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Dovendo esprime le opinioni di un gruppo di cittadini che si occupa di rilanciare il ruolo dell’urbanistica nel progetto del futuro della città, e dovendo comprimere queste posizioni in pochi minuti, darò per scontato che tutti conoscano la nostra esperienza – quella della Compagnia dei Celestini – e che tutti conoscano le analisi e le valutazioni che in questi due anni di attività abbiamo svolto e presentato all’opinione pubblica.

Concentrerò invece questo breve intervento esprimendo delle domande, cioè argomenterò delle esigenze – esito delle nostre analisi e delle nostre valutazioni sull’andamento dell’urbanistica e della città in questo ultimo decennio; esigenze che riteniamo prioritarie in questo momento di costruzione di una nuova prospettiva politica e programmatica per Bologna; temi sui quali siamo molto determinati: è opportuno infatti che in un percorso di costruzione programmatica comune con altri - movimenti e partiti – le posizioni di ciascuno siano esplicite e chiare, in modo da raggiungere compromessi e mediazioni – necessarie e possibili – quanto più sincere e trasparenti.

Sono temi, questi che adesso argomenterò, che riteniamo centrali per il programma di una coalizione politica che aspiri al progresso della collettività e non ambisca solamente a sconfiggere l’avversario, cioè non si svegli il giorno dopo l’eventuale vittoria priva delle capacità necessarie a dar gambe attuative alla propaganda politica pre-elettorale.

  1. Bologna ha bisogno di un nuovo Piano Urbanistico. Con ciò affermiamo che la nostra città necessita di una nuova «cassetta degli attrezzi», capace di ammodernare i processi di trasformazione, piccoli e grandi, contingenti e strategici, di cui da diverso tempo si avverte l’esigenza, sia da parte dei cittadini che chiedono disperatamente maggiore vivibilità, sia da parte delle imprese. Il Processo di pianificazione, così come proposto dalla nostra nuova legge urbanistica regionale, è il mezzo che meglio di altri può soddisfare l’esigenza di porre condizioni preventive, condivise, pubbliche e trasparenti per le scelte di trasformazione che matureranno nel tempo.

Spesso si afferma la contrapposizione tra la rigidità e l’inefficacia della pianificazione rispetto alla comodità e alla concretezza della concertazione. Nessuno, di questi tempi, nega la necessità di relazioni e compromessi con tutte le forze – pubbliche e private – che agiscono simultaneamente sul territorio, ma riconoscendo questa necessità siamo altrettanto convinti che senza conoscere le regole di un gioco non si gioca nessuna partita! Affermiamo dunque dei valori che questo strumento urbanistico – cioè il Piano -garantisce.

  1. Bologna ha bisogno di chiudere con la stagione dell'urbanistica «caso per caso» e in deroga al Piano. Credo siano sufficientemente note le nostre posizioni sui programmi integrati e su quelli di così detta riqualificazione urbana, nella declinazione che qui a Bologna si è data. Più volte abbiamo sottolineato gli esiti disastrosi sul profilo dei vantaggi pubblici di queste attività edilizie a fronte dei costi elevati in termini di crescita sconsiderata della rendita speculativa, di aumento della popolazione esposta all'inquinamento, di degrado funzionale e formale di interi comparti urbani gravati da operazioni ad alta intensità edificatoria non coerentemente programmata.Le emergenze o le esigenze che eventualmente si manifesteranno nel tempo, di rifunzionalizzazione di tessuti dismessi o degradati, hanno oggi la possibilità e l'obbligo - a nostro parere - di trovare risposta nel processo di pianificazione ordinario. Quindi si ponga fine, da subito, alle attività speculative dei programmi di riqualificazione in deroga al Piano e ci si opponga, con altrettanta fermezza, anche a quegli interventi selezionati dall'attuale giunta comunale tramite il così detto OdG136, perché non garantiscono contropartite pubbliche sufficienti ad invocare l'applicazione di un accordo di programma, così come l’attuale legge regionale lo definisce.
  2. Bologna non ha bisogno di costruire di più, ha bisogno che le case che già esistono e le aree che sono già pianificate, abbiano costi più contenuti. Le capacità pregresse del Piano Regolatore sono di tale entità da soddisfare abbondantemente anche le previsioni più ottimistiche di crescita della popolazione nei prossimi 10-15 anni. Si tratta di capire se queste capacità pregresse siano congruenti con il disegno della città che desideriamo, o se non sia necessario, eventualmente, rivedere queste capacità o per lo meno riprogrammarle e ridislocarle in luoghi organici alle strategie del nuovo Piano Strutturale, in modo da offrire le condizioni reali, di appetibilità, di qualità ambientale e sociale, per ripopolare Bologna di cittadini, anche dei ceti bassi e medi, e di funzioni di alta qualità.
  3. Bologna ha bisogno di difendere le sue conquiste. Constatiamo la progressiva aggressione che si è operata e che tutt'oggi continua, al sistema di qualità che la città ha costruito con fatica negli anni passati. Mi riferisco agli strumenti che hanno consentito la tutela della collina, che hanno consentito un'elevata dotazione di standard, che hanno consentito un mix funzionale e una necessaria eterogeneità sociale, nelle periferie e nel centro storico: oggi siamo nella paradossale situazione di dover compiere le stesse battaglie che la sinistra ha combattuto 30 anni fa; ma oggi si tratta di dover resistere alle spinte, anche a sinistra, di chi vuole recedere. E' necessario dunque fermare il recesso in atto per riaffermare la necessità di questo sistema di qualità, che rappresenta l'anima di questa città.
  4. Bologna ha bisogno di obbiettivi più «alti e più larghi». La nostra città può e deve guardare l'Europa ma senza dimenticare che oggi la città vera non è più quella racchiusa dai sui confini amministrativi. Le relazioni, le infrastrutture e le strutture urbane sono di scala provinciale e regionale, e perciò si fa sempre più urgente la necessità di un governo unitario e sussidiario del territorio sovracomunale. Non si indugi più dunque sulla sperimentazione di un governo d'area vasta; si cerchi di superare la competizione municipalista e si trovi la strada per una nuova solidarietà; non si costruiscano più frazionamenti di governo: il territorio bolognese non ha bisogno di più livelli di governo, ha bisogno di più capacità di governo.
  5. Per finire, Bologna ha bisogno di discontinuità politica. So che può sembrare antipatico e fuori luogo dirlo qui, ma se i patti non sono chiari l'amicizia non può essere lunga. Crediamo nella necessità di un segnale - si badi, non una rivoluzione, ma un segnale - di forte discontinuità con quei metodi, quei programmi e quegli obiettivi che nella sinistra sono stati gli acceleratori della sconfitta politica e della caduta della passione civile. Riformare metodi e programmi non vuol naturalmente dire rivoluzionare l'apparato delle donne e degli uomini protagonisti di queste ultime stagioni politiche, vuol dire più modestamente costruire garanzie perché chi governa non gestisca un delega al buio, ma ponga al centro della sua attività di pianificazione il tema della partecipazione dei cittadini, non solo durante la campagna elettorale e durante la costruzione strutturale degli obiettivi, ma anche nell'operatività del mandato. Si torni insomma ad educare alla partecipazione.

Il 15 dicembre 1975 apparve un mio articolo su “l’Unità” in seguito (un po’ una risposta) a un articolo di Nino (Luigi) Araldi (il caro amico, urbanista fra i più preparati, persona di rara gentilezza ed eleganza, scomparso nel ’91 a soli 69 anni). Partendo dal caso di Bologna egli sosteneva che “i punti di partenza per l’urbanistica” dovevano essere quelli conquistati in quella città “malgrado le condizioni negative di contorno e all’interno del modello di sviluppo capitalistico”.

Estraggo brevi pezzi del mio intervento che, considerandone la data, forse non è del tutto privo di interesse per l’oggi, per la discussione che si è aperta: (lm)

La recente proroga dei vincoli sulle aree (la terza dopo quelle del ’68 e del’73) e il varo del disegno di legge governativo in materia urbanistica impongono a quanti si occupano di problemi del territorio un’attenta riflessione. La questione si può impostare nei termini seguenti: come, a fronte dei cambiamenti, delle rotture che l’interesse dei lavoratori richiede di apportare alla struttura economico-sociale per costruire una società diversa, si possa rompere la vecchia logica urbanistica, componente essenziale del modello affermatosi in Italia. Componente sovrastrutturale, si direbbe in senso stretto, ma nei fatti di portata strutturale se è vero che:

- il territorio, sotto il comando capitalistico, entra nel ciclo della produzione;

- l’integrazione tra profitto e rendita è uno degli aspetti principali che contraddistinguono le politiche aziendali e le strategie economiche;

- gli obblighi territoriali cui soggiacciono le popolazioni e soprattutto le classi subalterne risalgono anche all’affermazione di determinati rapporti di produzione e sociali.

Quindi “i punti di partenza per l’urbanistica” dovrebbero ritrovarsi […] al di fuori delle linee tradizionali dello “sviluppo” che le classi dominanti e i governi hanno imposto agli italiani; vale a dire più avanti rispetto a quei punti fermi conquistati “ malgrado le condizioni negative di contorno e all’interno del modello di sviluppo capitalistico” (come a Bologna).

Oggi, dopo un’espressione di voto come manifestata nelle elezioni del 15 giugno [elezioni amministrative, preludio al grande successo del Pci nelle politiche del 1976, quelle del mancato “sorpasso” per un decimo di punto] che, a me pare, contiene un’autentica domanda di trasformazione radicale della società, dovremmo verificare se quegli spunti locali del tipo bolognese ritenuti molto progressisti lo siano davvero, domandandoci se:

- questo giudizio localistico regga solo perché rapportabile a un assetto generale del territorio nazionale talmente deteriore da non trovarne l’eguale nei paesi capitalistici europei;

- quegli spunti non subissero il limite, oltreché le “condizioni negative di contorno”, e le difficoltà della stessa cultura di sinistra a essere maggiormente creativa e propositiva in maniera originale entro gli spazi che il capitalismo italiano inevitabilmente concedeva: giacché inadeguato a organizzare il territorio “modernamente” e troppo brutale nella sua manipolazione sì da provocare forti contraddizioni;

- tali limiti e difficoltà non riguardassero anche gli spazi conquistati non per merito degli intellettuali ma attraverso le lotte dei lavoratori e per merito della creatività culturale manifestata dalle medesime.

Airaldi rivendica la validità dell’esperienza bolognese e respinge quindi le critiche di un recente studio sulla pianificazione in Emilia-Romagna, se è vero che “nessuno ha mai ritenuto che la politica urbanistica del comune di Bologna potesse dar luogo a effetti propriamente traumatici sul comportamento del capitalismo in materia di uso del suolo”, appunto a causa delle “condizioni di contorno”. Tuttavia, se si condividono le considerazioni precedenti circa gli spazi lasciati dalle classi dominanti o conquistati dal movimento operaio, dovremmo procedere oltre la linea tracciata da Airaldi. […].

Il “buon governo” e il “buon piano”, come scrive Airaldi, se hanno prodotto effetti diversi nel campo della dotazione di servizi in confronto ad aree malgovernate dal centro-sinistra o dal centro-destra, non sono stati sufficienti per realizzazioni urbanistiche complessive qualitativamente discriminanti, dovremmo poter dire alternative del modo di abitare, del rapporto casa lavoro, dell’uso del tempo libero. Anche quando nuove occasioni erano offerte dalla condizione politico-amministrativa raramente la cultura urbanistica e architettonica è stata capace di coglierle e di introdursi anche negli interstizi della dialettica sociale per indicare i fondamenti per quelle realizzazioni. […].

La cultura urbanistica di sinistra e la sua influenza sulle amministrazioni locali (ma forse è vero il contrario) ha privilegiato rivendicazioni di tipo quantitativo: lo standard urbanistico (in particolare relativo ai servizi) come panacea ai mali della città. Premetto che ancora una volta, come nel passato, gli urbanisti si sono rivolti quasi esclusivamente al fenomeno urbano non cogliendo la necessità di affermare anche un’urbanistica della campagna collegata con la “vertenza della terra” e capace di contribuire al mutamento del rapporto squilibrato città/campagna (metafora, e realtà, del rapporto sviluppo/sottosviluppo): ma, restando in tema, penso che la ‘linea dello standard’ non sia discriminante rispetto alle motivazioni capitalistiche di costruzione della città.

È vero che in Italia, in particolare nelle grandi città e aree metropolitane, mancano il verde, le scuole, i servizi sociali socio-assistenziali, e così via. La richiesta delle opportune quantità di servizi in proporzione alla popolazione ha un senso persino troppo ovvio. Ma dobbiamo solo esigere dalla classe dominante di essere un po’ più “svedese” e di assumere un tale comportamento dove la sinistra governa localmente come a Bologna? O non dobbiamo piuttosto inserire la rivendicazione in un contesto analitico convincente che ci descriverebbe una realtà in cui i ruoli sociali e la loro distribuzione sul territorio devono ricondursi ai termini dello scontro sociale e politico nel paese? E poi, cosa significa, poniamo nel comune di Milano, scegliere, quale priorità assoluta, la battaglia per standard elevati di attrezzature comunitarie senza collegarla alla questione socio-economica fondamentale: che la città appartiene sempre di meno alla classe operaia e ai ceti popolari, visto che ne sono stati cacciati? Al censimento del 1971 le famiglie con capofamilglia “lavoratore dipendente” (operaio, interpretando la casistica Istat) erano ridotte al 26 % del totale (quasi un dimezzamento rispetto a vent’anni prima), mentre negli altri comuni della provincia costituivano il 46 % [oggi a Milano, di operai residenti esiste solo qualche residuo come pensionato in attesa di essere spedito nel suburbio o di crepare].

Penso che si possa rompere la vecchia logica urbanistica soltanto se, in primo luogo, i punti fermi del tipo acquisito a Bologna nel campo della gestione democratica siano riconsiderati e rilanciati verso nuove attuazioni: esempi concreti non solo di come si possa organizzare un po’ meglio il territorio capitalistico e per i margini che il sistema concede, ma di come il territorio possa essere utilizzato secondo il mutamento dei rapporti di forza politici e sociali che si sta determinando. Nel periodo di dominanza massiccia della Democrazia cristiana era inevitabile che gli assetti territoriali si conformassero a beneficio della borghesia e dei ceti medi / medio-alti, e a danno degli operai e dei lavoratori delle campagne nonostante i coltivatori diretti siano in larga maggioranza vicino a quel partito. (Questo, in sostanza, definisce la vera natura degli squilibri territoriali: il rapporto città campagna tutto spostato a favore della città, il divario nord sud, ecc.ecc.). Oggi, dopo le elezioni del 15 giugno e per la capacità del movimento operaio di porre in termini non astratti ma operativi la questione del mutamento del modello, è legittimo pretendere dall’urbanistica un contributo innovatore affinché le classi subalterne si approprino esse, per così dire, del territorio.

Intanto, occorrono indirizzi di analisi che privilegino, più che le tradizionali misurazioni delle carenze, in ogni caso da effettuarsi ma per nulla rivelatrici delle cause profonde di un dato assetto territoriale, la necessità di scoprire i nessi fra la conformazione e l’uso del territorio, della città, delle abitazioni e i rapporti di produzione e sociali, così che si possano trovare soluzioni materiali che interagiscono con la modificazione di quei rapporti.

Gli urbanisti e gli scienziati del territorio possono svolgere un compito progressista nel confronto con gli amministratori locali fornendo strumenti adeguati alla conoscenza e interpretazione delle diverse realtà territoriali quali inequivocabili realtà di classe, localizzate e con una propria dimensione entro la condizione territoriale classista del paese [attenzione all’oggi: non è affatto vero che le classi non esistono più, come i nuovi potenti vogliono far credere ai beoti]. Le “proposte politiche attendibili e operative”, come scrive Airaldi, che spetterà alle nuove amministrazioni formulare, dovranno derivare, a mio parere, da questo taglio di comprensione dei fenomeni anziché “da una conoscenza della realtà di tipo empirico-intuitivo” non sufficiente a fornire un supporto adeguato agli stessi orientamenti politici, anche se questi “si formano democraticamente nella consultazione popolare e nella partecipazione”. Allora le proposte si collocheranno effettivamente più avanti lungo la linea di sperimentazione di un nuovo assetto territoriale e non si limiteranno a surrogare l’incapacità o la reticenza delle classi sociali dominanti e del governo a razionalizzare il territorio secondo criteri malamente ricopiati da paesi capitalistici più progrediti del nostro.

Oltre alla Premessa, che pubblico di seguito, il fascicolo contiene due scritti introduttivi (La rilevanza del tema mobilità, di Catia Chiusaroli, e L’idea di mobilità della Compagnia dei Celestini, che precedono le accurate Schede descrittive e valutative dei cinque progetti di mobilità all’ordine del giorno: Passante autostradale nord, Servizio Ferroviario Metropolitano, Metropolitana leggera automatica, Tram su gomma, Tram-metrò. Seguono alcune note di Catia Chiusaroli (Il nuovo assetto della stazione ferroviaria di Bologna centrale), Giancarlo Mattioli (Cronache della mobilità a Bologna: idee piani e progetti dal 1984 al 2000), Mauro Moruzzi (Un treno di proposte. Tentativi per una diversa politica della mobilità), Rudi Fallaci (Biciclette a idrogeno per la città), Hans Glauber (Il fascino della mobilità sostenibile). Pubblico in altre cartelle, dato il loro interesse più generale, gli stimolanti testi di Moruzzi e Fallaci.

