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La Repubblica, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attacco a una professione già fragile.

Ministro, perché ha cancellato le 17 soprintendenze archeologiche?
«Ne ho create 41 nuove: 39 uniche più due speciali (Roma e Pompei). Molti soprintendenti unici saranno archeologi. Ho fatto un’operazione che punta a rafforzare la tutela. E mi offendo quando sento dire che, al contrario, l’ho indebolita. Prima un soprintendente doveva occuparsi di una regione intera. Con la riforma, la Lombardia, per esempio, ha quattro soprintendenze che controllano un territorio più piccolo. E il cittadino che chiede di procedere con un intervento su un palazzo deve fare una sola domanda e aspettare una sola riposta».

Però, con la riforma della pubblica amministrazione e l’introduzione del silenzio assenso, i prefetti hanno più potere in materia di tutela ambientale e paesaggistica…
«Il prefetto ha una funzione di coordinamento delle strutture territoriali dello Stato. Ma non sostituisce il soprintendente in nessun caso. Tutti i contrasti saranno risolti all’interno del ministero. In ogni soprintendenza c’è un responsabile per il patrimonio archeologico, storico e artistico, architettonico, per il paesaggio… Se prima c’erano 17 soprintendenti, oggi per l’archeologia ci sono 39 responsabili».
Insomma, non crede di avere indebolito le soprintendenze?
«Semmai ho provveduto a una razionalizzazione. Nella comunità scientifica, il tema della soprintendenza unica divide. Il dibattito è legittimo, ma poi bisogna scegliere. Operare una sintesi: è quello che cerco di fare. Contemporaneamente alle nuove soprintendenze, nascono nuovi parchi archeologici che avranno statuti e bilanci autonomi e si occuperanno di tutela e valorizzazione. Parlo tra gli altri dei parchi archeologici di Ostia, dell’Appia Antica… finora erano semplici uffici di Roma…».
Sul futuro dell’Appia Antica c’è apprensione. Il 13 febbraio ci sarà una marcia dell’associazione Bianchi Bandinelli per i beni culturali in ricordo di Antonio Cederna…
«Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… non capisco dove sia l’indebolimento. Dal punto di vista della tutela, l’archeologia ne esce rafforzata da questo secondo atto della riforma. Semmai bisognerà essere più attenti agli scavi… ».
E quindi?
«È per questo che faremo nascere un Istituto Centrale di Archeologia del ministero che supporterà le soprintendenze come luogo della ricerca e del coordinamento delle missioni di scavo italiane sul territorio nazionale e all’estero. Per l’archeologia sarà il corrispettivo dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure».
Quali sono i tempi?
«Saranno veloci, lo faremo in fretta. Le preoccupazioni degli archeologi vanno ascoltate».
L’età media del ministero è alta. C’è un sostanziale blocco del turn over. Lei ha avviato l’assunzione di 500 funzionari. Basteranno?
«Basteranno per qualche anno. Il numerò coprirà tutti i posti ora vacanti più quelli occupati da chi andrà in pensione nel 2016. Si ringiovanirà l’età media del ministero. Poi, più avanti, si potrà procedere a un altro concorso. Il dato positivo è che si inizia a capire che sulla cultura si può investire. Il bilancio del 2016 è cresciuto del 27 per cento rispetto all’anno scorso».
C’è una circolare del ministero, diffusa su Internet, che invita i funzionari a non parlare con gli organi di stampa…
«Non l’ho vista. Il dibattito sulla riforma ci deve essere fuori e dentro il ministero. Deve essere libero e mi pare sia così».

Il nuovo disegno di legge sul cinema abolisce le commissioni ministeriali che attribuivano finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale”. I crediti fiscali saranno assegnati in base a “parametri oggettivi” come i risultati economici e il successo in sala. Non si rischia di favorire i progetti di cassetta?

«L’obiettivo è quello di creare un indotto per il Paese: del tax credit hanno usufruito il remake di
Ben Hur, Zoolander, 007. Film che restituiscono l’immagine dell’Italia nel mondo. Il cinema è un’industria. C’è un nuovo interesse intorno a Roma e a Cinecittà. Se un film oggi produce l’effetto che fece Vacanze Romane, ben venga. Poi il 15 per cento del Fondo unico per lo spettacolo sosterrà comunque opere prime e seconde, start-up e piccole sale».
Si è dato una risposta chiara sull’incidente delle statue inscatolate ai Musei Capitolini, durante la visita del presidente iraniano Rouhani? Una commissione doveva accertare l’accaduto: a che punto è?
«Non ho nuovi elementi. L’indagine della commissione interna a Palazzo Chigi evidentemente non è finita. Continuo a dire che ci sono mille modi per non offendere la sensibilità di un leader straniero. Non bisognava certo coprire le sculture classiche».
Quale sarà la sede per la mostra della collezione e per il Museo Torlonia?«È tutto aperto. L’accordo con la famiglia Torlonia è fatto, ma non ancora firmato. C’è un interesse internazionale: si tratta della più grande collezione archeologica di scultura mai vista. La mostra girerà il mondo. Dobbiamo trovare a Roma una sede di grande prestigio».
«Alfano tradisceun timore molto forte rispetto alla possibilità che si celebriquesto referendum e che,con esso, venga spazzata via lafilosofia dello Sblocca Italia checancella il ruolo delle autonomielocali e prevede un modellodi sviluppo basato sul greggio». Articoli di Serena Giannico e Andrea Fabozzi, il manifesto, 4 febbraio 2016 (m.p.r.)
ELECTION DAY. ALFANO DICE «NO». MA NON FINISCE QUI

di Serena Giannico

Un «no» secco, quello di Angelino Alfano: non ci sarà alcun election day che metterà insieme amministrative e referendum anti trivelle. Perché? «Difficoltà tecniche non superabili in via amministrativa: ci vuole una legge apposita». Questo ha affermato il ministro dell'Interno, durante il Question time della Camera, rispondendo a un'interrogazione di Sinistra italiana-Sel, primo firmatario Arturo Scotto.
Ma il Governo non se la caverà così, con una manciata di parole. «Noi infatti chiediamo un decreto legge», ha subito ribattuto il movimento No Triv. E lo stesso Scotto: «Alfano tradisce un timore molto forte che attraversa le stanze di Palazzo Chigi rispetto alla possibilità che si celebri questo referendum e che, con esso, venga spazzata via la filosofia dello Sblocca Italia che cancella il ruolo delle autonomie locali e prevede un modello di sviluppo basato sul greggio, invece che sull’ambiente e le energie rinnovabili...». Quindi il monito: «Ricordo ad Alfano che nel 2011 il suo ex capo Silvio Berlusconi scelse di non unire i referendum sul nucleare e l’acqua pubblica e le elezioni amministrative. E non fu una tornata elettorale fortunata per il centrodestra e vinse il popolo dell’acqua pubblica. I cittadini lo sanno e faranno prevalere il valore della partecipazione democratica a qualsiasi altro interesse o calcolo politico».
È rovente la questione election day. «Il Governo ha il dovere di garantire la più ampia partecipazione dei cittadini al voto e, nell’ottica della razionalizzazione e della riduzione delle spese dettate dalla spending review, ha l'obbligo di risparmiare denaro pubblico. Questi due obiettivi possono essere contemporaneamente centrati abbinando il voto del referendum al primo turno delle amministrative 2016, con un taglio di spesa di oltre 300 milioni di euro che andrebbero invece in fumo nel caso tali consultazioni si svolgessero in giorni diversi». Sono oltre 50 i parlamentari che, sulla faccenda, hanno fatto propria una mozione depositata alla Camera - prima firmataria è la deputata di Sinistra Italiana, Serena Pellegrino, ma è anche presente il Pd con Angelo Capodicasa - e che oggi sarà motivata in un incontro promosso dalla Fondazione UniVerde (presieduta da Alfonso Pecoraro Scanio) e al quale sarà presente il costituzionalista abruzzese Enzo Di Salvatore, autore dei quesiti referendari.
Election day sollecitato anche da Greenpeace con una petizione on line: oltre 55 mila adesioni in due settimane. E mentre il fronte no triv porta avanti la battaglia per la consultazione - il 14 febbraio è prevista, in proposito, un'assemblea nazionale a Roma -, la Corte Costituzionale ha pubblicato le sentenze con le quali, lo scorso 19 gennaio, ha dichiarato ammissibile il referendum.
Con la sentenza 17/2016 la Consulta da l'ok al quesito numero 6 e permette ai cittadini di andare alle urne per evitare che i permessi già accordati ai petrolieri entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la «durata della vita utile del giacimento». Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile concedere permessi di ricerca o sfruttamento. «Il quesito referendario – spiega la Corte - non comporta l'introduzione di una nuova e diversa disciplina, proponendosi un effetto di mera abrogazione al fine di non consentire che vi siano deroghe ulteriori rispetto alla durata dei titoli abilitativi già rilasciati. E - aggiunge - qualora l'effetto del referendum fosse di abrogazione, la salvaguardia ambientale resterebbe comunque oggetto di una apposita disciplina normativa, anche di origine europea».
Con la sentenza 16/2016, invece, la Corte dichiara estinto il giudizio di ammissibilità dei primi cinque quesiti referendari, sulla scia del pronunciamento della Cassazione dello scorso 7 gennaio. Tuttavia, sottolineano i giudici «resta impregiudicata la possibilità» di un «ricorso per conflitto di attribuzione avverso l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum». Circostanza già ben chiara a 6 Consigli regionali (Puglia, Basilicata, Liguria, Marche, Sardegna, Veneto), che, infatti, nei giorni passati hanno depositato presso la Corte Costituzionale proprio due ricorsi per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. In caso di accoglimento, sarebbero ammessi a referendum altri due quesiti sugli idrocarburi, quelli relativi alla proroga dei titoli sulla terraferma e al Piano delle aree. Quest’ultimo obbligherebbe il Governo a rifarsi ad uno strumento di pianificazione delle attività estrattive condiviso con i territori. In caso contrario, l’opinione degli enti locali non avrà voce in capitolo quando toccherà individuare le zone da perforare.
Nelle sentenze della Consulta è finito anche il voltafaccia del presidente della Regione Abruzzo, Luciano D'Alfonso. L'Abruzzo, inizialmente è stata tra le 10 Regioni promotrici del referendum, poi, di fronte alla Consulta, si è schierata contro le altre (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) e con Renzi al fine di evitare, alle multinazionali del greggio di affrontare il giudizio popolare. Dopo aver chiarito che «la Giunta regionale», che ha bypassato e snobbato il Consiglio, «non ha potere rappresentativo in ordine alla proposizione del referendum abrogativo», la Consulta ha respinto tutte «le prospettazioni della difesa dello Stato e della Regione Abruzzo» e ha dichiarato che il quesito sulle trivellazioni in mare «si presenta come unitario ed univoco e possiede i necessari requisiti di chiarezza ed omogeneità». «È proprio quello che avevamo contestato a D'Alfonso e a Lucrezio Paolini, delegato della Regione Abruzzo – commenta Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista -: si sono mossi senza mandato del Consiglio in un'operazione spregiudicata che ha disonorato la regione verde d'Europa. C'è anche da riflettere sul grado di subalternità alla politica di dirigenti e avvocatura che avrebbero dovuto rifiutare la propria disponibilità a questa evidente castroneria. Quella che ha ricevuto D'alfonso è la più autorevole delle pernacchie».
CACCIA ALLA DATA PEGGIORE PUNTANDO SULL'ASTENSIONE

di Andrea Fabozzi
Per quale ragione non potrà esserci l’accorpamento tra il referendum No Triv e le prossime elezioni amministrative Alfano non lo ha davvero spiegato. Rispondendo ieri alla camera all’interrogazione di Sinistra italiana, il ministro dell’interno ha elencato una serie di ostacoli tecnici al cosiddetto «election day», ma ha poi dovuto concludere che questi ostacoli sono superabili e sono infatti già stati superati almeno una volta - nel 2009. In realtà c’è anche un altro precedente, per quanto di diversa natura: il referendum consultivo sull’Europa che si tenne congiuntamente alle elezioni europee del 1989. In quel caso però non era previsto un quorum minimo di partecipanti, anche se l’affluenza risultò molto alta. Mentre nel 2009 malgrado l’accoppiata con le amministrative i referendum - sulla legge elettorale - si fermarono al 24% di affluenza e risultarono non validi.

Alfano nella sua risposta ha ecceduto in cavilli. Ha detto che c’è un problema di costi: quelli delle operazioni referendarie ricadono interamente sullo stato mentre quelli delle elezioni amministrative in parte sui comuni e in caso di accoppiamento non si saprebbe come dividerli. Ha detto che le leggi prevedono quattro scrutatori per le amministrative e solo tre per i referendum. Ha detto anche che non si saprebbe in quale ordine cominciare lo scrutinio - se dai Sì e dai No oppure dai candidati sindaci. Non ha citato, il ministro, l’unico argomento di qualche spessore, e cioè il fatto che nel referendum dov’è previsto un quorum minimo la scelta dell’astensione è scelta politica degna di rispetto e dunque l’accoppiata alle urne può avere un effetto distorsivo.
L’argomento in effetti è complesso, anche se il dibattito tra i costituzionalisti può dirsi confinato all’orizzonte teorico visto il concreto calo di affluenza che accomuna da anni elezioni politiche e amministrative: l’accorpamento non è più garanzia di superamento del quorum. La risposta di Alfano conferma però che il governo ha talmente paura di questo referendum che non rinuncerà a creare ostacoli agli avversari delle trivelle. La preoccupazione è politica, visto che a ottobre Renzi ha deciso di giocarsi tutto su un altro referendum - quello confermativo della revisione costituzionale - e non vuole cominciare l’anno con una sconfitta referendaria.
Per l’«election day» - che secondo Sinistra italiana farebbe risparmiare 300mila euro - servirebbe una legge. E una legge fu fatta da Forza Italia (c’era anche Alfano) nel 2009, in non più di sei giorni netti tra camera e senato. Ma oggi non sono questi i piani del governo. Che magari farà svolgere il referendum nell’ultima domenica utile, il 12 giugno. A un passo dall’estate e tra altre due domeniche elettorali (primo e secondo turno delle amministrative).

l'Italia, dagli anni di Giuseppe Bottai a quelli di Concetto Marchesi e Aldo Moro, fino alla miseria di oggi. Ma non è detto che il fondo sia raggiunto. La Repubblica, 4 febbraio 2016

C’era una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi (Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese), ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di “valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa, secondo il Codice dei Beni Culturali (art.6). Vanto del nostro patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da parte della collettività».

Ma il blocco delle assunzioni ha svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del Ministero. Come in una tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un merito fare e disfare il Ministero con colpi di mano, codicilli in Fianziaria, riforme-missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le decisioni dietro le quinte.

