«E’ tempo di dare finalmente spazio a conoscenze e professionalità , perché la credibilità di una classe dirigente si misura anche dalla capacità di studiare proposte valutandone correttamente la sostenibilità».la città invisibile online,16 novembre 2016 (c.m.c.)
Ci siamo: a leggere le velenose polemiche tra il Presidente Rossi ed il Ministro Galletti, condite dalle inevitabili repliche di tecnici tirati in ballo sulla responsabilità di ipotizzati ritardi procedurali, l’aereo proveniente da Roma che porterà in dono a Firenze la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) del nuovo aeroporto di Peretola sembra stia per atterrare.
Manca veramente poco e poi finalmente il PARERE POSITIVO, cum summo gaudio, sarà annunciato non dal Papa ma quasi, vista la folta e qualificata rappresentanza dei favorevoli, che partendo dal Presidente del Consiglio, passa da Ministri e Sottosegretari, attraversa le istituzioni regionali e locali, coinvolge gran parte delle associazioni di categoria, e trova appoggio incondizionato nella stampa, mi pare senza eccezioni. L’Annunciazione, come andrebbe correttamente definita, sarà celebrata con un coro giubilante più numeroso di quello della Scala.
I giornali titoleranno con grande enfasi l’esito positivo della procedura, e accoglieranno con tante virgolettature le entusiastiche dichiarazioni dei padri di questa opera prodigiosa, perché pensando trattasi di una vittoria, tanti saranno quelli che se ne attribuiranno il merito. E d’altronde anche Flaiano diceva, a modo suo, che un vizio degli italiani è sempre stato quello di salire sul carro del vincitore.
Ma attenzione a non farsi trarre in inganno dal luccichio della festa, perché in questo caso, diversamente da come dice il proverbio vedrete che, il topolino partorirà la montagna.
La Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente (il topolino), da mesi sotto assedio, produrrà probabilmente un documento che in premessa riporterà la locuzione PARERE POSITIVO (forse anche in grassetto e sottolineato come tante volte fatto), ma non mancherà di aggiungere un lungo, se non lunghissimo, elenco di prescrizioni riguardanti tutti i temi ambientali (dal rumore alla sicurezza idraulica), tutte le interferenze infrastrutturali, le necessarie tutele sanitarie e della salute pubblica, senza mancare di citare anche il tema della sicurezza del volo verso i trasportati e la cittadinanza e forse un passaggio sulle necessarie garanzie finanziarie visto che i costi dell’opera, anche solo per dare attuazione a tutte le richieste, lieviteranno a dismisura (e tutto questo costituirà la montagna).
Una montagna di prescrizioni (azzardo un numero: più di 100, se si conteranno anche tutte quelle ulteriori sub-indicazioni che le stesse prescrizioni potranno contenere al pari di un atto normativo suddiviso in articoli e commi) che schiacceranno l’intero progetto rendendolo irrealizzabile, come già successo per altre grandi opere similmente controverse e discusse. Una per tutte: l’autostrada tirrenica, che qualcuno considerò come già realizzata quando il Ministero dell’Ambiente concluse positivamente la procedura di VIA, e che a oggi sembra sia ancora in grembo a Giove, e d’altronde non poteva essere diversamente visto che il parere VIA su di essa fu accompagnato da oltre 150 prescrizioni che – di fatto – costituirono una bocciatura mascherata.
Perché è bene essere chiari su una cosa: in tema di valutazioni ambientali, il rapporto tra “progetto” e ”valutazione” è direttamente proporzionale: più il progetto è scarso o carente di contenuti più è alto il numero di prescrizioni ad esso attribuite, al fine di sopperire a quanto non è stato approfondito nella proposta.
E d’altronde, se non c’è la volontà di bocciare l’iniziativa, se si pretende di mantenerla in vita (perché così si è deciso e non si vuole tornare indietro), ma c’è la consapevolezza che la documentazione non risponde ai canoni di accuratezza previsti (e l’aeroporto di Firenze, non vi è dubbio, sarà assunto come esempio di approssimativa se non pessima progettazione), l’unica via di uscita onorevole per chi ha un ruolo tecnico è legata alla possibilità di predisporre una accurata elencazione di tutto ciò che non è stato fatto e che dovrà essere necessariamente fatto prima che l’opera sia realizzata.
Che non sia il caso di vantarsi eccessivamente di tali compromessi, credo ne convengano in molti. Cosi come molti pensano che sia giunta l’ora di pretendere progettazioni rispettose delle leggi, all’altezza delle aspettative, fatte da tecnici indipendenti, professionalmente qualificati e competenti.
E’ tempo di dare finalmente spazio a conoscenze e professionalità troppo spesso relegate in ambiti marginali del processo decisionale dove invece eccelle la mediocrità, perché la credibilità di una classe dirigente si misura anche dalla capacità di studiare proposte valutandone correttamente la sostenibilità.
A prescindere da ridicole diatribe tra politici alla disperata ricerca di un colpevole da mettere alla gogna per nascondere i propri limiti, se tali principi non entrano nel sentire comune, topolini, ahimè, continueranno a partorire montagne.
«Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza». La Repubblica, 15 novembre 2016 (c.m.c.)
Col suo enorme senso pratico, forse oggi Gian Lorenzo Bernini penserebbe che sarebbe stato meglio se papa Alessandro VII avesse scelto l’altro progetto che l’artista gli aveva presentato: un grande Ercole che reggeva a fatica l’obelisco, incredibilmente storto tra le sue mani. Invece papa Chigi volle proprio l’Elefante, antico simbolo della sapienza orientale, raffigurato mentre portava nella Città Eterna questo obelisco, rinvenuto nel tempio di Iside, che stava sotto il tempio di Minerva che stava sotto la chiesa della Madonna, in quella spettacolare stratificazione della storia che si chiama Roma.
E non c’è dubbio che vedere oggi spezzata quella zanna che Ercole Ferrata scolpì seguendo il modello di Bernini colmi il cuore di tristezza. Ma bisogna pur ricordare che il patrimonio culturale della nazione è in lutto per perdite incomparabilmente superiori: quelle causate dal terremoto dell’Italia centrale, e soprattutto dal terribile smantellamento della tutela, che ha impedito prima di mettere in sicurezza e poi di soccorrere le opere e le architetture.
Se c’è un filo che unisce queste perdite così diverse per cause e dimensioni, è il nostro largo analfabetismo figurativo. Già, perché l’unico presidio vero del patrimonio è la diffusione della cultura artistica, che passa in primo luogo attraverso l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole.
Un insegnamento tradizionalmente del tutto insufficiente, ulteriormente tagliato dai governi Berlusconi e che questo governo ha annunciato di non voler ripristinare. Eppure l’unica difesa possibile di un patrimonio così capillarmente diffuso sarebbe la consapevolezza dei cittadini, che inibirebbe i singoli atti inconsulti e censurerebbe le politiche che minano la tutela: gradi diversi di un unico vandalismo, in ultima analisi dovuto all’ignoranza. Vandali, diceva Antonio Cederna e prima di lui Raffaello, siamo tutti noi.
L’unica cosa da non fare ora è riaprire il dibattito sulla sostituzione delle opere con delle copie o, peggio, sulla chiusura di piazze, scalinate, sagrati. L’Italia è l’Italia perché la bellezza è offerta a tutti: papa Chigi non volle l’Elefantino in un chiostro, o in un cortile aulico, ma nel mezzo della pubblica piazza, in una Roma che nel 1665 era – per quanto sia difficile crederlo – assai più sporca, maleodorante e anarchica di quanto non lo sia oggi.
Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza. D’altra parte è proprio per questo che ci è così cara: perché il suo corpo condivide la stessa sorte del nostro.
Corriere della Sera, 8 novembre 2016 (m.p.r.)
Vecchi che piangono. Che resistono. Che non si arrendono. Pazienti in transizione, li chiamano i medici. Hanno perso tutto, devono andarsene ma non se ne vorrebbero andare. La somma di quel che manca ai sopravvissuti del terremoto è enorme: case, odori, rumori, umori, la memoria del corpo e degli affetti, le pietre, l’erba calpestata, i rintocchi di una campana. «La distruzione è un dolore immenso, il sisma è come una guerra. Dopo bisogna ricostruire», dice la psicanalista Lella Ravasi. «Ma i traumi non sono una sconfitta, possono diventare storie, memorie, una spinta per andare oltre. In quelle case polverizzate c’è il senso della vita, l’impronta di chi ci è stato». L’anima dei luoghi.
«È questo amore, questo rispetto, questa dignità che evoca la gente anziana dei borghi. È per quest’anima che vogliono tornare. Dentro la sofferenza c’è uno straordinario messaggio di vita, contro la terra che sprofonda, contro ogni tipo di deportazione. È la speranza che risale dopo un lutto, la forza di gridare che non si può perdere il rapporto con il luogo che sentiamo nostro, è l’umanità che va difesa e salvata», spiega. Nel dramma si pesano le cose che contano. «Si torna ai gesti primitivi, al valore dei sentimenti veri. Nell’attaccamento che abbiamo visto, anche da parte dei giovani, c’è il tentativo umano di andare contro la morte, di recuperare frammenti di memoria che danno senso alla vita».
Amatrice, Arquata, Ussita, Preci, Visso, Castelluccio, Fiastra, Sarnano, Camerino. Quanto pesa il dolore per gli anziani che hanno questi luoghi dentro la pelle? «Un peso schiacciante», risponde il gerontologo Carlo Vergani. «Il borgo amico è l’ancora di salvezza dei vecchi, l’ambiente dove affondano le radici. È quel che resta di una vita soggetta a continue perdite, che configura la loro identità». Si può reagire, si deve reagire.
«L’anima dei luoghi evoca dentro di noi la forza dei primi tempi di vita, bisogna guardare avanti per non soccombere», dice Ravasi. Gli anziani sfollati devono aggrapparsi a qualcosa, aggiunge Vergani, studioso della nuova longevità: «Quando il borgo crolla e le radici vengono estirpate, anche la sfida adattativa viene meno. Se la difficoltà supera la forza residua subentra la desistenza. La resa». E ricorda uno studio dell’università di Boston sulle persone anziane sopravvissute al terremoto del 2011 in Giappone: «L’allontanamento dalle case e dai vicini non solo può provocare problemi di salute mentale come il disturbo da stress post traumatico, ma può anche accelerare il declino cognitivo in chi è vulnerabile».
La sfida adesso è la ricostruzione, tornare e recuperare quei sentimenti che creano comunità. Ma come e con chi? Basta mettere le case in sicurezza? «No, non basta», dice Carlo Ratti, docente al Mit di Boston, «in certi posti non c’è più nemmeno lo scheletro delle case. Accanto al vissuto bisogna ricostruire uno spirito, portare in questi luoghi segnati da abbandono, il lavoro, i giovani, internet, la modernità delle tecnologie intelligenti. Bisogna dare valore. Si può pensare al turismo, dare gli incentivi, restaurare i monumenti, ma la vera svolta viene dal lavoro, attività produttive legate alla terra, agricoltura bio, qualità delle filiere diffusa attraverso la Rete». Ratti, teorico della smart city, pensa alla robotica che ha fatto fare un salto di qualità ai trattori della New Holland («Si guidano da soli nelle zone impervie») e ricorda l’investimento di Google in Boston Dynamics, la società di ingegneria che ha creato il mulo meccanico per l’esercito Usa. «L’anima antica e l’anima del futuro in questi luoghi può essere saldata con la terra. È importante creare nuove opportunità con la tecnologia, rispettando la storia. Se muore la Civitas, scompare anche l’Urbs. Per questo, con gli anziani, devono tornare giovani e lavoro». Per salvare un patrimonio che fa parte di noi.