Il Seminario annuale di Montesole, organizzato dalla Compagnia dei Celestini, sta diventando un appuntamento tradizionale per ritrovarsi a discutere di città ed in particolare del futuro della nostra città. Nel 2001 ragionammo di riqualificazione urbana fornendo significativi contributi alla discussione pubblica sul futuro di Bologna in termini di trasformazioni urbanistiche. L’appuntamento del 2002 è stato invece dedicato ai temi della mobilità urbana e territoriale e, più nello specifico, ai grandi progetti per cambiare, nel tentativo di migliorarla, l’accessibilità e la vivibilità della nostra città metropolitana. La scelta è nata dall'evidente e non più sopportabile condizione di congestione viaria in cui si trova Bologna, e dai pesanti problemi ambientali e di qualità della vita causati dal sistema di trasporto oggi esistente, fondato, in modo sicuramente eccessivo, sul mezzo privato. Abbiamo deciso di studiare e di parlare di mobilità perché è un tema strettamente legato ai diritti di cittadinanza dichiarati nel nostro "manifesto": il diritto alla libertà di cultura, all'istruzione, al lavoro, alla salute non possono essere garantiti se non è anche garantito il diritto di mobilità per tutti, e cioé il diritto all'accesso fisico ai luoghi di cultura, di istruzione, del lavoro ecc. Ma il diritto alla mobilità deve a sua volta garantire il diritto alla salubrità delle città, alla sicurezza stradale, ad un aria pulita, a meno rumore, all'ambiente urbano vivibile con luoghi di incontro e con spazi pubblici di qualità.

I Celestini hanno studiato i 5 progetti di mobilità su cui da alcuni anni le amministrazioni locali stanno discutendo. Li abbiamo illustrati sinteticamente nelle schede che troverete nelle pagine seguenti, evidenziandone gli aspetti positivi e quelli negativi, i costi e i vantaggi sociali ed ambientali, dichiarando, senza incertezze, che la nostra idea di mobilità è rivolta verso quei sistemi di trasporto che perseguono, e quindi non contraddicono, i diritti sopra richiamati. Ma è anche nostra convinzione che non esistano soluzioni magiche, taumaturgiche e prive di costi. La "positività" di un progetto non è stabilita dalla sua perfezione assoluta, dall'assenza di qualsiasi svantaggio sociale od ambientale. La ricerca del progetto "perfetto" porta a sicuri fallimenti per l'intera collettività, ovvero all'incapacità di decidere su alcuna delle soluzioni possibili. La "positività" di un progetto di mobilità, se si vuole uscire da visioni ideologiche o parziali, è invece legata alla soddisfazione di 2 condizioni generali, etiche prima che tecniche: la democrazia e la lunga durata. La prima condizione impone che qualsiasi progetto che investa significativamente una collettività, debba essere legittimato da quella stessa collettività - nei modi e nei tempi più opportuni - e che il dato tecnico circa le sua efficacia sia un elemento argomentativo e non decisivo. La seconda condizione impone invece al progetto di mobilità di non ipotecare né il futuro né l'altrove, semmai, al contrario, deve valorizzarli, cioè capitalizzarli. Ciò significa che le soluzioni ad un problema di mobilità debbono fondarsi sui concetti di equilibrio (tra consumi e risorse disponibili, ad esempio) ed equità (nei confronti degli individui di oggi e di domani) per soddisfare i diritti prima richiamati. Siamo altrettanto convinti che i problemi di mobilità urbana e metropolitana potranno essere risolti solo ed esclusivamente se ognuno dei progetti di mobilità diventano parte di un sistema di trasporto fortemente integrato: non esiste opera infrastrutturale che possa da sola svolgere ruoli efficaci ed esaustivi, così come è decisamente essenziale che vi sia piena coerenza fra la rete della mobilità e la distribuzione degli insediamenti urbani. In materia di mobilità sarebbe illusorio assegnare a qualsiasi progetto il valore di ricetta risolutiva; occorre lavorare su tutte le modalità della mobilità, dalle automobili al trasporto pubblico, dalle bici ai piedi, ciascuna secondo le proprie specifiche convenienze; occorre lavorare sulla sicurezza della mobilità, sulla gradevolezza della mobilità, sulla salute e il benessere della città, sulle sinergie, e soprattutto sui cittadini e sulle loro abitudini. Intendendo con ciò che è sempre più opportuno e urgente attivare politiche per "educare" alla mobilità.

Bologna sta pagando dolorosamente le incertezze amministrative degli ultimi 15 anni in tema di mobilità, anche per colpa delle miopìe dei governi nazionali. Il nodo autostradale-tangenziale è in evidente collasso funzionale, la rete del trasporto pubblico non è stata significamente incrementata, il Servizio Ferroviario Metropolitano subisce evidenti ritardi gestionali, i progetti di mobilità urbana sono largamente insufficienti a fornire una reale e competitiva alternativa al trasporto privato. A completare questo panorama, vi è una società civile e politica fortemente frammentata, conflittuale e divisa sulle prospettive di sviluppo e sulle soluzioni trasportistiche oggi in campo. In queste condizioni, se non s'interviene per invertire la rotta, è facilmente prevedibile che nei prossimi vent'anni succederà quanto è successo negli scorsi venti, e cioé un ulteriore degrado complessivo che peggiorerà la qualità della vita di tutti i cittadini a livelli difficilmente immaginabili. Questo non deve accadere! La Compagnia dei Celestini è nata per fornire contributi, attraverso l'informazione e la sensibilizzazione civica, affinché la classe politica ed amministrativa sappia assumersi le dovute responsabilità per compiere scelte di interesse pubblico, con lo scopo di costruire una città migliore di quella attuale.

"Fermi tutti!" è il titolo che abbiamo voluto dare al nostro seminario: un'esclamazione che indica un livello non sopportabile della situazione in cui tutti i bolognesi si trovano. Non è più possibile continuare ad essere tutti fermi, non è più accettabile il contributo di feriti e morti che avviene annualmente sulle nostre strade. Non è più sostenibile l'inquinamento atmosferico. Non è più accettabile il degrado fisico in cui versano le nostre città, le nostre strade, i marciapiedi, le poche piste ciclabili, il centro storico, le nostre piazze. La mobilità, ripetiamo, è un diritto fondamentale, attualmente non sufficientemente tutelato ed anzi troppo spesso negato ad una buona fetta di cittadini che risultano per questo un po' meno liberi degli altri!

"Il Ferro fa bene ai bambini" è il titolo di questo dossier. Sta a significare che la soluzione che rispetti democrazia e lunga durata è da cercare nei sistemi pubblici di mobilità di massa, sui cui fin qui, in Italia e a Bologna, s'è fatto troppo poco. E' attraverso un energica "somministrazione" di ferro (nel senso più ampio delle politiche integrate di mobilità pubblica) che si può sperare in uno sviluppo più equilibrato ed equo, per i bambini di oggi e di domani.

Il dossier è organizzato in tre sezioni, che raccolgono in maniera ordinata il materiale predisposto o prodotto in sede di seminario. La sezione che riguarda l’oggi comprende la presentazione dei cinque grandi progetti di mobilità in corso di discussione (le schede presentate a Contesole aggiornate, con una appendice sul progetto di rifunzionalizzazione della stazione ferroviaria), con due introduzioni, una sulla rilevanza del problema mobilità e una che presenta metodologie d’analisi, criteri valutativi e conclusioni. Ma per capire l’oggi uno sguardo su ciò che è accaduto ieri è molto utile: gli interventi di Giancarlo Mattioli e Mauro Moruzzi descrivono una vicina ma diversa stagione delle politiche per la mobilità a Bologna. Infine due aperture, verso il domani: alcune riflessioni di Rudi Fallaci sul rapporto tra sviluppo urbano e modi di mobilità e sulle tendenze attuali e gli appunti tratti dall’intervento di Hans Glauber.

Il seminario ha visto la partecipazione di molte persone e un’animata discussione ha seguito due provocatori interventi di Maria Rosa Vittadini e Hans Glauber, che non è stato possibile pubblicare per intero sul dossier. Il dossier rimane comunque un documento aperto per discussioni successive e si propone di essere un utile strumento informativo per chi vuole capire meglio come si potrà muovere domani a Bologna.

Tra poche settimane si chiuderà la prima parte (la più complessa e determinante) dell’iter di formazione del nuovo Piano Urbanistico della città di Bologna, che andrà a sostituire il “vecchio” Piano Regolatore Generale.

Nella più completa assenza di dibattito pubblico, di partecipazione diffusa, si chiude una parte importante del processo che costituisce il fondamento dello sviluppo fisico e funzionale di Bologna per i prossimi anni e che – con ogni probabilità – porrà condizionamenti di rilievo a chi governerà la città dopo il 13 giugno.

Alcuni numeri di questo Piano chiariscono la dimensione dell’investimento – o dell’ipoteca – che ci sta per piovere addosso: 20 mila nuove abitazioni previste nei prossimi 15 anni, a fronte di un mercato che oggi non ne assorbe più di cinquecento l’anno. Quasi 3 milioni di metri quadrati di superficie edificabile per la residenza, per gli insediamenti produttivi e per il terziario, di cui almeno due terzi collocati in zone agricole, all’esterno della Tangenziale: e dire che negli ultimi anni del secolo scorso sembrava consolidata la cultura della non erosione di altro suolo agricolo tanto prezioso per il riequilibrio ambientale.

Nulla, o molto poco, verrà impegnato per recuperare la qualità della città già costruita, e nessun progetto viene messo in campo per sviluppare e qualificare gli spazi pubblici, i luoghi di relazione e di produzione sociale.

Ancora, tre linee di metropolitana sotterranea (Staveco-Fiera, Piazza Unità-Aereoporto, Certosa-Due Madonne) i cui costi esorbitanti non trovano copertura nelle casse comunali né in quelle statali, se non per una quota marginale (il primo tratto della linea 1), quota che tuttavia ha già ipotecato per diversi lustri la capacità di spesa dell’amministrazione cittadina, assieme agli ultimi suoli urbani liberi, che ora vengono impegnati con la promessa di edificabilità per pagare proprio la metropolitana.

Contestualmente sta per essere cantierato un “non-tram” su gomma, che costa il doppio di un normale filobus ma trasporta meno persone e corre sulle stesse corsie “preferenziali” degli autobus, con i medesimi problemi di congestione da promiscuità viabilistica (il non rispetto delle corsie preferenziali è un costume patologico dei nostri tempi).

Nel complesso, si tratta quindi di un Piano che non sembra rispondere alle domande collettive: maggiore vivibilità, più qualità ambientale, una politica della casa che aggredisca la speculazione e non i cittadini, un sistema di politiche per la mobilità che riveda nel complesso la disciplina del traffico e non si esaurisca in costose (e di dubbia utilità) infrastrutture. In compenso questo Piano risponde, con messaggi chiari, alle attese di rendita delle società immobiliari.

La Compagnia dei Celestini, nelle prossime settimane, s’impegnerà nella discussione critica dei documenti che stanno per essere licenziati da Palazzo d’Accursio. Lo faremo a partire da una festa: il 3 aprile pomeriggio, alla Multisala di via dello Scalo. Inizieremo lì, con proposte alternative, a raccontare le nostre idee per una città più equa e vivibile.

La Compagnia dei Celestini

Non ho ancora letto Meridiana, e mi riservo di farlo e di pubblicare alcuni degli interventi lì pubblicati. Vorrei subito fare due osservazioni.

La prima. Nella sinistra italiana c’è sempre stato chi ha visto con favore il Pontone. Questo atteggiamento è certo collegato con le simpatie ottocentesche che ancora in essa albergano: le Grandi Opere come simbolo delle “magnifiche sorti e progressive”, l’illusione che le Grandi Infrastrutture possano risolvere i problemi del territorio, per non parlare della propensione a privilegiare l’occupazione coute qui coute.

La seconda. Chi attribuisce mitiche funzioni strategiche a una Sicilia finalmente collegata al continente da un ponte, come mai non ha mai pensato ad attribuire quelle funzioni alla Calabria?

Francesco Merlo

Se la sinistra scopre che il Ponte è di sinistra

FOSSE pure vero che non c´è convenienza economica, il Ponte sullo Stretto di Messina andrebbe comunque costruito, senza arroganza verso le ragioni dei ragionieri ma con un filo d´ironia, visto che nessuno ha fatto i conteggi alla Torre Eiffel o alla Statua della Libertà ma tutti capiscono che senza Torre e senza Statua a Parigi e a New York ci sentiremmo persi. Solo grazie ai simboli infatti uno spazio dove ci smarriamo diventa un luogo nel quale ci ritroviamo. Non è insomma per ragioneria che si fanno i ponti, ma per ridurre le distanze. Anche in bocca, tra due denti, si fa un ponte. Tra due feste si fa un ponte. Si fanno ponti per i sospiri, e persino il ballerino di Lucio Dalla «balla su una tavola tra due montagne». Non c´è civiltà che non sia stata edificata attraverso i ponti, non c´è bellezza di città senza ponti, negli Usa come in Portogallo, in Svezia come in Francia, in Scozia come in Australia e in Giappone. Del resto chi fa ponti, in qualche misura diventa pure papa, pontifex, pontefice. Si fanno ponti anche come sberleffo alla natura, quella dei terremoti e quella dei vulcani, e si fanno ponti per dare ordine e bellezza al paesaggio che non è fatto di mitili e di mostri omerici, ma è fatto dagli uomini e dai loro progetti, perché nessun uomo ha mai visto la Terra senza gli uomini. Il Ponte insomma è bello, ed è sempre e comunque sviluppo, è progresso, è darsi la mano, è il binario per il pendolino e per l´Eurostar che si sono fermati a Eboli, è l´adeguamento delle autostrade al flusso di automobili e di camion. Il Ponte sconvolge l´arretratezza del sistema viario perché accelera e parifica. E anche con i bilanci in rosso, il Ponte sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro. Alla fine insomma questo Ponte sullo Stretto è l´opera più bella e più avanzata che l´Italia possa realizzare, è un risarcimento al nostro Sud, ed è - deve essere - un´operazione laico simbolica keynesiana, la fine di un handicap, la fusione di Messina e Reggio nella Città dello Stretto, come una nuova Costantinopoli. Perciò il Ponte è di sinistra, anzi è quanto più di sinistra si possa fare (non dire, ma fare) oggi in Italia.

E infatti, a sorpresa, la sinistra meridionalista sta riscoprendo le ragioni del Ponte sullo Stretto e, senza troppa timidezza, avanzando per riviste e per convegni, si fa ponte verso il Ponte di Berlusconi, vorrebbe spingerlo a passare dal virtuale al reale, posare insieme con lui quella prima pietra prevista nel prossimo mese di maggio, e magari pure sfilargliela di mano, perché i ponti si possono anche discutere, ma poi, alla fine, si fanno, e mai per ragioni contabili, visto che nessuno le ha mai applicate al Ponte di Brooklyn, e si viaggia magnificamente dentro il tunnel che attraversa la Manica, malgrado i bilanci siano ancora drammaticamente in rosso.

Torna dunque il Ponte di sinistra o, meglio, la sinistra del Ponte, proprio quando il più grandioso progetto del governo Berlusconi, il più meridionalista dei suoi progetti, maltrattato dalla burocrazia di Bruxelles, rischia di rivelarsi, già nei prossimi vertici europei della prima metà d´ottobre, un ponte di sabbia o meglio un ponte di carta. Aggredito dall´arcaismo retorico del più candido, ingenuo e peggiore ambientalismo, e trascurato dallo stesso Berlusconi che lo ha usato come strumento propagandistico, uno dei suoi tanti belletti, il Ponte è infatti, come tutte le trovate berlusconiane, un´impresa, ma solo nella dimensione virtuale e mediatica, la dimensione dell´inesistenza. E però l´impresa, perfetta per simulazioni, prove e controprove, disegni, grafici e colonne sonore, non può diventare reale senza gli attrezzi politici e culturali, la voglia di potenziare il territorio, e il rischio degli imprenditori privati che, sia pure con il sollievo dei crediti agevolati della Banca Europea (Bei), dovrebbero affrontare il 60 per cento di un investimento che si avvicina ai 6 miliardi di euro. Ed è inutile cercare un punto mediano tra la virtualità catastrofista della sinistra economicista che prevede, testualmente, "un Ponte frequentato solo dai gabbiani" e la virtualità berlusconiana che lo immagina come "una macchina per soldi" capace di "risolvere i più grandi problemi del Mezzogiorno". Opposte previsioni di spesa si fronteggiano sugli spalti dei giornali avversari, ma sono dati che non andrebbero contrapposti ma invece giustapposti. I vantaggi infatti non andrebbero assolutizzati e gli svantaggi non andrebbero drammatizzati. Bisognerebbe lavorare per ridurre l´area degli svantaggi e accrescere quella dei vantaggi. Questa è la politica.

Ebbene, che la politica, la cultura politica di sinistra, voglia riscoprire il Ponte, aprirsi, articolarsi e magari da subito riprendersi quel Ponte che aveva fatto sognare i suoi migliori meridionalisti, che la sinistra voglia infilarsi nel progetto Ponte, lo si scopre con gioia leggendo il numero 41 della rivista del neomeridionalismo di sinistra, che si chiama appunto Meridiana e che al Ponte è interamente e variamente dedicata, con un bellissimo saggio introduttivo di Lea D´Antone. Con l´idea dinamica, non scontata, che non esiste il Mezzogiorno ma esistono i Mezzogiorni, dove non tutto è sempre e comunque arretrato, la rivista è marcata Donzelli, editore di tutto rispetto e rivista-manifesto degli storici meridionalisti cinquantenni in cerca del simbolo di una generazione.

E difatti leggendola si capisce bene come il Ponte sullo Stretto possa rappresentare, finalmente meglio e più del terrorismo, il simbolo della generazione del Sessantotto. Sono infatti loro che lo vogliono; siamo noi che, giunti alla maturità, vogliamo i ponti mentre prima volevamo dittature e bardature, chiusure e costruzioni anti. Il Ponte per la sinistra italiana potrebbe significare dunque anche il giro di volta della maturità, perché questa generazione del Sessantotto è ancora alla ricerca del suo simbolo, e il ponte è la conclusione logica di quel percorso, di quell´avventura fatta tutta per rottura di ponti.