Quando nella legge di stabilità spuntò sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del Ministero», il disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa Direzione Generale), accorpandole con Belle Arti e Paesaggio. Perché, invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci !) è un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani. Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una notte (29 gennaio). Prima spiega che porre i Soprintendenti alla «dipendenza funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il silenzio assenso».

Vano spacciare per innovativi questi accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle Arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il Ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante, visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal Ministero, che la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?

La neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti “super-musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto, gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche ‘globali’ con cui devono misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro archivi e biblioteche sono trasferiti ai Musei? Se vengono sfrattate dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito, condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero distinguere una good company (i musei) e una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?

Segnali contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica (come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali vari punti dello “Sblocca-Italia”. Intanto il Governo capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di sette costituzionalisti (fra cui Zagrebelsky), in prima su questo giornale, è rimasto senza risposta; nè ha detto una sillaba in merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo Mattarella.

Rafforziamo pure i musei, ma il tallone d’Achille della tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da sindaco) ha inveito contro i Soprintendenti («una delle parole più brutte del vocabolario», scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio) dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela. Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta” natalizia, la bad company sarebbe il Governo, non le Soprintendenze.

La Repubblica, blog "Articolo 9", 3 febbraio 2016


Se un provvedimento come questo, firmato ieri l'altro dal soprintendente archeologico di Roma, fosse uscito sotto Bondi ci sarebbe stata la rivoluzione. Ringrazio la Cgil per avermelo fatto conoscere, e lo pubblico qua sotto. ( nostra trascrizione, qui il testo dell’originale in .pdf)

1 febbraio 2016, prot. N. 2208
oggetto: Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.M. 23 dicembre 2015)
In seguito all’adozione del Codice in oggetto, come comunicato via intranet in data 18 gennaio u.s., si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Le modalità di comunicazione agli organi d’informazione (giornali, radio, TV) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al dirigente, per il tramite dell’addetto stampa dr. Luca Del Frà e/o delle strutture istituzionali Ufficio Stampa e Ufficio Comunicazione o, in caso urgente, al Dirigente.
Ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL. in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art.3, comma 8 del codice di comportamento.

Quanto sopra, al ripetersi di quanto recentemente apparso in più occasioni sulla stampa, darà luogo ad azione disciplinare nei confronti del dipendente ritenuto responsabile.
Il Soprintendente
arch. Franco Prosperetti

Questa inaudita circolare vieta ai dipendenti di parlare con la stampa della “deforma” del Ministero per i Beni culturali voluta da Franceschini. Mentre la protesta si fa internazionale, mentre si avvicina lo sciopero, il Ministero non trova nulla di meglio che mettere il bavaglio agli archeologi: sarebbe come se si fosse proibito ai professori universitari di dire la loro sulla (devastante) riforma Berlinguer, o agli insegnanti di parlare della (altrettanto devastante) #buonascuola.

I funzionari delle soprintendenze non sono dei grigi passacarte, né gli impiegati di una multinazionale che deve difendere la sua immagine. Sono, invece, ricercatori al servizio del pubblico interesse: e l'oggetto della loro ricerca è la tutela del patrimonio. La libertà di esprimersi su tutto ciò è dunque garantita dalla Costituzione.

Noi paghiamo lo stipendio (miserabile, peraltro) dei soprintendenti perché difendano il nostro patrimonio dalle pressioni del potere politico e di quello economico. Ora tutto questo viene spazzato via dalla Legge Madia che sottopone i soprintendenti ai prefetti, cioè ai rappresentanti del potere esecutivo. A questo è funzionale la riduzione delle soprintendenze da tre ad una sola: perché una testa si piega, e si taglia, meglio di tre.

Il bavaglio ai soprintendenti è un altro, odioso, passo in questa direzione. Ed è un attacco diretto alla democrazia, e agli interessi dei cittadini: perché mira a far tacere coloro che più e meglio di tutti possono spiegare come e perché la 'deforma' Franceschini uccide la tutela del patrimonio.

Coprire le statue antiche, imbavagliare gli archeologi: c'è del metodo, in questa follia.

In un quartiere ridotto ad anfratti a fondo chiuso da trasformazioni infrastrutturali stradali e ferroviarie mal pensate e peggio gestite, scende in campo la «sicurezza di sinistra», ovviamente identica per superficialità a quella di destra. La Repubblica Milano, 4 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Taglieranno la vegetazione e recinteranno “il bosco della droga”. Chiuderanno con cancelli le vie intorno alla piazza di spaccio dell’eroina più famosa della Lombardia. L’area verrà blindata e il “supermercato della droga” di Rogoredo chiuderà i battenti. Così promette il Comune, che ha già iniziato a fare i primi interventi. Da anni il problema dello spaccio e della microcriminalità nell’area intorno alla ferrovia è stato segnalato dai residenti di Rogoredo e consiglio di Zona 4. Ma, dice Stefano Bianco, presidente del comitato di quartiere Milano Santa Giulia, «il problema riguarda anche chi frequenta metropolitana e stazione, non solo gli abitanti». Già a luglio, durante un sopralluogo dell’assessorato alla Sicurezza con il consiglio di Zona, si era valutato di chiudere con cancelli, nelle ore serali, il sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini di via Rogoredo e tra la zona tra via Sant’Arialdo e Parco Cassinis.

Ma la svolta è arrivata settimana scorsa. È stato messo il primo cancello in via Orwell, in un’area di proprietà di Ferrovie dello Stato. Le chiavi sono state date ai proprietari delle aree agricole a cui si accede passando per quell’ingresso. Poi ne sono stati posti due anche ai lati del sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini. Amsa si occupa di chiuderli di notte e riaprirli di giorno. «Questi cancelli costituiscono un deterrente importante all’ingresso nell’area dei giardinetti e delle proprietà di Ferrovie dello Stato. In questo modo cominciamo a porre un freno alle attività illegali e allo spaccio nella zona», dice Marco Granelli, assessore alla Sicurezza. Nei prossimi mesi, il Comune si occuperà anche del “bosco della droga”. Verranno eliminati gli arbusti per evitare che tossicodipendenti e spacciatori si possano nascondere e verranno messe «altre recinzioni nelle aree a Ovest di via Sant’Arialdo verso San Donato». Ci sarà, infine, anche un maggior presidio delle forze dell’ordine.

postilla

Cancelli e recinzioni, pattuglie di ronda, controlli: il medesimo armamentario della destra, e non certo perché «d'altra parte che soluzione c'è a un problema di ordine pubblico, se non le forze dell'ordine e i loro metodi?». I cosiddetti Bronx, dal nome del quartiere newyorchese reso famigerato dalla «mannaia autostradale» dello zar del lavori pubblici Robert Moses, si costruiscono piuttosto consapevolmente, e volendo si potrebbero altrettanto consapevolmente smontare, reintroducendo in qualche modo il sistema di occhi sulla strada che i budelli a fondo cieco delle grandi linee di trasporto hanno reciso moltiplicando all'infinito nel tessuto urbano sacche di concentrazione del degrado e del rischio. Ma se, invece di competenze urbane e sociali (i «rammendatori di periferie» qui dove sono finiti?) si mobilitano quelle raccogliticce della «sinistra per l'ordine», che scimmiotta malamente la destra usando un linguaggio lievemente meno volgare, si arriva solo alle gabbie: i comitati di quartiere, grati per la soluzione almeno dell'emergenza, premieranno coi loro voti l'assessore con l'elmetto, e dietro le cancellate maturerà la prossima emergenza, il prossimo «pugno di ferro». Amen (f.b.)

La Repubbica online. blog"Articolo 9", 30 gennaio 2016
L'ultimo stadio del razzo del Governo Renzi contro l'articolo 9 della Costituzione ha avuto finalmente l'effetto di far insorgere il popolo del patrimonio culturale. Sit in sotto il Collegio Romano a cui partecipano accademici dei Lincei, assemblee nei musei, appelli preoccupatissimi della comunità nazionale dell'archeologia, dure lettere dei dirigenti interni del Mibact e del comitato tecnico scientifico dello stesso Ministero, articoli di giornale ampi e ben informati: ora Dario Franceschini e la sua 'deforma' del governo del patrimonio è sul banco degli accusati.
Meglio tardi che mai, si dirà: dopo lo Sblocca Italia con suo assalto al territorio, l'asservimento dei musei autonomi al potere discrezionale del ministro, la Legge Madia col silenzio assenso e la letale sottomissione delle soprintendenze ai prefetti. Un vaso di veleni, stracolmo: e ora l'ultima goccia, la soppressione delle soprintendenze archeologiche con la relativa Direzione generale. Venuta di notte, come un ladro: con una normetta nascosta nella legge di stabilità (l'avevo svelata su Repubblica il 21 dicembre). E con questa goccia, il vaso trabocca.

Dell'inaffondabile, spregiudiciato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio. E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda. Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto? Sarebbe una bella pagina istituzionale. Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:

«Una soprintendenza all'arte o all'antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d'essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l'azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d'azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.

«Occorre, quindi, che l'archeologo faccia l'archeologo, l'architetto risarcisca l'architettura lo storico dell'arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l'informazione culturale, altra l'azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».

Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la "deforma" Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.

Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.

Riferimenti

Sull'argomento vedi l'opinione di Maria Pia Guermandi Archeologia e territorio: l'ultima spallata e l'articolo di Tomaso Montanari La tutela sotto mobbing

La Repubblica, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio.

La miccia esplosiva è la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17 soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno 39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica, Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti, farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani. Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600 giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana, «che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato, corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17 soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo».
Per lunedì prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o 6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze.
Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa - ammesso che sia onesta - sospende i lavori, segnala il fatto alla soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia (il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni, altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel 2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una cassaforte di oltre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela dell’area.

Sono i risultati dell’Eurobarometro 2015, un sondaggio tra i cittadini della Ue I trasporti funzionanti e la possibilità di fare sport all’aperto sono considerati decisivi. La qualità della vita non dipende solo dal reddito ma da come sono amministrate le città , dall’istruzione e dal livello d’integrazione. In classifica svetta il Nord, con qualche sorpresa. La Repubblica, 27 febbraio 2016

Non è un paradosso: il sette per cento dei cittadini europei dichiara di essere totalmente felice ma del tutto insoddisfatto della propria vita. Una quota considerevole, rilevata in un Eurobarometro sulla qualità della vita nella Ue. L’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che la felicità è una variabile indipendente. Ma spulciando le tabelle di questo e altri studi più recenti sull’umore dei cittadini europei, è chiaro che ci sono degli aspetti su cui i governi e le amministrazioni locali possono lavorare, per migliorare almeno il grado di soddisfazione delle persone.

La buona notizia, anzitutto, è che gli europei stanno riemergendo più sereni dalla crisi: tra il 2008, l’anno dello scoppio della Grande crisi, e il 2013, il numero di persone contente della propria vita è salito dal 76 all’80%. E la stragrande maggioranza delle persone che vive in città, sostiene uno studio che fa riferimento al 2015, è soddisfatta. In 79 città analizzate, oltre l’80% degli abitanti ci vive volentieri.

Tuttavia i sondaggi rivelano anche che la serenità cala con gli anni. E non è un dettaglio da poco, in Paesi che stanno invecchiando velocemente e in cui si allunga la vita. L’87% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è “abbastanza” o “molto” soddisfatto. Anche qui, tra i dati si annida un dettaglio curioso: in molti Paesi del Nordeuropa c’è un “effetto pensionamento” per cui tra i 65 e i 74 anni la soddisfazione aumenta, rispetto agli ultimi anni lavorativi. Una sensazione che non riguarda, tuttavia, i pensionati italiani, francesi, croati o bulgari, insomma di Paesi dell’Est e del Sudeuropa. Inoltre, dopo i 74 anni la salute “gioca un ruolo essenziale” per il crollo della qualità della vita.

Altro elemento che dovrebbe far riflettere: le più scontente sono le donne over 65 o i genitori soli con figli. Quasi un terzo è insoddisfatto della propria vita. Al contrario, è nelle famiglie con figli che si registra il tasso più alto di persone che si ritengono realizzate. Più prevedibilmente, la serenità è anche proporzionale al reddito e al livello di istruzione. In più, in vetta ai cittadini europei più contenti, ci sono i “soliti” nordici: svedesi, danesi e finlandesi.

Esaminando maggiormente nel dettaglio i dati sulla qualità della vita urbana dell’Unione europea si scoprono cose sorprendenti. La città dove si trova più facilmente lavoro è Praga, poi la rumena Cluj Naroca e Monaco di Baviera. Purtroppo, in fondo alla classifica ci sono tre città italiane: Palermo, Torino e Napoli. E le città italiane sono anche in fondo alla lista delle 79 città sulla tolleranza nei confronti degli stranieri: alla domanda “la presenza di stranieri è positiva per la mia città”, sei sono finite tra le ultime quindici.

L’indagine sulle città mostra che sono generalmente i sindaci del Nordeuropa i più bravi a creare l’ambiente più favorevole ad una vita serena. Le domande riguardano i trasporti pubblici, la possibilità di fare attività all’aperto, la sicurezza, l’educazione, la qualità di strade ed edifici. In cima risultano Oslo, Zurigo e la danese Aalborg; tra le prime dieci, quattro sono tedesche, Amburgo, Lipsia, Rostock e Monaco.

PIÙ FELICI

Corriere della Sera, 24 gennaio 2016


Le pagine di eddyburg, che per primo ha pubblicato la lettera, sono aperte al dibattito: eddyburg@tin.it

Italia Nostra in profonda crisi, generazionale e identitaria. Tutto è partito dalla lettera di dimissioni dal Consiglio nazionale presentata da Tomaso Montanari, giovane critico e storico dell’arte: «L’attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato una frattura con l’ispirazione più autentica dell’associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente». Montanari accusa il vertice nazionale (non le sezioni locali) e il presidente Marco Parini, eletto nel settembre 2012, di aver capovolto la scala di valori: «La “valorizzazione” è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito». Con la conseguenza, sostiene Montanari, di un «crescente interesse» di Italia Nostra per la gestione dei beni che rischierebbe di trasformarla «in una sbiadita fotocopia del Fai».

Desideria Pasolini dall’Onda e Nicola Caracciolo di Castagneto, presidenti onorari eletti all’unanimità, hanno chiesto a Parini di «adoperarsi perché il Direttivo dell’associazione respinga le dimissioni di Montanari, una delle figure più marcanti di una nuova generazione di ambienta-listi. Perderlo sarebbe un errore». Una dura lettera di sostegno a Montanari (firmata da Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Rita Paris) chiede le dimissioni del presidente e della dirigenza accusati «di equiparare la pubblica tutela alla privata valorizzazione». Solidarietà a Montanari dalle sezioni di Tivoli, Ferrara, Caserta, Vasto, Forlì. Anche la consigliera nazionale Maria Pia Guermandi sta riflettendo su possibili dimissioni.

