo approda alla camera dei deputati per una conferenza in cui ribadisce l’assoluta contrarietà di un intero territorio alla realizzazione della piattaforma «Ombrina Mare», della società inglese Rockhopper le cui autorizzazioni sono alla fase finale presso il ministero dello sviluppo economico «nonostante vi sia l’opposizione della Regione, di decine di enti locali, delle associazioni agricole, del turismo e della pesca e della stragrande parte dei cittadini che hanno manifestato in massa contro il progetto».
    Che prevede - viene ricordato - di perforare 4–6 pozzi a 5 chilometri dalla Costa dei Trabocchi, che una legge del 2001 ha individuato come meritevole di tutela attraverso l’istituzione di un Parco nazionale. Oltre alla piattaforma si intende ormeggiare per 25 anni una nave raffineria lunga oltre 300 metri che dovrà trattare fino a 50.000 tonnellate di greggio alla volta. «Il tutto - aggiunge Renato Di Nicola - in una zona dove insistono riserve naturalistiche e che è a forte valenza turistica, settore in cui lavorano decine di migliaia di operatori. Basterebbe un solo incidente per devastare l’intero Adriatico e mettere in ginocchio le realtà che si affacciano su questo mare».

    Per fermare questo intervento ed altri simili saranno depositati uno o due emendamenti alla legge di stabilità ora in discussione alla camera. Saranno proposti dalle opposizioni, al netto di una probabile fiducia che il governo potrebbe porre sulla manovra. Nello specifico Sel, M5s e Fi ne dovrebbero proporre uno che chiede il ripristino del divieto di perforazioni entro le 12 miglia dalla costa e un altro che scende nel dettaglio e pone il divieto anche dove insistono parchi in costituzione, come in questo caso. Presenti, accanto ai «No Ombrina» Gianni Melilla, di Sel, Gianluca Vacca, dei Cinque Stelle, e la senatrice, di Forza Italia, Paola Pelino.

    Emendamenti di questo tipo sono stati bocciati in commissione bilancio, ricorda Melilla: «Il Pd e Ncd-Ap hanno ritenuto di non confermare quello che avevano detto a livello locale». Nel ruolo di minoranza, evidenzia Pelino, «l’unica cosa da fare è presentare gli emendamenti. Le regioni interessate - prosegue - dovrebbero poi premere per un decreto legge che potrebbe essere l’unico strumento per bloccare le multinazionali del greggio». «Il governo è colluso con i petrolieri - riprende Lanci - e mette a rischio l’ambiente e la salute. Questo però - osserva - è un problema che riguarda tutta l’Italia». Il grillino Vacca affonda: «Il Pd è il partito del petrolio». E, quasi a conferma, i deputati del partito democratico, seppur invitati, non si presentano all’appello dei «No Ombrina». «Perché - afferma Lanci - il podestà richiama all’ordine e punisce. Ma poi non si disfa di funzionari ministeriali che spalleggiano lobbies private; poi non rivede i progetti approvati dal Comitato Via (Valutazione impatto ambientale) sciolto perché regno di personaggi con palesi conflitti di interesse o con legami accertati con la ’ndrangheta…».

    Tutto ciò mentre il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, dichiara che «la difesa del mare blu è potentemente all’ordine del giorno e il dialogo tra governo e Regioni è molto, molto avanzato. Sono fiducioso». Ma la sua «fiducia» in Renzi non convince gli operatori turistici che ieri sono scesi in campo, a Pescara, a chiedere un «Abruzzo senza idrocarburi. Il contrario? Sarebbe opzione autolesionista, futuro senza prospettive».

    Una meritoria iniziativa sociale «mixed-use» del carcere di Bollate, involontariamente sottolinea l'assurdità di ciò che attorno allo stesso carcere sta avvenendo. La Repubblica Milano, 10 dicembre 2015, postilla (f.b.)

    Non c’è posto fino a Natale nel ristorante stellato all’interno del carcere di Bollate. Tutto prenotato. In quasi due mesi, centinaia di persone hanno trascorso il loro anniversario o una cena tra amici “InGalera”. Per festeggiare Natale, la richiesta è cresciuta. Alcune aziende hanno addirittura deciso di riservare tutto il locale. L’esperimento di Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc — che lunedì, accompagnata da tre detenuti, è stata premiata con un Ambrogino d’oro — ha riscosso un grande successo anche su Trip Advisor. I clienti non arrivano solo da Milano, fa sapere Polleri, ma per provare il brivido di entrare in carcere a mangiare, serviti da detenuti, arriva gente anche anche da Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. «Sono soddisfatti e anche curiosi. Si complimentano per i piatti e fanno diverse domande sui detenuti che lavorano in sala e in cucina e su come funziona InGalera».

    Bisogna prenotare, ma non è necessario presentare un documento e lasciare i cellulari all’entrata. Il ristorante si trova, infatti, all’esterno dell’area di carcerazione. Ad accogliere i clienti sono i ragazzi dell’istituto alberghiero Paolo Frisi, che hanno deciso di svolgere il tirocinio a Bollate. L’unico problema è che, spiega Polleri, «con Expo è cambiata la viabilità. Sono spariti alcuni cartelli che portavano al carcere lasciando posto a quelli dell’Esposizione universale. Cercando “via Cristina Belgioioso 120” su Google, invece, ci si trova in mezzo al Decumano». In Galera è l’ultimo dei progetti attivati nella casa di detenzione, che hanno lo scopo di formare, rieducare e aiutare i detenuti a reinserirsi nella società.

    «Per come è andata in questi due mesi — dice Massimo Parisi, direttore del carcere — è un esperimento fortemente riuscito, sotto ogni punto di vista: dall’ottima qualità del cibo, al riscontro di pubblico, al servizio di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti, che servirà per un loro reinserimento sociale ». Questo è il caso di Graziano, che da rapinatore è diventato pasticcere. Lavora per Abc catering e a volte anche nel ristorante In-Galera. In primavera uscirà dal carcere. Vorrebbe rimanere a lavorare a Bollate, ma abita a Brescia. «Ha promesso di smettere “con le rapinette”», racconta Silvia Polleri. Tornerà dalla sua famiglia, con cui ha ricucito i rapporti dopo aver deciso di cambiare vita. Per ora fa il pasticcere per Abc e «le sue lingue di gatto sono diventate famose».

    postilla

    Prendiamola un po' alla lontana: cosa c'è di più simile a una gated community segregata, di un carcere? Luogo per sua natura e storia di esclusione, confinamento, monofunzionale e monoclasse? Una volta stabilita questa premessa, e ovviamente considerato che l'iniziativa del ristorante intende spezzare proprio quel genere di segregazione, senza peraltro rinunciare ad altri caratteri fondamentali dell'istituto, vediamo cosa sta accadendo giusto appena fuori dalla recinzione, oltre la strada che separa il carcere dal sito Expo. Per cui si prevede in sostanza una cittadella monofunzionale segregata, separata dalla città, con la scusa di farne una «fabbrica delle idee». E se si provasse, esattamente come col ristorante gestito dai carcerati, a spezzare quell'opprimente scatolone logico, che serve solo alla speculazione e spreca territorio? E tanti auguri a InGalera, ovviamente (f.b.)

    Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015

    Il Governo Renzi sta prendendo tutte le contromisure per sbrigliare la matassa dello “sblocca trivelle” e arginare gli escamotage delle Regioni per stoppare le ricerche di gas e petrolio in mare. Dopo il via libera della Cassazione ai sei quesiti referendari presentati da dieci consigli regionali contro il famigerato provvedimento, l’esecutivo è in pieno allarme. E i tentennamenti non mancano. Da una parte mantiene la linea dura e impugna la nuova legge dell’Abruzzo che estende il divieto di ricerca di gas e petrolio. Dall’altra ha allo studio alcune misure che rivedono lo “sblocca trivelle” allo scopo di evitare il referendum, visto come fumo negli occhi: una sconfitta alle urne - temono a Palazzo Chigi - potrebbe mettere in discussione l’intera politica energetica renziana.

    Quanto all’Abruzzo, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’impugnativa della legge della Regione denominata Provvedimenti urgenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema della costa abruzzese (n.29 del 14 ottobre 2015). Una legge che vieta - recita l’articolo 1 al comma 1 - «le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle zone di mare poste entro le dodici miglia marine dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero della Regione Abruzzo». Ma che secondo il Governo «invade materie di esclusiva competenza statale» in materia di energia. Tra i progetti interessati c’è Ombrina Mare di Rockhopper, sulle coste abruzzesi, nel mirino da anni dell’opposizione locale.

    La decisione del Cdm non prende tuttavia di sorpresa la Regione, che anzi annuncia guerra al Tar e conferma che i lavori per Ombrina verranno comunque sospesi in attesa del giudizio della Consulta. Il ragionamento è semplice e lo spiega il sottosegretario alla Giunta regionale, Mario Mazzocca. Sulla base della delibera del Cdm, l’Avvocatura dello Stato procederà all’elaborazione del ricorso, che verrà depositato in Corte costituzionale. Ci vorranno alcuni mesi per il giudizio finale. Nel frattempo, la Regione Abruzzo chiederà al Tar Lazio di voler sospendere in via cautelare, nelle more del giudizio della Corte, i provvedimenti amministrativi riguardanti Ombrina mare.

    «E’ la riprova del fatto che la nostra iniziativa legislativa ha colto nel segno - commenta Mazzocca - Eravamo ben consci tanto dell’elevata possibilità di incostituzionalità del progetto di legge, quanto della pressante esigenza di porre un freno alla deriva petrolifera perseguita dal governo nazionale nell’ottica di concreto sostegno alla proposta referendaria nel frattempo lanciata da 10 Regioni». A mettere in discussione le certezze di Mazzocca è tuttavia il M5S Abruzzo, che da mesi lotta contro il progetto Ombrina e in generale le trivellazioni in Adriatico. «Lo avevamo detto fino a perdere il fiato, questa legge è stata l’ennesimo palliativo mediatico e ora il Consiglio dei Ministri presenta il conto», commenta Sara Marcozzi, consigliere regionale del partito pentastellato. «L’unica strada è quella della legge di iniziativa regionale alle camere presentata dal M5S e approvata dal consiglio regionale - continua Marcozzi, prima firmataria della legge - che va a modificare ed abrogare parzialmente l’articolo 35 del Decreto Sviluppo” (ripristinando quindi il limite di 12 miglia marine dalla costa per le attività delle piattaforme petrolifere).

    Ma a non far dormire sonni tranquilli al Governo Renzi è in realtà soprattutto il referendum contro lo “sblocca trivelle”. A fine novembre la Corte di Cassazione ha dato il suo ok ai sei quesiti referendari presentati da dieci regioni, su spinta dei “No Triv”, contro il provvedimento. Secondo la Cassazione sono “conformi alla legge”. Entro il prossimo gennaio la Consulta dovrà dare un giudizio di legittimità e nel frattempo Palazzo Chigi non vuole stare con le mani in mano perché teme di vedersi messe in discussione tutte le politiche in materia di energia. Così i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente si sono messi al lavoro per smussare lo “sblocca trivelle” in senso “No Triv” ed evitare le urne.

    Riferimenti
    Sui quesiti referendari proposti da 10 Regioni si veda di Serena Giannico La carica No Triv delle dieci regioni. Sul pro­getto di «svi­luppo del gia­ci­mento Ombrina» si vedano di Serena Giannico

    La rivolta dei No-Triv. Venderemo cara la pelle, e L’Aquila scaccia il falco.

    Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2015

    «Trasferiremo la biblioteca a Palazzo Altemps così potremmo utilizzare quel piano con una bellissima terrazza per offrire servizi ai visitatori del Palatino, che è un luogo bellissimo ma non offre nessun confort a chi lo visita». A dirlo è stato il Soprintendente speciale per il Museo di Roma, il Colosseo e l’Area archeologica di Roma Francesco Prosperetti, agli inizi dello scorso luglio. L’esito di un ragionamento sull’accoglienza, introdotto da una constatazione. «Effettivamente – notava il Soprintendente – trovo incredibile che si possa pensare di far camminare per ore il turista sotto il sole tra Palatino e Fori senza dargli la possibilità di un punto dove ristorarsi, riposarsi ed avere informazioni, bisogna pensarci e fare qualcosa di concreto al più presto». I camion-bar, da tempo padroni delle postazioni commercialmente più appetibili del centro storico della città, sono stati spostati altrove.

    Così, non senza ragione, Prosperetti rifletteva su come offrire servizi ai fruitori dell’area archeologica centrale. Una necessità per uno spazio all’aperto molto vasto, ma privo di spazi per la ricreazione. Una legittima preoccupazione per il Soprintendente. Idea, quella di riutilizzare il secondo piano e la terrazza dell’Antiquarium per “servizi ai visitatori del Palatino”, delineata meglio alla fine di Agosto. Inequivocabili le sue parole: «Dobbiamo servire almeno tre target diversi. Tra questi ci deve essere per forza un target alto. Un’idea è usare il piano alto e la terrazza del Museo Palatino. Per capirci, si tratta di un appartamento di 130 mq più terrazze nel luogo più panoramico della città e nel luogo più bello del mondo: il ristorante più indimenticabile e suggestivo del pianeta”.

    Nei giorni scorsi sul sito de L’Espresso è stata pubblicata la notizia dello stanziamento di fondi ad hoc. Circa 1 milione di euro inserito nel bilancio per il prossimo triennio. Bilancio approvato da pochissimo tempo. Dunque si sarebbe entrati nella fase operativa dell’operazione. A dispetto della scarsa rilevanza che il tema ha finora incredibilmente avuto, rimangono alcune evidenti criticità, a partire dallo spostamento a Palazzo Altemps della Biblioteca ospitata al secondo piano dell’immobile. Solo un particolare trascurabile, secondo Prosperetti. In realtà qualcosa di più se il trasloco di libri diventa necessario per lasciare spazio ai tavoli del nuovo ristorante esclusivo.