E la mafia? A Palermo non ci sono ponti, la mafia non è nata né sopra né sotto i ponti. Certo, la mafia c´è e qualsiasi grande investimento corre il rischio della mafia. Ma forse, contro la mafia, non bisogna più investire nel Sud? E non sarebbe, il rinunciare al progresso e allo sviluppo per paura della mafia, la maniera più vile di arrendersi alla mafia? Per alcuni la mafia cresce nella povertà e nel sottosviluppo, per altri nella ricchezza e nello sviluppo, c´è chi la lega al grano e alla terra arida, chi all´arancia e all´acqua. A Gela la mafia è arrivata con l´industria ma a Villalba, Mistretta, Montelepre, Corleone non c´è mai stata industria. La verità è che la mafia si combatte con polizia e magistratura, con la pazienza, l´eroismo e il rischio d´impresa che è fatto di innovazione e dunque anche di ponti. I testi di Morale ci insegnano del resto che l´angoscia d´esser nati può diventare forza criminale quando va verso la disoccupazione, o forza propositiva, ergon, quando va verso il lavoro.

Infine, e di nuovo, Berlusconi. Si può volere il Ponte che vuole Berlusconi e cominciare a farlo insieme a lui. È questo il solo modo per sottrarlo alla sua ormai proverbiale e furba dabbenaggine, il modo per introdurre garanzie, rapporti con il sindacato, e alla fine fare del progetto Ponte un Parlamento con maggioranza e minoranza, prendere il controllo di una grandiosa operazione che non è solo economica e deve essere gestita da tutta la cultura politica italiana, perché riguarda tutta l´Italia, la simboleggia tutta, Ponte tra le due Italie, tra le due culture, tra le due esigenze. Il Ponte che, come la rivista di Piero Calamandrei, unifica senza confondere, e addirittura rinsalda le identità perché le fa diventare identità aperte contro le identità chiuse che ti fanno orgoglioso e spocchioso, ma non ti portano da nessuna parte.

Ecco: il Ponte, per la sinistra, è anche un ponte contro la spocchia, contro la sicumera, contro il complesso di inferiorità coperto di muscoli, il Ponte al posto dei baffi di ferro e dei girotondi, il Ponte per non smarrirsi nello spazio astratto dell´ideologia, nell´Italia-manicomio che, pur di fare un´altra pernacchia a Berlusconi, vorrebbe volare da Scilla a Cariddi con la liana e l´urlo di Tarzan.

Diciamo no al ponte sullo Stretto

Sen. Anna Donati, Capogruppo Verdi

Nel suo provocatorio articolo Francesco Merlo scrive che il "Ponte sullo Stretto di Messina è l'opera più bella ed avanzata che l'Italia possa realizzare, anche se non è conveniente e se non serve, perché è un simbolo, un monumento, il riscatto del Mezzogiorno". Carente solo in un punto: non evoca l'eros, della serie "il mio è più lungo del tuo", implicito nel progetto, che avrebbe aggiunto intima suggestione all'opera. Ma passando dall'articolo alla realtà: il ponte non ha flussi di traffico sufficienti (e quindi unisce poco), lascia un pesante segno sul territorio (e quindi distrugge identità) e costituisce una modesta sfida tecnologica per il nostro tempo. Sarà interamente pagato dai cittadini e soprattutto dalle generazioni future, che si troveranno un pesante debito nel bilancio dello Stato. Peccato che costi solo 6 miliardi euro che potrebbero essere meglio impiegati per realizzare strade, ferrovie, ospedali, reti idriche e riqualificazione delle città di cui il Mezzogiorno ha urgente bisogno. E magari rinunciare al condono edilizio previsto dal governo Berlusconi per fare cassa e realizzare anche le opere strategiche come il ponte tra Scilla e Cariddi. Il ponte è un monumento simbolo troppo caro e per la generazione del '68 sarebbe utile identificarne uno più economico e suggestivo, magari aprendo un concorso d'idee. C'è però un argomento stimolante che Merlo evoca: come si lascia nel terzo millennio, in un paese come l'Italia, pieno di simboli veri, d'opere d'arte, di città uniche al mondo, un'opera del costruito, un segno per la memoria e d'identità del presente. Apriamo una discussione anche su questo.

Non è un simboloè un'opera in perdita

Gaetano Benedetto, Segr. Agg. Wwf

Ormai è chiaro: il ponte sullo stretto di Messina, se mai sarà, verrà realizzato in perdita con soldi pubblici. Il numero dei transiti, anche nelle migliori ipotesi, non consentirà infatti di rientrare degli investimenti. Altrettanto chiaro è che il progetto presentato è un colabrodo e purtroppo sarà la giustizia (che verrà chiamata in causa dagli ambientalisti e non solo) a stabilire se le procedure seguite nella valutazione ambientale e socioeconomica corrispondono a quanto previsto dalla legge. Merlo ripropone il ponte quale simbolo. Ma non si sta realizzando il ponte quale monumento a futura memoria, e proprio perché non è un monumento, ma dovrebbe essere un'opera funzionale alla mobilità del paese, i miliardi d'euro previsti (di certo sottostimati) devono esser valutati rispetto al calcolo costi/benefici della comunità nazionale. Anche considerando una radicale riorganizzazione portuale con la realizzazione di nuove infrastrutture, il ponte rimane comunque un'opera in perdita, la cui costruzione poteva essere motivato solo dalla necessità di realizzare un opera "manifesto", un'opera cioè "simbolo". Il Paese ha questa necessità? E soprattutto, sono questi i simboli di cui oggi abbiamo bisogno? Prescindiamo dunque dai soldi, dalle tecniche costruttive, dai problemi geofisici, prescindiamo da tutto: come sostenere che il ponte non sia uno sfregio in un luogo del mito qual è quello di Scilla e Cariddi? Come non pensare che l'identità di un'isola, qual è la Sicilia, sia proprio nel suo esser isola? Il nostro è certamente un Paese che ha bisogno sia d'opere pubbliche utili che di simboli positivi. Basta intendersi su quali questi siano e debbano essere. Crediamo che le grandi opere pubbliche di cui il nostro Paese ha bisogno siano in realtà una miriade di piccole opere che ricostruiscano la trama d'un territorio massacrato da incultura e malgoverno, che rendano efficienti i sistemi e le reti di servizio esistenti, a cominciare da acquedotti, elettrodotti, ferrovie, strade.

Il Ponte, tabù e sfidedel centrosinistra

Mario Virano, Consiglio amministrazione Anas

L'articolo di Francesco Merlo sulla riscoperta del Ponte come opera "di sinistra" è chiaramente un paradosso sui tabù della cultura progressista e una metafora delle questioni contraddittorie di cui la politica neo keynesiana dell'Ulivo dovrebbe farsi carico per tornare a governare. Nelle prime reazioni "da sinistra" sembra prevalere l'effetto scandalo ma mai come in questo ca¬so vale il detto evangelico "oportet ut scandala evenient". Come uomo "di sinistra" e come amministratore Anas (azionista di peso della Società del Ponte sullo Stretto) vorrei racco¬gliere fino in fondo la provocazione di Merlo e considerare la questione del Ponte come cartina di tornasole fra i tre possibili scenari politici in cui l'opera si colloca: annunciare grande e fare piccolo; fare grande e pensare piccolo; pensare grande e fare conseguentemente. L'azione del governo pare oscillare fra i primi due, con una prevalenza del primo scenario incentrato sull'effetto-an¬nuncio; c'è però il rischio che si af¬fermi il secondo, e un'opera straor¬dinaria come il Ponte venga vista come un qualunque altro ponte, so¬lo più grande, più difficile e più co¬stoso. Questa sarebbe l'eventualità peggiore, perché richiederebbe enormi risorse per fare in grande ciò che si è concepito in piccolo cioè senza una strategia generale degna di questo nome. Infatti, se è vero che le grandi opere valgono anche per il loro valore simbolico, sarebbe im¬possibile motivare il Ponte solo in base all'obiettivo dell'integrazione piena del "mercato interno insula¬re" con quello "continentale". Altra cosa è invece la sfida del Ponte se si immagina la Sicilia come grande piattaforma logistica dell' Europa, protesa nel cuore del Mediterraneo. Il collegamento stradale e ferrovia¬rio attraverso il ponte significhereb¬be il prolungamento via terra di un molo continentale unico sulle rotte fra Suez e Gibilterra, offrendo al si¬stema Italia opportunità assoluta¬mente inedite nell'Europa a 25. Questa visione però comporta una contestuale soluzione dei colli di bottiglia dei valichi alpini, perché solo così, aprendo i collegamenti ferroviari e stradali verso il centro nord dell'Europa, il Ponte può tro¬vare una motivazione reale oltre i paradossi di Merlo. C'è la capacità di impostare un progetto unitario di questa portata con una conseguen¬te politica economica in grado di mobilitare le risorse pubbliche e private in grado di sostenerne l'at¬tuazione? Oggi nel centrodestra non mi pare di vedere questa capa¬cità; spero possa esserci in un cen¬trosinistra che abbandoni definiti¬vamente ogni logica del "piccolo è bello" per sposare la sfida del pen¬sare in grande operando conse¬guentemente.

Pareri sullo Stretto

nella rivista Meridiana

Piero Bevilacqua, Direttore "Meridiana"

L'articolo di Francesco Merlo del 1 ottobre contiene alcune ine¬sattezze e forzature su cui ho l'ob¬bligo di intervenire. Non è vero che Meridiana abbia sposato o perorato la causa della realizzazione di quel¬l'opera. Io ad esempio sono contra¬rio per più ragioni che per brevità non espongo. Ma tutto il numero in questione ha ospitato posizioni di¬verse, perché esso intendeva offrire ai lettori una pluralità di pareri, ana¬lisi, punti di vista, fondati su studi e meditate riflessioni. Questo è tanto vero che Mario Pirani, intervenen¬do su Repubblica all'uscita della ri¬vista, aveva potuto sottolineare e condividere la contrarietà di auto¬revoli studiosi a quell'opera. In realtà, in coerenza con la sua "filo¬sofia" e il suo stile, Meridiana aveva tentato di porre il problema ponte il più possibile al centro di un esame spassionato e complesso e al riparo dalle vulgate ideologiche. Constato che, almeno su quest'ultimo punto, abbiamo fallito lo scopo.

Il numero 41 della rivista Meridia¬na è presentato dall'editore Carmi¬ne Donzelli. L'apertura della discus¬sione, e quindi il tono e il senso della monografia, sono cadenzati dal sag¬gio introduttivo della professoressa Lea D'Antone, che spiega le ragioni storiche e attuali della necessità del Ponte. Ovviamente la rivista ospita, e io l'ho scritto nel mio articolo, altri interventi che, come sempre in que¬sti casi, rafforzano il saggio a cui fan¬no da contorno e dunque forzano - loro non io - la piega del discorso. Del felice risultato complessivo ho già scritto, e Carmine Donzelli me ne è garbatamente grato. Adesso ap¬prendo con interesse che il professo¬re Bevilacqua è contrario al Ponte. Chieda a Donzelli di finanziare un altro numero per argomentare le sue ragioni. (f. mer.)

La commissione speciale di valutazione di impatto ambientale ha comunicato il 20 giugno scorso il proprio parere positivo riguardo il progetto preliminare del ponte sullo stretto di Messina al ministero dell'ambiente. Il giudizio scontato della commissione, per gli effetti della legge obbiettivo che ha previsto la riforma delle procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA) e dell'autorizzazione integrata ambientale, contiene delle raccomandazioni e delle prescrizioni di cui la società Stretto di Messina e il general contractor dell'opera dovranno tenere conto nel redigere il progetto definitivo dell'opera. Il parere è stato votato all'unanimità dalla commissione speciale insediata specificamente dal ministero dell'ambiente ed è posto a conclusione di una lunga relazione tecnica cui hanno lavorato oltre che i tre membri della commissione, otto esperti dell'Apat (Agenzia per i servizi tecnici e la protezione ambientale) e cinque esperti esterni in qualità di associati.

Il parere della commissione Via prevede raccomandazioni e prescrizioni raggruppate in tre punti: programmatico, progettuale e ambientale.

Sotto il profilo programmatico le prescrizioni sono tre: il progetto definitivo dovrà essere compatibile con le strategie ed i piani di sviluppo con i quali è destinato ad interagire; dovrà prevedere adeguati scavi esplorativi per il profilo archeologico e, dovrà attuare nella fase di realizzazione una significativa riqualificazione dell'opera .

Sotto il piano progettuale ci sono da una parte due raccomandazioni: concordare con Reti ferroviarie il programma di realizzazione delle opere connesse al ponte e inserimento di un crono programma delle varie fasi di lavoro e, dall'altra due prescrizioni: la tempestiva realizzazione della linea ferroviaria in località Cannitello e la descrizione delle modalità di risoluzione di alcune interferenze nella costruzione delle fondazioni delle torri e delle strutture di cantiere.

Per quanto riguarda infine il più importante quadro di riferimento ambientale la commissione prescrive:

la necessità di più approfonditi studi geo-sismico-tettonici; la necessità di interventi rivolti alla tutela e alla riqualificazione ambientale; la necessità di studi idrogeologici ed idrochimici e del sistema di controllo delle acque (in particolare nei territori interessati da gallerie); il vaglio e l'analisi dei materiale scavato prima del riutilizzo; la necessità della riduzione ai minimi livelli degli impatti sugli habitat di specie animali protette e specie migratorie sensibili; la necessità di ridurre l'impatto illuminante sul mare degli impianti di illuminazione; la necessità di opere di mitigazione acustica e la necessità di predisporre un progetto di monitoraggio ambientale.

Il parere positivo della commissione Via apre la strada all'approvazione del progetto del ponte di Messina da parte del Cipe e, dopo la pausa estiva, alla scelta del general contractor.

Vivissime sono state le proteste contro il parere della commissione speciale da parte delle associazioni ambientaliste che hanno annunciato ricorsi al Tar e alla Corte europea, e si chiedono come sia possibile fare un progetto preliminare tanto carente e dai costi non chiari.

Un altro aspetto che presenta delle singolarità è il fatto che manca l'assicurazione che il collegamento ferroviario si farà. Sulla costa calabrese infatti la linea ferroviaria scorre a livello del mare, 70 metri sotto quella siciliana. La soluzione sarebbe quella di costruire una nuova linea ferroviaria ad alta velocità in galleria che attraversi le montagne calabresi fino al mare, ma anche qui sorgono dubbi sul finanziamenti dell'opera stanziati da parte di Reti ferroviarie italiane.

Preoccupazioni sorgono anche in merito al temuto stravolgimento dei due ecosistemi lacustri, i Pantani di Ganzirri, due zone di interesse comunitario accanto alle quali sorgeranno i due piloni siciliani del ponte da 50 metri di lato ciascuno, nonostante la completa impermealizzazione degli stessi richiesta dalla Via.

Un'altra denuncia del rischio ambientale viene dal comitato "Tra Scilla e Cariddi" che sottolinea come la realizzazione del progetto del ponte rappresenterebbe la cancellazione fisica dell'ecosistema dello Stretto, già attualmente compromesso. Si tratterebbe non soltanto di un irreversibile danno ambientale, ma della cancellazione delle basi biologiche e fisiche di un patrimonio culturale antichissimo. Anche l'analisi economica mostra che si tratta di un investimento irrazionale, troppo costoso rispetto ai ritorni previsti, inutile rispetto alle alternative immaginabili, senza prevedibili effetti di trascinamento per lo sviluppo endogeno vista l'importazione massiccia di tecnologie prodotte altrove, trattandosi in breve di un esempio tipico di quegli investimenti sconsiderati già fatti nel Mezzogiorno privi di connessione organica con il territorio. Infatti, il futuro dell'area dello Stretto dovrebbe passare dallo sviluppo sostenibile basato sulle risorse territoriali, ambientali, culturali, paesaggistiche; proprio quelle che il ponte distruggerebbe.

Non si prendono inoltre in considerazione altre soluzioni di carattere multimodale per l'attraversamento dello stretto delle persone e delle merci (ad esempio i moderni e portacontainer, le navi cioè che approdano a Gioia Tauro, contengono ciascuno una quantità di merci pari a quella trasportata da mille Tir), né gli effetti di inquinamento e di congestione conseguenti all'ulteriore sviluppo del traffico su gomma che comporterebbe la costruzione del ponte.

Il comitato "Tra Scilla e Cariddi" è nato nel 1998, all'indomani dell'approvazione del progetto di massima del Ponte da parte del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, contro la realizzazione del ponte di Messina. Esso associa studiosi ambientalisti, intellettuali calabresi e siciliani, le principali associazioni ambientaliste, Rifondazione comunista, i Verdi, il Cric e numerose altre associazioni locali e nazionali. Il Comitato, che con un appello/manifesto ha chiesto all'Unesco l'inserimento dell'area dello Stretto di Messina nell'elenco dei siti "patrimonio naturale e culturale dell'umanità", è una delle poche, se non la sola voce, che contrasta il monopolio della informazione calabrese e siciliana in materia e continua l'esperienza di una stagione di lotte ambientaliste che in passato portarono alla cancellazione del progetto di centrale a carbone nella Piana di Gioia Tauro.

Vi sono, infine, anche forti perplessità sulla tenuta statica e sulla sicurezza del ponte che dovrebbe essere costruito su una delle aree a più alto rischio sismico del Mediterraneo. Come rileva il coordinamento della petizione per "Messina senza ponte", le caratteristiche geomorfologiche del territorio dello Stretto (zona sismica, con forti venti e imprevedibili correnti marine) pongono seri dubbi sulla sicurezza dell'opera (i forti venti sullo Stretto rischiano di limitare l'agibilità del ponte ad un terzo dei giorni dell'anno), poiché non si sono adeguatamente valutati gli effetti tellurici in quanto non si considera l'effetto di scosse ravvicinate e tutte di intensità elevata, in un'area dove si registra la massima attività sismica del paese, dove sono presenti faglie aperte e dove non è improbabile la ripresa di un'attività tellurica elevata, sempre imprevedibile e dagli effetti incontrollabili. Infatti, l'area che interessa la costruzione del ponte si trova su una zona di faglie attive e quindi soggetta a continui cambiamenti della crosta terrestre (movimenti sismici e di allontanamento della Sicilia verso il mare aperto).

Alla fine degli anni 80 come ingegnere sono stato coinvolto nel progetto preliminare di una soluzione alternativa di attraversamento stabile dello Stretto di Messina e questo mi ha dato modo di farmi un’idea abbastanza precisa della problematica del Ponte. Su tale problematica mi accingo oggi a fare alcune considerazioni.