Invece protesta il presidente della sezione di Firenze, il professor Leonardo Rombai: «Supina accettazione delle parole d’ordine del potere? Non mi riconosco affatto in questa accusa ingenerosa, e non si riconosceranno i nostri iscritti. Siamo in tanti a batterci per il nostro patrimonio». Ma è soprattutto Parini a replicare, con una missiva ai due presidenti onorari. Il presidente rivendica «una linea programmatica in continuità con il triennio precedente, l’incremento delle azioni giudiziarie anche penali, un confronto senza sconti con le istituzioni, per esempio la prima iniziativa contro il decreto sblocca Italia e le battaglie sul paesaggio e contro l’eolico selvaggio». Ma Parini ribatte soprattutto all’accusa di voler privilegiare la gestione-valorizzazione dei beni citando l’articolo 1 dello statuto del 1955 («concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico e naturale della Nazione») e l’articolo 3 («promuovere l’acquisto di edifici o proprietà in genere, di valore storico artistico, o assicurarne la tutela ed eventualmente anche la gestione»). Ricorda il successo di iniziative ormai radicate nel tempo «come il Boscoincittà, il museo nel Porto Vecchio di Trieste, il parco gestito dalla sezione di Reggio Calabria, il museo all’Isola di Caprera, la recente concessione dell’Eremo di Santo Spirito in Abruzzo».

Parini contesta a Montanari il voler rifiutare ciò che Italia Nostra fa da quarant’anni. Così come rispedisce al mittente l’obiezione sulla correttezza del principio per cui il meccanismo del volontariato può generare posti di lavoro nell’indotto (così come avviene, va detto per inciso e per completezza, in Gran Bretagna proprio grazie al National Trust).

Parini ritiene dunque concluso l’incidente: dopo le irrevocabili dimissioni di Montanari, scrive Parini, «il Direttivo nazionale del 16 gennaio ha preso atto e ha invitato l’architetto Luigi De Falco, che ha accettato, a subentrargli». La storia, c’è da giurarci, non finirà qui.

Indire a Roma le primarie per il candidato sindaco sarebbe per il PD un grave errore, dopo aver calpestato le scelte dei cittadini e aver cacciato il sindaco eletto a grande maggioranze con il pesante atto di prevaricazione compiuto nei confronti del consiglio comunale. La Repubblica, 22 gennaio 2016

Caro Direttore, le primarie sono uno straordinario strumento di partecipazione e di democrazia. Io stesso vi ho preso parte per ben due volte: nel 2009 contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, per la carica di segretario del Pd, e nel 2013, quando venni scelto come candidato sindaco di Roma, staccando di quasi 30 punti David Sassoli e di 40 Paolo Gentiloni. A quelle consultazioni, avvenute meno di tre anni fa, parteciparono più di 100 mila romani, che mi scelsero con oltre il 55% dei voti. Immediatamente dopo mi dimisi da senatore per correre senza alcun paracadute.

Ma le primarie hanno un senso a patto che chi le propone e chi vi partecipa ne rispetti il valore e poi l’esito. Se si calpesta la scelta dei cittadini, com’è successo a Roma, si svuota il significato stesso di quelle consultazioni. Per questo ho trovato sconcertante la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di indire nonostante tutto le primarie per la candidatura a sindaco di Roma. Mi chiedo come possa Renzi non vedere il danno arrecato al Pd e all’istituto stesso delle primarie dalle sue decisioni e pensare di andare avanti come se niente fosse. Non capisco come ritenga credibile chiedere alle elettrici e agli elettori romani di sacrificare una domenica mattina, mettersi in coda, versare i due euro e indicare il nome del proprio candidato sindaco, dopo che egli ha eliminato con un atto di forza chi quelle primarie aveva vinto l’ultima volta.

Il Presidente del Consiglio non si rende conto che con la sua interferenza sull’Amministrazione cittadina, interferenza che in altri casi egli stesso ha definito inaccettabile perché “il sindaco lo eleggono i cittadini”, ha reso le primarie, almeno a Roma, un rottame inutilizzabile. Convocando gli assessori della Giunta nella sede del Partito Democratico per imporgli di dimettersi e costringendo tutti i consiglieri comunali del Partito Democratico ad allearsi con la destra e a rimettere in blocco il mandato da un notaio, con il solo scopo di provocare la caduta del sindaco, Renzi e chi lo rappresenta a Roma hanno violato l’etica di una sana politica e il rapporto di fiducia fra il Pd e i suoi sostenitori, che il 7 aprile 2013 affidarono a me l’onore di candidarmi alle elezioni che poi vinsi con il 64% dei voti.

Rotto quel patto, le primarie non hanno più alcun valore, perché il loro esito può essere capovolto per ordine del vertice del partito. Dirò di più: il Pd a Roma non dovrebbe nemmeno partecipare con il proprio simbolo alle elezioni amministrative del 2016. Troppo lacerante è stata l’eliminazione del sindaco scelto dagli elettori, troppo contraddittori i comportamenti e le dichiarazioni dei vertici del Pd, troppo pretestuose e in malafede le giustificazioni. Troppo evidente l’inganno perpetrato ai danni delle cittadine e dei cittadini di Roma, troppo lampanti i benefici delle lobby e dei potentati. Eliminando il sindaco, i consiglieri del Pd hanno eseguito un ordine del capo, e forse qualcuno ne beneficerà personalmente, ma hanno destinato il Pd alla dannazione politica.

Almeno a Roma, almeno per questa tornata elettorale, oggi il Pd è ormai diventato il problema e non la soluzione. Non a caso, si susseguono in questi giorni indiscrezioni su candidati del Partito Democratico alle primarie romane. Molte persone si sono rifiutate. Il vicepresidente della Camera dei Deputati, con le spalle coperte dal suo ruolo di garanzia istituzionale, ha alla fine ceduto ed ha dato, seppur malvolentieri, la propria disponibilità. Ma non lascerà il suo incarico parlamentare, a riprova che non ci crede nemmeno lui fino in fondo, perché è facile candidarsi quando si ha un paracadute d’oro sulle spalle.

Non sorprende tuttavia che nessun esponente di spicco del Pd abbia finora accettato la sfida. Candidarsi per ordine di Renzi significherebbe accettare una logica secondo cui, in caso di vittoria, a governare Roma sarà il capo del partito e del governo, mentre il sindaco sarà ridotto a una sorta di commissario esecutore.

Con la sua sciagurata gestione, la credibilità del Pd romano ha subito e inferto un grave danno: la pretesa di giocare un ruolo da protagonista in questa fase non è oggettivamente credibile.
Ma il partito ha ancora margini per dare un contributo, se avrà il coraggio e l’onestà di ammettere il grave abuso commesso e di compiere un gesto di serietà, umiltà e di lungimiranza. Solo così potrà aiutare le forze civiche di Roma a trovare la motivazione necessaria per dire no all’avanzata del Movimento 5 Stelle che si propone come raccoglitore del malcontento e della protesta, ma che appare privo, almeno per ora, di un candidato.

Per concludere, caro Direttore, molti in queste settimane mi hanno chiesto cosa farò io. Posso solo dire cosa non farò, e cioè: non parteciperò alle primarie del Partito Democratico.

La lettera di dimissioni di Tomaso Montanari da Italia nostra: una lunga e argomentata accusa al gruppo dirigente:«Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige». Con una nostra premessa.



Premessa

Italia nostra, è diventata subalterna al peggiore governo e al peggiore parlamento che il nostro paese abbia conosciuto dal 1945 a oggi? Parrebbe di sì, secondo l’argomentata denuncia di Tomaso Montanari, membro del consiglio direttivo nazionale, che ha inviato all’attuale presidente e a tutti i Soci – fra i quali chi scrive - una nobile lettera di dimissioni. La lettera di Montanari, che pubblichiamo di seguito, denuncia una clamorosa inversione di marcia dell’associazione, e in particolare al suo livello nazionale.

Ricordiamo ai nostri lettori che la prestigiosa associazione protezionista, nata nel 1955 per iniziativa di autorevoli personaggi della più illuminata intellettualità italiana (quali Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani) e le sue sezioni sparse su tutto il territorio nazionale ha tenacemente lavorato per 60 anni per la difesa del patrimonio culturale e per la diffusione di una cultura di massa volta alla tutela della bellezza dei nostri territori.

Memorabili battaglie combattute in ogni regione e grandi campagne nazionali hanno contribuito a salvare decine di luoghi di straordinaria qualità archeologica, artistica, storica, ambientale. È stata la prima associazione proto-ambientalista a comprendere che le pietre e i paesaggi, le biblioteche e i musei non si salvano senza l’attivo impegno del maggior numero di persone, e che la pianificazione urbanistica è uno strumento essenziale per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.

Per tutti i governi e i parlamenti Italia Nostra è stata uno stimolo e una sentinella: pronti a collaborare con i membri dell’esecutivo e del legislativo, quando governi e parlamenti esprimevano interessi coerenti con quelli dell’associazione, tempestivi nel criticare con severità e rigore ogni volta che gli atti del governo o del parlamento minacciavano i valori e i principi dell’associazione.

Secondo Tomaso Montanari – noto ai frequentatori di questo sito e a un pubblico molto più vasto per i suoi numerosi scritti in difesa della bellezza, della memoria e della democrazia – la dirigenza dell’associazione, e in particolare l’attuale presidente Marco Parini – avrebbero radicalmente rovesciato il pluridecennale atteggiamento politico- culturale di Italia Nostra. Mentre numerose sezioni proseguono la loro azione di vigilanza, critica e proposta nella scia del comportamento di sempre – il livello nazionale, mentre tace sulle più gravi lesioni alla tutela del territorio operate dal governo Renzi e dal suo parlamento, arriva al punto di avallare talune delle scelte più nefaste, come quella di indebolire gli organi statali di studio, vigilanza e governo dei beni culturali, di procedere nella strada criminosa delle privatizzazioni e così via. Ma è il caso di dare la parola direttamente a Montanari, cui speriamo seguirà un ampio dibattito, di cui cercheremo di dar conto puntualmente.

Dopo l’allineamento dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica) agli indirizzi di politica della città e del territorio peculiari all’ideologia e alla prassi del renzismo e ben rappresentati da Maurizio Lupi ed Ermete Realacci, il cambiamento di fronte di Italia nostra sarebbe una perdita gravissima. È necessario invertire la rotta. Ciò è possibile solo attraverso un dibattito trasparente e aperto, al quale partecipino in primo luogo i soci e le sezioni dell’associazione. Cercheremo di darne conto nel migliore modo possibile (e.s.)

La lettera di Tomaso Montanari

Cari soci di Italia Nostra,

è con grande tristezza che vi scrivo per comunicarvi che mi sono appena, irrevocabilmente, dimesso dal Consiglio Nazionale dell'Associazione.

Ho accettato di candidarmi rispondendo all'appello di alcuni amici – tra i quali voglio nominare solo Giovanni Losavio, indimenticato presidente –, profondamente preoccupati per la frattura che l'attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato con l'ispirazione più autentica dell'Associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Questa frattura è, in effetti, innegabile: mentre moltissime delle sezioni conservano intatto quello spirito, e lottano quotidianamente perché siano attuati i valori dell'articolo 9 della Costituzione, Italia Nostra nazionale è caduta in un letargo profondo. Non c'è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c'è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d'ordine del potere vigente.

Ho sempre pensato che il faro dell'Associazione dovesse essere una celebre frase del suo presidente Giorgio Bassani, per cui Italia Nostra opera perché un giorno non ci sia più bisogno di Italia Nostra. Quando ho citato questa bussola, mi è stato risposto che si tratta di un programma superato, anzi sbagliato. Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige.

Sono fermamente convinto che tra l'attuale dirigenza e i padri fondatori c'è la stessa distanza che separa Matteo Renzi da Alcide De Gasperi, o Maria Elena Boschi da Piero Calamandrei. Parlare, o carteggiare, con i membri della Giunta Esecutiva equivale a farlo con il ministro Franceschini: la 'valorizzazione' è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito. Questa mutazione della scala valoriale e il crescente interesse di Italia Nostra per la gestione diretta del patrimonio culturale (con tutte le servitù politiche e gli interessi che ciò comporta) mostrano che l'Associazione si avvia a diventare una fotocopia (peraltro sbiadita e subalterna) del Fai.

Nella feroce battaglia che infuria intorno al progetto costituzionale sul patrimonio – una battaglia che ho provato a descrivere in alcuni miei libri, come Le pietre e il popolo e Privati del patrimonio – Italia Nostra si trova spesso a combattere da quella che io giudico la parte sbagliata del fronte. Il rifiuto di ricorrere contro la ricostruzione illegale e abusiva di Città della Scienza a Bagnoli è forse il più terribilmente concreto tra i segni di quella che io giudico una gravissima involuzione.

Sapevo tutto questo prima di entrare nel Consiglio Nazionale: ed è anzi proprio per tentare di cambiare questo stato di cose che ho accettato di candidarmi.

Quello che non conoscevo è il punto a cui è arrivata la determinazione della maggioranza del Consiglio ad avanzare in questa direzione. Ogni tentativo di proporre un'agenda valoriale diversa viene respinto in base ad un unico, brutale argomento: la forza dei numeri in consiglio – quasi si volesse scimmiotare la retorica muscolare della maggioranza 'che tira diritto', drammaticamente invalsa in Parlamento. Questa radicale indisponibilità ad ogni correzione di rotta si accompagna ad un dibattito di qualità intellettuale e culturale oggettivamente infima, e ad una violenza verbale sorprendentemente alta. Credo che sia meglio non entrare in dettaglio, ma se qualcuno fosse interessato a comprendere su cosa si fondi un giudizio così netto, sono disponibile a far conoscere il ricco carteggio di insulti da me ricevuto in questi mesi.

In queste deprecabili e deprimenti condizioni la mia presenza nel Consiglio Nazionale di Italia Nostra non ha alcuna prospettiva utile. Continuo invece a credere nel lavoro splendido di molte sezioni, e spero che anche queste mie dimissioni possano spingere i soci – e non solo le centinaia che mi hanno votato, e che ringrazio – a condurre finalmente una battaglia che riallinei la dirigenza nazionale ai valori sani di quelle stesse sezioni.

Queste precoci, e assai sofferte, dimissioni si devono al fatto che una simile battaglia non ha, nell'attuale consiglio nazionale, alcuna prospettiva di successo. Ammiro gli amici che scelgono di rimanere, per dare testimonianza e svolgere una indispensabile funzione di controllo. E so che chi prenderà il mio posto in Consiglio avrà occhi e voce perfettamente adeguati. Ma credo che ora sia, invece, mio dovere non sottrarre ulteriori energie alla battaglia per il patrimonio culturale e per la sua funzione costituzionale.

Continuerò ad appoggiare in ogni modo il lavoro delle sezioni che operano secondo il cuore antico, e attualissimo, di Italia Nostra.

