La Repubblica, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)
«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attacco a una professione già fragile.
di Serena Giannico
di Andrea Fabozzi
Per quale ragione non potrà esserci l’accorpamento tra il referendum No Triv e le prossime elezioni amministrative Alfano non lo ha davvero spiegato. Rispondendo ieri alla camera all’interrogazione di Sinistra italiana, il ministro dell’interno ha elencato una serie di ostacoli tecnici al cosiddetto «election day», ma ha poi dovuto concludere che questi ostacoli sono superabili e sono infatti già stati superati almeno una volta - nel 2009. In realtà c’è anche un altro precedente, per quanto di diversa natura: il referendum consultivo sull’Europa che si tenne congiuntamente alle elezioni europee del 1989. In quel caso però non era previsto un quorum minimo di partecipanti, anche se l’affluenza risultò molto alta. Mentre nel 2009 malgrado l’accoppiata con le amministrative i referendum - sulla legge elettorale - si fermarono al 24% di affluenza e risultarono non validi.
l'Italia, dagli anni di Giuseppe Bottai a quelli di Concetto Marchesi e Aldo Moro, fino alla miseria di oggi. Ma non è detto che il fondo sia raggiunto. La Repubblica, 4 febbraio 2016
C’era una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi (Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese), ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di “valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa, secondo il Codice dei Beni Culturali (art.6). Vanto del nostro patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da parte della collettività».
Ma il blocco delle assunzioni ha svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del Ministero. Come in una tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un merito fare e disfare il Ministero con colpi di mano, codicilli in Fianziaria, riforme-missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le decisioni dietro le quinte.
Quando nella legge di stabilità spuntò sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del Ministero», il disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa Direzione Generale), accorpandole con Belle Arti e Paesaggio. Perché, invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci !) è un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani. Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una notte (29 gennaio). Prima spiega che porre i Soprintendenti alla «dipendenza funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il silenzio assenso».
Vano spacciare per innovativi questi accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle Arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il Ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante, visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal Ministero, che la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?
La neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti “super-musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto, gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche ‘globali’ con cui devono misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro archivi e biblioteche sono trasferiti ai Musei? Se vengono sfrattate dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito, condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero distinguere una good company (i musei) e una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?
Segnali contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica (come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali vari punti dello “Sblocca-Italia”. Intanto il Governo capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di sette costituzionalisti (fra cui Zagrebelsky), in prima su questo giornale, è rimasto senza risposta; nè ha detto una sillaba in merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo Mattarella.
Rafforziamo pure i musei, ma il tallone d’Achille della tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da sindaco) ha inveito contro i Soprintendenti («una delle parole più brutte del vocabolario», scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio) dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela. Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta” natalizia, la bad company sarebbe il Governo, non le Soprintendenze.
La Repubblica, blog "Articolo 9", 3 febbraio 2016
Se un provvedimento come questo, firmato ieri l'altro dal soprintendente archeologico di Roma, fosse uscito sotto Bondi ci sarebbe stata la rivoluzione. Ringrazio la Cgil per avermelo fatto conoscere, e lo pubblico qua sotto. ( nostra trascrizione, qui il testo dell’originale in .pdf)
1 febbraio 2016, prot. N. 2208
oggetto: Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.M. 23 dicembre 2015)
In seguito all’adozione del Codice in oggetto, come comunicato via intranet in data 18 gennaio u.s., si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Le modalità di comunicazione agli organi d’informazione (giornali, radio, TV) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al dirigente, per il tramite dell’addetto stampa dr. Luca Del Frà e/o delle strutture istituzionali Ufficio Stampa e Ufficio Comunicazione o, in caso urgente, al Dirigente. Ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL. in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art.3, comma 8 del codice di comportamento.
Questa inaudita circolare vieta ai dipendenti di parlare con la stampa della “deforma” del Ministero per i Beni culturali voluta da Franceschini. Mentre la protesta si fa internazionale, mentre si avvicina lo sciopero, il Ministero non trova nulla di meglio che mettere il bavaglio agli archeologi: sarebbe come se si fosse proibito ai professori universitari di dire la loro sulla (devastante) riforma Berlinguer, o agli insegnanti di parlare della (altrettanto devastante) #buonascuola.
I funzionari delle soprintendenze non sono dei grigi passacarte, né gli impiegati di una multinazionale che deve difendere la sua immagine. Sono, invece, ricercatori al servizio del pubblico interesse: e l'oggetto della loro ricerca è la tutela del patrimonio. La libertà di esprimersi su tutto ciò è dunque garantita dalla Costituzione.
Noi paghiamo lo stipendio (miserabile, peraltro) dei soprintendenti perché difendano il nostro patrimonio dalle pressioni del potere politico e di quello economico. Ora tutto questo viene spazzato via dalla Legge Madia che sottopone i soprintendenti ai prefetti, cioè ai rappresentanti del potere esecutivo. A questo è funzionale la riduzione delle soprintendenze da tre ad una sola: perché una testa si piega, e si taglia, meglio di tre.
Il bavaglio ai soprintendenti è un altro, odioso, passo in questa direzione. Ed è un attacco diretto alla democrazia, e agli interessi dei cittadini: perché mira a far tacere coloro che più e meglio di tutti possono spiegare come e perché la 'deforma' Franceschini uccide la tutela del patrimonio.
Coprire le statue antiche, imbavagliare gli archeologi: c'è del metodo, in questa follia.
In un quartiere ridotto ad anfratti a fondo chiuso da trasformazioni infrastrutturali stradali e ferroviarie mal pensate e peggio gestite, scende in campo la «sicurezza di sinistra», ovviamente identica per superficialità a quella di destra. La Repubblica Milano, 4 febbraio 2016, postilla (f.b.)
Taglieranno la vegetazione e recinteranno “il bosco della droga”. Chiuderanno con cancelli le vie intorno alla piazza di spaccio dell’eroina più famosa della Lombardia. L’area verrà blindata e il “supermercato della droga” di Rogoredo chiuderà i battenti. Così promette il Comune, che ha già iniziato a fare i primi interventi. Da anni il problema dello spaccio e della microcriminalità nell’area intorno alla ferrovia è stato segnalato dai residenti di Rogoredo e consiglio di Zona 4. Ma, dice Stefano Bianco, presidente del comitato di quartiere Milano Santa Giulia, «il problema riguarda anche chi frequenta metropolitana e stazione, non solo gli abitanti». Già a luglio, durante un sopralluogo dell’assessorato alla Sicurezza con il consiglio di Zona, si era valutato di chiudere con cancelli, nelle ore serali, il sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini di via Rogoredo e tra la zona tra via Sant’Arialdo e Parco Cassinis.
Ma la svolta è arrivata settimana scorsa. È stato messo il primo cancello in via Orwell, in un’area di proprietà di Ferrovie dello Stato. Le chiavi sono state date ai proprietari delle aree agricole a cui si accede passando per quell’ingresso. Poi ne sono stati posti due anche ai lati del sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini. Amsa si occupa di chiuderli di notte e riaprirli di giorno. «Questi cancelli costituiscono un deterrente importante all’ingresso nell’area dei giardinetti e delle proprietà di Ferrovie dello Stato. In questo modo cominciamo a porre un freno alle attività illegali e allo spaccio nella zona», dice Marco Granelli, assessore alla Sicurezza. Nei prossimi mesi, il Comune si occuperà anche del “bosco della droga”. Verranno eliminati gli arbusti per evitare che tossicodipendenti e spacciatori si possano nascondere e verranno messe «altre recinzioni nelle aree a Ovest di via Sant’Arialdo verso San Donato». Ci sarà, infine, anche un maggior presidio delle forze dell’ordine.
postilla
Cancelli e recinzioni, pattuglie di ronda, controlli: il medesimo armamentario della destra, e non certo perché «d'altra parte che soluzione c'è a un problema di ordine pubblico, se non le forze dell'ordine e i loro metodi?». I cosiddetti Bronx, dal nome del quartiere newyorchese reso famigerato dalla «mannaia autostradale» dello zar del lavori pubblici Robert Moses, si costruiscono piuttosto consapevolmente, e volendo si potrebbero altrettanto consapevolmente smontare, reintroducendo in qualche modo il sistema di occhi sulla strada che i budelli a fondo cieco delle grandi linee di trasporto hanno reciso moltiplicando all'infinito nel tessuto urbano sacche di concentrazione del degrado e del rischio. Ma se, invece di competenze urbane e sociali (i «rammendatori di periferie» qui dove sono finiti?) si mobilitano quelle raccogliticce della «sinistra per l'ordine», che scimmiotta malamente la destra usando un linguaggio lievemente meno volgare, si arriva solo alle gabbie: i comitati di quartiere, grati per la soluzione almeno dell'emergenza, premieranno coi loro voti l'assessore con l'elmetto, e dietro le cancellate maturerà la prossima emergenza, il prossimo «pugno di ferro». Amen (f.b.)