Essendo però trascorsi ormai più di 10 anni, ho ritenuto opportuno aggiornarmi sulla materia attraverso internet. Da un lato il sito web ufficiale della Società Stretto di Messina, il quale contiene indubbiamente cose interessanti, ma anche diverse cose non dette ed altre presentate con un ottimismo che appare assolutamente fuori luogo. Dall’altro alcune analisi critiche molto approfondite, in particolare alcuni articoli presenti nel sito www.eddyburg.it, che hanno fortemente rafforzate le mie perplessità sull’operazione Ponte.

Aspetti tecnici.

Si tratta di un ponte sospeso a campata centrale unica di 3300 m di lunghezza sostenuto da due grandi pilastri in acciaio alti 382 metri. L’impalcato corre ad una altezza media di circa 70 metri sul livello del mare, ha una larghezza di circa 60 metri, sulla quale corrono sei corsie autostradali, due binari ferroviari e due corsie aggiuntive per la manutenzione. I pilastri sostengono le funi portanti, costituite di grandi cavi di acciaio armonico, che a loro volta sostengono il ponte, tramite una serie di tiranti verticali. I cavi portanti, del diametro di 1,24 metri, sono quattro, due a destra e due a sinistra; cosa inusuale per i ponti sospesi, ma necessaria in questo caso, perché data la lunghezza del ponte ed il suo enorme peso, il cavo unico risulterebbe di diametro troppo grande (1,70-1,80 metri di diametro).

Come si vede rispetto agli altri ponti simili esistenti nel mondo il progetto vuole battere un insieme di primati quali:

- massima lunghezza di campata, 66% in più rispetto all’attuale ponte più lungo (AKASHI KAIKYO, di 1990 metri)

- massima larghezza, 60 metri, contro valori massimi di 35 metri degli altri ponti grandi

- massima altezza delle torri di sostegno

cavi di sostegno di 1,24 metri di diametro, (contro 1,12 metri di AKASHI KAIKYO) e per giunta doppi, due a destra e due a sinistra, con un problema assai critico di uguale ripartizione della tensione (come segnalato al convegno di Stavanger dal prof. LEONARD, uno dei massimi esperti mondiali dei ponti sospesi)

- presenza di binari ferroviari che non esistono sugli altri ponti di lunghezza elevata, anche perché i treni sono più sensibili alle oscillazioni del ponte ed alle pendenze, che sono indotte dagli stessi carichi del traffico durante l’attraversamento. In AKASHI KAIKYO i binari ferroviari erano stati previsti, ma poi tolti, verosimilmente proprio per queste ragioni.

Ci sono poi degli altri primati, dei quali si parla poco, che sono la diretta conseguenza di tutti gli altri o se vogliamo della febbre di grandezza che sembra essere alla base del progetto. Il ponte (e anche questo è un primato), è ai limiti della fattibilità di questo tipo di strutture, tant’è che i principali elementi portanti (in particolare i cavi portanti) impegnano circa l’80% della loro resistenza per sostenere il peso proprio del ponte a vuoto, mentre il 20% resta disponibile per il carico pagante, cioè il traffico automobilistico e ferroviario. Come altri ovvi primati sono i costi ed i tempi di realizzazione, che alla fine saranno certamente ben superiori a quelli che oggi vengono dichiarati.

Un primato che assolutamente non c’è, è invece la quantità di traffico attraverso lo stretto, che oltretutto tende, come vedremo, a diminuire nel tempo.

Fattori sismici e metereologici

Un ulteriore primato è il fatto che il ponte viene realizzato in un luogo ad alta criticità, sia come condizioni sismiche che metereologiche.

Il ponte è calcolato per un sisma di 7,1 gradi Richter, paragonabile al terremoto di Messina del 1908. Ma dato che un’opera del genere deve avere una vita operativa molto lunga, si ritiene che il sisma di progetto dovrebbe essere maggiore. Da notare comunque che il pericolo non è tanto l’effetto vibratorio (che data l’elevata flessibilità della struttura non è particolarmente pericoloso), ma la possibile rotazione relativa delle basi dei pilastri, o dei blocchi di ancoraggio dei cavi portanti per effetto degli scorrimenti di faglia, che spesso accompagnano i terremoti “estremi”. E questa è comunque di difficile valutazione.

Relativamente al vento di elevata intensità, si può dire che anche se esso non è pericoloso per la struttura, tuttavia esso induce ampie (seppur lente) oscillazioni che oltre un certo limite renderanno difficoltoso il traffico (prima quello ferroviario e poi quello automobilistico), fino a portare alla chiusura del ponte nelle situazioni più critiche.

Non è quindi vero che il ponte consente l’operatività 365 giorni l’anno.

Tempi di percorrenza

E’ stato detto che il ponte fa risparmiare circa 40 minuti alle auto e circa un’ora ai treni e ciò è vero per il traffico di lunga distanza (per es. da Milano o Roma verso Palermo e viceversa). Ma per percorsi così lunghi, della durata di moltissime ore, questi vantaggi teorici non sono significativi.

Ancora peggio va per il traffico locale. Il traffico automobilistico che attualmente utilizza i traghetti è costituito per oltre il 40% di traffico locale, tra le città ed i paesi presenti ai due lati dello stretto e questa quota di traffico non solo non trae alcun beneficio dalla presenza del ponte, ma rischia di allungare i tempi di attraversamento. Ad es. per andare dal centro di Messina a Villa S. Giovanni attraverso il ponte, occorrerà prima percorrere parecchi chilometri di strade provinciali e di raccordi di collegamento nelle colline dietro Messina prima di raggiungere il più vicino casello autostradale ed immettersi sul tratto autostradale che imboccherà il ponte (il quale, va ricordato, corre ad un’altezza di circa 70 metri sul livello del mare). Stessa situazione sull’altra sponda dello stretto.

Il traffico nello Stretto

Per quanto riguarda le quantità di traffico nello stretto, le statistiche relative alla situazione del passato e le tendenze evolutive, esse sono descritte con grande precisione nel dossier: Il principe cammina sulle acque, a cura di Marco Guerzoni, agosto 2002, consultabile al sito http://eddyburg.it.

In sintesi possiamo dire:

- il traffico che fino agli anni 80 era in aumento, a partire dai primi anni 90 è costantemente in calo, soprattutto per il maggior uso dell’aereo da parte dei passeggeri e il maggior impiego per le merci, di navi che collegano direttamente i grandi porti, non solo italiani, direttamente con i porti siciliani

- i numeri attuali e la loro tendenza rendono assolutamente antieconomica l’operazione Ponte.

E non è un caso se il vero capitale di rischio, quello “privato”, sul progetto ponte non arriva.

Ponte e sviluppo economico e turistico

I vertici della Società Ponte di Messina in varie interviste si affannano a dire che il ponte creerà sviluppo economico e turistico e contribuirà a debellare la mafia ecc. ecc. Ma come mai la Calabria che fa parte del “continente”, soffre gli stessi problemi di sottosviluppo e di mafia della Sicilia? O non è più verosimile che mafia e ndrangheta prenderebbero una ricca quota del business sulla realizzazione del ponte e in definitiva si rafforzerebbero?

Per inciso, le ben note cattedrali nel deserto realizzate nel passato avevano gli stessi lodevoli obiettivi teorici. Risultato pratico: non si è mai riusciti ad impedire la quota di business della mafia durante la realizzazione, mentre poi le opere sono state abbandonate nel nulla.

Lo scrivente ha avuto visione diretta di due casi specifici di tali cattedrali:

- L’enorme complesso termale di Sciacca, realizzato anche con la collaborazione di albergatori di Abano Terme, un’impresa che sembrava avere tutte le premesse per funzionare e che invece è in totale abbandono.

- I porti e porticcioli turistici, anche questa una scelta apparentemente giusta in una regione come la Sicilia. Ne sono stati costruiti una trentina, ma nessuno è stato completato e solo qualcuno funziona molto parzialmente.

Ora ci poniamo la seguente domanda: cosa richiamerebbe più turisti in Sicilia, la presenza del Ponte o la corretta funzionalità dei porti turistici e di altre infrastrutture ? Ed il recupero di tante spiagge bellissime ma oggi lasciate in balia del degrado e prive di qualunque servizio? E prima ancora, la certezza di avere sempre l’acqua potabile, questa sì, 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno?

Ma nel paese di Bengodi, sappiamo già quale risposta ci verrà data: Noi faremo tutto, sia il Ponte che tutte queste altre cose!

Occupazione ed impatto sociale

I vertici della Società Ponte di Messina affermano che il ponte porterà tanta occupazione, addirittura un totale di 40.000 lavoratori sulle due sponde dello stretto, nella fase di costruzione.

Ma se questo è vero, proviamo ad immaginare l’impatto sociale di una massa grande di persone (con le loro famiglie) che si dovrà insediare nella zona, a ridosso dei centri abitati. Potrebbe verificarsi una situazione critica, simile a quella che si verificò a Gela per effetto del petrolio e del petrolchimico. Migliaia di abitanti dell’entroterra lasciarono le campagne e dettero origine a quel grande e disordinato agglomerato di case, privo di strade e di servizi che sorge dietro Gela. Personalmente rimasi molto colpito da quella distesa di costruzioni che apparivano come scheletri fatti di pilastri di cemento in cui in modo casuale ed anche su piani diversi, alcuni appartamenti erano già abitati, mentre altri adiacenti erano ancora allo stadio di sole travi e pilastri.

Non è un caso se negli anni 80, studiosi olandesi della materia scelsero Gela come caso di studio emblematico di impatto socio - economico fortemente negativo e quindi come esempio da non ripetere.

Tempi e costi.

Nessuno crede ai costi (4,6 miliardi di euro) ed ai tempi di realizzazione (6 anni), compresi i soggetti proponenti e gli ambienti del ministero. Tutti sappiamo che le grandi opere in Italia si dilatano sempre sia nei tempi che nei costi di realizzazione.

Nel caso del ponte dobbiamo aspettarci risultati peggiori della media per i due seguenti motivi:

- si tratta di un’opera vicina ai limiti della fattibilità tecnologica e realizzativa

- si opera in ambiente ad alta densità mafiosa.

Conclusioni

Personalmente dopo questo aggiornamento personale e queste riflessioni sono diventato più ottimista: penso che il ponte non si farà.

Primo perché lo stato non ha i soldi; secondo perché nessun privato metterà mai una lira su un’avventura così evidentemente antieconomica.

Se però avrò avuto torto, allora come compenso avrò (o avranno le mie figlie) la possibilità di ammirare dal vero il ponte dei primati, cioè la madre di tutte la cattedrali nel deserto.

Caro de Seta,

ho coniato uno slogan, molto tempo fa, relativo a un certo comportamento dominante nel mondo degli architetti, urbanisti, universitari e no, e quant’altri: nessuno legge nessuno. Sicché il dibattito non esiste più (ricordo il periodo fra Cinquanta e Sessanta quando c’era anche la polemica, emblematico lo scontro fra Rogers e Banham e fra le rispettive riviste) se non talvolta concertato quasi ad arte in sede di piccola corporazione. Nelle riviste? Non parliamone. Sotto questi riguardi il sito di Eddy potrebbe consistere nel contrario. Benché, ho osservato qui altra volta, non sempre, anzi raramente, nasce l’ampia discussione che ci si aspetterebbe attorno al dato tema o problema. Si susseguono l’uno all’altro interventi anche interessanti, ma vanno a formare una catena di anelli spesso non agganciati. Insomma, non si discute o lo si fa poco. Poi sulla questione Ravello salta la polveriera (e le altre centomila, un milione?), improvvisamente (tutti, prima, se ne fregavano), a causa del benedetto o maledetto progetto Niemeyer. Ho dovuto constatare, sorpreso, la mancanza di ricordi di com’era, cos’era effettivamente Ravello entro la natura montano-marina prima dei consueti processi italiani di, stiamo leggeri per carità di patria, modificazione o cosiddetto sviluppo. Non solo, ma ho subito percepito che nel gruppo dei “favorevoli” pochissimi conoscono realmente il luogo e tutto il contesto amalfitano (intendo nell’arco storico, magari per pura ragione d’età), così come certamente non conoscono l’intero disastro paesaggistico, urbanistico ambientale del paese. Bene, io ho subito espresso la mia adesione alla posizione di Salzano, talmente corretta e motivata che non è facile respingerla se non alterando la verità circa il punto nodale, vale a dire la questione di legalità.

Ma non da qui voglio riprendere. Ho letto le vostre lettere, così condite di reciproche dichiarazioni di stima entro il dissidio (quanto a questo tu rivanghi addirittura lo scontro con Cederna, sempre condito da tanto sentimento d’amicizia, attorno alla piramide del Louvre, per mostrare che, tu quella volta duramente contrario, valuti caso per caso, fuor di ogni radicalismo generico. Idem circa l’opposizione Salzano – Gasparrini (“dolcissimo”, che bello essere così signorili!). Voglio invece pregarti, tu che rappresenti l’assoluta diversità rispetto ai soggetti ai quali il mio slogan è applicabile, di leggere il mio pezzo, Bellezza a Ravello, che Eddy ha pubblicato, esprimendoti in particolare sulla conclusione. Perché in realtà vera te lo chiedo? Perché leggo, qui accanto al computer, il tuo ricordo di Piero Bottoni a Capri, pezzo datato da Capri, 4 gennaio MMIII, che hai avuto la gentilezza di concederci per la pubblicazione su uno dei quaderni dell’Archivio Piero Bottoni, il quarto, Piero Bottoni a Capri. Architettura e paesaggio, 1958-1969. Mi pare che il tuo commento, sia riguardo alla “grotta” di Bottoni, talmente riservata e penetrata nella natura, sia riguardo alle sue piccole case, potrebbe ricadere in quella concezione dell’architettura “capace di non ergersi”; quantomeno, se perdoni un’autocitatazione da altra fonte, potresti consentire che “non esiste architettura degna del nome senza sentimento di appartenenza” (al passato come al presente, e, assolutamente e strettamente, al contesto. Riporto qualche tratto del tuo scritto sperando che lo leggano altri che certamente non l’hanno visto nel fascicolo dell’archivio. “Bottoni, da architetto di talento, aveva perfettamente assimilato il modo di costruire dei capomastri dell’isola: che, un tempo, dovevano essere bravissimi. Infatti le sue case […]sono in tutto e per tutto assimilabili alle tipiche tipologie residenziali delle case capresi […]. Né più né meno di quanto aveva propagandato con la mostra su L’architettura rurale alla V Triennale Pagano: ritornare agli etimi dell’ architettura senza architetti, come dirà un celebre libro di Bernard Rudofky che pure aveva scelto il golfo di Napoli per le sue sperimentazioni razional-mediterranee con il suo amico e socio Luigi Cosenza. Bottoni molti anni dopo quella lezione l’aveva assimilata così bene e fatta propria che faceva case assolutamente razionaliste senza che nulla lo lasciasse trasparire. […] nulla apparentemente le distingue dalle più anonime case capresi: se poi si esaminano i disegni tecnici ci avvediamo che sono dei piccoli capolavori di existenz minimum: secondo la più severa norma delle tipologie tedesche: Il loro miracolo sta in questo e in questo Bottoni è un erede spirituale di Pagano e delle sua lezione sull’Onestà dell’architettura, come titolava un suo celebre editoriale di Casabella” (p. 55 del fascicolo citato). Mi sembra chiaro che né tu volessi rivendicare allora una sorta di architettura mimetica, ma volessi esprimerti, penso, contro quella che i razionalisti di “Quadrante” (fra cui il giovane Bottoni) chiamavano architettura arrogante; né io perorarla ora contro il “gesto” di Niemeyer, peraltro una cosa di tali dimensioni e, va detto, talmente disinteressata alla contestualità, da sfiorare la definizione cara ai pionieri di “Quadrante”. Ciò che vorrei si facesse nella già lesa Ravello è esattamente quel che ho già scritto: cura, risanamento del corpo malato, ricostruzione della perduta giovanile bellezza come nuova bellezza senile. E questo, purtroppo, il grande brasiliano, col suo progetto (suo, non suo? schizzo, disegno, modello? Non interessa qui) non può farlo, ne è all’opposto.

Un caro saluto da

Lodo Meneghetti

Vendere, vendere, fare cassa, trasferire a Tremonti quanto più si può, da una parte il condono edilizio più vasto che si conosca, dall altra la cessione dei beni culturali pubblici. Col filtro di un esame da parte delle Soprintendenze le quali certifichino quali siano vendibili e quali no. Già, ma in quanto tempo? Appena trenta giorni. Dopo di che, se la Soprintendenza competente, povera di mezzi e di tecnici e però sepolta sotto le pratiche da sbrigare (oltre 20mila in Lombardia per appena 22 architetti), non risponde, cosa succede? Il senatore dell’Udc, Ivo Tarolli, aveva risposto alla domanda con un emendamento esplicativo: scatta il silenzio/assenso.

Per il patrimonio storico-artistico? Sissignore, per il patrimonio storico-artistico, per il cuore pubblico del Bel Paese.

Adesso arriva trafelato (ma ugualmente sorridente) il ministro Urbani il quale prende carta e penna per smentire il troppo esplicito sen. Tarolli salvandosi temporaneamente in extremis. Dunque il silenzio/assenso non sarà così automatico e tuttavia l’articolo 27 del collegato alla legge finanziaria ripete di continuo il termine entro trenta giorni, ossessivamente. Ma non c’era, con tempi ben più adeguati, il regolamento n.283 elaborato apposta per la vendita e per la cessione in uso, emesso nel settembre 2000 con decreto firmato da Ciampi? E questo regolamento, costato un anno di lavoro, non era stato condiviso dagli enti locali e regionali, coi tempi giusti, gli elenchi preparati in due anni? È vero, c’era. Anzi, il ministro Urbani l’aveva dichiarato intangibile. E invece con queste disposizioni infilate in tutta fretta nella finanziaria egli lo travolge con tutti i suoi accurati paletti (si vende soltanto questo, si cede in uso soltanto sulla base di un piano di utilizzo, il Comune può esercitare diritto di prelazione, ecc.). Prevale la logica della Patrimonio dello Stato SpA, delle varie SCIP (bel nome per le società che vendono o cartolarizzano il patrimonio immobiliare pubblico), dell’Agenzia del Demanio la quale impone alle Soprintendenze i tempi: nel termine perentorio di trenta giorni (art. 27 del collegato).