Questo inverno, ne sono sicuro, passerà: viva Italia Nostra!

Tomaso Montanari, 14 gennaio 2016

«Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. La prima parte del discorso è certamente vera». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 21 gennaio 2016

Il mobbing è un persistente comportamento aggressivo, di natura psicofisica e verbale messo in atto dal datore di lavoro, o dal 'capo', contro un dipendente. Cioè esattamente quello che Dario Franceschini sta facendo con il personale tecnico-scientifico del suo ministero.

Come altro definire, se non mobbing, l'incomprensibile decisione di tornare – dopo pochi mesi – a riformare radicalmente la struttura centrale e periferica del Ministero, negando e sovvertendo i capisaldi della precedente riforma e gettando nello sconforto e nell'avvilimento le donne e gli uomini che difendono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione?

A questo giro si sopprimono – con l'assenso inquietante e vergognoso del Consiglio Superiore dei Beni culturali – le soprintendenze archeologiche e la direzione centrale per l'archeologia, e si passa a soprintendenze uniche. Olistiche, come ama chiamarle qualche ciarliero cialtrone.

Intendiamoci: le soprintendenze uniche potevano avere un senso. Ma dovevano essere un obiettivo fin dall'inizio: non un aggiustamento maldestro fatto in corso d'opera e a costo zero. Si dovevano accompagnare a direzioni generali divise per funzione, e dovevano essere guidate a rotazione da funzionari dalla diversa competenza, e non affidate agli evanescenti ectoplasmi interdisciplinari che ora si vagheggiano, e che rischiano di essere i leggendari managers del patrimonio. Senza contare il vero e proprio caos che questa riforma della riforma provoca mescolando le competenze di soprintendenze, poli museali, segretariati regionali...

Una delle vere ragioni di questa imbarazzante contorsione è recuperare posti dirigenziali per creare altri dieci musei e siti archeologici autonomi. Carne da valorizzazione, da rimettere presto a bando internazionale: per avere altri dieci fedeli terminali del potere politico. Con quali conseguenze? C'è, per esempio, da scommettere che vedremo presto l'Appia Antica consegnata armi e bagagli ad Autostrade.

Si riesce ad intravedere un fine più generale, in tutto questo caos? Le premesse delle bozze dei decreti dicono ufficialmente che tutto ciò servirebbe a evitare le conseguenze del silenzio assenso: che non è una pestilenza o un terremoto, ma una norma introdotta dallo stesso governo Renzi. A voce, poi, Franceschini dice che è un modo di arginare i danni della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture: che è un'altra mostruosa disposizione della Legge Madia.

Che, invece, il fine sia quello di portare a termine la distruzione dell'apparato della tutela lo dimostra il fatto che ora passano agli istituti della valorizzazione (i musei autonomi) anche gli immobili in cui essi hanno sede: e pazienza se li condividono con le soprintendenze (si veda ad esempio il caso di Villa Giulia a Roma, dove convivono soprintendenza e museo). E non basta: si impone anche "il trasferimento [ai musei] di uffici, archivi, biblioteche, laboratori, spazi espositivi e depositi dei relativi musei e luoghi della cultura", fingendo di non sapere che tali strutture sono (erano) comuni a Soprintendenze e musei prima della riforma. E la Soprintendenza senza laboratori, biblioteche ed archivi, come lavora? Non lavora: et hoc erat in votis.

Non basta ancora. Si dispone anche che "con riguardo ai musei, alle aree e ai parchi archeologici, la consegna dei reperti presenti nei depositi e non ancora inventariati può essere differita a non oltre il 31 dicembre 2016, al fine di completare l'inventariazione; decorso tale termine, i beni sono trasferiti ai musei dotati di autonomia speciale o ai poli museali regionali e la relativa attività di inventariazione è svolta da detti istituti in cooperazione con le Soprintendenze competenti". Chi ha scritto questa norma davvero non è mai entrato in una soprintendenza o in un museo, e non ne ha mai visto le condizioni. Chi potrà mai inventariare e studiare entro il 31 dicembre 2016 le migliaia di cassette di materiali rinvenienti da scavo? E con quali risorse? E questi materiali a cosa servono nei musei? Il loro studio e la loro conoscenza servono alle soprintendenze per capire il territorio e costruire le carte del rischio archeologico. O meglio: servivano...

Sta di fatto che per ritrovare una paragonabile contrazione della tutela si deve tornare alla legge del 1923, che istituiva soprintendenze uniche: un assetto che dette pessimi risultati, e che fu radicalmente rivisto contestualmente alla legge del 1939. Per trovare, invece, la sottomissione dei soprintendenti ai prefetti bisogna risalire al 1860: cioè al caos immediatamente successivo all'Unità, poi velocemente superato perché fatale per la tutela.

In privato, Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale.

La Repubblica, 120gennaio 2016

Un nuovo scossone agita le acque dei Beni culturali. Pochi mesi dopo una complessa riorganizzazione di soprintendenze e musei, ecco che le prime vengono ulteriormente accorpate, inglobando, insieme al paesaggio e alle belle arti, l’archeologia, mentre altri dieci luoghi del nostro patrimonio diventano autonomi e per loro sono in arrivo direttori selezionati con bando internazionale, come avvenne per gli Uffizi o Capodimonte nell’agosto scorso.

La decisione maturava da qualche tempo, ma per molti dentro il ministero è stato un colpo a sorpresa. Quando infatti si decise di unificare paesaggio e belle arti in un’unica soprintendenza, nell’estate del 2014, al ministero sottolinearono che l’archeologia restava autonoma per le specifiche competenze che comportava la tutela delle antichità. Ora però Dario Franceschini sottolinea la continuità con le scelte di allora, scelte che hanno prodotto già un faticoso adattamento degli uffici. Per il ministro, le nuove soprintendenze servono a «rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione». In Italia ci saranno dunque 39 soprintendenze (erano 17 le sole archeologiche), più le due speciali di Roma e Pompei. E tutte si occuperanno di tutto. Ogni soprintendenza verrà articolata in sette aree funzionali (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Verrà abolita anche la Direzione generale delle Antichità. Il ministro insiste sul fatto che le nuove strutture «parleranno con voce unica a cittadini e imprese, riducendo tempi e costi burocratici». Il pensiero di Franceschini sembra andare alle conferenze di servizio e alle altre occasioni in cui si autorizzano opere anche di pesante impatto su territori e paesaggi. Ma il timore del fronte ambientalista è che si voglia abbassare ulteriormente la soglia della tutela.

L’altra parte del provvedimento riguarda quattro aree archeologiche (l’Appia Antica, i Campi Flegrei, Ercolano e Ostia Antica) e poi il complesso monumentale della Pilotta a Parma (con la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il museo archeologico), i musei dell’Eur a Roma (Pigorini, Arti e tradizioni popolari e Alto Medioevo), e, sempre a Roma, il Museo Nazionale Romano, il Museo di Villa Giulia, Villa Adria a e Villa d’Este a Tivoli e il Castello di Miramare a Trieste. Dieci pezzi pregiati del nostro patrimonio che si pensa, con l’autonomia e direttori scelti in seguito a un bando pubblico, di valorizzare meglio. Che cosa questo significhi, ad esempio, per l’Appia Antica lo si capirà quando il provvedimento del ministero sarà disponibile: è un territorio vastissimo, 3.500 ettari, al quale si accede senza biglietto, con monumenti splendidi (da Villa dei Quintili alla Tomba di Cecilia Metella), ma quasi integralmente di proprietà privata, con gravi fenomeni di abusivismo e dove, finora, la soprintendenza archeologica ha faticosamente operato un’efficacissima tutela. Alla stessa soprintendenza romana vengono sottratti il Museo Nazionale, che comprende Palazzo Massimo, le Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps e Crypta Balbi, e gli scavi di Ostia Antica, la cui tutela passa a una delle tre soprintendenze del Lazio. Uno spacchettamento. Diventa autonoma anche Ercolano, che si separa da Pompei rompendo l’unitarietà dell’area archeologica vesuviana.

Firenze centro storico: un primo passo, finalmente, nella direzione giusta, oppure l'ennesimo tweet truffapopolo? Lo vedremo dai successivi passi necessari, tutti elencati nell'articolo. La Repubblica, 19 gennaio 2016

IL cosiddetto “regolamento Unesco” varato dal sindaco di Firenze Dario Nardella può essere un passo importante nella direzione giusta: quella che restituisce le città d’arte ai loro cittadini, mantenendo le comunità ancorate alle loro meravigliose pietre. Questo insieme di regole colpisce quella che si potrebbe chiamare la “gentrificazione dal basso”: e cioè il proliferare di minuscole attività economiche seriali e senza nessi con il contesto, catene dell’anonimato urbano che privano i centri storici di ogni identità.

Il principio che ne sta alla base trascende di molto il peso del provvedimento stesso. Perché si ha il coraggio di dire che il mercato non è il regolatore ultimo della qualità delle nostre vite: si ha la forza di mettere in discussione il dogma della concorrenza come fine, e si torna a parlare di regole.

Ora, perché questo passo non resti isolato e perché tutto questo non si riduca ad una maramaldesca esibizione di forza contro i deboli (questi esercizi commerciali sono infatti per lo più tenuti da immigrati), bisogna che lo stesso principio sia applicato verso l’alto. Non solo a Firenze, l’espulsione dei residenti dal centro storico è infatti assai più legata alla “gentrificazione dall’alto”, cioè alla disneyficazione: i palazzi pubblici (improvvidamente svenduti dal comune) che si trasformano in alberghi di lusso, la proliferazione di vendite di costosi prodotti tipici al posto dei negozi di quartiere, l’assenza di sostegni alla produzione culturale, l’indisponibilità verso ogni gestione dal basso dei beni comuni, la contrazione dello spazio pubblico. Se Nardella e gli altri sindaci saranno capaci di imporre anche contro interessi ben altrimenti forti la stessa linea — quella per cui il mercato non può dire l’ultima parola — allora le cose cambieranno sul serio.

In una delle nostre più antiche costituzioni — il Costituto di Siena, del 1309 — si legge che i governanti devono «preoccuparsi della belleza della città, perché dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini». Questo è il punto: attrarre un turismo di qualità è un obiettivo fondamentale, ma non si può perseguirlo senza costruire la felicità dei cittadini, e non solo di quelli ricchi.

È la lezione di una lunga storia in cui bellezza è stata sinonimo di giustizia: una lezione ancora carica di futuro.

Alcuni spunti emersi dalle discussioni di studiosi professionisti cittadini, su un tema strategico che probabilmente è rimasto piuttosto sottotono rispetto alla sua importanza nell'ultima amministrazione, vuoi per consapevoli scelte tattiche, vuoi per sottovalutazione


Il giorno 16 gennaio 2016, l’Associazione Architectural & Urban Forum (*) ha inviato una lista di 10 domande ai candidati alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano (Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala), per meglio conoscere i rispettivi programmi, con riferimento a temi urbanistici e territoriali cruciali per la città.

1. Modello di crescita della città
Negli ultimi 5 anni, la popolazione residente nel comune di Milano si è sostanzialmente mantenuta costante intorno a 1,3 milioni di abitanti, ben inferiore al picco di abitanti di oltre 1,7 milioni degli anni Settanta. Nonostante questi dati, durante le ultime due giunte si è costruito molto, dotando la città di una grande quantità di nuove volumetrie, anche grazie all’attrazione di capitali stranieri (Stati Uniti, Qatar, ecc.), molte delle quali sono rimaste inutilizzate a causa di una domanda non certo pressante in questi ultimi anni di crisi. Parallelamente a questo trend, un grande numero di migranti, spesso con modestissime possibilità, si sta dirigendo in Italia e in Europa, anche a causa di vicende tragiche in paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Rispetto a questo quadro, se eletto sindaco che idea di sviluppo urbano ha in mente per impostare le politiche urbanistiche della città? Quale sarà la condotta della giunta in merito all’attrazione e all’ospitalità di nuovi abitanti? E all’attrazione di capitali stranieri? Quale orientamento in tema di edilizia residenziale pubblica? Con quali ricadute sulle comunità già attualmente insediate? Verso quale Milano tenderemo? Che progetto di città ha in mente?
2. Città metropolitana
I confini comunali non coincidono con l’area urbanizzata del milanese, ben più vasta e comprendente oltre 4 milioni di abitanti. Con riferimento alla ex Provincia di Milano, i dati relativi alla popolazione sono peraltro in linea con quanto verificatosi entro i confini comunali. Se eletto sindaco, come cercherà di interessare gli altri comuni facenti parte della Città metropolitana rispetto alle politiche urbanistiche milanesi? Come cercherà di superare dal punto di vista amministrativo e tecnico l’annoso problema di divisione delle competenze e di coordinamento delle autonomie locali? Data la rilevanza del problema e la complessità dei rapporti, non ritiene indispensabile che vi sia un assessore dedicato? Intenderà cambiare in questa prospettiva il PGT, oltre ovviamente a coordinarlo e promuovere coordinamento (su che linee di forza?) con le altre circoscrizioni, magari costruendo un modello di riferimento almeno dal punto di vista del metodo?

3. Visione infrastrutturale
La città è servita da tre aeroporti, la cui integrazione dal punto di vista gestionale è stata oggetto di recenti studi affidati all’Università di Bergamo. La nostra associazione aveva proposto nel 2010 una metropolitana Triangle-Line che, in sopraelevazione sulla tangenziale Est e sul tratto urbano dell’autostrada Venezia-Torino, collegasse Linate con Sesto San Giovanni (aree Falck e direzione Orio al Serio) e Rho-Pero (area Expo e direzione Malpensa) senza gravitare sul centro cittadino. Nel frattempo la linea 4 della metropolitana è in costruzione, la linea 5 è stata inaugurata e i lavori proseguono. Come considera il trasporto metropolitano interrato e come il Comune dovrebbe essere coinvolto nella costruzione di nuove linee? Se eletto sindaco, che intenzioni ha rispetto alla Circle-Line più volte proposta sull’anello del ferro milanese? Quali altri eventuali linee si impegna a promuovere? In che modo intenderà mettere in sinergia i tre aeroporti, sia dal punto di vista amministrativo sia dal punto di vista dell’accessibilità? Come queste scelte si coordinano con il sistema ferroviario e con la mobilità privata su gomma? Che intenzioni ha in tema di secondo passante ferroviario? Cosa pensa del proliferare di tratti autostradali costruiti o in costruzione nell’intorno milanese (Brebemi, Pedemontana, Tangenziale Esterna di Milano)?

4. Mobilità
Se eletto sindaco, confermerà l’attuale perimetro dell’Area C? Si impegnerà per allargarla? Quali azioni intraprenderà per potenziare il sistema di vie ciclabili e l’uso della bicicletta? Cosa pensa del car sharing e come crede che il Comune debba esserne coinvolto?