“Le regole sono assurde. Per poter fare un puntellamento di uno stabile che ha un certo valore storico-artistico si deve trovare l’assenso di una serie di enti che non sempre sono in accordo l’uno con l’altro”, spiegava Marinangeli. La sua voce tutt’altro che isolata. “Il terremoto di domenica scorsa ha gravemente lesionato la nostra duecentesca chiesa di San Francesco e solo giovedì ho avuto l’autorizzazione a metterla in sicurezza. Ma lo sanno che con uno sciame sismico cinque giorni sono un’eternità?”, rincara la dose Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno. Sembra sia andata persino peggio a Caldarola, altro comune del maceratese dove gli interventi non ci sono stati proprio, almeno a sentire il sindaco Luca Giuseppetti.
Così non si sa nulla del Castello Pallotta e del santuario di Santa Maria, non diversamente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Borgo Piandebussi, del castello e dell’antiquarium di Pievefavera e della chiesa della Santa Croce a Croce. Ma il punto non è quel che non si è fatto, almeno nell’immediato a Amandola, Ascoli Piceno e Caldarola. Il disastro è generalizzato.
Su questo il fronte degli amministratori locali è concorde. Servono troppi permessi. Per saperlo non è necessario essere un sindaco. Basta possedere un qualsiasi immobile vincolato e dover provvedere a un intervento di restauro. è innegabile che le procedure amministrative per giungere alla realizzazione dell’intervento sono difficili. Sia relativamente alle modalità che ai tempi.
Constato questo gap, tra la necessità di interventi rapidi e il dovere istituzionale di assicurare che siano garanti gli standard di scientificità richiesti dalle normative, quale potrebbe essere la soluzione? Quale la modalità per fare “presto e bene”? Non occorre scervellarsi. Inutile pensarci. Tutto sistemato. Ci ha pensato il Consiglio dei ministri del 4 novembre.
“Per la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico, i Comuni interessati hanno la facoltà di effettuare direttamente gli interventi indispensabili, dandone comunicazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, la misura che risolve ogni cosa. Et voilà, verrebbe da dire. Quanto questa decisione risolva i problemi evidenziati dai sindaci dei centri spazzati via dal sisma del centro Italia, lo diranno i risultati che si raggiungeranno. Non soltanto in termini di rapidità, ma anche di qualità.
Quel che invece da subito appare inequivocabilmente evidente è che così si esautora sostanzialmente il ruolo delle Soprintendenze. Di più, si esaspera quella marginalizzazione già in atto da tempo dei tecnici che lavorano per gli uffici del Mibact. messi da parte restauratori, storici dell’arte, architetti e archeologi per far posto ai sindaci. Da ora, la salvezza di una chiesa oppure di una torre, di un castello o di un antiquarium dipenderà dalla loro capacità di darsi delle priorità, capacità di scelta, ad esempio, tra una ditta o l’altra. La sopravvivenza del patrimonio storico-artistico e archeologico dipenderà dal loro interventismo.
Un punto però deve essere chiaro. Il problema non sono i sindaci e neppure la loro difficoltà a provvedere, tanto più in situazioni di emergenza, a quel che necessita di cure. Il problema non è neppure quel che riusciranno a fare. Loro, i sindaci, sono davvero preoccupati. Così, questa misura che gli affida anche il patrimonio storico appare come l’unica soluzione possibile. Nella realtà non lo sarà, probabilmente. Anche se è una scelta che l’opinione pubblica, insomma quella degli non addetti ai lavori, osserverà con favore.
“Le Soprintendenze tra un parere e l’altro fanno passare mesi e intanto la distruzione prosegue. Finalmente ora ci sarà chi decide senza perdere tempo”, pensano in molti. E ognuno a citare un esempio. Per sentito dire, per esperienza diretta. Il vero problema è che a scegliere questa misura sia stato il Consiglio dei Ministri. Il guaio è che ad adottare questo provvedimento sia stato un Presidente del Consiglio e, considerate le competenze, il Ministro dei Beni culturali, con ogni probabilità ascoltato il parere del commissario per la ricostruzione. Hanno scelto di non scegliere. Facendo ricorso alla soluzione più demagogica e più irragionevole che ci fosse.
Una rapidità quella di Renzi e Franceschini sorprendente e peraltro utilizzata a intermittenza. Come non pensare ad esempio alla Soprintendenza unica speciale per il terremoto annunciata dal Ministro il 17 ottobre ma ancora in attesa di essere presentata? Ancora. Non sarebbe stato più utile rafforzare il ruolo delle professionalità all’interno delle Soprintendenze, facilitandone il lavoro, delineandone le strategie? In territori nei quali il sopraggiungere di eventi climatici sfavorevoli rischia di aggravare rapidamente le criticità provocate dal sisma, le esperienze delle professionalità delle Soprintendenza avrebbero potuto essere valorizzate. Finora si ha l’impressione che non sia accaduto. La crociata di Renzi e Franceschini contro la tutela tentata dalle Soprintendenze rischia di cancellare quel che resta.
Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016 (p.d.)
C’è un forte scontento per il modo in cui il governo, e per esso il ministero dei Beni culturali, sta da mesi trattando (o non trattando) la scottante materia del dopo-sisma fra Lazio, Umbria e Marche. A settanta giorni dalla prima grave scossa del 24 agosto s’inizia soltanto ora a parlare di Soprintendenza speciale per le zone terremotate nella bozza del decreto bis sul sisma.
“Le chiese di Norcia e di Campi si potevano salvare”, s’indigna Bruno Toscano, storico dell’arte, il più penetrante conoscitore di quei territori, protagonista del dopo-terremoto del ’97. “Dopo il 24 agosto bisognava puntellare quanto si poteva, subito. Come si fece per la Basilica di San Francesco ad Assisi subito dopo la scossa del 25 settembre 1997 senza aspettare quella del 4 ottobre che sarebbe stata devastante. Qui i forti terremoti si susseguono a cadenza quasi regolare: 1958, 1969, 1997, 2016. E invece niente prevenzione”.
Era pure venuta qui, in missione, il segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, architetto. Perché non ha deciso nulla di concreto? Perché non ha seguito l’esempio dell’ultimo, forse, grande segretario del ministero, Mario Serio, che nel ’97 si assunse col commissario straordinario Antonio Paolucci, assistito da strutturisti quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi, la responsabilità totale delle grandi gru e della foresta di tubi d’acciaio montata fra Umbria e Marche, cominciando dal timpano della pericolante Basilica Superiore? Dove sono finiti i tecnici del ministero per i Beni culturali?
Hanno lavorato come matti per visitare, con un gruppo di ingegneri strutturisti – lo racconta uno di questi, Antonio Borri – quasi tutte le chiese della Valnerina. Misure concrete? Zero via zero. Con la frustrazione di veder crollare ciò che era salvabile dopo il 24 agosto. “Ce ne sono ancora di tecnici nelle Soprintendenze?”, si domanda scettico un grande archeologo, Mario Torelli, per decenni docente a Perugia. “I più mi risultano imbucati nei Poli museali dove lavorano meno e con meno responsabilità: in tutta l’Umbria è rimasto un solo archeologo dove cinque anni fa ce n’erano otto”.
La Soprintendenza unica voluta a tutti i costi dal ministro Dario Franceschini fra proteste diffuse ha qui come segretaria una distinta archivista. Del resto del terremoto se ne occupa non il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, con Franceschini e con magari il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ma Matteo Renzi in prima persona, con al fianco l’archistar Renzo Piano. Non lo vedrete mai con un soprintendente. Il premier detesta “la figura più mediocre e grigia della burocrazia”; “un potere assurdamente monocratico”, come ha scritto pochi anni fa.
Per questo il ministero dei Beni culturali è ormai un vecchio corpo, indebolito dalla fame e dai continui interventi chirurgici, otto riforme, ultima la riforma-killer Renzi-Franceschini: conta appena 539 architetti per tutta Italia, un pugno in Umbria e Marche, ancor meno archeologi (384) e storici dell’arte (397), con una percentuale altissima, la metà, oltre i 60 anni e una bassissima di trentenni, fra il 2 e il 7 per cento. Da piangere. Tutti accorpati o in via di accorpamento ora nelle Soprintendenze uniche e quindi impegnati a disfare uffici, a trovarne altri, a dividerseli coi musei scissi dalle Soprintendenze perché valorizzazione e promozione non vengano “contaminate”, guai mai, dalla tutela.
Ora il commissario straordinario Vasco Errani – che viene da una situazione emiliana dove la ricostruzione delle fabbriche è stata rapida, mentre non pochi ritardi emergono per i centri storici – ha deciso di affidare la tutela ai Comuni. Gesto disperato. Sono i Comuni, in testa il sindaco di Matelica (Macerata), a reclamare più Stato, più interventi ministeriali efficienti e competenti. “Purtroppo si è sprofondati ovunque nell’ignoranza e nell’incompetenza”, commenta lo storico dell’arte spoletino, Bruno Toscano.
“Con Michele Cordaro, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro, facemmo realizzare vicino a Spoleto, a Santo Chiodo, un grande magazzino di 22 mila metri cubi, pagato dallo Stato, per il pronto intervento e il non meno pronto ricovero delle opere d’arte nelle chiese, nei conventi, nei palazzi terremotati. Sa cosa ci ha messo dentro la Regione Umbria? Le cartacce del proprio archivio”.
E ora molte opere d’arte sono ancora lì in mezzo alle rovine. Né si sono montati quei grandi tendoni impermeabili che, coprendo le macerie, le riparano dai furti e soprattutto dalle piogge, dalle intemperie, consentendo, loro sì, di recuperare colonne, capitelli, pezzi di tortiglioni e di sculture, cornici, fregi, e quant’altro servirà a una ricostruzione il più possibile filologica.
Una misura ormai di routine. E ora sono arrivate le piogge. Quel “ricostruiremo com’era e dov’era” rischia di essere, con questo personale politico e scientifico, soltanto una vaga promessa.
La Repubblica online, blog "articolo 9", 3 novembre 2016
Pubblico di seguito una lettera del professor Antonio Borri, Ordinario di Scienza delle Costruzioni nella Università degli Studi di Perugia e Presidente del Centro Studi Mastrodicasa.
«Caro Prof. Montanari,
ho letto i suoi articoli riguardanti la mancata tempestività del MiBACT ad intervenire con le messe in sicurezza delle chiese nell’Italia centrale, in particolare in Valnerina, e le scrivo per dare un contributo a questo tema.
Conosco, almeno in parte, la situazione, dato che in questi ultimi due mesi ho coordinato una squadra di ingegneri strutturisti che a partire dai primi di settembre ha fornito un supporto tecnico ai funzionari del MiBACT incaricati di effettuare i rilievi dei danni al patrimonio culturale colpito dal sisma.
Credo sia giusto riconoscere anzitutto l'abnegazione e la competenza di questi funzionari del Ministero e delle Soprintendenze che si sono resi disponibili a fare i sopralluoghi in condizioni di notevole rischio, spesso rimettendoci peraltro di tasca propria, sotto la formula – già questa fonte di molte perplessità – del “volontariato”.