Ma è tutta l’Amministrazione dei Beni culturali ad essere trattata così. Sono vacanti otto posti di dirigente centrale nel settore quanto mai delicato dei beni archeologici? Bene, due posti li togliamo subito all’archeologia perché uno serve per la segretaria del capo di gabinetto del ministro Urbani e l’altro al sottosegretario allo Sport Pescante che giustamente farà arrivare un altra segretaria dal Coni. Con tanti saluti agli Etruschi e ai Piceni. Aspettano da secoli, possono ben aspettare un altro po’.

C’è sempre più allarme attorno ai Beni culturali e ambientali. Il Ministero, sotto la gestione ciarliera di Giuliano Urbani, appare fermo, inanimato, coi finanziamenti ordinari che ricominciano a scarseggiare come negli anni peggiori e con provvedimenti sulla salvaguardia del Bel Paese, sempre più sbrigativi, sempre meno ponderati, comunque volti a privatizzare, smantellare, indebolire. Del resto, la sede più idonea, e praticata, per discutere e mettere a fuoco, spesso in chiave critica, leggi e misure fondamentali è stato sempre il Consiglio Nazionale per i Beni culturali che, ad esempio, con Veltroni e Melandri ministri, si riuniva sovente sotto l’esperta vice-presidenza operativa di Giuseppe Chiarante. Ebbene, dal 12 dicembre dello scorso anno, cioè da dieci mesi, questo organismo - consultivo quanto autorevole - non è stato più convocato. In compenso il ministro Urbani, non contento del fatto che vi fosse, assai recente, un Testo Unico delle leggi sul patrimonio, ha voluto porre mano ad un Codice dei beni culturali con sempre nuove semplificazioni (a favore dei privati, mai dell’Amministrazione), nuove scorciatoie e accelerazioni. Alle quali peraltro si provvede con decreti legislativi o coi collegati alla Finanziaria davvero micidiali per dirompenza.

In un recente convegno promosso dall’Associazione Banchi Bandinelli, lo stesso Giuseppe Chiarante e la segretaria dell’Assotecnici, Irene Berlingò, hanno sottolineato gli aspetti negativi del decreto legislativo ora alla cosiddetta Bicameralina (presieduta dal senatore Cirami, noto per altre gesta). Anzitutto si depotenziano ancor di più le Soprintendenze territoriali ad indirizzo specialistico (Beni artistici e storici, Beni architettonici e paesaggistici, Beni archeologici) sulle quali, dalle leggi giolittiane a ieri (passando per le due leggi Bottai che ne furono la sostanziale riverniciatura), si è retta la tutela, magari con mezzi finanziari da carestia e però con grande autorevolezza. Oggi sminuita dal ruolo dei soprintendenti regionali e, più in generale, dei titolari degli uffici dirigenziali generali che, con la controriforma Urbani, diventano addirittura 40. Unica consolazione: in una prima ipotesi risultavano 50. E pensare che col Ministero di tecnici progettato da Giovanni Spadolini erano appena 6 e anche col Ministero più largo di Walter Veltroni 30. Saranno i soprintendenti regionali a costituire, nelle diciotto Regioni a statuto ordinario (in quelle a statuto speciale, soprattutto in Sicilia, succede di tutto e di più), una sorta di potentato, probabilmente influenzato dal Governatore locale. Saranno loro a gestire la suddivisione della spesa (che si è rifatta magra dopo anni generosi, fra 1995 e 2001), le gare d’appalto, il personale di nuovo carente. E i vincoli chi li apporrà? Ci dovrà pensare una sorta di conferenza regionale dei soprintendenti. Che è un altro bel modo di rallentare e forse di insabbiare tutto. Una volta era un potere primario del soprintendente territoriale specializzato. In più il ministro Urbani ha anticipato di voler fare del Consiglio Nazionale una sorta di corte d’appello dove i privati possano ricorrere contro quei vincoli pubblici già divenuti così faticosi. Così gli strumenti della tutela vengono manomessi e devitalizzati.

Dal ridisegno del Ministero è sparita la figura del segretario generale e nessuno se ne dorrà più che tanto, come di altre sparizioni. Ma sono scomparsi pure archivi e biblioteche rimessi nel calderone generico delle belle arti. Per le biblioteche si torna a prima del 1926 allorché fu creata la direzione generale delle biblioteche e delle accademie. Del resto, qual è il sistema di valori che sta prevalendo? La cultura non è più un valore in sé. Ha valore se rende, se frutta, se incassa. Oppure se attrae sponsor, se può essere usata per costruirci sopra il mitico Evento. Quale redditività economica possono avere archivi e biblioteche? Quale Evento può essere costruito su di loro? Quindi, Urbani e i suoi spazzato via l’ingombro di dover discutere di queste cose in Consiglio Nazionale provvedono a cancellare dal ruolo delle pur moltiplicate direzioni generali la fonte stessa della nostra storia, del nostro sapere, la memoria costituiva del Bel Paese (archivi e biblioteche).

Domani, chissà, si potrebbe darli in gestione a privati, esternalizzarli, quasi fossero centralini telefonici. Le fototeche, in fondo, potrebbero essere un piatto ghiotto, da gestori americani, o giapponesi.

Del resto, l’attuale ministro per i Beni culturali lo sottolineano da tempo le associazioni, da Italia Nostra al Wwf - ha taciuto sulle leggi-obiettivo del collega Lunardi che pure aggrediscono il paesaggio, sulla legge Gasparri per antenna selvaggia, sulla Marzano sblocca-centrali. Sul più devastante dei condoni (esteso per la prima volta a porzioni di aree demaniali occupate da privati) Urbani ha emesso qualche generico lamento. Dopo aver cestinato il Regolamento Melandri sulle alienazioni di beni culturali pubblici, si appresta ad assentire, col Codice da lui voluto, alla cancellazione della legge Galasso sui piani paesistici. Del resto, che fine ha fatto l’Osservatorio sul paesaggio? Dove sono spariti altri progetti scaturiti dalla Conferenza Nazionale per il Paesaggio? Nel dimenticatoio. Giuliano Urbani scrive ogni giorno, in uno col collega Matteoli dell’Ambiente e sotto la regìa di Tremonti, nuovi capitoli del Libro Nero dei Beni culturali e ambientali. Così, dal Bel Paese passiamo sempre più al Mal Paese.

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Nonostante l’Accordo di programma approvato con DPGR 8 aprile 1994 n. 58521 fosse prioritariamente indirizzato alla definizione di un nuovo insediamento fieristico nei comuni di Rho e Pero, esso stabilì anche la dismissione dagli usi fieristici una superficie di 314.000 mq nel territorio del comune di Milano, già indicata dal PRG come area S.S. b 12/2 con destinazione funzionale a “servizi speciali: fiera” e corrispondente al recinto fieristico storico.

Ciò avrebbe consentito di risolvere uno storico problema di decongestionamento urbano lungo la direttrice nord-ovest della città, limitando la destinazione funzionale fieristica solo alle aree del nuovo edificio realizzato lungo viale Scarampo, denominato polo interno.

Infatti, la Fiera di Milano, insediandosi nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione, determinò un disassamento del recinto fieristico rispetto alla trama viaria e ai tessuti edilizi della direttrice nord-ovest della città, che nel tempo ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano.

Da anni, quindi, numerosi studi e progetti hanno cercato di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponessero l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera. Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile anche nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico approvato dal Comune di Milano nel giugno 2000.

Nel 1994, tuttavia, l’AdP si limitò ad indicare la superficie da dismettere dagli usi fieristici, lasciando indeterminate molte questioni relative alle aree previste in dismissione, tra cui in particolare la loro nuova destinazione funzionale, lo strumento procedurale di questa modifica, gli indici di densità edificatoria, di altezza e distanza degli edifici da applicarsi nel riutilizzo delle aree, la quantità di aree pubbliche necessarie alla città in occasione del nuovo utilizzo.

Tutti questi aspetti, anziché essere indirizzati dal Comune di Milano alla risoluzione dei problemi di decongestionamento della città sono stati in realtà stabiliti autonomamente da Fondazione Fiera Milano (ora ente di diritto privato), con finalità di esclusiva valorizzazione economica del proprio patrimonio immobiliare.

Infatti, in un suo documento definito “Procedura negoziata privata per la cessione di parte dell’area del quartiere fieristico storico”, pubblicato con un’inserzione su organi di stampa specializzati in campo finanziario (Sole 24 ore, Financial Time, Handelsblatt) già in data 4 aprile 2003 si indicavano agli aspiranti acquirenti dell’area gli strumenti procedurali (Programma Integrato di Intervento), le destinazioni funzionali (residenziali, terziarie, commerciali, produttive in percentuali libere), gli indici edificatori (Ut =1,15 mq/mq), le quantità di aree pubbliche da cedere (50% della superficie in dismissione), e l’assenza di limiti di altezza e distanza degli edifici.

Infine, in contrasto con il contenuto dell’Accordo di Programma del 1994, in tale documento si indica in 255.000 mq. anziché in 314.000 mq la superficie da dismettere dagli usi fieristici, mantenendo a destinazione fieristica anche un’area e gli edifici esistenti all’angolo tra viale Scarampo e viale Berengario.

Mentre le dismissioni indicate dall’Accordo di Programma del 1994 avrebbero consentito di tener fermo l’obiettivo di una trasformazione urbanistica coerente coi tessuti insediativi circostanti, le nuove previsioni contenute nella procedura negoziale privata promossa dagli organismi della Fiera, discostandosene per interessi aziendali interni, lo compromettono definitivamente, impedendo la possibilità di rettificare il tracciato di viale Scarampo all’interno dell’attuale recinto fieristico.

D’altra parte, che l’obiettivo di quei contenuti siano gli interessi aziendali della Fiera e non quelli di igienicità e decongestionamento urbano dell’area è dimostrato anche dalle modalità di svolgimento della procedura di negoziazione privata attivata da Fondazione Fiera Milano, che non solo affida la valutazione dei progetti proposti dagli aspiranti acquirenti ai membri del proprio Consiglio di amministrazione e non ad una Commissione indipendente e tecnicamente qualificata, ma effettua la valutazione delle offerte per l’acquisto dell’area di Trasformazione e il relativo Progetto di Riqualificazione in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per la proprietà (artt. 8 e 15 della “Procedura negoziata privata”), anziché con quello del maggiore utilità complessiva in termini di somma tra remunerazione alla proprietà e valore delle quantità di aree ed attrezzature pubbliche proposte.

Ciò nonostante i contenuti planimetrici e normativi di quella procedura negoziata privata sono stati pedissequamente assunti nella delibera GC n. 884/2003 del 15 aprile 2003, sulla cui base il Sindaco di Milano in pari data ha chiesto al Collegio di Vigilanza sull’Accordo di Programma di convalidarli ai fini di un’integrazione all’AdP del 1994, sottoscritta poi il 14 novembre 2004 e ratificata dal Consiglio comunale in data 9.12.2003, senza tener conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime di spazi pubblici prescritte in sede di formazione degli strumenti urbanistici dall’art. 7, punto 2 del D.I. n. 1444/68.

A tale proposito occorre far rilevare:

- che il ricorso all’Accordo di programma approvato con decreto del presidente della regione per determinare i contenuti della Variante al PRG non è motivato da alcuna destinazione di interesse pubblico di competenza regionale, essendo le nuove funzioni previste unicamente quelle residenziali, terziarie e produttive con i relativi spazi di servizi pubblici;

- che l’indice di edificabilità territoriale attribuito dalle NTA della Variante all’area oggetto di trasformazione funzionale, pari a 1,15 mq/mq, è molto superiore a quello attribuito a tutti gli altri PII già approvati dal Comune di Milano (0,65 mq/mq);

- che l’indice di edificabilità fondiaria che ne deriva è almeno pari a 2,3 mq/mq (suscettibile di ulteriori aumenti se l’area pubblica ceduta fosse oltre il 50% della St), cioè molto superiore all’indice fondiario massimo di 1,5 mq/mq prescritto dalle NTA della Variante per l’attigua area mantenuta a destinazione fieristica;

- che ciò è in contrasto con l’art. 7, punto 2 del D.I. n. 1444/68 il quale prescrive che in sede di formazione degli strumenti urbanistici le densità sono stabilite tenendo conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime di spazi previste dagli artt. 3, 4, e 5 del medesimo decreto;

- che la cessione minima ad uso pubblico del 50% dell’area (127.500 mq) non è motivata da valutazioni di corretto dimensionamento derivanti dall’edificabilità prevista; infatti a 5.865 abitanti teorici (desunti dalla quantità edificabile di 293.250 mq di s.l.p. consentita dall’indice di densità territoriale Ut = 1,15 mq/mq, sulla base del parametro di 50 mq/ab stabilito dall’art. 19 della L.R. 51/75, come modificato dall’art. 6 della L.R. 1/2000), corrisponde la destinazione ad aree pubbliche di 234.600 per la funzione terziaria/commerciale (80% della s.l.p., come prescritto dalle NTA) e di 258.060 mq per la funzione residenziale (44 mq/ab, come prescritto dalle NTA). Tali quantità sono quasi pari o superiori all’intera area oggetto di trasformazione urbanistica (255.000 mq), rendendone impossibile l’attuazione senza ricorrere obbligatoriamente alla monetizzazione di quasi la metà delle aree pubbliche prescritte;

- che la cessione minima di aree pubbliche prescritta (127.500 mq = 50% della St) non rispetta nemmeno la dotazione minima di 26,5 mq/ab di aree pubbliche effettivamente realizzate sull’area, come previsto nella realizzazione dei piani attuativi dalla L.R. n. 51/75, e che nel caso in questione ammonterebbero a 155.422 mq;

- che, in contrasto con l’art. 6 comma 3 della L.R. n. 9/99, nonostante le NTA della Variante indichino come strumento attuativo un Programma Integrato di Intervento (PII) avente ad oggetto aree in tutto o in parte destinate ad attrezzature pubbliche o di uso pubblico e ne prevedano una differente utilizzazione, esse non prescrivono che il PII debba assicurare il recupero contestuale della dotazione di spazi pubblici in tal modo venuta meno;

- che il disposto dell’art. 8, punto 2 del DI n. 1444/68 prevede che nei piani attuativi in zona B che non rispettino le quantità minime previste dagli artt. 3, 4 e 5 gli edifici debbano avere altezza non superiore a quella degli edifici preesistenti e circostanti;

- che con un limite di altezza tra 18 e 27 metri (pari ad edifici alti tra sei e nove piani, paragonabili a quelli preesistenti e circostanti) l’indice di densità territoriale (Ut) effettivamente utilizzabile varia, a seconda degli schemi distributivi adottati, tra 0,52 mq/mq e 0,84 mq/mq.

- che, viceversa, l’indice di edificabilità territoriale Ut = 1,15 mq/mq è interamente utilizzabile solo con la realizzazione di edifici che, a seconda dello schema distributivo adottato, debbono necessariamente avere altezze dai circa 35 metri agli oltre 70 metri, pari a edifici dai 12 ai 25 piani, cioè dal doppio al quadruplo dell’altezza degli edifici preesistenti e circostanti;

- che edifici di tali altezze incomberebbero sugli edifici circostanti e preesistenti alterando in senso fortemente peggiorativo la condizione di igienicità e vivibilità urbana dell’intera area;

- che le prescrizioni planimetriche e normative della Variante per le aree oggetto di trasformazione funzionale ed edilizia non individuano il perseguimento di alcun obiettivo indirizzato al decongestionamento urbano attraverso un assetto insediativo coerente a quello dei tessuti urbani circostanti.

Pertanto, i contenuti della Variante approvata non risultano essere finalizzati al rispetto dei dettati degli artt. 3, 4, 7, 8 e 9 del DI 2.4.68, n. 1444 che prescrivono di dimostrare l’impossibilità di raggiungere la quantità minima di spazi pubblici su aree idonee e, anche in tal caso, di reperirli entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate (art. 4, punto 2), di stabilire le densità territoriali e fondiarie tenendo conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime previste dagli artt. 3, 4 e 5 del medesimo decreto (art. 7, punto 2), di non superare con i nuovi edifici l’altezza massima degli edifici preesistenti e circostanti se non si rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all’art. 7 (art. 8, punto 2), né all’obiettivo di realizzare le necessarie dotazioni di aree pubbliche per la città. Al contrario, i contenuti della Variante appaiono, invece, indirizzati dall’interesse di Fondazione Fiera Milano a perseguire con la cessione a terzi dell’area oggetto di dismissione dagli usi fieristici la massima valorizzazione economica.

Sulla base di tali valutazioni un gruppo di cittadini dei quartieri adiacenti all’area dell’ex recinto fieristico sta predisponendo un ricorso al TAR contro la Variante, definitivamente approvata dal decreto del Presidente della Regione Lombardia Formigoni il 19 febbraio scorso. Si invitano quanti volessero aderirvi a scrivere a sergio_brenna@fastwebnet.it

Venerdì, al ministero dei Beni Culturali, andrà in scena un capitolo decisivo per la tutela del patrimonio storico-artistico-ambientale del nostro Paese: verrà deciso, infatti, quali beni, in base al nuovo Codice, saranno considerati intangibili e quali potranno invece essere trasferiti ai privati. Alla vigilia, il cartello di associazioni impegnate nella difesa del nostro patrimonio - Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, FAI, Italia Nostra e WWF, insieme all'Assotecnici - sottoscrivono l’appello che alcuni accademici dei Lincei (Antonino Di Vita, Sergio Donadoni, Tullio Gregory, Natalino Irti, Alessandro Pizzorusso, Adriano Prosperi, Giovanni Pugliese Carratelli, Salvatore Settis) hanno inviato nei giorni scorsi alle più alte autorità dello Stato. Eccone il testo:

«Nell’imminenza dell’emanazione di un nuovo Codice per i Beni Culturali, riteniamo che la nuova normativa debba ispirarsi ad alcuni principi irrinunciabili:

1-Il rigoroso rispetto dell’art. 9 della Costituzione, secondo il quale lo sviluppo della cultura, la ricerca, la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico formano un tutto inscindibile, un’organica unità che vede i cittadini come protagonisti.

