«Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città ». La Repubblica, 26 maggio 2016 (c.m.c.)
«D'Alema ha telefonato allo storico dell'arte per convincerlo ad accettare l'assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma: "Mi ha chiamato come hanno fatto in molti - conferma lui - mi ha detto che sarei stato un ottimo assessore"». Il Fatto quotidiano online, 16 giugno 2016 (c.m.c.)
«Forse ci sarebbero cose più serie di cui parlare. Lo dico da vicepresidente di Libertà e Giustizia: se si discutesse delle ragioni del ‘no’ al referendum un decimo di quanto si parla delle telefonate di Massimo D’Alema, sarebbe un Paese migliore».
Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna alla Federico II di Napoli, torna sulla querelle tra l’ex premier e La Repubblica, secondo cui in diverse occasioni pubbliche il “Lìder Maximo” si sarebbe detto pronto a votare Virginia Raggi “pur di mandare via Renzi”. Il quotidiano romano racconta anche che D’Alema ha telefonato allo storico dell’arte per convincerlo ad accettare l’assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma.
«Quando è uscita la notizia che Virginia Raggi mi aveva chiesto se fossi disponibile a diventare assessore alla cultura a Roma, ho ricevuto moltissime telefonate da amici, conoscenti, persone appassionate di politica, ho sentito Civati e Fassina, Salvatore Settis e Goffredo Fofi, Gian Antonio Stella e Massimo Bray… Tra costoro c’era anche D’Alema, e mi ha fatto piacere sentirlo. Non ci sentiamo spesso, ma abbiamo fatto entrambi la Scuola Normale di Pisa, tra noi ci sono argomenti e ragionamenti in comune. Voleva sapere se era vero e mi ha detto che secondo lui sarei stato un ottimo assessore alla cultura di Roma e che quindi avrei potuto pensare ad accettare. Ma non c’è stata alcuna pressione, non è che D’Alema stia facendo la giunta dei 5 stelle, queste sono sciocchezze. Anche perché non so in base a che cosa avrebbe potuto fare pressione su di me, io con il Pd non c’entro nulla».
D’Alema dice che lei gli ha chiesto un consiglio.
«L’ho chiesto a molte persone che mi hanno chiamato, gli ho domandato cosa avrebbe fatto lui al posto mio. Il fatto che il M5S stia per conquistare Roma e che in questo momento ragioni non come il Pd o come la destra con una logica di appartenenza, ma si apra a persone molto diverse dalla sua storia come me, e in particolare che si apra a persone e a idee della sinistra, ha incuriosito molti e ha creato un dibattito. Credo che ascoltare le opinioni delle persone sia importante: D’Alema è una persona a particolarmente intelligente e di esperienza. Ma non ho chiesto consiglio solo a lui. L’ho chiesta anche al mio ortolano, ai miei colleghi di università, per capire come reagisce il mondo della sinistra di fronte a queste aperture».
All’assessorato ci ha pensato davvero.
«Certo che ci ho pensato. Io studio storia dell’arte romana da una vita. E poi fermare il Pd a Roma e tentare un esperimento diverso sia una grande occasione. Da un punto di vista professionale e da un punto di vista politico ero molto tentato. Ma poi ho pensato che, specie nell’ambito della cultura, non si può governare una città in cui non si vive tutti i giorni, in cui non si ha una famiglia, della cui comunità non si fa parte. Quelli che fanno gli assessori o i superconsulenti esterni alla cultura e sono sempre in viaggio da un posto all’altro alla fine non fanno un gran lavoro. Una delle cose che mi è piaciuta dei discorsi della Raggi è che parla di comunità. Per governare una comunità bisogna esserne membri».
Che giudizio ha dei programmi di Giachetti e della Raggi?
«Il programma del Pd non riserva nessuna sorpresa: continuerà tutto come prima, spero non la corruzione. Giachetti mi sembra una persona pulita, quello che che c’è dietro di lui mi piace di meno e mi dà minori garanzie, è il motivo per cui voterei la Raggi se fossi residente a Roma. Su tanti punti condivido il suo programma. In generale mi pare che i 5 stelle abbiano un’idea della cultura molto simile alla mia: cultura non come mercato, che è l’idea di Renzi e del Pd, ma come strumento per ridare sovranità ai cittadini e renderli partecipi della vita politica».
Cosa pensa di questa storia? D’Alema sta veramente tramando contro Renzi?
«Renzi non c’entra nulla con la storia della sinistra. E’ un gigantesco equivoco che Renzi oggi, invece di guidare Forza Italia, sia il leader del Pd. Sarebbe il leader ideale di Forza Italia per le idee che ha e le leggi che sta facendo. Lo Sblocca Italia, la riforma della Costituzione, la riforma della scuola sono tutte cose che hanno un minimo comune denominatore: il primato assoluto del mercato. Nel momento in cui in un modo assurdo, con delle primarie aperte anche a chi non era iscritto al partito Renzi diventa segretario del Pd, chi è di sinistra in quel partito si pone il problema: o riuscire a recuperare il partito o uscirne. A un certo punto D’Alema e molti altri dovranno decidersi».
Come esce da questa storia il Pd?
«Il Pd è un partito che ha subito un’opa ostile da parte di uno che con la sua storia non c’entra nulla. D’altra parte però in questa vicenda vengono al pettine molti nodi. Io sono fiorentino, ero al liceo di Renzi che ai miei tempi era vicino a Comunione e Liberazione, poi è stato presidente della Provincia di Firenze da democristiano qual è. Poi solo la creazione a freddo del Pd ha permesso che queste due storie, quella di Renzi e quella della sinistra, si incontrassero. Ora un’anima ha prevalso sull’altra. Ma quando da sindaco di Firenze Renzi diceva che per lui le bandiere rosse erano quelle della Ferrari diceva la verità».
Un incontro tra due storie che è il prologo della mutazione genetica del Pd.
«Il problema è questo: esiste ancora la sinistra in questo Paese? Se esiste, che scelte fa? Cambiare il Pd? Non ce la fanno e allora creano Possibile e Sinistra Italiana. Io sono nel consiglio scientifico di Possibile, ho grande stima per Civati e Fassina, hanno creato un laboratorio di idee importantissimo, ma non riescono ad avere un consenso maggioritario. In questo quadro i 5 stelle sono una creatura molto strana in cui ci sono cose molto inquietanti – l’aspetto proprietario e privatistico dei Casaleggio lo trovo terribile, il ruolo di Beppe Grillo che va superato, tanti altri punti a partire dalla loro posizione sui migranti non mi convince affatto – però vedo che su molti altri temi c’è una convergenza con la sinistra come la intendo io».
Quali?
«Sul campo, io che mi occupo di ambiente, paesaggi e territorio mi trovo dall’altra parte il sindaco con la betoniera cementificatrice e non riesco a distinguere se è del Pd o di Forza Italia, mentre dalla mia parte ci sono i militanti 5 stelle. Allora mi domando se non esista la possibilità che i 5 stelle non assomiglino nel tempo a quello che è Podemos. Un dato di fatto: se al governo della città di Roma arriva l’urbanista più di sinistra che in questo momento è attivo in Italia, Paolo Berdini, non si deve a un partito di sinistra ma al M5S. Se la sinistra delle idee va al governo in alcune città grazie ai grillini è un dato di fatto su cui occorre ragionare».
Corriere della Sera, 15 giugno 2016 (m.p.r.)
Ma davvero solo il turismo ricchissimo può salvare l’ambiente riservando le riserve naturali, scusate il pasticcio, a pochi privilegiati in grado di riservare una camera deluxe? La domanda, vecchia come il cucco, si ripresenta all’Asinara. Dove, tra le sollevazioni degli ambientalisti, si discute di un progetto del circolo Pd di Porto Torres per costruire un «albergo diffuso» con «286 camere, 709 posti letto, tre ristoranti, un centro benessere, un centro commerciale, due piscine, impianti sportivi, tre bar, impianti ludici, un porto turistico su 17 ettari» a Cala d’Oliva. «Se sotto il profilo ambientale si può decretare il successo del Parco a 18 anni dalla sua nascita», ha spiegato a La Nuova Sardegna il coordinatore del progetto, il geometra Giuseppe Marceddu, «non altrettanto si può dire che lo stesso sia avvenuto sotto il profilo economico». Insomma, rispetto al fascino del posto ci va ancora poca gente.
Non sarà perché gli investimenti per risistemare l’isola dopo un secolo di isolamento penitenziario e per farne un vero parco europeo sono stati scarsi? Forse. Ma la soluzione è un hotel a 5 stelle. Con un investimento «stimato in circa 56 milioni di euro», una «superficie coperta complessiva di circa 12 mila metri quadri», un «polo d’attrazione turistico» capace di dare lavoro, in modo diretto o indiretto, a «circa 560 unità». «Evviva!», esultano alcuni. «Ma quando mai!», contesta Stefano Deliperi che col Grig, il Gruppo di Intervento Giuridico, si è messo di traverso, «Sarebbe solo una folle privatizzazione speculativa di un gioiello naturalistico del Mediterraneo». E insieme con gli altri ambientalisti contesta tutto: 1) la stima dei posti di lavoro («Solo un miraggio»); 2) la scelta strategica di consegnare a un privato («che poi di questi tempi potrebbe essere solo uno sceicco arabo») un pezzo dell’isola solo da pochi anni restituita alla collettività dopo oltre un secolo centrato sul carcere di massima sicurezza; 3) la costruzione di un porto turistico là dove c’è la tutela integrale dell’area marina; 4) il rischio mortale che, persa la purezza originale, l’isola faccia poi gola ad altri. In fondo, perché non crearne due, di alberghi? O tre, quattro, cinque…
C’è un dettaglio che, dopo gli assalti sventati di chi voleva costruire una centrale eolica off-shore, fare ricerche petrolifere o riesumare il penitenziario, sfugge evidentemente a qualcuno: la legge parla, per l’Asinara, di tutela «integrale». E integrale vuol dire integrale.
La macchina del fango lavora sempre a pieno regime. Paolo Berdini risponde alle accuse mosse dal Messaggero nei suoi confronti. Il manifesto, 15 giugno 2016
Leggo infatti sul Messaggero di Roma che sarei stato denunciato per diffamazione da Francesco Gaetano Caltagirone per una intervista che riguardava il tema di Tor Vergata, luogo in cui si vorrebbe costruire il villaggio degli atleti.
Nella mia vita ho rilasciato decine di interviste sul comprensorio di Tor Vergata e ho scritto molti articoli e libri che la riguardano. Non mi era mai accaduto di essere denunciato perché ho sempre riportato l’esattezza della vicenda.
Il comprensorio è di proprietà dello Stato e non mi sogno di affermare – come sostiene il quotidiano – che sia di un consorzio guidato da un importante gruppo imprenditoriale. Affermo soltanto che quel gruppo, la Vianini, ha la regia delle realizzazioni all’interno del comprensorio. Dunque nel caso venissero costruite le abitazioni per gli atleti sarebbe quel consorzio a realizzarle. Una verità incontrovertibile.
Ma il Messaggero non si ferma e mi accusa di aver messo sul banco degli imputati le imprese ed aver taciuto sui veri responsabili dell’ennesima incompiuta.
Purtroppo per loro ho denunciato troppe volte la folle disinvoltura con cui la politica ha deciso di costruire opere senza avere le coperture economiche. Nei miei scritti ho anche denunciato con forza che questo irresponsabile modo di procedere è il male che sta divorando l’Italia e con essa le imprese che ancora svolgono la propria funzione con serietà e rigore. Le centinaia di opere non finite presenti in tutto il paese sono figlie del fallimento della programmazione sbagliata della mala politica e non dei soggetti economici.
Ripeto, il fatto che venga accusato dell’esatto contrario di quanto sostengo da troppi anni la dice lunga sul clima che si va preparando.
Ma, per concludere, vorrei cercare ancora di discutere sul futuro della capitale e spiegare i motivi della mia contrarietà al progetto di Tor Vergata come casa per gli atleti.
I seicento ettari di Tor Vergata furono espropriati dallo Stato negli anni ’70 per realizzare un’università, il luogo della formazione d’eccellenza dei nostri giovani. Consentiranno i redattori del Messaggero che costruirci case non è il massimo di quel futuro di eccellenza che tutti ci auguriamo per l’Italia.
Sarebbe allora meglio ad esempio che su quelle aree venissero costruite cliniche specializzate per la cura delle nuove malattie che colpiscono gli anziani o alcune fasce dell’infanzia.
Tor Vergata è la più grande carta che Roma ha per tentare di diventare una città in grado di attirare risorse e valorizzare i tanti giovani che studiano pensando di poter trovare un ruolo nel nostro paese.
Tutto qui, e in questo senso l’ennesimo villaggio olimpico non serve a nulla e, soprattutto, potrebbe essere comodamente costruito altrove senza sprecare una grande occasione.
Se il renzismo è il pericolo maggiore, se una sinistra che voglia colpire le radici del disastro non c'è, ben vengano i M5S come la candidata per Roma. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 15 giugno 2016
Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.
Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.
Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.
Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.
Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.
Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.
Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.
Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.
Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.
Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.
Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.
Se si vuole votare alle elezioni comunali nella capitale d'Italia senza turarsi il naso la scelta è chiara: M5S non è il demonio, e ha buone carte. Il manifesto, 14 giugno 2016
Sul voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma è bene raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario che appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.
Avendo votato per Stefano Fassina al primo turno, sapevo per certo che avrei dovuto affrontare al ballottaggio una scelta che lo escludeva. E confesso che, se mi fossi trovato di fronte a un alternativa tra Roberto Giachetti e un candidato del centro-destra, non avrei avuto dubbi: mi sarei “turato il naso”, per dirla alla Montanelli, e avrei scelto il candidato Pd. Lo avrei scelto per senso di responsabilità, pensando alle sorti della mia città, che non può tornare in mano al peggior centro destra d’Italia. Ma lo avrei fatto con disagio, prima di tutto per ragioni di politica nazionale.
Considero il Pd di Matteo Renzi un grave danno per la sinistra e per l’Italia. Per la sinistra, perché la sua politica di apertura alla destra berlusconiana – come alcuni di noi avevano previsto – non avrebbe allargato il consenso di quel partito , mentre avrebbe definitivamente spezzato i legami con il suo insediamento popolare, esponendolo alla sconfitta. I risultati elettorali recenti sono le prime prove della validità di tali previsioni. Ma il danno è anche per l’Italia.
Questa non è la sede per valutazioni generali, ma un aspetto che non bisogna dimenticare, nel dare un giudizio sull’operato di questo governo, è di considerare anche quel che non si è fatto e invece si poteva fare. Il tempo nel frattempo sprecato con i problemi che si aggravano.
Son passati due anni e mezzo e Renzi ha perduto l’occasione di impostare un sistema fiscale progressivo: vera chiave di volta per attenuare le diseguaglianze crescenti che lacerano tutte le società “neoliberiste”.
Ha premiato la rendita, abolendo la tassa sulla prima casa e non ha impostato una vera politica di investimento nella formazione e nella ricerca, per il rafforzamento strategico del sistema-paese: borse di studio per migliaia di giovani che non possono proseguire la carriera scolastica o iscriversi all ‘Università, fondi per la ricerca, ingresso di nuovi docenti nell’Università e soprattutto risorse per ridare slancio a un settore da cui dipende l’avvenire dell’Italia. Nulla di tutto questo, com’è noto.
Ma che c’entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del Pd, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso.
Considero simili scelte il distilllato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E’ il processo di disneyzzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d’insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.
Ispirato da tali scelte, – che lo portano anche a strumentalizzazioni pacchiane, come l’uso elettorale di Totti – Giachetti è dunque un perfetto avversario da sconfiggere. Tanto più che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, ha cominciato a fare scelte interessanti per la sua eventuale squadra di governo cittadino.
Ed è di dominio pubblico che ella ha chiesto, per l’assessorato all’urbanistica, la disponibilità di Paolo Berdini. Ebbene, considero questa una scelta di grande valore, una vera bandiera politica.
L’Assessorato all’ urbanistica (o comunque si chiamerà) è un posto di potere-chiave dei governi municipali. Da li si governa l’uso del territorio e la possibilità di cavare profitti dal suolo. E da li, nei decenni passati, sono passate le scelte che hanno devastato Roma, cementificando l’Agro romano, costruendo interi quartieri senza trasporto su ferro, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico da ogni dove.
Paolo Berdini è uno dei più competenti e intransigenti avversari di questa politica dissennata, che ha premiato la rendita dei grandi costruttori e creato danni all’universalità dei cittadini romani.
Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti.
Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma – una volta nell’agone elettorale – ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l’auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale.
C’era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d’origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie. Il lavoro quotidiano tra i cittadini non può dare frutti elettorali nel giro di pochi mesi.
Si tratta di un’opera di lunga lena, che sarebbe dovuta iniziare molto prima dell’apertura della campagna elettorale. Lo si voglia o no, la fiera elettorale copre di una patina di strumentalità qualunque impegno e dialogo “col popolo”.
E infine, di passata, ma è forse il problema fondamentale, tanto Airaudo che Fassina e altri candidati meno noti, sono apparsi troppo isolati: avanguardie solitarie di una sinistra che non c’è, per giunta esponenti dissenzienti di una tradizione che oggi si chiude nel fallimento.
