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«“C” come Capitale. Il sottosuolo di Roma è pieno di resti romani e corsi d’acqua. Perché allora non ripristinare soltanto la linea tranviaria?». Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)

La Roma dei Papi e purtroppo anche la Terza Roma sono state costruite sopra la Roma dei Cesari e con Augusto è arrivata a superare ampiamente il milione di abitanti. Logico che – come ha ben documentato ieri l’inchiesta del Fatto sulla stazione della Metro C a San Giovanni in Laterano – scava che ti scava, te la ritrovi ovunque. In questo caso coi Castra Nova di dimensioni imponenti, sempre più difficili da superare in sotterranea. Da qualche parte devi pur entrare e uscire alla luce. Per limitare lo sbrego, si erano progettate le stazioni sotterranee in una sorta di tunnel allargato, limitando il “buco” alle scale mobili. Ma l’attuale progetto – peraltro privo al momento di fondi – non prevede questa soluzione un po’più soft.

Da qualche parte si fa notare che le informazioni storiche sulla zona di San Giovanni erano sino a ieri scarse. Per la verità le indagini di metà '800, integrate da altre recenti col georadar, hanno consentito di individuare importanti strutture a poche decine di metri dai Castra Novadi via Amba Aradam, precisamente sotto la Basilica di San Giovanni in Laterano. E sono – come scrivono gli archeologi Paolo Liverani, Ian Haynes, Iwan Peverett, Salvatore Piro e Giandomenico Spinola nella pubblicazione uscita due anni fa dalla Tipografia Vaticana – “un complesso di strutture relative al quartier generale della caserma” e non soltanto un praetorium, un macellum e, sotto il Battistero, proprio verso via Amba Aradam, un impianto termale.

Si tratta di una rete di caserme di cavalleria dell’epoca di Settimio Severo estese anche su via Merulana per gli Equites, un corpo sciolto da Costantino dopo la vittoria di Ponte Milvio. Così una parte di quell’amplissima area militarizzata venne utilizzata “per la Basilica Salvatoris”, la più antica. Se poi si procede a scavare – precisò l’archeologa Rossella Rea direttrice a lungo del Colosseo, allorché si scoprì a San Giovanni la famosa villa con grande piscina – si ritroveranno “la storia dell’uomo attivo nell’area dalla fine del VII secolo a.C. quando inizia a occupare le sponde di un corso d’acqua a fondovalle, e percorre coi carri un primo tracciato viario in terra battuta”. Ancora nel Medio Evo era zona di corsi d’acqua,mulini e“marane”. La stessa archeologa notò che “oltre le pareti del cantiere per la Linea C, la vasca si estende verso le Mura (Aureliane) dove probabilmente si conserva, e in direzione di piazzale Appio, nell’area interessata dalla Linea A ove, invece, è stata sicuramente intercettata e distrutta”. Operazione oggi, per fortuna, non ripetibile. Ma che pone varie questioni.

Spostiamoci in direzione Colosseo-piazza Venezia-Argentina: più si procede e più si fa pesante il problema delle acque sotterranee da affrontare e smaltire al di sotto dello strato archeologico per potervi realizzare stazioni e uscite. A costi sempre più elevati. Non in Largo Argentina dove sorge ancora il Foro Repubblicano. Forse davanti alla Biblioteca Vallicelliana col rischio di minarne la stabilità? Sotto Corso Vittorio scorre infatti un vero e proprio fiume, l’Euripus dei Romani, che, arrivando da Campo Marzio, sotto la imponente Cancelleria sommerge il sepolcro di Aulo Irzio, luogotenente di Cesare, caduto col console Vibio Pansa nella battaglia di Modena nel 43 a.C. Al corso di Euripus e di altre vene d’acqua i muraglioni di fine ’800 hanno sbarrato la confluenza nel Tevere alzando la falda. Secondo Paolo Marconi, anche di 4-5 metri. Insomma, non sarebbe più saggio far finire a San Giovanni la Linea C e ridare in superficie a Roma quella splendida rete tranviaria che Benito Mussolini fece svellere a partire dal 1925 perché “stoltamente contamina il carattere imperiale di Roma”? Con 430 Km, pensate, di rotaie (oggi sono meno di 40) e 50 linee regolari di tram.

La Repubblica, ed. Firenze
.DUE scultoree, eccentriche porte ‘d’oro’ – apparentemente in ottone, comunque ricoperte da una vistosissima patina dorata – sono apparse nella testata meridionale della facciata dello Spedale degli Innocenti, in piazza Santissima Annunziata. La prima, quella che si apre nel corpo pieno del fronte brunelleschiano, ha un telaio che esce dalla parete e si protende prepotentemente verso la piazza. La seconda – lì accanto, dalla parte di Via dei Fibbiai – si apre come la saracinesca di un garage da film di fantascienza o di spionaggio.

È difficile esagerare l’importanza del portico degli Innocenti, ideato da Filippo Brunelleschi nel 1418-19: non è improprio definirlo la prima architettura del Rinascimento. Anzi, il primo spazio urbano rinascimentale: l’incunabolo inestimabile di un nuovo modo di leggere il mondo, e di riscriverlo. L’incipit della città moderna. Qui, per la prima volta, il vocabolario classico (colonne, paraste, archi, capitelli, trabeazioni…) risorge ad una vita nuova: diversa da quella antica, ma non meno alta e non meno gravida di futuro. Qui per la prima volta l’architettura è pensata in termini geometrici e aritmetici: il corpo umano è la misura, gli occhi sono lo strumento, la mente è il primo cantiere. Generazioni di architetti, e di semplici cittadini, hanno idealmente salito in ginocchio la scalinata (aggiunta da Rossellino) che sale verso quella sublime, pausatissima danza di archi e colonne: la semplicità fatta perfezione.

Rompere l’equilibrio formale di uno simile monumento ha lo stesso significato che dipingere i baffi alla Gioconda. Come se qualcuno colorasse di blu elettrico la palla dorata sulla lanterna dorata della Cupola, collocasse una vetrata rosa fucsia nell’oculo della facciata di Santa Maria Novella. Sia chiaro, in arte tutto è lecito: e chiunque è libero di intendere il rapporto tra presente e passato in termini di provocazione puerile. Ma se qualcuno, al Louvre, prova a fare i baffi sull’originale della Gioconda viene fermato: perché esiste anche la libertà di tutti coloro che preferiscono continuare a guardarla come la lasciò Leonardo. È per questo che, in Italia, esistono i vincoli: e la prima architettura del Rinascimento è intoccabile. Dunque, come è stato possibile alterarla così pesantemente? La risposta va cercata nell’ abdicazione della Soprintendenza fiorentina, che con Alessandra Marino ha scelto la strada dell’autosoppressione. Un modo perfetto per adeguarsi al pensiero dominante: se il principe dice che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia », ecco che i soprintendenti fanno finta di non esistere. Risultato: i cittadini, che mantengono sia il principe che le soprintendenze con le loro tasse, hanno il danno e la beffa. In attesa che un sussulto di decenza ci liberi da queste porte – non del Paradiso, ma dell’inferno del gusto – fermiamoci un attimo sul loro significato simbolico. Se proprio l’orafo Brunelleschi liberò i fiorentini del Quattrocento dall’ostentazione dell’oro tardogotico, inaugurando la mirabile sobrietà delle facciate fiorentine del Rinascimento, oggi una Firenze à la Jeff Koons torna a luccicare, come una moneta falsa. Rinnegando secoli di misura e understatment, la parola ‘arte’ è diventata sinonimo di ‘lusso’. La Galleria Palatina è al servizio dei marchi della moda, il Salone dei Cinquecento è una vip lounge a pagamento, sull’Arno si banchetta sui ponti veri, mentre ne fioriscono di effimeri per ospitare cene milionarie di marchi blasonati: la bellezza celebra la disuguaglianza, attraverso l’ostentazione più volgare. Piazza della Signoria si riempie di statue placcate oro, e il povero David di Michelangelo diventa il feticcio di una retorica imbarazzante. Siamo ignoranti, ma benestanti. Ingiusti, ma griffatissimi e sfacciati. Una Firenze kitsch che si specchia in un lusso da bordello orientale: e che al simbolo, solidale e austero, della Ruota degli Innocenti che accoglieva gli orfani sostituisce quello della Porta d’Oro che accoglie i ricchi investitori. Una triste porta d’uscita.

«Viaggio a Song-do, sede del Fondo Verde per il Clima, raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo e dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita». Sbilanciamoci info,19 luglio 2016 (c.m.c.)

Song-do, due ore e passa in metro da Seul, Corea del Sud, è una città costruita dal nulla, su 6,5 kilometri quadrati rubati al mare dalla mano dell’uomo che altera confini e morfologie. L’intenzione è di ospitare almeno 250mila persone in questo insediamento che sta diventando “trendy” al punto da convincere varie star di soap opera di andarci a vivere neanche fosse una Beverly Hills d’Oriente.

Ad oggi però ci sono solo costruzioni avveniristiche ultimate semivuote, qualche sparuto ciclista e cantieri che lavorano 24 ore su 24. Sullo sfondo canali pieni di navi mercantili. Camminando tra questi grattacieli di acciaio e cristalli, strade semivuote in attesa di essere riempite di auto, sembra di vivere in un Truman show del liberismo più sfrenato.

È ad Incheon che a suo tempo sbarcarono i contingenti delle Nazioni Unite con a capo il generale MacArthur, in una mossa azzardata che segnò le sorti della guerra di Corea. Un luogo simbolico quindi e non solo, celebrato da una placca al centro di CentralPark, che ribadice l’ impegno a proseguire la “missione di libertà e prosperità” per il popolo coreano. Oggi una statua di bronzo di MacArthur ricorda il luogo dello sbarco.

Non a caso Song-do è stata costruita all’interno di una delle quattro zone economiche libere della Corea, la Incheon-Free-Economic-Zone (IFEZ), per le quali il governo coreano ha investito qualcosa come 41 miliardi di dollari, su una superficie di 290 kilometri quadrati, la maggior parte conquistata al mare.

Quasi una città-stato nel quale chi investe gode di esenzioni fiscali e non solo. Una raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo, quello della reificazione del quotidiano, della natura trasformata in merce di consumo, dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita, pietre finte e alberi trapiantati sulla sabbia piatta, sferzata dal vento, gelido di inverno, caldo ed umido d’estate. Song-do ci racconta uno stato alterato di sovranità, o forse d’eccezione così ben descritto da Giorgio Agamben.

Il “G-building” ospita il governo della IFEZ (Incheon Free Economic Zone) – c’è addirittura un ambasciatore per le relazioni internazionali – ed anche gli uffici del Fondo Verde per il Clima, entità istituita per finanziare l’attuazione degli accordi sul clima di Parigi. Al piano terra entri e vieni accolto da uno schermo luminoso che proietta gli indici di borsa, negli ascensori un altro video ti spara un grafico per poi chiederti se hai fatto la tua dose di passi giornalieri per tenerti in forma. I marciapiedi sono quasi tutti in tartan, per biciclette e “runner”, ma ce ne sono assai pochi, in questa città che vuole essere una eco-città modello. Salta agli occhi la vera contraddizione, quella che vorrebbe applicare al liberismo una patina di verde e di tecnologie appropriate.

Oggi Song-do è considerata, non a caso, un modello di “green economy” costruito sostituendo un ecosistema dove vivevano 11 specie di uccelli migratori definiti di grande importanza dalla Convenzione di Ramsar, tra cui la “Platalea Minor”. Mentre le verdissime centrali “a zero emissioni di carbonio” sfruttano le energie delle maree distruggendo habitat costieri delicatissimi. Il paradosso è che uno di questi impianti, il più grande al mondo, il Siwha Tidal Power Plant è stato anche registrato come progetto del Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio.

A conflict of greens: Green Development versus Habitat Preservation-the case of Incheon, South Korea titolava un saggio a sottolineare la contraddizione tra capitalismo verde ed ecologia. Quale conversione ecologica potrà essere possibile in un luogo artificiale, dove i diritti sono sottomessi alle leggi del mercato e della finanza? Un luogo che pretende di essere laboratorio di un Green New Deal asettico e senz’anima?

Fa riflettere quella teoria , non corroborata da prove scientifiche, secondo la quale una città acquisisce una propria “anima” nello spazio di due generazioni o per essere precisi intorno a 70 anni o giù di lì. Allora, la Song-do di oggi sarà soppiantata da progetti ancor più avveniristici, già illustrati nel museo-mostra permanente dell’IFEZ. E ci vorranno altri 70 anni per la nuova “anima” della città. A pochi kilometri dall’aeroporto, in pratica uno “shopping mall” con piste di decollo ed atterraggio, sta nascendo un casinò enorme , dal costo, si dice, di un miliardo di dollari, per ricchi cinesi in cerca di azzardo e facile fortuna.

Ero già stato in una situazione simile, a Doha, Qatar, lì erano il gas ed il petrolio a fare da motore della trasformazione radicale dello spazio urbano, con braccia e mani di centinaia di migliaia di migranti che lavorano in condizioni di semi schiavitù. Anche lì una penisola rubata al mare, una vetrina dei migliori architetti in circolazione da Jean Nouvel a Norman Foster, anche lì una realtà artificiale, una Venezia in plastica al centro di un megacentro commerciale. Eppoi cantieri e cantieri, per far giocare gli opulenti ed annoiatissimi autoctoni al borsino della speculazione immobiliare, e trasformare il Qatar in un polo della conoscenza e della ricerca scientifica per tutta la regione ed attrarre ragazzi e ragazze nei nuovi campus e centri di ricerca.

Pare che il presidente ecuadoriano Rafael Correa si fosse innamorato del Qatar, non a caso gli sceicchi si stanno comprando mezza Quito, dopo avere conquistato Londra e la Milano da “bere”. Si innamorò di quella società che si vuole dire “post-petrolifera”, e che investe nella conoscenza, e dopo Doha si innamorò anche di Incheon. Così anche tra le Ande ecuadoriane, nacque Yachay, una sorta di Silicon Valley della conoscenza e delle biotech, disegnata dalla cura attenta di esperti coreani. Anche qua, come a Doha ed a Song-do si cerca di attrarre cervelli e docenti delle migliori università.

Saranno spazi extraterritoriali urbani come l’IFEZ, plasmati a tavolino, sospesi nello spazio e nel tempo, buchi neri dove vige l’esenzione dalle regole e dalle tasse, dai diritti dei lavoratori, a costituire la nuova frontiera del liberismo selvaggio che si nutre di risorse saccheggiate altrove. Fatto sta che Song-do oggi è uno di quei tanti luoghi di “extraterritorialità”, che fanno il pari con le Zone di Libero Scambio (Export Processing Zones) dedicate esclusivamente all’ esportazione – ricordo quella di Manaus – o Hong Kong – che assieme ai paradisi fiscali disegnano un’altra geografia del potere, un sistema reticolare di governo parallelo, impermeabile allo scrutinio pubblico, che non prevede anomalie o alternative.