    E che dire del traffico veicolare che comporterà la trasformazione? Via vai, se non di mezzi privati, almeno di quelli collegati ai rifornimenti dell’esercizio commerciale. Circostanza, soprattutto quest’ultima, che sembra in palese contraddizione con il contesto. Come sarà possibile giustificare il transito di furgoni e autovetture all’interno dell’area archeologica centrale? Mentre si pedonalizza via dei Fori imperiali si crea un corridoio proprio all’interno del sito archeologico? In questo modo verrebbe adottato quello che anche il semplice buon senso sconsiglierebbe. In nome di cosa, lo si sa. Lo ha sostenuto Prosperetti. Lo ha ripetuto più volte Franceschini.

    Per l’architetto chiamato a guidare la Soprintendenza romana, «I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte», ha detto alcuni mesi fa a proposito dell’utilizzo del Circo Massimo per i concerti. Probabilmente omettendo che i luoghi dell’archeologia possono diventare anche prestigiosi contenitori di servizi. Per il Ministro, poi, non si può pensare solo alla tutela: «Bisogna valorizzare con bookshop, servizi multimediali e ristoranti», ha dichiarato.

    E questo è il punto nodale. La valorizzazione del patrimonio culturale, intesa secondo la definizione che il Mibact stesso ne dà, «consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina di tutte quelle attività a cura dell’Amministrazione dei Beni Culturali volte a promuovere la conoscenza del patrimonio nazionale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione del patrimonio stesso ad ogni tipo di pubblico, al fine di incentivare lo sviluppo della cultura». Definizione tra le cui righe si ricorda (a ragione) come «tutti questi interventi devono essere effettuati in forme compatibili con la tutela e in modo tale da non pregiudicarne le fondamentali esigenze».

    Chiedersi se la realizzazione del ristorante “più indimenticabile e suggestivo del pianeta”, identificata da Prosperetti come un’operazione di valorizzazione, non tradisca le indicazioni del Mibact, appare lecito. Interrogarsi se un luogo esclusivo in uno spazio culturale “pubblico” come l’area archeologica centrale, non sia una contraddizione, potrebbe essere utile. Naturalmente a patto che si abbia la convinzione che i luoghi della cultura e i loro servizi debbano essere per tutti. A patto che non si rincorra l’idea che i siti archeologici e gli spazi museali, i palazzi storici e tutto quello che comprende il patrimonio culturale, non siano altro che location. Straordinari ed esclusivi “involucri” di eventi per l’intrattenimento e ristoranti.

    Invece è molto probabile che presto ci sarà la possibilità di gustare piatti di un noto chef seduti a un tavolo affacciati sul foro romano. Se non sarà una sconfitta per una certa idea di cultura poco ci manca. Ma forse non saranno in tanti ad accorgersene.

    «Agnosco stylum Romanae Curiae» («riconosco lo stile della Curia Romana») mormorò Paolo Sarpi quando sentì lo stiletto, cioè il pugnale, del sicario del papa entrargli nella carne viva.

    Anche lo stile del Governo Renzi è ormai inconfondibile: è quello degli ottanta euro, dei cinquecento posti al Mibact, dei bonus da cinquecento euro per i diciottenni. Il bancomat al posto di un progetto, lo stimolo elettrico all'esistente invece di un qualunque tentativo di cambiarlo, di evolvere, di costruire il futuro.

    I cinquecento tecnici che (dal primo gennaio 2017) saranno assunti al Mibact sono in sé un'ottima notizia. Una delle poche cose buone ottenute dal ministro Dario Franceschini: che ieri – per non dire che l'ultima – ha pensato bene di fare una pubblica genuflessione al Ponte sullo Stretto voluto dal Capo. La politica al tempo della società di corte.

    Ma quei benedetti cinquecento posti sono come un'aspirina data a un moribondo: sono meno della metà di quelli che saranno lasciati scoperti per pensionamenti solo da ora al 2017. E dentro al Mibact non c'è più nessuno, da anni.

    In più, essendo appunto un'una tantum, su questo bando si stanno addensando desideri, aspettative, demagogie di ogni tipo. L'episodio più clamoroso è stato il voto parlamentare che ha abbassato i requisiti di accesso fino al livello della laurea triennale: un grave errore. Ma è chiaro che finché si va avanti con misure da ultima spiaggia, non potrà che finire così. L'alternativa è far funzionare la normalità, riavviare il turn over, riallinearci a ciò che succede negli altri paesi europei.

    Gli altri cinquecento (questa volta sono gli euro per i diciottenni: la cabala renziana conosce solo cifre tonde) non sono solo ingiusti (perché senza alcuna relazione col reddito di chi li riceverà), sono anche sbagliati. Perché è sacrosanto dire che il terrore si batte con la cultura, ma il punto è capire cos'è la cultura. Lo ha detto benissimo papa Francesco, in Africa: ci vogliono lavoro ed educazione. Ecco il punto: l'educazione. Che letteralmente vuol dire tirare fuori ciò che è dentro di noi: la nostra umanità, innanzitutto.

    La nostra spesa per l'istruzione è poco superiore alla metà della media Ocse. Le nostre scuole e le nostre università sono alla fame. Se il governo vuol davvero coltivare la nostra civiltà, vuol farci rimanere umani, la via maestra è finanziare la scuola e la ricerca. Poi finanziare la produzione (e non il consumo) culturale.

    Rimettere in piedi davvero il bilancio del patrimonio culturale, dimezzato nel 2008. E poi aprire a tutti quel patrimonio: con i soldi necessari a finanziare i bonus per i diciottenni si aprono gratis, a tutti, i musei statali italiani per tre anni e mezzo.

    Non abbiamo bisogno dell'intrattenimento di Stato, non abbiamo bisogno di diventare ancor più consumatori, clienti, spettatori: abbiamo invece un disperato bisogno di diventare cittadini, di avere strumenti per esercitare il senso critico.

    Abbiamo bisogno di conoscenza, di storia, di lucidità: perché è cultura quella che «permette di distinguere tra bene e male, di giudicare chi ci governa. La cultura salva» (Claudio Abbado).

    Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2015

    Bene, bene, a quanto pare il ponte sullo Stretto di Messina si farà e Alfano aveva ragione: piano, piano, negli ambienti che contano un po’ tutti accetteranno la cosa. Prima il ministro delle Infrastrutture, a seguire il Capo del governo, ci mancava solo il ministro della Cultura e del TurismoFranceschini a rilanciare l’opera. Come ha detto a margine di un convegno, si tratta di un’idea che condivide «assolutamente» perché «l’alta velocità, non si può fermare a Salerno. Renzi ha posto il tema del ponte sullo stretto non come una cattedrale nel deserto, ma come un pezzo del disegno che porti l’alta velocità fino a Palermo e Catania».

    A dare manforte a questo pensiero c’è pure il massimo vertice dell’Anas, l’amministratore delegato Armani, che considera l’opera “ovviamente” fattibile. In fondo si tratta solo di tre chilometri di distanza. Che volete che sia. Ma “A noi interessa” spiega Armani “perché come Anas siamo i detentori del progetto”.