2-La concezione attiva e dinamica della tutela, essenzialmente destinata alla fruizione culturale dei beni da parte dei cittadini, secondo la lettura dell’articolo 9 della Costituzione offerta dalla Corte Costituzionale (sentenza nr. 269 del 1995).

3-La “primarietà del valore estetico culturale”, che, sempre secondo la Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986) “non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici”, ma dev’essere “capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale”.

4-La concezione del patrimonio culturale italiano non come una somma disaggregata di beni, ma come un insieme, un continuum , nel quale ogni singolo bene (monumento, area archeologica, museo) s’incardina strutturalmente nel territorio, e così identifica la stessa comunità dei cittadini.

5-La necessità di preservare rigorosamente l’intrasferibilità, in qualsiasi forma ed a qualsiasi soggetto, dei beni di interesse storico-artistico-archeologico, che sono nel demanio e nel patrimonio pubblico, distinguendoli, mediante urgenti misure di censimento, dagli altri beni di proprietà pubblica che non rivestano quell’interesse. E la congiunta necessità di adottare norme legislative idonee a raggiungere tale scopo, anche modificando o restringendo norme vigenti.

6-Il dovere dello Stato di assicurare la tutela del patrimonio culturale mediante lo sviluppo della conoscenza e della ricerca, nonché garantendo la funzionalità e l’aggiornamento della pubblica amministrazione nel relativo settore.

7-La necessità di concepire i beni culturali e paesaggistici come un patrimonio su cui è opportuno investire, e non come un patrimonio da investire.

8-La necessità di considerare la salvaguardia del patrimonio culturale come impegno unitario, sottraendosi a insidiose e arbitrarie distinzioni, come, ad esempio, quella fra tutela e gestione, dato che tipi e forme di gestione possono essere determinati o delimitati soltanto da esigenze di tutela

9-La necessità di un’azione mirata e concorde di Stato, Regioni ed altri enti locali, che salvaguardi i beni di rispettiva pertinenza, avendo come obiettivo essenziale la miglior tutela del patrimonio piuttosto che la sua segmentazione, distribuzione o devoluzione.

10-La necessità di assicurare efficienza ed economicità della tutela e della fruizione, ricorrendo ad imprese private soltanto per i servizi aggiuntivi, che non compromettano in alcun modo i compiti primarî e insostituibili della pubblica amministrazione».

Antonino Di Vita, Sergio Donadoni, Tullio Gregory, Natalino Irti, Alessandro Pizzorusso, Adriano Prosperi, Giovanni Pugliese Carratelli, Salvatore Settis

Due articoli recenti sull’argomento:

Chiarante, Beni culturali

Settis, La spada di Damocle sui beni culturali

È concreto e attuale il pericolo, assai più di quel che finora sia stato avvertito e denunciato, di un grave abbassamento - anche dal punto di vista delle garanzie contenute nelle disposizioni legislative - del livello di tutela del patrimonio storico e culturale del nostro paese. È un pericolo che discende non da intenzioni o propositi soltanto ventilati: ma dalle radicali modifiche previste dalla Commissione che ha predisposto lo schema del nuovo codice dei beni culturali, schema che il governo sarebbe ora intenzionato a varare, nella forma di un decreto delegato, già entro la fine del corrente mese di luglio. La modifica fondamentale proposta riguarda proprio la nozione del patrimonio culturale che deve essere sottoposto a tutela. Sia nella ben nota legge del 1939 (la 1089, che si basava su una tradizione che in molti casi risaliva ai vecchi Stati preunitari), sia nel Testo Unico del 29 ottobre 1999 che ha recepito quella legislazione, il patrimonio da tutelare veniva infatti identificato - era questa la norma di base - con l’insieme delle «cose immobili o mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico» (oppure demoetnoantropologico nella formulazione più aggiornata del Testo Unico); seguiva poi l’indicazione di altre categorie «speciali» di beni di interesse culturale. Lo schema del nuovo codice riprende la definizione di partenza della 1089 e del Testo Unico: ma introduce una drastica limitazione precisando che deve trattarsi di cose che presentino un interesse artistico, storico, archeologico o demoetnoantropologico «di particolare importanza». Il vincolo dell’interesse «particolarmente importante», che nella legislazione finora vigente è richiesto solo per determinate categorie di beni (le cose immobili o mobili di proprietà dei privati da sottoporre a vincolo; i monumenti che in sé non hanno uno specifico valore artistico, ma sono legati a eventi storici o culturali di grande rilievo; i libri, le stampe, gli spartiti musicali, le fotografie considerate di rarità e pregio) diventerebbe così un requisito necessario per individuare, in ogni caso, un bene culturale.

Non c’è bisogno di particolare competenza in campo legislativo per capire che in questo modo verrebbe stravolto (e radicalmente ridimensionato) l’attuale sistema di tutela. Fino a oggi per patrimonio culturale da tutelare si è sempre inteso, nella legislazione e nella concreta esperienza applicativa, quel complesso tessuto storico, artistico, ambientale che è ramificato e stratificato nel territorio e che costituisce, nella sua varietà e articolazione, la straordinaria ricchezza di cui l’Italia dispone. Se invece la condizione dell’interesse «particolarmente importante » diventasse, come la Commissione ha proposto, la chiave di volta del nuovo codice, tutto questo si stima cadrebbe; e i beni da tutelare diventerebbero, in sostanza, solo quelli dichiarati di valore storico e artistico particolarmente importante, lasciando senza tutela quelli considerati minori e soprattutto separando le opere importanti dal loro contesto. Sarebbe, in sostanza, una modifica che andrebbe esattamente in senso contrario rispetto alla richiesta - sostenuta da decenni dal mondo scientifico e ambientalista - di dare una maggiore efficacia alla tutela attraverso una più ampia considerazione dei rapporti ambientali sia urbanistici che paesistici e tutelando non solo la singola opera ma la realtà in cui è inserita. Non occorre sottolineare il carattere devastante di questa rottura del sistema della tutela. L’esperienza che ha consentito al nostro paese, nonostante guasti e trascuratezze, di conservare una parte rilevante del patrimonio trasmessoci dalla storia passata, sarebbe irrimediabilemnte compromessa. Ed è facile immaginare quali sarebbero le conseguenze in tutti i campi, compreso quello delle alienazioni.

È evidente, infatti, che se passasse una riforma così configurata, per vendere o dare in concessione a privati beni di interesse culturale non ci sarebbe neppure bisogno di ricorrere a leggi speciali come quelle sul Patrimonio Spa o a strumenti come le famose Scip ossia le società di cartolarizzazione degli immobili pubblici. Molto più semplicemente tutti i beni che fossero considerati di interesse non particolarmente importante sarebbero disponibili per essere posti in vendita dalle Amministrazioni che ne hanno la proprietà, nelle forme che esse vorranno. Tutto questo va contro - pare a me evidente - un interesse fondamentale del nostro paese, non a caso sancito in uno dei princìpi preliminari della Costituzione. Ci auguriamo, perciò, che lanciare l’allarme serva a produrre una reazione che sia pari all’importanza della posta in gioco. Una posta che riguarda le radici stesse della nostra identità nazionale e che rappresenta una fonte ineguagliabile di ricchezza culturale e materiale. Auspichiamo perciò che dal mondo della scienza e della ricerca, dalle Associazioni impegnate nella difesa della cultura e dell’ambiente, da tutti coloro che giustamente sono orgogliosi del nostro patrimonio storico e artistico e consapevoli della sua importanza, venga una protesta che costringa maggioranza e governo a rinunciare a un progetto così rovinoso e ripristinare - se non altro - una tradizione di tutela che nel corso dei decenni si era venuta consolidando e pareva, ormai, del tutto fuori discussione.

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Si veda anche:

Giuseppe Chiarante, “Patrimonio s.p.a.”

Erbani, Francesco “Beni culturali un grande affare privato”

È in dirittura d’arrivo il nuovo Codice dei beni culturali, da approvarsi (per legge delega) entro l’anno. Non è cosa da poco, visto che esso è destinato a soppiantare qualsiasi norma sui beni culturali in vigore in Italia: insomma, una prova estremamente impegnativa per chi lo ha scritto, gli uffici del Ministero e i giuristi presieduti da Gaetano Trotta, ma soprattutto la prova del fuoco per il ministro Giuliano Urbani. Sono infatti ancora aperte partite capitali, su cui si è svolto nel Paese un acceso dibattito. Per citarne solo due, il problema della privatizzazione della gestione dei beni culturali e quello dell’alienabilità dei beni culturali di proprietà pubblica, in particolare attraverso la «Patrimonio dello Stato S.p.A.» e la correlata «Infrastrutture S.p.A.». Partite importanti, che nelle interpretazioni più pessimistiche (tutt’altro che infondate) mettono a gran rischio il nostro patrimonio culturale.

Del nuovo «codice Urbani» circolano bozze e versioni varie. Eppure, sembra che nessuno abbia voglia di discutere nel merito questi punti capitali. Il fuoco di sbarramento, già cominciato, si svolge con deprimente monotonia intorno a un solo tema, la diatriba fra Stato e regioni, con scontate accuse di centralismo e non meno scontati inni alla devoluzione in cui voci «di destra» e gorgheggi «di sinistra» si confondono fino a risultare indistinguibili. Nessuno nega l’importanza di questo tema, senza però dimenticare che, ove il patrimonio pubblico dovesse essere via via alienato, a Stato e regioni resterebbe sempre meno da gestire. O forse gli allarmi di pochi mesi fa erano ingiustificati, e non è più il caso di perderci tempo? Se non è così (e cercherò di mostrarlo), il nuovo codice è un’occasione irripetibile di sanare le ferite che la legge sulla «Patrimonio S.p.A.» ha inflitto all’assetto istituzionale dei beni culturali in Italia: ed è su questo punto (oltre che sulle forme di gestione, sul rapporto Stato-regioni, e molto altro ancora) che esso andrà giudicato.

La natura devastante della legge Tremonti non è fantasia di qualche cittadino inesperto.

Giorgio Oppo, giurista illustre e accademico dei Lincei, la definisce, sulla Rivista di diritto civile, «esempio clamoroso della mancanza di fantasia e di impegno del legislatore nell’ideare specifici modelli di una gestione agile e produttiva di interessi economici pubblici», e dimostra che la legge è un monstrum giuridico di dubbia costituzionalità; intanto, sono in discussione ben tre disegni di legge (di cui uno presentato da An) per l’istituzione di una commissione parlamentare di vigilanza sulla "Patrimonio SpA". Si è tuttavia diffusa l’opinione che la "Patrimonio S.p.A." sarebbe di fatto innocua e inoperosa. Inoperosa no, visto che ha lanciato il 21 maggio un fondo immobiliare di un miliardo di euro, da gestirsi attraverso una società ora in via di selezione, e che si è presentata fra gli "espositori" al Mipim (Marché International des Professionels de l’Immobilier) di Cannes, il più importante salone di contrattazione immobiliare. Di questi giorni è poi l’annuncio della creazione di una nuova società controllata da Patrimonio S.p.A., Dike Aedifica S.p.A., che avrà il compito di finanziare la costruzione di nuove carceri mediante la dismissione delle carceri storiche (già fulmineamente trasferite alla nuova S.p.A. risultano le carceri di Mondovì, Casale Monferrato, Novi Ligure, Clusone, Ferrara, Frosinone, Avigliano, Velletri, Susa, Pinerolo e Verona; altre 69 sono in lista d’attesa); consigliere delegato di Dike è Vico Valassi, già presidente dell’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili).

Ma è proprio sbagliato vendere una parte del patrimonio immobiliare dello Stato? Certamente no: ma le dismissioni (del resto sempre avvenute) dovrebbero rispondere ad alcune regole elementari. Primo, la distinzione invalicabile fra il patrimonio storico-artistico, paesaggistico e archeologico, per sua natura inalienabile, e il resto, che può ovviamente essere alienato; secondo, la trasparenza assoluta dei meccanismi di alienazione; terzo, l’equità dei prezzi rispetto al mercato. Anche se si possono avanzare seri dubbi su tutti e tre questi punti, mi limiterò ai primi due. Questo giornale ha analizzato (il 6 marzo) il meccanismo introdotto, prima della «Patrimonio S.p.A.», dalla legge 410/2001, che rende possibile la creazione di «Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici» (Scip), saltando a piè pari ogni verifica dell’eventuale valore storico-artistico dei beni, che anzi, se demaniali, diventano «disponibili» non appena inclusi nelle liste del ministero dell’Economia. Sono state così costituite la Scip 1 e la Scip 2, mentre la Scip 3, che doveva gestire gli immobili della Difesa, è stata bloccata dal voto delle opposizioni e di An alla Camera il 2 luglio (proprio mentre decollava Dike Aedifica). Ma le due Scip già all’opera hanno incluso nel loro portafoglio decine di edifici, alcuni dei quali di valore storico, senza chiedere il parere dei Beni Culturali.

Come funzionano le Scip? Il meccanismo di cartolarizzazione (contro il quale l’Unione Europea ha invano messo in guardia l’Italia un anno fa) prevede la cessione in blocco di un portafoglio di immobili di proprietà dello Stato a società-veicolo create per l’occasione, che emettono obbligazioni, da coprirsi coi proventi delle vendite future; si registrano così a favore dello Stato degli incassi di là da venire, garantiti da quegli immobili, ipso facto alienabili. Una visura alla Camera di Commercio di Roma mostra che le due Scip sono società a responsabilità limitata, con un capitale sociale di 10.000 euro, versato al 50% da due società olandesi, Stichting Thesaurum e Stichting Palatium, ed hanno entrambe un amministratore unico, il cittadino britannico Gordon Burrows. Prima di rallegrarci di questo afflato europeistico delle Scip, guardiamo meglio. Le due Stichtingen fanno parte di una famiglia molto più ampia, il gruppo Tmf, un trust fund costituito per gestire altre imprese (delle quali il 30 per cento hanno nomi italiani, come Stichting Tiziano, Stichting Canaletto, Stichting Pantelleria e così via). La sede legale di Scip 1 e 2 è a Roma, in via Petrolini 2, di fatto presso la Kpmg, una società internazionale di consulenza finanziaria formata con la fusione di una società olandese (Klynveld), una inglese (Peat), una americana (Marwick) e una tedesca (Goerdeler); risulta infine coinvolto anche il Consorzio G6 Advisor, una vecchia conoscenza (fu incaricato di vendere il Foro Italico dal governo di centro-sinistra). E’ difficilissimo (ci hanno provato una giornalista olandese, Hedwig Zeedijk, e due giornalisti italiani, Michele Buono e Piero Riccardi) districare questo groviglio e capire chi fa che cosa.

Quel che è chiaro è che si tratta di un sistema a scatole cinesi, non proprio il massimo in termini di trasparenza; e infatti la Fatf, organizzazione intergovernativa contro il riciclaggio di denaro sporco (Financial Action Task Force on Money Laundering), ha fatto pressioni sull’Olanda per una radicale modifica della normativa, che non consenta più agli operatori di nascondersi nel comodo anonimato dei trust funds; e la sua azione è stata energicamente appoggiata dagli Stati Uniti, che temono operazioni di riciclaggio legate al terrorismo. Il Consiglio dei Ministri olandese ha approvato lo scorso 11 aprile la nuova legge, ora al Consiglio di Stato. Nella relazione ufficiale che accompagna la nuova legge, si ricorda anche una dichiarazione Ocse secondo cui il rapporto della Fatf «sarà di aiuto agli Stati membri nella lotta contro il riciclaggio e la corruzione». Ma mentre le organizzazioni internazionali protestano contro il meccanismo olandese dei trust funds, e la stessa Olanda sta per cambiare la legge, è proprio a questo meccanismo (non previsto dal nostro ordinamento giuridico) che fa ricorso il governo italiano per mettere in vendita il patrimonio dello Stato. Del resto, ha ricordato spiritosamente Tremonti, lo aveva già fatto il governo D’Alema per la cartolarizzazione dei crediti Inps.

Diranno gli esperti di finanza internazionale se non c’era proprio niente di meglio per vendere il patrimonio dello Stato; quale è il ruolo delle diverse società coinvolte, che cosa ci guadagnano e con quale vantaggio per i cittadini italiani; se i prezzi di vendita corrispondono o meno ai prezzi di mercato. A me preme sottolineare che, in un assetto tanto complicato, il grande assente è il ministero dei Beni Culturali, il cui giudizio di merito può essere agevolmente evitato. La strategia generale del Ministro dell’Economia è chiara: generare sempre nuovi meccanismi (come la legge 27/2003 per l’alienazione delle manifatture tabacchi) e nuove società (come la Dike Aedifica) per la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato. E’ qui che la finanza creativa del ministro Tremonti incrocia, e potenzialmente vanifica, il codice del beni culturali del ministro Urbani: se esso non farà chiarezza in questa materia, se consentirà che si continui a ignorare ogni distinzione fra immobili di valore culturale e non, il codice nascerà morto. Non possiamo aspettarci che a vigilare sul nostro patrimonio artistico siano società olandesi o consulenti finanziari inglesi. E che cosa accadrà dei beni paesaggistici in un regime di questo tipo, e con le pesanti ipoteche sulla gestione dell’ambiente che Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, ha denunciato nella sua lettera aperta a Berlusconi dell’8 luglio? Da chi verrà gestita la sdemanializzazione delle terre di uso civico (milioni di ettari di boschi, pascoli, montagne) prevista dal disegno di legge 1241 ora in discussione al Senato? Da un’altra Scip?