Un esempio tra i tanti di “zone” (assai bene descritte in un saggio di Keller Easterly del 2014, Extrastatecraft: the power of infrastructure space) dove vengono ridisegnati poteri e sovranità, tra assetti statuali e di mercato.

Il modello “coreano” viene esportato ovunque nel mondo, non solo in Ecuador, ma anche ad esempio in Honduras, dove capitali coreani sostengono la creazione di charter cities, vere città stato autonome ed indipendenti, regolate solo dalla legge del mercato e del profitto. Viene da pensare alla City di Londra oggi all’indomani della Brexit, ed a chi pensa che la Brexit possa contrastare il disegno del capitalismo liberista e finanziarizzato.

Non si facciano illusioni, esistono già altri luoghi non-luoghi pronti a prendere il posto di Londra o di Francoforte sparsi lungo la densa rete di “città stato”, “città mercato” globali come disse a suo tempo Saskia Sassen, aree di libero scambio, zone economiche libere che stanno nascendo in ogni parte del mondo.

Così Song-Do, disegnata di sana pianta da una compagnia di progettazione, la Kohn Pedersen Fox, è una città “chiavi in mano” da riprodurre altrove nel mondo, con il suo Central Park, il suo World Trade Center ed i suoi canali di tipo Venezia del futuro, ed anche altre zone di libero scambio, un technopark e un biocomplex. I cessi elettronici degli hotel ti offrono varie opzioni, tra clistere automatizzato e massaggi del fondo schiena a temperatura regolabile. I supermercati vendono cosmetici tratti dalla manipolazione genetica di cellule staminali, per schiarire la pelle e regalare l’illusione dell’eterna giovinezza.

La Repubblica online, 18 luglio 2016

"I have __ good news for you. A: an; B: some; C: nothing". Alla concettosa domanda numero 115 del test di inglese manca la risposta giusta: che sarebbe "no".
Non ci sono, infatti, buone notizie per i 19.479 laureati, specializzati e dottorati che dal prossimo 26 luglio affronteranno il concorso per i sospirati 500 posti di funzionari del Mibact. E non solo perché in regioni chiave come la Campania, la Calabria o la Puglia non ci sono praticamente posti (il che consegna alla disperazione intere generazioni di studenti meridionali del passato e del presente), o perché le biblioteche hanno così pochi posti da aver indotto alle dimissioni tutti gli organi tecnici competenti in seno allo stesso Mibact (cosa mai successa).
No, ciò che gonfia di indignazione e di sconcerto le pagine del web è ora la stravaganza delle domande contenute nelle banche dati di "Nozioni generali sul patrimonio culturale" da cui si attingerà per la preselezione dei candidati.
Domande quasi tutte di storia dell'arte (pochissima archeologia, praticamente niente per bibliotecari e archivisti - la parola "archivio" ricorre 6 volte su 1400 domande... - , per non parlare degli altri profili presenti nel concorso): e soprattutto bizzarre, irrilevanti, irte di errori, talvolta con tutte e tre le risposte sbagliate. E con definizioni copiate di peso da wikipedia o da altre pagine web. Infine, curiosamente relative in gran parte alla storia dell'arte di Roma.
La più citata in rete è forse la mitica numero 70: "L'opera "All'amico Lucio" dello scultore catanese Carmine Susinni, esposta anche all' Expo di Milano lungo il decumano, ritrae Lucio Dalla: A: in piedi con il clarinetto; B: che parla con un gatto; C: seduto su una panchina". Una tipica 'nozione generale' sul nostro patrimonio!
Gli anonimi compilatori si rivelano affetti da una vera mania caravaggesca: ben 26 domande riguardano il Merisi. Ecco la più incredibile: "Quale di queste opere di Caravaggio non venne esposta nel 1995-6 nei Musei Capitolini alla Mostra "La natura morta al tempo di Caravaggio"? A: Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana di Milano; B: Bacchino malato della Galleria Borghese di Roma; C: Ragazzo morso dal ramarro della Fondazione Longhi di Firenze". Una domanda assolutamente irrilevante, cui potrebbero rispondere forse solo i curatori della mostra.

Accanto alle domande che sanno di Trivial Pursuit ("Qual è l'unica opera di Giorgione che ha ancora la cornice originale?"; oppure: "La Diana cacciatrice della Pinacoteca Capitolina attribuita a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino è: A: Un olio su rame; B: Un olio su tavola; C: Un olio su tela") e a quelle grottescamente sadiche ("Quale Cappella realizzò Filippo Raguzzini tra il 1724 e il 1725 nella Chiesa di Santa Maria Sopra Minerva per volere di papa Benedetto XIII che qui venne sepolto? A: Cappella di San Giovanni Battista; B: Cappella del Sacro Cuore; C: Cappella di San Domenico"), ci sono quelle offensive per ovvietà: "In quale cappella della città del Vaticano sono visibili alcuni tra i più famosi affreschi di Michelangelo Buonarroti, tra i quali il "Giudizio universale"? A: Cappella di Sant'Olav. B: Cappella Cornaro; C: Cappella Sistina". O, forse peggio ancora: "Come è denominato il complesso delle più grandi Terme della Romaantica, costruito tra il 298 e il 306 d.C., e costituente oggi una delle sedi del Museo Nazionale Romano? A: Terme di Diocleziano; B: Terme di Stigliano; C: Terme di Saturnia".

Inquietante il divario tra la caricatura dell'iperspecialismo medievistico ("In quale anno Onorio III consacrò la chiesa cistercense di Casamari? A: 1217; B: 1219. C: 1220") e la sbracatura sul contemporaneo ("La scultura in legno "Ritratto di Ungaretti" di Pericle Fazzini è.... A: Un esempio della scultura preromanica del sec. VII; B: Un'opera del primo medioevo, periodo in cui la scultura è sentita come ornamento e completamento dell'architettura; C: Un'opera del XX secolo conservata nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma").

Ci sono le domande con troppe risposte giuste (qui la A e la C: "Il dipinto Et in Arcadia Ego della Galleria Nazionale d'arte antica di Roma di Palazzo Barberini, eseguito da Giovan Francesco Barbieri detto Il Guercino è: A: Un paesaggio arcadico; B: Un'allegoria del "memento mori"; C: Una natura morta"), quelle con nessuna risposta giusta ("La statua bronzea del pugilatore conservata al Museo Nazionale Romano è firmata da un artista greco. Quale? A: Polidoros; B Apollonios; C: Atenodoros": ma la scultura non è firmata...), quelle che contengono un errore nella domanda ("Il cosiddetto Teatro all'Antica, o Teatro Olimpico progettato da Vittorio Scamozzi costituisce uno tra i primi esempi tra gli edifici teatrali dell'età moderna. Dove si trova? A Sabbioneta B Vicenza?C Mantova": ma Scamozzi si chiamava Vincenzo...), e quelle della serie "di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?": "I "Bronzi di Riace"(V secolo a. C.), oggi a Palazzo Campanella di Reggio Calabria, sono stati realizzati: A: In marmo; B: In legno; C: In bronzo".

Una nota positiva: è ammirevole il tatto con cui non si chiede l'attribuzione, ma solo la materia, del Cristo comprato come di Michelangelo da Sandro Bondi nel 2009, con l'assenso tecnico anche della funzionaria cui ora Franceschini ha affidato la superpotente direzione unica per il patrimonio culturale: "La statua "Crocifisso Gallino" (1495-1497 circa), conservata nel Museo del Bargello
(Firenze) è stata realizzata: A: In bronzo. B. In legno. C. In marmo".

Inevitabile conclusione: di cos'è fatta la faccia di chi pensa che si possano preselezionare così i futuri custodi del nostro patrimonio culturale? A. di bronzo; B: di tolla; C di ...

«Una bellissima esperienza di comunità, di condivisione fra tante storie e idee diverse, unite dall’obiettivo di non rassegnarsi e di riappropriarsi di un territorio e di una cittadinanza che non si rassegnerà mai al “tanto lo fanno lo stesso”». La città invisibile, 14 luglio 2016

L’acronimo che abbiamo scelto – LUCI (Lavoratori Uniti Contro Inceneritore) nella Piana – può forse strappare un sorriso, ma da sorridere c’è ben poco nel lavorare all’Osmannoro, tra Firenze e Prato, in una delle zone più inquinate della Toscana. La Terra dei Fuochi di casa nostra.

E’ cosa nota a tutti, ma è meglio non parlarne. Un fatto tacitamente accettato nella rassegnazione che caratterizza ormai troppo spesso il nostro status di cittadini. Avere un lavoro di questi tempi sembra un privilegio, figuriamoci se possiamo pretendere anche di lavorare in luoghi sani. Del resto le normative sulla sicurezza e la salute all’interno delle aziende sono ormai tali da richiedere lauree e specializzazioni pluriennali. Quindi di cosa preoccuparsi?

Poi una sera hai fretta e ti fermi a cena all’Osmannoro appena uscito dall’ufficio o dalla fabbrica, e siccome è estate decidi di stare all’aperto, sottovalutando il fatto di essere sulla traiettoria di atterraggio dei voli in arrivo al Vespucci e ti ritrovi – letteralmente – la pasta condita al cherosene e la pelle bagnata di goccioline oleose e puzzolenti rilasciate dall’ultimo aereo in arrivo da Parigi o da Londra. Sconcertato ti chiedi allora quanto altro carburante hai ricevuto in dono sulla pelle e nei polmoni, senza saperlo, tutte le volte che hai sospeso una conversazione perché il rombo degli aerei ti assordava.

Ti chiedi anche come sia possibile che esista un aeroporto internazionale nel centro industriale più popolato della provincia, e alla fine ti domandi con quale dissennata decisione si possa pensare di raddoppiarlo. E si sa, una volta che le domande iniziano è difficile fermarle, una tira l’altra.

Ti domandi allora che fine farà, con l’ampliamento dell’aeroporto, il tanto rimandato Parco della Piana, soprattutto se dentro ci mettiamo anche un enorme inceneritore che come previsto, potrà, ma soprattutto dovrà – per andare a regime e dare profitti a chi ci ha investito – accogliere e bruciare rifiuti da tutto il territorio nazionale. E anche se lo chiamano con grande ipocrisia “termovalorizzatore” la domanda resta esattamente la stessa.

La volta che hai provato anche tu ad essere green e ad arrivare in bici (come mai le ciclabili di Osmannoro inizino e finiscano nel nulla, te lo eri già chiesto diverse volte e hai supposto che forse son state fatte solo per ottenere fondi europei e non per una mobilità veramente sostenibile), quasi non sei riuscito a respirare e gli occhi ti hanno lacrimato per tutta la giornata. E vabbè, tanto adesso fanno la tranvia, ti sei detto, dando per scontato che collegherà i paesi limitrofi con il centro di Firenze, come sarebbe ovvio per ridurre il traffico. Invece no. Apprendi incredulo che la tranvia si fermerà all’aeroporto e che nel frattempo costruiranno una terza corsia dell’Autostrada A11.

E allora le domande sono troppe e inquietanti. E le risposte del “Sistema” non ti rassicurano per niente, perché, ad esempio, ti viene il dubbio che non ti abbiamo mai detto il vero prezzo che gli abitanti di Copenaghen pagano in salute per il tanto magnificato termovalorizzatore nel centro della città con pista per sciare, tralasciando che a te sembra comunque più divertente farlo sulla neve vera dell’Abetone.

Non è mai troppo tardi per farsi domande ed iniziare a dubitare. Lo diceva anche Oscar Wilde, ti sembra di ricordare, che dubitare è profondamente appassionante.

Capisci allora con sgomento la malafede di chi avrebbe dovuto tutelare la salute dei cittadini e si è invece dimenticato delle migliaia di lavoratori che vivranno sotto la ciminiera di un termovalorizzatore enorme, a due passi da un aeroporto internazionale, fra un’autostrada e vie di collegamento trafficatissime, il tutto ben condito da quanto emesso in termini di inquinamento da una zona produttiva e commerciale probabilmente non ancora totalmente bonificata nemmeno dall’amianto. Con il Parco della Piana che è rimasto solo sulla carta.

Chiedi alle Organizzazioni Sindacali di informarti, di prendere una qualche posizione, di schierarsi dalla tua parte e bene che ti vada trovi indifferenza, paura di andare contro, quando hai la fortuna di non subire un vero e proprio boicottaggio.

Chiedi anche al tuo datore di lavoro, ma ti risponde che pochi altri hanno sollevato il problema, che comunque le amministrazioni locali hanno fatto le dovute verifiche (ma se i lavoratori non sono stati censiti nella Valutazione di Impatto Ambientale né nei piani di monitoraggio delle ASL forse le hanno fatte a Vallombrosa, non all’Osmannoro? Altra domanda che ti toglie il sonno), e che comunque per quanto riguarda la tua fabbrica o il tuo ufficio tutto è in regola, comprese le prese elettriche, quindi devi lavorare tranquillo, semmai chiudi le finestre.

E allora ti decidi a partecipare (anche se il dopo cena ti ha fatto parecchia fatica, va detto) a qualche assemblea informativa organizzata da cittadini come te, e finalmente ascolti medici che non hanno dimenticato Ippocrate, persone che hanno portato avanti con successo in altre comunità strategie alternative di sviluppo industriale e di gestione dei rifiuti, i quali ti spiegano con dati scientifici ed esempi concreti che l’inceneritore, se non si sa quanto male faccia alla tua salute, è di certo sicuro e provato che non fa per niente bene, ma soprattutto che non è l’unica alternativa alla discarica, perché i cassonetti (non ci avevi mai pensato) sono vere e proprie miniere urbane di materia prima e una sinergia virtuosa fra il mondo della produzione e la tutela dell’ambiente crea ancora più sviluppo e nuovi posti di lavoro.

Rincuorato, ma anche con tanta rabbia, capisci che la politica deve e può ancora essere il bene di una comunità, e che solo l’incompetenza e gli interessi privati non riescono a varare strategie innovative per un progresso che possa veramente chiamarsi tale, spacciandoti invece come unico possibile un modello ormai superato, ancora utile solo a chi lucra sulla salute tua e delle prossime generazioni, oltre che a scapito dell’ambiente che (forse talvolta ti era sfuggito?) non è sostituibile come fosse il cellulare dell’anno prima.

Capisci soprattutto che la palla passa a te. Così è nato LUCI nella Piana.
In pochi mesi siamo cresciuti informando e aggregando centinaia di lavoratori.

E’ stata e continua ad essere innanzitutto una bellissima esperienza di comunità, di condivisione fra tante storie e idee diverse, unite dall’obiettivo di non rassegnarsi e di riappropriarsi di un territorio e di una cittadinanza che non si rassegnerà mai al “tanto lo fanno lo stesso”.