L’idea di Sinistra Italiana di aspettare il congresso di dicembre per “partire” non ha certo aiutato questi candidati. Ma ha anche gettato un ombra pesante di fragilità su tutto il campo. Persino il mio «giovanile entusiasmo» (come benevolmente ironizza Asor Rosa) è stato messo a dura prova.
Un 'articolo sulla situazione ingessata a due anni dall'inizio dell'evento e un'intervista a Salvatore Settis. Con la speranza che non venga riproposto il modello Expo e che la città non venga "valorizzata" in una nuova Disneyland. Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2016 con postilla (p.d.)
La vittoria europea
La memoria di Cristo
I progetti del dossier
Nota dolente, questa: per evitare che la parte nuova di Matera si trasformi in un unico enorme parcheggio, si è pensata una metropolitana da 36 milioni di euro. Finora, però, non è partito nemmeno un cantiere. “Abbiamo poi un progetto di alta formazione degli operatori culturali – prosegue Orlando – per recuperare il senso di comunità che le polemiche politiche hanno sfilacciato”. Già, la politica. A Matera non ne vogliono sentir parlare: il mare è lontano, le trivelle pure, le passerelle aumentano. Bisogna essere amici di tutti, i soldi arrivano da Roma.
C’è un oggetto che si vende nelle piazze dei Sassi, il cucù: un fischietto a forma di uccellino che veniva regalato dal fidanzato alla fidanzata prima del matrimonio. Più era decorato, più erano i soldi che l’uomo avrebbe messo nella vita coniugale. Per far sì che Matera non diventi una nuova Expo, servirebbe un enorme cucù.
Questo riconoscimento lo vede come un'opportunità?
Conosce il dossier presentato da Matera?
Sa che si farà una metropolitana?
Matera capitale europea della cultura da un lato e trivelle dall'altro, un ideale “scambio”?
Tutto questo sforzo per la riqualificazione della città finirà nel 2019?
postilla
È davvero sconcertante come ci si dimentichi la storia anche recente. È dalla metà del secolo scorso che si studia, si discute, si progetta, si fa e si disfa per riabilitare la struggente bellezza del patrimonio storico di questa incredibile città, e nessuno sembra ricordarlo. Per fortuna che c'è eddyburg e il suo archivio. Digitate Matera Sassi sul "cerca". o almeno leggete questi tre articoli: Matera schiaccia i Sassi, di Francesco Erbani, Il centrosinistra e il sacco di Matera, di Michele Fumagallo, e Se Matera diventa capitale della cultura lo deve a Olivetti, di Carlo Vulpio.
Fino a pochi anni fa Roma era il Comune più agricolo d'Italia. Ora è il terzo, superato da Andria e Cerignola. Il consumo di suolo, nonostante la pesante stasi edilizia, procede, in tutta Italia, e anche l'Agro Romano superstite si riduce. Ma, in questo quadro, c'è un settore in crisi ancor più grave, in crisi epocale. Ed è il verde pubblico, non la sua quantità (che è aumentata), ma il suo stato di manutenzione, il suo degrado che sembra inarrestabile. Siamo al disastro. Negli ultimi decenni l'attenzione delle Amministrazioni è stata sempre più ridotta. Lo testimonia la cifra datami da un esperto: il Comune di Roma, dopo decenni di tagli, investe mezzo centesimo di euro per ogni metro quadrato di verde.
Del resto i giardinieri in forza al Comune sono precipitati dai 1300 del 1995 (dati ufficiali del Comune, pubblicati nel Rapporto 2013) ai 250 odierni, una parte dei quali nemmeno in grado di svolgere lavori pesanti. Quindi un calo spaventoso, superiore all'80 % (80,7). Da anni non ci sono più concorsi, da anni non vi sono più assunzioni. L'ultima ventina di giardinieri reclutati sono arrivati, senza particolare preparazione specifica, dalle liste dell'Ufficio di collocamento.
C'è stata quindi a Roma come e più che in altri Comuni italiani una disastrosa sottovalutazione del problema della cura, della manutenzione, ordinaria e straordinaria, del verde pubblico, dei viali, dei parchi, dei giardini, delle ville storiche. Per anni si è tagliato ad ogni nuovo bilancio un 10 % circa della spesa destinata a questo servizio essenziale per ragioni ambientali, estetiche e igienico-sanitarie.
Praticamente oggi ci sono 20 sparuti giardinieri per ogni Circoscrizione. A fronte di questo contingente ridottissimo a Roma si calcola che vi siano 330.000 alberi circa dei quali 130.000 lungo le strade e altri 200.000 nei parchi e nelle ville storiche alcune delle quali sono vaste dai 150 ai 180 ettari. I mq di verde pubblico - a differenza di quelli di verde agricolo - sono aumentati fra 1995 e 2010 salendo da 30,5 a 39,3 milioni.
La caduta di rami o di interi alberi (di pini in specie che schiantano all'improvviso) è diventata sempre più frequente con morti e feriti gravi di continuo. Meno fondi per il personale qualificato, affidamento di servizi specializzati a cooperative di ex detenuti, principio socialmente valido, ma con risultati disastrosi se non si fanno prima corsi adeguati di formazione.
Meno fondi ovviamente anche per nuove falciatrici meccaniche, nuove gru, meno decespugliatori, ecc. Con una crescente demotivazione fra i giardinieri superstiti.
I prati non vengono sfalciati, neppure nel fossato di Castel Sant'Angelo, gli alberi caduti o segati non vengono sostituiti per mancanza di mezzi e di macchine. Alcune Ville come Villa Sciarra o la stessa ampia Villa Doria Pamphilj sono in grande sofferenza.
Dopo Mafia Capitale non ci sono stati in pratica nuovi investimenti, nuovi affidamenti, se non per la somma modesta di 200.000 euro. Sempre il Rapporto ufficiale del Comune ci dice che il Servizio Giardini gestisce soltanto il 41 % del verde urbano, mentre il 59 % è affidato a soggetti per lo più esterni: 30 % ditte, 10 % Ama, 10 % cooperative, quote minori ad altri Dipartimenti o Municipi. Per risalire da questo baratro e riavere un Servizio Giardini sufficientemente efficiente ci vorranno anni e anni di duro lavoro, di investimenti mirati, di riqualificazione del personale, di cultura insomma del verde urbano degna di una capitale storica quale è Roma.
Un'analisi critica del progetto che i poteri forti propongono per privatizzare il prestigioso complesso e sottrarlo all'uso pubblico. Testi di Riccardo Bedrone, Paolo Berdini, Paola Somma, Elisabetta Forni ed Emanuele Negro
Si comincia a parlare di recupero della Cavallerizza Reale nel 1995, quando la Città di Torino propone di avviare un processo di riqualificazione dei quartieri storici centrali.
Il complesso, edificato su progetto del Castellamonte (e poi di Alfieri, Mosca, Melano ...), per ospitare anche Zecca, scuderie, Accademia, ecc., costituisce la parte orientale della cosiddetta “zona di comando” sabauda, così definita fin dal 1945 da Mario Passanti, autorevole storico e docente, vera e propria “città nella città”, cresciuta nei secoli a partire dal Palazzo Reale per rispondere alle funzioni amministrative, culturali e militari dello stato assoluto, struttura di potere eccezionale a livello europeo.
Dopo l’incendio dell’adiacente Teatro Regio nel 1936 e i bombardamenti bellici, per gran parte del novecento sembra smarrirsi la consapevolezza di cosa stia dentro al recinto di via Verdi, tanto da diventare luogo estraneo alla città, occupato da depositi, archivi, parcheggi di vari Ministeri ed alloggi per i loro dipendenti.
La considerazione di una dimensione patrimoniale e pubblica per la Cavallerizza è quindi recente. Eppure, già nel 1945 Passanti ne parlava come di un tessuto che proprio nella continuità e nella forma urbana trovava il suo valore, a costituire un insieme le cui componenti dovevano essere intese come un tutto unitario.
Nel 2003 viene stipulato un protocollo di intesa fra Città di Torino e Demanio dello Stato (proprietario) per la futura cessione della proprietà in vista della sua completa riqualificazione a fini culturali, ma solo nel 2007 la città acquista un primo lotto, mentre viene rinviato al 2014 l’acquisto dal Ministero della Difesa della parte restante.
Sopraggiunta la crisi, poco a poco il Comune si ritrova a non poter più valorizzare secondo i proponimenti originari quanto acquistato e decide di cartolarizzarlo. E per rendere più allettante per il potenziale acquirente l'intervento privato sostitutivo, allenta i vincoli di destinazione d'uso del PRGC ed introduce quote crescenti di uso residenziale privato, riservando alla fruizione pubblica soltanto una piccola parte dell'insieme.
A fine dicembre 2014, avendo il Comune di Torino rinunciato al progetto unitario, il Demanio cede la proprietà del secondo lotto alla Cassa Depositi e Prestiti. Dunque, un'operazione nata vent'anni prima con intenti più che lodevoli, si chiude col complesso diviso tra due proprietà, rendendo ancora più problematico un progetto culturale integrato e innovativo.
Nel 2015 il Comune ratifica un Protocollo d'intesa con alcuni Enti (fra i quali Università, Regione, Ente Diritto allo Studio, Teatro Regio, Teatro Stabile, Compagnia di San Paolo) che conferma l'obbiettivo dell'alienazione e della prevalente destinazione privata degli spazi. La Compagnia si fa carico della stesura di un Masterplan che definisca usi, funzioni, assetto proprietario, fattibilità economica e redditività degli investimenti, come termini di riferimento per la successiva cessione.
Il Masterplan, presentato il 19 aprile 2016 in una stringata e poco leggibile versione, sviluppa una analisi interessante ma capziosa su natura e potenzialità del complesso, lasciando molte zone d’ombra.
A parole, si punta all’integrazione di diverse funzioni (culturali, ricettive, terziarie e commerciali) complementari e diversificate, attraverso l’intervento di attori diversi: istituzioni, società civile, soggetti pubblici e privati. Ma la lettura dei dati quantitativi rivela altri intendimenti: la trasformazione residenziale, sottaciuta, emerge come il vero obiettivo.
Affermando che il complesso “… è un oggetto sfaccettato e ambiguo … non è un tessuto continuo ma un dedalo di cantieri e corpi di fabbrica differenti”, giustifica un intervento per parti, con funzioni, usi e categorie di intervento diverse a seconda delle esigenze degli acquirenti, con buona pace del concetto di complesso stratificato ma unitario.
L'uso pubblico viene limitato ad una porzione del piano terra del compendio, senza peraltro che sia identificabile uno specifico progetto culturale. La frammentazione in 10 Unità minime di intervento (UMI) e la genericità di potenzialità ed usi specifici per ciascuna rende preminente l’intervento singolo degli operatori privati, piuttosto che la loro coerente integrazione. Perfino le quattro corti, i porticati e i camminamenti subiscono limitazioni al pubblico accesso.
Quanto alla cospicua domanda di spazi di sosta privati derivante dagli interventi residenziali, si suggerisce di sperimentare sulla Cavallerizza una “politica innovativa” di riduzione e riallocazione delle dotazioni di parcheggio pertinenziale, riducendola ai minimi funzionalmente necessari per ogni specifica attività.
La Compagnia di San Paolo, Ente di diritto privato, non è peraltro vincolata a procedure ad evidenza pubblica ed ha pertanto potuto affidare ad una società di suo gradimento l’elaborazione del Masterplan . È interessante notare però che il titolare della società è un professore ordinario a tempo pieno, coordinatore del Collegio di architettura del Politecnico di Torino, che in ragione del suo status non potrebbe svolgere attività professionale come progettista e, in ogni caso, si sarebbe dovuto assoggettare ad una gara per ottenere l’incarico.
Opacità di processi decisionali e mancanza di garanzia di indipendenza (come invece vorrebbero le regole concorsuali pubbliche) sembrano il corollario di una molto opinabile scelta, forse ancora non definitiva, di alienazione di un pezzo importante della storia della Torino sabauda.
LO SPEZZATINO
DELLA CAVALLERIZZA REALE
di Paolo Berdini
Come si provoca il debito
Ci sono due date nella più recente storia della Cavallerizza Reale che fanno comprendere le motivazioni profonde del progetto presentato dalle società Homers ed Equiter per “valorizzare” il compendio della Cavallerizza reale. Nel 2007 viene siglato il passaggio della proprietà dallo Stato al comune di Torino, conclusione coerente del lungo percorso di riconversione verso il settore culturale della città iniziato nel 1995. Tre anni dopo, nel 2010 prende invece il via il processo di cartolarizzazione di quegli immobili, il comune accende cioè un credito per evitare la crisi di bilancio.
Il biennio 2007 – 2008 ha rappresentato come noto la svolta per il sistema economico mondiale. Nel primo dei due inizia a manifestarsi la crisi del settore del credito immobiliare negli Stati Uniti. Nel secondo si iniziano a misurare le conseguenze devastanti della crisi mondiale. Tra queste conseguenze, la prima e la più immediata è l’ulteriore taglio alle finanze locali: Torino si trova dunque a dover adempiere al contratto d’acquisto della Cavallerizza stipulato con lo Stato in una fase in cui la spesa pubblica viene ulteriormente penalizzata.
Stiamo parlando di cifre tutto sommato modeste per una città importante (22,7 milioni entro il 2014), ma il comune, questo il punto decisivo, deve fare i conti con la fallimentare avventura della Olimpiadi invernali 2006. Come si ricorderà, la candidatura era stata imposta dal gruppo dirigente della città nella vana speranza che avrebbe rappresentato l’occasione di agganciare una nuova fase di investimenti e sviluppo. Viene insomma programmato l’ennesimo evento straordinario caricandolo della consueta retorica ideologica: le Olimpiadi porteranno ricchezza e occupazione alla città. Il bilancio è senza appello: circa tre miliardi di deficit, un fallimento enorme di cui non si parla diffusamente. Tutte gli investimenti comunali devono dunque contribuire a chiudere il buco ed ecco spiegati i motivi della repentina inversione di rotta: non ci sono i soldi per acquistare la Cavallerizza e per di più si utilizzano i fallimentari ingredienti della finanza creativa dominante: il compendio immobiliare viene cartolarizzato e si mettono a bilancio attivo quelli che sono soltanto dilazioni a lungo termine temporale del debito. Il trionfo della cultura creativa iniziata con il ministro dell’economia Tremonti.
Grattacieli e norme di legge per l’intera nazione: il ruolo di Intesa San Paolo
Ma la città sabauda aggiunge un ulteriore elemento aggravante. L’istituto che garantisce la cartolarizzazione è Intesa San Paolo, che, come noto, aveva già beneficiato della generosità comunale ottenendo un enorme aumento di volumetrie dell’edificio in costruzione per la sua nuova sede. E’ la Biis, società deputata agli investimenti fondiari di Intesa San Paolo che diventa attore dell’operazione: a capo di questa società siede il braccio destro di Corrado Passera, Mario Ciaccia. Grazie al comune di Torino e al caso Cavallerizza il duo finanziario sperimenta concretamente pacchetti di intervento e ne ricava più generali articoli legislativi validi per tutto il Paese. Nel 2011, Passera diventa infatti ministro per le infrastrutture del governo Monti e Ciaccia viene chiamato nel ruolo di vice ministro. Dal 2011 con i provvedimenti di Monti fino al 2014 con lo Sblocca Italia del governo Renzi, si assiste ad una organica serie di articoli legislativi che aprono le porte all’intervento finanziario nelle operazioni di trasformazione urbanistica, dall’istituzione delle società di investimento quotate (Siiq) al ruolo preminente di Cassa depositi e prestiti. E’ opportuno sottolineare che proprio CDP diventa il principale operatore della trasformazione degli immobili poiché il comune ha rinunciato scandalosamente ad acquisire la restante parte della proprietà della Cavallerizza dallo Stato.
In buona sostanza, Torino si caratterizza come luogo di sperimentazione di legami sempre più stretti tra finanza e governo locale privo di risorse adeguate a garantire l’attuazione dei progetti pubblici e dunque obbligato a subire le strategie finanziarie.
Le corti della Cavallerizza reale privatizzate
E’ in questo quadro generale che dobbiamo collocare la fase attuale dell’attuazione del progetto della Cavallerizza reale. Nel 2015 la Compagnia San Paolo affida senza gara di evidenza pubblica la redazione del masterplan di trasformazione e –inevitabilmente- l’elemento principale dell’operazione ruota intorno “alla valorizzazione” del compendio immobiliare, un concetto bizzarro nel caso specifico perché per quanto bisognoso di energici interventi di restauro, è la straordinaria qualità dei luoghi a garantire la valorizzazione. E’ la concatenazione degli spazi e degli interventi architettonici a rappresentare un luogo unico di recente inserito nel patrimonio culturale dell’umanità dell’Unesco. Non c’è nulla da valorizzare, dunque.
Dettagli trascurabili per la pseudo cultura che ancora sopravvive al fallimento dell’urbanistica neoliberista: l’importante è privatizzare, spezzettare, disarticolare nella fruizione un luogo costruito in tanti decenni su una visione unitaria. Le osservazioni redatte dal gruppo di lavoro che ha analizzato in dettaglio il progetto (vedi tabella in calce) sono così puntuali ed efficaci da permettermi di non scendere nel piano del merito. Un elemento deve però essere sottolineato perché a mio giudizio rappresenta una inaccettabile regressione culturale.