Noi strutturisti universitari che li abbiamo accompagnati ci siamo presi, insieme al rischio fisico, anche la responsabilità di valutare l’agibilità o meno di queste costruzioni e di indicare le eventuali necessità di provvedimenti di pronto intervento. Il tutto, ovviamente, a titolo gratuito e volontaristico, come peraltro avevamo fatto nei sismi degli anni passati.
In questi ultimi due mesi abbiamo visto quasi tutte le chiese della Valnerina, e in molti casi erano necessari interventi rapidi, quanto meno per mettere in salvo i beni mobili.
Spesso, purtroppo, a queste indicazioni e a queste proposte di provvedimenti non è seguito alcunché.
L’ultima scossa di magnitudo 6.5 ha causato il crollo di moltissime di quelle chiese che avevamo esaminato, e, guardando indietro, non posso evitare di fare un amaro bilancio: tutto il lavoro svolto, con tutti i rischi connessi, non è servito assolutamente a nulla.
Posso dire che mai, nel futuro, ci presteremo ancora a supportare filiere così inefficienti e inadeguate.
Adesso è giusto domandarci: se fossero stati fatti subito interventi di prevenzione nei confronti di eventuali nuove scosse (peraltro previste dai sismologi) si potevano evitare questi crolli?
In molti casi la risposta è negativa; l’intensità dell’evento del 30 ottobre è stata elevatissima ed intervenire in emergenza su questi manufatti, specie quando sono così numerosi, è davvero problematico, se non impossibile. Al di là dei problemi burocratici per avviare le procedure amministrative per i progetti ed i lavori (come sappiamo, quando in Italia si vogliono fare i lavori di urgenza si fanno…) non sarebbe stato comunque possibile trovare tecnici ed imprese che in poco tempo potessero intervenire dappertutto.
È vero però - e qui mi riallaccio alla sua indignazione - che per molti casi si poteva realisticamente sperare in esiti migliori. Ad esempio, se fin dall’inizio fossero state individuate le chiese maggiormente significative e rilevanti, si poteva intervenire in modo adeguato almeno su queste.
Difficile dire come sarebbe andata, ma certo era assolutamente doveroso tentare.
E sarebbe bastato salvarne uno, anche solo uno, di questi capolavori storico-architettonici, per poter dire, adesso, che (almeno) qualcosa avevamo fatto. E invece: nulla, e quello che è avvenuto supera purtroppo di gran lunga, per quanto riguarda i crolli delle chiese, i danni sismici dell’Aquila.
Certamente colpisce la lentezza e la farraginosità del processo decisionale al Ministero, con rallentamenti, sovrapposizioni, rimbalzi e stasi che sono inaccettabili per situazioni come queste.
Non si capisce, francamente, come mai, dopo una serie continua di eventi drammatici e distruttivi (Umbria-Marche, L’Aquila, Emilia) il MiBACT ancora non abbia messo a punto, come invece ha fatto da tempo la Protezione Civile, una macchina operativa efficiente e snella.
Sino ad ora tutto sembra procedere invece, almeno dal punto di vista sistemico-burocratico (non come impegno, encomiabile, dei singoli) come se fossero nell’ordinario, ovvero “bradipo-like”.
Concludo facendole io una domanda: la ricostruzione di queste chiese ridotte a rovine, che peraltro costerà centinaia di milioni di euro, cosa ci restituirà di quel patrimonio che avevamo?
Temo di conoscere già la sua risposta….
Un cordiale saluto.
Antonio Borri»
Ritratto di città italiana, una volta bellissima. Le forze che, maneggiando governanti complici o inetti, la stanno distruggendo. Questa, come tante altre. La città invisibile, 2 novembre 2016
Dov’è finito il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini? Dov’è finito il suo Ministero e con esso le Soprintendenze? Nelle cronache televisive del sisma fra Umbria e Lazio non sono praticamente mai apparsi. La scena se l’è presa tutta Matteo Renzi, accompagnato dai tecnici della Protezione Civile e da Renzo Piano. Come se la prese all’Aquila, tutta quanta, Berlusconi col fido Bertolaso. Ricordo dei più sinistri, visto che la ricostruzione aquilana è una delle meno riuscite, delle più sbagliate, delle più tardive. Anche lì Soprintendenze emarginate, quasi nascoste. Ma non come oggi.
«Ieri un giovane premier in completo Armani sorrideva alle telecamere presentando al Paese questa nuova nuvola, e il suo architetto che ha dichiarato di votare Sì al plebiscito. Aby Warburg diceva che ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita: evidentemente questo è vero anche per il barocco. Nuvole incluse». La Repubblica, ed. Roma, 30 ottobre 2016
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Massimiliano Fuksas non avrebbe voluto che ciò che perlui era The Floating Space fossechiamato la Nuvola. Ha le sue ragioni, perché in effetti la nuvola vera epropria appare chiusa ermeticamente dentro una sorta di grande acquario: e cosìla sensazione di libertà, movimento, leggerezza comunicate dal nome rischia dimutarsi presto in delusione di fronte all’opera, più raggelante che dinamica.
«. il manifesto, 29 ottobre 2016 (c.m.c.)
Carlo Tansi è uno scienziato eretico, un geologo che da anni denuncia la cementificazione degli argini dei corsi d’acqua, la gestione parassitaria del territorio ed i rischi del dissesto idrogeologico. Dall’anno scorso è capo della Protezione civile in Calabria.
Dottor Tansi, cosa sta succedendo nelle profondità della terra dell’Italia centrale?
Tutto l’Appennino è attraversato longitudinalmente da un sistema di faglie che si estendono dalla pianura padana alla Sicilia orientale. Negli ultimi anni, dal 2009, si sono attivate a pezzi queste faglie. Poi c’è stata l’attivazione della faglia di Monte Vettore. Ogni volta che si verifica uno scatto, c’è un terremoto. Il 24 agosto si è mosso il tratto meridionale di questa faglia. Ieri s’è mossa la parte settentrionale.
La scienza sa in che modo si posso muovere queste faglie?
No. È un effetto domino. Neanche gli americani e i giapponesi sanno prevedere questi meccanismi. Sicuramente le faglie in Appennino centrale si stanno muovendo. Mi riferisco per esempio ai terremoti che si stanno verificando intorno a Firenze. L’unica arma che abbiamo è la prevenzione.
Costruire le case con i criteri dovuti e adeguare tutto il fabbricato?
Sì. I terremoti in Friuli e Irpinia hanno modificato la percezione del problema. Prima, negli anni Sessanta, il calcestruzzo era adoperato in modo scriteriato. E poi c’è il problema dell’abusivismo. Solo in Calabria abbiamo 142mila case abusive. Il problema è che anche quei comuni che hanno aggiornato i piani d’emergenza antisismici, non li divulgano. A fine anno noi pubblicheremo un’applicazione che in caso di sisma guida le persone verso le aree d’emergenza.
In Calabria la «grande botta» potrebbe arrivare?
È una possibilità concreta. Il terremoto di Reggio e Messina del 1908 raggiunse magnitudo 7,2. I terremoti del passato in Calabria sono stati molto più catastrofici di quelli delle ultime settimane in centro Italia. Tra un grado e l’altro della scala Richter, l’energia liberata è 32 volte maggiore. E la differenza è di diverse decine di migliaia di morti.
Lei sta minacciando spesso le dimissioni da capo della Protezione civile in Calabria. Perché?
Io ho accettato l’incarico perché è mia intenzione mettere a disposizione della collettività la mia esperienza tecnica per l’elaborazione di un modello efficace di gestione delle emergenze. In una regione come la Calabria può voler dire salvare migliaia di vite umane. La mia azione ha il pieno appoggio del presidente Oliverio che mi ha dato carta bianca. Purtroppo molto spesso alcuni settori insofferenti al cambiamento in atto tentano di intralciare il percorso virtuoso intrapreso. Mi sono visto per questo più volte costretto a chiarire che o si cambia davvero o me ne torno a fare il mio lavoro.
Il premier Matteo Renzi ha riportato in agenda il ponte sullo Stretto. Non crede che piuttosto sarebbe meglio veicolare quelle ingenti risorse a favore di un piano nazionale di salvaguardia idrogeologica?
Non mi piace mettere in relazione ponte sullo Stretto e dissesto idrogeologico. Ma una cosa è certa: un piano organico per la messa in sicurezza del territorio è una priorità assoluta. Il territorio è l’infrastruttura portante e senza la sua messa in sicurezza non ci può essere sviluppo. Quando si immagina come ripartire le risorse per gli investimenti, si dovrebbe innanzitutto partire da questa considerazione. Penso sia molto più importante mettere in sicurezza gli edifici pubblici a rischio sismico, come scuole e ospedali, mentre molti di quelli privati sono da abbattere. C’è bisogno poi del cosiddetto fascicolo del fabbricato, cioè classificare gli edifici in base al rischio sismico. Questo non fa comodo agli imprenditori del mattone. Se noi non mettiamo in sicurezza l’edificato di Reggio e Messina, il ponte – come dice Mario Tozzi – collegherebbe due cimiteri.
PatrimonioSOS online, 29 ottobre 2016
Patrizia Asproni, nella veste di presidente di Confculture (Confindustria), sintetizzò qualche anno fa al Teatro Argentina una sorta di personale manifesto culturale: "Stesse in me, cancellerei subito il Ministero per i Beni Culturali e affiderei tutto al Ministero dell'Economia e Sviluppo". Una profetessa, una anticipatrice della turbo-cultura renziana. In quella direzione infatti va, in pieno caos operativo, il MiBACT renziano: la tutela e le Soprintendenze finiranno - secondo la legge Madia - sotto i prefetti (già nel sisma di Amatrice le stesse non sono state mai nominate né tantomeno viste) e la valorizzazione turistico-commerciale potrebbe benissimo diventare una branca di Economia e Sviluppo.
La stessa manager ha dato qualche giorno fa con gran clamore di stampa le dimissioni dalla carica di Torino Musei (e Mostre) accusando la sindaca 5 Stelle Chiara Appendino di non averla mai ascoltata e di averla in sostanza costretta al grave passo impedendole, di fatto, di organizzare la Mostra già programmata su Edouard Manet. Mostra che sarebbe stata catalogata dalla sindaca fra quelle "blockbuster", sorta di pacchetti turistici che girano il mondo costando molto e lasciando dietro di sé assai poco, ma che ormai imperversano nell'inesausto e onnivoro "mostrificio" nazionale. A tutto danno di autentiche e sempre più rare mostre "di ricerca" le quali richiedono ovviamente anni di studio e di preparazione.
Uno scontro fra turbo-cultura in salsa renziana (Asproni) e cultura-cultura (Appendino)? Come è già avvenuto per il Salone del Libro, Milano si è subito presentata sulla piazza torinese pronta a rilevare senza problemi l'organizzazione dell'evento culturale. E' in atto una sorta di assedio della Giunta Cinque Stelle di Torino per indebolire la sua presenza in campo culturale a livello nazionale? Qualcuno già lo dice apertamente.