Se lo fanno o non lo fanno, l’inceneritore, l’aeroporto, o qualsiasi altro progetto nocivo e assurdo, dipende innanzitutto e soprattutto da tutti noi. Ecco perché, forse sorridendo noi stessi, ci siamo chiamati LUCI nella Piana. Ma stavolta è un sorriso di speranza.

Per tre giorni Napoli è stata ceduta alla ditta D&G che ha "occupato" l'intero Borgo marinaro e molti altri spazi pubblici chiusi agli abituali utilizzatori e riservati agli ospiti della ditta, Molti degli intellettuali locali compiaciuti o rassegnati, ma fortunatamente non tutti. La Repubblica, ed. Napoli, 14 luglio 2016

TRA i due modi che il Calvino delle Città invisibili propone per non soffrire in mezzo all’«inferno dei viventi » il più difficile è quello di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno: e farlo durare e dargli spazio». È un esercizio cognitivo e morale fondamentale: un esercizio cui è impossibile sfuggire quando si scruta ciò che succede a Napoli.

Ora la domanda è: il grande evento di Dolce e Gabbana come va letto? Come qualcosa che non è inferno (sembra l’opinione prevalente, anche se spesso la motivazione che la sorregge è un disarmato: «meglio di niente!»), o come un pezzo del solito, immutabile, eterno inferno? Sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ciò che abbiamo vissuto in questi giorni non è la promessa di qualcosa di nuovo, è l’ennesima manifestazione dell’abdicazione perpetua di questa città.

Cosa c’è, infatti, di nuovo nella circostanza per cui un signore si prende Napoli, la chiude, la nega ai cittadini stessi e ci costruisce un apparato effimero? L’unica novità, rispetto ai riti di antico regime, non è una bella novità: ora la festa non è neanche a sollazzo del popolo, ma a totale beneficio del marketing del moderno signore e padrone.

La gravità di ciò che è successo mi pare evidente soprattutto sul piano simbolico, e dunque su quello educativo: perché si è affermato con forza che la città non è dei cittadini. Il colmo lo si è raggiunto con la decisione gravissima di chiudere il Dipartimento di Scienze sociali della Federico II: una scelta che ben chiarisce la gerarchia simbolica dei poteri. Non c’è dubbio che gli studenti abbiano così ricevuto la più eloquente lezione di sociologia applicata della loro carriera: ma credo che i vertici del mio ateneo dovrebbero attentamente riflettere sul messaggio che si è, di fatto, mandato.

Nel complesso, questo evento ha ridotto ancora una volta i cittadini a plebe, legittimando così ogni disprezzo: perché un giovane diseredato di una qualunque periferia dovrebbe astenersi dal coprire di vernice i monumenti che compongono questo set privato? Le parole, e la loro carica simbolica, sono importanti: e cosa può fare un evento “esclusivo”, se non escludere? Escludere ancora un po’, in una città che ha, invece, bisogno di inclusione come dell’acqua.

Per Per quattro giorni Come ai tempi di piazza Plebiscito regalata alla Nutella, il sindaco de Magistris continua a confondere cittadini e spettatori, e – alla faccia della retorica dei beni comuni – si presta a far da comparsa in una kermesse che la Valente o Lettieri avrebbero applaudito nello stesso, identico modo. Già, perché il vero problema è l’omologazione culturale del pensiero unico: quella per cui, negli stessi giorni, Diego Della Valle chiudeva per una festa privata due ordini del Colosseo (quando un’assemblea sindacale, legale e annunciata, l’aveva fatto per sole due ore, Dario Franceschini e Matteo Renzi avevano scatenato un inferno mediatico) e Fendi si prendeva la Fontana di Trevi per una sfilata di moda sull’acqua, letteralmente calpestando il monumento. Di qualche settimana fa è, poi, la cena esclusiva organizzata da un negozio di moda su un ponte galleggiante sull’Arno a Firenze, riedizione iperbolica e ultraconsumistica della madre di tutte le privatizzazioni dello spazio pubblico: quella della cena della Ferrari che nel 2013 chiuse Ponte Vecchio per una notte, per decisione dell’allora sindaco Renzi.

Conosco l’obiezione a questa lettura. Napoli – si dice – ne avrebbe guadagnato «in immagine ». A questo rispondo innanzitutto che la prima immagine di Napoli ad essere importante è quella che viene trasmessa ai suoi stessi cittadini: e il messaggio per cui la città è di chi se la prende è un messaggio devastante.

Ma anche se si pensa all’immagine di Napoli di fronte al mondo, credo che il ragionamento sia profondamente sbagliato. Il risultato, si dice, è aver fatto passare il messaggio che «Napoli non è solo Gomorra ». Parole infelici: intanto perché tradiscono un inconfessabile fastidio verso chi denuncia, racconta, rappresenta Gomorra. E poi perché trascurano il risultato finale: e cioè che l’immagine di Napoli che ne esce è per metà Gomorra e per metà Luna Park. Tutto tranne che una città. E anzi un ircocervo mostruoso, che finisce con l’abbracciare, di fatto, la visione di un Oscar Farinetti: per cui l’unica prospettiva del Mezzogiorno è diventare «una grande Sharm el Sheik». Una predizione di qualche anno fa, nel frattempo divenuta sinistramente calzante: visto che la località egiziana è ormai ridotta a un’oasi per ricchi protetta da un esercito in armi.

Dunque, se davvero vogliamo «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio» non è all’effimero circo degli eventi che dobbiamo guardare, ma a quanto questa città è capace di fare davvero per se stessa. Se – per non fare che un esempio – il lavoro straordinario della Fondazione Foqus ai Quartieri Spagnoli venisse raccontato con un decimo dell’enfasi e dello spazio riservati alle feste di Dolce e Gabbana non faremmo tutti un miglior servizio al corpo (e all’immagine) di Napoli?

Corriere Fiorentino, 9 luglio 2016
Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una serie di modifiche alla LR 65/2014 sul Governo del territorio. Le modifiche sono state presentate come ‘tagliando di manutenzione’, recepimento di semplificazioni presenti nelle norme nazionali’, ‘rafforzamento della filiera istituzionale’, oltre che finalizzate a rendere l’‘agricoltura più facile’, dichiarando che esse non intaccano comunque i pilastri della legge, che rimane la più avanzata in Italia per quanto riguarda le misure di prevenzione del consumo di suolo.

Convengo su quest’ultima valutazione. Anche a valle delle modifiche intervenute, la legge 65/2014 rimane l’unica legge vigente, in Italia, ad affrontare seriamente il tema del blocco del consumo di suolo. Così seriamente che si è sentita l’esigenza di “alleggerirla”.

Dissento invece sulla comunicazione che si sia trattato di un intervento di sola “manutenzione”. La modifica era stata in effetti avviata con questa intenzione, per correggere alcune incongruenze prodotte da emendamenti approvati all’ultimo minuto, e per recepire nuove norme nazionali in materia di edilizia e appalti.

Strada facendo, tuttavia, le proposte di modifica si sono allargate, ed è passato il segnale, politico, che alcuni interessi potevano ottenere risposta. Mi sembra pertinente ricordare, in proposito, che la legge 65 è stata a suo tempo approvata dall’intera coalizione di centro-sinistra al governo, e con il contributo anche della sinistra esterna alla maggioranza, al termine di un apio processo di consultazione e partecipazione. Questa legislatura è radicalmente diversa, con il PD solo al comando grazie al consistente premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale regionale, che può decidere senza confronto quali interessi soddisfare. Il tutto con una curiosa desistenza del centro-destra, nel voto a queste modifiche, spiegabile soltanto con qualche accordo implicito al riguardo.

Nel merito delle modifiche intervenute: i ‘pilastri’ che reggono l’impianto della legge sono in effetti ancora in piedi, come dichiarato da più esponenti del PD, ma le rosicchiature di fattispecie di trasformazioni e di parti di territorio “liberate” dalla legge sono state numerose, con effetti che potremo concretamente verificare soltanto nel tempo a venire.

Le principali riguardano l’indebolimento della cosiddetta “filiera istituzionale” faticosamente ricostruita dalla LR 65, ovvero la verifica congiunta fra Comuni e Regione delle trasformazioni più rilevanti, con procedure capaci di garantire adeguata informazione ai cittadini, in tempo utile per poter intervenire nei procedimenti.

D’ora in poi (per le modifiche è stata richiesta l’entrata in vigore urgente) una serie di trasformazioni rilevanti saranno sottratte alla conferenza di copianificazione, o comunque approvate con procedure semplificate. Ad esempio, le grandi trasformazioni in territorio rurale presentate dalle aziende agricole, anche con perdita delle destinazioni d’uso rurali, saranno di esclusiva competenza comunale se insistono su un territorio classificato dai Comuni stessi come urbanizzato. Ancora in territorio urbanizzato, si potranno spostare con semplici varianti semplificate nuovi volumi da un quartiere all’altro, da una frazione a un’altra distante anche molti chilometri, senza consultazione preventiva né dei cittadini né della Regione.

Nel territorio rurale, dove la semplificazione degli atti necessari agli agricoltori per esercitare la propria attività era stata una delle innovazioni principali introdotte dalla legge 65, le modifiche ora intervenute consentono la trasformazione dei nuovi annessi agricoli in residenze per gli agricoltori, operazione puramente funzionale a ulteriori cambi di destinazione d’uso, avendo gli agricoltori già diritto per legge a un’abitazione rurale. Perché ora tradire il patto d’onore stretto a suo tempo a questo riguardo con le rappresentanze degli agricoltori?

E così via con altre modifiche che vanno in direzione analoga, come quella di ammettere il frazionamento dei sottotetti recuperati all’uso abitativo senza aumento degli standard urbanistici pubblici, gravando così sugli utenti dei servizi già esistenti.

Infine, le modifiche congiunte alle leggi sul governo del territorio e sulle opere strategiche attribuiscono alla sola regione il potere di decidere gli ampliamenti delle opere esistenti. Questo processo di centralizzazione delle decisioni, per produrre scelte più efficaci, dovrebbe obbligatoriamente essere accompagnato dall’attivazione di azioni partecipative con una approfondita discussione pubblica delle alternative. Purtroppo la non attuazione del dibattito pubblico previsto dalla legge regionale sulla partecipazione per le grandi opere e dallo stesso PIT per quanto riguarda l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze non fa sperare nulla di buono al riguardo.

La beffa, in questo caso, è data dal fatto che sia le misure di contrasto al consumo del suolo che l’introduzione del dibattito pubblico obbligatorio per le grandi opere sono attualmente due temi presenti anche sull’agenda del governo nazionale. Saprà la Toscana non perdere il proprio primato non solo teorico, ma anche d’azione, al riguardo?

«Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana.». Il manifesto, 9 luglio 2016

Era già successo lo scorso 24 giugno: la sindaca Virginia Raggi freschissima di insediamento era rientrata in Campidoglio alla fine di una giornata intensa, richiamata dall’impellenza di dover firmare dei documenti. Aveva colto l’occasione del ritorno in ufficio per incontrare le donne dei ventidue Centri antiviolenza romani la cui convenzione col Comune non era stata rinnovata dal commissario Tronca. La delegazione era salita dalla piazza del Campidoglio all’ufficio della sindaca. Le donne avevano raccolto la disponibilità a farsi carico del problema, raccontando tra l’altro di averla vista provata da quei primi giorni di lavoro e da quelle che abbiamo scoperto essere le difficoltà di composizione della giunta.

È successo di nuovo, e la circostanza fa pensare ad un atteggiamento non casuale ma ad una scelta che assomiglia ad un messaggio preciso ai protagonisti delle vertenze romane. I manifestanti della rete Decide Roma che si erano radunati sulla scalinata che conduce alla piazza del monumento equestre a Marco Aurelio e ai quali è stato impedito di arrivare davanti all’aula consiliare dalla questura, sono stati ricevuti da alcuni assessori freschi di nomina della appena nata giunta capitolina. C’erano l’assessore all’urbanistica e ai lavori pubblici Paolo Berdini, la responsabile dell’ambiente Paola Muraro e Laura Baldassarre, che nella squadra di Raggi si occupa di scuola e politiche sociali. «Sono state sottoposte loro le urgenze dei lavoratori dei canili comunali e dei servizi d’accoglienza: «Internalizzare è l’unica soluzione in grado di garantire livelli occupazionali, qualità del servizio, minori costi per l’amministrazione», hanno detto lavoratori e attivisti agli assessori. «La nostra lotta si basa sul controllo popolare e partecipato da parte di cittadini e lavoratori sui servizi e su tutti i beni comuni urbani – ribadiscono da Decide Roma all’indomani del colloquio con gli assessori -. Misureremo la nuova amministrazione alla prova dei fatti, senza sconto alcuno». Il prossimo appuntamento è per il 20 luglio in piazza dei Sanniti, nel quartiere di San Lorenzo, per una «assemblea di autogoverno» cui dovrebbe partecipare proprio l’assessore Berdini. Dal canto suo, Paola Muraro ha preso l’impegno di andare a trovare i lavoratori del canile della Muratella che autogestiscono il servizio in attesa che il Comune prenda le opportune decisioni.

Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana. La sfera decisionale dell’amministrazione pentastellata pare muoversi all’interno di cerchi concentrici. Le giornate, convulse e a porte chiuse, delle nomine e del confronto tra diverse anime, potrebbero avere una coda velenosa: Daniela Morgante, magistrata della Corte dei conti e già assessora al Bilancio nella giunta Marino, non avrebbe preso la frenata sulla sua nomina. Potrebbe mollare. Ieri intanto però Raggi è uscita dall’inner circle e ha riunito la maggioranza ancon i tavoli di lavoro e i cittadini che hanno partecipato assieme al M5S romano alla scrittura del programma e che già l’altro giorno, alla prima convocazione del consiglio, riempivano ostentando spillette pentastellate e gadget la piccola platea dell’aula. «Stiamo discutendo delle linee programmatiche, ci sono anche gli assessori – spiega Paolo Ferrara -. Si tratta del primo documento che rispecchia il programma, con le priorità trasporti, rifiuti e trasparenza». Tra le impellenze una in particolare, discussa ieri con l’assessore Marcello Minenna: l’assestamento di bilancio da approvare entro la fine di questo mese.

«Torino. Il centro piemontese fin dagli anni Novanta è la culla di una politica nuova e trasversale, contro le "grandi opere" e il consumo del territorio che tanto piacciono a Fi e Pd. Dalla giunta locale di Mauro Marinari la neosindaca M5S Chiara Appendino ha prelevato il suo vice, e ispirazione». Il manifesto, 9 luglio 2016

Relegato a fenomeno di costume prima, e di ordine pubblico poi, il movimento No Tav ha silenziosamente gemmato organizzazioni politiche che hanno preso piede in tutta Italia: un percorso ventennale, cominciato nei piccoli comuni della val Susa, conquistati uno ad uno.