Dell'inaffondabile, spregiudiciato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio. E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda. Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto? Sarebbe una bella pagina istituzionale. Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:
«Una soprintendenza all'arte o all'antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d'essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l'azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d'azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.
«Occorre, quindi, che l'archeologo faccia l'archeologo, l'architetto risarcisca l'architettura lo storico dell'arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l'informazione culturale, altra l'azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».
Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la "deforma" Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.
Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.
La Repubblica, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio.
Sono i risultati dell’Eurobarometro 2015, un sondaggio tra i cittadini della Ue I trasporti funzionanti e la possibilità di fare sport all’aperto sono considerati decisivi. La qualità della vita non dipende solo dal reddito ma da come sono amministrate le città , dall’istruzione e dal livello d’integrazione. In classifica svetta il Nord, con qualche sorpresa. La Repubblica, 27 febbraio 2016
Non è un paradosso: il sette per cento dei cittadini europei dichiara di essere totalmente felice ma del tutto insoddisfatto della propria vita. Una quota considerevole, rilevata in un Eurobarometro sulla qualità della vita nella Ue. L’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che la felicità è una variabile indipendente. Ma spulciando le tabelle di questo e altri studi più recenti sull’umore dei cittadini europei, è chiaro che ci sono degli aspetti su cui i governi e le amministrazioni locali possono lavorare, per migliorare almeno il grado di soddisfazione delle persone.
La buona notizia, anzitutto, è che gli europei stanno riemergendo più sereni dalla crisi: tra il 2008, l’anno dello scoppio della Grande crisi, e il 2013, il numero di persone contente della propria vita è salito dal 76 all’80%. E la stragrande maggioranza delle persone che vive in città, sostiene uno studio che fa riferimento al 2015, è soddisfatta. In 79 città analizzate, oltre l’80% degli abitanti ci vive volentieri.
Tuttavia i sondaggi rivelano anche che la serenità cala con gli anni. E non è un dettaglio da poco, in Paesi che stanno invecchiando velocemente e in cui si allunga la vita. L’87% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è “abbastanza” o “molto” soddisfatto. Anche qui, tra i dati si annida un dettaglio curioso: in molti Paesi del Nordeuropa c’è un “effetto pensionamento” per cui tra i 65 e i 74 anni la soddisfazione aumenta, rispetto agli ultimi anni lavorativi. Una sensazione che non riguarda, tuttavia, i pensionati italiani, francesi, croati o bulgari, insomma di Paesi dell’Est e del Sudeuropa. Inoltre, dopo i 74 anni la salute “gioca un ruolo essenziale” per il crollo della qualità della vita.
Altro elemento che dovrebbe far riflettere: le più scontente sono le donne over 65 o i genitori soli con figli. Quasi un terzo è insoddisfatto della propria vita. Al contrario, è nelle famiglie con figli che si registra il tasso più alto di persone che si ritengono realizzate. Più prevedibilmente, la serenità è anche proporzionale al reddito e al livello di istruzione. In più, in vetta ai cittadini europei più contenti, ci sono i “soliti” nordici: svedesi, danesi e finlandesi.
Esaminando maggiormente nel dettaglio i dati sulla qualità della vita urbana dell’Unione europea si scoprono cose sorprendenti. La città dove si trova più facilmente lavoro è Praga, poi la rumena Cluj Naroca e Monaco di Baviera. Purtroppo, in fondo alla classifica ci sono tre città italiane: Palermo, Torino e Napoli. E le città italiane sono anche in fondo alla lista delle 79 città sulla tolleranza nei confronti degli stranieri: alla domanda “la presenza di stranieri è positiva per la mia città”, sei sono finite tra le ultime quindici.
L’indagine sulle città mostra che sono generalmente i sindaci del Nordeuropa i più bravi a creare l’ambiente più favorevole ad una vita serena. Le domande riguardano i trasporti pubblici, la possibilità di fare attività all’aperto, la sicurezza, l’educazione, la qualità di strade ed edifici. In cima risultano Oslo, Zurigo e la danese Aalborg; tra le prime dieci, quattro sono tedesche, Amburgo, Lipsia, Rostock e Monaco.
Corriere della Sera, 24 gennaio 2016
Le pagine di eddyburg, che per primo ha pubblicato la lettera, sono aperte al dibattito: eddyburg@tin.it
Italia Nostra in profonda crisi, generazionale e identitaria. Tutto è partito dalla lettera di dimissioni dal Consiglio nazionale presentata da Tomaso Montanari, giovane critico e storico dell’arte: «L’attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato una frattura con l’ispirazione più autentica dell’associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente». Montanari accusa il vertice nazionale (non le sezioni locali) e il presidente Marco Parini, eletto nel settembre 2012, di aver capovolto la scala di valori: «La “valorizzazione” è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito». Con la conseguenza, sostiene Montanari, di un «crescente interesse» di Italia Nostra per la gestione dei beni che rischierebbe di trasformarla «in una sbiadita fotocopia del Fai».
Desideria Pasolini dall’Onda e Nicola Caracciolo di Castagneto, presidenti onorari eletti all’unanimità, hanno chiesto a Parini di «adoperarsi perché il Direttivo dell’associazione respinga le dimissioni di Montanari, una delle figure più marcanti di una nuova generazione di ambienta-listi. Perderlo sarebbe un errore». Una dura lettera di sostegno a Montanari (firmata da Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Rita Paris) chiede le dimissioni del presidente e della dirigenza accusati «di equiparare la pubblica tutela alla privata valorizzazione». Solidarietà a Montanari dalle sezioni di Tivoli, Ferrara, Caserta, Vasto, Forlì. Anche la consigliera nazionale Maria Pia Guermandi sta riflettendo su possibili dimissioni.
Invece protesta il presidente della sezione di Firenze, il professor Leonardo Rombai: «Supina accettazione delle parole d’ordine del potere? Non mi riconosco affatto in questa accusa ingenerosa, e non si riconosceranno i nostri iscritti. Siamo in tanti a batterci per il nostro patrimonio». Ma è soprattutto Parini a replicare, con una missiva ai due presidenti onorari. Il presidente rivendica «una linea programmatica in continuità con il triennio precedente, l’incremento delle azioni giudiziarie anche penali, un confronto senza sconti con le istituzioni, per esempio la prima iniziativa contro il decreto sblocca Italia e le battaglie sul paesaggio e contro l’eolico selvaggio». Ma Parini ribatte soprattutto all’accusa di voler privilegiare la gestione-valorizzazione dei beni citando l’articolo 1 dello statuto del 1955 («concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico e naturale della Nazione») e l’articolo 3 («promuovere l’acquisto di edifici o proprietà in genere, di valore storico artistico, o assicurarne la tutela ed eventualmente anche la gestione»). Ricorda il successo di iniziative ormai radicate nel tempo «come il Boscoincittà, il museo nel Porto Vecchio di Trieste, il parco gestito dalla sezione di Reggio Calabria, il museo all’Isola di Caprera, la recente concessione dell’Eremo di Santo Spirito in Abruzzo».
Parini contesta a Montanari il voler rifiutare ciò che Italia Nostra fa da quarant’anni. Così come rispedisce al mittente l’obiezione sulla correttezza del principio per cui il meccanismo del volontariato può generare posti di lavoro nell’indotto (così come avviene, va detto per inciso e per completezza, in Gran Bretagna proprio grazie al National Trust).