Nel progetto di valorizzazione dalle società Homers ed Equiter si prevede addirittura che anche le corti aperte in cui è articolato il complesso monumentale vengano “privatizzate”: esse saranno pienamente aperte alla pubblica fruizione solo in determinate ore. Ecco dunque il concetto di “valorizzazione”: si vuotano di funzioni le città privando i cittadini della possibilità di usufruire dei più straordinari luoghi dell’identità culturale di proprietà pubblica. Un’aberrazione davvero inaccettabile.
Riprendere la lezione storica dell’urbanistica torinese
In conclusione è opportuno richiamare la breve ma importante lezione di storia urbana di Torino redatta negli anni ’60 da Italo Insolera sulla rivista di Olivetti, Comunità. Insolera nel descrivere i passaggi storici con cui fu realizzata a partire dal seicento la splendida città di Torino afferma che per fare città belle e vivibili occorrono tre indispensabili elementi. L’esistenza di una classe dirigente che abbia chiaro l’orizzonte sociale ed economico su cui collocare lo sviluppo urbano. Il coinvolgimento di intellettuali architetti e urbanisti di primaria autorità culturale e bravura non delegando questa importante funzione a società di comodo o strumentali. Come noto, i grandi architetti che disegnano Torino sono anche gli autori di quei progetti architettonici che oggi si vorrebbero “valorizzare”. Infine la questione centrale. Le città diventano meravigliose se la classe dirigente investe nella bellezza attraverso adeguate risorse economiche. Negli oltre venti anni del dominio culturale neoliberista ci hanno raccontato invece che è solo l’iniziativa privata a rappresentare il motore delle trasformazioni urbane.
Il fallimento di questa ricetta antistorica è sotto gli occhi di tutti. Invece di continuare a seguire, migliorandola laddove possibile, la storia urbanistica di Torino si sta tentando l’ennesima volgare occasione speculativa. Se vogliamo salvare la Cavallerizza Reale, Torino e le città italiane dobbiamo tornare a quella preziosa lezione.
IL LINGUAGGIO INGANNEVOLE
DEI VENDITORI DI CITTÀ.
di Paola Somma
Durante la campagna per le elezioni amministrative di Torino è stato presentato il masterplan per la “riqualificazione, valorizzazione e conservazione ad uso pubblico del complesso della Cavallerizza Reale”. Il masterplan è stato predisposto, su commissione della Compagnia di San Paolo, da Homers e da Equiter. Homers srl Impresa Sociale, è una società, presieduta da un docente del Politecnico di Torino, per “lo sviluppo di progetti immobiliari senza costruzione”. Equiter è una società del gruppo Intesa San Paolo che investe capitali di rischio per “sviluppare le infrastrutture, valorizzare il territorio e promuovere il partenariato pubblico privato in Italia e all’estero”. Il lavoro è stato svolto “in concertazione” con il comune di Torino.
Le vicende precedenti, nonché i contenuti del masterplan, che gli autori dichiarano essere il “frutto dell’ascolto di attori diversi”, sono stati accuratamente analizzati (vedi interventi di Paolo Berdini e Riccardo Bedrone e tabella in calce di Elisabetta Forni ed Emanuele Negro).
Poco, quindi, resta da dire se non che gli obiettivi e le indicazioni del masterplan sono in perfetta sintonia con la strategia perseguita dalla Cassa Deposita e Prestiti, trasformata dal governo in agenzia di promozione di investimenti immobiliari, e con le prescrizioni del decreto Sblocca Italia, in particolare l’art. 26 dove recita: “per contribuire alla stabilità finanziaria nazionale e promuovere iniziative di rivalutazione del patrimonio volte allo sviluppo economico e sociale… si riconosce all’accordo di programma che si occuperà del recupero di immobili pubblici non utilizzati il valore di variante urbanistica”.
Dei vari termini con i quali si esalta la rapina dello spazio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa - amministratori, tecnici, mezzi di informazione - perché alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. Che si tratti di grandi complessi edilizi, il cui accesso era limitato o temporaneamente impedito, perché utilizzati per ospitare attività di interesse pubblico, o di pezzi di città che vengono ridisegnati in funzione della loro assegnazione ai privati, la loro cessione comporta che, sebbene talvolta tali beni diventino accessibili al pubblico, le modalità di fruizione sono lasciate alla totale discrezione dei privati che possono imporre un ingresso a pagamento e, soprattutto, arbitrariamente selezionare il pubblico desiderabile e accettabile, restringere la lista delle persone idonee a far parte del “pubblico”, ed escludere così singoli individui o gruppi di cittadini.
La presunta equivalenza tra la privatizzazione dello spazio pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con vari artifici retorici. Il più usato è l’affermazione che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico”. E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone”. Homers aderisce esplicitamente a questo approccio e dichiara di privilegiare la regolazione del diritto d’uso rispetto alla regolazione del diritto di proprietà. Di conseguenza, distingue il grado di apertura al pubblico degli spazi al piano terreno della Cavallerizza con tre “sfumature di rosso”: rosso intenso, accesso compatibilmente con attività commerciali ivi esistenti; rosso medio, accesso alle corti in ore diurne con possibilità di deroghe; rosso chiaro, accesso in ore diurne senza possibilità di deroga.
Qualsiasi altra proposta, per essere realmente alternativa al masterplan di Homers, dovrebbe innanzitutto distinguere tra una visione dello spazio pubblico come spazio aperto a tutti, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi tipo di coercizione, e quella riduttiva di spazio “aperto”, disponibile per attività di svago, tempo libero, divertimento, “aperto” ad un pubblico “appropriato” al quale i proprietari consentono l’ingresso. Il che rende necessario ristabilire il principio che nessuno può essere escluso dallo spazio pubblico.
In secondo luogo, dovrebbe ribadire che lo spazio pubblico non è la somma degli interessi privati e ripristinare i confini tra i due ambiti, riconoscendo ai privati la capacità di fornire spazi per l’incontro sociale, ma non spazi pubblici.
Infine, ma non meno importante, dovrebbe tener conto che, oltre ad impoverire la collettività, l’uso dello spazio pubblico a fini di profitti privati e/o la sua privatizzazione contribuiscono a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano.
Il linguaggio con cui si racconta la “restituzione” dello spazio pubblico, quindi, ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perché consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Se è così, non stupisce che fra i dieci membri del team di Homers, figurino due professionisti esperti “nell’ascolto attivo e processi partecipativi”, un esperto di “social media e sentiment analysis” e un esperto in comunicazione e stampa.
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Obiettivi generali
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“Alienazione, valorizzazione, riqualificazione e tutela” di tutto o in parte per uso misto residenziale privato, servizi e funzioni a uso pubblico (come da Progetto Unitario di Riqualificazione del 20.11.2012 Delibera 06298 e succ. Delib. 2466 del 4.6.2013), per mezzo di “alienazione del Compendio ad asta pubblica per Lotti distinti” (come da Delibera del Consiglio Comunale 2015 07072/131)
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Conservazione ottimale del bene tramite alienazione
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Obiettivi specifici del progetto
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Collocare diverse funzioni (culturali, ricettive, terziarie e commerciali) in spazi ad uso parzialmente pubblico, grazie all'intervento di attori diversi (istituzioni pubbliche e operatori privati); l'uso pubblico è limitato al piano terra del Compendio, pur essendo prevista la proprietà privata anche di questi spazi.
Non è identificabile uno specifico progetto culturale
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Compartimentazione del compendio
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La frammentazione del Compendio in 10 Unità Minime di Intervento (UMI) e l'identificazione di potenzialità ed usi specifici di ciascuna unità, al fine di facilitare il processo di alienazione, privilegia la libertà di scegliere, a discrezione degli operatori privati (secondo convenienze anche estranee agli obiettivi culturali), piuttosto che la loro coerente integrazione
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Regime proprietario
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Privato per il 96,3% dell'intero Compendio e frammentato in lotti distinti a conclusione del processo di cartolarizzazione gestito dalla C.C.T. salvo 1.600 mq circa, attualmente di proprietà Comunale in seguito alle recenti de-cartolarizzazioni del Maneggio Alfieriano e della Sala delle Guardie (cfr. anche Delibera di Giunta 2016 01582/131 per delucidazioni sulle ragioni di queste de-cartolarizzazioni)
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Consistenza degli usi principali
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Residenziale
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Almeno 21.000 mq (da aumentare di parte di una superificie di 9.700 mq, ripartita fra residenze, commerci, uffici) per residenze collettive, temporanee o abitazioni tradizionali
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Didattica
(aule, formazione,
seminari, riunioni)
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Al massimo 5.300 mq (400 mq Sala delle Guardie, 1.300 mq aule indicate nella Tavola Fruizione pubblica piano terra, 3.600 mq Pagliere, da diminuire della parte imprecisata destinata a laboratori/artigianato come indicato nella suddetta Tavola)
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Spazi espositivi
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1.330 mq
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Uffici
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9.700 mq per uso pubblico e privato (da diminuire di una parte imprecisata destinata a residenze, commerci e altro)
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Spazi performativi
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1.265 mq (Cavallerizza Alfieriana)
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Laboratori/atelier
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Parte imprecisata del piano terra delle Pagliere per incubatore università, da dividere con laboratori e artigianato (come indicato nelle Tavole Fruizione pubblica piano terra e Progressivo recupero della Cavallerizza per uso comune)
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Spazi a tariffa sociale
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Superficie lorda totale
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37.152 mq (Ex Zecca esclusa dal perimetro degli usi).
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Destinazione Ex Zecca
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Indeterminata, nonostante la prossima liberazione dei locali (2 anni circa) sia compatibile con l'orizzonte temporale del Masterplan
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Usi comuni degli spazi aperti
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Il suolo antistante i Maneggi Chiablese ed Alfieriano, e che si estende fino a via Rossini e via Verdi, è il solo a restare di proprietà pubblica e con accesso libero perenne.
I cortili delle quattro corti, la Rotonda, i porticati e il camminamento fra le Pagliere divengono invece privati e con limitazioni di accesso più o meno rigide (accesso consentito da 4 a 12 ore quotidiane diurne massime, con possibilità di deroga con divieto d'accesso)
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Modello di gestione
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La frammentazione del Compendio in sub-unità private (ed appartenenti, in generale, a soggetti distinti) comporta una molteplicità di linee gestionali indipendenti. E' prevista la creazione di un soggetto coordinatore denominato Agenzia Cavallerizza la cui attività si limita a: amministrazione degli spazi aperti comuni (piano terreno), azioni di marketing e di “promozione del brand Cavallerizza al fine di rafforzare l'acquisita vocazione culturale del distretto” e, più in generale, di promozione immobiliare e finanziaria
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Costi di trasformazione
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100 mln € circa, dei quali: 60 per spese di ristrutturazione, 10 per oneri urbanistici e 30 per l'acquisto degli immobili
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«Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza.». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)
I piedi , gli occhi,il cuore di Paolo Rumiz e dei suoi compagni di viaggio: cosa avrebbe potuto chiedere di più la vecchia Via Appia, regina delle strade? Sembrerà strano, ma era da un tempo infinito che nessuno prendeva l’Appia per il suo verso: che è quello di essere una strada. Una strada da percorrere tutta, senza badare ai confini tra le regioni o i comuni, tra lo spazio pubblico e l’aggressione dei privati (abusivi o no), tra il bello e il brutto, tra la storia e la sua negazione, tra il monumentale e il demenziale.
Come tutti i pellegrinaggi religiosi, il Cammino di Santiago promette, a chi lo percorre con fede, indulgenze e remissione dei peccati. Agli italiani che la percorreranno con incrollabile fede nella propria umanità l’Appia promette, invece — oltre ai piaceri della carne e dello spirito irresistibilmente cantati da Rumiz — la conversione alla saggezza più alta, e meno diffusa: quella dell’uso sostenibile del nostro territorio, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, del primato dell’interesse pubblico su quello privato.
Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza. Intervenendo all’assemblea di Confindustria, dieci giorni fa, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ha detto che «siamo un Paese che ha investito tantissimo in tutela. Abbiamo fatto bene: abbiamo vinto quella battaglia, abbiamo punte di eccellenza. Ma non abbiamo investito altrettanto in valorizzazione».
Ecco, percorrere l’Appia significa sbattere contro l’evidenza del contrario: non abbiamo affatto vinto la battaglia della tutela. E rischia di fare enormi danni una retorica che fondi su questo abbaglio la stagione di una valorizzazione pigliatutto. Questo è il punto: l’idea (fortissima, popolare, vincente) dell’Appia come del nostro Cammino di Santiago non deve ridursi a un brand, a un Grande Progetto, a un format fatto di segnaletica e app per l’iPhone, magari con la partecipazione decisiva delle società che hanno sventrato il Paese con Grandi Opere inutili. E che il concorso appena bandito per altri dieci supermusei preveda che l’Appia venga sottratta alla soprintendenza e sia invece affidata a un superdirettore (che potrebbe essere benissimo un esperto di marketing, come è accaduto per la Reggia di Caserta) cui dovrebbe spettare anche la tutela paesaggistica e archeologica è passo decisivo in quella pessima direzione.
Chissà se un giorno potrà tradursi in realtà un altro modo di pensare: chissà se avremo mai una soprintendenza unica per tutta l’Appia, da Roma a Brindisi. Una soprintendenza popolata di diecine di giovani archeologi capaci di scavare, sistemare, tutelare e raccontare ai cittadini la nostra storia straordinaria. Una struttura capace di produrre insieme difesa del territorio, ricerca, conoscenza e piacere diffuso: capace di farci attraversare questa strada unica al mondo non come clienti o consumatori, ma come pellegrini della conoscenza gratuita. Non come numeri da esibire nelle statistiche ministeriali, ma come persone: alla ricerca di quel «pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3 della Costituzione) che è il vero scopo di ciò che chiamiamo patrimonio culturale.
Un progetto carico di futuro: e che magari sarà realizzato da un ministro per i beni culturali che da bambino avrà percorso tutta l’Appia con gli occhi spalancati, il cuore aperto e il cervello acceso. E con in tasca il libro di Paolo Rumiz.
Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2016
E così, con circa un mese di ritardo rispetto allo strombazzatissimo annuncio, è dunque arrivato il concorsone da 500 posti per funzionario tecnico nel Ministero dei Beni Culturali. In tempi di delegittimazione costante della pubblica amministrazione 500 posti fissi per laureati in materie umanistiche sono decisamente in controtendenza. Senonchè, se si va oltre la superficie governativa del #cambioverso, l'iniziativa è destinata ad un drastico ridimensionamento quanto a impatto sul sistema della tutela.
I posti messi a concorso copriranno a stento la metà di buchi d'organico provocati dai pensionamenti di qui all'ingresso effettivo dei futuri vincitori. Nonostante il suddetto organico avesse subito, ad opera di questo Ministro, una robustissima potatura, da 25.000 a 19.050 posti complessivi.
Tagli operati sulla sola base di esigenze di risparmio e in pieno clima di ridimensionamento della macchina statale, senza un'analisi dei bisogni del territorio e pur a fronte di una riorganizzazione ministeriale - la così detta "riforma" Franceschini - destinata a scardinare il ministero creando dal nulla decine di nuove strutture (i musei autonomi e i poli museali).
Che uno dei punti deboli della riforma Mibact fosse proprio quello del personale, insufficiente in numero e per di più con età media avanzatissima, lo si era già capito nei mesi scorsi, a fronte di situazioni paradossali che si erano create in seguito alla suddivisione dei funzionari fra musei, poli e Soprintendenze, operata con modalità estemporanee e opache, all'insegna dell'autogestione: tanto per fare un solo esempio, la Galleria Borghese, Museo promosso fra quelli di serie "A", annovera nel suo staff un solo storico d'arte.
Con il gusto del surreale proprio dell'alta burocrazia ministeriale, il concorso ignora, nella ripartizione fra le varie specializzazioni (architetti, archeologi, bibliotecari, antropologi, archivisti, ecc.) non solo le esigenze specifiche dei territori, ma anche la stessa riforma. Pur di fronte alla moltiplicazione degli istituti autonomi e dei centri di spesa, non è previsto neppure un posto per funzionari amministrativi.
Quanto ai tecnici, la ridicola quota prevista per i bibliotecari (25 posti), a fronte di istituzioni che - anche a livello di biblioteche nazionali, come quella di Firenze - stentano ad assicurare i più elementari servizi, nonchè orari di apertura decorosi, ha provocato, in pochi giorni, le dimissioni dell'intero Comitato tecnico scientifico ministeriale per le biblioteche e dello studioso di biblioteconomia, Giovanni Solimine, nominato in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
Era noto da tempo che 500 posti non fossero sufficienti ad invertire il processo di declino della struttura Mibact, ma servivano a stento a mantenerla all'attuale livello di galleggiamento.
A maggior ragione, ne andava pianificata una ripartizione oculatissima, mentre invece gli squilibri sono evidenti non solo fra le varie specialità disciplinari, ma soprattutto per quanto riguarda le aree geografiche: fortemente penalizzato, in tutte le discipline messe a concorso, è il meridione (alla faccia della propaganda renziana sulla cultura come motore di un nuovo sviluppo del mezzogiorno), mentre troviamo una concentrazione di "offerta" nel Lazio, cioè a Roma, cioè nella sede centrale del Ministero.
Il Collegio Romano continuerà così ad essere un Moloch che drena risorse di ogni tipo a danno dei territori.