La storia che raccontiamo è accaduta nell’unico posto d’Italia dove fosse possibile, perché sintesi tra un uomo duttile ma resistente e una comunità culturalmente egemonica, nata ben prima di lui: il tutto in un contesto specifico, il territorio che dovrebbe essere attraversato dalla Torino-Lione.

Ma facciamo un passo indietro. Nel dicembre 2005, dopo la «battaglia» di Venaus, su un palco montato in un periferico parco della città Alberto Perino, Beppe Grillo, Dario Fo, e Marco Travaglio arringavano sessantamila valsusini e qualche stranito torinese. La città vetrina che viveva l’apice della sua trasformazione allontanava dal centro patinato quello strano mondo incomprensibile che non voleva un’infrastruttura. Tra l’enorme folla che si accalcava sotto il palco c’era Mauro Marinari, dipendente del comune di Torino e politico in un importante centro satellite della metropoli, Rivalta, 20 mila abitanti, incastonati tra Beinasco e Rivoli. Nel 2005 si parlava ancora di appartenenze partitiche, anche se, sulle cose che compongono la vita dei territori, strane convergenze destra-sinistra risultavano evidenti: come nel caso della Torino – Lione, su cui tutti concordavano e concordano.

A Rivalta, in quel tempo, si concentravano tensioni sociali che non trovavano ascolto, e quasi tutte traevano origine da un utilizzo del territorio impattante. Ci sono due inceneritori di rifiuti speciali, la cementificazione dilagante che fagocita territorio agricolo e lascia scheletri di capannoni e centri commerciali, e soprattutto la prospettiva del Tav, la «grande opera» per eccellenza. Il progetto prevede, ancora oggi nonostante che dei primi schizzi rimanga solo più il tunnel di base, una trincea larga cento metri che sventrerebbe il territorio. Questo perché la nuova linea proveniente dalla Francia deve a tutti i costi raggiungere lo scalo merci di Orbassano, mega opera voluta negli anni Settanta e ormai abbandonata.

Solo poche settimane, fa l’esecuzione di alcuni carotaggi ha sconvolto la vita del paese, che ha visto arrivare truppe antisommossa incaricate di tenere a bada la cittadinanza ma soprattutto la giunta, dichiaratamente contraria all’opera. Ma questo accade oggi. Al contrario, nei primi anni del nuovo millennio, lo schema politico di Rivalta era uguale a quello presente in tutta Italia: centrosinistra al potere con consenso verso le grandi opere e sfruttamento economico del territorio grazie agli oneri di urbanizzazione.

Qui, Mauro Marinari faceva politica. È un uomo di sinistra, arriva dalla Rete, poi transita per due anni nel Pds, pacifista e ambientalista: si inventa la politica della sostenibilità, fumoso concetto accademico che aggettiva il sostantivo «sviluppo». Lo fa grazie alla presenza di una comunità locale già strutturata, che lotta da tempo, e ha creato il terreno fertile per una spinta progressista. Un uomo delle istituzioni nella sua Rivalta, dove nel tempo ha coperto diversi ruoli da assessore, ma soprattutto è un instancabile attivista che porta avanti battaglie, osservate con stupore e poca comprensione dai suoi compagni di partito, per la pace, contro il consumo di suolo, contro l’alta velocità, per il riciclo dei rifiuti.

Marinari, e chi lo circonda, per lungo tempo parla un linguaggio incomprensibile, mentre lui dialoga con chi lo compatisce o lo prende per pazzo, l’onda del movimento No Tav si ingrossa e si avvicina sempre più verso Torino e la sua periferia. Un mondo raccontato come afflitto dalla sindrome nimby, afflitto dai black bloc, dai centri sociali, ma che affronta le stesse tematiche di Mauro Marinari con la stessa metodologia: vasta partecipazione e una sola richiesta, le appartenenze, soprattutto i simboli, rimangono fuori dalla porta della stanza dove si discute.

Il «Comitato di cittadinanza attiva Rivalta Sostenibile» nasce nel 2001 nel mare magnum di Genova 2001: dentro ci sono i lillipuziani, i No Tav, cattolici, ex comunisti, un po’ tutto. Inizia come un’organizzazione tradizionale che chiede di essere ascoltata, e dato che un confronto serio non giunge mai si ingrossa mese dopo mese, anno dopo anno.

Rivalta Sostenibile è il simbolo di una parte di Italia che inizia in quegli anni a guardare con sospetto la propria casa di appartenenza, il centrosinistra, e dopo il sospetto giunge la convinzione che debba esserci la rottura definitiva costi quel che costi. Marinari e compagni però non si limitano a protestare ma iniziano ad organizzare conferenze su temi che ai più suonano stravaganti: la decrescita economica, la teoria del cemento zero, corsi di riciclo dei rifiuti. Sono contro le grandi opere, le privatizzazioni dei servizi; il gruppo analizza in serate pubbliche le politiche del Wto e affronta il problema degli Ogm. Si tratta di prospettive per una nuova sinistra, che però fatica a comprendere quei mondi e le giudica antimoderne, luddiste e, pure, «roba da casinisti».

Passa il tempo, si giunge al 2007. Il Movimento 5 Stelle, ancora in forma di MeetUp e senza l’acronimo attuale, sta muovendo i primo passi, Mauro Marinari e Rivalta Sostenibile si inventano le primarie. Arrivano alle elezioni ed entrano in consiglio comunale, dove iniziano a fare opposizione pesante. Aumentano la frequenza di approfondimenti culturali sul territorio, continua la spinta sul grande contenitore della «sostenibilità».

La vicenda Tav passa dal locale al nazionale, Rivalta con il nuovo tracciato voluto dall’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione presieduto da Mario Virano è sempre più coinvolta nel progetto. Buona parte della sinistra tradizionale continua a far spallucce, a giudicare un fenomeno di costume quel mondo strano, non comprensibile, che si oppone alla costruzione dei capannoni e invita a parlare Serge Latouche e don Andrea Gallo.

Arriva la rottura totale con le origini, «il rifiuto di considerarsi di sinistra perché la sinistra è ormai ultra liberista». Marinari, ben prima di Grillo, parla di fine delle appartenenze, e professa l’analisi delle idee sulle cose al di là delle simbologie nominali.

A Torino, poco distante, la commistione banca-partito-Fiat è l’orizzonte culturale del centrosinistra a guida Pd. Si sta aprendo una forbice percettiva enorme. Nel 2011 il M5S prende il 3,5% sotto la Mole, l’anno successivo, nelle elezioni comunali, Rivalta Sostenibile vince contro ogni previsione: il M5S non si presenta all’appuntamento elettorale nella cittadina e da Grillo giunge il sostegno pubblico.

Lo schema è semplice: al primo turno riescono a raggiungere il ballottaggio, al secondo dilagano. La sinistra tradizionale non comprende la batosta, parla di pericolo imminente.

Marinari nomina assessore all’urbanistica Guido Montanari, docente del politecnico di Torino, che blocca il piano regolatore facendo infuriare i costruttori. Il nuovo sindaco riduce gli sprechi e dirotta i fondi sui servizi, denuncia il taglio delle risorse da parte dei governi centrali agli enti locali, esce dall’Osservatorio di Virano, vuole la trasformazione dell’azienda dell’acqua, la Smat, da ente di diritto privato a pubblico, facendo così infuriare Piero Fassino.

La fu appartenenza politica è superata completamente, destra e sinistra per Mauro Marinari, ex componente della segreteria provinciale del Pds, non esistono più, sono «categorie del pensiero fuori tempo che bloccano la collaborazione delle persone comuni sulle cose.»

Passa ancora il tempo, si giunge alle elezioni comunali di Torino di poche settimane fa.

La candidata del M5S nomina assessore in pectore all’urbanistica, posto strategico per eccellenza, Guido Montanari, prelevandolo da Rivalta. Il quale non si tira indietro e annuncia una politica cemento zero, il conteggio delle case vuote in città, contrarietà al Tav, valutazione analitica di tutte le grandi opere previste per Torino.

Parte il cannoneggiamento a palle incatenate verso l’assessore in pectore, con gli stessi argomenti utilizzati per Marinari nel 2012: antimoderno, stravagante, vuole bloccare il progresso.

Chiara Appendino dunque vince le elezioni nel 2016 con lo stesso schema utilizzato da Mauro Marinari quattro anni prima, e come risposta alle accuse di antimodernismo e luddismo nomina, anche come vicesindaco, Guido Montanari, che si dimette da assessore a Rivalta. Insomma, a posteriori, si può dire che nella piccola Rivalta, un tempo conosciuta solo per lo stabilimento Fiat, c’erano le basi per una nuova sinistra che in molti non hanno voluto vedere.

Individuazione di criticità da superare per evitare il degrado di una delle città più rappresentative dell'Italia e tutelata ancora dall'Unesco. La città invisibile, newsletter #45, 6 luglio 2016

Arriveranno a Firenze gli ispettori dell’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella promozione della pace e della comprensione tra i popoli attraverso l’istruzione, la scienza e la cultura. Non si sa quando, ma arriveranno. Firenze è uno dei nodi più importanti al mondo in questa strategia, considerate la cultura che ha saputo esprimere e la sua capacità, nel passato, di aggregare intelligenze e pratiche straordinariamente innovative in tanti settori. Sono ben due infatti i “nostri” siti Unesco: il Centro storico, unico al mondo, e le meravigliose Ville e Giardini medicei che costellano Firenze.

L’ispezione avrà l’obiettivo di comprendere, visto il degrado in cui è precipitata la città a causa di politiche troppo spesso inadeguate e soprattutto dannose, se Firenze è ancora all’altezza dell’importante doppio riconoscimento.

Con questi punti vorremmo quindi definire meglio alcune delle criticità che mettono a rischio il premio dell’Onu; ne sono responsabili le amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni, ma non solo, sono altri e più pressanti i poteri che pregiudicano il futuro della nostra città.

Criticità che possono rappresentare naturalmente anche una traccia per il lavoro degli stessi ispettori. Che sono tenuti a pretendere, dai decisori e responsabili politici, l’eccellenza di quei siti che hanno il compito di tutelare.

Ecco i 12 punti più critici:

1) L’alienazione del patrimonio edilizio storico monumentale pubblico/privato: alle vendite viene garantito il cambio di destinazione per usi alberghieri o residenze di lusso e si garantisce la realizzazione di garages sotterranei, situati nella falda freatica.

2) L’escavazione di 21 parcheggi sotterranei in area urbana, di cui ben 6 in zona Unesco, tra cui il parcheggio sotterraneo di Piazza Brunelleschi. L’ulteriore escavazione di parcheggi sotterranei nell’area di Via Tornabuoni, in particolare sotto il giardino di Palazzo Antinori, a ridosso della Prima e della Seconda cinta muraria di Firenze.

3) La realizzazione del nuovo aeroporto intercontinentale di Peretola, con la buffer zone e traiettorie degli aerei sulla verticale di ambedue i siti Unesco: Centro storico e Ville Medicee. Previsto il raddoppio dei passeggeri in transito di circa 4,5 milioni/anno (vedi punto 6).

4) La realizzazione di una linea tramviaria nel sottosuolo del Centro storico, che metterebbe a rischio la stabilità degli edifici del Sito Unesco e l’integrità dei reperti archeologici sotterranei.

5) Gli scavi dei tunnel nell’area Fortezza da Basso/Santa Maria Novella: per l’Alta Velocità, sotto la Fortezza da Basso e Piazza della Libertà; per la nuova stazione ferroviaria AV, sotterranea e a ridosso del torrente Mugnone; per le varie gallerie veicolari utili al transito in superficie della tramvia.

6) L’insostenibilità acclarata della pressione del turismo sul Sito Unesco: oltre 9 milioni/anno le presenze, occasione di sviluppo di bassa qualità e causa di forte degrado strutturale e di allontanamento dei fiorentini dal Centro storico della loro città (vedi punto 10).

7) L’utilizzo improprio delle Piazze del centro storico in occasione di manifestazioni varie e mercatini con allestimento di strutture temporanee fortemente invasive, fuori scala rispetto all’equilibrio architettonico degli spazi, costruite con materiali incompatibili esteticamente con l’ambiente (in particolare Santa Croce e S.S. Annunziata) e penalizzanti per la vita degli ultimi residenti del Centro storico (vedi punto 10).

8) La privatizzazione degli spazi pubblici della città per organizzazione di eventi riservati: Ponte Vecchio, Forte Belvedere, Accademia ecc. e soprattutto Palazzo Vecchio che ospita un numero esorbitante di iniziative con ingresso ad invito per cene servite nel Salone dei Cinquecento o in altri ambienti del percorso museale per centinaia di persone con allestimenti incongrui alla rilevanza del bene culturale.

9) La perdita dei significati storici e identitari del Sito Unesco. Evidenti i fenomeni di gentrification urbana e trasformazione della città in una Disneyland del Rinascimento: sostituzione delle botteghe artigianali e del piccolo commercio di prossimità con catene commerciali internazionali che omologano il Centro storico a una qualunque altra città. Ristorazione selvaggia e finta locale.

10) La progressiva ed inesorabile espulsione delle famiglie residenti nel centro storico a favore di turisti mediante trasformazione degli immobili in residenze temporanee (spesso al nero) con conseguente desertificazione del tessuto urbano centrale per quanto riguarda i servizi rivolti ai cittadini in favore del commercio per i non residenti (vedi punto 9).

11) Lo storno di risorse economiche dal pubblico al privato che pregiudica la sicurezza del Centro storico: il caso più eclatante è quello della voragine di Lungarno Torrigiani, crollo dovuto alla mancata manutenzione dell’acquedotto. Gli utili netti di Publiacqua spa non sono state destinate alla manutenzione ma suddivise come dividendi degli azionisti.

12) La realizzazione di mostre in luoghi chiave del Centro storico in cui può esporre chi paga, senza nessuna Commissione di valutazione sul valore delle opere. Un modo semplice, per chi ha i denari (collezionista/produttore) per alterare le quotazioni del mercato dell’arte utilizzando uno scenario unico al mondo.

Senza trasparenza, non si può decidere sulle Olimpiadi a Roma. Alcune associazioni chiedono di rendere nota la convenzione stipulata nel 1987, tuttora vigente, per la realizzazione dell'università di Tor Vergata. Carteinregola online, 5 luglio 2016 (m.b.)

Le associazioni CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio, scrivono al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito istituzionale la Convenzione stipulata nel 1987 con l’associazione temporanea di 19 imprese, capitanata dalla Vianini spa, vincitrice di una gara europea. Alla Sindaca Virginia Raggi chiedono di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica”.