Parini ritiene dunque concluso l’incidente: dopo le irrevocabili dimissioni di Montanari, scrive Parini, «il Direttivo nazionale del 16 gennaio ha preso atto e ha invitato l’architetto Luigi De Falco, che ha accettato, a subentrargli». La storia, c’è da giurarci, non finirà qui.
Caro Direttore, le primarie sono uno straordinario strumento di partecipazione e di democrazia. Io stesso vi ho preso parte per ben due volte: nel 2009 contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, per la carica di segretario del Pd, e nel 2013, quando venni scelto come candidato sindaco di Roma, staccando di quasi 30 punti David Sassoli e di 40 Paolo Gentiloni. A quelle consultazioni, avvenute meno di tre anni fa, parteciparono più di 100 mila romani, che mi scelsero con oltre il 55% dei voti. Immediatamente dopo mi dimisi da senatore per correre senza alcun paracadute.
La lettera di dimissioni di Tomaso Montanari da Italia nostra: una lunga e argomentata accusa al gruppo dirigente:«Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige». Con una nostra premessa.
Ricordiamo ai nostri lettori che la prestigiosa associazione protezionista, nata nel 1955 per iniziativa di autorevoli personaggi della più illuminata intellettualità italiana (quali Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani) e le sue sezioni sparse su tutto il territorio nazionale ha tenacemente lavorato per 60 anni per la difesa del patrimonio culturale e per la diffusione di una cultura di massa volta alla tutela della bellezza dei nostri territori.
Memorabili battaglie combattute in ogni regione e grandi campagne nazionali hanno contribuito a salvare decine di luoghi di straordinaria qualità archeologica, artistica, storica, ambientale. È stata la prima associazione proto-ambientalista a comprendere che le pietre e i paesaggi, le biblioteche e i musei non si salvano senza l’attivo impegno del maggior numero di persone, e che la pianificazione urbanistica è uno strumento essenziale per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.
Per tutti i governi e i parlamenti Italia Nostra è stata uno stimolo e una sentinella: pronti a collaborare con i membri dell’esecutivo e del legislativo, quando governi e parlamenti esprimevano interessi coerenti con quelli dell’associazione, tempestivi nel criticare con severità e rigore ogni volta che gli atti del governo o del parlamento minacciavano i valori e i principi dell’associazione.
Secondo Tomaso Montanari – noto ai frequentatori di questo sito e a un pubblico molto più vasto per i suoi numerosi scritti in difesa della bellezza, della memoria e della democrazia – la dirigenza dell’associazione, e in particolare l’attuale presidente Marco Parini – avrebbero radicalmente rovesciato il pluridecennale atteggiamento politico- culturale di Italia Nostra. Mentre numerose sezioni proseguono la loro azione di vigilanza, critica e proposta nella scia del comportamento di sempre – il livello nazionale, mentre tace sulle più gravi lesioni alla tutela del territorio operate dal governo Renzi e dal suo parlamento, arriva al punto di avallare talune delle scelte più nefaste, come quella di indebolire gli organi statali di studio, vigilanza e governo dei beni culturali, di procedere nella strada criminosa delle privatizzazioni e così via. Ma è il caso di dare la parola direttamente a Montanari, cui speriamo seguirà un ampio dibattito, di cui cercheremo di dar conto puntualmente.
Dopo l’allineamento dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica) agli indirizzi di politica della città e del territorio peculiari all’ideologia e alla prassi del renzismo e ben rappresentati da Maurizio Lupi ed Ermete Realacci, il cambiamento di fronte di Italia nostra sarebbe una perdita gravissima. È necessario invertire la rotta. Ciò è possibile solo attraverso un dibattito trasparente e aperto, al quale partecipino in primo luogo i soci e le sezioni dell’associazione. Cercheremo di darne conto nel migliore modo possibile (e.s.)
La lettera di Tomaso Montanari
è con grande tristezza che vi scrivo per comunicarvi che mi sono appena, irrevocabilmente, dimesso dal Consiglio Nazionale dell'Associazione.
Ho accettato di candidarmi rispondendo all'appello di alcuni amici – tra i quali voglio nominare solo Giovanni Losavio, indimenticato presidente –, profondamente preoccupati per la frattura che l'attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato con l'ispirazione più autentica dell'Associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Questa frattura è, in effetti, innegabile: mentre moltissime delle sezioni conservano intatto quello spirito, e lottano quotidianamente perché siano attuati i valori dell'articolo 9 della Costituzione, Italia Nostra nazionale è caduta in un letargo profondo. Non c'è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c'è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d'ordine del potere vigente.
Ho sempre pensato che il faro dell'Associazione dovesse essere una celebre frase del suo presidente Giorgio Bassani, per cui Italia Nostra opera perché un giorno non ci sia più bisogno di Italia Nostra. Quando ho citato questa bussola, mi è stato risposto che si tratta di un programma superato, anzi sbagliato. Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige.
Sono fermamente convinto che tra l'attuale dirigenza e i padri fondatori c'è la stessa distanza che separa Matteo Renzi da Alcide De Gasperi, o Maria Elena Boschi da Piero Calamandrei. Parlare, o carteggiare, con i membri della Giunta Esecutiva equivale a farlo con il ministro Franceschini: la 'valorizzazione' è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito. Questa mutazione della scala valoriale e il crescente interesse di Italia Nostra per la gestione diretta del patrimonio culturale (con tutte le servitù politiche e gli interessi che ciò comporta) mostrano che l'Associazione si avvia a diventare una fotocopia (peraltro sbiadita e subalterna) del Fai.
Nella feroce battaglia che infuria intorno al progetto costituzionale sul patrimonio – una battaglia che ho provato a descrivere in alcuni miei libri, come Le pietre e il popolo e Privati del patrimonio – Italia Nostra si trova spesso a combattere da quella che io giudico la parte sbagliata del fronte. Il rifiuto di ricorrere contro la ricostruzione illegale e abusiva di Città della Scienza a Bagnoli è forse il più terribilmente concreto tra i segni di quella che io giudico una gravissima involuzione.
Sapevo tutto questo prima di entrare nel Consiglio Nazionale: ed è anzi proprio per tentare di cambiare questo stato di cose che ho accettato di candidarmi.
Quello che non conoscevo è il punto a cui è arrivata la determinazione della maggioranza del Consiglio ad avanzare in questa direzione. Ogni tentativo di proporre un'agenda valoriale diversa viene respinto in base ad un unico, brutale argomento: la forza dei numeri in consiglio – quasi si volesse scimmiotare la retorica muscolare della maggioranza 'che tira diritto', drammaticamente invalsa in Parlamento. Questa radicale indisponibilità ad ogni correzione di rotta si accompagna ad un dibattito di qualità intellettuale e culturale oggettivamente infima, e ad una violenza verbale sorprendentemente alta. Credo che sia meglio non entrare in dettaglio, ma se qualcuno fosse interessato a comprendere su cosa si fondi un giudizio così netto, sono disponibile a far conoscere il ricco carteggio di insulti da me ricevuto in questi mesi.
In queste deprecabili e deprimenti condizioni la mia presenza nel Consiglio Nazionale di Italia Nostra non ha alcuna prospettiva utile. Continuo invece a credere nel lavoro splendido di molte sezioni, e spero che anche queste mie dimissioni possano spingere i soci – e non solo le centinaia che mi hanno votato, e che ringrazio – a condurre finalmente una battaglia che riallinei la dirigenza nazionale ai valori sani di quelle stesse sezioni.
Queste precoci, e assai sofferte, dimissioni si devono al fatto che una simile battaglia non ha, nell'attuale consiglio nazionale, alcuna prospettiva di successo. Ammiro gli amici che scelgono di rimanere, per dare testimonianza e svolgere una indispensabile funzione di controllo. E so che chi prenderà il mio posto in Consiglio avrà occhi e voce perfettamente adeguati. Ma credo che ora sia, invece, mio dovere non sottrarre ulteriori energie alla battaglia per il patrimonio culturale e per la sua funzione costituzionale.
Continuerò ad appoggiare in ogni modo il lavoro delle sezioni che operano secondo il cuore antico, e attualissimo, di Italia Nostra.
Questo inverno, ne sono sicuro, passerà: viva Italia Nostra!
«Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. La prima parte del discorso è certamente vera». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 21 gennaio 2016
Come altro definire, se non mobbing, l'incomprensibile decisione di tornare – dopo pochi mesi – a riformare radicalmente la struttura centrale e periferica del Ministero, negando e sovvertendo i capisaldi della precedente riforma e gettando nello sconforto e nell'avvilimento le donne e gli uomini che difendono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione?
A questo giro si sopprimono – con l'assenso inquietante e vergognoso del Consiglio Superiore dei Beni culturali – le soprintendenze archeologiche e la direzione centrale per l'archeologia, e si passa a soprintendenze uniche. Olistiche, come ama chiamarle qualche ciarliero cialtrone.
Intendiamoci: le soprintendenze uniche potevano avere un senso. Ma dovevano essere un obiettivo fin dall'inizio: non un aggiustamento maldestro fatto in corso d'opera e a costo zero. Si dovevano accompagnare a direzioni generali divise per funzione, e dovevano essere guidate a rotazione da funzionari dalla diversa competenza, e non affidate agli evanescenti ectoplasmi interdisciplinari che ora si vagheggiano, e che rischiano di essere i leggendari managers del patrimonio. Senza contare il vero e proprio caos che questa riforma della riforma provoca mescolando le competenze di soprintendenze, poli museali, segretariati regionali...
Una delle vere ragioni di questa imbarazzante contorsione è recuperare posti dirigenziali per creare altri dieci musei e siti archeologici autonomi. Carne da valorizzazione, da rimettere presto a bando internazionale: per avere altri dieci fedeli terminali del potere politico. Con quali conseguenze? C'è, per esempio, da scommettere che vedremo presto l'Appia Antica consegnata armi e bagagli ad Autostrade.
Si riesce ad intravedere un fine più generale, in tutto questo caos? Le premesse delle bozze dei decreti dicono ufficialmente che tutto ciò servirebbe a evitare le conseguenze del silenzio assenso: che non è una pestilenza o un terremoto, ma una norma introdotta dallo stesso governo Renzi. A voce, poi, Franceschini dice che è un modo di arginare i danni della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture: che è un'altra mostruosa disposizione della Legge Madia.
Che, invece, il fine sia quello di portare a termine la distruzione dell'apparato della tutela lo dimostra il fatto che ora passano agli istituti della valorizzazione (i musei autonomi) anche gli immobili in cui essi hanno sede: e pazienza se li condividono con le soprintendenze (si veda ad esempio il caso di Villa Giulia a Roma, dove convivono soprintendenza e museo). E non basta: si impone anche "il trasferimento [ai musei] di uffici, archivi, biblioteche, laboratori, spazi espositivi e depositi dei relativi musei e luoghi della cultura", fingendo di non sapere che tali strutture sono (erano) comuni a Soprintendenze e musei prima della riforma. E la Soprintendenza senza laboratori, biblioteche ed archivi, come lavora? Non lavora: et hoc erat in votis.
Non basta ancora. Si dispone anche che "con riguardo ai musei, alle aree e ai parchi archeologici, la consegna dei reperti presenti nei depositi e non ancora inventariati può essere differita a non oltre il 31 dicembre 2016, al fine di completare l'inventariazione; decorso tale termine, i beni sono trasferiti ai musei dotati di autonomia speciale o ai poli museali regionali e la relativa attività di inventariazione è svolta da detti istituti in cooperazione con le Soprintendenze competenti". Chi ha scritto questa norma davvero non è mai entrato in una soprintendenza o in un museo, e non ne ha mai visto le condizioni. Chi potrà mai inventariare e studiare entro il 31 dicembre 2016 le migliaia di cassette di materiali rinvenienti da scavo? E con quali risorse? E questi materiali a cosa servono nei musei? Il loro studio e la loro conoscenza servono alle soprintendenze per capire il territorio e costruire le carte del rischio archeologico. O meglio: servivano...
Sta di fatto che per ritrovare una paragonabile contrazione della tutela si deve tornare alla legge del 1923, che istituiva soprintendenze uniche: un assetto che dette pessimi risultati, e che fu radicalmente rivisto contestualmente alla legge del 1939. Per trovare, invece, la sottomissione dei soprintendenti ai prefetti bisogna risalire al 1860: cioè al caos immediatamente successivo all'Unità, poi velocemente superato perché fatale per la tutela.
In privato, Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale.
La Repubblica, 120gennaio 2016
Un nuovo scossone agita le acque dei Beni culturali. Pochi mesi dopo una complessa riorganizzazione di soprintendenze e musei, ecco che le prime vengono ulteriormente accorpate, inglobando, insieme al paesaggio e alle belle arti, l’archeologia, mentre altri dieci luoghi del nostro patrimonio diventano autonomi e per loro sono in arrivo direttori selezionati con bando internazionale, come avvenne per gli Uffizi o Capodimonte nell’agosto scorso.
La decisione maturava da qualche tempo, ma per molti dentro il ministero è stato un colpo a sorpresa. Quando infatti si decise di unificare paesaggio e belle arti in un’unica soprintendenza, nell’estate del 2014, al ministero sottolinearono che l’archeologia restava autonoma per le specifiche competenze che comportava la tutela delle antichità. Ora però Dario Franceschini sottolinea la continuità con le scelte di allora, scelte che hanno prodotto già un faticoso adattamento degli uffici. Per il ministro, le nuove soprintendenze servono a «rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione». In Italia ci saranno dunque 39 soprintendenze (erano 17 le sole archeologiche), più le due speciali di Roma e Pompei. E tutte si occuperanno di tutto. Ogni soprintendenza verrà articolata in sette aree funzionali (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Verrà abolita anche la Direzione generale delle Antichità. Il ministro insiste sul fatto che le nuove strutture «parleranno con voce unica a cittadini e imprese, riducendo tempi e costi burocratici». Il pensiero di Franceschini sembra andare alle conferenze di servizio e alle altre occasioni in cui si autorizzano opere anche di pesante impatto su territori e paesaggi. Ma il timore del fronte ambientalista è che si voglia abbassare ulteriormente la soglia della tutela.
L’altra parte del provvedimento riguarda quattro aree archeologiche (l’Appia Antica, i Campi Flegrei, Ercolano e Ostia Antica) e poi il complesso monumentale della Pilotta a Parma (con la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il museo archeologico), i musei dell’Eur a Roma (Pigorini, Arti e tradizioni popolari e Alto Medioevo), e, sempre a Roma, il Museo Nazionale Romano, il Museo di Villa Giulia, Villa Adria a e Villa d’Este a Tivoli e il Castello di Miramare a Trieste. Dieci pezzi pregiati del nostro patrimonio che si pensa, con l’autonomia e direttori scelti in seguito a un bando pubblico, di valorizzare meglio. Che cosa questo significhi, ad esempio, per l’Appia Antica lo si capirà quando il provvedimento del ministero sarà disponibile: è un territorio vastissimo, 3.500 ettari, al quale si accede senza biglietto, con monumenti splendidi (da Villa dei Quintili alla Tomba di Cecilia Metella), ma quasi integralmente di proprietà privata, con gravi fenomeni di abusivismo e dove, finora, la soprintendenza archeologica ha faticosamente operato un’efficacissima tutela. Alla stessa soprintendenza romana vengono sottratti il Museo Nazionale, che comprende Palazzo Massimo, le Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps e Crypta Balbi, e gli scavi di Ostia Antica, la cui tutela passa a una delle tre soprintendenze del Lazio. Uno spacchettamento. Diventa autonoma anche Ercolano, che si separa da Pompei rompendo l’unitarietà dell’area archeologica vesuviana.
Firenze centro storico: un primo passo, finalmente, nella direzione giusta, oppure l'ennesimo tweet truffapopolo? Lo vedremo dai successivi passi necessari, tutti elencati nell'articolo. La Repubblica, 19 gennaio 2016
Il principio che ne sta alla base trascende di molto il peso del provvedimento stesso. Perché si ha il coraggio di dire che il mercato non è il regolatore ultimo della qualità delle nostre vite: si ha la forza di mettere in discussione il dogma della concorrenza come fine, e si torna a parlare di regole.