5. Inquinamento atmosferico
Legambiente riporta che le grandi fonti di inquinamento atmosferico sono il traffico veicolare, il settore industriale in particolare per la produzione di energia e il riscaldamento. Se eletto sindaco, quali azioni intraprenderà per limitare le emissioni con particolare riferimento a: traffico automobilistico, produzione di energia, riscaldamento? Come pensa di contribuire a queste limitazioni tramite l’urbanistica e con quali specifiche scelte?

6. Piano delle acque
Recenti fatti hanno dimostrato la fragilità dell’idrografia milanese. Se eletto sindaco, quali interventi strutturali attuerà per salvaguardare la popolazione da esondazioni? E con specifico riferimento al fiume Seveso? E al fiume Lambro? Cosa ne pensa della riapertura dei navigli, che ogni tanto torna alla ribalta, forse un po’ anacronisticamente? Per quanto riguarda la depurazione delle acque reflue urbane, come considera l’attuale sistema in essere e quali potenziamenti ritiene necessari? Come si interfaccerà con gli altri enti locali sovracomunali? E in particolare, quale ruolo pensa al riguardo per la città metropolitana?

7. Piano del riuso
L’enorme numero di appartamenti sfitti e immobili abbandonati impone una presa di posizione da parte del Comune in materia del riuso. Se eletto sindaco, come strutturerebbe un innovativo “Piano del riuso”? Come attuerebbe un censimento di unità e immobili sfitti, pubblici e privati? Come ha intenzione di utilizzare questo enorme patrimonio per le necessità abitative di classi deboli e di migranti? Per le necessità di posti di lavoro a buon mercato per giovani, precari e disoccupati? Per dotare la città di spazi per la cultura, associazionismo, formazione, culto?
Consideriamo un caso specifico: uno degli edifici emblematici dell’architettura milanese del ‘900, l’Istituto Marchiondi-Spagliardi progettato da Vittoriano Viganò, versa in pessime condizioni di conservazione e i suoi spazi sono per la maggior parte abbandonati. Se eletto sindaco, si impegna a mantenere la proprietà comunale dell’edificio? Che destinazione prevede per esso? Che tipo di gestione e con quali soggetti sarebbe auspicabile?

8. Trasformazione delle aree urbane
L’attuale giunta non ha portato a termine la definizione dei criteri di trasformazione degli scali ferroviari milanesi, oltre un milione di mq. Se eletto sindaco, quale indice territoriale ritiene adeguato per queste aree (proposta attuale giunta 0,65 mq/mq, precedenti giunte 1 mq/mq)? Sfrutterebbe la perequazione per trasferire parte del volume? Quanti mq di spazi pubblici per abitante? Di questi, quanti reperiti in loco? Di questi, quanti mq di servizi di quartiere? Non ritiene il sindaco che la questione degli scali ferroviari (oggi degradata a mero incidente di percorso in Consiglio) non sia una questione di livello nazionale, essendo Milano il vero nodo di accessibilità all’intero Paese?
Per quanto riguarda le aree militari, se eletto sindaco che tipo di accordo promuoverà? In quale sinergia con la trasformazione degli scali ferroviari? Che indirizzo intende elaborare per l’area dell’Ippodromo del Trotto? Per il Giardino dei Giusti? Per la nuova grande Moschea, anche in rapporto con luoghi di culto più piccoli? Per un eventuale vero grande Palazzo dello Sport? Per il Polo ospedaliero? Per un parco scientifico tecnologico, promuovente l’interazione tra ricerca e produzione? Per l’area dell’Ortomercato, sia nel caso di consolidamento che di trasferimento?
Nelle trasformazioni urbane, a grande e piccola scala, se eletto sindaco come promuoverà il progetto di architettura e il progetto urbano, con quali procedure concorsuali, sia in campo pubblico sia in campo privato? Con quali semplificazioni burocratiche e amministrative in tema di procedure di permesso di costruire, rapporto con vincoli soprintendenza, ecc.?
Rispetto a queste tematiche, se eletto sindaco che impulso darà al “Fondo si sviluppo urbano” ipotizzato dall’attuale giunta?

9. Destino delle aree Expo
Se eletto sindaco, che vocazione vorrà conferire all’area? Come considera l’intervento del governo e la scelta dell’IIT come soggetto coordinatore del nascituro polo scientifico? Che percentuali di residenza, uffici, servizi, produzione, altre funzione ritiene sia corretto prevedere? Come pensa di liquidare Fondazione Fiera, che conferì i terreni di sua proprietà in seguito alla variante che li ha resi edificabili in una prospettiva di speculazione fondiaria? Sosterrà i maggiori costi di bonifica verificatisi o intenderà rivalersi sui venditori dei terreni, come da normalissima prassi di compravendita? Quale ruolo ritiene questa area debba avere nell’ambito del sistema infrastrutturale milanese?

10. Piano dello spazio pubblico
Se eletto sindaco, come contrasterà l’attuale dilagante trend di privatizzazione dello spazio aperto (a solo titolo di esempio basta considerare gli spazi dell’intervento Porta Nuova/Garibaldi: la piazza Aulenti, l’intervento di Agnes Denes, ecc.)? Ritiene che gli spazi pubblici siano una domanda emergente, e un mezzo per facilitare la coesione sociale? Come pensa di coinvolgere le energie sviluppate, spesso inespresse o tenute perfino ai margini del dibattito, di gruppi di cittadini, comitati, associazioni, professionisti?

(*) Questo "decalogo" predisposto in bozza ed espressione dell'Associazione Architectural & Urban Forum, è stato condiviso e/o modificato in parte con osservazioni e contributi successivi di Lorenzo Degli Esposti; Rolando Mastrodonato; Sergio Brenna; Luca Ruali; Luca Beltrami Gadola; Ado Franchini; Fabrizio Bottini; Andrea Cammarata; Andrea Masu; Federico Reyneri; Pietro Macchi Cassia; Marco Biraghi; Marco Brizzi; Marco Chiappa; Maurizio de Caro; Maurizio Petronio

«Campidoglio. Fassina: se c'è il senatore pronto a ritirarmi. Ma a casa dem è scontro ruvido. Il commissario: chi vuole si presenti alle primarie» Nel PD non sono tutti uguali: chissà perchè resistono. Il manifesto, 17 gennaio 2016

Non c’è pace nel Partito democratico romano, neanche ora che il vicepresidente della camera Roberto Giachetti ha accettato di correre alle primarie come candidato con il crisma di Matteo Renzi. Ora al Pd serve almeno un altro nome per dare una parvenza di competizione ai gazebo. Un altro nome capace di tenere dentro gli antirenziani e gli scontenti. Ma un altro nome stenta a saltare fuori, soprattutto dopo che il presidente della regione Nicola Zingaretti ha ’endorsato’ Giachetti, con una rapidità sorprendente: deludendo le speranze di tutti quelli che guardavano a lui come sostenitore di un nome della minoranza.

Ieri Walter Tocci, invocatissimo senatore dissenziente ed ex assessore a Roma, da tempo candidato del cuore di una parte della sinistra capitolina ben oltre il Pd, sul suo blog ha rilanciato la proposta di «una lista civica di centrosinistra», mettendo «da parte il simbolo di partito», «non una rinuncia, ma un investimento per la riscossa». Per Tocci in questi giorni «si ripete il vecchio copione. Il Pd romano si ripresenta alle elezioni senza un programma credibile. Affida alle primarie il compito improprio di sciogliere i nodi politici. Seleziona i candidati nel recinto di partito, sempre più angusto. Sono gli stessi errori del 2013. È sconcertante ripeterli oggi». Tocci chiede un congresso prima del voto e giudica esaurita la funzione del commissario del Pd romano Matteo Orfini. «Sarebbe il momento di tentare soluzioni nuove, di immaginare scenari inediti, di alzare lo sguardo intorno a noi. Ci vorrebbero umiltà e coraggio».

Ma il senatore chiarisce una volta per tutte che non si candiderà: «La mia candidatura non è mai esistita, è un’invenzione del chiacchiericcio politico-giornalistico». La sua proposta piacerebbe a sinistra, innanzitutto a chi non si rassegna alla morte del centrosinistra. Piace persino a Stefano Fassina che da sempre, pur bocciando in blocco il Pd romano, fa un’eccezione per il compagno di tante battaglie. Fassina, che per oggi ha organizzato un incontro in ogni municipio della capitale, in questi giorni ha dovuto difendersi dall’accusa di voler rompere la coalizione ’a prescindere’. Ieri, con un tweet, ha mostrato di aprire uno spiraglio: «Se il Pd Roma raccogliesse la proposta di Tocci per lista civica di centrosinistra, pronto a ridiscutere tutto».

Ma la schiarita è durata poco, appunto, lo spazio di un tweet. Al quale a stretto giro il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha risposto con un no secco alla lista civica. «Il Pd è orgoglioso del suo simbolo. Soprattutto a Roma dove dopo un anno di rigenerazione c’è un Pd diverso da quello che non si accorgeva di mafia capitale. Con quel simbolo ci presenteremo alle elezioni». La decisione è presa, l’aveva anticipata anche il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Le primarie saranno il luogo delle scelte che, come sempre, spetteranno ai nostri elettori e non ai caminetti. Se qualcuno vuole misurare opzioni e proposte differenti si candidi alle primarie e si confronti con loro», chiude il commissario. Che con l’occasione, per ribadire il concetto non solo a Tocci ma anche a Sinistra italiana, ingaggia un ruvido scambio di tweet con Vendola e i suoi che dall’assemblea di Sel lo accusano di aver rotto il centrosinistra: «Dunque caro @NichiVendola, tu puoi scegliere nel chiuso di una stanza un candidato, mentre uno che si candida alle primarie divide?». La rispostaccia arriva dal giovane Marco Furfaro: «Parlò quello che nel chiuso di una stanza decise di dimissionare dal notaio il sindaco eletto dai cittadini romani».

Il futuro delle città italiane si decide con le scelte sulle aree pubbliche dismesse. Nel caso degli scali ferroviari milanesi, in che modo si tiene conto dell'interesse pubblico? Sagge considerazioni su arcipelagomilano.org. In calce, link utili per approfondire (m.b.).

La fine del 2015 oltre a darci uno dei periodi più lunghi degli ultimi anni con il superamento dei livelli di norma per le polveri sottili, ci ha anche lasciato lo psicodramma politico generato dalla vicenda della ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma per la riqualificazione degli scali ferroviari. Risultato che, come noto, non è stato successivamente conseguito.
In questo psicodramma la discussione sullo specifico in realtà ha avuto poco spazio e con questa affermazione non parliamo dei numeri, dei mq. edificabili, delle compensazioni o altro ma piuttosto di una esplicita discussione sugli obiettivi strategici, il senso e merito, le ragioni del “patto di utilità collettiva” tra i diversi contraenti. Il passaggio in Consiglio comunale non avrebbe dovuto avere anche queste finalità?
La maggior parte dello spazio è stato invece consumato in un dibattito condizionato da logiche politiciste con la finalità di addossare colpe a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, ne avrebbe favorito il fallimento. Il mantra ossessivamente veicolato, obbediente a una logica secondo noi mal impostata, recitava che quello in approvazione rappresentava “il miglior accordo possibile”. Qualità che si sostanziava nella riduzione dei volumi edificabili e nel miglioramento delle contropartite per la pubblica amministrazione, complessivamente intese, rispetto alla precedente versione dello stesso Accordo proposto dalle giunte di centro-destra.
Forse per valutare e qualificare meglio questa affermazione sarebbe opportuno rimettere in ordine i fattori di questa scelta e capire di che cosa stiamo parlando anche per stimolare coloro che nell’amministrazione comunale dovranno riprendere in mano la questione. Anche in ragione di una dialettica più laica e meno legata alle utilità e alle contingenze del momento.
Esigenze di sintesi ci obbligano a dare per conosciuti gli aspetti di contenuto di questo Accordo, richiamando il fatto che le funzioni prevalenti individuate coincidono con insediamenti residenziali, comprese quote di edilizia sociale, verde e urbano e connessioni viabilistiche e ciclabili (i contenuti di dettaglio sono comunque qui consultabili).

A Milano gli scali ferroviari costituiscono uno stock di circa 1.250.000 mq di aree molto diverse tra loro per collocazione, dimensione, qualità del contesto urbano nel quale si inseriscono; sono però accomunate da una medesima caratteristica: essere posizionate sulla e nei nodi della rete del trasporto pubblico su ferro, di livello nazionale, metropolitano e urbano.
Una caratteristica eccezionale che assegna quindi a queste aree un valore strategico per qualsiasi ipotesi di riassetto dell’area metropolitana. Ancorché attualmente in condizioni di dismissione e di degrado, esse rappresentano aree privilegiate e da privilegiare in funzione di qualunque ipotesi di disegno che voglia reinterpretare le relazioni e le dinamiche che attualmente qualificano il livelli di qualità del sistema, rendendola attrattiva e competitiva sia dal punto di vista urbanistico-territoriale che da quello dello sviluppo economico, del riequilibrio ambientale o delle modalità che condizionano gli spostamenti e la mobilità di circa 1.300.000 abitanti residenti e quasi 3.000.000 di city users.
Se c’è accordo sul riconoscimento di queste caratteristiche e sulle relative potenzialità, riavviare il processo di riqualificazione di queste aree dovrebbe comportare la necessità di riflettere su alcune questioni e domande preliminari. Proviamo ad elencarne alcune, anche se in forma non esaustiva, che non vogliono essere per nulla retoriche ma che hanno la funzione di mettere a fuoco alcuni aspetti che riteniamo essere stati fino a ora considerati in modo non sufficientemente approfondito.

1 Per le caratteristiche cha abbiamo richiamato, queste aree rappresentano “per definizione” dei nodi di rilevanza metropolitana. È quindi lecito – utile – opportuno mettere in gioco queste aree e chiudere la porta a qualsiasi altra opzione, senza un preventivo confronto con le esigenze dell’area metropolitana nel momento in cui la stessa Città Metropolitana sta elaborando il proprio Piano Strategico?
2 Qual è il disegno o la strategia urbana supportato dalla messa in gioco di queste aree (pregiatissime) e la relativa destinazione funzionale?
3 Preliminarmente all’Accordo, non sarebbe opportuno esprimere un progetto a cui legare il “Patto di utilità collettiva” fra i diversi contraenti, esplicitandone le ragioni e gli obiettivi? Ovvero, la cessione di tali quantità di rendita urbana si giustifica nelle funzione insediate con un adeguato ritorno utile alla collettività e alla istituzione metropolitana e comunale?
4 Milano ha un serio problema nel PGT ereditato che, anche se debolmente emendato, conserva una impostazione orientata soprattutto allo sviluppo edilizio e alla valorizzazione immobiliare, senza una visione strategica, con un approccio poco aperto alla dimensione metropolitana e che non ha integrato sistema urbano e bisogni di mobilità. È opportuno dar luogo alle trasformazioni sugli scali senza sintonizzare lo strumento urbanistico con una idea di città di medio-lungo periodo che assuma obiettivi diversi come ad esempio ipotesi di riequilibrio ambientale che si reggano su una radicale trasformazione della mobilità dell’intera Città Metropolitana?
5 Qual è il senso di trattare in modo indifferenziato dal punto di vista del mix funzionale, delle densità e dei parametri urbanistici, aree che hanno dimensioni e morfologie tanto diverse e che dovrebbero dialogare con contesti urbani così disomogenei? Quali sono le economie urbane e gli effetti di rigenerazione che si intendono promuovere?
6 L‘esperienza della riqualificazione delle aree Expo ha evidenziato che il ricorso alla sola valorizzazione immobiliare di un’area con dimensioni rilevanti, seppur strategica e con elevati livelli accessibilità, costituisce un approccio fallimentare se non connessa a una idea e a un progetto molto caratterizzato e di largo respiro. Tant’è che dopo che il “mercato” ha bocciato questo approccio, si è deciso di cambiare rotta. Perché riprodurre quindi un analogo modello di intervento?