Alla Asproni, manager toscana, molto grintosa, chiamata dal sindaco Piero Fassino (decisamente incline a privatizzare le gestioni museali), Chiara Appendino, dai banchi dell'opposizione, non aveva certo riservato carezze. Anzi aveva più volte attaccato quella politica troppo privatistica, troppo incline ad un costoso e superfluo "mostrificio". Dal canto suo, l'attuale assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Leon, non è una dilettante in materia, a Torino ha ideato e dirige la Carta Musei imitata in altre città. Figlia del brillante economista keynesiano Paolo Leon, uno dei più attivi nel non facile campo dei beni culturali, morto purtroppo pochi mesi fa, è una solida professionista del ramo, sa quello che fa. Sarà interessante seguire gli sviluppi torinesi che sono peraltro anche un termometro italiano.
Huffington Post online, 29 ottobre 2016
Come è ben noto, l'entità delle conseguenze delle calamità naturali sul patrimonio culturale è determinata da cause artificiali, cioè dalla qualità e dalla rapidità degli interventi del dopo-disastro: prima si interviene, più si salva; e più si mette in sicurezza, meno si perde in caso di nuove scosse.
Ieri ho ricordato queste banali verità, chiedendomi cosa sarebbe successo se l'abbazia di Sant'Eutizio o la chiesa di San Salvatore a Campi (e moltissimi altri monumenti) fossero stati puntellati e messi in sicurezza dopo il sisma di agosto.
Quando un giornalista glielo ha riferito, Franceschini - che, incredibilmente, non era sui luoghi colpiti, ma in quella discutibile fiera che è la Borsa del turismo archeologico - ha «sbottato». E vale la pena di leggere la lunare cronaca di Silvia Lambertucci (Ansa):
«"Bellissimo", commenta poi entusiasta, incontrando qualcuno dei tanti soprintendenti e direttori dei musei che stanno partecipando ai lavori della manifestazione campana. "La Borsa del turismo archeologico si sta dimostrando in crescita in questi anni, è una manifestazione su cui investire", aggiunge visitando lo stand del Mibact. Lavorare per far crescere il turismo del Mezzogiorno è importante, sottolinea il ministro. E Paestum, che ora godrà anche di più collegamenti ferroviari, è sulla strada giusta. I cronisti però lo sollecitano a tornare sul dramma del terremoto e sulle polemiche. Franceschini allarga le braccia: "E' stato fatto un lavoro molto scrupoloso, fin dal mattino dopo, il 24 agosto e anche ora. Ma la vastità dei danni comporta che si debbano seguire delle priorità. Sono migliaia le chiese colpite da sisma, penso che proprio su questo fare delle polemiche sia sbagliato"».
Un ministro estasiato di fronte agli stands, mentre sono i giornalisti ad incalzarlo su quello che sarebbe il primo e più alto dei suoi doveri: garantire la tutela del patrimonio culturale della nazione. Da tempo, ormai, al Mibact si dice che a Franceschini dei Beni Culturali importi assai poco: tutto preso com'è dalle trame politiche del dopo referendum. D'altro canto a Firenze si sussurra insistentemente che il sindaco Dario Nardella, in caso di vittoria del Sì, prenderà proprio il posto di Franceschini, destinato agli Esteri. Benissimo: giocate pure al risiko delle poltrone, ma ora il terremoto ci richiama brutalmente alla realtà.
E allora Franceschini deve al Paese una risposta che chiarisca la sua affrettata risposta: per mancanza di fondi non ha potuto mettere in sicurezza tutto il patrimonio colpito ad agosto? È davvero così? Può spiegarci quali priorità ha seguito? E, soprattutto, perché non ha preteso e ottenuto fondi dal Presidente del Consiglio? Perché non ha sbattuto il pugno sul tavolo? Perché non si è dimesso? Ciascuna di queste azioni avrebbe potuto forse salvare i monumenti che oggi giacciono a terra.
Ci sarà tempo e modo di discutere a fondo tutto questo. Ma ora è il momento di agire. Oggi «Repubblica» contiene una straziante lettera di Alessandro Delpriori, sindaco di Matelia ma anche giovane e brillante storico dell'arte. Alcuni passaggi di questa lettera esigono una risposta immediata da parte di Franceschini: «C'è però una ferita che fa male. Sono anche uno storico dell'arte che da anni si occupa dell'arte tra Umbria e Marche. Dopo le prime scosse di Amatrice e Arquata ci siamo subito accorti che la situazione per il patrimonio storico artistico era molto difficile, nella zona tra Fabriano e Ascoli Piceno erano centinaia le chiese inagibili, migliaia le opere d'arte in pericolo. Di fronte a tutto questo le soprintendenze erano in stallo totale, non per cattiva volontà dei funzionari sul territorio che invece sono sensibili e molto attivi, ma nella sostanza non si è fatto nulla».
Ecco il frutto avvelenato dello smantellamento delle soprintendenze voluto da Renzi («soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia», ha scritto) e attuato da Franceschini, che ha investito tutto sulla (pessima, peraltro) riforma commerciale dei supermusei. Il cuore dell'Italia è ora abbandonato a se stesso: il solo funzionario storico dell'arte dei territori colpiti non può certo fare tutto da solo. E, infatti, i mucchi di macerie degli ultimi giorni (mucchi in cui sono mescolati frammenti di affreschi, quadri, sculture) aspettano ancora di essere toccati. Il sindaco denuncia: «questo terremoto e l'immobilità stanno vanificando tutto».
Il terremoto è una calamità naturale, ma l'immobilità del Ministero dei Beni culturali e del suo titolare sono una calamità politica. Che l'Italia non merita.
«Strategia e visione per una città hanno a che fare con l'identità. “Scali ferroviari”: si ripropone una mai risolta questione . Due interventi dal dibattito sugli scali ferroviari». ȦrcipelagoMilano online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)
URBANISTICA SCALI FERROVIARI
LE CITTÀ POSSIBILI
Giulia Mattace Raso
Ogni silenzio ha un suo proprio caratteristico linguaggio, quello che aleggiava nella Sala del Grechetto gremita, in attesa e durante l’incontro dedicato alla riqualificazione degli scali ferroviari e alle città possibili, parlava di una “domanda di senso”. Domanda di senso che riguarda l’oggetto il processo di trasformazione e il destino di queste aree con la consapevolezza che si stia discutendo del destino della città tutta.
E la prima considerazione evidente è dove finisce il tutto di questa città, perché solo con la coscienza della propria dimensione si individua il piano corretto delle scelte. È richiesto un salto triplo concettuale. Se le élite milanesi faticavano a pensarsi fuori dalla cerchia dei bastioni, non hanno immaginario sulla Città Metropolitana, è particolarmente arduo concepire il tema degli scali alla dimensione regionale, quale è rispetto alle reti, come tema di sviluppo e di uguaglianza di accesso alle funzioni urbane.
«Le scelte per la riqualificazione degli scali ferroviari, per localizzazione, qualità e dimensione delle aree, peseranno come e più di un piano urbanistico generale» ma in questo caso devono assumere le fattezze più proprie di un piano strategico, considerando allo stesso tempo un tema di cornice (lo sviluppo ambientale), un tema di scala (“siamo una città di 7 milioni di abitanti”), un tema di direzione (cosa vogliamo diventare).
Il caso di Torino illustrato da Stefano Lo Russo, è quasi lineare nel suo processo di trasformazione “forzata” alle prese con il declino della città fabbrica: si è riconvertita una città intera, con il suo piano urbanistico generale che ha saputo tracciare la via venti anni fa, il PRG del 1995 (le principali strategie: recupero del centro storico, costruire sul costruito, riorganizzazione della struttura urbana, riuso delle aree industriali), con una scelta forte e coerente, portare il trasporto su ferro sotto il piano di campagna e ricucire il tessuto urbano. Bussola operativa: nella trasformazione urbana l’amministrazione pubblica fa da regista, e nelle dinamiche con i privati l’ultima parola spetta al Pubblico.
Punto di partenza e destinazione finale chiari e riconosciuti a Torino per una visione strategica. Milano sembra già in difficoltà a pensare e definire se stessa. Ricordiamo anche solo il dibattito sull’anima della città prima di Expo, quando ci ponemmo il problema di presentarsi al mondo. Pensato in chiave di brand e marketing territoriale, di fatto affrontava il tema dell’identità: non ne siamo venuti a una.
Difficoltà che si scontra quotidianamente nella ambiguità della dimensione amministrativa: l’orizzonte dichiarato è quello della Città metropolitana ma nel dibattito attuale lo scalo ferroviario di Segrate rimane fuori dal conto perché “fuori dalle mura”. Eppure i geografi ci descrivono come una città di 7 milioni di abitanti, le dinamiche non possono certo essere quelle del ritorno immobiliare calcolato per singoli lotti.
Dobbiamo assicurarci che la cornice di riferimento cognitiva sia quella delle nuove logiche di sviluppo (il decoupling), quella dell’era geologica di appartenenza – l’antropocene -, essere consci di dover partecipare, in quanto attori primi del cambiamento come città, alle messa in atto delle convenzioni internazionali. Scrive Gianluca Ruggieri su questo stesso numero: «Più in generale, è urgente chiedersi come si stanno adeguando urbanisti e amministratori alla prospettiva post-carbonio. Ad esempio nella discussione sul destino degli scali ferroviari urbani, qualcuno si sta ponendo il problema di come gestire la logistica senza far uso di mezzi alimentati da benzina e gasolio (obiettivo che l’Unione Europea avrebbe posto ai centri urbani per il 2030)?»
Le sfide non sono banali, è richiesta attitudine nel gestire la complessità e nel cogliere le opportunità di sviluppo, sinergiche solo se i costi e i benefici saranno calcolati in modo complessivo. Minor costo per chi, maggior guadagno per chi: il caso M4 è paradigmatico nei suoi andamenti, quando si scontra una ratio economica pura con la qualità di vita generale della città, riflessa in quella apparentemente “particolare” dei comitati. Ma non si può pensare la partecipazione come opera di mitigazione sociale, accontentare i bisogni dei cittadini senza tenerne in conto i desideri, o si sta rinunciando alla loro spinta fortemente trasformativa.
La qualità della vita è un ingrediente indispensabile della capacità di attrazione della città e se la «reputazione ormai conta più della ricchezza» e il capitale reputazionale viaggia anche sui social media, questo l’abbiamo molto ben imparato con Expo, allora quel che pensano i cittadini non è proprio più così secondario.
CHI DETERMINA
LE SCELTE URBANISTICHE
Sergio Brenna
I due interventi di Favole e Targetti nello scorso numero di ArcipelagoMilano sono quanto mai utili a indicare quali dovrebbero essere gli obiettivi di interesse pubblico generale cui il Comune dovrebbe indirizzare le scelte di trasformazione urbanistica nel riuso degli ex scali ferroviari milanesi: per un verso la risposta alle esigenze della domanda di evoluzione demografica e sociale e per altro verso l’acquisizione da parte del Comune di una quota preponderante della rendita fondiaria da destinare alla realizzazione di infrastrutture pubbliche in ambito milanese-metropolitano, che invece FS/Sistemi Urbani ritiene di poter destinare prevalentemente all’alleggerimento dei propri costi di esercizio.
Entrambi gli interventi concordano che per motivi sia di evoluzione demografica prevedibile sia di andamento del mercato immobiliare, soprattutto residenziale, non vi sia necessità nei prossimi decenni di grandi quantità di edificazioni a libero mercato, quanto piuttosto di edilizia sociale a basso costo per rispondere alla domanda che attualmente è inevasa dal mercato per impossibilità di accedere ai costi gravati dalla rendita fondiaria.