Ora, perché questo passo non resti isolato e perché tutto questo non si riduca ad una maramaldesca esibizione di forza contro i deboli (questi esercizi commerciali sono infatti per lo più tenuti da immigrati), bisogna che lo stesso principio sia applicato verso l’alto. Non solo a Firenze, l’espulsione dei residenti dal centro storico è infatti assai più legata alla “gentrificazione dall’alto”, cioè alla disneyficazione: i palazzi pubblici (improvvidamente svenduti dal comune) che si trasformano in alberghi di lusso, la proliferazione di vendite di costosi prodotti tipici al posto dei negozi di quartiere, l’assenza di sostegni alla produzione culturale, l’indisponibilità verso ogni gestione dal basso dei beni comuni, la contrazione dello spazio pubblico. Se Nardella e gli altri sindaci saranno capaci di imporre anche contro interessi ben altrimenti forti la stessa linea — quella per cui il mercato non può dire l’ultima parola — allora le cose cambieranno sul serio.
In una delle nostre più antiche costituzioni — il Costituto di Siena, del 1309 — si legge che i governanti devono «preoccuparsi della belleza della città, perché dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini». Questo è il punto: attrarre un turismo di qualità è un obiettivo fondamentale, ma non si può perseguirlo senza costruire la felicità dei cittadini, e non solo di quelli ricchi.
È la lezione di una lunga storia in cui bellezza è stata sinonimo di giustizia: una lezione ancora carica di futuro.
Alcuni spunti emersi dalle discussioni di studiosi professionisti cittadini, su un tema strategico che probabilmente è rimasto piuttosto sottotono rispetto alla sua importanza nell'ultima amministrazione, vuoi per consapevoli scelte tattiche, vuoi per sottovalutazione
Il giorno 16 gennaio 2016, l’Associazione Architectural & Urban Forum (*) ha inviato una lista di 10 domande ai candidati alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano (Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala), per meglio conoscere i rispettivi programmi, con riferimento a temi urbanistici e territoriali cruciali per la città.
«Campidoglio. Fassina: se c'è il senatore pronto a ritirarmi. Ma a casa dem è scontro ruvido. Il commissario: chi vuole si presenti alle primarie» Nel PD non sono tutti uguali: chissà perchè resistono. Il manifesto, 17 gennaio 2016
Ieri Walter Tocci, invocatissimo senatore dissenziente ed ex assessore a Roma, da tempo candidato del cuore di una parte della sinistra capitolina ben oltre il Pd, sul suo blog ha rilanciato la proposta di «una lista civica di centrosinistra», mettendo «da parte il simbolo di partito», «non una rinuncia, ma un investimento per la riscossa». Per Tocci in questi giorni «si ripete il vecchio copione. Il Pd romano si ripresenta alle elezioni senza un programma credibile. Affida alle primarie il compito improprio di sciogliere i nodi politici. Seleziona i candidati nel recinto di partito, sempre più angusto. Sono gli stessi errori del 2013. È sconcertante ripeterli oggi». Tocci chiede un congresso prima del voto e giudica esaurita la funzione del commissario del Pd romano Matteo Orfini. «Sarebbe il momento di tentare soluzioni nuove, di immaginare scenari inediti, di alzare lo sguardo intorno a noi. Ci vorrebbero umiltà e coraggio».
Ma il senatore chiarisce una volta per tutte che non si candiderà: «La mia candidatura non è mai esistita, è un’invenzione del chiacchiericcio politico-giornalistico». La sua proposta piacerebbe a sinistra, innanzitutto a chi non si rassegna alla morte del centrosinistra. Piace persino a Stefano Fassina che da sempre, pur bocciando in blocco il Pd romano, fa un’eccezione per il compagno di tante battaglie. Fassina, che per oggi ha organizzato un incontro in ogni municipio della capitale, in questi giorni ha dovuto difendersi dall’accusa di voler rompere la coalizione ’a prescindere’. Ieri, con un tweet, ha mostrato di aprire uno spiraglio: «Se il Pd Roma raccogliesse la proposta di Tocci per lista civica di centrosinistra, pronto a ridiscutere tutto».
Ma la schiarita è durata poco, appunto, lo spazio di un tweet. Al quale a stretto giro il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha risposto con un no secco alla lista civica. «Il Pd è orgoglioso del suo simbolo. Soprattutto a Roma dove dopo un anno di rigenerazione c’è un Pd diverso da quello che non si accorgeva di mafia capitale. Con quel simbolo ci presenteremo alle elezioni». La decisione è presa, l’aveva anticipata anche il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Le primarie saranno il luogo delle scelte che, come sempre, spetteranno ai nostri elettori e non ai caminetti. Se qualcuno vuole misurare opzioni e proposte differenti si candidi alle primarie e si confronti con loro», chiude il commissario. Che con l’occasione, per ribadire il concetto non solo a Tocci ma anche a Sinistra italiana, ingaggia un ruvido scambio di tweet con Vendola e i suoi che dall’assemblea di Sel lo accusano di aver rotto il centrosinistra: «Dunque caro @NichiVendola, tu puoi scegliere nel chiuso di una stanza un candidato, mentre uno che si candida alle primarie divide?». La rispostaccia arriva dal giovane Marco Furfaro: «Parlò quello che nel chiuso di una stanza decise di dimissionare dal notaio il sindaco eletto dai cittadini romani».
La fine del 2015 oltre a darci uno dei periodi più lunghi degli ultimi anni con il superamento dei livelli di norma per le polveri sottili, ci ha anche lasciato lo psicodramma politico generato dalla vicenda della ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma per la riqualificazione degli scali ferroviari. Risultato che, come noto, non è stato successivamente conseguito.
In questo psicodramma la discussione sullo specifico in realtà ha avuto poco spazio e con questa affermazione non parliamo dei numeri, dei mq. edificabili, delle compensazioni o altro ma piuttosto di una esplicita discussione sugli obiettivi strategici, il senso e merito, le ragioni del “patto di utilità collettiva” tra i diversi contraenti. Il passaggio in Consiglio comunale non avrebbe dovuto avere anche queste finalità?
La maggior parte dello spazio è stato invece consumato in un dibattito condizionato da logiche politiciste con la finalità di addossare colpe a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, ne avrebbe favorito il fallimento. Il mantra ossessivamente veicolato, obbediente a una logica secondo noi mal impostata, recitava che quello in approvazione rappresentava “il miglior accordo possibile”. Qualità che si sostanziava nella riduzione dei volumi edificabili e nel miglioramento delle contropartite per la pubblica amministrazione, complessivamente intese, rispetto alla precedente versione dello stesso Accordo proposto dalle giunte di centro-destra.
Forse per valutare e qualificare meglio questa affermazione sarebbe opportuno rimettere in ordine i fattori di questa scelta e capire di che cosa stiamo parlando anche per stimolare coloro che nell’amministrazione comunale dovranno riprendere in mano la questione. Anche in ragione di una dialettica più laica e meno legata alle utilità e alle contingenze del momento.
Esigenze di sintesi ci obbligano a dare per conosciuti gli aspetti di contenuto di questo Accordo, richiamando il fatto che le funzioni prevalenti individuate coincidono con insediamenti residenziali, comprese quote di edilizia sociale, verde e urbano e connessioni viabilistiche e ciclabili (i contenuti di dettaglio sono comunque qui consultabili).
A Milano gli scali ferroviari costituiscono uno stock di circa 1.250.000 mq di aree molto diverse tra loro per collocazione, dimensione, qualità del contesto urbano nel quale si inseriscono; sono però accomunate da una medesima caratteristica: essere posizionate sulla e nei nodi della rete del trasporto pubblico su ferro, di livello nazionale, metropolitano e urbano.
Una caratteristica eccezionale che assegna quindi a queste aree un valore strategico per qualsiasi ipotesi di riassetto dell’area metropolitana. Ancorché attualmente in condizioni di dismissione e di degrado, esse rappresentano aree privilegiate e da privilegiare in funzione di qualunque ipotesi di disegno che voglia reinterpretare le relazioni e le dinamiche che attualmente qualificano il livelli di qualità del sistema, rendendola attrattiva e competitiva sia dal punto di vista urbanistico-territoriale che da quello dello sviluppo economico, del riequilibrio ambientale o delle modalità che condizionano gli spostamenti e la mobilità di circa 1.300.000 abitanti residenti e quasi 3.000.000 di city users.