Fin dalla partenza il concorsone rivela la sua natura di rimedio una tantum, inutile nel medio-lungo termine. Già da molti anni il nostro sistema di tutela si regge non solo grazie ad un personale invecchiato e sempre più demotivato, ma, in percentuale sempre maggiore, sulle spalle di migliaia di precari laureati e spesso specializzati e dottorati che, con contratti al limite della dignità professionale, garantiscono servizi essenziali, dalla catalogazione di biblioteche e archivi, all'apertura di musei e luoghi della cultura, alla gestione di tutti gli scavi di archeologia preventiva.
È una situazione da risolvere attraverso una nuova e diversa politica occupazionale che garantisca regole certe, trattamenti continuativi - non necessariamente il solo "posto fisso" - ma incentivando con ogni mezzo l'imprenditoria culturale giovanile: questa sarebbe la vera riforma, l'unica utile a "cambiare verso".
Il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2016 (p.d.)
Le fiamme sono state appiccate nella valle tra Monastero e Sibà vicino a numerosi dammusi turistici e spinto dal forte vento di maestrale verso il versante meridionale dell’isola, tra Scauri e Salto della Vecchia. Alimentato da conigli, volpi e altri piccoli animali in fuga trasformati in torce viventi che andavano ad appiccare le fiamme oltre ogni sbarramento, il fuoco ha superato la perimetrale chiusa prudentemente al traffico minacciando una decina di case a Rekale, evacuate per l’aria resa irrespirabile dal fumo e arrivando quasi sugli scogli, davanti al mare. Dove, da tre giorni, i Canadair della Protezione civile attingono l’acqua per spegnere le fiamme (ne rimarranno due, da oggi, con dieci equipaggi, fino allo spegnimento totale) che hanno trasformato la “perla nera del Mediterraneo’’, nota per il suo ecosistema che ai turisti offre anche un bosco che degrada sul lago di Venere, in un mucchio di sterpaglie in cenere.
“Da casa mia, a Bukkuram – dice Pietro Bonomo, ex vigile del fuoco – vedo tre quarti della montagna bruciata. A mia memoria non ricordo un incendio di queste dimensioni’’. E in varie zone dell’isola si è dovuto fare ricorso ai gruppi elettrogeni messi a disposizione dall’Aereonautica militare. Il fuoco ha risparmiato la zona di riserva A ma i danni, denuncia Gabriele, “sono incalcolabili’’:“Siamo di fronte – dice – a un disastro ambientale e idrogeologico, è un attacco mirato e programmato di un gruppo di imbecilli e di criminali collegati a certe sacche di resistenza”, e cioè a chi si oppone all’istituzione di un Parco nazionale proprio nella zona colpita dalle fiamme. Un progetto, accusa il sindaco, che non piace a molti che vedono nel Parco un possibile concorrente nella gestione di risorse pubbliche. “Probabilmente – accusa il sindaco – la presenza di un altro ente che gestisce le risorse del territorio e ne controlla la destinazione ha suscitato fastidi e preoccupazioni. Ma noi siamo pronti, e lo stiamo facendo, a rispondere con denunce aperte e precise e non ci fermeremo. Anche il sostegno della popolazione è una buona ragione per andare avanti”.
« Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornati evidenti iniquità, privilegi, ingiustizie. Ma il giovane proletariato è disgregato e inconsapevole».Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)
Il cielo sopra Milano è azzurro questa mattina, terso come poche volte capita in pianura. Cammino per il quartiere Isola mentre lo sberluccicante grattacielo dell’Unicredit mi ricorda senza possibilità di dubbio quanto sia cambiata la mia città in questi anni. Milano è diventata più bella. La contemporaneità si è fatta materia, si respira un’atmosfera internazionale, i vuoti sono stati riempiti, ciò che era infranto è stato sostituito, hanno perfino piantato qualche albero, a magra consolazione di un’aria sempre irrespirabile. Apprezzo questi cambiamenti ma non sono un ingenuo.
Continuo a camminare lungo la strada che porta verso il centro del quartiere, i faccioni sorridenti dei candidati alle elezioni stonano con tutta questa innovazione, sono inopportuni, un retaggio quasi offensivo. Fra poco ci saranno le elezioni. I cinque anni di Giuliano Pisapia hanno fatto bene alla città, il sindaco ha governato con praticità e buon senso; certo poteva fare meglio, ci sono stati diversi contrasti interni, alcuni assessori sono stati poco coraggiosi, altri hanno avallato con le loro scelte il mancato ricambio generazionale ma la sua giunta è stata la prima che ho sentito un poco appartenermi.
Sono cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, a Milano il berlusconismo – come il craxismo prima di lui – è stata una cosa seria, ha permeato fino in fondo la struttura sociale e culturale della città, l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza: garrula, ottimista e tragicamente incompetente. Noi i fascisti non li abbiamo mai avuti, nelle nostre periferie non c’è mai stata una militanza di destra identitaria, la nostra destra aveva un volto persino peggiore: era fluida, senza appartenenze, ignorante, qualunquista, legata a doppio filo a quella idea illusoria di benessere alla portata di tutti che fu alla base della stagione politica berlusconiana.
E poi c’erano i leghisti ma in città non hanno mai contato nulla, bisogna andare nella Lombardia profonda per tastare con mano la loro influenza, per vedere quelle facce rubizze senza vergogna, orgogliose di non rappresentare niente se non il ben noto provincialismo reazionario. Poi ci sono i ciellini, e sebbene la loro presenza sul territorio sia impalpabile, l’innata prepotenza si sente fin troppo bene nei consigli di amministrazione degli ospedali e delle partecipate statali.
Sono stati fatti molti errori e credo che se ne faranno altri. La politica nazionale del partito democratico ha fatto sentire la sua influenza ed è mancata la forza di opporsi a una strategia di normalizzazione che ponesse fine all’esperimento Milano. Il risultato è che si fronteggiano due candidati molto simili: pallidi, intercambiabili, nel senso che entrambi potrebbero benissimo stare dall’altra parte, comunque deludenti, espressione di una borghesia in chiara crisi identitaria, costretta a campare di rendite e patrimoni novecenteschi.
Chiunque vinca noi abbiamo già perso, ed è evidente passeggiando in queste strade. Sono in piazza Minniti, alla mia sinistra comincia via della Pergola. Al posto della celebre casa occupata hanno costruito delle villette con i terrazzini stile finta vecchia Milano. Più avanti c’era Garigliano, lì francamente non so nemmeno cosa abbiano fatto, forse degli uffici. Come al vecchio Leoncavallo, a pochi chilometri da qua, del quale non rimane nemmeno una traccia estetica della sua esistenza. Ma non voglio essere nostalgico, non rimpiango la mia giovinezza e tantomeno la militanza perduta, non voglio ripetere gli errori della generazione precedente, i vecchi non sono mai meglio dei giovani, sono solo più stanchi.
L’avventura politica dei centri sociali è finita da più di quindici anni, quelle che dovevano essere le nuove parole d’ordine sono state copia incollate da formule ripetute a memoria, a loro volta già eredità faticosa e castrante. E non sarà l’ennesimo partitino all’1,5 % a colmare questo vuoto, impegnati come sono a difendere rendite di posizione personali.
Sono quarant’anni che in Italia manca un’elaborazione politica originale, perlomeno una traccia di avanguardia culturale che guardi al futuro eliminando anche solo per un momento la distinzione fra realtà e sogno. E noi abbiamo bisogno di sogni almeno quanto abbiamo bisogno di conflitto. Basta guardarsi intorno per capire quanto a Milano il conflitto sia stato espulso da ogni ambito sociale, da ogni ambiente di lavoro, da ogni confronto intellettuale. Eppure ci sarebbe spazio per nuove forme di lotta.
Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornate a essere molto evidenti le differenze sociali, le iniquità economiche, i privilegi spudorati, i torti e l’ingiustizia che stanno alla base di ogni esigenza di rivolta. Ma chi subisce è troppo abituato a farlo. Il nuovo giovane proletariato urbano è tramortito, disgregato e inconsapevole, basta lasciargli l’accesso a un livello minimo di consumo per disinnescare alla base ogni forma di ribellione.
E dall’altra parte – che per quanto mi riguarda è sempre la parte del nemico – in alcune frange residuali della media borghesia intellettuale, persiste una sorta di postura ideologica, innocua e spesso caricaturale, molto attenta a ciò che erano un tempo le battaglie del partito radicale – ovvero le questioni di genere, i diritti civili, un vago ambientalismo – ma fatalmente distratta su ogni questioni riguardante la contrapposizione di classe.
Questa contraddizione, che è tutta politica e non c’entra nulla con il costume, ha rappresentato il vero equivoco della sinistra italiana del secondo dopoguerra. Guardando per l’ennesima volta il disperare di questa gente, come faccio ad appassionarmi alla prossima tornata elettorale?
Ci vediamo fra vent’anni, quando non avremo la pensione. Allora si che tornerà il conflitto. Ma sarà devastante.
«L'allarme rosso fatto suonare dalla voragine su Lungarno Torreggiani dovrebbe condurre alla revisione di una politica infrastrutturale in sotterranea che mette palesemente a rischio un centro storico già ipersfruttato.» Il Tirreno, 26 maggio 2016 (m.p.g.)
Firenze crolla sul Lungarno, a pochi passi da Ponte Vecchio. Dicono che è tutta colpa di un grosso tubo dell'acquedotto: di ghisa e quindi vecchio, oppure di fabbricazione più recente? In ogni caso il risultato è impressionante. Ancor più impressionante però che appena due settimane fa un gruppo di intellettuali fiorentini - dall'architetto Giovanna Nicoletta Del Buono all'archeologa Lucia Lepore, allo storico Franco Cardini - abbiano sollecitato l'Unesco a inserire Firenze nell'elenco dei "siti in pericolo".
Del marzo del 2015 è un rapporto dettagliatissimo che costituisce un atto di accusa nei confronti delle ultime amministrazioni locali in specie della Giunta di Matteo Renzi. Responsabile a loro avviso di "opere infrastrutturali in atto e in progetto che interessavano tanto il sottosuolo che la superficie e snaturavano irreversibilmente interi quartieri": escavazione di 12 parcheggi sotterranei nel centro storico; metro-treno nel sottosuolo del cuore di Firenze (piazza Unità, Santa Croce, San Lorenzo,ecc.) e altre gallerie che sbarreranno la strada alle acque di falda e a torrenti dal corso poco conosciuto; infine lo stesso contestatissimo tunnel dell'Alta Velocità.
L'Unesco ha notificato al Comune di Firenze questi rischi. Risposta della Giunta Nardella: un Regolamento per la Tutela e il Decoro del Patrimonio Culturale del Centro Storico che però non si occupa di questioni strutturali bensì dei limiti (sempre benvenuti per carità) agli esercizi pubblici, alla mescita di bevande alcoliche, ecc. Nulla per la mappa dei rischi in una "città d'arte di una estrema fragilità. La sua fragilità è enorme perché interventi e manomissioni possono alterare straordinari e delicati equilibri". Come esordisce la relazione all'ultimo piano urbanistico.
Inascoltata evidentemente. I geologi sottolineano "l'incoerenza fisico-meccanica del sottosuolo fiorentino e la grande importanza del principale acquifero che si trova a 3-4-5 metri dal piano di campagna per quello che riguarda la stabilità delle fondazioni di tutti gli edifici di Firenze, ma anche dei grandi monumenti come la Cattedrale". Il vistoso crollo di ieri sul Lungarno più centrale è dunque soltanto un episodio - per fortuna senza vittime - che però denuncia una patologia idro-geologica ben più profonda ed estesa. Continuare a bucare, a scavare un sottosuolo complesso come quello fiorentino, in un luogo abitato da millenni, può creare ben altri guasti.
La politica delle ultime Giunte ha puntato molto sulla vendita a privati di grandi complessi storici - palazzi importanti ed ex conventi demaniali come Santa Maria degli Angeli comprendente la Rotonda brunelleschiana - trasformati in alberghi o residenze di lusso e per questo dotati di garage e parcheggi pertinenziali. Tutto il contrario della politica urbanistica più avanzata che tende a riportare residenti di ogni ceto sociale, coppie giovani, artigiani, offrendo a fitti economici alloggi e botteghe e pedonalizzando intere zone. Mentre vengono creati all'esterno parcheggi di scambio con le ferrovie locali e con le metropolitane di superficie. Secondo il Piano Vittorini adottato negli anni '90, la stessa Alta Velocità doveva passare da Firenze in superficie con Stazione a Campo di Marte (già ora utilizzata da talune Frecce), senza cioè toccare il centro storico.
Insomma l'allarme rosso fatto suonare dalla voragine su Lungarno Torreggiani dovrebbe condurre alla revisione di una politica infrastrutturale in sotterranea che mette palesemente a rischio un centro storico già ipersfruttato. Revisione basata su una indagine accuratissima del sottosuolo e delle acque che vi corrono. Quelle del "paleo-Mugnone" che ancora potenzia la falda nella città antica, o le "antiche falde del San Gervaso e di tutto il versante di Settignano (...) che continuano a dirigersi secondo le millenarie direzioni verso il centro". Senza contare che Firenze non ha tuttora fognature per le acque "nere". Ci vogliamo pensare seriamente?
«Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città ». La Repubblica, 26 maggio 2016 (c.m.c.)
Firenze è un corpo fragile. Nel gennaio del 2012 venne giù un enorme blocco dalla storica Colonna della Dovizia, nella centralissima piazza della Repubblica: solo per miracolo non fu una strage.
La patina dorata della città-vetrina coprì presto quelle macerie: e tutto fu dimenticato. Oggi lo spettacolare sfaldamento di un Lungarno, a un passo da Ponte Vecchio e di fronte agli Uffizi, innesca un ben più potente campanello d’allarme: basterà?
La prima cura di cui le città storiche hanno bisogno è assicurare che al loro corpo fragile non manchi il sangue vivo: che sono i cittadini, i residenti stabili. Firenze, da questo cruciale punto di vista, è in caduta libera: mentre gli abitanti scendono vertiginosamente (dal record di 500mila siamo ora a 370mila), la monocultura del turismo scommette di portare la quota annuale dei visitatori fino al tetto fatidico dei venti milioni. In questo quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale.
Qualche settimana fa, su un Lungarno non lontano dal crollo, è comparsa una grande scritta: «No gentrification». Fa una certa impressione che una difficile parola della sociologia urbana (che indica appunto la disneyficazione delle città, con relativa espulsione dei residenti) diventi una bandiera della comunicazione dal basso. È la città dei fiorentini a parlare: quella che teme di finire come Venezia, che è ormai una meravigliosa quinta disabitata.
Come nella Venezia del Mose, anche a Firenze ci si illude di supplire alla mancanza di manutenzione ordinaria attraverso le Grandi Opere: aggiungendo così danno a danno, pericolo a pericolo. Torna in questi giorni attuale la dissennata idea di scavare l’ennesimo, inutile parcheggio sotterraneo in piazza Brunelleschi: cioè a due passi dalla fragile Cupola del Duomo. Ma c’è di peggio: incombe il progetto di sventrare il centro storico per interrare la rete della tranvia, e non si è ancora abbandonato il dispendiosissimo, antiquato e potenzialmente fatale sottoattraversamento Tav della città ottocentesca e delle sue falde acquifere.
Non basta: è prossimo l’ampliamento di un aeroporto che rimarrà comunque da operetta (l’unica scelta sensata era raddoppiare quello di Pisa, e creare una navetta veloce come in una qualunque metropoli occidentale), ma sconvolgerà l’equilibrio idrogeologico della piana fiorentina. Le immagini del Lungarno Torrigiani sventrato sono un monito contro tutto ciò: nessuno potrà più dire che non sapeva quanto il corpo di Firenze sia fragile, delicato, esposto.
Più in generale, invece di continuare a massacrare il tessuto dei nostri centri storici, dobbiamo ricominciare a prendercene cura. Amiamo le nostre città perché la loro bellezza è stata plasmata da una lunga storia: ma quella stessa storia ha prodotto cicatrici, debolezze, pericoli che non possiamo ignorare.
È difficile tenerlo a mente in un’epoca che rimuove i segni del passaggio del tempo dai corpi vivi delle donne e degli uomini, e anche dai corpi (non meno vivi) delle opere d’arte più celebri, condannate ad un continuo, terribile lifting che ambisce a cancellare la storia e troppo spesso ci restituisce una bellezza astratta, disumana, inutile. È difficile perfino saperlo, in un Paese dove invece di muoverci noi alla scoperta delle nostre mille città storiche, preferiamo “movimentare” ogni anno 25.000 tra reperti archeologici e opere antiche e moderne per alimentare un’insensata industria delle mostre. È difficile riconoscerlo di fronte a una politica che rottama le soprintendenze, sradica i grandi musei dal territorio e usa i centri storici come location.
Siamo pronti a usare il Colosseo come un palasport, a far suonare Elton John nel teatro di Pompei, a coprire l’Arena di Verona come un auditorium: consumare, valorizzare, sfruttare sembrano le uniche parole d’ordine. Ci sentiamo gli utilizzatori finali di un patrimonio millenario. Sia chiaro: le città sono fatte per essere vissute, e non dobbiamo scegliere tra passato e futuro. Il punto, però, è costruire un futuro sostenibile, riprendendo ad investire sulla manutenzione ordinaria e sul governo del territorio.