    Che il Ponte sullo Stretto fosse di nuovo su piazza era chiaro da tempo. Da molto prima che venisse approvata la mozione Ncd sulla riconversione dell’opera come infrastruttura ferroviaria. Dopo che il presidente Renzi ha annunciato alla stampa nazionale la volontà politica di realizzare il Ponte, l’Huffingtonpost.it ci ha messo due secondi a scrivere che una fonte di governo aveva dichiarato a microfoni spenti che «Renzi aveva di fronte due strade: o chiedere all’Anticorruzione di Cantone, che chissà come mai si occupa di tutto tranne che dello Stretto, di andare a vedere come si è creato un immane debito per lo Stato, o riaprire il dialogo con Salini. Il premier ha scelto la seconda, riaprendolo informalmente negli ultimi mesi. E il dossier Ponte sullo Stretto è stato affrontato anche nei viaggi in Cina, da sempre si parla di capitali cinesi nell’operazione Ponte, e in Sud America dove, tra i rappresentanti di varie imprese, c’erano anche quelli di Impregilo». E se escono notizie di questa portata è chiaro che c’è qualcuno che vuole che certe cose escano in un modo o nell’altro.

    Non è un caso che Pietro Salini, amministratore delegato del Gruppo Salini-Impregilo, capo-fila del consorzio Eurolink che si trova in contenzioso con lo Stato per il pagamento delle penali, intervenga a stretto giro sul Corriere della Sera per dire che dal Ponte sullo Stretto arriveranno 10 miliardi di euro all’Italia e che, soprattutto, esiste già una stima interna secondo cui il Ponte può autofinanziarsi, dare lavoro a 40.000 persone e, infine, accedere ai finanziamenti del Piano Junker.

    Intanto al Senato si discute del disegno di legge di Stabilità 2016 e vengono respinti entrambi gli emendamenti presentati rispettivamente da M5S e Sinistra Italiana n. 41.1 e n. 41.8, volti, da un lato, a sopprimere integralmente le disposizioni che individuano la Cassa depositi e prestiti S.p.A. come istituto nazionale di promozione sugli investimenti strategici e, dall’altro, tesi ad escludere che la Cassa Depositi e Prestiti possa contribuire alla progettazione e realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.

    A questo punto, senza dovermi ripetere su quel che penso del Ponte sullo Stretto di Messina, la domanda al Governo è questa: ci sono state innumerevoli occasioni in cui tanti esponenti del Parlamento hanno chiesto chiarezza sulla questione del Ponte e delle penali che lo Stato dovrebbe pagare in caso di mancata realizzazione. E a questo punto, se c’è un dossier sul Ponte sullo Stretto di Messina, perché non lo tirate fuori?

    La mozione approvata del Gruppo Ncd parla di una riconversione del ponte in infrastruttura ferroviaria. Perché nel disegno di legge di stabilità 2016 l’intervento più significativo in materia di infrastrutture e trasporti è quello riconducibile al contributo in conto impianti a rete ferroviaria italiana per un importo pari a 241 milioni di euro per l’anno 2017, 600 milioni per l’anno 2018 e 7.500 milioni di euro nel periodo 2019-2025, anche a fronte di una intervenuta riduzione per il 2016 di 291 milioni di euro derivante dall’approvazione di un emendamento al Senato? Dove andranno a finire tutti questi soldi?

    Qualunque strategia intenda intraprendere il governo sul Ponte sullo Stretto di Messina, il parlamento, innanzitutto, dovrebbe essere messo in grado quanto meno di conoscerne i contenuti. In questi giorni si è molto parlato sulla necessità di coinvolgere le Camere sul piano di privatizzazione di Ferrovie dello Stato. Vero che siamo ancora in sessione di bilancio e i ministri hanno altro a cui pensare quando si votano gli emendamenti al disegno di legge sulla Stabilità, ma una maggiore chiarezza sulle decisioni strategiche che riguardano direttamente lo sviluppo del Paese non possono sempre piovere dall’alto, senza che tutto il resto del mondo non ne sappia nulla e senza, soprattutto, che Parlamento possa esercitare pienamente la propria funzione di controllo e di indirizzo politico che gli è propria, almeno quanto la funzione legislativa. Le commissioni parlamentari competenti per materia, del resto, esistono anche per svolgere audizioni e indagini conoscitive su specifiche questioni, come quella del “Ponte”.

    Riferimenti

    Moltissimi articoli sul ponte dello Stretto sono raccolti in eddyburg, soprattuttto nel vecchio archivio, e precisamente nella cartella Il Ponte sullo stretto. Articoli più recenti li potete trovare digitando nel "cerca" le parole "Ponte dello stretto"

    «A Oslo e Amburgo la popolazione ha valutato come insostenibile economicamente l'evento sportivo. Per il 2014 restano in lizza Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato promotore presieduto da Montezemolo continua a creare sotto-comitati. Ma non intende interpellare i cittadini». Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015

    Nessuno vuole più le Olimpiadi. Data la crescita esponenziale delle spese rispetto al budget previsto – basti pensare a Londra 2012, che ha vinto l’assegnazione con un progetto di spesa di meno di 3 miliardi di sterline e ha finito per spenderne più di 12 – e il fuggi fuggi generale delle città candidate, il Cio aveva deciso con la promulgazione della Olympic Agenda 2020 di imporre Giochi low cost. Ma non è bastato, e in vista dell’assegnazione dei giochi del 2024, la scelta definitiva nel settembre 2017, ieri ancheAmburgo ha detto no. O meglio, hanno detto no i cittadini che hanno votato a maggioranza al referendum per respingere la proposta di candidatura.

    Restano in corsa quindi solo Budapest, Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato Promotore presieduto da Luca Montezemolo, che può contare su un budget di una decina di milioni circa, continua a creare sotto-comitati: da ultimo quello dei garanti per la trasparenza e la legalità. Dati i luoghi dove si vorrebbe costruire per Roma 2024, e i precedenti delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e dei Mondiali di Nuoto di Roma 2009, avrà molto da lavorare.

    Esclusa Budapest, per la deriva autoritaria presa dall’Ungheria, le alternative a Roma rimangono quindi Parigi (che si è vista sfilare in modo assai sospetto quelle del 2012, e i cui recenti attentati suggerirebbero una compensazione, comeTokyo 2020 dopo il disastro di Fukushima) e Los Angeles, dove gioca il potentissimo player Casey Wasserman che ha ramificazioni a Hollywood e nel marketing sportivo. Los Angeles è candidatura dell’ultimo minuto, dopo che la prescelta dal comitato olimpico statunitense, ovvero Boston, si è ritirata, come ha fatto quest’estate Toronto. E come ha fatto ieri Amburgo, infliggendo una pesantissima batosta allo stesso capo del Cio, il tedesco Thomas Bach, dove tra inchieste e dimissioni per la corruzione che ha segnato l’assegnazione dei Mondiali di Germania 2006, la cittadinanza non si è fidata nemmeno del budget low cost previsto di 5 milioni. Un’inezia rispetto ai 50 miliardi spesi dalla Russia per Sochi, un salasso per una città europea.