Dal nuovo codice ci aspettiamo una chiara disciplina dei beni culturali e paesaggistici che faccia argine alle dismissioni facili, indirizzando gli appetiti del ministero dell’Economia verso i beni immobili sicuramente non di valore storico, artistico, paesaggistico o archeologico. Ma nessuna norma sarà efficace se non accompagnata da un adeguato censimento degli immobili di proprietà pubblica. Come scriveva già nel 1990 Giovanni Urbani, indimenticabile direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, va sanata «l’assurdità di una legislazione per la quale il patrimonio pubblico è una specie di oggetto misterioso, un’entità aeriforme nei cui confronti è perciò impossibile esplicare delle azioni di tutela concrete e definite». Si tratta insomma, continuava Urbani, «di riportare il patrimonio pubblico dallo stato gassoso a quello solido» mediante un’operazione di censimento tesa al tempo stesso a proteggere quanto è di valore culturale, e a «liberare» quanto non lo è. E’ importantissimo che il censimento parta subito (il ministro dell’Economia dovrebbe capire che si tratta di un investimento sul patrimonio pubblico), e che sia fatto da chi lo sa fare, cioè non dal solo Demanio, ma dalle Soprintendenze, con forze fresche e risorse adeguate; che sia efficace e trasparente, e se occorre finalizzato in prima fase all’identificazione di beni che siano immediatamente alienabili senza detrimento dei valori storici e culturali. Non meno importante, che nel frattempo si riaffermi il regime di inalienabilità del demanio storico-artistico, peraltro garantito dal codice civile.

Il nuovo codice dei beni culturali nasce in un contesto pesantemente inquinato, sotto la spada di Damocle di massicce e indiscriminate dismissioni del patrimonio pubblico. Abbiamo il diritto di aspettarci che esso non si limiti a prender atto di leggi estremamente discutibili, ma abbia il coraggio di modificare o restringere la normativa vigente per riaffermare, in linea con la Costituzione, il valore di civiltà del nostro patrimonio culturale e ambientale.

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Settis, La Spada di Damocle sui BC

Si veda anche:

Giuseppe Chiarante, “Patrimonio s.p.a.”

Settis, La svendita di Tremonti (5.3.2003)

Erbani-Settis, Se l’arte finisce…(19.10.2002)

Ho due ragioni per essere contrario alla costruzione dell’auditorium a Ravello.

1. L’intervento è illegittimo, e battersi per ottenerlo significa avallare la pericolosissima teoria e prassi secondo la quale se una legge ostacola ciò che voglio fare, abroghiamo la legge o la scavalchiamo.

2. L’intervento è sbagliato perché non ha senso modificare la forma di un paesaggio che è già perfetto di per sé, e che non ha bisogno di aggiunte.

La prima ragione mi sembra la più grave.

Che l’intervento sia in contrasto con la legge regionale 35 del 1987, che ha approvato il piano urbanistico territoriale della costiera in attuazione alla legge Galasso, non è questione di cui si possa dubitare. Lo ha spiegato con molta chiarezza Alessandro Dal Piaz sul Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio 2004. E se qualcuno di quelli che hanno dato il parere favorevole avessero letto il testo della legge regionale e quello del PUT non staremmo a questo punto. Del resto, già in una precedente occasione il TAR aveva rilevato che la previsione dell’auditorium è in contrasto con la legge: con l’ordinanza n. 1350 del 5 luglio 2000, “ritenuto che sussiste il contrasto con il P.U.T”, il TAR sospese la delibera commissariale di adozione del P.R.G.

Salvatore Settis scriveva su la Repubblica del 23 scorso: “Chi studierà la svalutazione delle istituzioni?” E osservava che “l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali”. Questo di Ravello è proprio un caso tipico dell’anomalia italiana descritta da Settis: la Regione promuove un Accordo di programma per tentar di annullare, in un singolo caso, una legge che, viceversa, dovrebbe essere uguale per tutti.

Mi sembra molto grave, e mi dispiace molto che persone come Paolo Sylos Labini e Nicola Cacace, Massimo Cacciari e Franco Barbagallo, Giovanni Valentini e Giorgio Ruffolo – e tanti altri - non se ne siano accorti. So che il clima generale è questo, che la tendenza a privilegiare l’interesse specifico rispetto alla legge è forte, ma a maggior ragione mi preoccupa che nessuno – tra i difensori dell’auditorium – si sia reso conto che anche in questo caso la difesa della legalità deve essere la prima preoccupazione.

Ho parlato e parlo di auditorium, e non di progetto di Niemeyer, perché il progetto non è di Niemeyer. La questione non è di grande rilievo, ma ha avuto un peso strumentale. Non credo che 165 intellettuali si sarebbero spesi per un appello se si fosse trattato di difendere, che so, un progetto dell’architetto Rosa Zeccato. Eppure, stanno difendendo proprio il progetto di Rosa Zeccato, ispirato da uno schizzo di un architetto che, sia pure famoso (e bravo a costruire nuove città nel deserto), a Ravello non ha mai messo piede. Ce lo dice candidamente il sindaco di Ravello, in un suo ampio intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio scorso:

Che il progetto sia di Niemeyer o dell’architetto Zeccato (che immagino bravissima) a me peraltro poco importa. Sul merito del progetto per me il punto è un altro. Io sono convinto che non tutte le parti del territorio della nostra civilissima Italia abbiano bisogno di essere trasformate con l’aggiunta di nuovi oggetti. E a me sembra che Ravello abbia una qualità che non tollera né aggiunte né sottrazioni (salvo forse quelle poche opere abusive che qui o là s’intravedono).

Vogliamo Niemeyer? Benissimo. Ha costruito a Segrate, chiamiamolo a fare un progetto a Scampìa o a Nola o a Soccavo, se la legge e i piani lo consentono. Ma lasciamo in pace Ravello, e per i concerti utilizziamo Villa Rufolo, Villa Cimbrone, e magari San Giovanni del Toro.

Ascoltati gli interventi di quanti sono intervenuti con me alla trasmissione di Ambiente Italia, devo dire che le mie preoccupazioni sono aumentate. Non mi hanno convinto le difese della bellezza dell’oggetto, perché non è questo che conta: non stiamo parlando di un quadro attaccato a un muro. Né mi hanno convinto le teorizzazioni di chi sostiene ancora oggi (come si sosteneva cinquant’anni fa a proposito dei centri storici) che dappertutto si può trasformare a condizione che la trasformazione sia “bella”. Mi ha preoccupato il fatto che il tentativo di scavalcare la legge (perchè è questo che si è fatto) sia stato ridotto dal rappresentante di Legambiente a una questione di “problemi legali”, come se si trattasse di un affare di condominio o di eredità. Mi ha preoccupato che si sia addirittura proposto al Consiglio regionale (come ha fatto il direttore del WWF) di fare una legge eccezionale per Niemayer. Dopo il “Lodo Schifani” siamo al “Lodo Benedetto”?

Il paesaggio non si salva se si avalla la teoria secondo la quale la legalità è qualcosa che si può aggiustare, come certi giudici disonesti, pagati da certi avvocati malfattori, aggiustavano certi processi.

Edoardo Salzano

Gli ambientalisti italiani ed europei pongono il “caso Italia” e chiedono al Presidente Berlusconi garanzie sul rispetto per l’ambiente

“Vorremmo e speriamo in una Presidenza europea che affermi con forza ed indipendenza un ruolo di responsabilità del nostro continente verso il mondo intero, dall’applicazione del Protocollo di Kyoto al problema degli o.g.m, dalla diminuzione degli impatti ambientali in agricoltura alla nuova direttiva sulla chimica. Temiamo invece una presidenza che voglia esportare un modello italiano di sviluppo, tutt’altro che nuovo, centrato sulle opere pubbliche e alle deroghe alle norme di tutela ambientale” . Hanno così dichiarato i rappresentanti delle più importanti associazioni ambientaliste nazionali e internazionali, il giorno prima della relazione al Parlamento Europeo del Presidente Berlusconi sul semestre italiano, esponendo le loro preoccupazioni. E’ stato illustrato anche un lungo e documentato Dossier sulle scelte ambientali operate proprio dal Governo Berlusconi predisposto e condiviso da un largo cartello di associazioni internazionali (WWF, Greenpeace, Birdlife International, BEE) ed Italiane (FAI-Fondo per l’Ambiente Italiano, Legambiente, LIPU, Italia Nostra, Istituto Nazionale di Urbanistica, LAC, LAV, VAS, Associazione Bianchi Bandinelli).

“In Italia è in atto una vera e propria deregulation in campo ambientale e questa è strettamente funzionale a quella politica di “sviluppo e infrastrutture” che secondo le dichiarazioni del Presidente Berlusconi dovrebbe costituire la ricetta della nuova Europa. Chiediamo al Presidente Berlusconi, proprio nel momento in cui assume un incarico così prestigioso e delicato, di avere nei confronti della questione ambientale un approccio più attento e responsabile rispetto a quello assunto finora in Italia. Auspichiamo che non si voglia proporre in Europa la stessa Valutazione d’Impatto Ambientale semplificata gia applicata nel nostro paese che renda così impossibile una seria analisi degli impatti prodotti dalle opere pubbliche. Speriamo che non si voglia portare in Europa, come si sta facendo in Italia, procedure di smaltimento dei rifiuti che non danno sufficienti garanzia per la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini e che sono in contrasto con le stesse normative europee. Speriamo che la priorità sull’applicazione del Protocollo di Kyoto non sia schiacciata da una politica energetica, come già avviene in Italia, tesa ad incrementare i consumi ed a liberalizzare il mercato senza alcun controllo della domanda e senza nessuna programmazione territoriale degli impianti energetici. Speriamo che in tema di tutela dei beni naturali e dei beni culturali si voglia vedere questi come beni dell’umanità da preservare e non solo come occasioni economiche dove, come si intende fare in Italia per i parchi o per i musei, l’opportunità di sfruttamento gestita dai privati potrebbe compromettere il senso stesso della tutela”

Il lungo DOSSIER predisposto dalle Associazioni Ambientaliste, inviato ai Capigruppo di tutti i Gruppi Parlamentari Europei, oltre che al Presidente Berlusconi con una richiesta di incontro, passa in rassegna l’attività dei primi due anni del Governo Berlusconi insediatosi in Italia nel giugno 2001. Nel Dossier si passano in rassegna le politiche ambientali italiane, al di là dell’attività del Ministero dell’Ambiente, dalle opere pubbliche all’energia, dalle acque ai rifiuti, dalle telecomunicazioni ai beni culturali. “Non si tratta solo di una deregulation normativa” sostengono gli ambientalisti “ma di un vero e proprio ribaltamento di valori: oggi più che mai si afferma la prevalenza dei valori economici ed occupazionali rispetto a quelli della tutela, della conservazione, dell’identità culturale”.

“I fatti non ce lo consentirebbero, ma noi vogliamo lo stesso essere ottimisti e fiduciosi” hanno detto gli ambientalisti. “Crediamo che con quest’assunzione di ruolo del Governo italiano il Presidente Berlusconi ed i vari Ministri possano rendersi conto che le normative di tutela non possono semplicemente essere liquidate come “ecoburocrazia”, secondo la semplicistica definizione del documento ufficiale italiano inviato a Bruxelles. Sarebbe indicativo ed auspicabile, anche quale segno di distensione, sospendere in Italia per il semestre di Presidenza europea tutte quelle proposte di nuove norme, ad incominciare dalla legge delega in campo ambientale, che entrano o che potrebbero entrare in netto conflitto con le normative comunitarie. Potrebbe questo essere un buon biglietto da visita capace di spazzare via possibili equivoci sulla possibilità di esportare in Europa anche la deregulation normativa posta in essere in Italia”.

Strasburgo, 1 luglio 2003

Il testo del dossier in formato .pdf

Drastici tagli alle spese hanno colpito in tutta Italia gli istituti archivistici - Archivi di Stato e Soprintendenze archivistiche – dipendenti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le riduzioni, che interessano soprattutto i capitoli di funzionamento,oscillano tra il 40 e il 60 % del fabbisogno, determinato dagli effettivi consumi di energia elettrica, gas metano, acqua, pulizia locali, tassa di nettezza urbana, manutenzione ordinaria degli impianti. Esse porteranno entro pochi mesi alla totale paralisi di tutte le attività istituzionali,ivi compresa l'erogazione dei servizi al pubblico.

Sono in pericolo, quindi, le funzioni di tutela, di conservazione e di comunicazione della memoria storica, pubblica e privata, nelle sue straordinarie e molteplici articolazioni: dagli archivi delle persone,delle famiglie, delle comunità locali, fino a quelli delle istituzioni pubbliche e statali. Questa memoria, che costituisce il fondamento dell'identità nazionale, copre un arco cronologico ultramillenario che va, senza interruzioni, dal Medioevo ai giorni nostri e per essa il nostro Paese è famoso e ammirato nel mondo. Una vasta platea di utenti italiani e stranieri studenti, ricercatori, professionisti, storici, cittadini trova negli istituti archivistici indispensabili strumenti di lavoro e di conoscenza. Gli archivi, d' altra parte, sono essenziali anche per assicurare la conoscenza storica e quindi la tutela di tutti gli altri beni culturali, da quelli archeologici, a quelli librari, architettonici e artistici.

La sorte di questo patrimonio documentario di inestimabile valore è ora in pericolo!!I responsabili degli Archivi di Stato e delle Soprintendenze Archivistiche,certi che si possa e si debba assicurare la continuità delle fondamentali funzioni di conservazione e di tutela svolte da questi Istituti, denunciano la gravità della situazione al Ministro e ai competenti organi del Ministero, affinché vi pongano rapidamente rimedio; diversamente, la chiusura degli istituti archivistici sarà di fatto inevitabile.

31 marzo 2003

CHE STA succedendo sul fronte della dismissione del patrimonio artistico di proprietà pubblica? Dopo le polemiche sulla legge Tremonti dello scorso 15 giugno, uno strano silenzio circonda il destino dei nostri monumenti. Nessuno contesta che lo Stato possa vendere una parte dei propri beni (cosa che infatti si è sempre fatta), ma quella parte del patrimonio pubblico che è di riconosciuto valore storico-artistico era sempre stata inalienabile.

Quella legge, al contrario, per la prima volta nella storia italiana abbatteva a cannonate la barriera fra demanio pubblico e demanio artistico rendendo tutti i beni dello Stato disponibili ai meccanismi della cartolarizzazione e della vendita, in un gioco di bussolotti fra la "Patrimonio dello Stato s.p.a." e la "Infrastrutture s.p.a.", come questo giornale ha chiaramente spiegato. La debole garanzia di una preventiva intesa con il ministro dei Beni culturali, peraltro limitata ai soli monumenti "di particolare valore artistico e storico" non è bastata a tranquillizzare le coscienze di chi ha a cuore il futuro di questo Paese, tanto più che di quelle preoccupazioni si fece subito interprete il capo dello Stato, con una lettera al presidente del Consiglio.

Se quelle preoccupazioni sembrano ora meno pressanti a una parte dell’opinione pubblica, non è certo per la vaga e fumosa risposta di Berlusconi (che anzi peggiorava la situazione negando l’evidenza), ma per una direttiva emanata dal Cipe il 19 dicembre, che fissava precisi paletti "etici" alla dismissione dei beni artistici, e soprattutto per le dichiarazioni del ministro dei Beni culturali.

Da alcuni mesi, infatti, Giuliano Urbani non solo ha spesso affermato che avrebbe presidiato il patrimonio artistico scongiurandone la dismissione, ma ha anche detto nel modo più esplicito che la nuova codificazione delle norme di tutela, in preparazione a cura di una commissione presieduta da Gaetano Trotta, avrebbe messo al primissimo posto l’inalienabilità del patrimonio artistico e avrebbe accresciuto, non diminuito, le garanzie di tutela, in conformità con l’articolo 9 della nostra Costituzione. Il livello dei giuristi della commissione Trotta e la creazione, in parallelo, di un Consiglio scientifico per la tutela hanno dato credibilità alla nuova strategia del ministro.

È dunque giunta l’ora di mettere le nostre preoccupazioni nel cassetto? Sarà vero, come ha scritto recentemente il Giornale, che chi protestava a gran voce deve ora ammettere che c’era cascato come un ingenuo? Ahimè, no. Non c’è ragione di dubitare delle dichiarazioni di Urbani, ma intanto il suo collega di governo Tremonti percorre, ignorandole bellamente, una strada diametralmente opposta, e ha già cominciato a svendere il nostro patrimonio culturale. Veniamo ai fatti, incontestabili. Il primo fatto si nasconde sotto una sigla evocativa, Scip, che sta per "Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici", creata, si badi bene, prima della "Patrimonio spa", con la legge 410 del 23 novembre 2001. Passata allora inosservata, questa legge introduceva in realtà una norma dirompente: essa infatti, come hanno scritto Giacomo Vaciago e Salvatore Parlato, si fondava «sull’idea di dismissione in blocco unico del patrimonio immobiliare dello Stato mediante il conferimento a una o più società veicolo appositamente costituite»; non solo, ma «allo scopo d’addivenire a soluzioni di first best» veniva «eliminata la procedura di richieste di pareri e limitata la possibilità di apporre vincoli». In altri termini, la norma è concepita in modo da evitare lo scomodo passaggio attraverso il parere del ministero dei Beni culturali, al punto che la stessa inclusione di un determinato immobile nelle liste pubblicate dal ministero dell’Economia, secondo la legge «produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile» (art. 3, c. 1), sottraendoli al demanio artistico (per sua natura inalienabile), e rendendone in tal modo agevole la vendita. Come si vede, non siamo solo nell’anticamera della "Patrimonio spa", ma in un meccanismo ancor più radicale, «la manifestazione di una chiara volontà da parte del governo di voler procedere a una massiccia dismissione del patrimonio immobiliare» (Vaciago).