Se c’è accordo sul riconoscimento di queste caratteristiche e sulle relative potenzialità, riavviare il processo di riqualificazione di queste aree dovrebbe comportare la necessità di riflettere su alcune questioni e domande preliminari. Proviamo ad elencarne alcune, anche se in forma non esaustiva, che non vogliono essere per nulla retoriche ma che hanno la funzione di mettere a fuoco alcuni aspetti che riteniamo essere stati fino a ora considerati in modo non sufficientemente approfondito.
1 Per le caratteristiche cha abbiamo richiamato, queste aree rappresentano “per definizione” dei nodi di rilevanza metropolitana. È quindi lecito – utile – opportuno mettere in gioco queste aree e chiudere la porta a qualsiasi altra opzione, senza un preventivo confronto con le esigenze dell’area metropolitana nel momento in cui la stessa Città Metropolitana sta elaborando il proprio Piano Strategico?
2 Qual è il disegno o la strategia urbana supportato dalla messa in gioco di queste aree (pregiatissime) e la relativa destinazione funzionale?
3 Preliminarmente all’Accordo, non sarebbe opportuno esprimere un progetto a cui legare il “Patto di utilità collettiva” fra i diversi contraenti, esplicitandone le ragioni e gli obiettivi? Ovvero, la cessione di tali quantità di rendita urbana si giustifica nelle funzione insediate con un adeguato ritorno utile alla collettività e alla istituzione metropolitana e comunale?
4 Milano ha un serio problema nel PGT ereditato che, anche se debolmente emendato, conserva una impostazione orientata soprattutto allo sviluppo edilizio e alla valorizzazione immobiliare, senza una visione strategica, con un approccio poco aperto alla dimensione metropolitana e che non ha integrato sistema urbano e bisogni di mobilità. È opportuno dar luogo alle trasformazioni sugli scali senza sintonizzare lo strumento urbanistico con una idea di città di medio-lungo periodo che assuma obiettivi diversi come ad esempio ipotesi di riequilibrio ambientale che si reggano su una radicale trasformazione della mobilità dell’intera Città Metropolitana?
5 Qual è il senso di trattare in modo indifferenziato dal punto di vista del mix funzionale, delle densità e dei parametri urbanistici, aree che hanno dimensioni e morfologie tanto diverse e che dovrebbero dialogare con contesti urbani così disomogenei? Quali sono le economie urbane e gli effetti di rigenerazione che si intendono promuovere?
6 L‘esperienza della riqualificazione delle aree Expo ha evidenziato che il ricorso alla sola valorizzazione immobiliare di un’area con dimensioni rilevanti, seppur strategica e con elevati livelli accessibilità, costituisce un approccio fallimentare se non connessa a una idea e a un progetto molto caratterizzato e di largo respiro. Tant’è che dopo che il “mercato” ha bocciato questo approccio, si è deciso di cambiare rotta. Perché riprodurre quindi un analogo modello di intervento?
Quest’ultimo tema, relativo alla valorizzazione immobiliare, evidenzia un’altra questione di grande impatto in relazione alla attuale proprietà delle aree e ai relativi aspetti di negoziazione dei limiti degli interventi. Come noto, la disponibilità di queste aree è stata ottenuta a suo tempo in relazione alla necessità di esercitare un servizio di interesse pubblico e collettivo, quindi non con procedure negoziali e di mercato ma mediante acquisizione per pubblica utilità (con uno sforzo collettivo quindi), in uno scenario che non prevedeva la successiva privatizzazione dei gestori di questo patrimonio che oggi mirano principalmente alla valorizzazione immobiliare dei siti.
Questo non è un tema esclusivamente milanese ma coinvolge una questione di livello nazionale che interessa in prevalenza i maggiori centri urbani e capoluoghi del Paese. L’anomalia e la difficoltà di gestire da parte delle singole Amministrazioni comunali un rapporto oggettivamente asimmetrico con un soggetto oggi “non formalmente pubblico” che gestisce un patrimonio acquisito con risorse collettive, dovrebbe essere quantomeno oggetto di attenzione a livello nazionale, anche per riequilibrare le rispettive capacità di negoziazione nei confronti di un effettivo interesse pubblico e non essere appiattita sulle esigenze di “fare cassa” e slegata da una effettiva costruzione sociale.
Perché allora non promuovere un’interlocuzione con il Governo nazionale che veda Milano e la sua Città Metropolitana aggregare intorno alla questione l’ANCI e alcune delle più importanti città del Paese, per riequilibrare questa asimmetria e conseguire maggiori gradi di libertà e di potere contrattuale nel definire le proprie strategie e politiche urbane?
Riferimenti
Qui il collegamento alla pagina del comune dove sono scaricabili i documenti
Sullo stesso argomento: su arcipelagomilano.org, le opinioni di Luca Beltrami Gadola, Sergio Brenna, Giorgio Goggi, Giuseppe Longhi.
Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)
Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.
L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».
E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.
La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».
La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».
Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».
i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016
Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.
La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.
L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).
A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».
La Repubblica
Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».
Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.
Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.
Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.
I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.
Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO”
“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini
il manifesto, 10 gennaio 2016
TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico
Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.
MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia
per promuovere il solito «sviluppo del territorio». La Repubblica 9 gennaio 2016, postilla (f.b.)
A volte ritornano. Pensavi che portare il mare a Milano fosse un sogno dimenticato. Che l’autostrada d’acqua fra la Madonnina e l’Adriatico fosse solo un disegno su antiche mappe. E invece. Sono ancora accese, in piazza Duca d’Aosta, le luci del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, anche se l’ente è stato soppresso (per non avere raggiunto gli obiettivi) già il 14 giugno del 2000, con decreto del ministro al Tesoro Vincenzo Visco. «Siamo rimasti in quattro, noi dipendenti. E poi ci sono i tre del consiglio di amministrazione, che debbono liquidare il patrimonio». Patrimonio ingente, perché del canale si inizia a discutere nel 1902 — presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli — e fino al 2000 l’ente è stato finanziato con circa 300 miliardi di lire. Sono stati preparati progetti, espropriati terreni e sono stati scavati anche 14 chilometri di canale (su 65), fra Cremona e Pizzighettone. Ma dal 1980 in poi nessuna ruspa è tornata in azione e il Tesoro, quasi 16 anni fa, ha detto basta così. Sembrava una pietra tombale.
Ma anche i canali possono risorgere. L’Aipo — Agenzia interregionale per il fiume Po — sei mesi fa ha infatti stanziato un milione di euro (per metà sono soldi della Commissione europea, che ha definito il canale opera prioritaria) per «valutare la fattibilità di un nuovo canale Milano-Cremona». «Si tratta — spiega l’ingegner Luigi Mille, dirigente Aipo per la Lombardia — di un tracciato meno costoso, perché usa in parte il canale Muzza. Il costo previsto è di 1,7 miliardi di euro, con sette conche e 60 metri di dislivello». Un percorso diverso, di 60 chilometri, ma l’obiettivo è sempre quello: congiungere la periferia sud di Milano a Pizzighettone, dove iniziano quei 14 chilometri di canale usato adesso solo da pescatori e canoisti. «Presenteremo il progetto nei prossimi mesi, all’assessore regionale Viviana Beccalossi e poi saranno le Regioni del Po ed il governo a decidere ».
![]() |
| Canale Muzza nel Lodigiano - Foto F. Bottini |
È bastato però l’annuncio dello studio in atto per provocare proteste. «Mi sembra — dice Alessandro Rota, presidente della Coldiretti Milano Lodi — che la vicenda dello stretto di Messina sia stata trasportata al nord. Si discute del canale da più di cento anni e l’unico risultato è stato quello di buttare miliardi. Che merci potrebbe portare, questo canale?». Ufficialmente, il Consorzio nasce con la legge 1044 del 1941, sostituendo l’Azienda portuale di Milano del 1920. «In passato la nostra grande città aveva le acciaierie, la gomma, la chimica. Adesso ci sono solo terziario ed uffici, con la produzione delocalizzata in mezzo mondo. Con il canale si butterà ancora cemento sul terreno agricolo più fertile d’Italia».