Da questo punto di vista desidero precisare che il richiamo di Targetti all’obbligo di legge degli anni ’60/’70 (L.167/62, modificata poi dalla L. 865/71) di destinare a edilizia economico popolare dal minimo il 40% al massimo del 70% del fabbisogno abitativo decennale stimato, in realtà non è mai venuto meno: semplicemente con il progressivo esaurirsi delle aree a ciò destinate nei Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) approvati in quegli anni e l’estinguersi dei finanziamenti pubblici all’edilizia sociale, lo stiamo di fatto silenziosamente disapplicando, soprattutto dopo che gli strumenti urbanistici vengono approvati solo in sede comunale, senza sostanziali controlli da parte della Regione, se non quelli dell’eventuale contrasto con opere di interesse regionale (strade, centri servizi, ecc.).
Molto interessante è anche il tentativo di Targetti di stimare la redditività del business plan relativo alle quantità edificatorie attualmente previste in PGT e, per quanto lui stesso introduca più volte elementi prudenziali, mi pare che l’ordine di grandezza da lui stimato in 1,2 miliardi di euro in dieci anni sia del tutto attendibile ed evidenzia la sproporzione con le contropartite pubbliche attualmente previste dall’Accordo di Programma non ratificato dal Consiglio comunale nel dicembre dell’anno scorso.
Dissento, invece, dalla sua troppo remissiva considerazione che secondo la legge urbanistica regionale i diritti volumetrici sono sanciti dai Piani Attuativi e non dal Documento di Piano del PGT e che, quindi, ogni Accordo di programma possa integrare ad libitum il PGT (non a caso è ciò che ha dato origine alle spropositate edificazioni di Citylife e Porta Nuova, dove gli indici edificatori contrattati sono stati di oltre 1 mq/mq e gli spazi pubblici realizzabili dell’ordine di soli 15 mq/abitante, contri i 44-45 mq/abitanti promessi): è una procedura che mi ricorda troppo da vicino la prassi disastrosa degli anni ’50/’60 delle “convenzioni” caso per caso, senza o contro le previsioni dei Piani Regolatori Generali, perché non debba allarmarmi.
È bene invece che i diritti volumetrici siano fissati negli strumenti di pianificazione generale in maniera congruente alle quantità di spazi pubblici e alle densità fondiarie che si intendono ottenere, e che i Piani Attuativi (compresi gli Accordi di programma) vi si attengano, salvo articolarne: mediamente non oltre lo 0,50 mq/mq, se si vogliono spazi pubblici effettivamente realizzabili dell’ordine di 45 mq/abitante, irrinunciabili per una città che voglia dirsi confrontabile con le grandi metropoli europee.
Una volta fissata in questo modo la quantità edificatoria ammissibile e, quindi, la base del valore economico dell’operazione di trasformazione urbana, per le grandi proprietà in trasformazione sarebbe più opportuno introdurre l’obbligo di attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari non con il criterio del rialzo del prezzo, ma con quello del ribasso della quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale.
In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori accettabili condivisi, sia massimizzarne l’utilità sociale, sia infine ottenere un esito progettuale conformativo congruente con i tessuti circostanti.
Purtroppo accade esattamente il contrario. Infatti i Comuni spesso applicano elevati indici edificatori nelle trasformazioni poiché da una parte accettano la proposta immobiliarista privata, d’altra sono condizionati dal dover far fronte con gli oneri urbanizzativi a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio. Si accetta, così, l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale. Non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale.
In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. È a riflettere su questi temi che vorrei veder l’attuale amministrazione impegnata a confrontarsi con le forze sociali e intellettuali della città, anziché attardarsi a rimasticare la riproposizione dell’Accordo con FS bocciato dal Consiglio comunale nel dicembre scorso.
«Festa della neolingua. A Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne, campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa al servizio del Mercato». il manifesto, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)
«Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità, comunità o di mercato, marchio, prodotto?
L’esame del contesto moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli Esteri.
Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.
Ma a togliere ogni dubbio era l’apparato non verbale della manifestazione, in Palazzo Vecchio.
Nell’adiacente piazzale degli Uffizi erano infatti esposte due scintillanti auto di lusso: all’incredulità e all’indignazione dei passanti, esterrefatti dalla riduzione a show room dello spazio pubblico monumentale, l’ineffabile assessore (all’Istruzione!) Cristina Giachi replicava che «allo sponsor qualcosa si deve pur concedere». Già, perché un evento cui intervenivano il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e vari ministri aveva in effetti uno sponsor ufficiale: la Maserati.
Non so quanti precedenti abbia una simile scelta, che riduce i vertici della Repubblica a testimonial di un marchio commerciale.
Particolare grottesco, le due auto erano collocate in corrispondenza delle statue di due padri della lingua italiana (cito dal sito della casa automobilistica): «La Maserati Quattroporte esposta a Firenze da questa mattina è di colore bianco ed è situata esattamente sotto la statua di Francesco Petrarca, mentre Alfa Romeo Giulia Quadrifoglio con motore 2.9 litri V6 da 510 cavalli di colore rosso si trova sotto la statua di Giovanni Boccaccio. Questa iniziativa rappresenta uno dei numerosi modi trovati negli ultimi tempi dal gruppo italo americano del numero uno Sergio Marchionne per promuovere la propria gamma di prodotti».
Affidare la bandiera dell’italianità ad un gruppo il cui quartier generale e il cui domicilio fiscale hanno lasciato il Paese e il cui amministratore delegato risiede in Svizzera è esattamente come esporre la strategia di difesa della lingua italiana usando l’espressione inglese «made in Italy»: una ipocrisia grottesca che comunica esattamente il contrario di quanto afferma.
Decisamente più sincera la ministra Giannini. Ad un giornalista che le chiedeva (mesi fa) quale fosse il principale problema della scuola italiana, rispondeva candidamente che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana». Sono parole perfettamente assonanti a quelle dell’introduzione alla riforma su cui voteremo il 4 dicembre: si cambia la Costituzione «per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale».
La lingua italiana serve al mercato, la scuola serve al mercato, la Costituzione serve al mercato, i vertici della Repubblica servono al mercato: le berline di lusso sotto le statue di Petrarca e Boccaccio agli Uffizi sono il simbolo più eloquente di questa incondiziata servitù.
Abituarsi a leggere, a decostruire, a interpretare questo codice simbolico di potere e supremazia significa – per usare le parole di Marc Bloch – preparare «un antidoto alle tossine della propaganda e della menzogna».
Un simile antidoto può giovarci quotidianamente, come può chiarire un esempio preso dall’attualità più stretta. La trasmissione della serie su “The Young Pope” di Paolo Sorrentino aprirà, inevitabilmente, dibattiti e riflessioni sulle reazioni vaticane: ma l’unica reazione incontrovertibile del Vaticano è da qualche giorno sotto gli occhi di tutti, nel centro di Roma.
Qua il bramantesco Palazzo della Cancelleria è coperto da giganteschi cartelloni pubblicitari della serie, con un Jude Law in abiti papali alto venti metri: ebbene, quel palazzo non è solo un apice del Rinascimento, ma è anche una proprietà extraterritoriale del Vaticano. Così il pensiero unico del marketing impone la sua pace in nome dell’unico dio, il Mercato.
Chi dissente non è nemmeno sentito come un nemico, ma come un eccentrico, quasi un demente: un’ondata di gelida incomprensione ha investito la vedova di Lucio Battisti che si oppone al fatto che le canzoni del marito possano essere usate in spot commerciali. Chi l’avrebbe mai detto che “Il mio canto libero” sarebbe diventato l’inno dell’ultima resistenza al dominio del marketing?
Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 (p.d.)
Quello di Italia Nostra è un viaggio alla scoperta di sfregi al bello. Un altro esempio è nel parco di Villa Ada a Roma: le Scuderie Reali in completo stato di abbandono. C’era un piano di restauro con aree per eventi, bar e ristoranti ma la giunta Alemanno considerò il costo eccessivo e chiuse tutto in cassetti che nessuno ha più riaperto.
Proseguiamo questo particolare giro d’Italia in Sardegna: Sinis Cabras, provincia di Oristano, lungo la costa sorgono torri difensive dal grande valore storico-architettonico, come la Torre di Columbargia (fine 1500) e la Torre di Ischia Ruja (1580). Purtroppo rischiano di crollare da un momento all’altro: interventi di consolidamento sono urgentissimi.
Ritorniamo nel Lazio, alla scoperta di un luogo, il Borgo di Fogliano, in provincia di Latina, dove sono stati girati i film della saga di Sandokan. È un antico villaggio di pescatori, con ritrovamenti archeologici risalenti al II sec. a.C., ma “purtroppo l’imponente giardino è in totale stato di degrado e oggi non è neppure chiaro quale ente debba emanare un bando per la gestione del Borgo”, denuncia ancora Italia Nostra.
Le cose non vanno meglio in Veneto: “L’Arsenale di Venezia ha anticipato di alcuni secoli il moderno concetto di fabbrica”. Costruito nel XII secolo è adesso minacciato dal Mose, la mega opera che dovrebbe difendere la Laguna dall’acqua alta. “È confermata – spiega Parini – la manutenzione delle paratoie del Mose dentro l’Arsenale: questo significa costruire capannoni industriali e un mega depuratore (perché le paratoie sono molto inquinate) e costruire i capannoni stessi in Arsenale nord, a ridosso dei tre Bacini di Carneggio storici in pietra d’Istria, che non hanno eguali in tutto il Mediterraneo e sono perfettamente funzionanti. Così i bacini non potranno esser più utilizzati e l’Arsenale, dopo secoli di attività, cesserà le sue funzioni e sarà deturpato come già avvenuto all’esterno con le orribili mega banchine in cemento armato con guardrail. Abbiamo individuato un’area di rimessa a Marghera per costruire questi capannoni, spero che vorranno ascoltarci”.
Sempre in Veneto a rischio anche il Forte Sant’Andrea (Venezia, XVI secolo) e la dimora estiva della regina Margherita di Savoia, Villa Tonello (Recoaro Terme, XIX secolo). Il tragico elenco continua in Puglia con il Castello di Villanova (Ostuni, XIV secolo), completamente dimenticato: non è accessibile al pubblico. E la “lista rossa”, purtroppo, non finisce qui.
Dopo le recentissime “elezioni fantasma” dei consigli metropolitani, quali sono i programmi dei nuovi amministratori della Grande Milano? Un suggerimento: il vero problema è l’hinterland. arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32 (m.c.g.)