    Dopo Sochi 2014, infatti, le prossime Olimpiadi invernali continueranno a guardare a Est e saranno a Pyeongchang (Sud Corea) nel 2018 e a Pechino (Cina) nel 2022. Se la Corea ha battuto le candidature nemmeno troppo convinte di Annecy (Francia) e Monaco di Baviera, la Cina se l’è vista in finale con Almaty (Kazakistan) dopo che si sono ritirate Stoccolma e poi Cracovia, Oslo e l’accoppiata Davos e St Moritz, queste ultime tre a seguito di un referendum cittadino che ha visto la popolazione schierarsi compatta per il “no” ai Giochi. E quindi in barba al criterio della rotazione, ecco che per tre edizioni consecutive le Olimpiadi invernali – quattro se mettiamo di mezzo i Giochi estivi di Tokyo 2020 – si terranno in paesi il cui tasso di crescita può sostenerle. A dimostrazione che, al di là degli enfatici proclami pubblicitari di chi ha interessi economici e politici nell’organizzare un grande evento, è oramai assodato che i Giochi Olimpici sono un salasso per le città e i governi che li ospitano.

    Se Denver nel 1972 rimane l’unica città che abbia rinunciato alle Olimpiadi dopo essere stata scelta come città ospitante (quelle del 1976, poi finite a Montreal, che sono state un disastro economico per la città, che ci ha messo più di 30 anni per pagare i debiti e ancora soffre per gli impianti costruiti e mai più utilizzati, compreso lo Stadio Olimpico finito di pagare nel 2006 e attualmente senza padrone), ora è incredibile il numero di città che si sfilano in fase di candidatura. La novità è sicuramente il referendum cittadino: ovunque sia stato fatto ha vinto il “no”, anche in città come Oslo e Amburgo, dove le previsioni erano per una larga maggioranza di “sì”. Le Olimpiadi come grandi eventi tesi a privatizzare i profitti e socializzare le perdite non convincono più nessuno. Esclusa forse Los Angeles, che avrebbe già tutti gli impianti pronti e potrebbe calmierare le spese, nel caso di un referendum a Roma e a Parigi la risposta sarebbe sicuramente “no”. Forse è per questo che non sono previste consultazioni popolari.


    Resta «come elemento dominante del quadro contemporaneo l’esercizio in persona prima e la proposta instancabile di una personalità d’intellettuale, il quale anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons, assumesse e mantenesse ad ogni costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico [...] Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori percepisse con chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi nel 1934, al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata la riproduzione del gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir claire la nuit». Così annotava Carlo Ludovico Ragghianti – storico dell’arte, ma anche presidente del Cln toscano e capo del governo provvisorio che liberò Firenze – ridando alle stampe, nel 1972, il suo Profilo della critica d’arte in Italia scritto esattamente trent’anni prima».

    Fa una certa impressione rileggere questa pagina nell’Italia del 2015: perché certo siamo lontanissimi dalla tragedia degli anni Quaranta del secolo scorso, e tuttavia il riemergere di pulsioni e riforme di marca chiaramente autoritaria si intreccia con un esplicito disprezzo verso le voci del dissenso, specie se espresse da professori – additati di nuovo come «gufi», che hanno appunto il torto di veder chiaro nella notte. È proprio per questo che credo sia necessario fissare lo sguardo in quella che appare come la notte dei musei italiani: perché nella riforma varata dal governo Renzi le ombre prevalgono nettamente sulle luci. Se lo farò «in prima persona», per riprendere le parole di Ragghianti, è perché avverto la pesante responsabilità di aver contribuito ad avviare il processo che ha portato a questa infausta conclusione.

    Sono stato infatti tra i primi – se non il primo – ad aver posto la questione dell’autonomia dei musei in seno alla commissione per la riforma del ministero per i Beni culturali nominata dal ministro Massimo Bray. Nella relazione finale licenziata da quell’organismo il 31 ottobre 2013 si rinviene una traccia di quella approfondita discussione:

    «Con riferimento agli Istituti culturali operanti sul territorio, è emersa con forza l’idea di conferire ad essi un’ampia autonomia tecnico-scientifica e gestionale, prendendo spunto anche dall’assetto delle strutture periferiche dell’amministrazione francese che si occupano di beni culturali: ciò nella convinzione che le strutture operanti sul territorio siano i migliori presidi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale e che vadano salvaguardate al massimo le capacità dei corpi tecnici, spesso sacrificate nelle amministrazioni pubbliche italiane. Con particolare riferimento ai Musei, è auspicabile che la loro autonomia si estenda, quanto più possibile, anche alla definizione degli orari di apertura e dei prezzi dei biglietti. Ovviamente, la maggiore autonomia deve essere affiancata da una maggiore trasparenza: ad esempio, tutti i Musei dovrebbero realizzare un report annuale che dia una panoramica delle attività svolte e mostri come le risorse siano state impiegate, rendendo anche disponibili gli elenchi delle acquisizioni, l’illustrazione delle mostre, delle attività educative, didattiche e di ricerca».

    Non si tratta di un testo felice, né particolarmente incisivo: eppure basta a chiarire due punti fondamentali. Il primo è che l’autonomia era stata pensata innanzitutto in termini tecnico-scientifici, il secondo è che essa avrebbe dovuto riguardare non solo i musei ma tutti gli istituti culturali (a partire dalle biblioteche e dagli archivi). La mia personale idea era che tali istituti non recidessero il cordone ombelicale che li lega al contesto ambientale e culturale – perché è questo sistema di nessi il vero capolavoro della nostra tradizione –, ma che le comunità scientifiche lì residenti acquistassero finalmente una autonomia culturale sostanziale: e cioè la possibilità (giuridica e finanziaria) di costruire e attuare un progetto culturale fondato sulla produzione della conoscenza (attraverso la ricerca) e sulla sua redistribuzione (attraverso la didattica, la divulgazione, l’apertura più radicale possibile ai cittadini).

    In ogni caso, la relazione ammoniva a tenere conto dei «problemi cronici nei quali versano le gestioni attuali delle Soprintendenze italiane», tra i quali veniva citata al primo posto l’«insufficienza delle risorse»: qualunque riforma a costo zero (o addirittura con l’ambizione di tagliare ulteriormente le risorse di un sistema ridotto allo stremo) avrebbe potuto determinare la crisi irreversibile e finale del sistema della tutela pubblica. Che è quel che è poi puntualmente successo.

    Oltre a questo irredimibile peccato originale, gli errori fatali della cosiddetta riforma Franceschini (disposta dal Dpcm 171 del 29 agosto 2014, dettagliata dal Dm del 23 dicembre 2014 e in corso di applicazione durante il corrente 2015) sono, a mio avviso, tre. Il primo è la separazione radicale, e direi violenta, tra tutela e valorizzazione: la prima lasciata alle soprintendenze, la seconda prospettata come unica mission dei musei.