Forse non tutti i milanesi ricordano che la fermata della metropolitana Porto di mare, accanto a Rogoredo, si chiama così perché in quella che nel 1920 era campagna doveva nascere il porto di accesso al canale. «Adesso invece dobbiamo partire una ventina di chilometri più a sud. Il porto di mare è un quartiere», raccontano al Consorzio Muzza di Lodi, incaricato di preparare la relazione tecnica per il progetto di fattibilità. Il nuovo percorso che sarà presentato «nei prossimi mesi» non è comunque un segreto: se n’è discusso in un convegno a Viadana e l’Unioncamere del Veneto l’ha messo in rete.
«Noi proponiamo — raccontano il direttore e il vice del Muzza, gli ingegneri Ettore Fanfani, Marco Chiesa e Giuseppe Meazza — di partire da Truccazzano, dove c’è una grande cava già piena d’acqua. Serviranno collegamenti con Brebemi, Linate, tangenziale esterna e grandi spazi per imprese di trasporto, industrie». Il canale Muzza verrà utilizzato ma solo in minima parte: 2,7 chilometri. «Ci sono problemi di corrente. Nel nostro canale di irrigazione la velocità è di un metro al secondo. In un canale di navigazione deve essere pari a zero». Il vecchio tracciato tagliava a metà Paullo. «Ora è impossibile passare di lì. Abbiamo scelto il parco a sinistra dell’Adda. Sappiamo già che ci saranno proteste».
I tecnici mettono le mani avanti. «L’Aipo ci ha affidato lo studio e noi lo prepariamo. Ma siamo come chirurghi. Apriamo il malato e vediamo cosa si può fare. Sappiamo però che i problemi sono davvero seri. Le infrastrutture non saranno cosa semplice. A sud di Lodi, ad esempio, bisognerà costruire un sovrappasso per scavalcare, in 500 metri, la linea Fs Milano-Bologna, il canale di regolazione e la via Emilia. Ancora più a sud bisognerà superare l’Adda con un altro ponte-canale. Da un punto di vista tecnico si può fare tutto. In Belgio queste strutture si costruiscono da decenni. Il progetto è ambizioso, vista anche la spesa, 1, 7-2 miliardi. Nel canale potranno passare navi di classe V Europa, lunghe 110 metri, larghe 11,40, con 2,50-2,80 di pescaggio e 2500-3000 tonnellate di carico. Ognuna potrebbe portare l’equivalente di 70 vagoni ferroviari o di 100 tir. Ma ci chiediamo: ci saranno le merci da trasportare? È giusto un investimento così importante? Per fortuna questo non è un problema nostro. Ci saranno economisti e altri tecnici a completare lo studio. Noi sappiamo comunque che c’è un altro grande handicap: l’acqua. Dove si prenderà quella che serve al canale? Adesso non basta nemmeno per l’irrigazione, lo sappiamo bene noi che serviamo 80mila ettari di pregiato territorio agrario». Corrono le folaghe e volano gli aironi, sul canale Muzza. Forse potranno stare tranquilli. A volte ritornano. Per fortuna non sempre.
postilla
Chiunque abbia seguito, su queste o altre pagine, lo svolgersi delle vicende infrastrutturali dell'area padana, dovrebbe aver chiaro come, a parte le classiche polemiche ambientali o di modalità, tracciato, insostenibilità finanziaria e via dicendo, la critica di fondo è quella di voler promuovere attraverso le reti stradali il famigerato «sviluppo del territorio». Che come ben sappiamo non ha nulla a che vedere con l'idea di sviluppo in quanto valorizzazione delle risorse ambientali e umane a scopo di progresso, ma solo assai più banalmente traduce in italiano uno solo dei significati dell'inglese development: edilizia e opere di urbanizzazione. Questa strampalatissima riproposizione dell'antico progetto di canale navigabile, al netto sia delle evocazioni storiche, che delle false sognanti immagini di megalopoli delle acque (potrebbe anche evocare qualcosa del genere, se ben manovrata e farcita di rendering) si colloca esattamente dentro le stesse politiche del «fare e disfare è tutto un lavorare», anzi addirittura pone alcune precondizioni per nuovi svincoli, bretelle, collegamenti su gomma, poli di interscambio, identici e forse peggiori collocandosi in zone agricole di pregio, di quelli già visti con le inutili autostrade padane, a carico del contribuente e dell'ambiente locale. Diffidare, soprattutto quando spunteranno quei disegnini sui giornali compiacenti, magari con una specie di Darsena bis davanti ai terreni di Ligresti, che proprio per puro caso stanno lì vicino all'area detta Porto di Mare, e che importa se in realtà dovesse fermarsi a Truccazzano? Ci hanno già fatto la diramazione Bre.Be.Mi. lì vicino, basta un'altra bretellina e via ... ad libitum (f.b.)
La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Madrid. Si può mettere all’asta un bene così prezioso da essere stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità? Il caso della grotta di Altamira non è una replica dell’esilarante sketch di Totò che mette in vendita la fontana di Trevi, ma non è meno sorprendente. Convinto che non si stia facendo tutto il possibile per sfruttare al meglio dal punto di vista turistico questo gioiello dell’arte rupestre - la “cappella sistina del Paleolitico” come è stata ribattezzata - il governo regionale della Cantabria pensa alla distribuzione di “pass vip”, alla portata solo di appassionati milionari, che consentano di accedere alla grotta di Santillana del Mar nel rispetto dei rigidi limiti stabiliti dagli scienziati.
Stanno scoppiando una a una le cariche a orologeria dirette a sabotare i pilastri dell'urbanistica pubblica (e di qualsivoglia idea di città) messe dai liberisti rampanti all'epoca dei cosiddetti «Piani Integrati»? Alessia Gallione e Fulvio Irace, La Repubblica Milano, 7 gennaio 2016, postilla (f.b.)
CATELLA: «NON SONO IL PADRONE,
MA SOLO UN ARTIGIANO DELLA CITTÀ»
di Alessia Gallione
Porta Nuova lancia la fase “4”: e dopo Garibaldi, le ex Varesine e l’Isola, il quartiere simbolo della “nuova Milano” punta ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Si parte dalla torre dell’Inps acquisita dalla società di Manfredi Catella che, dopo aver sviluppato e venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar ha coinvolto in questa operazione un altro pezzo di Golfo: il fondo sovrano di Abu Dhabi. L’obiettivo: «Ricucire anche quest’area parzialmente irrisolta con il resto della città», dice Catella. Che, però, spiega: «Non sono il nuovo padrone di Milano, ma solo un artigiano che vuole rinnovarla».
Il quartiere è destinato ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Con un primo tassello: la torre dell’Inps acquistata - per il fondo Porta Nuova Gioia - dalla Coima sgr guidata da Manfredi Catella. Un altro pezzo di città destinato a cambiare e a farlo anche con investitori internazionali: dopo aver venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar, infatti, Catella ne ha coinvolto un altro in questa operazione, quello di Abu Dhabi.
Manfredi Catella, è il nuovo padrone della città?«Per niente. Noi siamo solo professionisti e lavoriamo per conto di investitori di tutto il mondo. Io non sono personalmente proprietario, mi sento un artigiano che lavora sul territorio per conto dei propri clienti».
Che differenza c’è, quindi, tra lei e gli immobiliaristi del passato alla Ligresti che hanno segnato le sorti di interi quartieri di Milano?«La differenza è semplice e riguarda due fattori per me fondamentali: qualità e reputazione. Con Porta Nuova ci siamo presi la responsabilità di riportare la qualità del costruire bene la città in chiave contemporanea. Può piacere o non piacere, ma l’impegno è evidente e ha contribuito a dare lustro internazionale a Milano. In queste due parole c’è tutto: significa anche essere trasparenti, operare con le regole del mercato».
Che progetto avete per la torre dell’Inps?«Per il momento abbiamo fatto studi per verificare le dimensioni che l’edificio potrà avere e altri per la zona pedonale e gli attraversamenti. Quella è un’area in parte irrisolta: la nuova sede della Regione ha creato un polo importante, ma poi ci sono altri edifici non utilizzati, dall’Inps alla Torre Galfa».
Quella zona, in realtà, è lo storico centro direzionale della città. Nella sua visione, che cosa dovrà diventare?«Con Porta Nuova abbiamo costruito un nuovo, importante, centro direzionale, ma anche realizzato un mix tra residenze, commercio, cultura. È una strada auspicabile perché è la varietà che crea la vitalità di una città. In questo caso, credo che la vocazione naturale rimarrà direzionale e commerciale, con innesti di abitazioni come per il progetto che stanno sviluppando realtà cinesi a fianco dell’edificio del Comune di via Pirelli. Adesso bisogna riuscire a ridare alla zona una propria identità, a ricucirla con la città: è il lavoro fatto con Porta Nuova».