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AREA
|
Variazione
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Variazione
|
Variazione
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Variazione
|
Valore
|
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E
|
Assoluta
|
%
|
Assoluta
|
%
|
Assoluto
|
|
DATI
|
1991-2001
|
1991-2001
|
2001-2011
|
2001-2011
|
2011
|
|
POPOLAZIONE
|
|||||
|
Milano Comune
|
-113020
|
-8,25%
|
-14.088
|
-1,12%
|
1242123
|
|
Città Metropolitana
|
-68759
|
-2,28%
|
97841
|
3,33%
|
3038420
|
|
Milano Hinterland
|
44261
|
2,70%
|
111929
|
6,65%
|
1796297
|
|
Italia
|
191969
|
0,34%
|
2463744
|
4,32%
|
59433744
|
|
ADDETTI TOTALI
|
|||||
|
Milano Comune
|
47472
|
6,24%
|
74132
|
9,17%
|
882774
|
|
100579
|
7,13%
|
75329
|
5,03%
|
1571898
|
|
|
Milano Hinterland
|
53107
|
8,19%
|
1197
|
0,17%
|
689124
|
|
Italia
|
1434189
|
7,98%
|
536394
|
2,76%
|
19946950
|
|
ADDETTI MANIFATTURIERI
|
|||||
|
Milano Comune
|
-55674
|
-37,66%
|
-18392
|
-23,27%
|
60640
|
|
Città Metropolitana
|
-103012
|
-23,63%
|
-88677
|
-28,17%
|
226110
|
|
Milano Hinterland
|
-47338
|
-16,43%
|
-70285
|
-29,81%
|
165470
|
|
Italia
|
-424283
|
-7,49%
|
-942338
|
-19,54%
|
3881249
|
|
ADDETTI COSTRUZIONI
|
|||||
|
Milano Comune
|
-1682
|
-5,60%
|
4951
|
16,44%
|
35075
|
|
Città Metropolitana
|
4281
|
6,28%
|
8987
|
11,97%
|
84056
|
|
Milano Hinterland
|
5963
|
15,62%
|
4036
|
8,98%
|
48981
|
|
Italia
|
202123
|
14,42%
|
43836
|
2,82%
|
1597519
|
|
ADDETTI SERVIZI PRIVATI
|
|||||
|
Milano Comune
|
87941
|
20,52%
|
85683
|
16,22%
|
614015
|
|
Città Metropolitana
|
171979
|
26,60%
|
138806
|
16,58%
|
976121
|
|
Milano Hinterland
|
84038
|
38,56%
|
53123
|
17,19%
|
362106
|
|
Italia
|
1314413
|
17,33%
|
1359767
|
16,75%
|
9478155
|
|
ADDETTI ALTRE ATTIVITA’
|
|||||
|
Milano Comune
|
16887
|
10,92%
|
1890
|
1,10%
|
173044
|
|
Città Metropolitana
|
27331
|
10,55%
|
16213
|
6,02%
|
285611
|
|
Milano Hinterland
|
10444
|
10,00%
|
14323
|
14,58%
|
112567
|
|
Italia
|
341936
|
10,28%
|
75129
|
1,53%
|
4990027
|
(pubblicato su arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32)
Cade uno degli strumenti utilizzati dalla cricca partitocratica per sbarazzarsi di un personaggio che rischiava di interrompere la continuità della malapolitica capitolina. Rimane vivo il ricordo della squallida operazione dinnanzi al notaio. Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2016, con postilla
Cadono le accuse di peculato, falso e truffa nelle due inchieste sulle cene da sindaco e le presunte irregolarità per alcune consulenze dell'associazione di cui era presidente. La Procura aveva chiesto 3 anni e 4 mesi. L'ex primo cittadino: "E' stata finalmente ristabilita la verità, ora qualcuno si guardi allo specchio per capire se ha la statura dello statista"
L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto dall’accusa di peculato, truffa e falso nell’ambito del processo sul caso scontrini e le consulenze della Onlus Imagine. La procura aveva chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi. Marino è stato assolto dalle due accuse rispettivamente “perché il fatto non sussiste” (le cene) e “perché non costituisce reato” (le consulenze). “Sono felice me lo aspettavo, sapevo di essere innocente” commenta Marino lasciando il tribunale. “Di fronte ad accuse così infamanti di media e politica molto pesanti è stata finalmente ristabilita la verità”. In una conferenza stampa Marino ha detto che “il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la Capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza“. La sfida con i vertici del Pd è frontale: “Le scuse di qualcuno che ha fatto un’offesa, e non parlo del premier o dell’illuminato commissario del Pd, richiedono capacità di analisi ed onestà intellettuale in base di questo uno deciderà se scusarsi o no”.
Ma cos’è successo nel 2015 per Marino è chiaro: “Siamo ad un anno di distanza dal momento in cui mi dimisi (dimissioni poi ritirate, ndr), sotto le pressioni politiche e mediatiche offensive gravissime e infanganti. Centinaia di migliaia di romani sono stati violentati da un piccolo gruppo di una classe dirigente che si è rifugiata nello studio di un notaio, invece che presentarsi in aula e spiegare se avevano o meno fiducia del loro sindaco”. Nessuno dai vertici del Pd lo chiama. Lo fanno invece, secondo il Messaggero, Massimo D’Alema e l’ex sindaco Walter Veltroni.
Riferimenti
per ricordare gli eventi che portarono alla conclusione del breve mandato di Ignazio Marino rinviamo agli articoli di Alberto Asor Rosa, Angelo d'Orsi, Piero Bevilacqaa, nonche sui risultati di un'indagine interna al PD romano, svolta da Fabrizio Barca.su eddyburg.
SOS Cultura online, 29 settembre 2016
I 31 senatori che hanno firmato l’interrogazione sono prevalentemente del M5s, ma vi sono anche Puppato, Casson e altri del Pd, De Petris di Sel, Tremonti, Malan. A sua volta il senatore del Pd, Walter Tocci, ha presentato analoga, polemica interrogazione. Insomma, un autentico “caso” politico. Gli interroganti sottolineano che l’attuale dirigenza Rai ha già soppresso “Scalamercalli” (Rai 3) di Luca Mercalli, malgrado i “lusinghieri risultati di audience”, un milione di spettatori. Eppure “la sensibilità verso le tematiche ambientali sta emergendo fortemente nell’opinione pubblica e nella politica”, confermata dalle ricerche più recenti di Ilvo Diamanti. Papa Francesco vi ha dedicato una enciclica di eco planetaria. Ben 170 Paesi hanno sottoscritto l’accordo sul clima. E la Rai invece riduce sempre più gli spazi in palinsesto dedicati all’ambiente, al paesaggio, ai beni culturali o ne parla soltanto in termini di spettacolo, di evasione. Pertanto i senatori chiedono di sapere “le ragioni che avrebbero determinato la cancellazione” di Ambiente Italia e la dispersione di una redazione altamente specializzata e di riconsiderare questa decisione, anche in considerazione del rinnovo del contratto di servizio fra la Rai e ll Stato. Già quello del 2012 prevedeva che la Rai garantisse “la comunicazione sociale attraverso trasmissioni dedicate all’ambiente, alla salute, alla qualità della vita (…) assegnando spazi adeguati alle associazioni rappresentative del settore”. E’ avvenuto l’esatto contrario. Ma cosa ha fatto o fa la commissione parlamentare di indirizzo e di vigilanza sulla Rai?
Una dura interrogazione era stata già rivolta alla Rai – tramite la Vigilanza – dal segretario della commissione on. Michele Anzaldi e da altri deputati Pd – ricevendone la risposta che “Ambiente Italia”. ridotta a pochi minuti nel Tg Leonardo, viene così potenziata, dando “nuova carica e nuova linfa all’intera cultura ecologista” (sic). Risposta che l’interrogante giudica “evasiva e arrogante”. Si è mosso lo stesso presidente della commissione Ambiente, Territorio, Lavori Pubblici della Camera, on. Ermete Realacci con una interrogazione “pesante” in cui definisce l’ormai soppressa “Ambiente Italia” «un punto di riferimento per l’informazione ambientale, oltre che un valido supporto in sostegno dell’impegno del terzo settore, della cittadinanza attiva, delle associazioni». E prosegue: «Si tratta di argomenti importanti per la qualità dell’informazione che il servizio pubblico offre al Paese, pressoché ignorati anche dai talk show politici della RAI. Stessa sorte ha subito anche ‘Scala Mercalli’, altro programma di approfondimento a carattere ambientale su Rai3» Realacci desidera «sapere quali ragioni motivino tali decisioni e quali nuovi spazi informativi il servizio pubblico nazionale intenda dare a temi chiave per il futuro del Paese a cominciare dal cambiamento climatico, anche in vista della prossima COP22 che si terrà a Marrakech». La Rai risponderà pure a lui, alla sua denuncia a tutto campo (talk show inclusi) che sta in realtà dando “nuova carica e linfa all’intera cultura ecologista”. Non a caso queste cancellazioni coincidono con il sostanziale “oscuramento” del lavoro delle Soprintendenze nelle aree terremotate e con la miracolosa “resurrezione” del Ponte sullo Stretto sepolto da un voto parlamentare (al quale aderì persino Forza Italia) dal governo Monti tre anni or sono.
Un patto per Firenze, stipulato non si sa bene con chi, ma che, presto, ci dicono i giornali, sarà svelato da Matteo Renzi. D’altronde al premier ... (segue)
Un patto per Firenze, stipulato non si sa bene con chi, ma che, presto, ci dicono i giornali, sarà svelato da Matteo Renzi. D’altronde al premier stanno particolarmente a cuore i destini della città: sempre più spesso interferisce, rassicura, promette. Ha bocciato il sottoattraversamento di Firenze e promosso una nuova linea della tramvia sotto il centro storico con un blitz di fine marzo e la convocazione di una mini-giunta segreta; interessato in prima persona al progetto del nuovo aeroporto fiorentino, tramite il Ministro Galletti ha tranquillizzato a luglio l’amico Carrai - Presidente di Toscana Aeroporti - sull’approvazione entro quindici giorni della Valutazione di impatto ambientale; a settembre, alla Festa dell’Unità, ha di nuovo annunciato l’imminente via libera da parte del Ministero dell’Ambiente.
«Ma ancora niente», si legge sulla pagina fiorentina di Repubblica. E l’articolista aggiunge che, purtroppo, la legge prescrive che la Valutazione di impatto ambientale si faccia su progetti definitivi e non su dei Master Plan, come quello presentato da Toscana Aeroporti, secondo una prassi consolidata. «Solo che in Italia la prassi non è stata mai tradotta in legge, anche se è sempre andata bene (sic), come a Roma e Venezia». Ma non a Firenze, si lamenta la giornalista, «stante la rissosità fiorentina sull’argomento».
Tuttavia lo stesso articolo ci rassicura sul nuovo Patto per Firenze (lo scriviamo doverosamente con la P maiuscola): «Ma è il patto il pallino del premier: “Col Comune facciamo l'elenco delle cose che si fanno e quelle che non si fanno, chi paga e chi non paga. E nel giro di qualche settimana firmiamo un impegno solenne davanti ai fiorentini e a tutte le realtà della città con tempi, interventi, impegni: aeroporto, alta velocità, piste ciclabili, Uffizi, interventi infrastrutturali sui contenitori dello Stato”. … “È un bel momento per Firenze, c'è turismo di qualità, io girando il mondo vedo tanta gente pronta a investire. Il presidente cinese mi ha detto che verrà qui...” …“ facciamo il patto per Firenze e a quel punto non c'è più da chiacchierare c'è da fare”». (Repubblica Firenze, 18 sett.).