Quest’ultimo tema, relativo alla valorizzazione immobiliare, evidenzia un’altra questione di grande impatto in relazione alla attuale proprietà delle aree e ai relativi aspetti di negoziazione dei limiti degli interventi. Come noto, la disponibilità di queste aree è stata ottenuta a suo tempo in relazione alla necessità di esercitare un servizio di interesse pubblico e collettivo, quindi non con procedure negoziali e di mercato ma mediante acquisizione per pubblica utilità (con uno sforzo collettivo quindi), in uno scenario che non prevedeva la successiva privatizzazione dei gestori di questo patrimonio che oggi mirano principalmente alla valorizzazione immobiliare dei siti.
Questo non è un tema esclusivamente milanese ma coinvolge una questione di livello nazionale che interessa in prevalenza i maggiori centri urbani e capoluoghi del Paese. L’anomalia e la difficoltà di gestire da parte delle singole Amministrazioni comunali un rapporto oggettivamente asimmetrico con un soggetto oggi “non formalmente pubblico” che gestisce un patrimonio acquisito con risorse collettive, dovrebbe essere quantomeno oggetto di attenzione a livello nazionale, anche per riequilibrare le rispettive capacità di negoziazione nei confronti di un effettivo interesse pubblico e non essere appiattita sulle esigenze di “fare cassa” e slegata da una effettiva costruzione sociale.
Perché allora non promuovere un’interlocuzione con il Governo nazionale che veda Milano e la sua Città Metropolitana aggregare intorno alla questione l’ANCI e alcune delle più importanti città del Paese, per riequilibrare questa asimmetria e conseguire maggiori gradi di libertà e di potere contrattuale nel definire le proprie strategie e politiche urbane?

Riferimenti

Qui il collegamento alla pagina del comune dove sono scaricabili i documenti
Sullo stesso argomento: su arcipelagomilano.org, le opinioni di Luca Beltrami Gadola, Sergio Brenna, Giorgio Goggi, Giuseppe Longhi.

Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.

L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».

E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.

La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».

La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».

Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».

i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016

A Parigi si è discusso come scongiurare il soffocamento da anidride carbonica, ma a Bologna si tagliano gli alberi. Cinquantamila, secondo le stime del Wwf, sono spariti lungo dodici chilometri del torrente Savena alle porte della città, mentre altri 30mila, stando alla denuncia di Legambiente, sono minacciati dalla costruzione di un ramo della Complanare cittadina e dall’ampliamento a quattro corsie della A14 fino alla svincolo per Ravenna. Interi boschi, che i naturalisti definiscono «spugne assorbi-carbonio » spazzati via.

Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.

La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.

L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).

A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».

Nell’esposto, il Wwf, oltre a ricostruire la vicenda e rimarcare lo sconfinamento in un’area di interesse naturalistico per biodiversità senza una preventiva valutazione di incidenza, condanna la formula dell’appalto «a compensazione» che invoglia le ditte ad attuare tagli indiscriminati per incrementare i guadagni senza rispondere a quei criteri «selettivi» prescritti dalla Regione. La denuncia si sofferma anche sulla costruzione di un arginello di contenimento ai lati del torrente in cui sarebbero stati mescolati all’argilla anche scarti di lavorazioni edili. Sulla vicenda si incrociano due opposte idee di gestione dei corsi d’acqua. Una di tipo idraulico e l’altra in cui prevale una visione di ecosistema.
«È oggettivo che adesso il torrente è più sicuro e regge le piene» afferma il sindaco preoccupato per l’incolumità dei cittadini. «Gli alberi ostacolano la corrente e provocano esondazioni». Versione opposta a quella del Wwf: «Al contrario, rallentano la corrente e difendono le sponde» spiega Bonafede.

La Repubblica e il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2016 (m.p.r.)


La Repubblica

LA BEFFA DELLE TRIVELLE: LA GUIDI LE AUTORIZZÒ PRIMA DEL DIVIETO

di Liana Milella

Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».

Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.

Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.

Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.

I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.

Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO

Il ministero dello Sviluppo ha dato il via libera alle le ricerche petrolifere davanti alle isole Tremiti, per la cifra di 1.929,292 euro l’anno. Lo denuncia Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi.
«IL Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato le ricerche di petrolio di fronte ad uno dei gioielli ambientali più importanti d’Europa: le isole Tremiti», afferma Bonelli, precisando che «il 22 dicembre 2015 con decreto n.176 è stato conferito il permesso B.R274.EL alla società Petroceltic Italia Srl». L’esponente dei Verdi rileva che le ricerche petrolifere riguarderanno «una superficie di 373,70 chilometri quadrati e in un’area dalla ricca biodiversità marina» e che «verranno utilizzate le tecniche più devastanti, come l’air gun, per le ricerche di idrocarburi». La Petroceltic Italia, prosegue, pagherà allo Stato italiano «la cifra di euro 5,16 per chilometro quadrato, per un totale di 1.928,292 euro l’anno».
Una cifra esigua che scatena l'ironia del sindaco delle Tremiti, Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, cosa vuole che le dica? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga». «Ho chiamato subito il presidente della Regione Puglia - riferisce il sindaco - mi chiedo: può un governo decidere senza tenere conto del parere delle Regioni, alcune delle quali hanno proposto i referendum contro le trivellazioni?. Noi siamo un piccolo comune, abbiamo fatto diverse manifestazioni, qui e a Peschici, Manfredonia, anche con il compianto Lucio Dalla. Tutto per fermare questa idea». Da parte sua il governatore della Puglia, Michele Emiliano, invita «le Regioni che hanno proposto il referendum a non fare passi indietro. Dovranno elevare subito conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato davanti alla Corte Costituzionale».
Ma non è solo nell'Adriatico che partiranno le ricerche. Altri permessi, secondo l’esponente dei Verdi, «sono in corso di autorizzazione» in un’area di 4.124 chilometri quadrati davanti all’isola di Pantelleria e nel golfo di Taranto, per estensione di 4.025 chilometri «a favore della Schlumberger Italiana». Sempre a Pantelleria, prosegue, «è stato sospeso un permesso all’Audax Energy, non revocato, in attesa di un idoneo impianto di perforazione».
Complessivamente, aggiunge Bonelli, «in Italia sono vigenti permessi di ricerca per idrocarburi per un totale di 36.462 chilometri quadrati». Di questi, 90 riguardano la terraferma, per 27.662,97 chilometri quadrati; le autorizzazione per i fondali marini sono 24, per 8.800 chilometri quadrati: «Si sta perforando - osserva - un territorio equivalente a quello di Lombardia e Campania messe insieme». Per Bonelli «l'Italia deve fermare le trivelle, non i referendum, valorizzare i suoi tesori ambientali, tutelare l'economia della pesca, dell’agricoltura e del turismo che sono messe a rischio dalle tecniche invasive e distruttive di perforazione».

La Repubblica

“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini

Bari. «Una vergogna e una follia». Il Governatore della Puglia, Michele Emiliano, giura che non ci sarà alcuna possibilità: «Il mare delle Tremiti non sarà trivellato. Caso contrario, scateneremo l’inferno».
Presidente, il decreto , firmato il 22 dicembre dal ministro Guidi, parla chiaro: con duemila euro all’anno, Petroceltic Italia può cominciare i lavori.
«Trovo questo atteggiamento del Governo irresponsabile con le regioni e con il popolo italiano. Da un lato mandano in Gazzetta ufficiale lo stop alle trivellazioni e dall’altro, poche ore prima, autorizzano nuove ricerche. Tra l’altro nei posti più belli d’Italia: le Tremiti, Pantelleria, il Golfo di Taranto. Non è possibile».
Che si fa quindi?
«Faccio appello al presidente Matteo Renzi affinché revochi immediatamente tutte le autorizzazioni. Tra l’altro, il Governo, tramite alti esponenti, aveva dato a tutti noi presidenti di Regione la propria parola che la questione era conclusa. Non può essere che la volontà di ben dieci Regioni di tutelare il loro mare sia sbeffeggiata. Non posso credere che l’emendamento “natalizio” sia stato soltanto un trucco per ammansirci e poi, comunque, trivellare ovunque come se niente fosse, una volta superata l’emergenza della reazione dell’opinione pubblica. Anche perché il diavolo fa le pentole e non i coperchi».
Che vuole dire?
«Che resta il fatto che almeno un quesito dei sei sarà sottoposto a referendum. E certo le Regioni non faranno alcun passo indietro. Anzi».
Anzi?
«Dovremo elevare subito un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per alcune norme dell’emendamento natalizio che hanno scippato al popolo italiano la possibilità di esprimersi in sede referendaria. Si dovrà inoltre iniziare subito la campagna referendaria valutando tutte le altre iniziative necessarie alla tutela del nostro mare».
Sarà un nuovo motivo di scontro tra lei e il governo del segretario del suo partito.
«Qui è in gioco la difesa della mia terra e della volontà popolare. Io credo molto nel referendum: è giusto che si dia alle nostre comunità la possibilità di decidere sulle ricerche di idrocarburi, che possono essere sì un’opportunità, ma anche una minaccia che rischia di rovinare il nostro mare, che è la principale risorsa e attrattiva turistica delle regioni del Sud. Noi siamo per ridurre queste ricerche, se possibile per azzerarle. Il Governo mi sembrava avesse un’altra posizione. Che aveva però rivisto con l’emendamento di dicembre. Ma evidentemente avevamo capito male. E io l’avevo intuito: era stato formulato e approvato senza neppure uno straccio di dichiarazione politica di pentimento da parte del Governo e della sua maggioranza. Poi ora scopriamo queste nuove autorizzazioni. Ecco perché serve un passo indietro subito. Altrimenti, sarà battaglia».

il manifesto, 10 gennaio 2016

TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico

Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.

Il governo dopo il colpo di scure inferto prima di Natale, invece di «seppellire» definitivamente il progetto, ha prorogato di un anno la concessione alla multinazionale. Lasciando tutti interdetti, tutti tranne il coordinamento No Triv, che aveva messo in allerta riguardo ad eventuali tranelli. Nel frattempo la battaglia, che sembrava avviarsi a conclusione, prosegue a suon di carta bollata e ricorsi.
Attraverso emendamenti alla legge di Stabilità, il governo a fine 2015 ha ripristinato il limite di 12 miglia dalla costa per nuovi permessi di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare. E la Rockhopper, compagnia con interessi nel bacino delle Falkland e nel Mediterraneo, che sembrava aver incassato tutte le autorizzazioni per avviare la costruzione del contestatissimo impianto, in un’area di 271,25 chilometri quadrati, si è ritrovata improvvisamente bloccata. Così il 30 dicembre scorso si è rivolta alla magistratura, con un ricorso al Tar del Lazio contro il ministero - oltre che nei confronti della Regione Abruzzo, delle Province di Pescara e Chieti e dei comuni interessati dal progetto - , reo di «non aver ancora rilasciato la concessione di coltivazione del giacimento Ombrina mare», «in violazione» - viene fatto presente negli atti - di tutti i termini di legge e per essere «in contrasto col fondamentale principio del buon andamento dell’azione amministrativa».
Però scrive sul proprio sito, ai propri azionisti... «At the same time, Rockhopper has been granted a 12 month extension to the suspension of the Ombrina Mare exploration permit to 31 December 2016». Ossia... «Allo stesso tempo abbiamo ottenuto una proroga della concessione per 12 mesi...». Che significa? «Che per l’Abruzzo non è l’ora di cantare vittoria, io credo”» dichiara Maria Rita D’Orsogna. Prima si fa la legge e poi subito... l’inganno. «I provvedimenti pre festivi sono stati adottati per evitare il referendum? - chiede la ricercatrice - Era solo un’attesa in vista di elezioni future, e quindi inventiamoci uno standby? Era perché i prezzi del petrolio sono bassi e quindi meglio aspettare? C’è dell’altro? E chi lo sa. Sappiamo solo che c’è questo limbo di un anno. È una storia senza fine, in cui, come sempre, a perderci è forse l’unica cosa più importante dell’ambiente italiano, e cioè la democrazia».
Ma ripercorriamo le tappe di Ombrina. «Prima del 2010 - rammenta D’Orsogna - non esistevano fasce di rispetto in mare e infatti si poteva trivellare un po’ dove capitava. Pure a meno di due chilometri dalla riserva naturale di Punta Aderci, nel Vastese, come voleva fare la Petroceltic d’Irlanda. Questo mentre in California, per dirne una, la fascia di rispetto era di 100 chilometri da almeno trent’anni». Nel 2010 anche l’Italia vara la sua fascia di protezione, di 5 miglia, che diventano 12 in caso di aree protette. Ombrina pare defunta, perché a sei chilometri dal litorale. «Nel 2012 arrivano Corrado Passera e i suoi amici a inventarsi il barbatrucco della fascia di rispetto "non retroattiva": non si applica a concessioni esistenti, che poi sono quelle che coprono la stragrande maggioranza delle coste della Penisola». Ombrina resuscita.
Nel 2015 la fascia di rispetto viene ripristinata. «Ombrina muore di nuovo. Anzi, no. È solo in coma». «Non è da Paese normale - tuona la docente universitaria - fare una legge e cambiarla cosi radicalmente ogni due o tre anni. Con questi comportamenti non siamo di fronte a governanti che hanno a cura la Res publica, in modo pulito, chiaro. Abbiamo a che fare con una accozzaglia di decisioni confuse. Tornando ad Ombrina: perché mai aspettare ancora un altro anno? Sono otto anni che si va avanti. A rimpalli. E siamo ancora qui a discutere di un petrol-mostro che nessuno, da nessuna parte del mondo civile, metterebbe così vicino a riva». È evidente - sostiene invece il coordinamento No Ombrina - che la nuova norma ha stoppato il progetto, così come appare chiaro come non sia centrale la questione della sospensione del decorso temporale del permesso di ricerca (che comunque sarebbe scaduto tra anni anche senza la sospensione). «Prima eravamo noi a dover fare ricorso al Tar - dicono gli attivisti - Ora sono loro, in un sentiero molto stretto. Ovviamente interverremo ad opponendum per contrastare tutte le istanze dell’azienda e per evitare qualche scherzo da parte del ministero».

MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia

Licata. La piazza parla, canta e fa sentire il suo dissenso da Licata, periferia della periferia, in una regione abbandonata a se stessa. Quasi duemila donne e uomini di ogni età hanno partecipato alla manifestazione lanciata dal comitato No Triv di Licata. L’iniziativa è stata abbracciata da un’isola intera, stretta attorno a una comunità che prova con forza a dire no ad un progetto calato dall’alto e privo di ogni logica. Proponendo, per mezzo di un’autentica piattaforma politica, un piano di sviluppo diverso, che guardi al bene reale della collettività.
Le strade della cittadina siciliana hanno visto una buonissima cornice di pubblico: secondo le stime ufficiali il «fiume umano» annoverava più di millecinquecento persone, con una nutrita rappresentanza regionale. Il coro unanime del dissenso ha fatto da eco alle notizie provenienti da Roma: il governo infatti è stato bocciato dalla Cassazione sul capitolo referendario sulle trivellazioni, notizia resa nota proprio il giorno prima della manifestazione. Il quesito sulle operazioni di trivellazioni a mare potrà svolgersi, così hanno deciso i giudici. Ora la battaglia si sposterà sugli altri quesiti in materia di estrazione di idrocarburi.
La manifestazione di Licata ha fatto da cassa di risonanza a tutto quello che è accaduto, tante le voci che hanno voluto testimoniare questo dissenso collettivo. «Il problema delle trivellazioni andrebbe a toccare tre punti pericolosi per la collettività - osserva Fabio, portavoce e direttore del gruppo archeologico locale - anzitutto il danno all’ambiente e all'economia del pescato. Poi un danno di immagine turistico enorme, poiché queste operazioni di trivellazione allontanerebbero sensibilmente il turismo, come già successo per Gela. Infine il danno al potenziale archeologico: queste operazioni invasive andrebbero a ricadere su settori che quasi sicuramente celano resti di quella che fu la grande battaglia del Monte Ecnomo, del 264 a. C. tra Roma e Cartagine».
Rocco, attivista del comitato No Triv, tira le somme della manifestazione: «Le sensazioni sono state molto positive, oltre alla partecipazione dei pescatori è stata importante la presenza in piazza di alcuni pezzi delle istituzioni. Notevole l’intervento del vicesindaco di Noto, un comune da tempo in guerra per le trivellazioni, e di una consigliera comunale di Palermo, che ha letto il messaggio inviato da Leoluca Orlando con la sua solidarietà e vicinanza, sia come sindaco che come presidente dell’Anci siciliana. Assordante invece il silenzio dell’amministrazione locale, è mancato un intervento pubblico con un chiara presa di posizione». Parole precise, che si sposano con quelle di Andrea, attivista No Muos di Gela, città molto interessata da quello che sta accadendo: «Siamo venuti in buon numero dalla nostra città, perché l'intera comunità guarda con apprensione alle vicende del petrolchimico e alla sua paventata "riconversione ecologica".
Dalla fine del 2014 assistiamo ad un ricatto di Eni sulla riconversione e le eventuali trivellazioni. Sono venuti in piazza i dissidenti dell’amministrazione messinese (il sindaco Accorinti ndr), per manifestare la loro contrarietà ai progetti della giunta». Al coro si unisce Antonino, presidente dell’associazione A testa alta, da tempo impegnata nella lotta alle mafie: «È stata una manifestazione vissuta all’insegna dell’unità tra cittadini, associazioni, comitati e movimenti, provenienti da più parti della Sicilia e che, mossi da un obiettivo comune, hanno sfilato per la città in modo civile, rivendicando diritti e valori fondamentali come l’ambiente e la salute.
In una città come Licata dove, addirittura nel silenzio delle istituzioni, si è assistito in tempi recenti a devastanti operazioni speculative immobiliari e commerciali danneggiando il litorale cittadino, mascherate da investimento nel settore turistico e diportistico, quella di oggi è una giornata storica». Non poteva mancare la presenza degli studenti: «Bisogna lottare e combattere contro questo genere di opere - denuncia il liceale classico Davide - che devastano e stuprano il nostro territorio. Bisogna sensibilizzare tutti gli studenti, e tutti gli istituti scolastici della zona».
Riferimenti
Si veda su eddyburg di Cristiana Salvagni Trivelle in mare, stop del governo, Sulle battaglie dei no triv e sul progetto Ombrina numerosi articoli su eddyburg raggiungibili con il "cerca".

per promuovere il solito «sviluppo del territorio». La Repubblica 9 gennaio 2016, postilla (f.b.)

A volte ritornano. Pensavi che portare il mare a Milano fosse un sogno dimenticato. Che l’autostrada d’acqua fra la Madonnina e l’Adriatico fosse solo un disegno su antiche mappe. E invece. Sono ancora accese, in piazza Duca d’Aosta, le luci del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, anche se l’ente è stato soppresso (per non avere raggiunto gli obiettivi) già il 14 giugno del 2000, con decreto del ministro al Tesoro Vincenzo Visco. «Siamo rimasti in quattro, noi dipendenti. E poi ci sono i tre del consiglio di amministrazione, che debbono liquidare il patrimonio». Patrimonio ingente, perché del canale si inizia a discutere nel 1902 — presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli — e fino al 2000 l’ente è stato finanziato con circa 300 miliardi di lire. Sono stati preparati progetti, espropriati terreni e sono stati scavati anche 14 chilometri di canale (su 65), fra Cremona e Pizzighettone. Ma dal 1980 in poi nessuna ruspa è tornata in azione e il Tesoro, quasi 16 anni fa, ha detto basta così. Sembrava una pietra tombale.

Ma anche i canali possono risorgere. L’Aipo — Agenzia interregionale per il fiume Po — sei mesi fa ha infatti stanziato un milione di euro (per metà sono soldi della Commissione europea, che ha definito il canale opera prioritaria) per «valutare la fattibilità di un nuovo canale Milano-Cremona». «Si tratta — spiega l’ingegner Luigi Mille, dirigente Aipo per la Lombardia — di un tracciato meno costoso, perché usa in parte il canale Muzza. Il costo previsto è di 1,7 miliardi di euro, con sette conche e 60 metri di dislivello». Un percorso diverso, di 60 chilometri, ma l’obiettivo è sempre quello: congiungere la periferia sud di Milano a Pizzighettone, dove iniziano quei 14 chilometri di canale usato adesso solo da pescatori e canoisti. «Presenteremo il progetto nei prossimi mesi, all’assessore regionale Viviana Beccalossi e poi saranno le Regioni del Po ed il governo a decidere ».

Canale Muzza nel Lodigiano - Foto F. Bottini

È bastato però l’annuncio dello studio in atto per provocare proteste. «Mi sembra — dice Alessandro Rota, presidente della Coldiretti Milano Lodi — che la vicenda dello stretto di Messina sia stata trasportata al nord. Si discute del canale da più di cento anni e l’unico risultato è stato quello di buttare miliardi. Che merci potrebbe portare, questo canale?». Ufficialmente, il Consorzio nasce con la legge 1044 del 1941, sostituendo l’Azienda portuale di Milano del 1920. «In passato la nostra grande città aveva le acciaierie, la gomma, la chimica. Adesso ci sono solo terziario ed uffici, con la produzione delocalizzata in mezzo mondo. Con il canale si butterà ancora cemento sul terreno agricolo più fertile d’Italia».

Forse non tutti i milanesi ricordano che la fermata della metropolitana Porto di mare, accanto a Rogoredo, si chiama così perché in quella che nel 1920 era campagna doveva nascere il porto di accesso al canale. «Adesso invece dobbiamo partire una ventina di chilometri più a sud. Il porto di mare è un quartiere», raccontano al Consorzio Muzza di Lodi, incaricato di preparare la relazione tecnica per il progetto di fattibilità. Il nuovo percorso che sarà presentato «nei prossimi mesi» non è comunque un segreto: se n’è discusso in un convegno a Viadana e l’Unioncamere del Veneto l’ha messo in rete.

«Noi proponiamo — raccontano il direttore e il vice del Muzza, gli ingegneri Ettore Fanfani, Marco Chiesa e Giuseppe Meazza — di partire da Truccazzano, dove c’è una grande cava già piena d’acqua. Serviranno collegamenti con Brebemi, Linate, tangenziale esterna e grandi spazi per imprese di trasporto, industrie». Il canale Muzza verrà utilizzato ma solo in minima parte: 2,7 chilometri. «Ci sono problemi di corrente. Nel nostro canale di irrigazione la velocità è di un metro al secondo. In un canale di navigazione deve essere pari a zero». Il vecchio tracciato tagliava a metà Paullo. «Ora è impossibile passare di lì. Abbiamo scelto il parco a sinistra dell’Adda. Sappiamo già che ci saranno proteste».

I tecnici mettono le mani avanti. «L’Aipo ci ha affidato lo studio e noi lo prepariamo. Ma siamo come chirurghi. Apriamo il malato e vediamo cosa si può fare. Sappiamo però che i problemi sono davvero seri. Le infrastrutture non saranno cosa semplice. A sud di Lodi, ad esempio, bisognerà costruire un sovrappasso per scavalcare, in 500 metri, la linea Fs Milano-Bologna, il canale di regolazione e la via Emilia. Ancora più a sud bisognerà superare l’Adda con un altro ponte-canale. Da un punto di vista tecnico si può fare tutto. In Belgio queste strutture si costruiscono da decenni. Il progetto è ambizioso, vista anche la spesa, 1, 7-2 miliardi. Nel canale potranno passare navi di classe V Europa, lunghe 110 metri, larghe 11,40, con 2,50-2,80 di pescaggio e 2500-3000 tonnellate di carico. Ognuna potrebbe portare l’equivalente di 70 vagoni ferroviari o di 100 tir. Ma ci chiediamo: ci saranno le merci da trasportare? È giusto un investimento così importante? Per fortuna questo non è un problema nostro. Ci saranno economisti e altri tecnici a completare lo studio. Noi sappiamo comunque che c’è un altro grande handicap: l’acqua. Dove si prenderà quella che serve al canale? Adesso non basta nemmeno per l’irrigazione, lo sappiamo bene noi che serviamo 80mila ettari di pregiato territorio agrario». Corrono le folaghe e volano gli aironi, sul canale Muzza. Forse potranno stare tranquilli. A volte ritornano. Per fortuna non sempre.

postilla


Chiunque abbia seguito, su queste o altre pagine, lo svolgersi delle vicende infrastrutturali dell'area padana, dovrebbe aver chiaro come, a parte le classiche polemiche ambientali o di modalità, tracciato, insostenibilità finanziaria e via dicendo, la critica di fondo è quella di voler promuovere attraverso le reti stradali il famigerato «sviluppo del territorio». Che come ben sappiamo non ha nulla a che vedere con l'idea di sviluppo in quanto valorizzazione delle risorse ambientali e umane a scopo di progresso, ma solo assai più banalmente traduce in italiano uno solo dei significati dell'inglese
development: edilizia e opere di urbanizzazione. Questa strampalatissima riproposizione dell'antico progetto di canale navigabile, al netto sia delle evocazioni storiche, che delle false sognanti immagini di megalopoli delle acque (potrebbe anche evocare qualcosa del genere, se ben manovrata e farcita di rendering) si colloca esattamente dentro le stesse politiche del «fare e disfare è tutto un lavorare», anzi addirittura pone alcune precondizioni per nuovi svincoli, bretelle, collegamenti su gomma, poli di interscambio, identici e forse peggiori collocandosi in zone agricole di pregio, di quelli già visti con le inutili autostrade padane, a carico del contribuente e dell'ambiente locale. Diffidare, soprattutto quando spunteranno quei disegnini sui giornali compiacenti, magari con una specie di Darsena bis davanti ai terreni di Ligresti, che proprio per puro caso stanno lì vicino all'area detta Porto di Mare, e che importa se in realtà dovesse fermarsi a Truccazzano? Ci hanno già fatto la diramazione Bre.Be.Mi. lì vicino, basta un'altra bretellina e via ... ad libitum (f.b.)

La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)

Madrid. Si può mettere all’asta un bene così prezioso da essere stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità? Il caso della grotta di Altamira non è una replica dell’esilarante sketch di Totò che mette in vendita la fontana di Trevi, ma non è meno sorprendente. Convinto che non si stia facendo tutto il possibile per sfruttare al meglio dal punto di vista turistico questo gioiello dell’arte rupestre - la “cappella sistina del Paleolitico” come è stata ribattezzata - il governo regionale della Cantabria pensa alla distribuzione di “pass vip”, alla portata solo di appassionati milionari, che consentano di accedere alla grotta di Santillana del Mar nel rispetto dei rigidi limiti stabiliti dagli scienziati.

Dopo una chiusura lunga dodici anni decisa per studiare a fondo le conseguenze della presenza umana nel sito archeologico, Altamira è stata riaperta nel febbraio 2014 in via sperimentale solo per pochi: mentre prima si registrava un afflusso di massa, fino a 170mila persone l’anno, ora vengono ammessi cinque visitatori la settimana (accompagnati da due guide), estratti a sorte tra i turisti che passano per il vicino Museo di Altamira, dove sono esposte le copie dei celebri dipinti rupestri raffiguranti bisonti, cavalli e cervi.
Un metodo democratico ed egualitario in cui non c’è spazio per i pivilegi, che verrebbe spazzato via dalla eccentrica proposta dell’assessore al Turismo Francisco Martín. Intervistato dal quotidiano locale Diario Montañés, il politico sogna la straordinaria ripercussione planetaria che avrebbe, ad esempio sulle colonne del New York Times, la visita del tycoon più ricco del mondo, Bill Gates, che in più sarebbe disponibile a rimpinguare con un generso assegno le casse dell’amministrazione regionale. Dice Martín: «Quando vai a Singapore e chiedi cosa conoscono della Cantabria, ti rispondono il Banco Santander e la grotta di Altamira. E quando qualcuno ti dice che pagherebbe qualsiasi cifra pur di vedere i dipinti originali, gli devi rispondere: no, guardi, questo dipende solo da un sorteggio che si fa ogni venerdì mattina».
A Santander c’è chi giura che, dietro la sparata dell’assessore, ci sia lo zampino del presidente regionale (del suo stesso piccolo partito locale), il pittoresco Miguel Ángel Revilla, un “ambasciatore” della Cantabria così ansioso di pubblicizzare i prodotti regionali che, ogni volta che viene ricevuto alla Moncloa dal premier di turno, porta sempre in regalo una gustosa lattina di acciughe del posto. Il fatto è che, qualunque sia l’idea di Revilla e soci, i destini dell’antichissimo sito archeologico sono per fortuna in mano a un composito patronato del quale, oltre al governo regionale, fanno parte il ministero della Cultura, il municipio di Santillana, il Consiglio superiore per le investigazioni scientifiche, l’Unesco e istituzioni accademiche. Il patronato non si è ancora pronunciato ma, da Madrid, il segretario di Stato alla Cultura del governo uscente di Mariano Rajoy, José Maria Lassalle, ha già fatto sapere come la pensa: «La gestione di un bene della categoria e della protezione universale che ha Altamira non è comparabile con le aste proprie della tratta del bestiame», ha detto in un’intervista a Abc.
E anche all’interno della stessa amministrazione regionale si levano le prime voci contrarie, come quella dell’assessore alla Cultura, il socialista Ramón Ruiz, per il quale le installazioni di Altamira devono essere «il più possibile aperte a tutti». Più che vendere i biglietti al miglior offerente, dice, «bisogna democratizzare il museo». Ma il più polemico di tutti è José Ramón Blanco, il leader regionale di Podemos, il partito che con la sua astensione ha consentito l’insediamento del governo guidato da Revilla. La messa all’asta dei “pass vip” «instaura una categoria di disuguaglianza che è diametralmente opposta ai valori che il titolo di patrimonio dell’umanità concesso nel 1985 implica». Per Podemos il vero dibattito dev’essere quello tra gli scienziati, sull’opportunità o meno di tenere aperta la grotta, sia pure con un accesso limitato come avviene da due anni a questa parte. Altamira, aveva avvisato già un anno fa il direttore dell’équipe di esperti, il francese Gaël de Guichen, è «come un nonno malato». Si può curare o sottoporre a trattamenti palliativi, ma non è immortale.