Già nel 1955 Leo Longanesi scriveva che «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione», e uno storico dell’arte come Giovanni Urbani - il quale concepiva invece il restauro come una conservazione generale dell’ecosistema di ambiente e arte, fondata su una manutenzione programmata - dovette dimettersi dalla direzione dell’Istituto Centrale del Restauro per la completa sordità della politica. Gli amministratori sanno che la gestione ordinaria non dà visibilità, gloria mediatica, ritorno di consenso: e dunque spingono sul pedale degli eventi, delle grandi opere o dei restauri ad effetto.
Dobbiamo guarire da questa cecità. Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città: in fondo è proprio così che è nata, lentamente, la loro bellezza. Una bellezza di cui siamo custodi, non padroni.
«Comunali. Al candidato Fassina Roma offre una forte base di militanza sociale e la più grande università d’Europa. Il volano per un lavoro di aggregazione utile alla costruzione di un modello di intervento per il nuovo soggetto politico»Il manifesto, 25 maggio 2016
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze – dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi – che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con l’immediata partecipazione a una campagna elettorale.
Un battesimo irrimediabilmente sbagliato: una nuova formazione che si pretendeva alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società, inaugurava il suo corso bussando alle porte del potere.
Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso. In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana.
Intanto, c’è da osservare che, col tempo, l’ “imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un’altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all’altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile – poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d’Italia – il suo è l’unico nome, nella rosa dei candidati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città. Ma in questi ultimi tempi il candidato Fassina ha mostrato altri tratti che la sinistra sbaglierebbe a non incoraggiare come meritano, anche al di la della vicenda romana.
Non mi riferisco soltanto allo stile della sua campagna elettorale, territorialmente insediata nella periferia di Tor Pignattara, alla sua disponibilità all’ascolto delle voci e delle competenze varie che circolano nella città, alla frequentazione quotidiana dei cittadini alle prese coi loro problemi quotidiani. Egli ha mostrato un elemento di intransigenza politica che io considero strategica per l’avvenire di una formazione politica autonoma della sinistra italiana. Il suo netto rifiuto di ipotesi di alleanze con il Pd costituisce un aspetto non negoziabile di tutta la partita politica che la sinistra si gioca in Italia in questi giorni e nei prossimi mesi. Su questo punto della discussione non possono esserci incertezze. Esponenti di Sel criticano la rottura netta con il Pd per il pericolo del minoritarismo, ma l’intransigenza nei confronti del Pd non è una ripicca, non è rubricabile come una semplice mossa tattica. Essa nasce da una valutazione strategica, è l’esito di una considerazione storica ormai pienamente decantata. E non è limitata all’Italia.
I partiti che un tempo rappresentarono in Europa la classe operaia e i ceti popolari, gli ex comunisti italiani, i socialisti francesi, spagnoli, greci, i laburisti inglesi (Corbyn a parte) sono i resti di un fronte che ha capitolato, hanno esaurito la loro funzione storica. Essi competono nei rispettivi paesi con i partiti della destra su un identico obiettivo: la capacità di rappresentare gli interessi del capitalismo industriale-finanziario con maggiore capacità di controllo dei ceti popolari.
Chi realizza la riforma del lavoro che rende più flessibile la forza lavoro, facendola meglio accettare alla rispettiva comunità nazionale e lucrando consenso e conferma del proprio potere? Chi, in Italia, Berlusconi o Renzi? Chi in Francia, il governo socialista di Valls o quello di Sarkozy? Chi non comprende quel che è avvenuto di definitivo nel campo della sinistra storica non può avere idee chiare sull’avvenire. Quegli organismi politici sono morti e occorre seppellirli, altrimenti la loro putrefazione trascinerà anche noi.
A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un’avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni.
Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell’Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.
E’ impressionante infatti la moltitudine di comitati e associazioni che operano in città, per difendere i diritti di chi non ha una casa (pur in presenza di migliaia di edifici vuoti), di chi organizza orti urbani, di chi difende beni pubblici e beni comuni dalla privatizzazione, di chi rivendica spazi di libertà associativa in mezzo al furore della mercificazione di ogni brandello di territorio. Questa immensa base di militanza e di volontariato va raccordata, fatta diventare una forza politica se non unitaria almeno aggregata, in grado di esprimere rapporti di forza rilevanti nei confronti dei poteri dominanti locali e centrali.
Ma Roma possiede una potenza politica, culturale, intellettuale immensa a cui nessuno presta attenzione. Mi riferisco alle sue tre Università pubbliche. La Sapienza conta oggi circa 115 mila studenti e diverse migliaia di docenti ed è la più grande Università d’Europa. Anche Roma Tre, cresciuta rapidamente, è diventata una grande Università, con 35 mila studenti, mentre Tor Vergata supera le 30 mila.
Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.
Ho sempre pensato che costituire una istituzione simile alle Maison des Sciences de l’Homme, che operano in Francia – istituti dove operano docenti universitari di varie discipline e realizzano ricerche e interventi a favore dei rispettivi territori regionali – faccia al caso di Roma. Occorrerebbe creare un centro dove un largo ventaglio di saperi è al servizio della città e dei suoi problemi, attivando un canale di comunicazione costante con le tre Università. Ma intervenire oggi nel mondo degli atenei, incontrare gli studenti che pagano rette elevatissime, che non hanno borse di studio, privi di servizi, di case dello studente, di mense, di biblioteche adeguate, ecc. significa entrare in contatto con un pezzo di futura classe dirigente, che oggi nutre solo rabbia e rancore nei confronti dei partiti e del ceto politico di governo.
Nell’Università di Roma, ovviamente si intrecciano problemi cittadini e problemi nazionali: l’Università italiana e soprattutto la Sapienza ha subito colpi micidiali negli ultimi anni. E al suo interno, come nel resto d’Italia, la trasformazione degli studi in una gigantesca pratica aziendale, sottoposta continuamente a valutazioni di efficienza produttiva, crea frustrazione e sfiducia nella vasta platea dei docenti. E’ un’occasione da non perdere per chi si presenta come avanguardia della nuova sinistra: salvare l’Università italiana e ridarle più alte funzioni formative e di ricerca fa parte della battaglia per cambiare Roma ma anche per un nuovo progetto di società.
La Repubblica, 20 maggio 2016 (m.p.g.)
Nel passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura assume un ruolo centrale – lo ha ricordato su queste pagine Stefano Rodotà – il rapporto diretto tra il capo e la folla. Questo rapporto tende a delegittimare, e quindi a far saltare, i corpi intermedi: specie quelli che non poggiano sul consenso, ma sul sapere tecnico o scientifico. Da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nel governo del patrimonio culturale italiano appare particolarmente significativo.
Fin da quando era sindaco di Firenze, l’attuale presidente del Consiglio ha eletto il discorso sull’arte come terreno privilegiato del suo dialogo diretto con il popolo. La ricerca (ovviamente infruttuosa, perché affrontata fuori da ogni protocollo scientifico) della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio permise di costruire una campagna di comunicazione contro la comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte: il sindaco li definì «presunti scienziati», accusati di non essere «stupiti dal mistero» a causa di un «pregiudizio ideologico».
Allo stesso periodo risale il duro giudizio sul sistema di tutela del patrimonio basato sull’autonomia tecnico-scientifica: «Sovrintendente – scrisse Renzi in un suo libro – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?»Oggi che tutto questo è divenuto programma di governo (concretizzatosi nel silenzio-assenso e nella confluenza delle soprintendenze, accorpate e avviate verso l’irrilevanza, nelle prefetture), il leader torna a parlare di arte direttamente alla folla.
Renzi ha annunciato che «ci sono, pronti, 150 milioni di euro che vanno assegnati entro il 10 agosto. Le segnalazioni dovranno arrivare entro il 31 maggio. Pompei e gli Uffizi aiutano l'Italia a tornare orgogliosa di se stessa, bene! Ma abbiamo bisogno anche del piccolo borgo dimenticato o del museo abbandonato o della chiesetta da ristrutturare. E meglio ancora se un gruppo di cittadini, una associazione, una proloco, una cooperativa, una impresa innovativa si offre di gestire questi beni come luoghi dell'anima per la comunità. Dunque, scrivete a bellezza@governo.it». La semantica è esplicitamente commerciale: i monumenti devono «ripartire», come se fossero aziende; le chiese non si restaurano, ma si «ristrutturano»; i siti restaurati con denaro pubblico possono venire affidati in «gestione» indifferentemente a gruppi di cittadini o a «imprese». Alla tutela pubblica sistematica del patrimonio diffuso (prescritta dall’articolo 9 della Costituzione) subentra una sorta di lotteria in cui i cittadini sono invitati a rivolgersi direttamente al capo, ormai libero dal corpo intermedio dei professionisti della tutela e unico difensore della «bellezza». È come se si accorpassero e si depotenziassero gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, e poi il presidente del consiglio chiedesse di segnalare alcuni malati all’indirizzo guarigione@governo.it, dicendo che i «più votati» saranno risanati.
Da un punto di vista della tutela, questa svolta significa un arretramento secolare: la rinuncia a salvare tutto il patrimonio, la scelta di concentrarsi sui grandi siti redditizi (che hanno ricevuto 850 milioni sul miliardo stanziato il primo maggio) e di destinare una quota residuale (il restante 15%) a qualche monumento ‘minore’, in una sorta di ribaltamento per cui è ora lo Stato ad adottare il format dei «luoghi del cuore» del Fai. Da un punto di vista politico questa svolta sancisce l’irrilevanza del Ministero per i Beni culturali, dimostrata dal sempre più frequente oscuramento di Franceschini da parte del premier.
Da un punto di vista culturale, infine, questa antologizzazione del patrimonio attraverso il televoto significa l’abbandono della dimensione storica: Renzi aveva scritto, in quello stesso libro, che la bellezza «se è morta non è bellezza, al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». È questo il progetto del governo anche per quanto riguarda la formazione: la ministra Giannini ha spiegato che «quello che serve oggi nella vita non sono contenuti di una materia o di un'altra: per questo non abbiamo messo più ore di storia dell'arte». E nell’illustrazione ufficiale della Buona Scuola si legge che gli studenti non dovranno studiare la storia dell’arte, ma «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all'interno dell'offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali».
Che la direzione sia decisamente mercatista lo ha spiegato senza filtri la stessa Giannini, dichiarando, il 4 maggio scorso, che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».
Forse è arrivato il momento di chiederci quale sia il ruolo del sapere in una democrazia d’investitura dominata dalle richieste del mercato.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016
“7 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.074 Comuni (il 77% del totale) sono presenti abitazioni in aree a rischio. Nel 31% sono presenti addirittura interi quartieri e nel 51% dei casi sorgono impianti industriali. Nel 18% dei Comuni intervistati, nelle aree golenali o a rischio frana sono presenti strutture sensibili come scuole o ospedali e nel 25% strutture commerciali. … nel 10% dei Comuni intervistati sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio”.
Nella premessa a “Ecosistema a rischio 2015″ di Legambiente i risultati riportati, inequivocabili. Dopo il recente Rapporto di Ispra “Dissesto idrogeologico: pericolosità e indicatori di rischio”, arriva la presentazione dei dati sull’esposizione a rischio frane e al rischio idraulico nei Comuni italiani e sulle attività volte alla mitigazione del rischio da parte delle amministrazioni comunali. Il trend ancora negativo. Come confermano i risultati dell’indagine. A partire da quelli relativi ad “Interi quartieri in aree a rischio”. Non singole abitazioni, ma parti di agglomerati urbani. Insomma spazi estesi nelle quali si concentrano grandissime quantità di persone. Si va dai 68 del Piemonte e i 51 della Lombardia, ai 33 dellaToscana, i 30 della Sicilia, i 29 delle Marche e della Calabria, i 27 di Campania e Emilia Romagna, i 23 del Veneto e i 20 della Liguria, passando ai 16 del Lazio, i 13 della Puglia, i 12 dell’Abruzzo, gli 11 della Sardegna, i 9 della Valle d’Aosta, i 7 del Friuli Venezia Giulia e dell’Umbria, fino ai 5 dellaBasilicata.
Molti altri gli elementi che contribuiscono a definire l’estrema precarietà nella quale si trova una gran parte dei territori italiani. I pericoli che insidiano parti considerevoli delle diverse regioni. Tuttavia ad aggravare il quadro un elemento nodale. La parzialità dell’indagine. Già perché, come è sottolineato nel Rapporto di Legambiente, i dati presentati costituiscono il risultato del questionario inviato a 6.174 amministrazioni comunali “in cui sono state perimetrate aree a rischio idrogeologico“. Questionario al quale hanno risposto in 1.444, dei quali 45 in maniera incompleta e “quindi non assimilabili agli altri”.
Il dettaglio, per regione, più che un semplice elemento statistitico, sembra un illuminante indicatore delle politiche, certamente comunali ma anche regionali, in tema di urbanistica e di controllo del territorio, oltre che di trasparenza dei dati. Così in Abruzzo 40 quelli che hanno fornito risposte su 253 interpellati. InBasilicata 26 su 123. In Calabria 60 su 408. In Campania 64 su 474. In Emilia Romagna 70 su 265. In Friuli Venezia Giulia 39 su 146. Nel Lazio 55 su 364. In Liguria 35 su 187. In Lombardia241 su 889. Nelle Marche 82 su 235. In Molise 11 su 119. InPiemonte 306 su 1.045.
In Puglia 52 su 181. In Sardegna 29 su 243. In Sicilia 63 su 271. In Toscana 74 su 275. In Umbria 27 su 92. In Valle d’Aosta 33 su 74. In Veneto 84 su 278. Numeri che, a prescindere dalle percentuali differenti riscontrabili nelle diverse regioni, sanciscono l’assoluta volontà di una cospicua quantità di amministrazioni comunali di non voler dare conto delle proprie decisioni. Di non aprirsi al giudizio dei cittadini. Proprio come è accaduto con il “Censimento del cemento” lanciato nel 2012 dal Forum nazionale “Salviamo il paesaggio-Difendiamo i Territori” con l’intento di analizzare capillarmente il numero e lo stato degli edifici costruiti, agibili e in buone condizioni ma abbandonati e inutilizzati.
“Delle circa 1000 risposte che in quattro anni sono arrivate al forum, la metà sono risultate negative. In altri casi invece (circa 250) le risposte erano incomplete o incongruenti rispetto ai dati ufficiali. Gli unici questionari compilati in maniera rigorosa, completa e con un buon indice di affidabilità, si sono dunque limitati ad una manciata di decine” ha scritto la Redazione nel febbraio 2016. Le difficoltà incontrate da Salviamo il Paesaggio le medesime di Legambiente. Le amministrazioni continuano, ancora troppo spesso, a cannibalizzare i propri territori e a disinterissarsi della loro sicurezza. Scelleratamente continuano a non essere “trasparenti”. Ad impedire che sia possibile usufruire di dati completi. Così quanto le due questioni siano tra loro in relazione diventa sempre più chiaro. Più macroscopico il legame tra un utilizzo disinvolto del suolo e l’ostracismo a fornire informazioni sulle politiche adottate.
Il 16 maggio è diventato legge il Freedom information act, il decreto previsto dalla Riforma Madia sulla Pa per liberalizzare l’accesso agli atti della Pubblica amministrazione da parte dei cittadini. La situazione che ha impedito la completa realizzazione delle operazioni del Forum e di Legambiente dovrebbe mutare. Ma non è detto che sarà davvero così.
Il manifesto, 19 maggio 2016
«So chi mi vuole morto». Giuseppe Antoci è provato. In ospedale, sotto shock, abbraccia la moglie, i figli. Con lui c’è Rosario Crocetta che tre anni fa lo ha voluto alla guida del Parco dei NebNebrodiordi per fare pulizia della mafia tortoriciana, alleata con i clan dei Santapaola, che lucra sui terreni pubblici grazie a connivenze. Antoci è scosso. Davanti a sé ha immagini confuse, caotiche. Nelle orecchie l’eco degli spari. «Sono vivo per miracolo, mi hanno salvato gli agenti di scorta», ripete. È il racconto di un sopravvissuto.
È l’una di notte, tra martedì e mercoledì. Antoci sta rientrando a casa, a Santo Stefano di Camastra, due ore di strada da Palermo e due da Messina, dopo una cena per l’apertura di un albergo, a Cesarò. È stanco. Si accomoda sul sedile posteriore della blindata, una Lancia Thema, e si addormenta mentre l’auto è in viaggio. Alla guida c’è uno dei due agenti di scorta. Due anni fa Antoci aveva ricevuto il primo avvertimento. «Finirai scannatu tu e Crocetta», c’è scritto in quella lettera spedita da Sant’Agata di Militello, nel messinese. L’anno successivo il secondo avvertimento. Il centro di smistamento delle Poste di Palermo intercetta una busta con due proiettili diretti ad Antoci e al dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro. Il comitato per l’ordine e la sicurezza gli assegna la tutela.
Sulla provinciale è buio pesto, tra i comuni di Cesarò e San Fratello. Dietro la blindata a bordo di un’altra auto c’è il vicequestore Manganaro, commissario a Sant’Agata, che sta rientrando con un collega. Anche loro sono reduci dalla cena, trascorsa assieme ad Antoci e ad altri.