I fiorentini e le “altre realtà della città” sono rassicurati. Tra qualche settimana sarà dato loro conoscere cosa è stato deciso nel Patto. Per ora sappiamo che saranno a disposizione 300 milioni (tra vecchi e nuovi stanziamenti); non ne conosciamo la distribuzione, tra aeroporto, alta velocità, interventi sui contenitori, ecc.; siamo quasi certi che non andranno alla cosiddetta “pensilina Isozaki”, progettata per una nuova entrata negli Uffizi, che a Renzi “non è mai particolarmente piaciuta” (Repubblica Firenze 18 sett.). Sicuramente, la fetta più consistente andrà all’aeroporto, nonostante che l’Unione Europea ne escluda la possibilità di finanziamento pubblico. Ma tant’è: se si ignorano le leggi italiane, perché si dovrebbero osservare le disposizioni dell’Unione Europea?
Nel frattempo prosegue la mercificazione della città, di cui sono in vendita non solo edifici e complessi storici, con variante urbanistica incorporata, ma gli stessi usi dello spazio pubblico: prima il Ponte Vecchio affittato alla Ferrari, poi piazze e strade privatizzate per matrimoni di figlie e figli di magnati indiani ed eventi di “guru della moda”; l’ultima perla è la concessione del cortile di Palazzo Pitti per un addio del celibato (perché non con spogliarelliste? commenta Tomaso Montanari). Vi è un filo che unisce le interferenze dell’ex Sindaco, con le improvvide e volgari iniziative di quello attuale. L’idea che i destini di una città siano doverosamente eterodiretti, senza che i cittadini abbiano voce in capitolo.
“Patto”: «convenzione, accordo fra due persone o fra due parti» (dal vocabolario Treccani). Ma non si intende tra Renzi e Nardella, dovrebbe essere tra Sindaco e cittadini. E perché, poi, l’amministrazione delle nostre città deve essere affidate non a progetti lungimiranti, ma a improvvisazioni pattizie, con fondi graziosamente elargiti dal monarca? In attesa dell’arrivo di Xi Jinping, cui come minimo dovrebbe essere offerto in comodato Palazzo Vecchio.
«Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale».Millenniourbano online, 21 settembre 2016 (c.m.c.)
Chi non vorrebbe vivere in un quartiere fatto di edifici di dimensioni limitate, strade facilmente percorribili a piedi, tanti negozi per le necessità quotidiane, le scuole, i servizi e un parco a distanza ravvicinata? La risposta è ovvia e tuttavia la vera domanda da porsi è la seguente: esistono quartieri con quelle caratteristiche o si tratta di uno spazio urbano ideale che trova scarsi riscontri nella città contemporanea?
In Vita e morte delle grandi città Jane Jacobs ha individuato quattro fondamentali fattori in grado di evidenziare il buon funzionamento di un quartiere: la presenza del maggior numero di funzioni di base (abitazioni, attività commerciali, imprese, servizi, ecc.), la piccola dimensione degli isolati che ha come conseguenza il maggior numero di strade da percorrere e di “angoli da svoltare”, edifici di diversa età e condizione e, infine, una buona densità di popolazione per favorire l’incontro delle persone. Queste caratteristiche non erano teoriche ma appartenevano al quartiere dove Jane Jacobs viveva. La sua osservazione, elaborata a partire dall’esperienza diretta e per scongiurare i progetti di rinnovamento urbano dell’urbanistica razionalista novecentesca, le ha consentito di individuare gli ingredienti che meglio definiscono la vitalità urbana.
Il punto di vista della giornalista che a New York abitava dalla metà degli anni ’30 del secolo scorso, non può tuttavia essere considerato in maniera avulsa dal momento storico in cui ha preso forma. Ancora alla fine degli anni ’50, periodo a cui risale la stesura del suo libro, New York era una città industriale e allo stesso modo nel Greenwich Village, il quartiere dove Jacobs ha vissuto fino al 1968, la presenza delle attività produttive era molto cospicua. Che cosa ha dunque in comune lo spazio dove risiedeva una folta rappresentanza della working class di una città fortemente industriale con l’odierno quartiere esclusivo di uno dei principali centri finanziari del mondo?
E’ questo il punto dal quale partono le considerazioni di Benjamin Schwarz, autore di The American Conservative, implacabilmente intese a smontare il mantra del quartiere urbano vitale (stigmatizzato attraverso il suo acronimo VUN, Vibrant Urban Neighborhood), come sintesi avulsa dalla contemporaneità di un contesto spaziale cancellato da più di mezzo secolo di trasformazioni fisiche e sociali.
Cosa differenzia l’ideal tipo del quartiere vitale osservato da Jane Jacobs dai bei propositi dell’urbanistica post-novecentesca? La risposta è semplice – secondo Schwarz – e riguarda la mancanza di quella componente demografica che sostiene con la propria evoluzione la vitalità del quartiere: i bambini. In Cities without children Schwarz stigmatizza i cosiddetti VUN come ambiti urbani sostanzialmente privo di ciò che a Mother Jacobs è servito come lente d’ingrandimento per le sue osservazioni: i figli, i suoi e quelli delle altre famiglie del vicinato.
Posti come il Village e molti altri distretti urbani alla moda sulle due sponde dell’Atlantico, sono ben altro – sostiene Schwarz – che quartieri dotati di tutti quegli ingredienti che ne sostengono la vita rendendoli vivaci e vivibili. Si tratta, più che altro, di parchi di divertimento per giovani adulti, quei 20-30enni senza figli (e nemmeno in procinto di averne) a cui poco interessa della presenza di scuole e di spazi adatti allo sviluppo di individui in crescita.
D’altra parte non è difficile rendersi conto del fenomeno, al quale Schwarz allude tirando in ballo anche la mitica Creative Class di Richard Florida. Provate ad aggirarvi per il centro storico di Amsterdam o per il Navigli district di Milano o tra le strade di Kazimierz, l’ex quartiere ebraico di Cracovia, giusto per fare tre esempi a caso, e vi renderete conto che la piramide demografica per certi settori urbani, particolarmente attrattivi per la loro vitalità, è una espressione priva di significato. Solo giovani, quasi nessun bambino e qualche residuale esponente delle altri classi d’età che si aggira come un pesce fuor d’acqua tra bar, ristoranti e negozi nei quali, probabilmente, non sente nessun bisogno di entrare.
Sembra allora che esista un malinteso sul concetto di vitalità urbana e se è così esso ha a che fare con la distorsione dell’idea di diversità che si pretende di individuare nei quartieri più vivaci e desiderabili. Non basta trovarsi tra persone che parlano lingue diverse e a cui piace sperimentare la cucina di diversi paesi :è la diversità sociale e demografica a consentire ai distretti urbani di essere vitali nelle differenti ore della giornata e non solo al calar del sole.
D’altra parte Jane Jacobs ha descritto chiaramente nel suo libro quanto sia importante questo tipo di diversità per il luogo in cui viveva. «Se il quartiere dovesse perdere le sue attività industriali, per noi residenti sarebbe un disastro: molti esercizi commerciali scomparirebbero, non riuscendo a sostenersi con la sola popolazione residente. Viceversa se le attività industriali dovessero perdere noi residenti, scomparirebbero molti esercizi commerciali, che non troverebbe più nei soli lavoratori esterni la possibilità di sopravvivere.»
Se Jane Jacobs tornasse ad analizzare il quartiere dove ha fatto crescere i suoi figli, dovrebbe per prima cosa registrare tutte le trasformazioni che, così come in molti altri settori urbani sparsi per il mondo, sono state introdotte dalla scomparsa delle attività produttive. Il Village che i suoi occhi osservavano quasi sessant’anni fa è ora un luogo pieno di locali per hipster, non il quartiere che si animava per la pausa pranzo dei tanti operai italo-americani che affollavano la parte meridionale di Manhattan.
Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale che ha investito gran parte delle aree centrali dei centri urbani ad antica vocazione industriale e quanto sia vitale la presenza in quegli stessi luoghi di schiere di giovani creativi è fenomeno ancora tutto da dimostrare.
«Una proposta per scongiurare un progetto di saccheggio di un’area demaniale destinata dall’antichità a servizio pubblico, perpetrato dalla banalità di un’ottusa privatizzazione che traduce una lottizzazione speculativa in “domanda di città.”»La città invisibile online, 19 settembre 2016 (c.m.c.)
Nel dare l’annuncio della vendita dell’area delle ex Officine ferroviarie di Porta al Prato pare che gli assessori Lorenzo Perra (urbanistica) e Stefano Giorgetti (mobilità) abbiano fornito alla stampa cifre vaghe e così approssimative da fornire al potenziale lettore una immagine alterata, quindi molto positiva per il Comune, degli incassi e delle circostanze collegate alla vendita. Si veda ad esempio l’articolo pubblicato lo scorso 9 settembre da Repubblica Firenze scevro di qualsiasi azione di fact checking. Giustamente l’assessore Perra, leggo, si “frega le mani”…
Analizzando invece i dati reali e compiendo quel minimo di opera di verifica delle fonti a cui il giornalismo dovrebbe attenersi ritengo che questa vendita sia l’epilogo di una pessima trattativa iniziata nel 2008 nell’ambito di una concezione gretta e disastrosa dell’amministrazione della cosa pubblica, e in particolare dello spazio e dell’urbanistica cittadina.
Vengo ai numeri vantati nell’articolo. Si dice che il Comune incasserà 14 milioni di euro extra oneri da destinare alla sistemazione di strade e piazze. Buche ovviamente comprese. Ma non si dice da quale cilindro saltino fuori questi extra. Il Comune aveva versato quei soldi alle Ferrovie con I.V.A. pari a 3,5 milioni per un totale di 17,5 milioni per l’acquisto dell’area su cui è stato costruito il teatro dell’Opera.
Denaro che non sarebbe stato versato se il comune avesse approvato il Regolamento Urbanistico con la previsione dei volumi (superfici) richiesti e usati come merce di scambio, entro il 31 dicembre 2014. Poiché lo strumento Urbanistico è stato approvato (54.000 mq. pari a 18.000 mc.) con un ritardo di tre mesi, le Ferrovie hanno concesso la restituzione dei 14 milioni concordati lasciando però da pagare al Comune gli oneri fiscali di 3,5 milioni. Non ho l’indice per calcolare quante buche resteranno lì sulle strade: certamente moltissime.
Ma i solerti Amministratori pensano di poter contare sugli oneri urbanistici ed edilizi stimati, vista l’appetibilità dell’area, in circa 16 milioni. Senza dire che a carico del Comune, per sopportare un carico urbanistico di questa misura e per il prestigio richiesto dal target del lusso, occorre realizzare una strada a quattro corsie per collegare rapidamente questo zoo di facoltosi all’aeroporto, strada che invaderà il greto del Fosso Macinante, già ramo settentrionale dell’Arno che costeggia le Cascine, per questo dette un tempo “dell’Isolo.”
Possiamo essere sicuri che questa strada che vorremmo scongiurare ad ogni costo, con il suo svincolo quadrifoglio al Barco, oltre a distruggere ogni possibilità di contatto tra il quartiere di via Baracca e il Parco, oltre all’inquinamento acustico dei due fronti, alla distruzione della “Botte” del Barco, costerà più del ricavato degli oneri sperati. Ecco tutto quello che non si dice. Oggi i 5 ha. delle ex OGR ferroviarie vengono messi all’asta per 28 milioni. Al Comune ne basterebbero dunque 14 per averne la disponibilità, con una semplice sistemazione patrimoniale; e con l’aiuto di una recuperata Cassa Depositi e Prestiti.