Il gruppo Caltagirone ha annunciato querele per un servizio televisivo andato in onda su La 7 in cui l’ex assessore all’urbanistica Giovanni Caudo e l’assessore all’urbanistica in pectore Paolo Berdini commentavano la scelta del Comitato Promotore di Roma 2024 di realizzare il Villaggio olimpico a Tor Vergata, un terreno di proprietà dell’Università, quindi pubblico, parlando di una convenzione stipulata con il gruppo Caltagirone per l’esecuzione dei lavori ivi previsti. Dal comunicato, pubblicato su Il Messaggero il 14 giugno, apprendiamo che “La società Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, insieme ad altre 9 imprese di costruzioni (e quindi senza alcuna esclusiva), è concessionaria dei lavori per l’Università. Ciò a seguito di gara europea vinta nel lontano 1987. La quota di Vianini Lavori nel Raggruppamento Temporaneo di Imprese è di circa il 33%.” E’ una informazione rilevante, dato che il testo della convenzione per la concessione non è reperibile sul sito dell’Università, e che quindi i cittadini non ne conoscono i contenuti.

La vicenda, ricostruita con i pochi elementi a nostra disposizione, e quindi con molte lacune e possibili imprecisioni, è così sintetizzabile: nel 1979 viene approvata la legge per l’istituzione di alcune nuove università, che prevede che la progettazione e l’esecuzione unitaria delle opere possa essere affidata in concessione mediante apposita convenzione anche a consorzi di imprese, sulla base di uno schema di convenzione tipo, che comprende l’indicazione delle modalità di gara e di contabilizzazione per le opere e per le forniture da appaltare specificando che “l’affidamento in concessione dovrà avvenire con provvedimento motivato dell’Università sulla base di un confronto tecnico ed economico delle offerte a tal fine presentate a seguito di bando”. Nel 1986 viene indetta la gara, nel 1987 il Consiglio d’Amministrazione dell’Università delibera l’aggiudicazione della gara a un’associazione temporanea di imprese formata, oltre che dalla capogruppo Vianini spa, da altre 19 imprese (5), ognuna specializzata nel settore di competenza. Il 23 ottobre 1987 viene stipulata la convenzione “concernente la progettazione e la realizzazione dell’intero comprensorio universitario. “Le opere dovranno essere realizzate complete delle loro parti accessorie, degli impianti, dei servizi, delle attrezzature fisse e delle eventuali opere di urbanizzazione necessarie”. La Convenzione riserva all’Università medesima di definire i lotti funzionali da realizzare secondo la tempistica correlata all’approvazione dei progetti da parte delle autorità competenti, alle disponibilità finanziarie ed alle esigenze scientifiche, didattiche, culturali ed organizzative. Varie disposizioni della Convenzione prevedono un’esecuzione differita nel tempo degli interventi e rinviano la definizione di essi ad atti successivi”.

In pratica un’esclusiva concessa a un gruppo di imprese, senza limiti temporali – dato che la concessione è ancora vigente oggi, quasi trent’anni dopo – senza un budget prefissato, e, si dedurrebbe, senza neanche una quantificazione precisa delle opere da realizzare. Negli anni successivi, oltre alla messa in opera di strutture provvisorie, restauri di edifici esistenti e realizzazione di nuove edificazioni al servizio dell’università, l’area diventa anche uno spazio a disposizione dei progetti della città. Dopo un primo progetto dell’amministrazione Rutelli di realizzarvi un villaggio olimpico nel caso dell’assegnazione a Roma dei Giochi olimpici del 2004 (poi tenutisi ad Atene), la successiva amministrazione Veltroni vi colloca il progetto del complesso sportivo polifunzionale dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava che avrebbe dovuto ospitare i Campionati mondiali di nuoto 2009. Del progetto sarà realizzata solo la struttura dello stadio del nuoto, con l’intelaiatura della copertura a “vela a pinna di squalo” e la struttura di base dell’altro palazzetto per il basket e la pallavolo, a oggi entrambe incompiute. E ancora nel settembre 2015 è riproposta la localizzazione a Tor Vergata del villaggio olimpico per Roma 2024, ipotesi sostenuta dal comitato promotore guidato da Montezemolo e Malagò, in alternativa a quella del Sindaco e del suo assessore Giovanni Caudo, che già nel luglio precedente avevano presentato al CIO a Losanna un progetto che prevedeva invece di inserire il villaggio in un’operazione di rigenerazione urbana dell’area dell’ex areoporto dell’Urbe tra la Flaminia e la Salaria.

Ipotesi poi tramontata dopo la caduta dell’amministrazione Marino, lasciando quindi il campo al progetto di Tor Vergata, che, a causa della convenzione citata, potrebbe essere ancora vincolato all’esecuzione dei lavori da parte dell’associazione temporanea di imprese guidata dalla Vianini. Come del resto il completamento – previsto da entrambi i progetti – del palazzetto dello Sport di cui è stata edificata finora solo la base.

Ora sulla candidatura Olimpica, sull’eredità che i Giochi potrebbero lasciare alla città e sulla eventuale collocazione del villaggio deciderà la nuova Sindaca. In ogni caso, anche in considerazione dell’attuale dibattito rilanciato per Roma2024, riteniamo che i documenti relativi a una convenzione ancora vigente oggi – dal bando del 1987, alla convenzione e alle successive integrazioni – debbano essere pubblici e pubblicati sul sito dell’Università, trattandosi di un ente pubblico che conferisce soldi pubblici a privati che hanno vinto una gara pubblica.

Per questo alcune associazioni – CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio – hanno scritto al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito la Convenzione del 23.01.1987, Rep. 121 e tutti i documenti collegati, compresi quelli della Città dello Sport. Alla Sindaca Virginia Raggi hanno chiesto di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica“.

Il testo della lettera e tutti i riferimenti ai fatti e ai documenti citati nell'articolo sono consultabili sul sito carteinregola.it

«Ridurre il Colosseo a location: "caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne"». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 5 luglio 2016 (c.m.c.)

Meno di un anno fa, nel settembre del 2015, Renzi e Franceschini montarono una violentissima polemica, di dimensioni planetarie, contro i sindacati che avevano fatto chiudere il Colosseo per due ore a causa di una assemblea perfettamente legale e debitamente annunciata. Il governo, riunito d’urgenza, emanò a favore di telecamere un decreto che dichiarava la cultura «servizio pubblico essenziale»: non per costringere se stesso a tenere aperti archivi e biblioteche, o a finanziare teatri e musei, ma per impedire ai lavoratori della cultura di esercitare i loro diritti costituzionali.

Ebbene, venerdì scorso il Colosseo è stato chiuso per ben più di due ore, e nell'orario di apertura è stato per due terzi inaccessibile anche a chi aveva prenotato, per organizzare la festa privata vip dello sponsor della pulitura: e nessuno osa nemmeno dirlo. Semplicemente se lo chiude Della Valle non è nemmeno una notizia, se lo chiudono i sindacati è uno scandalo da prima pagina.

Ma non tutti gli italiani sono ciechi. Pubblico qua di seguito, in forma anonima, la lettera inviatami da un testimone oculare, un archeologo precario che ‘lavora’ all’Anfiteatro:

«Le rubo qualche minuto poiché sento la necessità di raccontarle ciò che di incredibile è accaduto oggi al Colosseo. Per me, per noi, perché raccontare e denunciare possa far cambiare qualcosa in questo paese. Piccola premessa: sono un dottore di ricerca in archeologia, guida turistica abilitata, vincitore di un concorso ai servizi culturali al comune di Roma e mai assunto».

«Ebbene, oggi si è parlato molto della conferenza stampa, ma nessuno ha parlato dello spettacolo che si son trovati davanti turisti e cittadini presenti dell'anfiteatro. Interi gruppi, provenienti da ogni dove, che avevano da mesi prenotato e acquistato il biglietto di accesso all'arena, ai sotterranei e al terzo ordine, si sono visti senza preavviso vietare l'accesso sia all'arena sia al terzo ordine. E tutto mentre gran parte del secondo livello, normalmente aperto al pubblico, era anch'esso chiuso. Caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne. Musica ad alto volume e chi più ne ha più ne metta. Due giorni di preparativi, per la conferenza e la cena di stasera che ha impedito anche l'accesso serale dei visitatori all'anfiteatro. Difficilmente dimenticherò le facce basite degli stranieri dei miei gruppi e il terribile effetto che mi ha fatto vedere dall'alto i corridoi del Colosseo pacchianamente addobbati a festa, una festa per pochi, pochissimi eletti. Franceschini scrive "pubblico e privato insieme per il patrimonio culturale". Io parlerei piuttosto di un "pubblico oggi privato del patrimonio culturale"».

Ecco che cosa vuol dire, in pratica, ridurre il Colosseo a location: una strada imboccata anche dall'altro grande anfiteatro, l'Arena di Verona, il cui "marchio" sarà ora gestito da una "società commerciale".

È la strada del ministro Franceschini, che quando non trama per sopravvivere a Renzi (come era sopravvissuto a Letta, e a una quantità difficilmente credibile di altri sodalizi), lavora per privatizzare ancora di più il nostro patrimonio culturale. La bandiera simbolica di questa politica riguarda ancora il Colosseo, con la ricostruzione dell'arena che ridurrà definitivamente il monumento a location di eventi per cittadini abbienti.

Una politica culturale che a Roma sembra, almeno a giudicare dai risultati elettorali, aver conquistato solo i cittadini dei quartieri più ricchi. Meglio così, d'altra parte: ai tavoli del Colosseo non ci sarebbe posto per tutti.

Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2016 (p.d.)

La lunghissima chiusura della Biblioteca Universitaria di Pisa è uno scandalo intollerabile, che deturpa l’immagine della città, umilia e depotenzia la ricerca, offende chiunque a Pisa abbia a cuore la cultura”. Salvatore Settis, strenuo difensore del paesaggio e della Costituzione, dal 1999 al 2010 direttore della Scuola Normale Superiore, non usa mezzi termini. C’è anche la sua firma all’appello lanciato da La Nazione per riaprire la Biblioteca universitaria “chiusa a tempo indeterminato”da un'ordinanza del 29 maggio 2012, come si legge nell'avviso esposto al pubblico.

Il motivo? Problemi di stabilità dell'edificio aggravatisi a seguito delle scosse di terremoto che hanno colpito l'Emilia. Peccato che la perizia del Dipartimento di Ingegneria civile e industriale della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Pisa abbia contraddetto il provvedimento.

Oltre quattro anni non sono stati sufficienti per rendere fruibile un patrimonio librario straordinario. Unico. 600000 volumi, 4357 periodici, ma anche 1389 manoscritti, 161 incunaboli e 702 Cinquecentine. Numeri più che importanti che però non restituiscono a pieno il valore di quel luogo, il ruolo di quella biblioteca, ospitata dal 1823 nel Palazzo della Sapienza. A leggere nei cataloghi si fa fatica a selezionare le opere più significative. Bisogna averla provata la fortuna di camminarci nelle diverse sale di quel tempio della cultura. Il privilegio di trascorrerci del tempo, perdendosi nella lettura.

Certo, fra i fondi storici ci sono incunaboli di grande valore. Come alcune edizioni dell'Opera Omnia di Aristotele di epoca rinascimentale, oppure il Dante di Niccolò della Magna stampato a Firenze nel 1481 con le incisioni di Baccio Baldini su disegni del Botticelli. C'e anche il fondo storico delle Tesi di Laurea. Circa 20000 tesi manoscritte e dattiloscritte, datate dal 1868 fino alla prima metà del Novecento, tra le quali quelle di personalità politiche ed intellettuali come Enrico Fermi, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Ludovico Raggianti, Carlo Rubbia, oltre alle tesi di licenza di Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi.

Ma a fare la differenza è quel che a lungo ha rappresentato. Non solo luogo di studio. Spazio, vitale, nel quale hanno esercitato spirito critico e senso civico tante generazioni. Una biblioteca moderna nella sua rispettabile antichità.

Finora a nulla sono serviti appelli, petizioni, lettere, assemblee e cortei. Perfino interrogazioni parlamentari. Nonostante sia nata anche un'Associazione, gli Amici della Bup, per “contribuire alla tutela del patrimonio documentario e librario” della struttura. La fruizione del tutto impossibile dopo l'esperimento del prestito e consultazione attivato presso la Residenza Universitaria “Nettuno”, dal giugno 2013 al marzo 2014. Ma anche nessun controllo, dal momento che l'accesso non è consentito neppure al personale. Al punto che una perdita d'acqua, prima della metà di giugno, ha provocato danni ad almeno un centinaio di libri. Non è neppure la prima volta. Si era già verificato alla fine dell'agosto 2015, a seguito del nubifragio che aveva investito la città. Insomma, una chiusura totale, senza manutenzione. Tanto più grave perchè non è possibile fare previsioni.

A settembre riaprirà la parte del Palazzo occupata dal dipartimento di Giurisprudenza, dopo un investimento, da parte di Regione, Fondazione Pisa, Ministero dei Beni culturali, Ministero dell'Istruzione e Università, di 13 milioni e 660mila euro. Si prepara l'inaugurazione. In compenso per la biblioteca nulla. Manca ancora l'approvazione al progetto di restauro. Che la prolungata impasse sia imputare al fatto che il Palazzo è di proprietà dell'Ateneo e quindi sotto il controllo del Miur, mentre la Biblioteca universitaria è gestita dal Mibact? E' probabile. Anche se la locale amministrazione, guidata dal sindaco Pd Marco Filippeschi, non sembra immune da colpe. Così come l'Ateneo presieduto dal Rettore Massimo Augello.

Ma aldilà delle reponsabilità, vere o presunte, rimane la chiusura scellerata alla quale si aggiunge una scriteriata delocalizzazione. Già, perchè dal 2014 gran parte delle riviste, oltre “una considerevole parte degli importanti seriali novecenteschi e contemporanei italiani e internazionali”, sono state trasportate presso il Complesso monumentale del Museo di San Matteo. In sintesi, un patrimonio sostanzialmente dilapidato. Già perché tra le tante implicazioni la chiusura della Biblioteca si porta dietro anche questa. La mancata possibilità di usufruire di libri e manoscritti. La privazione di un Bene comune. Tanto più colpevole perché perpetrata ai danni di giovani studiosi.

Così i libri continuano ad essere paradossalmente prigionieri. Paradossalmente, o forse no. Finchè “le istituzioni reagiranno con una sorta di blanda semi-indifferenza, rinviando la soluzione di mese in mese, di anno in anno”. Sembra non esserci futuro per la storia, a Pisa.

Il calabraghe delle associazioni ambientaliste: La corazzata Malagò-Montezemolo ha affondato le barchette Italia nostra, Legambiente, WWF, Lipu, Greenpace. Viva viva i Grandi Eventi, il passato non insegna niente. La Repubblica, 2 luglio 2016

Gli ambientalisti appoggiano Roma 2024. Le principali associazioni italiane che si occupano di ecologia e sostenibilità, condividono i progetti sul territorio legati alla candidatura della capitale ai Giochi. Una posizione aperta, che non viene pregiudicata dalle perplessità su alcuni punti per i quali i “verdi” suggeriscono alternative. In un documento che Repubblica possiede in esclusiva, le indicazioni al Coni, il comitato olimpico nazionale, e al comitato organizzatore di Roma 2024 sul “gradimento” e l’opportunità degli interventi previsti dal dossier presentato nel febbraio scorso anche al Cio, il comitato olimpico internazionale. A sorpresa, i verdi dicono sì. Un atteggiamento inedito, collaborativo e persino ottimistico, di cui anche la neo sindaca Virginia Raggi non potrà non tenere conto.