All’improvviso la blindata del dirigente rallenta: in mezzo alla strada ci sono dei massi. E soprattutto c’è una vettura messa di traverso. L’agente alla guida, frena. Antoci si sveglia. È un attimo. Poi il caos. Dall’auto di traverso vengono esplosi diversi colpi d’arma da fuoco: tre vanno a segno, forando lo sportello posteriore sinistro della blindata, proprio dove è seduto il presidente del Parco. Il vice questore Manganaro risponde subito al fuoco, anche i due agenti di scorta sparano. Gli attentatori, «quattro o sei» persone racconterà poi Antoci agli investigatori, fuggono in auto. Gli agenti continuano a sparare nell’oscurità, seguendo le luci posteriori della vettura in fuga. Sull’asfalto ci sono tracce di sangue, probabilmente uno dei componenti della banda è rimasto ferito. Non solo. Gli investigatori, giunti nel luogo dell’agguato, scoprono un altro elemento ancora più inquietante: vengono rinvenute due molotov. Il commando, secondo gli investigatori, non avrebbe avuto il tempo di lanciarle per la prontezza di reazione dei poliziotti. «È probabile che volessero incendiare l’auto obbligandoci a scendere, per essere bersagli più facili da colpire e uccidere», è convinto Antoci.
Laurea in Economia e commercio, capo area in Sicilia della Banca Sviluppo, azienda di credito sorta nel 2000 e con sede in otto regioni, Antoci, 48 anni, alle politiche del febbraio 2013 si candidò al Senato con Il Megafono, movimento fondato da Crocetta; ma non venne eletto. Poi la nomina alla guida del Parco, per otto anni gestita da commissari, che nell’area dei Nebrodi rompe quella sorta di “patto sociale” che andava avanti da decenni e che consentiva l’utilizzo per pascolo, a canoni irrisori, dei terreni demaniali. Alla rottura contribuisce anche il sindaco di Troina (Enna), Fabio Venezia, anche lui sotto scorta per le numerose minacce ricevute. Quando Troina si aggiunge agli originari comuni del Parco porta in dote 4.200 ettari di terreni a pascolo che il sindaco rifiuta di concedere alle solite condizioni. Antoci trova un alleato e comincia la serrata verifica dei contratti, su impulso del governatore Crocetta che lo affianca nella battaglia di legalità.
L’allargamento dei controlli (il Parco ha un’estensione di 86 mila ettari e comprende 24 comuni) e la richiesta di certificazione antimafia e dei carichi pendenti avviene anche per chi intende stipulare o rinnovare contratti di piccolo importo, e comunque ben al di sotto della soglia prevista per legge. Alcuni beneficiari si rivolgono al Tar, perdono. Alcune concessioni di terreni vengono revocate e dai tribunali arrivano sentenze che inchiodano gli affittuari, che insieme ai privilegi concessori perdono anche i lauti finanziamenti dell’Unione europea, calcolati sugli ettari a disposizione. Un affare milionario osteggiato dal presidente del Parco dei Nebrodi anche attraverso un protocollo di legalità firmato con la Prefettura di Messina, nel marzo del 2015.
Il tentato omicidio del presidente del Parco regionale dei Nebrodi non è un fatto isolato, anche se finora in nessun parco naturale si era giunti a tanto. Quest’inverno una testa di capretto mozzata è stata appoggiata sul cofano dell’auto del presidente del Parco d’Aspromonte, che aveva già subito negli anni scorsi diverse minacce (con relativi proiettili in buste consegnate dal postino). Ed in passato anche i presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio, che faceva abbattere le case abusive, avevano subito minacce. Ma, l’assalto più pesante, anche se poco conosciuto, è quello che le aree protette subiscono in tutto il mondo a causa di questo modello di sviluppo.
Secondo la Iucn, l’International Union for the Conservation Nature, la superficie delle aree protette nel mondo è pari oggi a circa il 13 per cento delle terre emerse. Ne fanno parte tanto le riserve naturali a conservazione integrale, quanto i parchi naturali, che si distinguono in nazionali e regionali ed hanno un livello di protezione ambientale articolato in base al grado di antropizzazione dell’area. In Italia l’estensione delle aree protette è cresciuta esponenzialmente pochi anni dopo che è stata varata la legge 394/91, fortemente voluta dai Verdi e dal primo ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo.
Si è passati così da 5 parchi naturali nazionali esistenti al 1991 ai 23 di oggi, più un centinaio di parchi naturali regionali e riserve di natura integrali. Purtroppo, a questa crescita quantitativa si è accompagnata, in tutto il pianeta, una perdita di qualità e valore d’uso dei parchi naturali, soggetti agli attacchi di interessi economici grandi e piccoli, a quella «guerra al vivente» ben descritta e documentata da Jean Paul Berlan (Bollati-Boringhieri, 2001).
Dall’Alaska alla Colombia, dall’Equador alla Nigeria, dall’Australia ai grandi laghi della Federazione Russa, la guerra economica ai parchi naturali viene condotta in nome del progresso e dello sviluppo. Le leggi nazionali vengono fatte a pezzi, gli Stati concedono deroghe e contraddicono se stessi, premettendo alle imprese multinazionali di sfruttare risorse naturali, far passare oleodotti, scavare nuove miniere, sfruttare le rocce bituminose ( shale gas), come nei parchi delle Rocky Mountains. Un caso emblematico, che è stato raccontato su questo giornale da Giuseppe Di Marzo e dalla indimenticabile Giuseppina Ciuffreda, è quello degli indios U’wa nel Nord della Colombia.
La multinazionale nordamericana Oxy aveva ottenuto dal governo colombiano la possibilità di sfruttare il petrolio presente nelle montagne dove vivono da sempre gli U’wa. Era sempre andata bene alla Oxy (Occidental) come alle altre multinazionali presenti nel paese dei narcotraficantes. Bastava pagare qualche tangente, al governo e/o alla guerriglia o, più spesso, a tutti e due, e le cose si mettevano a posto. Non avevano considerato che in quelle montagne viveva un popolo che aveva ancora una cultura, un’identità e un credo. Non sapevano che per gli U’wa «il petrolio è il sangue della terra , le sue vene, che gli danno la vita» . Se togli il petrolio a quelle montagne è come se togliessi il sangue ad un uomo. Non pensavano che un piccolo popolo potesse arrivare a far causa ad una potente impresa multinazionale, che arrivasse a vincere la causa di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti. E’ una storia che ha un grande significato: quando un luogo ha una forte valenza simbolica per un popolo non è in vendita, non c’è denaro, né tangenti che possano renderlo merce. Come ci ha mostrato Karl Polanyi in La sussistenza dell’uomo, la conquista economica di un territorio è preceduta dalla sua disintegrazione culturale.
Da una parte, il mito del Progresso e dello Sviluppo, che sottende i grandi interessi economici, dall’altra popolazione locali ed associazioni ambientaliste con pochi mezzi, che lottano per la sopravvivenza di siti naturali, di parchi e riserve di biosfera. E’ una lotta che nell’era del neoliberismo trionfante diventa sempre più dura, anche nel nostro paese.
E’ da quando Altiero Matteoli è diventato ministro dell’Ambiente nel 2001 che è iniziato in Italia un lento ed inesorabile piano di emarginazione, sterilizzazione delle velleità di autonomia e tutela ambientale dei Parchi nazionali e regionali.
Dopo la fortunata parentesi di Edo Ronchi, il ministero dell’Ambiente è stato gestito, non solo dal centro destra, sempre più come stampella per i disegni di grandi investimenti e grandi opere nel nostro paese: dalla Tav al Ponte sullo Stretto, la V.i.a. (Valutazione di impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente è stata sempre positiva. Da Portofino, dove il parco regionale è stato fortemente ridimensionato, al Parco regionale di Bracciano oggetto di un grande progetto speculativo, al terzo traforo del Gran Sasso, nel cuore del Parco nazionale, che mette a repentaglio le risorse idriche di 800mila abitanti, all’aeroporto di Malpensa che impatto fortemente sul prezioso Parco del Ticino, polmone verde della metropoli, fino all’abuso di parchi eolici ed elettrodotti che attraversano parchi ed aree protette.
E questi sono alcuni casi fra i tanti, parte di un attacco quotidiano all’ambiente ed agli ecosistemi in cui ‘ndrangheta, camorra e mafia possono all’occasione costituire il braccio armato di interessi locali e/o internazionali, ma i mandanti sono altrove.
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore ... (continua la lettura)
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze della sinistra radicale - quelle, per intenderci, che vanno dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi - che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con la sua immediata partecipazione a una campagna elettorale. Un battesimo irrimediabilmente sbagliato, perché una nuova formazione che pretendeva di essere alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società civile, inaugurava il suo corso bussando immediatamente alle porte del potere, per avere un posto nelle istituzioni della rappresentanza. Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso.
In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana. Intanto, c'è da osservare che, col tempo, l' ”imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un'altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all'altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile - poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d'Italia - il suo è l'unico nome, nella rosa dei canditati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città.
A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un'avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni. Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell'Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.
Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.
Italia Nostra sezione di Modena, 16 maggio 2016 (p.d.)
Si deve riconoscere al ministro Franceschini una speciale capacità di iniziativa, uno straordinario impegno politico. Risparmiato dal radicale ricambio, nella compagine governativa del giovane presidente del consiglio è l’unico esponente della classe politica del partito di cui era stato segretario (sia pure in una fase di transizione). Il ministero che gli è assegnato, nella considerazione comparativa dei ruoli, occupa una posizione non primaria, anzi tradizionalmente residuale. Ma il nuovo titolare si sente “alla guida del più importante ministero economico italiano”.
Il ministero voluto da Spadolini nel 1974 (istituito come si ricorderà per decreto legge) che Veltroni, il vicepresidente di Prodi, aveva voluto rifondare nel 1998 come nuovo ministero per i beni e le attività culturali, era stato da appena un anno caricato dal precedente governo Letta – legge n.71 del 2013 – delle attribuzioni nella materia del turismo trasferite dalla presidenza del consiglio. Un connubio imbarazzante (perché non al ministero dello sviluppo economico?) voluto nell’implicito ma certo presupposto che la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio debba fare i conti con il turismo se non proprio ne sia l’ancella. La nuova attribuzione è recente e ancora non ci si è misurati nel compito della non facile armonizzazione, oltre alla messa in coda alla denominazione del ministero di quel compito aggiunto, la T finale dell’acronimo MIBACT con qualche difficoltà di pronuncia.
Ebbene il governo Renzi è operante dalla fine del febbraio 2014 e già nel maggio il ministro Franceschini propone al consiglio dei ministri, che glielo approva il 31 di quel mese, il d. l. (n. 83) con le “disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”. Sarà convertito in legge (28 luglio 2014, n. 106) e registrato dalla stampa e dalla distratta opinione dei non addetti come il provvedimento dell’art-bonus, dal suo primo articolo che riconosce il credito di imposta nella misura del 65 per cento – ma poi del 50 per cento – alle erogazioni liberali in denaro a favore di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, a istituti e luoghi di cultura di appartenenza pubblica e alle fondazioni lirico-sinfoniche. Sono sedici misure disparate, sette delle quali a sostegno del turismo, dalle quali non è dato di risalire a un disegno organico (se non l’inseguimento delle proclamate urgenze, ma è difficile cogliere i casi straordinari di necessità che legittimerebbero il decreto legge). Mi limito a dar conto di due disposizioni che riflettono una attitudine di insofferenza verso l’esercizio ordinario della tutela: l’ulteriore semplificazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica e la costituzione delle commissioni così dette di garanzia per il riesame dei provvedimenti dati dai soprintendenti nell’esercizio della tutela, fino a convertire in sì il diniego dato in sede di conferenza di servizi: una misura questa, introdotta con la legge di conversione, gravemente lesiva della autonomia tecnico-scientifica dei soprintendenti. Nessuna preoccupazione di armonizzare tra loro le discipline di tutela e turismo, essendo le misure di “rilancio del turismo” (articoli 9, 10 11, 11-bis 13, 13-bis) del tutto indifferenti rispetto ai provvedimenti di promozione del patrimonio culturale.
Ma è nell’articolo 14 di questo decreto legge convertito che sta il germe della più ambiziosa riorganizzazione del ministero, essendo appunto qui date le misure urgenti per quell’obbiettivo e “per il rilancio dei musei”, con modifiche all’art. 54 del d.lgs. 300 del 1999 di organizzazione del governo, per consentire al ministro l’adozione di misure di riordino al dichiarato fine di conseguire ulteriori riduzioni di spesa (oltre a quello, francamente pretestuoso, di migliore gestione degli interventi a seguito di eventi calamitosi), introdotto innanzitutto (a smentire quel fine) un vistoso rafforzamento della struttura burocratica centrale dove il numero degli uffici dirigenziali generali “non può essere superiore a 24”, contro le dieci direzioni generali coordinate da un segretario del vigente ordinamento secondo il decreto legislativo del 1999, così modificato. Al ministro è data la facoltà di riorganizzare con propri decreti e in via temporanea gli uffici del ministero esistenti nelle aree colpite da eventi calamitosi; e di trasformare in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa i poli museali e gli istituti e i luoghi della cultura statali e gli uffici competenti su complessi di beni di eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico. Decisiva la modificazione introdotta nell’art. 14 in sede di conversione dove con enfasi francamente di maniera, al dichiarato fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione della cultura, anche sotto il profilo della innovazione tecnologica e digitale, si rimette al regolamento di organizzazione del ministero “ai sensi della normativa vigente” di individuare i poli museali e gli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici dirigenziali. Con questo lessico burocratico è avviato, come sarà reso evidente dal consecutivo (non rimane che attendere giusto un mese) regolamento di riorganizzazione del 29 agosto, il processo di scorporo dalle soprintendenze dei musei che delle soprintendenze, fucine territoriali della tutela, sono storicamente essenziali elementi costitutivi. L’adeguamento agli standard internazionali si deve intendere perseguito dall’innovativo criterio di conferimento degli incarichi direttivi dei supermusei attraverso la selezione aperta alla partecipazione esterna al personale tecnico scientifico, perché qui c’è bisogno “di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi di cultura”. Per legge dunque una patente di incompetenza agli attuali direttori, la mortificazione del personale tecnico scientifico che ha maturato specifiche conoscenze e competenze nella prassi operosa della cura delle raccolte museali statali. Il ministro, lo ha detto e ripetuto, vuole un reclutamento dalle esperienze museali straniere che ben poco hanno in comune con le originalissime istituzioni del nostro paese.
Al ministro è bastato un mese (già si è detto) per proporre e far approvare dal consiglio dei ministri il regolamento di riorganizzazione del ministero, con vantati contenuti di radicale innovazione e con estensione alla materia del turismo recentemente trasferita dalla presidenza del consiglio (è lo stesso Franceschini a presentarlo alla stampa come “la rivoluzione dei beni culturali”), adottato con decreto del presidente del consiglio dei ministri in deviazione dalla disciplina dell’attività di governo e ordinamento della presidenza del consiglio (art.17 della legge 23 agosto 1984, n. 400) che vuole approvati con decreto del presidente della repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri, e sentito il parere del consiglio di stato e delle competenti commissioni di camera e senato, i regolamenti di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Nel rispetto di questo vincolante modello erano stati approvati tutti i precedenti regolamenti di organizzazione del ministero beni culturali che si sono succeduti con irragionevole frequenza, rendendo persistentemente instabile l’assetto funzionale del ministero specie per i modi operativi degli uffici centrali. Ben quattro dall’inizio del secolo i provvedimenti regolamentari al riguardo (dpr 441/2000; dpr 173/2004; dpr 233/2007, infine dpr 91/2009). Ma ogni nuova scelta regolamentare è il risultato di una vasta partecipazione consultiva, aperta anche a contributi non istituzionali.
A questo modello (richiamato dal comma 3 dell’art.14 con la espressione: “ai sensi della normativa vigente”) si sarebbe dovuto attenere il regolamento di organizzazione del ministero beni attività culturali e turismo al quale il convertito decreto legge art-bonus rimette la individuazione di poli museali, istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale, uffici competenti su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico, trasformati in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa.
E invece lo stesso titolo del regolamento approvato con il decreto del presidente del consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n.171 indica la propria fonte primaria nell’art.16, comma 4, del d.l. 2 aprile 2014 n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 (“misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”) che consente di adottare i regolamenti di organizzazione dei ministeri in quella forma semplificata “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”. Non sembra contestabile che il nuovo rivoluzionario, parola di Franceschini, regolamento di organizzazione del ministero cui il decreto legge art-bonus affida ben più impegnativi compiti con la sola avvertenza di non introdurre “nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica” (non di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”) non trovi in quella specialissima fonte la sua legittimazione e non sarebbe potuto sfuggire alla prescritta partecipazione consultiva istituzionale, per essere infine sottoposto alla firma del presidente della repubblica. Non si tratta di un mero vizio di forma, irrilevante nel merito dei contenuti, come ben si intende. Alla determinazione dei modi dichiaratamente innovativi di amministrare la funzione dell’articolo 9 della costituzione sono stati negati i contributi di parlamento e consiglio di stato.