    Ciò deriva dall’interpretazione, oggettivamente eversiva, della valorizzazione non come finalizzata all’aumento della cultura (come vuole – recependo il dettato costituzionale e le sentenze della Corte costituzionale – il Codice dei Beni culturali) ma invece come messa a reddito del patrimonio. Da qui l’idea di non occuparsi di luoghi improduttivi (implicitamente destinati all’estinzione: gli archivi e le biblioteche), e quella di sfilare venti supermusei (sette di prima classe, tredici di seconda) su cui concentrare risorse e attenzione. Errore nell’errore, la creazione di Poli regionali museali in cui gettare alla rinfusa tutto ciò che avanza (musei veri e propri, siti archeologici, monumenti), con l’unico criterio, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli; se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze.

    Naturalmente, essendo la riforma fatta a costo zero – e anzi contenendo la ratifica del permanente ridimensionamento della pianta organica del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact) da 25.500 a 19.050 unità di personale – la maggior attenzione attribuita alla valorizzazione si traduce, automaticamente, nello strangolamento della funzione di tutela. Sui miseri 377 storici dell’arte che oggi lavorano nel Mibact, ben 240 lavoreranno nei musei. Il che significa, per esempio, che un solo storico dell’arte dovrà occuparsi di
tutte le Marche,
in tre dovranno
tutelare Milano,
Como, Bergamo, Lecco, Lodi,
Monza-Brianza,
Pavia, Sondrio e Varese, in due Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, in sette tutta la Campania di De Luca, e ancora in tre Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara. L’Istituto nazionale per la Grafica avrà tanti storici dell’arte (nove) quanti le soprintendenze di Roma, Napoli e Firenze (con Prato e Pistoia) messe insieme; a Venezia quattordici storici dell’arte per i musei, mentre per città e Laguna solo quattro; a Caserta cinque saranno chiusi nella Reggia, e uno difenderà il territorio. Commentando questo quadro desolante, Salvatore Settis ha detto che «sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate». Alcuni dati di fatto certificano che la percezione di Settis è esatta: la ratio della cosiddetta riforma Franceschini si capisce fino in fondo quando la si legga insieme agli altri principali provvedimenti presi, in materia, dallo stesso governo Renzi. Citiamo soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l’annunciato rilassamento della legislazione sull’esportazione delle opere d’arte. Fedele al suo programma «culturale» («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l’articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.

    Il secondo errore radicale è aver scommesso tutto non sulle comunità scientifiche dei musei, ma sulla figura monocratica del direttore. Un errore che deriva da uno stato di fatto (per le ragioni appena dette, quelle comunità scientifiche di fatto non esistono: e anche in alcuni dei venti supermusei lo staff si riduce letteralmente a due funzionari), ma anche da una prospettiva culturale neoautoritaria: la stessa che modifica la Costituzione e la legge elettorale invocando mani libere per l’esecutivo, che verticalizza la scuola esaltando i presidi, che assolve da ogni vincolo sociale il datore di lavoro.

    Se, almeno, quei direttori fossero stati scelti in modo serio e trasparente la riforma avrebbe segnato un punto sul campo. Ma così non è stato: al di là della propaganda governativa (e con il massimo rispetto dei nuovi direttori, cui non si può che augurare ogni bene), i risultati sono stati oggettivamente modesti. La «grande levatura scientifica internazionale», sbandierata da Dario Franceschini sulla prima pagina di un’«Unità» decisamente postgramsciana, semplicemente non esiste. Sono stati promossi a direttori di grandi, e a volte grandissimi musei, storici dell’arte che erano curatori di sezioni di musei di secondo o terzo ordine: nemmeno uno dei nuovi nominati ha avuto esperienze lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge ad assumere. In due casi estremi – attestati entrambi in Campania: la Reggia di Caserta e il Museo archeologico nazionale di Napoli – sono state scelte figure professionali dalle competenze remotissime, e francamente incomparabili alle enormi responsabilità in gioco. Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano.

    Quando le terne di idonei composte dalla commissione sono state rese note (con quasi due mesi di ritardo dall’annuncio dei risultati finali) è stato evidente che – nonostante la presenza, fra i cinque commissari, di due autorevoli rappresentanti della comunità scientifica internazionale – la scelta era stata ideologicamente orientata. Laddove l’ideologia era la aprioristica determinazione ad escludere (con una sola eccezione su venti) tutti i funzionari interni del ministero: arrivando fino a non comprendere nella terna degli Uffizi chi li aveva diretti per nove anni. Ma, forse, il dato più
impressionante
è il ricorrere de-
gli stessi nomi,
giudicati idonei
per musei radi-
calmente diversi tra loro: la terna degli Uffizi e quella della Galleria Borghese si sovrappongono per due terzi, e lo stesso accade per i Musei archeologici di Taranto e Reggio Calabria. E la commissione ha giudicato gli stessi candidati buoni indifferentemente per musei radicalmente diversi (l’Accademia di Venezia e Brera; Brera e la Gnam di Roma; Torino e Urbino; e addirittura l’Estense di Modena, Barberini a Roma, il Bargello di Firenze e la Galleria Nazionale dell’Umbria...). Questo impressionante valzer di nomi che tornano buoni per tutte le posizioni indica due cose. La prima è che le candidature giudicate potabili anche con la manica larga della commissione erano incredibilmente poche, e che dunque il bando si è risolto in un fallimento che ha messo i selezionatori con le spalle al muro.

    La seconda è che la competenza scientifica, semplicemente, non conta: la figura di direttore di museo si avvia a diventare un po’ come quella del curatore nell’arte contemporanea. Si è direttori a prescindere da cosa si dirige. Ma, ammesso che la cosa abbia senso in America o in Inghilterra, non ne ha per nulla in Italia: dove le collezioni hanno storie individualissime che non le rendono intercambiabili tra loro.

    Questo esito sconcertante è il traguardo di una serie di passi falsi. Uno è aver emesso il bando prima di aver reso ben chiari e fermi i poteri sostanziali dei direttori, i finanziamenti dei musei, i rapporti futuri con gli onnivori concessionari for profit che di fatto da vent’anni tengono in pugno i grandi musei: una fretta che ha sconsigliato i veri direttori di museo dal presentare la domanda,

    Un altro è aver sommato in un unico bando venti musei diversissimi tra loro, con il bel risultato che la commissione ha avuto (nella migliore delle ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindici minuti (questo è un dato ufficiale) per il colloquio che ha deciso la sorte degli Uffizi, o di Capodimonte. Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista preliminare di due ore, un colloquio privato col direttore di due ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in un quarto d’ora. Un terzo passo falso è aver attribuito un enorme potere discrezionale, diretto e indiretto, al ministro: la commissione contava solo due tecnici (un archeologo e uno storico dell’arte, entrambi professionalmente non italiani), accanto a una manager museale, a un rappresentante diretto del ministro stesso (l’autore materiale della riforma e consigliere giuridico principale del ministro) e a un presidente autorevole, ma non proprio terzo rispetto alle volontà ministeriali (perché contestualmente confermato alla guida della Biennale di Venezia con una deroga alla legislazione vigente decisa dal governo). In più, le terne prodotte da questa commissione finivano nelle mani del ministro stesso (che da esse sceglieva direttamente i direttori dei sette musei ritenuti più importanti) e del direttore generale dei musei (che riporta direttamente al ministro).