Una svolta, anche rispetto al recente passato quando con la giunta Marino fu bocciato un punto cardine del programma, il villaggio a Tor di Quinto poi dirottato a Tor Vergata. Anche prima che il governo Monti ritirasse il suo appoggio per Roma 2020, le sigle ecologiste avevano manifestato più di qualche avversità. E due delle città concorrenti per l’edizione 2024 (Parigi, Los Angeles) incassano il no dei green. E allora, cos’è cambiato?

L’obiettivo e l’idea di base: riutilizzare, piuttosto che cementificare. Il presidente di Italia Nostra Marco Parini: «Se ben pensate, le Olimpiadi possono essere un’opportunità in termini di recupero di aree e manufatti abbandonati, di convivenza e valorizzazione della città piuttosto che di sfruttamento. Non abbiamo ancora parlato del nuovo stadio, sul quale le associazioni hanno espresso dubbi». Per il resto, la linea è condivisa scrivono gli ambientalisti: «Priorità al recupero di impianti esistenti, l’accessibilità a tutte le strutture attraverso il trasporto pubblico su ferro e percorsi ciclabili, la valorizzazione del fiume Tevere e dei beni culturali del territorio romano» scrivono Greenpeace, Italia Nostra, Legambiente, Lipu e Wwf nel loro resoconto. Nessuna pregiudiziale. Semmai, aggiustamenti di tiro: «In particolare per il progetto di bacino remiero nell’area compresa tra l’autostrada Roma-Fiumicino, il fiume Tevere e la fiera di Roma: riteniamo che vi siano criticità ambientali rilevanti. La tutela del Tevere è infatti per noi una condizione irrinunciabile che ci ha portato, in passato, a condividere con il comitato l’opposizione al progetto di Villaggio Olimpico in un area a Roma nord, nella piana alluvionale del fiume. L’area prevista per il bacino remiero è all’interno della Riserva Statale del Litorale Romano e rappresenta uno degli ultimi ambiti ancora liberi dall’edificazione di una certa consistenza. Vi chiediamo pertanto di percorrere altre ipotesi, sia a Roma - ad esempio nella zona a Roma Nord, presso Passo Corese di proprietà del demanio militare - che in altri ambiti, come a Milano, dove si potrebbe recuperare l’idroscalo». Gli altri punti chiave del dossier: «Per il progetto di media-center a Saxa Rubra, condividiamo la scelta per la presenza della RAI e l’accessibilità su ferro, attraverso la linea Roma-Viterbo da potenziare. Invece, vediamo con preoccupazione la realizzazione di una parte degli interventi nell’area oggi libera prossima al fiume, che oltretutto il Piano Regolatore prevede a verde e dove anche il piano paesistico vigente interdice ogni edificazione. Piuttosto crediamo che sia da percorrere la strada di una riqualificazione delle aree limitrofe alla RAI, dove si potrebbero realizzare interventi coerenti con le previsioni del Piano Regolatore nell’ambito dell’operazione olimpica con minori costi e impatti ambientali».

Sull’area di Tor Vergata, appoggio totale: «Condividiamo la scelta di localizzazione del Villaggio Olimpico, perché consente di recuperare le vele di Calatrava oggi in abbandono, di portare la metropolitana in un’area di Roma che ne ha un gran bisogno e per l’impegno a riutilizzare gli edifici che ospiteranno gli atleti per alloggi universitari e legati all’ospedale. Siamo infine convinti che la candidatura debba connotarsi per l’eredità che lascerebbe ai cittadini in termini ambientali». Olimpiadi ecologiche e con memoria, da consegnare come nutrimento ai figli.

Pasticci romani. «Roma. La risposta del governatore: "Non ci è arrivato nulla". Polemico GiachettiıIl manifesto, 2 luglio 2016

Nonostante le polemiche sul consigliere-capo di gabinetto Daniele Frongia e sul suo vice Raffaele Marra, ex militare della Guardia di Finanza proveniente dal sottogoverno di Gianni Alemanno e dall’Unire di Franco Panzironi, per la neo-sindaca Virginia Raggi doveva essere un mercoledì festivo relativamente tranquillo. Ma nel giorno dedicato ai patroni di Roma San Pietro e Paolo è arrivata ad un nodo fondamentale la vicenda controversa legata alla costruzione dello stadio della Roma. Il Sole 24 Ore ha rivelato che l’iter procedurale per dare il via ai lavori dell’impianto a Tor di Valle ha ricevuto il via libera dagli uffici comunali. « I dirigenti mi hanno comunicato che giuridicamente e tecnicamente è tutto in ordine – ha dichiarato Paolo Berdini, assessore in pectore all’urbanistica – Quindi il dossier è stato formalmente trasmesso alla Regione Lazio per l’avvio della conferenza dei servizi».
Era stato proprio mentre lavorava attorno all’opposizione al progetto, con lo stadio considerato soltanto un escamotage per l’ennesima cementificazione sul territorio romano, che il gruppo di minoranza del M5S aveva apprezzato la competenza di Berdini. In campagna elettorale, Virginia Raggi si era detta dapprima «favorevole» allo stadio a patto che «non ci siano speculazioni edilizie». Poi aveva corretto il tiro: «Se vinciamo ritiriamo la delibera sulla pubblica utilità. Lo stadio della Roma si farà da un’altra parte, a Tor di Valle c’è una speculazione edilizia e non ci sono le condizioni». Quindi in un’intervista al Tempo aveva definito meglio la sua linea: «Sullo stadio non devo cambiare idea. Voglio farlo (anche uno per la Lazio) ma il progetto deve seguire le norme».
Nei giorni scorsi, c’è stato prima l’incontro di Berdini col suo predecessore Giovanni Caudo negli studi di Radio Radicale: qui era emersa la posizione critica dell’assessore in attesa di nomina. Poche ore dopo, una strana «rettifica» fatta trapelare dai pentastellati: «Sullo stadio non abbiamo pregiudizi».

Il progetto viene licenziato prima del 7 luglio, quando la giunta verrà presentata al consiglio comunale? Non è chiaro. Dalla Regione arriva una polemica smentita: «La Regione Lazio è ancora in attesa dal Comune della trasmissione del progetto sullo stadio della Roma». L’ente amministrato da Nicola Zingaretti manda anche una stoccata circa la procedura: «Nella trasmissione del progetto il Campidoglio dovrà dichiarare la conformità del progetto stesso alla delibera sull’interesse pubblico votato dal Consiglio comunale di Roma».
«Raggi spinge l’urbanista a precisare: “Nessun pregiudizio, valuteremo l'ipotesi di variante al Piano regolatore». Se le scelte urbanistiche diventano questue misurate col termometro dei tifosi stiamo proprio mal messi. Repubblica, ed. Roma, 26 giugno 2016

PIÙ che una retromarcia sembra una frenata tattica. Sul progetto del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle interviene nuovamente il futuro assessore all’Urbanistica Paolo Berdini. Per dire che le parole utilizzate l’altro ieri («Userò ogni mezzo consentito per impedire questo scempio e per tutelare gli interessi della città», aveva detto durante un intervento su Radio Radicale) sarebbero state «travisate». Lo fa dopo una sollecitazione da parte dell’entourage del sindaco Virginia Raggi che ha provato così a contenere quella che viene definita «una verve comunicativa troppo esplicita» del futuro assessore a 5 Stelle.
E così Berdini si è trovato costretto a rettificare: «Scempio è pensare di poter edificare su Roma senza alcuna logica urbanistica, dopo che la Capitale è stata martoriata dalla mala politica negli ultimi vent’anni. Non c’è nessun pregiudizio nei confronti dello stadio della Roma, ma sarà mio dovere, nel rispetto della città e dei romani, approfondire ogni singolo aspetto del progetto insieme al sindaco».
Prima, erano stati gli stessi 5 Stelle a far filtrare la linea: «Lo stadio della Roma può essere invece una grande opportunità di crescita per la città, a patto che rispetti i principi di legge di fronte ai quali il M5S non transige». Secondo l’entourage della Raggi, «il piano della progettistica va affiancato alla considerazione del prestigio europeo e internazionale che un impianto sportivo per la Roma, ma anche per la Lazio, può conferire alla città. In ogni caso è prematuro esprimere ora una valutazione, avremo tutto il tempo per studiare da vicino il progetto».

Lo Stadio di Tor di Valle, dunque, non rappresenta per il nuovo sindaco una priorità. La frenata sulle dichiarazioni di Berdini, insomma, appare più che altro tattica. Quello che emerge al momento è che, come già confermato una decina di giorni fa dall’assessore all’Urbanistica della Regione Lazio, Michele Civita, per realizzare il progetto disegnato da architetti del calibro di Daniel Libeskind, Dan Meis e Andreas Kipar sarà necessaria una variante al piano regolatore da approvare in Consiglio comunale.

Ma era stata proprio la Raggi, in campagna elettorale, a precisare che «lo stadio si può fare se rispetta la legge e il Piano regolatore ». Bisognerà aspettare ancora, dunque, per capire se e come il progetto farà passi in avanti. La Regione attende che dal Campidoglio l’atto formale attraverso il quale aprire la conferenza dei servizi e dare il via all’iter.

Su tutto pende l’avvertimento del dg della Roma Mauro Baldissoni di due settimane fa: «Se il futuro sindaco vorrà assumersi la responsabilità di opporsi al progetto dovrà assumersi anche i costi, visto che è stato autorizzato e molti investimenti sono stati già fatti».
Libertà e giustizia, 23 giugno 2016 (p.d.)

I recenti incendi che dal 16 giugno hanno devastato vaste aree delle province di Messina e Palermo suggeriscono alcune riflessioni. Certamente l’impegno dei vigili del fuoco ha meritato il giusto riconoscimento da parte di tutti. Grazie all’encomiabile lavoro svolto non si sono verificati danni irreparabili alle persone.

Sarà comunque notevole il danno al patrimonio ambientale e saranno ingenti le risorse economiche impiegate per spegnere gli incendi e quelle che privati e collettività dovranno sostenere per riparare i guasti.

Sulle possibili cause si accerterà nel tempo se si sia trattato di episodi di autocombustione, ipotesi definita come suggestiva, o di episodi provocati da condotte dolose, ipotesi questa per la quale sono state prospettate reazioni durissime sia da parte del Presidente della Regione sia da parte del Ministro dell’Interno.

Le stesse autorità e più fonti giornalistiche hanno parlato di numerosi focolai indipendenti.

La sezione meteo di Tempostretto, giornale on line di Messina, lunedì 13 giugno segnalava ondate di calore e venti sciroccali previsti in una determinata zona della Sicilia ed ancora più esplicitamente il 15 giugno segnalava temperature oltre i 40 gradi, forti venti e il rischio di incendi nel versante tirrenico dell’area nebroidea-peloritana della costa tirrenica. Possiamo immaginare che non si sia trattato di segnalazioni isolate e possiamo immaginare che ci siano state anche informazioni non solamente giornalistiche per i circuiti istituzionali.

Legittimamente possiamo chiederci: si sarebbe potuto fare di più in via preventiva? Non sappiamo se la protezione civile abbia predisposto sistemi di prevenzione e se alla luce delle previsioni fosse utile o inutile disporli. Non sappiamo se le forze dell’ordine siano state allertate o meno per prevenire possibili attentati incendiari con servizi di vigilanza ed eventualmente arrestare i piromani colti in flagranza.

La risposta a queste domande potrebbe essere importante tanto quanto l’accertamento di possibili cause dolose degli incendi, soprattutto per costituire un bagaglio di esperienze che contribuiscano ad evitare il ripetersi dei fatti.

Ancora una volta siamo costretti a plaudire agli interventi della protezione civile a danni verificatisi e ad ascoltare rappresentanti delle istituzioni promettere reazioni durissime. Gli annunci delle reazioni non costano e di fatto le reazioni ci potranno essere se ed in quanto potranno essere identificati e processati in tempi utili eventuali responsabili, cosa tutt’altro che facile.

E comunque condanne dei colpevoli alla pena di dieci anni (la più grave edittale prevista) potranno forse consentire la punizione di responsabilità individuali, ma non potranno mai riparare i guasti ambientali.

Non possiamo escludere neppure coinvolgimenti di mafie, essendo stati colpiti territori oggetto di attenzioni mafiose.

Se su territori sui quali la mafia storicamente opera si verificano fatti dolosi dagli effetti devastanti, o si può immaginare la regia della mafia o si può configurare un consenso della mafia a fenomeni criminali che non sono considerati un ostacolo ai propri interessi. Ed è ormai un fatto di comune esperienza che interventi di soccorso, ripristini, riqualificazioni e ricostruzioni dopo calamità movimentano grandi quantità di denaro e favoriscono pratiche corruttive. Con riferimento a quest’ultima considerazione, è indubbio che le mafie possano trarre vantaggi anche da incendi riconducibili a singoli individui più o meno interessati, o addirittura a fatti non dolosi.

Ancora una volta siamo costretti a ragionare in termini di reazione dello Stato quando forse, alla luce delle previsioni meteo, sarebbe stata più opportuna se non doverosa un’azione di controllo del territorio per prevenire gesti dolosi ed assicurare interventi il più possibile tempestivi nel caso di incendi per autocombustione.

Intervista di Giuliano Santoro ad Ascanio Celestini. «Difficile distinguere il Pd di governo dalla destra. Nelle periferie non esistono quasi più spazi di incontro e discussione. Nell’illegalità fioriscono spesso iniziative culturali straordinarie». Il manifesto, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali. Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola Viva la Sposa.

Lo abbiamo incontrato per chiedergli come osserva, dal suo punto di vista, il tracollo della sinistra, l’abbandono delle periferie da parte delle forze eredi del Partito comunista, le mutazioni in corso a Roma.

«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».

E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?
È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.

La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?
Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.

Il tuo nuovo spettacolo va in scena proprio a Roma (oggi all’Auditorium, ndr). Parla di un «povero cristo» metropolitano. Che genere di miracoli occorrerebbero per la Roma dispersa, abusiva, clandestina?
Il settimo municipio, quello nel quale vivo, ha più di trecentomila abitanti. Firenze ce ne ha pochi di più, ma già Ferrara ne ha meno della metà. E ancora di meno Pisa. Allora mi chiedo: com’è possibile gestire Roma lasciando a municipi grandi come città solo una piccola parte di autonomia? E poi i territori dovrebbero avere una serie di spazi pubblici nei quali si fanno continuamente attività, che siano frequentati dagli abitanti e ciò dovrebbe accadere soprattutto in periferia. Uno spazio che conosco bene, il teatro biblioteca del Quarticciolo, è chiuso da mesi, ma la sua riapertura è vitale: quello potrebbe essere uno dei tanti spazi pubblici sempre attivi.

Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?
Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.

C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?
Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.

«Dal cardinale de Merode a oggi Roma ha dovuto fare i conti con il potere immobiliare. Neanche l’amministrazione M5S farà eccezione». La Repubblica, 22 giugno 2016 (m.p.r.)

Bufalotta, Tor Pagnotta, Malafede, Casal Boccone, Castellaccio, Murate, un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’impero palazzinaro della capitale, che dalle rare e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può avere riscatto. L’impero ormai è lì nella ripugnanza di favelas postmoderniste, nell’incolpevole degrado sottoproletario. «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo», diceva Francesco Saverio Nitti già ai primi del Novecento. E adesso? E gli imperatori del cemento (absit iniuria verbis) che si sono perpetrati per più di mezzo secolo di generazione in generazione? Chissà se davvero basterà una giovane signora di 37 anni, determinata ma alquanto innocente, a scalfire il fortilizio invitto della speculazione, che è la cifra quasi bicentenaria della capitale fin dai tempi del cardinal Francesco Saverio De Merode, il quale lanciò negli affari immobiliari i gesuiti, poi gli agostiniani, i certosini e via via gli altri ordini proprietari terrieri, fino a gettare le basi di una città undici volte più estesa di Parigi.

Occorre distinguere bene tra imperatori e re delle favelas (ex?), da domani alle prese con la risoluta Virginia Raggi. C’è chi nella notte di lunedì scorso piangeva sui suoi bilanci, rimpiangendo Rutelli, Veltroni, Alemanno e persino Marino, oltre agli omini in Campidoglio in vendita per un pezzo di pane, e teme di dover cambiare mestiere. E chi, con aplomb principesco, si è già preparato alla fatalità Cinque Stelle.
Lacrima, per dire, Luca Parnasi. Carico di invenduto, Parnasi, erede di Sandro, ha puntato tutto sulla costruzione dello stadio della Roma con Pizzarotti. Ma lo stadio M5S si farà mai ? Erasmo Cinque, ex costruttore di riferimento di Alemanno, è impaniato, insieme all’ex ministro Altero Matteoli nel processo del Mose. Gli altri non gongolano. Lamaro e Toti sono in guerra con Franco Caltagirone e per di più considerati vicini al centrosinistra (quale?). Un giorno i fratelli Toti vendono un terreno a Caltagirone alla Bufalotta e poi si mettono a trafficare per farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree, vicine a quelle già vendute al re delle favelas, che non perdona. Più o meno in una zona che Veltroni volle dedicata, alla cultura.
Traversi una favela e ti ritrovi un po’ stordito in via Riccardo Bacchelli, in via Ezra Pound o in via Cesare Zavattini, che, poveretto, viveva in un eremo verde ai Castelli romani. Qualcuno, in un’ultima resipiscenza, scelse per la sede del III Municipio Via Olindo Guerrini, poeta scapigliato che verseggiava: ”Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne o Roma”. Da fare affari ce ne era per tutti: i Toti, i Todini, i Pulcini, i Parnasi, gli Scarpellini, i Bonifaci. E adesso con l’audace Raggi, algida e intrattabile? S’interroga ancora incredulo chi sperava in pezzetti o pezzoni della Metro C, nelle opere delle Olimpiadi del 2024, se mai Giovanni Malagò e Luca Montezemolo riusciranno ad aggiudicarsele, la Fiera di Roma, le voragini stradali, i restauri.
Ma c’è uno che figurarsi se fa piagnisteo. Lui a Roma (e in Italia) è abituato a dare ordini di qualunque parte siano i sindaci. E nessuno ha il coraggio di snobbarlo di fronte alla potenza di fuoco di carta di cui dispone: a Roma Il Messaggero, il giornale cittadino che con il gratuito Leggo finisce in ogni bar e che è assai ben disposto a seguire gli affari dell’editore. Poi, tanto per gradire, Il Mattino a Napoli e Il Gazzettino a Venezia. Ma non solo è per questo che Franco Caltagirone ha il diritto di scrollarsi il titolo di imperatore delle favelas. Ormai è un finanziere di prima fila. Collezionista di sculture, quadri, monete antiche ma soprattutto moderne, “liquido” per molti miliardi è capo di una dinastia di origine siciliana, di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il Parco Leonardo, vicino all’autostrada per Fiumicino e Edoardo. Altro ramo i Caltagirone Bellavista, che avevano in tasca Andreotti e l’intera Democrazia cristiana.
Il capostipite Franco non può più neanche dirsi immobiliarista, visto che, oltre che di Acea, è azionista di Generali, Mediobanca, Unicredit, una delle “banche di sistema” del mondo. Oggi è abituato a dire la sua non solo sulla presidenza della Rai o sulle più importanti nomine pubbliche, ma è nel cuore del cuore del capitalismo italiano. Fu anche lui a silurare il Ceo delle Generali Mario Greco e, in questi giorni, sta creando un po’ di rogne al presidente della banca Giuseppe Vita, il quale parla un giorno sì e un giorno no con Angela Merkel, chiedendo che il nuovo capo di Unicredit sia un italiano e non uno straniero fra quelli che compaiono nella lista di Egon Zehnder.
Ecco la vera partita del nuovo sindaco di Roma, il potere vero con il quale dovrà confrontarsi. Resisterà dura e pura? O il governo è un’altra cosa, come ha dimostrato il sindaco Pizzarotti a Parma?
Paolo Berdini, probabile assessore, ha già detto che «le Olimpiadi non sono un male a prescindere». E davvero vogliamo fare tram come nell’Ottocento?
Che la partita abbia inizio, perché «Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente, come ai tempi del primo impero di Augusto» (Benito Mussolini).

«Questi tre aspetti rappresenteranno la “cifra” dell’azione di Raggi al Campidoglio». Articolo di Ernesto Menicucci e intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini, Corriere della Sera e il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)



Corriere della Sera
LA «SIGNORA NO» APRE AL DIALOGO: OLIMPIADIE METRO VANNO RIPENSATE
di Ernesto Menicucci

Roma. Le Olimpiadi, lo stadio della Roma, la Metro C. In campagna elettorale, Virginia Raggi è stata accusata dal «rivale» Roberto Giachetti, dal Pd e da certi ambienti imprenditoriali della Capitale di essere una «signora no». No ai Giochi, no al progetto di Tor di Valle della società giallorossa, no al prolungamento della terza linea della metropolitana.

E lei, su questi tre argomenti, è sempre stata vaga. Le Olimpiadi «non sono una priorità: i romani mi chiedono altro». Lo stadio «va fatto nel rispetto delle regole: vale per la Roma e varrebbe anche per un eventuale impianto della Lazio». Sulla Metro C «va fatta una riflessione». In realtà, di questi tre aspetti - che insieme alla gestione dell’ordinario (buche, trasporti, rifiuti) rappresenteranno la «cifra» dell’azione di Raggi al Campidoglio - la neosindaca ha parlato spesso, nelle riunioni col suo staff e in particolare con l’assessore «in pectore» all’Urbanistica, Paolo Berdini, docente a Tor Vergata, grande oppositore del Piano Regolatore firmato da Walter Veltroni («il peggior sindaco dal punto di vista urbanistico», lo bolla) nel 2008.

Cosa pensa, davvero, la Raggi sui tre progetti? Sulla Metro C va «aperta una discussione». Obiettivo numero uno, naturalmente, è arrivare a San Giovanni. E da lì? «È impensabile avere una linea che attraversa il centro storico, passa al Colosseo, e per due chilometri non fa uno stop». L’idea, allora, visti i recenti ritrovamenti archeologici (una caserma romana a nove metri di profondità), potrebbe essere quello di cambiare percorso. Per andare dove? «Ci sono tanti quadranti...», dice Berdini. Verso ovest, ad esempio.

Sulle Olimpiadi, il nodo è il Villaggio per gli atleti a Tor Vergata. Berdini non è convinto: «E non per chi costruirebbe: i terreni sono del Demanio, il Comune non mette bocca». E perché, allora? Quell’area, secondo Raggi e il futuro assessore, serve allo sviluppo futuro dell’Università e del Policlinico, per dare a Roma una vocazione da «Città degli Studi», quella che sognava l’urbanista Italo Insolera, che a sua volta riprendeva un’idea di Quintino Sella. Eppure, spostare il villaggio olimpico (17 mila appartamenti, che poi dovrebbero diventare 6 mila alloggi per studenti e per i familiari dei pazienti dell’ospedale) non è così semplice. Ma il piano della Raggi è cercare una soluzione alternativa. Per cambiare il progetto olimpico, in effetti, c’è anche qualche margine: il secondo step del dossier sulla candidatura, va inviato al Cio ad ottobre. Per questo, finora, Raggi ha sempre detto che le Olimpiadi «non sono una priorità»: in questi mesi vuole prima dare risposte sulle emergenze cittadine.

Ultimo, ma non ultimo, lo stadio della Roma. Che vuol dire «farlo dentro le regole», se c’è la legge sugli stadi? Che, secondo la sindaca, il progetto (dei privati) deborda dai parametri. E approvarlo così com’è rappresenterebbe un precedente pericoloso. Anche per lo stadio (ipotetico) della Lazio.

La Repubblica
PAOLO BERDINI: "STOP AI PALAZZINAI E SU OLIMPIADI E STADIO È MEGLIO RIPENSARCI"
intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini

Il futuro assessore all’urbanistica: "Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro"

ROMA - Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all'Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi.

Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un "uomo contro", ha collaborato con Italo Insolera all'ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell'urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un'urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
"Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all'insegnamento di studiosi come Insolera, che l'urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l'amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c'è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali".

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato "no" in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?

"Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità".

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l'inceneritore?
"Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un'alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell'edilizia".

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?

"Ha visto la luce nel 2008, l'anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l'Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l'economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un'articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui".

Come lo cambierà?

"Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c'è più bisogno di costruire".

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
"Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso".

Ancora metropolitane. C'è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c'è odore di carte bollate.
"Non conosco nel merito l'accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?".

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.

"A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un'area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto".

Quale sarà la sua parola d'ordine per l'urbanistica romana?

"Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate".

Che farà nei primi cento giorni?
"Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ".

Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2016 (p.d.)

Le fabbriche chiudono ma l’inquinamento resta. E in alcuni casi aumenta, come le malattie. A Portoscuso (nel Sulcis) il terreno è talmente avvelenato che è impossibile stabilire dove costruire e dove no. Lo ha stabilito un documento, la Vas (Valutazione ambientale strategica) allegata al Puc. “Lo sappiamo da trent'anni”, ha risposto il vicesindaco Ignazio Atzori. E il consiglio comunale ha appena approvato lo stesso il Puc.

Il piccolo centro del Sulcis, costa sud ovest della Sardegna, è la culla di tutte le proteste operaie più clamorose: Portovesme Srl, Alcoa (ferma dal 2012), Eurallumina (ferma dal 2009). I caschi, scesi in piazza per cercare di scongiurare la chiusura degli impianti, hanno finora ottenuto solo promesse. Nel cuore della provincia più povera d’Italia, la speranza però si è riaccesa per le tute verdi dell’Eurallumina, da anni in cassa integrazione: i padroni russi della Rusal ora puntano su una nuova centrale a carbone per far ripartire l’impianto. Sulla struttura, che dovrebbe sorgere in zona industriale ma a due passi dalle case, ha chiesto di saperne di più la Asl di Carbonia, cittadina non lontana, dove è appena stata eletta a sindaco Paola Massidda del Movimento 5 Stelle, che spesso va forte dove è molto forte il malcontento.

L’azienda sanitaria, chiamata a esprimere un parere sulla centrale, ha scritto: quella è una “zona ad alto rischio ambientale, che presenta un aumento di patologie a carico del polmone come l’asma bronchiale nei bambini, bronco pneumopatie in genere e tumori polmonari negli adulti maschi”.

E nelle carte ufficiali, i tecnici dell’azienda sanitaria hanno chiesto quali sono le misure pensate per prevenire l’e missione in atmosfera di sostanze come “acido cloridrico e fluoridrico, diossine, composti organici volatili, mercurio, altri metalli pesanti e radioisotopi”. Dubbi sono stati sollevati anche sulla gestione delle polveri degli scarti di bauxite stoccati nei bacini dei fanghi rossi: gigantesche discariche a cielo aperto sequestrate dalla magistratura nel 2009 e ancora sotto sigilli.

Il processo per disastro ambientale e traffico di rifiuti speciali contro due dirigenti dell’azienda è stato aperto il mese scorso, mentre negli anni sono state rigettate le diverse richieste di dissequestro presentate dai rappresentanti della società. Considerati indispensabili per la ripresa, sui bacini tossici - che per un perito della Procura hanno creato un inquinamento di arsenico smaltibile in almeno 300 anni - si è espressa anche la Asl. “È auspicabile che venga approfondito il problema delle polveri di bauxite e di quelle provenienti dal bacino, con riferimento all’influenza che potrebbero avere non solo sulla salute umana, ma anche sulle attività agricole, alimentari e zootecniche”.

L’Asl così ha cristallizzato, in un documento ufficiale, una convinzione diffusa. Perché di inquinamento in questo angolo di Sardegna, si parla da sempre. Da molto prima che venissero emanate le prime ordinanze per vietare la vinificazione delle uve: niente vino a Portoscuso, c’è troppo piombo sugli acini. E nemmeno frutta e verdura ai bambini: quella coltivata in zona venne sconsigliata dalla Asl nel 2012.

Un quadro poco rassicurante, peggiorato dagli elementi depositati la scorsa settimana dall’Art Studio di Torino, incaricato dal Comune di partecipare all’adeguamento del Piano urbanistico comunale al Piano paesistico regionale. Che nella Vas snocciola dati pesanti: terra e aria sono avvelenati. E anche se sotto la soglia di legge, i contaminanti pericolosi che si respirano in paese fanno registrare un “trend crescente”, e “per quanto concerne arsenico, cadmio, e piombo, i valori riscontrati raggiungono soglie nettamente superiori a tutte le altre località monitorate sul territorio regionale”. Con l’arsenico che supera di volte i valori massimi registrati sull’isola, il cadmio è stato trovato 30 volte superiore alla media così come il piombo. Nelle 280 pagine di relazione, i tecnici hanno analizzato dati, esposto tabelle e riepilogato studi precedenti per poi sostenere che all’ombra delle ciminiere non sarebbe possibile stabilire dove e se costruire.

Perché ci sono porzioni così contaminate sulle quali non si dovrebbero realizzare neppure industrie. Esplicite le conclusioni: “Il quadro emerso evidenzia una situazione di criticità generalizzata, almeno per quanto attiene la contaminazione da cadmio, piombo e zinco”. Problemi così diffusi su tutto il territorio comunale che non consentono “una puntuale zonizzazione del territorio nell’ambito del processo di pianificazione (redazione del Puc), finalizzata a limitare gli usi in funzione delle criticità riscontrate”.