Il preambolo dello stesso decreto “rileva[ta] la necessità di provvedere al riordino delle strutture organizzative del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, dando esecuzione alle misure previste dall’art. 2, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012”. Si tratta del provvedimento, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che detta innanzitutto “disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica”, ricevuto generalmente come il tormento della spending review. Ebbene la disposizione di quel comma 10 dell’art. 2 consentiva di adottare, entro un breve termine (consecutivo comma 10-ter, ma poi due proroghe, la seconda al 28 febbraio 2014), i regolamenti di riordino e organizzazione dei ministeri interessati nella forma del decreto del presidente del consiglio dei ministri “al fine di semplificare ed accelerare il riordino previsto” appunto dalla spending review. E nel rispetto di quel termine aveva infatti provveduto il presidente del consiglio dei ministri adottando il regolamento di riorganizzazione del ministero per i beni e le attività culturali e il turismo con proprio decreto 28 febbraio 2014, salvato così in extremis il termine dell’ultima proroga. Ma questo decreto – regolamento fu “ritirato” il 30 giugno successivo, come dà conto il preambolo del decreto 171/2014 che qui discutiamo, “per consentire l’adeguamento dell’organizzazione del ministero a quanto disposto dal citato decreto-legge n. 83 del 2014”, dall’art.14 appunto di questo decreto art-bonus. Scaduto il termine del 28 febbraio 2014, alla attuazione delle misure previste dalla spending review non era più data la facoltà di provvedere con regolamento di organizzazione nelle forme semplificate e si sarebbe dovuto perciò adottare il modello ordinario con procedimento concluso da decreto del presidente della repubblica. Per altro il regolamento che sanziona la radicale riforma nei modi operativi di questo ramo della amministrazione dello stato, deputato ad attuare il primario compito assegnato alla repubblica dall’articolo 9 della costituzione, non corrisponde funzionalmente al modello dato al fine di semplificare ed accelerare il riordino della spending review. Neppure – a maggior ragione – può essere fatto rientrare a forza nella previsione di una norma speciale (l’art.16, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014) che disciplina il regolamento adottato “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”, come già abbiamo constatato, e che non può certo valere a conseguire il recupero del termine per l’attuazione tardiva delle misure dell’art. 2 del d.l. n. 95 del 2012, irrimediabilmente scaduto. Insomma, il preambolo del d.p.c.m. 171/2014 richiama congiuntamente, come la duplice fonte della potestà regolamentare che si intende esercitare, il d.l. 95/2012 (con le “misure urgenti della spending review”) e il d.l. 66/2014 (con le “misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”), ma la prima fonte, se pur fosse stata idonea, è esaurita e la seconda non abilita, per certo, alla radicale riforma dell’assetto funzionale della amministrazione così al livello centrale come a quello periferico (ben oltre la esigenza di revisione della spesa e anzi in contrasto con l’esclusivo fine di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”). Riforma perseguibile necessariamente nel modo ordinario del partecipato procedimento, sanzionato infine dal decreto del presidente della repubblica (“ai sensi della normativa vigente”, come vuole l’art.14, comma 3, della legge 106/2014).
Dunque un regolamento di organizzazione illegittimo per l’indebito procedimento seguito, adottato sotto lo stimolo di una irragionevole urgenza (attivata la sola consulenza istituzionale-domestica del consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici), con instabili esiti, per altro, che ne hanno imposto come subito vedremo una correzione attraverso il conclusivo decreto ministeriale del gennaio scorso.
Rivoluzionario sì nel merito, l’illegittimo regolamento dell’agosto 2014. Italia Nostra vi ha colto la disarticolazione delle istituzioni di tutela, con la rottura del nesso organico tra soprintendenze e musei. E’ così portata al parossismo l’assurda scomposizione di tutela e valorizzazione, endiadi inscindibile, perché la valorizzazione è essenziale funzione della tutela. Una riforma che ignora la storia e la cultura della tutela nel nostro paese. Le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e le pubbliche raccolte dello stato unitario sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso nel territorio. Contro la storia e la natura stessa del patrimonio unitariamente concepito nel principio fondamentale dell’articolo 9 costituzione, è il rozzo artificio di questo assetto binario, ai musei l’esercizio della funzione di valorizzazione, alle soprintendenze, liberate dal peso dei musei, l’esercizio della funzione di tutela. L’esigenza di autonomia riconoscibile nei musei di speciali dimensioni ben può essere soddisfatta nell’ambito della organizzazione funzionale delle soprintendenze. Il regolamento dell’agosto 2014, dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, opera una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori in un concorso internazionale che ha poi privilegiato, attraverso un affrettato scrutinio dei titoli, le doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio e conoscenza delle singole raccolte, maturate negli anni all’interno degli stessi istituti. Con mortificazione del personale tecnico scientifico addetto e con esiti di qualità che ben sarebbe stata assicurata, per fare due soli esempi, da Natali agli Uffizi e da Casciu alla Galleria Estense. Tutti gli altri musei, ritenuti minori (come la pinacoteca nazionale di Bologna!) secondo una assurda gerarchia, sono stati assemblati in una struttura burocratica, il polo museale, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, mentre tutti super musei e poli fanno capo ad una apposita direzione generale secondo una astratta geometria piramidale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile, caricata del compito scolastico di presiedere allo sfuggente sistema museale nazionale, come se si trattasse di creare dal nulla la costellazione di moderni istituti espositivi. Un sistema, sì, in radicale contrasto con la originale storia delle nostre istituzioni di tutela, mantenuto saldamente nelle mani del ministro che non solo nomina i direttori dei supermusei, ma si è pure riservato di scegliere fiduciariamente chi ne andrà a costituire i consigli di amministrazione, in quel disegno di singolare complessità che vuole pure i comitati scientifici (aperti alla rappresentanza di regione e comune di sede, funzionalmente incompatibile, si direbbe, con lo speciale ruolo dell’organo), dentro la griglia di un apposito statuto, irrinunciabile espressione, si deve intendere, della riconosciuta autonomia.
All’artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l’assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, attuato in due consecutive fasi, dapprima con il regolamento dell’agosto 2014 tra quelle ai beni storico artistici e ai beni architettonici (così costituita la soprintendenza alle belle arti e al paesaggio: la civetteria della riesumazione del lessico desueto) e infine con il decreto ministeriale del gennaio scorso anche di quelle all’archeologia. Ne sono risultati sconvolti consolidati assetti funzionali e di servizi specie per le soprintendenze all’archeologia organizzate unitariamente per vaste aree culturali, strutturate sedi di studio, ricerca, scavi, con dotazione di archivi, cataloghi biblioteche, forzatamente oggi frantumate nelle più numerose sedi di destinazione, private infine della diretta responsabilità di gestione di siti e musei archeologici, costituiti alcuni in istituti di riconosciuta autonomia, gli altri, i “minori”, attratti nell’insieme indistinto dei poli museali. Alla unificazione delle soprintendenze di merito, giustificata da una astratta esigenza di semplificazione nei rapporti con i privati interessati, e di indimostrata economia di spesa (un assetto periferico più agevolmente convertibile – certo – alla attesa subordinazione organica al prefetto), corrisponde al livello centrale la concentrazione in un’unica direzione generale dei compiti di tutela di patrimonio e paesaggio. Un impegno insostenibile, come con preoccupazione constatava alcuni giorni or sono Settis in una sua “opinione” su Repubblica, titolata “L’uomo solo al comando dei beni culturali”.
La fretta precipitosa del ministro nel dare attuazione tra luglio e agosto 2014 alla previsione di un regolamento di organizzazione del ministero ha prodotto questo procedere a singhiozzo in due fasi, con il decreto correttivo dello stesso ministro di questo gennaio che ha costituito la soprintendenza unica (assorbita anche quella all’archeologia) e ha allungato l’elenco dei musei e luoghi di cultura degni di autonoma gestione. Doppio lo stress operativo del conferimento degli incarichi direzionali, riaperto nuovamente il concorso per le soprintendenze ora unificate e per la corrispondente direzione generale. Per dare al ministro questa facoltà si è dovuta scomodare la legge di stabilità 2016, con il comma 327 del suo primo articolo (secondo il furbesco e pessimo modo di scrivere le leggi che governo e maggioranza vogliono approvare in fretta)). Di questo decreto ministeriale Italia Nostra ha segnalato una disposizione allarmante (l’art. 7, comma 2), quella che in pratica abilita al libero trasferimento dei beni da un museo all’altro del polo museale o tra i distinti istituti dello stesso supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.
Per finire mi limiterei a leggere la conclusione del documento che il consiglio direttivo nazionale di Italia Nostra (“Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento”) ha dedicato a questa inconsulta riforma.
“Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l’esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l’esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo”.
Emergenza Cultura, 17 maggio 2016 (p.d.)
Al Consiglio Superiore della Magistratura il vice (fidato di Renzi) Giovanni Legnini vuol zittire da Palazzo dei Marescialli tutti i magistrati e parlare soltanto lui, portavoce unico. Al Collegio Romano, sede del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, non spira un’aria granché migliore. Intanto vige un “codice etico” in base al quale “il dipendente (di qualunque grado sia, ndr) – fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini – si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell’immagine e del prestigio dell’Amministrazione”. Lesive a giudizio delli Superiori. Ciò vuol dire bavaglio, di fatto totale – proprio in questi mesi di sconvolgimento delle strutture del MiBACT – mentre le Soprintendenze vengono assurdamente accorpate annegando ogni specificità e predestinate (legge Madia) a finire gerarchicamente sotto prefetti e prefetture. Il funzionario che parla o scrive senza permesso delle gerarchie ministeriali rischia di brutto. Tanto più che è momento di nomine non per concorso bensì per decisione tutta “politica”.
Non si vuole infatti che si sappia dalla viva voce dei funzionari quanti di loro rinunciano a dirigere musei raggruppati soltanto sulla carta e quindi insensatamente distanti chilometri e chilometri l’uno dall’altro o sapere della paralisi che ha investito anche grandi musei i cui consigli di amministrazione, spaventati dalla mancanza di risorse e dalla responsabilità davanti alla Corte dei conti, non decidono nulla. O ancora del caos imperante ovunque in forza di decisioni prese dall’alto senza alcuna consultazione dei tecnici.
A Roma poi, dal 1° febbraio scorso, vige una circolare firmata dal l’allora Soprintendente archeologico, architetto Francesco Prosperetti, in base alla quale “le modalità di comunicazione agli organi di informazione (giornali, radio, tv) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al Dirigente per il tramite dell’addetto stampa e/o delle strutture istituzionali”. In caso urgente rivolgersi “direttamente al Dirigente” (tutto maiuscolo). Attenzione perché “ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art. 3 comma 8 del Codice di Comportamento” (quello sopracitato). Se le Signorie Loro ci rifanno come “apparso in più occasioni sulla stampa”, l’azione disciplinare è inevitabile. automatica. Subito ha protestato la Fp Cgil, il suo segretario nazionale Salvatore Chiaramonte richiamandosi all’articolo 21 della Costituzione sulla “libertà di espressione” e definendola “una disposizione vergognosa e pericolosa che squalifica chi l’ha emanata e chi l’ha ispirata e che la dice lunga sulla coscienza democratica di chi ci governa”. Ma il clima non è molto cambiato. Anche perché tranne poche voci di stampa, anzitutto “Il Fatto Quotidiano”, e ancor meno emittenti tv (essenzialmente La7, la Rai in proposito è quasi muta pur essendo “servizio pubblico” finanziato al 66 % da noi abbonati), il silenzio stampa è sceso sulla denuncia dei cento e cento attentati alla tutela dei beni culturali e paesaggistici in nome della “valorizzazione” di alcuni di loro, cioè del “far soldi” e poco più.
Domenica 8 maggio c’è stato un festoso “Appia Day”. Forse per sottolineare, sia pure tardivamente, quanto ha fatto con pochi soldi e molti sudori la Soprintendenza Archeologica alla Villa dei Quintili, a Santa Maria Nova o a Capo di Bove sotto la direzione di Rita Paris? No, al contrario per chiedere genericamente una ludica “pedonalizzazione dell’Appia”. Che peraltro è al 95% privata. Non era meglio riversare lì i 18 milioni di euro (presunti, saranno di più) che Franceschini si ostina invece a voler spendere per riportare gli spettacoli circensi all’Arena Colosseo? Mi par di sentire il Grande Fratello che dal Collegio Romano impone: “Ditelo ancora e vi sospendo subito dal servizio”. Sino a quando?
«Gli invisibili inghiottiti dal nulla nella città diventata “da bere”. Da Mirafiori ai capannoni dove nascono (e muoiono) le start up. Dove è finita quella classe operaia che con i suoi saperi dava l’identità a Torino? Ora la disoccupazione giovanile è al 44,9% e l’imprenditoria sembra occuparsi d’altro. E al sindaco manca un progetto adeguato». Il manifesto 2016 (m.p.r.)
Torino. Porta numero 2, carrozzerie Mirafiori, ore 14, uscita del turno mattutino. Sono qui con una reliquia del manifesto delle origini: Gianni Montani. Lo reclutai sul campo nel ’71 e da operaio-sindacalista diventò giornalista, e però per noi fu molto di più.
Ricordo un Comitato centrale del Manifesto-organizzazione dedicato a capire natura e modalità delle nuove lotte operaie, introdotto da una sua dettagliata relazione in cui ci spiegò come funzionava, reparto per reparto, l’immensa Fiat. Allora la politica era così, di questo si discuteva, non delle primarie. Pochi giorni fa mentre assistevo al congresso nazionale della Rete della Conoscenza, l’associazione degli studenti medi e universitari, mi è tornata alla mente proprio quella nostra riunione.
Per via della difficoltà di chi, pur con tutta la buona volontà come questi studenti, cerca oggi di rapportarsi al lavoro: allora c’era una grande bella omogenea classe operaia, oggi una mucillaggine di semifigure lavorative precarie e frantumate che neppure mille Gianni Montani potrebbero riuscire a descrivere.
Sono voluta tornare qui dopo tanti anni di assenza per cominciare a dire di Torino in piena campagna elettorale.
E’ passato quasi mezzo secolo e ho il nodo alla gola. Allora dai cancelli che ora ho davanti agli occhi usciva a fine turno una fiumana di decine di migliaia di operai, lo spiazzo davanti alla porta un suq allegro e arrabbiato - carretti di arance, bibite, di tutto. Ma non era solo un mercatino, era anche l’agorà, il luogo principe della politica, fitta di capannelli volantini giornali bisticci fra nuova e vecchia sinistra accenti meridionali ancora freschissimi.
Qui alla 2 come alle altre porte, il focus di una politica misurata su cose concretissime: le conquiste proletarie.
Dal lato opposto di viale Agnelli c’erano bar e negozi, ora a chiudere l’orizzonte un cimelio delle Olimpiadi, l’enorme edificio color ruggine di un pattinatoio. Rende lo spiazzo ancora più deserto e silenzioso, solo qualche lavoratore in cassa integrazione che per abitudine viene a farci passeggiare il cane.
Gli operai - pochissimi (nemmeno 13.000, ma ciascuno lavora solo tre giorni a settimana) - escono alla spicciolata dopo esser passati attraverso l’”imparziale”, che adesso è elettronico (il controllo che deve scoprire se qualcuno ha rubato un pezzo di fabbrica, così chiamato perché i controllati vengono scelti a casaccio): quasi tutti hanno i capelli bianchi, la media d’età, alle carrozzerie, è di 51 anni.
Sembrano diversi da allora anche perché Marchionne ha voluto che la tuta non fosse più blu ma grigia chiara, uguale per tutti, operai tecnici e ingegneri, solo una minuscola etichetta che definisce la rispettiva categoria (e naturalmente il livello salariale, ma quello non è in vista. Quello della terza, di chi un tempo stava alla catena di montaggio e che ricordo bene perché il nostro stipendio al manifesto era a quello equiparato, più o meno come allora in lire: 1200/300 euro al mese).
Marchionne, si sa, è democratico, fa testo il suo maglione. Ma le donne - sono molte di più di un tempo - contro quella tuta protestano: il grigio si sporca, per questo si usava il blu. Me lo spiega Giovanna Leone, nella vecchia palazzina poco distante dove tutt’ora ha sede la V Lega Mirafiori della Fiom, corso Unione Sovietica 351, che tutti però chiamavano familiarmente «URSS». Non c’è più, invece, la storica sezione Pci Mirafiori, qualche isolato più in là, a via Passo Buole. Nel locale c’è ora la “Mescita di vini piemontesi sfusi e imbottigliati”.
E naturalmente non ci sono più nemmeno nei dintorni gli ex segretari: Giuliano Ferrara, a fine ’70 (e infatti si vede nei documentari che filmarono la visita di Enrico Berlinguer quando andò a dire agli operai in lotta nell’80 che il partito era con loro). Né Fassino, che anche lui ne fu responsabile negli ’80 e ora fa invece il sindaco.
Con Gianni percorriamo tutto il perimetro Fiat,10 km di viali attorno agli stabilimenti, quasi tutti oramai adibiti a funzioni diverse dal passato, non solo perché è cambiata la tecnologia, ma perché la produzione si è enormemente ridotta, un po’ spostata a Melfi, molto in Polonia e in Serbia, qui - ma ancora per poco - la Mito, prossimamente dovrebbe partire il nuovo Suv Levante.
Molti i padiglioni già ceduti ad altre imprese: sul frontone si legge “Fiera dei vini”, “Equilibra”, Centro stile”. Sulla larga pista sopraelevata dove si svolgevano le prove (e si tenevano le assemblee del Consiglio di Fabbrica) ora si fanno le sfilate della concessionaria Fiat Village.
Nel punto nodale, la palazzina direzionale: cosa diavolo si dirige da qui? La Fca ha ormai casa a Amsterdam e a Londra lo scandalo delle evasioni non è Panama, ma le dislocazioni consentite dal fatto che dopo aver liberalizzato i movimenti di capitali l’Ue non ha provveduto ad una unificazione fiscale).