    Queste ultime considerazioni introducono a quello che, a mio giudizio, è il terzo errore radicale che ha fatto sprofondare i musei nella notte attuale: che è appunto la lottizzazione politica dei loro organismi scientifici, e dunque la connessa prefigurazione di una loro sostanziale devoluzione agli enti locali attraverso la trasformazione in fondazioni di partecipazione. L’articolo 12 del secondo capo del decreto ministeriale sull’organizzazione dei musei prevede che «il Comitato scientifico è composto dal direttore dell’istituto, che lo presiede, e da un membro designato dal Ministro, un membro designato dal Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”, un membro designato dalla Regione e uno dal Comune ove ha sede il museo. I componenti del Comitato sono individuati tra professori universitari di ruolo in settori attinenti all’ambito disciplinare di attività dell’istituto o esperti di particolare e comprovata qualificazione scientifica e professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali».

    Il coinvolgimento degli enti locali presenta innanzitutto evidenti tratti di incostituzionalità: il patrimonio storico e artistico è «della nazione» (art. 9. Cost.), e dunque non si capisce perché il Comune di Firenze debba influenzare la direzione culturale degli Uffizi più di quello di Milano, o la Regione Veneto determinare quella dell’Accademia di Venezia più della Regione Campania. In Costituente, Concetto Marchesi si batté con la profondità del latinista e la sapienza del giurista, ma soprattutto con l’amara consapevolezza del siciliano: l’approvazione dello statuto autonomo speciale della sua regione (che prevedeva la legislazione esclusiva anche in materia di «conservazione
delle antichità e
delle opere artistiche», e che
ha in effetti poi
determinato un
terribile degrado del patrimonio siciliano) gli faceva temere che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale. E l’Assemblea reagì con «vivi applausi» quando Marchesi paventò il forte rischio che «interessi e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale». Che è esattamente ciò che sta succedendo. Si badi, non è un caso; Franceschini ha più volte citato come esempio di riferimento il Museo Egizio di Torino, trasformato in fondazione di partecipazione: con gli enti locali, e i privati, rappresentati nel consiglio d’amministrazione. Ed è questo il futuro prossimo che si annuncia: una sostanziale devoluzione agli enti, e alle oligarchie, locali del patrimonio museale che dovrebbe invece rappresentare e articolare l’unità di una nazione fondata sulla cultura come forse nessun’altra in Europa.

    Ma c’è un aspetto ancora più grave, ed è l’idea stessa che alla politica – e non alla comunità scientifica – spetti la nomina degli scienziati (in questo caso cultori delle scienze storiche e storico-artistiche), in un processo che rischia di assimilare le direzioni dei musei al consiglio d’amministrazione della Rai. Franceschini non si è accontentato dell’enorme potere diretto che la riforma gli accorda: sul «Corriere del Mezzogiorno» è trapelata la notizia (non smentita) di una sua lettera che chiedeva alla Regione di revocare la nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel consiglio scientifico di Capodimonte, perché reo di essersi pubblicamente pronunciato contro la riforma. E davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un maccartismo renziano contro gli storici dell’arte non allineati.

    Queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla gui

    da del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Un’e

    spulsione che mira a evitare che il governo del patrimonio possa essere affidato a personalità d’intellettuali, i quali «anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons», assumessero e mantenessero «ad ogni

    costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico», come scrive Ragghianti nella pagina con cui ho aperto queste considerazioni. È in questo senso che si deve leggere l’ostentata preferenza per direttori «stranieri». Laddove le perplessità non scaturiscono certo da una visione xenofoba, radicalmente imcompatibile con l’idea stessa di una comunità scientifica che coincide con una république des lettres priva di confini interni. Ma se l’enfasi sugli stranieri si legge nel quadro fin qui delineato, emerge l’idea che la politica – questa politica – preferisca servirsi di figure di «sradicati», nuovi capitani di ventura messi in condizione di render conto solo al potere che li ha nominati. Non è un problema solo italiano, né solo del governo della cultura: in un capitolo de La ribellione delle élite (intitolato Il malessere della democrazia), Christopher Lasch analizza il fenomeno per cui «i membri delle nuove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono [...] la loro è una visione essenzialmente euristica del mondo, che non è esattamente una prospettiva che possa incoraggiare un’ardente devozione per la democrazia». Ma certo è un’evoluzione che, applicata ai musei italiani, compromette in modo ancora più radicale quella funzione civile del patrimonio culturale basata sull’indipendenza della conoscenza che è tipicadella tradizione italiana e che laCarta costituzionale mette tra i principi fondamentali della comunità nazionale. In questo

    senso, la notte dei musei italiani rende ancora più evidente l’eclissi dell’articolo 9 della Costituzione. E la notte si annuncia molto lunga, e molto nera.

    Patrimoniosos.it, 30 novembre 2015

    Dove va il Ministero per i Beni Culturali e il Turismo sulla strada esasperata della "valorizzazione"? Per ora sembra in stato confusionale, al di là di quello che scrivono tanti trombettieri. Per i Musei piovono decine di nomine che però per i Musei non autonomi al 35 per cento (dato ufficiale) vengono rifiutate dai prescelti. In certe Soprintendenze dove si sono assurdamente accorpati i beni storico-artistici e quelli architettonici non ci sono più storici dell'arte e se qualcuno chiede di valutare un quadro o una pala, gli rispondono imbarazzati che loro in quell'ufficio sono tutti architetti. Gli storici dell'arte o gli archeologi passati ai Musei spesso sono destinati a coprire due o tre istituzioni fra loro lontane chilometri. Un solo direttore è stato previsto per i Musei archeologici di Sibari e di Vibo Valentia (168 Km e due ore circa di viaggio in auto, ma chi paga la benzina?) e sempre un solo direttore deve reggere i Musei di Manfredonia (Foggia) e Gioia del Colle (Bari) e relative aree archeologiche fra cui corrono 161,4 Km per oltre un'ora e tre quarti di viaggio (e 12 litri di carburante). E' la valorizzazione, bellezza!

    Purtroppo c'è di peggio. Agli Archivi di Stato - che già sono considerati la Cenerentola del Mibact - vengono inferti altri danni. In particolare all'Archivio Centrale dello Stato che l'indimenticato direttore Mario Serio aveva portato a livelli di efficienza rari nel grande fabbricato dell'Eur destinato, se ben ricordo, al Ministero e al Museo fascista della Guerra. Cosa succede ora? Il Segretariato generale del Mibact ha deciso di spostare il Museo Nazionale di Arte Orientale (sinora situato nel palazzo Brancaccio, in via Merulana) nella sede dell’Archivio Centrale dello Stato, sgomberando il primo piano del deposito laterale dell’Archivio stesso. Pur sapendo benissimo (se non lo sanno, è di una gravità assoluta) che i suoi depositi sono da tempo strapieni tant'è che uno spazio supplementare è stato affittato a Pomezia in un magazzino...industriale, senza una sala di studio e neppure uno spazio dove gli archivisti possano lavorare per riordinare le carte. Ma pure quel magazzino di Pomezia è saturo.