Intervista di Marco Vittone al sociologo Giovanni Semi. «Dalle periferie trascurate dal Pd fino ai no Tav, la giunta Appennino unica nel panorama del movimento grillino». Il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

Il voto di domenica ha spaccato in due la città: il nucleo che si estende dal centro alla collina solidale con il sindaco uscente Piero Fassino, abbracciato da un mantello di diverso colore, in questo caso a Cinque Stelle. Giovanni Semi insegna Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale all’Università di Torino, tra i suoi testi più noti Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino, 2015) su come riqualificazioni artificiose di quartieri, attraverso il risanamento di aree popolari, il più delle volte con interventi di speculazione immobiliare, provochino l’espulsione degli abitanti originari, a favore di classi più agiate.

Professor Semi, si aspettava questo ribaltone clamoroso?

Di questa entità in realtà no, avevo scommesso con un amico che avrebbe vinto di poco il Pd. La cartina geografica del voto è chiara, segnala due parti di città che, da tempo, non si parlano. E tutto ciò non può essere semplicisticamente letto come un voto di destra o “contro”, ma con una parte maggioritaria della città che non si rispecchia più nelle cene in bianco e nelle feste del jazz ma chiede discontinuità. E lo fa in modo anche consapevole, non si possono ridurre decine di migliaia di preferenze a voto di protesta contro il governo in carica. È come se si dicesse che non abbiano legittimità politica: emerge una richiesta di rappresentanza e di un modello di sviluppo locale diverso.

È un passaggio storico, Torino è stata governata per 23 anni dal centrosinistra.

E lo ha fatto con successo, se nelle ultime settimane quel consenso è crollato è un fatto inedito. Il centrosinistra torinese ha preso dagli anni Novanta in poi una direzione chiara e netta. Il potere, però, logora; il mandato di Fassino è stato stanco e i suoi assessori non hanno brillato per capacità creativa. Il deficit di bilancio ha determinato un impoverimento nella gestione delle risorse, una situazione che ha fatto implodere dall’interno la coalizione. Al contempo, la città veniva da otto anni di crisi, con tassi di disoccupazione elevati.

Torino era la città fabbrica, da vent’anni si discute la sua riconversione, sembrava che la nuova via fossero la cultura e i servizi. L’amministrazione di sinistra hanno provato a pensarla come una Disneyland?
Sì, la via intrapresa è stata quella. Il governo ha scommesso su cultura ed eventi, in parte a effetti “Disneyland”: le piazze del centro destinate a manifestazioni di esclusivo consumo. L’opera di cambiamento ha allontanato le fasce più deboli. Il blocco sociale dei quartieri benestanti in queste elezioni ha fatto una scelta di “conservazione”. Il centro di Torino è, per gli affitti, più avvicinabile di quello di altre città italiane, ma per esempio nel caso del risanamento del Quadrilatero c’è stata una politica selettiva dei nuovi abitanti.

Qual è il grado di fattibilità del programma dei Cinque Stelle?
Al momento sono più orientati a mettere in discussione le linee guida dei governi precedenti, non è facile essendoci pratiche e relazioni consolidate da vent’anni. Non è chiaro se in questa fase la nuova giunta riuscirà a incidere su tematiche rilevanti come i posti di lavoro e il welfare. Prerogativa che non è solo dell’amministrazione comunale. Impostare nuovi rapporti industriali con questa Fiat sarà difficile. Anche la rinegoziazione del debito richiede una posizione di forza, che ora i 5s non hanno. Sono scettico sulla capacità nell’immediato di cambiare la rotta. Dipenderà dalla reazione della città, in particolare rispetto alle sue associazioni di categoria o a chi ha quote di potere.

Il primo gesto è l’aut aut all’ex ministro Francesco Profumo dalla Compagnia SanPaolo.
Un gesto per rassicurare il proprio elettorato. Comunque coraggioso, denunciando il recente aumento di stipendio.

Una delle critiche al Movimento 5 Stelle è che raccoglierebbe il voto di destra e populista. Cosa pensa?
Ci sono due Cinque Stelle, uno a livello nazionale molto opaco nelle dinamiche interne e problematico rispetto alle categorie classiche destra-sinistra, e c’è un livello locale più autonomo, a Torino hanno un registro più di sinistra che non hanno altrove, probabilmente per la saldatura con il movimento No Tav.

«Il futuro assessore all’urbanistica "Sono convinto che una amministrazione debba delineare il futuro: questa convinzione nel programma della Raggi, c’è la convergenza è nei fatti. Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro”». La Repubblica, 21 giugno 2016 (c.m.c.)

Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all’Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi. Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un “uomo contro”, ha collaborato con Italo Insolera all’ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell’urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un’urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
«Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all’insegnamento di studiosi come Insolera, che l’urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l’amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c’è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali».

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato “no” in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?
«Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità».

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l’inceneritore?
«Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un’alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell’edilizia».

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?
«Ha visto la luce nel 2008, l’anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l’Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l’economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un’articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui».

Come lo cambierà?
«Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c’è più bisogno di costruire».

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
«Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso».

Ancora metropolitane. C’è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c’è odore di carte bollate.
«Non conosco nel merito l’accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?».

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.
«A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un’area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto».

Quale sarà la sua parola d’ordine per l’urbanistica romana?

«Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate».

Che farà nei primi cento giorni?

«Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ».

Uno sfogo, un'invettiva e una speranza da un'attivista per un'altra Roma e portavoce di "carteinregola". Rivolta al PD, (#fateveneunaragione) ma non solo. massimocomunemultiplo blog online, 20 giugno 2016


Elezioni Roma
#fateveneunaragione

(e rimbocchiamoci le maniche per la città)

Come la fiaba di quel tale che parte per vendere la mucca al mercato e a forza di scambi al ribasso si ritrova con un uovo, il Partito Democratico a Roma ha dissipato in poco tempo il suo consenso, passando dai 664.490 voti raccolti dal suo candidato Ignazio Marino al ballottaggio del 2013, ai 376.935 del suo successore Roberto Giachetti del 2016*. Tra le due date è successo di tutto, ma il Partito Democratico deve finalmente guardare in faccia la realtà.

Basterebbe guardare alcune immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale per capire la profonda frattura tra il Partito Democratico e la città. Una piazza strapiena a Ostia ad acclamare la candidata M5S Virginia Raggi, un gruppo di sostenitori di Roberto Giachetti che non riempiva neanche metà dello stretto Ponte della Musica. [vedi icona in alto]

Adesso nel Partito cominceranno le rese dei conti, si spargeranno veleni, voleranno stracci e coltelli, mentre si moltiplicano le versioni consolatorie sui social: un voto contro Renzi, contro il PD, la gente si è fatta abbindolare dal populismo etc etc etc. Ma è un esercizio inutile cercare colpevoli, o ventilare complotti e ripicche. Forse qualcuno effettivamente avrà votato Raggi per farla pagare a Renzi, o per punire il PD, ma la stragrande maggioranza ha scelto il Movimento 5 Stelle perché è stato l’unico a presentarsi come partito del cambiamento, perché da sempre promette onestà e legalità, e perché lavora da tempo su quei territori di cui il Partito Democratico si ricorda solo all’avvicinarsi delle elezioni. Già nel 2008, la vittoria di Alemanno aveva dimostrato il fallimento del Modello Roma del quindicennio Rutelli/Veltroni e il grave malessere delle periferie. Anziché fermarsi allora a fare autocritica, si è sprofondati in uno dei periodi più oscuri della città, non solo per l’amministrazione di uno dei peggiori centrodestra, ma per il consociativismo di un’opposizione che si opponeva ben poco, a quel centrodestra. Mafia capitale ha poi svelato un po’ di fuoriscena, nelle risultanze giudiziarie, ma soprattutto in quelle migliaia di pagine di intercettazioni, da cui emerge l’immagine di un Partito Democratico deteriorato, preoccupato di voti, correnti e consensi, e ben poco del bene della città e delle persone.

Fatevene una ragione, non sono i radical chic con la puzza sotto il naso che hanno girato le spalle al vostro partito, ma la gente normale, che si è sentita sempre più povera, senza dignità e senza speranza. Abbandonata da una classe politica che anche a sinistra non difendeva più diritti per elargire favori, ben più remunerativi. Classe politica rimasta la stessa anche durante il breve mandato di Ignazio Marino, e che a Marino ha fatto la guerra fin dall’inizio, soprattutto a quelli della sua squadra che non volevano continuare il tran tran precedente. Con una conclusione cruenta - quelle firme dal notaio dei consiglieri PD - che forse ha segnato anche la vera fine del Partito. Ma il suicidio collettivo del PD romano va avanti da tanto, anche se “al ralenti”, con una inesorabile selezione alla rovescia che ha allontanato i militanti più volenterosi e intraprendenti, lasciando il campo ai comitati elettorali.

Quante tessere - vere - sono state perse in questi anni? L’indagine di Barca è stata acqua fresca. Che ha indicato il partito cattivo dei valvassini dei circoli e non quello dei vassalli e dei principi e delle relative correnti - tutte ben vive e vegete - in Campidoglio, in Regione, in Parlamento. E se non sappiamo quale dibattito si sia svolto nel partito dopo Mafia Capitale, di certo i candidati del PD hanno parlato ben poco, in campagna elettorale, di mafia e corruzione. Sembrava che le elezioni si tenessero a Oslo, non nella Roma dei “mondi di mezzo”. Mobilità sostenibile. Piste ciclabili. Programmi fotocopiati dal passato, candidati anche. Invito quelli che pontificano sulle presunte incompetenze dei futuri consiglieri Cinque Stelle, a scorrere i curricula dei candidati PD, e approfondire meriti e competenze di quelli in cima alla graduatoria delle preferenze che finiranno in Assemblea o in lista di attesa (naturalmente quelli prestigiosi delle liste civiche hanno preso un pugno di voti perché non sorretti dall’organizzazione del partito, che in questo è ancora efficiente).

Fatevene una ragione, non bastano più i richiami alla grandeur di RomatornaRoma, gli echi di Festival del Cinema e Notti bianche, per far credere che Roma sia una capitale europea. La gente vive nel terzo mondo ogni giorno, il centrosinistra raccoglie ancora il voto delle enclave dei municipi dove vivono i privilegiati, ma sempre meno, perché anche lì l’abbandono e il degrado proliferano come una malattia contagiosa.

Fa impressione che un partito che per tanto tempo ha messo al centro del suo progetto per un mondo migliore le persone, e valori come l’uguaglianza, la solidarietà, la difesa del bene comune, si sia ridotto a usare come principale argomento elettorale l’ennesima candidatura Olimpica, in una città stremata dai grandi eventi precedenti, giocando sulla retorica sportiva e su quella degli eventi-che-creano-posti-di-lavoro. Oltretutto con un paradossale scambio di ruoli che vede il candidato PD Sindaco della Capitale dare per scontata la sua subalternità a un comitato sportivo, anche per quelle decisioni che riguardano i progetti urbanistici e l’eredità che dovrebbero lasciare le Olimpiadi alla città.

E altrettanto tristi sono i messaggi scelti dalla campagna elettorale del PD e del suo candidato per parlare alla città, evidentemente frutto di una comunicazione maldestra e povera di idee - anche perché costretta ad attingere a un repertorio povero di contenuti orignali e convincenti - che ha ripiegato su temi segnalati dai sondaggi come le buche - non per niente in comune con gli altri contendenti - messe in pole position insieme alla riduzione delle tasse, o su formule stantie come il tormentone romanesco (con tanto di “Società dei magnaccioni”), come se la strizzata d’occhio pseudo popolaresca potesse cancellare il profondo fossato che divide da tempo la politica dai cittadini.

E soprattutto nel Partito Democratico, nato dalle ceneri del Partito Democratico della Sinistra, manca appunto la sinistra. Mancano i valori di sinistra. Molti sostenitori del Partito Democratico rinfacciano ai Cinque Stelle di non avere un sistema di valori condivisi, cioè quei fondamenti indiscutibili, come la tutela dei deboli e la giustizia sociale. E agitano il rischio - reale - di derive demagogiche che oscillano tra mondi di destra e di sinistra in base alla pancia e agli umori dei sostenitori o degli attivisti in rete. Però dovrebbero a questo punto interrogarsi su cosa è rimasto oggi dei valori che hanno condiviso e difeso quando il PD si chiamava PCI, poi PDS, poi DS. Valori che non basta scrivere nei codici etici, nella carta dei valori o nei programmi elettorali, devono essere messi in pratica ogni giorno, da tutti.

Ed è devastante sapere che quei valori per cui si sono battuti e sacrificati i nostri padri e nonni oggi non hanno più significato per la maggior parte della gente, che sostiene”che destra e sinistra sono uguali”. Se sono tanti a pensarla così, è perchè molto spesso sono uguali i partiti, i comportamenti, gli interessi. I valori sono ancora diversi, anche se bisogna trovare nuove forme, linguaggi e canali per farli vivere di nuovo.

Mafia Capitale ha segnato una ferita e un solco, tra chi continua a perseguire le vecchie logiche politiche spartitorie e chi invece si batte per l’interesse pubblico e la partecipazione dei cittadini. Il monocolore M5S non può funzionare da solo, ha bisogno di sostegno, competenze e anche confronti critici con le realtà più diverse, anche della politica. Penso che un percorso possibile sia quello che sta cercando di costruire il nostro Laboratorio per una Politica trasparente e democratica, che vuole tenere aperto uno spazio di confronto tra realtà della società civile e quei pezzi di partiti e movimenti – compresi i simpatizzanti di quei partiti che oggi sembrano antagonisti inconciliabili come PD e M5S – che vogliono davvero costruire il cambiamento. Questa campagna elettorale è stata devastante, ha portando il conflitto tra le due principali forze politiche fino a livelli inaccettabili**, spaccando la città e esasperando pregiudizi e sospetti anche tra persone che potrebbero avere molto in comune. Bisogna ricucire il dialogo e il confronto.

Coraggiosi, M5S e non, cercasi.

*al primo turno: Marino 512.720 voti, Giachetti 320.170 voti

** La campagna contro Virginia Raggi per i due incarichi alla ASL di Civitavecchia da 13000 euro segnalati tardivamente al Comune, al di là del giudizio sul fatto in sé, è stata davvero indegna. L’invio di SMS anonimi agli elettori che definivano la candidata Raggi una bugiarda è un episodio inaccettabile, su cui spero che il Partito Democratico vorrà fare chiarezza prendendo le distanze dai suoi autori. E voglio ricordare che una simile e virulenta campagna denigratoria - sostenuta sfacciatamente da testate giornalistiche un tempo autorevoli - non ricorda neanche lontanamente quella condotta verso avversari del centro destra come Alemanno. Questi sistemi non sono accettabili da nessun sincero democratico.

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