Stanno scoppiando una a una le cariche a orologeria dirette a sabotare i pilastri dell'urbanistica pubblica (e di qualsivoglia idea di città) messe dai liberisti rampanti all'epoca dei cosiddetti «Piani Integrati»? Alessia Gallione e Fulvio Irace, La Repubblica Milano, 7 gennaio 2016, postilla (f.b.)

CATELLA: «NON SONO IL PADRONE,
MA SOLO UN ARTIGIANO DELLA CITTÀ»
di Alessia Gallione


Porta Nuova lancia la fase “4”: e dopo Garibaldi, le ex Varesine e l’Isola, il quartiere simbolo della “nuova Milano” punta ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Si parte dalla torre dell’Inps acquisita dalla società di Manfredi Catella che, dopo aver sviluppato e venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar ha coinvolto in questa operazione un altro pezzo di Golfo: il fondo sovrano di Abu Dhabi. L’obiettivo: «Ricucire anche quest’area parzialmente irrisolta con il resto della città», dice Catella. Che, però, spiega: «Non sono il nuovo padrone di Milano, ma solo un artigiano che vuole rinnovarla».
Il quartiere è destinato ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Con un primo tassello: la torre dell’Inps acquistata - per il fondo Porta Nuova Gioia - dalla Coima sgr guidata da Manfredi Catella. Un altro pezzo di città destinato a cambiare e a farlo anche con investitori internazionali: dopo aver venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar, infatti, Catella ne ha coinvolto un altro in questa operazione, quello di Abu Dhabi.

Manfredi Catella, è il nuovo padrone della città?«Per niente. Noi siamo solo professionisti e lavoriamo per conto di investitori di tutto il mondo. Io non sono personalmente proprietario, mi sento un artigiano che lavora sul territorio per conto dei propri clienti».

Che differenza c’è, quindi, tra lei e gli immobiliaristi del passato alla Ligresti che hanno segnato le sorti di interi quartieri di Milano?«La differenza è semplice e riguarda due fattori per me fondamentali: qualità e reputazione. Con Porta Nuova ci siamo presi la responsabilità di riportare la qualità del costruire bene la città in chiave contemporanea. Può piacere o non piacere, ma l’impegno è evidente e ha contribuito a dare lustro internazionale a Milano. In queste due parole c’è tutto: significa anche essere trasparenti, operare con le regole del mercato».

Che progetto avete per la torre dell’Inps?«Per il momento abbiamo fatto studi per verificare le dimensioni che l’edificio potrà avere e altri per la zona pedonale e gli attraversamenti. Quella è un’area in parte irrisolta: la nuova sede della Regione ha creato un polo importante, ma poi ci sono altri edifici non utilizzati, dall’Inps alla Torre Galfa».

Quella zona, in realtà, è lo storico centro direzionale della città. Nella sua visione, che cosa dovrà diventare?«Con Porta Nuova abbiamo costruito un nuovo, importante, centro direzionale, ma anche realizzato un mix tra residenze, commercio, cultura. È una strada auspicabile perché è la varietà che crea la vitalità di una città. In questo caso, credo che la vocazione naturale rimarrà direzionale e commerciale, con innesti di abitazioni come per il progetto che stanno sviluppando realtà cinesi a fianco dell’edificio del Comune di via Pirelli. Adesso bisogna riuscire a ridare alla zona una propria identità, a ricucirla con la città: è il lavoro fatto con Porta Nuova».

Sembra disegnare un piano più ampio del palazzo dell’Inps: vuol dire che non vi fermerete qui?«Guardiamo sicuramente ad altri edifici in zona perché vorremmo completare il lavoro di riqualificazione del quartiere. Tre anni fa, ad esempio, abbiamo comprato da un fondo tedesco insieme a investitori istituzionali italiani un immobile in via Gioia: dopo una ristrutturazione integrale oggi ospita un hotel e uffici. Un ruolo importante lo avrà anche Unipol, che possiede tre indirizzi strategici: uno all’interno di Porta Nuova, uno in via De Castillia e la Torre Galfa».

Il nuovo design della torre Inps sarà affidato a Cesar Pelli, l’architetto dell’Unicredit Tower e del masterplan Porta Nuova. Perché abbattere e ricostruire, però? Non si poteva salvaguardare un pezzo della Milano degli anni ‘60?«Guardi, mi considero un agnostico in questo. Ci sono edifici che hanno un valore storico che va preservato ed è quello che abbiamo fatto con un monumento come l’ex Palazzo delle Poste di Ferrante Aporti di cui ci siamo occupati. Altri immobili sono semplicemente vecchi e hanno caratteristiche che li limitano. Nel caso dell’Inps non avremmo potuto garantire elevati standard di efficienza».

Ma in questo modo non si rischia di perdere la memoria della città?«Qualsiasi città è un organismo vitale che si rinnova. Milano è passata da centro industriale a terziario, dai servizi agli abitanti tornati in centro. La qualità si fa anche abbattendo e ricostruendo. Preservare è solo una parte della storia».

Siete arrivati alla fase “4”: perché questo sviluppo a pezzi?«Una visione generale ce l’avevamo fin dal primo giorno, ma la proprietà dell’area era molto frammentata. Di fatto non avevamo un foglio bianco su cui disegnare, ma tante tessere e il mosaico poteva essere formato solo mettendo insieme pezzi diversi per genesi ed evoluzione. L’amministrazione, però, ha cercato di garantire un disegno unitario e vincoli precisi».

Eppure una critica riguarda propria la mancanza di una visione generale.«Non sono d’accordo. Con Porta Nuova abbiamo creato un dialogo virtuoso con il pubblico e cercheremo il confronto con il Comune e la Regione anche per la torre Inps. Il successo del progetto non sarà solo costruire un bell’edificio, ma progettare la parte pubblica, connetterlo con la città».

L’operazione degli scali ferroviari è rimandata, ma le aree, a cominciare da via Farini, sono strategiche. Potreste investire anche lì?«Il nostro mestiere è fare sviluppo immobiliare. Sicuramente osserviamo con attenzione quello che accadrà».

I RISCHI DELLA COLONIZZAZIONE:
IL COMUNE NON DICE QUAL'È LA SUA STRATEGIA
di Fulvio Irace

Nella seconda metà degli anni degli anni 50 Milano provò a essere internazionale: dopo aver superato brillantemente la fase della ricostruzione, si trovò infatti a cavalcare l’euforia dell’imminente miracolo economico. E il simbolo più ovvio della rinascita della “città che sale” fu il rilancio del grattacielo e delle torri nello skyline di una Milano che sognava di diventare metropoli. Qualcuno di quei sogni si concretizzò in periferia – nella Metanopoli di Mattei - qualcuno nel cuore della città antica (la torre Velasca); ma il nido dove gli architetti depositarono per lo più le loro ambizioni di grandezza fu l’area del cosiddetto centro direzionale: una sorta di moderna città degli uffici, quasi una city ai margini della città storica, a ridosso della stazione Centrale e di piazza della Repubblica.

Nel 1954 la Torre Breda di Luigi Mattioni rimase per quattro anni l’edificio per abitazioni più alto d’Italia; nel 1959, la Torre Galfa di Melchiorre Bega la tallonò per poco e tutte e due furono superate nel 1960 dal grattacielo Pirelli di Ponti e Nervi. Attorno ad esse si annidarono, poco alla volta, una serie di edifici di varie dimensioni, ma tutti improntati all’estetica della torre di vetro sulla suggestione del modello americano: gli Uffici tecnici del Comune degli architetti Gandolfi, Bazzoni, Fratino e Putelli che fungevano da nuova “porta” dell’asse di Gioia; il palazzo Galbani di Soncini e Pestalozza in via Filzi; i complessi di Menghi, Righini e Valtolina, lì accanto; e la più modesta torre dell’Inps di Giordani, Susini e Vincenti in via Melchiorre Gioia 22, di cui si è appena annunciata la demolizione per far posto a una torre ultramoderna dell’architetto autore della Unicredit tower, Cesar Pelli.

Al di là del valore del singolo edificio, ce n’è abbastanza per riconoscere all’intero distretto un suo carattere unitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio a fronte delle radicali trasformazioni innescate dalla gigantesca operazione del cantiere Porta Nuova.

Sull’onda del suo successo, il progetto di riqualificazione urbana che troverebbe il suo fulcro nella costruzione di un nuovo complesso sulle ceneri dell’ex Inps punta dunque a estendere la colonizzazione della città postmoderna sui resti di quella moderna. Negli anni 50, si voleva dimostrare che alla città di pietra del fascismo si potesse sostituire una città trasparente e democratica; oggi si vuole dichiarare inadeguato e fuori moda tutto ciò che non corrisponda ai nuovi parametri di efficienza energetica, performatività funzionale, estetica del translucido e del colossale.

L’operazione non nasce ora, ma proprio quando, nel 2012, l’Inps annunciò la dismissione dei suoi headquarters e la vendita dell’edificio del 1955 al Carlyle Group, controllata da Real Estate Sgr. Qualcuno forse ricorderà che fu promosso un concorso a inviti: furono invitati dieci gruppi ( tra cui il milanese Caputo Partnership) e individuato come vincitore il francese Jean Michel Wilmotte. Al posto di un edificio, ne sarebbero sorti due; il vecchio complesso di quindici piani sostituito da una lastra di 84 metri.

Dopo l’annuncio e la promessa del Comune di inviare osservazioni in merito, un lungo silenzio, interrotto proprio ora dalla promessa del presidente della Coima Ssgr (la società che ha acquisito l’immobile), Manfredi Catella, di voler procedere a un piano complessivo di riqualificazione a partire dalla demolizione dell’edificio e dalla riconversione di altri palazzi limitrofi.

Se è noto il programma, non sono noti i piani e in particolare il progetto affidato alle cure di Cesar Pelli: è chiaro però che si è scartata sin dall’inizio la strada del restauro o dell’”aggiornamento” tecnologico come ad esempio nel complesso di via Gioia 8, progettato nel 1970 da Marco Zanuso e “rivisitato” da Park Associati, o nella piccola torre di via Filzi 23 con la sostituzione degli infissi e dei vetri di facciata.

Ma, se nel caso di Porta Nuova si trattava di riedificare quasi dal nulla un nuovo pezzo di città, in quello dell’ex edificio Inps si propone un intervento che va a incidere su una parte di città che ha invece un carattere molto preciso e ormai anche storicizzato. Al di là delle legittime aspirazioni dell’imprenditoria privata, ci si chiede se l’ente pubblico (il Comune, ma anche la Soprintendenza) abbiano una strategia o almeno una visione per questa area di Milano con caratteri ambientali tanto forti e caratterizzanti. Si sono calcolati o previsti gli effetti a catena che un metodo di sostituzione caso per caso comporterebbe nello stravolgere l’assetto ambientale della zona? Chi si oppone al cambiamento è spesso tacciato di essere un “gufo”: ma chi si oppone a discutere le forme del cambiamento non rischia forse di dilapidare il patrimonio come una “cicala”? Un dibattito pubblico sull’area del centro direzionale potrebbe essere, alla vigilia delle elezioni per il nuovo sindaco, un bel terreno di confronto per chi crede ancora nel valore collettivo dell’urbanistica e dell’eredità urbana.

postilla

Fulvio Irace osserva giustamentecome occorra «riconoscere all’intero distretto un suo carattereunitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio afronte delle radicali trasformazioni innescate», ma forse c'èqualcosa di più da aggiungere, a questa idea di urbanistica che infondo resta pur sempre ancorata a quella di architettura, ed è unpossibile sgretolamento di qualsiasi strategia di sviluppo. Uno deilibri sui temi urbani di maggior successo di questa stagione, è«City on a Grid» di Gerard Koeppel (Da Capo Press, 2015), chericostruendo le tappe attraverso cui New York è diventata ilparadigma della città moderna, individua come invariante – ovvia,ma forse non a sufficienza – proprio quella struttura a scacchieradell'impianto viario, decisa da un giurista liberale giàestensore della Costituzione degli Stati Uniti, Gouverneur Morris, eche ha attraversato praticamente indenne due secoli di pur radicalitrasformazioni, sia nella composizione spaziale «sovrastrutturale»che nelle innovazioni tecnologiche, dalla ferroviaall'elettrificazione alle automobili al recente revival dellamobilità dolce e della dimensione di vicinato. E la domanda, davantiallo stravolgimento urbanistico di un'area di raccordo metropolitanocome l'ex Centro Direzionale, per realizzare il quale si interrò unlunghissimo tratto del Naviglio nel dopoguerra, suona: siamo difronte a un vero e proprio attacco all'idea di città, da parte di unpensiero sventatamente liberista e reazionario? Oppure quel che ci haconsegnato la storia, urbana e non, saprà reggere come avvenutosinora con la «Griglia», a suo modo anche garanzia di un relativoequilibrio fra spazio pubblico e privato? Forse qualche rispostainizierà a emergere anche dal dibattito elettorale, e di sicurodalle scelte della prossima amministrazione cittadina, nonché dellafuturibile Città Metropolitana, di cui si sente particolarmente inquesti casi l'assenza (f.b.)
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