    Adesso si tratta di far posto ai 23 km circa di documenti sin qui conservati negli spazi dell'Eur che vengono dati al Museo Nazionale delle Arti Orientali. Finiranno in qualche altro deposito decentrato quei 23 Km? Il 16 novembre, il Consiglio superiore per i beni paesaggistici ha approvato una mozione in cui ha espresso “viva preoccupazione” per la situazione in cui versano gli Archivi di Stato ed ha raccomandato che gli stessi siano dotati di ulteriori locali di deposito, per poter riceve i versamenti di documentazione che ora sono bloccati per mancanza di spazio. La Corte d’Appello di Roma vorrebbe riversare all’Archivio di Stato di Roma gli atti della Corte d’assise per gli anni '70 e '80, cioè su terrorismo, delitto Moro, attentato al papa e altre cosucce, ma tutto è bloccato perché non c'è già più posto.

    Eppure l'Agenzia del Demanio ha definito "operazione attendibile" questo trasloco del prezioso Museo Nazionale di Arte Orientale intitolato a Giuseppe Tucci. "Attendibile", per chi? Non si sa visto che negli spazi di Palazzo Brancaccio dispone di oltre 4.800 metri quadrati e che gli stessi sono del Comune di Roma col quale un accordo non dovrebbe essere impossibile. Fra l'altro negli ultimi venticinque anni il Ministero vi ha speso circa 2 milioni di euro per attrezzare i locali di deposito di ben 30.000 pezzi di pregio, ruotati in mostre ed esposizioni permanenti.

    Del resto, il dramma è nazionale: meno del 35% delle sedi di Archivi di Stato e Soprintendenze sono demaniali, le restanti sedi risultano in locazione e i canoni d’affitto ammontano complessivamente a più di 22,5 milioni di euro, pari ad oltre i 4/5 del bilancio dell’Amministrazione archivistica. Una follia pura coi tanti edifici demaniali vuoti o sottoutilizzati esistenti. E vogliamo ripetere qual è la situazione del personale archivistico che oggi dovrebbe poter digitalizzare e rendere fruibili telematicamente un numero grandissimo di documenti? Il numero complessivo degli addetti è crollato dagli 830 del 1998 agli attuali 621 (- 25,4 %, un quarto, spariti). Nessuno di quelli in ruolo ha meno di 37 anni, mentre il 66 % dei funzionari archivisti conta più di 60 anni. Vuol dire che, con questo trend, fra non molto gli archivi dello Stato chiuderanno i battenti per mancanza di personale qualificato. E di tutto il resto. Tranne il patrimonio di secoli di storia. Chiuso chissà dove e infrequentabile. Purtroppo sono fatti tragicamente reali. Ma su giornali e telegiornali non fanno notizia. Bisogna essere tutti ottimisti, proiettati nel futuro. Il passato ai Gufi.

    Coordinamento Nazionale No Triv

    Comunicato stampa
    I sei quesiti referendari contro le trivelle in mare e su terraferma hanno superato indenni l'esame di regolarità della Corte di Cassazione.

    Con due ordinanze adottate il 26 novembre 2015 la Corte di Cassazione ha accolto i sei quesiti referendari così come deliberati dalle Assemblee Regionali di Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise.

    Le ordinanze verranno comunicate al Presidente della Repubblica, al Presidente della Corte Costituzionale ed ai Presidenti delle Camere, e verranno notificate ai delegati dei dieci Consigli Regionali proponenti.

    L'ultimo scoglio da superare sarà l'esame di legittimità costituzionale della Suprema Corte che si pronuncerà entro febbraio 2016.

    I sei "SI'" giungono a coronamento di una lunga fase di impegno per la formulazione dei quesiti e della pressione democratica dal basso esercitata da oltre 200 associazioni italiane. L’abnegazione ed il merito della proposta complessiva hanno consentito di intercettare prima l’unanime consenso della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee elettive regionali e, successivamente, lo storico risultato delle 10 delibere di richiesta referendaria, da parte di altrettanti Consigli regionali.

    Compiuto questo nuovo passo, è giunto dunque il momento di consolidare il risultato ottenuto preparandosi alla costruzione di un sistema di alleanze -il più ampio e trasversale possibile- e di un percorso organizzativo che consenta di portare al voto la maggioranza degli aventi diritto, senza mediazioni con il Governo su un referendum che ha un obiettivo molto chiaro e non emendabile, se non a rischio di stravolgerne e affievolirne senso e scopo.

    La via referendaria è l'unica che possa raggiungere nel breve termine l'obiettivo sia di fermare nuovi progetti petroliferi sia di contenere e ridimensionare il ruolo delle energie fossili nel mix energetico nazionale.

    Ma anche qualora le richieste di modifica normativa in senso No Triv venissero avanzate in buona fede, bisognerebbe tener conto della maggiore efficacia del referendum rispetto a quella, più limitata, dell'abrogazione per via legislativa. I divieti introdotti dal Decreto Prestigiacomo non furono forse rimossi per numerosi progetti petroliferi in mare proprio dall'art. 35 comma 1 del Decreto Sviluppo?

    Quindi, non si persegua la strada della modifica per via legislativa delle norme che, per mezzo del referendum abrogativo, è invece possibile cancellare stabilmente dall'ordinamento.

    Il Referendum non è nella disponibilità del Governo.

    L'Assemblea "Verso il Referendum" dell'8 novembre scorso, rappresentativa delle associazioni vere promotrici del Referendum, ha stabilito in modo unitario ed inequivocabile che nessuno è legittimato a "mediare" o a dialogare con un Governo che più di ogni altro ha dimostrato fredda determinazione nel portare a compimento il contenuto fossile della Strategia Energetica Nazionale e che si appresta ad assestare un colpo mortale al coinvolgimento delle comunità locali e delle Regioni nelle scelte strategiche che determinano il futuro dei territori e del Paese.

    Il Referendum è di tutti e ciò significa che nessuno può disporne oltre la Corte Costituzionale e, ovviamente, i Cittadini.

    Prossima tappa intermedia sarà l'incontro a Roma, il 9 dicembre prossimo, tra i delegati delle Assemblee delle dieci Regioni che hanno deliberato la richiesta di referendum ed i rappresentanti delle associazioni promotrici del Referendum: in quella sede verranno messi a fuoco i principali aspetti organizzativi e discusse le prime soluzioni che dovranno portarci al voto di primavera.

    La strada è tracciata. Adesso tocca percorrerla tutti assieme per arrivare al risultato per anni inseguito: liberare il mare e la terraferma da nuove trivelle ed aprire la strada ad una nuova politica energetica, economica ed ambientale.

    Coordinamento Nazionale No Triv

    Roma, 28 novembre 2015

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