L’impressione, da Torino, è comunque che non sia la Fiat ad aver comprato la Chrysler, ma il contrario. Anche se con grande chiasso a palazzo Chigi è stata presentata una nuova edizione di Alfa Romeo italiana. Perché i modelli dell’avvenire, quelli tecnologicamente più avanzati, qui non si fanno.
No, non mi lamento per sussulti sovranisti, né sono venuta qui per perdermi nell’Amarcord. Mica vorrei che la tecnologia non avesse cambiato la fabbrica e che tutti fossero ancora alle terribili catene di montaggio. Sono venuta per cercare di capire dove sono finiti i circa 100.000 operai della Fiat (60.000 a Mirafiori,12.000 a Rivalta, 7.800 alla Lancia di Chivasso e 4.500 a quella di Torino senza tener conto della Pinin Farina o della Bertone solo per citare le principali aziende dell’indotto), tutti quelli, insomma, che ruotavano attorno all’auto (nell’indotto si calcola 3 per ogni dipendente Fiat) e che sono esseri non digitali ma in carne ed ossa.
Non è solo una domanda strettamente economica - se lavorano o meno e dunque hanno o non hanno un salario. Quella classe operaia con i suoi saperi meccanici e politici dava da più di un secolo l’identità a Torino, disegnata sul suo ruolo di punta di diamante della modernità industriale.
Ritmavano i tempi della città. Che oggi è certo più bella, i musei sono più attraenti delle ciminiere e così le aiuole fiorite, i ristoranti, i turisti, la movida. E’ diventata una “Torino da bere”, per usare l’espressione che si usò per la Milano scintillante dell’epoca craxiana. E Fassino l’amministra benissimo. Ma quei centomila operai sono diventati invisibili, inghiottiti dal nulla, la città non li prevede: né i loro corpi né le loro teste , né quelle dei loro figli, un tempo allievi della prestigiosa Scuola Fiat, oggi per lo più titolari dei 4 milioni di voucher che si sono contati in città nel 2015 (e già aumentati del 65% nel 2016), precari sguatteri dei fast food cresciuti come una giungla.
Anche ad Ivrea è così: la storica palazzina direzionale di via Jervis, dove fu lanciata una delle più avanzate produzioni informatiche, quella della Olivetti, oggi è occupata da un gigantesco call center.
Alla Cgil il compagno Passarino mi dà i dati dell’occupazione, complicatissimi da interpretare per via di come vengono compilati dagli Uffici statistici, e perché molti non sono ufficialmente disoccupati ma in Cassa integrazione, o in Cassa in deroga, o in Cassa straordinaria, o con contratti di solidarietà, tutti ammortizzatori a fine corsa (il traguardo molto prima che si abbia diritto alla pensione) e cui comunque non si ricorre più perché le regole per ottenerli sono cambiate e non conviene più all’azienda usufruirne, le conviene licenziare.
Per riassumere basti dire che a Torino il livello della disoccupazione raggiunge la media nazionale (era del 6,2% nel 2004, ora è dell’11,9) e che quella giovanile, al 44,9, è addirittura al disopra. Il rapporto più recente, coordinato dal Centro Einaudi, parla di «marcata sofferenza» e di una quota di abbandoni scolastici simile a quella delle metropoli del Mezzogiorno. Lasciano anche perché precari - anche in questo caso più della media - sono pure i ricercatori e docenti universitari: il fenomeno colpisce tutti, quale che sia il livello di qualificazione. Con una diminuzione del volume di lavoro degli under 30 che in sei anni è stata pari al 59%, l’esilarante obiettivo dell’Unione Europea per il 2020 - «una crescita inclusiva e sostenibile» - sembra fantascienza.
Torino sta diventando una città povera. «Al sud ci sono abituati - mi dice un vecchio compagno quasi si confessasse - noi no».
Il patrimonio che questa mano d’opera rappresenta è coinvolto in un progetto innovativo o è stato semplicemente mandato al cimitero degli elefanti? Vado in giro per la città a cercare una risposta.
Le due università - la Statale e il Politecnico - si ingegnano: la prima impegna molte energie nel covare gruppi inventivi di nuove possibili funzioni consentite dall’uso delle nuove tecnologie e passo un intero pomeriggio ad ascoltare le loro proposte e a capire le loro ricerche.
Sono in contatto col 31mo piano del nuovo altissimo grattacielo di Intesa San Paolo (da cui a Torino tutto dipende, tanto varrebbe votare anziché per un consiglio municipale per il suo Consiglio di amministrazione) dove 100 funzionari aspettano di capire le novità dei futuri clienti. Al Poli, c’è una incubatrice, che svolge un ruolo analogo. E dentro è restato il solo figlio sano del fallito matrimonio General Motors-Fiat. Dopo il precoce divorzio è diventato solo americano, se l’è tenuto la Gm.
E’ il Power Train, il pezzo più prezioso della città. Anche la Cgil ha contribuito a metter su, a Moncalieri, un contenitore simile, ricercando la collaborazione con università e enti locali. Benissimo.
Il fatto è che se non ci sono poi gli investimenti per realizzare le invenzioni, le idee restano sulla carta. La orgogliosa imprenditoria torinese, come del resto gran parte di quella italiana, sembra invece occuparsi d’altro.
Gli Agnelli, per esempio, il grosso dei loro capitali familiari li hanno collocati nella Exor, uno dei più grossi gruppi di assicurazione americani. Un investimento anticiclico, più sicuro del fluttuante settore dell’auto. Quanto al governo, nessun piano industriale, né qui né altrove.
E invece servirebbe un piano, un’idea nuova per Torino, un progetto coordinato con altri paesi europei. Invece non c’è: le aziende di punta sono state scorporate e via via acquisite da gruppi stranieri che ne hanno portato via i pezzi più prestigiosi.
Non è, qui a Torino, l’innovazione che ha ridotto il numero degli operai, è il contrario: è il lavoro che si è impoverito. E quanto cresce - il terziario soprattutto - comunque non basta a compensare. Non dico qualitativamente, che è ovvio, ma anche quantitativamente.
L’orizzonte di Torino è tutt’ora disegnato dai tetti a sega degli antichi capannoni industriali. Non è come a Milano, dove la deindustrializzazione è avvenuta ormai da decenni e in un’epoca in cui l’economia ancora tirava.
Qui le fabbriche dismesse occupano ancora il terreno, sono tantissime. Ora si cercano nuove destinazioni e in alcune hanno trovato casa le start up e i centri di co-working. Al Tool Box la ristrutturazione di un padiglione è magnifica, alta architettura, colori e, persino, una cucina con mobili costruiti in 3D, con la stampante. Ad un’area con lunghi tavoloni si accede grazie a 100 euro al mese col proprio computer, si tratta di postazioni provvisorie in cui si gode della connessione. Con 250 mensili si accede invece ai tavoli dove la postazione è fissa; poi ci sono molti gabbiotti a cielo aperto, veri e propri ufficietti. Dentro un popolo silenziosissimo di individui impegnati a costruire la propria start up: tutti aspiranti “uomo (o donna)-impresa”. Il regno di Uber, si direbbe.
Difficile capire cosa facciano, si sa solo che la moria delle start up è altissima. Ad una parete una sorta di denso giornale murale, avvisi di friendly advises: professionisti che offrono consigli legali, panel su «Mettersi al riparo: malattia e pensioni», dalle 12 alle 13; «Freelance care», dalle 18 alle 19, eccetera.
Accanto, gli aspiranti imprenditori presentano le loro proposte, corredate di foto. Leggo: M.P.: Ascolto, informo e mi informo, sorrido accolgo e saluto. E realizzo oggetti imperfetti; «G.B.: Rassicuro osservo saluto calorosamente»; «T.M.: Mi occupo di politica e strategia di comunicazione, ma giuro che sono un bravo ragazzo».
Apprezzo l’autoironia, ma mi torna alla mente il vecchio film di Nanni Moretti, Ecce Bombo (ricordate? quello in cui lei dovendo spiegare come campa risponde «faccio cose, vedo gente…»).
Ecco: come si fa a proporsi come sindaco senza proporre un progetto adeguato ad una città come Torino?
Il grande errore di Fassino (oltre a quello di aver imbarcato metà della destra cittadina e di non avere nemmeno uno degli “invisibili” nelle sue liste) è di essersi fatto ammaliare da Marchionne, di aver creduto alle magnifiche e progressive sorti del capitalismo, di non aver preparato una trasformazione autonoma della città.
Il pensiero lungo, una consapevolezza alternativa, serve anche nelle elezioni amministrative. E naturalmente anche non sottomettersi alla deriva della politica nazionale.
In tasca - l’ho preso a casa fra i miei vecchi libri e me lo sono portato dietro in questo viaggio attraverso Torino 2016 – ho un libriccino edito nel 1969 dalla Feltrinelli: si chiama La Fiat è la nostra Università. Inchiesta fra i giovani lavoratori. Era stata condotta dai “gruppi fabbrica” di alcuni licei e facoltà torinesi, quasi 100 pagine fitte di notizie.
Alla risposta n.82 che dà l’operaio di terza categoria si legge «Io penso che al 1969 l’operaio dovrebbe lavorare molto più poco, tanto più perché con l’automazione che ci va solo a favore dei padroni e non degli operai, ma per questo bisogna cambiare la società». Sarà antiquato, ma oggi il progetto appare anche più attuale.
Non lo può accantonare neppure una campagna elettorale amministrativa, anche se non si potrà realizzarlo nei prossimi cinque anni. Ma se si perde l’orizzonte, anziché moderni si resta chiusi nella gabbia del medioevo.
E’ questo - anche questa cosa oltre all’immediato - che fa la differenza di Torino in comune. E il suo candidato sindaco, Giorgio Airaudo, è il solo che sembra occuparsene. Non solo perché è più bravo, ma perché si è posto il problema di rappresentare quel pezzo grandissimo di società cui non basta essere fruitori di musei.
La “buona politica” è, prima di tutto, rappresentanza. Da chi si rappresenta dipende l’aggettivo “di sinistra”.
Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni ... (continua la lettura)
Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni fa dalla riforma dei poteri (enormi quelli per sindaco e giunta) voluta da sinistra e da destra, consisterà nell’appropriarsi dell’urbanistica. Non una ennesima discussione, magari approdo a un acronimo nuovissimo ma ugualmente insensato come tanti altri nati e presto morti, ma un concreto daffare personale nel campo della rendita fondiaria dominante e del continuo roteare del ciclo (e riciclo…) edilizio. Sarebbe la logica conseguenza delle dichiarazioni programmatiche pre-elettorali. Al primo punto, il cambiamento del Piano di governo del territorio (Pgt), in ogni caso: a) contrasto politico radicale fra nuova e precedente amministrazione, b) continuità integrale o sostanziale, compresa la conferma del primo cittadino, c) continuità politica vaga e cambio del sindaco, d) difficile definizione dello stato dell’arte comunale se, prima, le differenze fra gli aspiranti teoricamente antagonisti paressero ambigue o addirittura mancassero. I casi c) e d) si fondono se riguardiamo l’odierna vicenda milanese[i].
Queste ipotesi valgono per tutti i contesti locali, municipi grandi, medi e piccoli. Nei comuni maggiori, messe da parte le nuove conformazioni territoriali e burocratizzazioni gestionali tipo città metropolitana, è pur sempre la città esistente negli storici confini comunali il luogo dell’accumulazione capitalistica benché non più attraverso la produzione industriale[ii]. Comunque non è da Roma ma è da Milano, ritenuta dal premier nazionale futura punta di diamante degli assetti politici contrassegnati da centrismo tendente a destrismo neoliberista, che proverrà l’indirizzo per il ribaltamento di democrazia versus massima personalizzazione del potere e decisionismo extra-costituzionale.
Vedremo i risultati del referendum sulle modifiche della Costituzione e di altri in fase di raccolta delle firme.
Dunque, Milano. Il candidato sindaco Giuseppe Sala, che ha rimpiazzato il rinunciatario Giuliano Pisapia in una tormentosa guida di un presunto centrosinistra privo di un’ala sinistra, si prenderà l’urbanistica, per quale scopo? In primo luogo un’attenuazione di supposti indirizzi «troppo» riformatori del Piano di governo del territorio, mentre noi osservatori ormai distaccati dalle iniziali speranze riposte nella nuova amministrazione del 2011 sappiamo che niente di progressista esso contiene. Se il nostro guardasse al modesto abbassamento dell’indice medio di edificazione, dovrebbe accorgersi che svolgere il compito di mediatore nel ristretto spazio fra due numerini, Pgt ante e post centrosinistra «arancione» (il colore dell’entusiasmo per la vittoria di Pisapia), sarebbe avvilente.
La pianificazione effettiva della giunta a guida Ada Lucia De Cesaris per l’urbanistica e l’edilizia si è differenziata poco da quella ventennale di un centrodestra che fece meritare alla gestione dell’urbanistica e dell’edificazione privata il marchio di «rito ambrosiano» (Vezio De Lucia), una speciale condizione di smaccato favore agli speculatori e agli impresari edili. Ora come allora, in forma meno volgare e direi violenta, il Comune è stato (è) come uno spettatore dell’attività degli imprenditori d’affari urbani, degli impresari edili, delle grandi aziende (non più industriali, ma finanziarie, bancarie, editoriali, comunicazionali); si mette in coda al movimentismo degli attori investitori e accetta, magari agendo con la finzione di un dialogo vacuo, la proposta del prodotto completo. Vuoti urbani da riempire, demolizioni e ricostruzioni, false ristrutturazioni moltiplicatrici, aree enormi messe a disposizione del disegno privato: la realizzazione di vaste cubature totalmente svincolate da ragionevoli indici di edificazione fondiari e territoriali rappresenta l’urbanistica senza piano, la costruzione della città senza scelta pubblica, il quando, il dove, il come lasciati alle intemperie di un mercato illogico per i riguardi sociali dei cittadini e anche per i loro interessi economici.
Allora, di che Pgt parliamo? Chi, dei candidati a sindaco, ricorda che i piani regolatori, se si vuol controllare la conservazione e il divenire della città, devono impegnare il Comune in piani particolareggiati («di esecuzione», dice la legge urbanistica del 1942[iii]) man mano dimostrati come necessari?
Ugualmente, il concorrente Stefano Parise capintesta del centrodestra (non «presunto», attributo da noi assegnato al centrosinistra giacché i due personaggi, con la loro biografia da manager liberisti, ci sembrano assai somiglianti) da sindaco si muoverebbe contro il Pgt attuale promuovendo il ritorno a quello dell’amministrazione guidata da Letizia Brichetto Moratti. Lui si immagina di rivoluzionare in senso liberista un sistema urbanistico-edilizio che non avrebbe bisogno di aggiunte alla condizione sopra descritta. Dal punto di vista dei vecchi architetti di sinistra attori di urbanistiche sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, l’uno vale l’altro, se così si può dire.
Il ritorno all’intellighenzia morattiana e, addirittura, albertiniana (Gabriele Albertini, sindaco predecessore di Letizia Moratti è ora capolista per Parise), il legame con Claudio De Albertis, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), presidente della Triennale, immobiliarista di grido attraverso l’azienda di famiglia Borio Mangiarotti significano qualche punto in più di pericolo, limitato a una sgradevole vanteria di essere i migliori. Ne è figura simbolica proprio Albertini, sindaco il cui compito, ripeteva spesso, non sarebbe diverso da quello di un amministratore di condominio. Intanto concertava con le grandi aziende e i potenti costruttori rivolgimenti urbani come il pezzo di città nuova sui terreni della Pirelli o l’intervento sull’area dell’ex Fiera noto per i tre grattacieli (il terzo non ancora eretto) firmati da Libeskind, Hadid e Isozaky: «in un enorme processo di riqualificazione ci siamo avvalsi del lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», anche per questo sarebbe [giustamente] elevato il costo delle abitazioni[iv].
Conclusione elettorale. Al ballottaggio fra i due maggiorenti non saremo costretti comunque a scegliere. Per ragioni storiche di appartenenza, per ragioni culturali, per non spegnere per sempre la fiammella di una piccola sinistra sincera: che si presenta coraggiosa al primo turno e che rappresenterà nel Consiglio comunale la parte di cittadini attenti al retaggio del valori sociali di un’altra Milano, non ancora arresa al Moloch degli affari e al suo fratello Moloch della bruttezza[v].
[i] Cfr. L. Meneghetti, La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 20.04.2016.
[ii] Ibidem.
[iii] L’art. 13 stabilisce che devono essere indicati, oltre a altri dati planimetrici e altimetrici, le masse e le altezze delle costruzioni lungo le strade e le piazze. Non è difficile, senza forzare l’interpretazione, avvicinare questa norma all’opportunità di disegnare precise plani-volumetrie sulle aree in causa. Quando si dette, nel nostro paese, la rara possibilità di progettare in questo senso i quartieri dei Piani di edilizia economica e popolare (Peep) secondo la legge 167/1962, i migliori piani illustrarono soluzioni chiaramente preludenti a specifiche tipologie abitative. Ved. “Urbanistica”, n. 41, agosto 1964.
[iv] Gabriele Albertini, in «Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006 (Redazionale).
[v] Rileggiamo la pagina 67 di: James Hillman, Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 1999.