Sembra disegnare un piano più ampio del palazzo dell’Inps: vuol dire che non vi fermerete qui?«Guardiamo sicuramente ad altri edifici in zona perché vorremmo completare il lavoro di riqualificazione del quartiere. Tre anni fa, ad esempio, abbiamo comprato da un fondo tedesco insieme a investitori istituzionali italiani un immobile in via Gioia: dopo una ristrutturazione integrale oggi ospita un hotel e uffici. Un ruolo importante lo avrà anche Unipol, che possiede tre indirizzi strategici: uno all’interno di Porta Nuova, uno in via De Castillia e la Torre Galfa».
Il nuovo design della torre Inps sarà affidato a Cesar Pelli, l’architetto dell’Unicredit Tower e del masterplan Porta Nuova. Perché abbattere e ricostruire, però? Non si poteva salvaguardare un pezzo della Milano degli anni ‘60?«Guardi, mi considero un agnostico in questo. Ci sono edifici che hanno un valore storico che va preservato ed è quello che abbiamo fatto con un monumento come l’ex Palazzo delle Poste di Ferrante Aporti di cui ci siamo occupati. Altri immobili sono semplicemente vecchi e hanno caratteristiche che li limitano. Nel caso dell’Inps non avremmo potuto garantire elevati standard di efficienza».
Ma in questo modo non si rischia di perdere la memoria della città?«Qualsiasi città è un organismo vitale che si rinnova. Milano è passata da centro industriale a terziario, dai servizi agli abitanti tornati in centro. La qualità si fa anche abbattendo e ricostruendo. Preservare è solo una parte della storia».
Siete arrivati alla fase “4”: perché questo sviluppo a pezzi?«Una visione generale ce l’avevamo fin dal primo giorno, ma la proprietà dell’area era molto frammentata. Di fatto non avevamo un foglio bianco su cui disegnare, ma tante tessere e il mosaico poteva essere formato solo mettendo insieme pezzi diversi per genesi ed evoluzione. L’amministrazione, però, ha cercato di garantire un disegno unitario e vincoli precisi».
Eppure una critica riguarda propria la mancanza di una visione generale.«Non sono d’accordo. Con Porta Nuova abbiamo creato un dialogo virtuoso con il pubblico e cercheremo il confronto con il Comune e la Regione anche per la torre Inps. Il successo del progetto non sarà solo costruire un bell’edificio, ma progettare la parte pubblica, connetterlo con la città».
L’operazione degli scali ferroviari è rimandata, ma le aree, a cominciare da via Farini, sono strategiche. Potreste investire anche lì?«Il nostro mestiere è fare sviluppo immobiliare. Sicuramente osserviamo con attenzione quello che accadrà».
I RISCHI DELLA COLONIZZAZIONE:
IL COMUNE NON DICE QUAL'È LA SUA STRATEGIA
di Fulvio Irace
Nella seconda metà degli anni degli anni 50 Milano provò a essere internazionale: dopo aver superato brillantemente la fase della ricostruzione, si trovò infatti a cavalcare l’euforia dell’imminente miracolo economico. E il simbolo più ovvio della rinascita della “città che sale” fu il rilancio del grattacielo e delle torri nello skyline di una Milano che sognava di diventare metropoli. Qualcuno di quei sogni si concretizzò in periferia – nella Metanopoli di Mattei - qualcuno nel cuore della città antica (la torre Velasca); ma il nido dove gli architetti depositarono per lo più le loro ambizioni di grandezza fu l’area del cosiddetto centro direzionale: una sorta di moderna città degli uffici, quasi una city ai margini della città storica, a ridosso della stazione Centrale e di piazza della Repubblica.
Nel 1954 la Torre Breda di Luigi Mattioni rimase per quattro anni l’edificio per abitazioni più alto d’Italia; nel 1959, la Torre Galfa di Melchiorre Bega la tallonò per poco e tutte e due furono superate nel 1960 dal grattacielo Pirelli di Ponti e Nervi. Attorno ad esse si annidarono, poco alla volta, una serie di edifici di varie dimensioni, ma tutti improntati all’estetica della torre di vetro sulla suggestione del modello americano: gli Uffici tecnici del Comune degli architetti Gandolfi, Bazzoni, Fratino e Putelli che fungevano da nuova “porta” dell’asse di Gioia; il palazzo Galbani di Soncini e Pestalozza in via Filzi; i complessi di Menghi, Righini e Valtolina, lì accanto; e la più modesta torre dell’Inps di Giordani, Susini e Vincenti in via Melchiorre Gioia 22, di cui si è appena annunciata la demolizione per far posto a una torre ultramoderna dell’architetto autore della Unicredit tower, Cesar Pelli.
Al di là del valore del singolo edificio, ce n’è abbastanza per riconoscere all’intero distretto un suo carattere unitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio a fronte delle radicali trasformazioni innescate dalla gigantesca operazione del cantiere Porta Nuova.
Sull’onda del suo successo, il progetto di riqualificazione urbana che troverebbe il suo fulcro nella costruzione di un nuovo complesso sulle ceneri dell’ex Inps punta dunque a estendere la colonizzazione della città postmoderna sui resti di quella moderna. Negli anni 50, si voleva dimostrare che alla città di pietra del fascismo si potesse sostituire una città trasparente e democratica; oggi si vuole dichiarare inadeguato e fuori moda tutto ciò che non corrisponda ai nuovi parametri di efficienza energetica, performatività funzionale, estetica del translucido e del colossale.
L’operazione non nasce ora, ma proprio quando, nel 2012, l’Inps annunciò la dismissione dei suoi headquarters e la vendita dell’edificio del 1955 al Carlyle Group, controllata da Real Estate Sgr. Qualcuno forse ricorderà che fu promosso un concorso a inviti: furono invitati dieci gruppi ( tra cui il milanese Caputo Partnership) e individuato come vincitore il francese Jean Michel Wilmotte. Al posto di un edificio, ne sarebbero sorti due; il vecchio complesso di quindici piani sostituito da una lastra di 84 metri.
Dopo l’annuncio e la promessa del Comune di inviare osservazioni in merito, un lungo silenzio, interrotto proprio ora dalla promessa del presidente della Coima Ssgr (la società che ha acquisito l’immobile), Manfredi Catella, di voler procedere a un piano complessivo di riqualificazione a partire dalla demolizione dell’edificio e dalla riconversione di altri palazzi limitrofi.
Se è noto il programma, non sono noti i piani e in particolare il progetto affidato alle cure di Cesar Pelli: è chiaro però che si è scartata sin dall’inizio la strada del restauro o dell’”aggiornamento” tecnologico come ad esempio nel complesso di via Gioia 8, progettato nel 1970 da Marco Zanuso e “rivisitato” da Park Associati, o nella piccola torre di via Filzi 23 con la sostituzione degli infissi e dei vetri di facciata.
Ma, se nel caso di Porta Nuova si trattava di riedificare quasi dal nulla un nuovo pezzo di città, in quello dell’ex edificio Inps si propone un intervento che va a incidere su una parte di città che ha invece un carattere molto preciso e ormai anche storicizzato. Al di là delle legittime aspirazioni dell’imprenditoria privata, ci si chiede se l’ente pubblico (il Comune, ma anche la Soprintendenza) abbiano una strategia o almeno una visione per questa area di Milano con caratteri ambientali tanto forti e caratterizzanti. Si sono calcolati o previsti gli effetti a catena che un metodo di sostituzione caso per caso comporterebbe nello stravolgere l’assetto ambientale della zona? Chi si oppone al cambiamento è spesso tacciato di essere un “gufo”: ma chi si oppone a discutere le forme del cambiamento non rischia forse di dilapidare il patrimonio come una “cicala”? Un dibattito pubblico sull’area del centro direzionale potrebbe essere, alla vigilia delle elezioni per il nuovo sindaco, un bel terreno di confronto per chi crede ancora nel valore collettivo dell’urbanistica e dell’eredità urbana.