Proviamo a pensare perché ne varrebbe la pena e cosa potrebbe diventare lo spazio delle ex OGR di Porta al Prato liberandolo di alcuni capannoni senza valore documentario, trasformandone altri in logge per accogliere quelle funzioni che ingombrano il Parco delle Cascine, quali il mercato settimanale, il luna park, il circo; dotandolo di un’arena grande e una piccola per l’estate fiorentina e altre manifestazioni occasionali. Ma anche per quegli spettacoli che invasivamente e con attrezzature incongrue occupano sovente le piazze basilicali del Centro Antico o il piazzale Michelangelo.
Quel disordine che anche l’ultimo festival dell’Unità ha mostrato nell’ex bel parterre di piazzale del Re, si tradurrebbe in una sistemazione congrua e redditizia per il Comune. Si potrebbero adibire i due capannoni soggetti a vincolo monumentale alla ricerca applicata, al coworking e alle arti performative come estensione e completamento di ciò che è già nel teatro dell’Opera e in parte nella ex stazione Leopolda.
Mantenendo il sentiero erboso lungo il canale Macinante, fino al Barco e l’Indiano si collegherebbe il viale del Poggi ai laghetti dei Renai di Signa in una dimensione davvero metropolitana. Si può immaginare come questo diverso scenario rechi un indispensabile alleggerimento del Parco delle Cascine, sempre più necessario e frequentato come parco naturalistico, di cui l’area delle ex Officine dovrebbe costituire un’intelligente complemento. Sarebbe un grande investimento pubblico, anche economico, in una città che ha visto scomparire molti degli spazi pubblici ottocenteschi: dal giardino dell’Alhambra ai parterre dei Viali.
Gli effetti positivi, accentuati dall’interconnessione tranviaria della linea 4 e della linea 5, coinvolgerebbero la Manifattura Tabacchi e il suo sistema di appartenenza territoriale. Come dire l’asse “centrale” della periferia ovest. Qui nel riuso degli edifici dismessi, gli oneri di urbanizzazione sarebbero assai più giustificati e consistenti. Sarebbe scongiurato questo progetto di saccheggio di un’area demaniale destinata dall’antichità a servizio pubblico, prima idraulico poi anche ferroviario, perpetrato dalla banalità di un’ottusa privatizzazione con la scheda del Regolamento Urbanistico che traduce, con palese inganno, una lottizzazione speculativa in “domanda di città.”
Sardegna. Tra le cose buone volute dal governo di Renato Soru c'è (c'era una volta?) la Conservatoria delle Coste. La decisione di istituirla (a partire dal 2005 e completata con tutti gli atti nel giro di due anni) sta in quel momento magico di speciale attenzione per il paesaggio dell'isola, di cui le coste – circa 2mila km – sono la componente essenziale. A rischio di gravi manomissioni, numerosi e clamorosi gli esempi in grandi parti del territorio litoraneo. Il Piano paesaggistico (2004- 2006) costituiva il quadro di riferimento indispensabile per la tutela dei litorali, la Conservatoria uno degli strumenti per dimostrare le possibili alternative alle speculazioni dissennate attraverso ragionevoli politiche di gestione su aree affidate alle cure del nuovo istituto.
La Conservatoria ha operato per circa sei anni, un tempo troppo breve per consentire un giudizio; dimostrando comunque capacità di buona amministrazione e tempestività nell'azione, nonostante la limitatezza del personale in ruolo, per cui si sopperiva con l'entusiasmo di bravi giovani collaboratori ( che peccato avere disperso quelle competenze e quella esperienza !).
Una realtà dinamica. Tant'è che dopo la caduta del governo Soru, il presidente Cappellacci, a capo di una maggioranza di destra, non si sa con quanta convinzione, manteneva in vita la struttura decisa del suo predecessore. Per questo quando la nuova giunta di sinistra ha deliberato (giugno 2014) di commissariare la Conservatoria riducendone l'autonomia ( l'idea di scorporare le sue funzioni n più assessorati), c'è stata una reazione di contrarietà da parte dell'opinione pubblica più attenta ai temi della tutela del territorio.
Una scelta ancora dai contorni incerti, nel nome della riduzione della spesa, un obiettivo mancato, parrebbe.
Un'incertezza di fondo: via via confermata da altalenanti dichiarazioni sulle reali intenzioni, atteggiamento peculiare della politica di dire/non dire. Per quanto siano sempre più insistenti le voci sul ripudio dello strumento voluto da Soru e senza che nessuno chieda conto a chi prometteva che la Conservatoria sarebbe rinata più forte di prima. Conta oggi la sua sostanziale inattività, un'inerzia da cui si può dedurre facilmente la mancanza di volontà di rilanciarla. Nonostante la dimostrazione della convenienza a rafforzarla, come ha ben scritto Stefano Deliperi (Gruppo d'intervento giuridico) riferendosi all’indice di rendimento “dato dal rapporto fondi comunitari + investimenti / spese correnti, è per l'Agenzia mediamente di 2,7: in sostanza, per ogni euro di stanziamento proveniente dal bilancio regionale l’Agenzia ne produce 2,7”. Argomenti non trascurabili come altri evidenziati in un appello di autorevoli intellettuali rivolto al presidente Francesco Pigliaru, con una petizione in rete rimasta senza risposta.
La Repubblica online, blog "articolo 9"
«“Le relazioni culturali sono da sempre un pilastro del rapporto bilaterale tra l'Italia e la Russia che hanno permesso, anche nei periodi di maggiore difficoltà a livello internazionale, di mantenere un dialogo intenso tra i due Paesi e tra i due popoli” –, ha poi aggiunto l'ambasciatore, ringraziando il Museo Pushkin per “il suo interesse a portare a Mosca nei prossimi mesi e anni nuovi capolavori italiani”, da Michelangelo, a Dante e ai Caravaggiti, per citarne alcuni».
È vero, per secoli l’arte figurativa è stata un’importante leva diplomatica. Ma questo avveniva perché i principi, o i loro ministri, erano personalmente appassionati d’arte: un modello che non ha più alcun senso con l’avvento delle democrazie moderne, e con la nascita della storia dell’arte come disciplina scientifica. E infatti l’ultima fase, drammatica e farsesca, della diplomazia dell’arte ha coinciso con le grandi dittature: Mussolini ha usato con particolare intensità un patrimonio artistico che personalmente non conosceva, o che addirittura disprezzava.
Oggi, l’unica possibile diplomazia dell’arte è quella non governativa: quella della comunità internazionale della conoscenza, che fa ricerca e divulgazione secondo i propri tempi e i propri percorsi, senza ridurre le opere d’arte a prigionieri che seguano in catene gli effimeri trionfi internazionali dei capi di governo pro tempore. Quando gli Uffizi furono costretti a prestare una delicatissima Annunciazione di Botticelli al Museo di Gerusalemme per festeggiare i 65 anni dello Stato ebraico, io e il mio collega israeliano Sefy Hendler scrivemmo al Corriere della sera: «Crediamo profondamente nell'amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell'amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzati da scambi di singole opere 'feticcio' decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento delle comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un 'evento' del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell'antico regime: nelle democrazie moderne le opere d'arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini».
Ma, almeno in Italia, queste ovvietà sembrano destinate a non essere ascoltate.
Solo da noi i governi del Dopoguerra hanno continuato sulla strada delle mostre fasciste: invano, nel 1952, Roberto Longhi si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».
E così ancora tutti i ministri recenti, da Sandro Bondi a Dario Franceschini, hanno continuato ad organizzare mostre ‘politiche’: esattamente come questa di Raffaello a Mosca, compresa in un accordo economico firmato dal presidente del Consiglio Renzi in un suo viaggio d’affari a San Pietroburgo nel giugno scorso. A proposito della quale, uno dei superdirettori nominati da questo governo mi ha scritto privatamente che trova sconcertante che il suo collega degli Uffizi si pieghi ad «una mostra su Raffaello a Mosca su richiesta dell'ambasciatore, dopo il viaggio del presidente del consiglio, con domande mandate a giugno per un’inaugurazione a settembre».
Vedere l’Autoritratto di Raffaello ridotto a comparsa d’onore in un ricevimento all’Ambasciata italiana a Mosca (esattamente nello stesso luogo dove hanno ‘posato’ negli ultimi anni Caravaggio o Bellini, secondo un format ormai grottesco) dovrebbe dare da pensare. Se ci chiediamo perché non succeda niente di simile in nessuna ambasciata straniera in Italia, la risposta va forse cercata nella maggior serietà degli altri governi e delle altre diplomazie, che rispettano la sovranità dei musei, e non giocano a travestirsi da mecenati del Rinascimento, finendo poi a scrivere «caravaggiti».
Ma la colpa non è solo dei politici: è anche dei tecnici che piegano il capo pur di proteggere la loro carriera.
C’è qualcosa di tristemente ironico in questa vicenda, perché quando (nella Commissione Bray per la riforma del Ministero per i Beni culurali) iniziammo a discutere la possibilità di riconoscere ad alcuni grandi musei un certo grado di autonomia, lo facemmo dicendo esplicitamente che uno degli obiettivi era evitare che i direttori degli Uffizi fossero costretti a inviare all’estero le opere più importanti del museo per ragioni politiche. Questo accadeva perché, nel vecchio ordinamento, il direttore era sottoposto al soprintendente: e siccome quest’ultimo era a sua volta sottoposto ad un rinnovo contrattuale, l’autonomia scientifica veniva in sostanza vanificata. In pratica, il soprintendente si genufletteva di fronte al ministro, e quindi imponeva al direttore di prestare. La riforma Franceschini ha cambiato tutto perché tutto rimanga com’era: anzi, ha saltato un passaggio, perché oggi il ministro nomina direttamente il direttore. E il direttore scatta immediatamente sull’attenti. Ed è degno di amara ironia il fatto che a sostenere l’autonomia del direttore c’era, in quella commissione, anche Matteo Ceriana: che oggi, da responsabile della Galleria Palatina di Pitti sottomesso al superdirettore degli Uffizi, si è visto imporre (sebbene lui e tutti i suoi funzionari storici dell’arte fossero contrari) la partenza dei Raffaello del suo museo.
Il caso del prestito dei ritratti di Agnolo e Maddalena Doni è particolarmente imbarazzante, perché l’Opificio delle Pietre Dure ha scritto agli Uffizi che «i rischi a cui andrebbero incontro a seguito di un loro spostamento potrebbero cambiare sostanzialmente lo stato di conservazione». E ancora: «esporre le opere al rischio di sollecitazioni meccaniche che possono provenire da un lungo viaggio e da un cambiamento di clima potrebbe esseremolto rischioso». La contrarietà dell’Opificio era così radicale che nessuno dei suoi restauratori ha voluto accompagnare le opere. Eppure il direttore degli Uffizi si è assunto la responsabilità di spedirli comunque, diramando poi un comunicato che cerca di ribaltare il senso della relazione dell’Opificio, e che si conclude – con un tono di sfida decisamente inopportuno, visto che manca ancora il viaggio di ritorno e che i danni eventuali si potranno constatare solo a consuntivo – affermando che per ora sono sani e salvi.
La mostra di Raffaello a Mosca è – usiamo le parole con cui Antonio Cederna ne fulminava una, del tutto analoga, nel 1956– «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti. Grandi equilibristi, disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare». Sarebbe ingeneroso dire che nulla è cambiato: oggi i soprintendenti non ci sono più, ad obbedire sono i superdirettori.