Questa norma non è rimasta lettera morta: come ha rivelato sul Giornale dell’arte di febbraio Gaetano Palumbo (del World Monuments Fund), si è già proceduto attraverso la Scip a una prima asta di 35 beni di proprietà pubblica, da Milano a Palermo, da Genova a Trieste. Si badi bene: la legge prevede esplicitamente che gli immobili da porsi in vendita con questa procedura «non sono soggetti alle autorizzazioni di cui al d.l. 490/1999», cioè al Testo Unico sui Beni culturali, ed esclude ogni diritto di prelazione nell’acquisto da parte di tutti gli enti pubblici, centrali e locali (art. 3, c. 17). Viene in tal modo elusa anche la procedura per «l’alienazione di beni immobili del demanio storico e artistico» fissata dal governo precedente con Dpr 283/2000, e più volte richiamata dal ministro Urbani come garanzia contro le dismissioni troppo facili.

Non è tutto. Un nuovo d.l. (n. 282), datato 24 dicembre 2002, e cioè in clima non di Natale ma di Finanziaria, e convertito in legge n. 27 il 21 febbraio scorso, ha introdotto con un colpo di mano il concetto di «dismissione urgente», mettendo in vendita «a trattativa privata, anche in blocco» in una trentina di città italiane svariati immobili, di cui 27 appartenenti all’Ente Tabacchi. «La vendita fa venire meno l’uso governativo, le concessioni in essere e l’eventuale diritto di prelazione spettante a terzi», continua la legge. Fra gli altri immobili velocissimamente posti in vendita figura la Manifattura di Firenze, edificio monumentale già vincolato dal ministero (che non è stato nemmeno consultato), ma dismesso da Tremonti in dispregio delle leggi e delle dichiarazioni del suo collega Urbani, per quanto già destinato a "Cittadella della Cultura". Un altro esempio è la Manifattura di Milano, già destinata alla Scuola Nazionale del Cinema (che dipende dal ministero dei Beni culturali), e letteralmente "scippata" da un ministro all’altro. In molti casi, l’acquirente risulta essere la Fintecna, e cioè una società privata (ex Iri), ma controllata dallo stesso ministero dell’Economia: così per esempio l’edificio di Tor Pagnotta a Roma, dove hanno sede uffici del ministero delle Finanze, non sarà più proprietà dello stesso ministero, ma di Fintecna, che tuttavia è da esso controllata, e a essa dovrà pagare l’affitto, con un’operazione, suppongo, di finanza "creativa", o meglio fittizia. Il vulnus inferto da questa legge alle norme di tutela, ma anche alla credibilità delle dichiarazioni governative, getta un’ombra sinistra sul futuro del nostro patrimonio monumentale e ambientale. Dovremo assistere impotenti a nuovi scippi come questi?

Senza accumulare altri esempi (sarebbe facile), preferisco finire con una domanda. Quale è, su questo fronte, la politica del governo, dov’è la verità? Nelle dichiarazioni di Urbani, o nelle dismissioni di Tremonti? O dovremo pensare che il presidente Berlusconi, pur così poco incline ad apprezzare la cultura islamica, si è convertito alla dottrina della doppia verità professata dai seguaci dell’arabo Averroè?

Ho ritenuto opportuno raccogliere in un libro di rapida lettura una serie di scritti che nel corso degli ultimi mesi ho dedicato alla tanto discussa "Patrimonio S.p.A" e, più in generale alle disposizioni legislative che prevedono la possibilità di alienare, per fare cassa, beni appartenenti al patrimonio culturale dello Stato; o che, comunque, affacciano l’ipotesi di affidarli in concessione a una gestione di tipo privatistico che inevitabilmente comporterebbe limiti sia per un'efficace azione di tutela sia per la fruizione e il godimento pubblico. Ho integrato questa raccolta di scritti - quasi tutti già apparsi, anche se talvolta in forma ridotta, su giornali o riviste - con precisazioni e annotazioni che arricchiscono l'argomentazione o la rafforzano con dati o documenti. Nella seconda parte del volume mi e' invece parso opportuno riunire altri interventi, anch'essi molto recenti o comunque elaborati negli ultimi anni, che si riferiscono a problemi diversi da quello delle alienazioni e delle concessioni, ma che hanno una connessione molto stretta con il ragionamento di fondo che sta all base degli scritti raccolti nella prima parte.

C'è un filo rosso che, in modo molto evidente, percorre e unifica il libro. Esso sta nella preoccupazione, in me e non solo in me molto forte, per la preminenza che negli ultimi tempi e' venuta via via assumendo - in modo più palese nel campo dei beni culturali, ma con conseguenze molto negative anche in altri campi delle attività culturali, dalla scuola alle varie forme di comunicazione - una visione che tende a subordinare la cultura e la politica che la riguarda a un'impostazione di tipo economistico e alla pervasiva ideologia liberista. Tale subordinazione produce, infatti, conseguenze devastanti. Non solo perché apre pericolosamente la strada a distorsioni in senso aziendalistico e mercantilistico nell'elaborazione delle politiche culturali. Ma perché spinge a smarrire o comunque ad annebbiare il senso profondo del valore della cultura e del patrimonio culturale: quel senso profondo che sta nell'essere un elemento essenziale dell'identità di un popolo, nel costituire un fondamento da cui non si può prescindere per un avanzato sviluppo umano e civile, nel rappresentare un fattore qualificante per la formazione di una personalità libera e matura. Decisivo, perciò, è riaffermare, contro questa perversione economicistica, che il fine fondamentale delle politiche culturali deve essere nella valorizzazione della risposta che la cultura dà ai più alti e più ricchi bisogni dell’uomo: e quindi nell’avanzamento della ricerca e della conoscenza, nell’ampliamento della sfera delle libertà, nella fruizione da parte di un numero crescente di donne e di uomini di quanto di meglio la storia umana ha prodotto.

Proprio per questo mi è parso e mi pare giusto sottolineare due contraddizioni apparentemente paradossali che caratterizzano la situazione attuale. La prima è che – si tratta di un esempio, ma è un esempio molto significativo: ho perciò voluto dedicare ad esso il primo saggio raccolto nel volume – mentre la classe dirigente dello Stato italiano di fine ‘800 (uno stato davvero povero e con basi ancora molto fragili) dopo lunghe discussioni dovute appunto alle difficoltà economiche avvertì come dovere nazionale procedere all’acquisto di un autentico tesoro come la Galleria e la Villa Borghese, viceversa la classe dirigente dell’opulenta Italia di oggi, ottava potenza industriale al mondo, non esita a considerare la possibilità di vendere o dare in concessione anche parti importanti del patrimonio culturale pubblico per ridurre il deficit del bilancio statale. Senza per nulla sopravvalutare i governi di fine Ottocento, questo confronto è estremamente indicativo della miseria della cultura politica oggi dominante.

Il secondo apparente paradosso (e questo vale non solo per i beni culturali, ma per tutti i settori della cultura) è che proprio quando l’avanzamento scientifico e tecnologico e il dispiegamento delle forze produttive potrebbero ormai consentire – tanto più in un paese ad elevato reddito come l’Italia, e più in generale in tutto l’Occidente – di ridurre il tempo di lavoro e di dedicare una quota sempre più rilevante delle energie materiali e umane non a un’indefinita corsa alla crescita illimitata della produzione e del consumo di merci, ma alle più ricche e libere attività umane quali quelle dalla conoscenza e della cultura, proprio in questo momento prevale una concezione che tende a subordinare le attività formative e culturali a criteri economicistici o addirittura a una visione mercificante.

Ho parlato di contraddizioni “apparentemente paradossali” perché, in realtà, esse non si basano solo su errate valutazioni soggettive, ma affondano le radici in quel processo di “controriforma conservatrice” che a partire dagli anni ottanta si è sviluppato su scala mondiale. Un processo che certamente è stato favorito anche dalla crisi e dagli errori, spesso devastanti, delle ideologie e dei movimenti progressisti: ma che proprio per questo ha colpito al cuore le idee di preminenza dell’interesse pubblico, di regolazione del mercato, di impegno prioritario per la promozione dell’interesse sociale e delle attività formative e culturali, ossia quelle idee che erano state la base portante di una fase storica che, particolarmente in Europa, resta caratterizzata come la fase di realizzazione di un’esperienza di indubbio valore quale quella dello “Stato sociale”. Anche l’autonomia della cultura e delle politiche culturali è stata duramente violata dalla tendenza che questa controriforma conservatrice ha fatto emergere in modo sempre più marcato.

Per quel che in particolare riguarda l’Italia e, più specificamente, il settore dei beni culturali, non è certo un caso se già negli anni ottanta – cioè poco dopo che per tali beni era stato costituito in Ministero apposito, a proposito del quale si era assicurato (a mio avviso in termini illusori, come già allora ebbi a dire) che avrebbe avuto una struttura “atipica”, essenzialmente “scientifica e tecnica” – cominciò a manifestarsi la tendenza a spostare l’accento dai problemi specifici della tutela alla possibile redditività economica del patrimonio artistico e culturale. La prima iniziativa di questo tipo, di cui molto si discusse, fu quella dei famosi “giacimenti culturali”, promossa da De Michelis (che – va notato perché è significativo – era ministro dei Lavori Pubblici e non dei beni culturali). Quest’iniziativa si tradusse nella dispersione di molte centinaia di miliardi – molti per l’epoca e tanto più rispetto al poco che di solito si dedicava ai Beni culturali – senza alcun costrutto e non portò dunque ad alcun risultato positivo. Ma segnò una strada e contribuì a formare una mentalità. E infatti di lì a pochi anni seguì l’enfasi che si creò attorno alla proposta dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”: cioè quei servizi (libreria, bar, ristorante guardaroba, ecc) che certamente sono necessari per agevolare i visitatori dei musei e che senza dubbio possono dare anche un certo reddito, ma che sono, appunto, un elemento di supporto e che in nessun modo possono diventare un fine. Poi vennero, via via, le leggi che in vario modo hanno, con crescente insistenza, spostato l’attenzione verso soluzioni di tipo privatistico e aziendalistico nella gestione dei beni culturali: sino a quel vero salto di qualità in negativo – la gestione del bene come merce, il fare cassa come fine – che caratterizza provvedimenti legislativi come quello che istituisce la “Patrimonio S.p.A”.

Su due punti voglio ancora richiamare l’attenzione, prima di concludere questa premessa: il primo è che , fortunatamente, una reazione così delle forze della cultura come delle associazioni impegnate in questo campo almeno in qualche misura c’è stata (in particolare contro i pericoli di una politica di privatizzazione e di alienazione) e ha costretto in più di un caso i governanti anche a passi indietro, rettifiche, correzioni, ricerca di soluzioni di compromesso: il peggio, che si temeva, non si è ancora del tutto verificato. E’ anche vero, però che si sono prodotte conseguenze negative che sarà assai difficile riassorbire. Mi riferisco, in particolare, al privilegio dato agli aspetti spettacolari di una politica di tutela (le mostre, i restauri di richiamo, gli eventi, ecc.) rispetto all’impegno quotidiano di studio e di conservazione; all’attenzione concentrata sul museo piuttosto che sul territorio ( sino a separare, proprio nelle maggiori città d’arte, il primo dal secondo); al crescente disinteresse per quelle strutture che non esercitano l’attrazione che ha il patrimonio artistico in senso stretto e che tuttavia svolgono – penso alle biblioteche, agli archivi ecc. – un ruolo decisivo per lo sviluppo culturale di un paese. Soprattutto, ha subito un colpo assai duro quello che era, e in parte è ancora, l’aspetto più qualificante del patrimonio culturale italiano: cioè quella sua diffusione e stratificazione sul territorio che per tanto tempo ha fatto dell’Italia un paese unico al mondo. Anni di lotta per reagire alla speculazione urbanistica e alla devastazione dell’ambiene, per richiamare l’attenzione sui centri storici sul paesaggio, sui valori ambientali, sul complesso legame fra il bene culturale e il contesto più generale in cui è inserito, rischiano di essere annullati dalle tendenze mercantilistiche ed economicistiche prevalse nell’ultimo periodo. Porre rimedio a questa situazione richiederà un impegno di ampio respiro e di lunga lena.

Il secondo punto è che non solo il settore dei beni culturali, ma il complesso della cultura e delle attività che lo qualificano è stato negativamente investito da questo processo. Nei giorni in cui scrivo questa introduzione, per esempio, è soprattutto l’organizzazione della ricerca scientifica che sta subendo duri colpi: non solo per il taglio dei finanziamenti che già da molti mesi era stato annunciato; ma col commissariamento del maggiore ente (il CNR) , coll’annullamento o la radicale riduzione delle forme di autonomia e di autogoverno democratico, colle decisioni dall’alto sul nuovo assetto di enti, centri, istituti, con la palese volontà di subordinare tutto il settore alle decisioni governative. Ma non è molto migliore la situazione di altri settori: dall’università – dove un’autonomia gestionale fortemente condizionata dalla contrazione dei finanziamenti pubblici e un’impostazione fortemente pofessionalizzante in senso praticistico stanno determinando un processo di americanizzazione in senso deteriore – al complesso dell’attività formativa e scolastica (rinvio, al riguardo all'analisi specifica sviluppata nel volume): per non parlare delle insidie sia per un reale pluralismo democratico sia per la qualità culturale dei prodotti che si presentano in modo sempre più marcato nel campo dell’informazione, delle attività di spettacolo, della comunicazione e soprattutto nel settore televisivo.

E’ doveroso dire, infine, che la sinistra – in particolare quella che ha avuto un ruolo di governo, ma non solo essa – non è certo immune da responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi due decenni. Se infatti si è realizzata un’autentica egemonia, nei diversi campi, delle ideologie della destra conservatrice – il mercato, l’impresa, il privato, in generale la prevalenza assegnata ai valori economici rispetto ad ogni altro criterio di valutazione – è anche perché debole è stata la resistenza opposta a queste ideologie. Anzi in molti casi esse hanno fatto presa - in Italia e fuori d’Italia – anche negli orientamenti di larghi settori della sinistra e nelle politiche da essa praticata.

Ciò si è verificato – si potrebbe osservare – in tutti i settori dall’organizzazione civile e sociale. Ma senza dubbio ha pesato particolarmente nel campo della cultura, dove la libertà della ricerca e della sperimentazione, l’autonomia dai vincoli di mercato, la preminenza dell’arte o delle scienze sull’economia sono condizioni essenziali per un più fecondo sviluppo. Si è così aggravato quel già difficile rapporto con la ricerca culturale più innovativa e più avanzata che durante tutto il Novecento ha rappresentato un handicap – accanto alla prevalente ideologia produttivistica – nello sforzo di affrancarsi compiutamente dall’egemonia del capitalismo e creare così le condizioni per cominciare davvero a costruire una propria egemonia.

Proprio per questo ho voluto inserire al termine del volume, un breve saggio – una riflessione appena accennata sul Novecento da Boccioni a Gehry - che non è la conclusione un po’ stravagante di una serie di scritti dedicati a questioni ben più attuali. Con questa riflessione ho invece voluto ricordare che il limite economicistico ha attraversato, durante il secolo che si è appena concluso, tutta la storia della sinistra anche nelle esperienze storicamente più rilevanti e ha inciso in particolare sul rapporto fra politica e cultura. Ciò ha significato, in sostanza, il permanere di una subalternità all’ideologia capitalistica: una subalternità che ancora non è risolta. Fare i conti con questi problemi non è dunque, per la sinistra, un tema secondario o collaterale: al contrario è uno dei temi di fondo che essa, proprio in un momento di grave crisi è chiamata ad affrontare.

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Chiarante, Patrimonio SpA

Punto primo

Gasparrini:

L'intervento è, a mio avviso, coerente con le procedure previste nei casi dei Comuni sprovvisti di PRG e, come sai, ha l'avallo di tutti i soggetti istituzionali preposti ad approvarlo (oltre al Comune, la Regione, la Comunità Montana, la Sovrintendenza, l'ASL e così via): la legge approvativa del PUT non cancella infatti la Legge 17/1982 per i motivi che ho provato ad esplicitare e che leggerai. D'altro canto il Comune è ancora commissariato da anni sull'argomento (con un piano adottato e sospeso) non certo per colpa dell'attuale Sindaco e sarebbe assurdo pensare che, finchè tale situazione non si risolve (così come quelle di eventuali altri comuni in situazioni analoghe), non valgano le norme derogatorie della legge 17/1982 limitatamente alle categorie di opere pubbliche in essa previste, con i danni che sarebbe facile immaginare sulla dotazione di attrezzature del DM 1444/1968.



Salzano

Non sono daccordo. La legge regionale 17/1982 è anteriore alla legge regionale 35/1987, e quindi non può prevalere su di essa. Per di più, la 35/1987 è una legge speciale, perciò prevarrebbe in ogni caso su una legge ordinaria, quale la 17/1982 è.

Gasparrini

La legge 35/1987 così recita all'art. 5 (Norme di salvaguardia): "Dalla data di entrata in vigore del Piano Urbanistico Territoriale e sino all' approvazione dei Piani Regolatori Generali comunali (ivi incluse le obbligatorie varianti generali di adeguamento ai Piani Regolatori Generali eventualmente vigenti) per tutti i Comuni dell' area è vietato il rilascio di concessioni ai sensi della Legge 28 gennaio 1977, n. 10. Sono escluse da tale divieto le concessioni relative a opere di edilizia pubblica (residenziali, scolastica, sanitaria etc.) che comunque dovranno essere conformi alla normativa urbanistica all'atto vigente, e munite del parere di conformità della Giunta regionale." Ciò significa che sono escluse dal divieto l'ERP e le opere di "urbanizzazione secondaria" (quelle del DI 1444/1968 appunto) conformi alle norme urbanistiche vigenti che, nel caso di comuni sprovvisti di PRG, sono a livello regionale la legge 14/1982 e la legge 17/1982 e, a livello nazionale il DI 1444/68 per quel che riguarda le attrezzature. La legge 17/1982, all'art. 4, chiarisce che le limitazioni edificatorie indicate, fino all'approvazione dei PRG, "non si applicano nei confronti degli intervenuti volti alla realizzazione di edifici e strutture pubbliche, opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di programmi per l' edilizia residenziale pubblica, nonchè dei piani e degli interventi previsti dalla legge statale 17 maggio 1981, n. 219" (le stesse peraltro indicate nella legge 35/1987). Il senso della norma è chiaro, come dico nella mia perizia: garantire il blocco dell’edificazione sino all’approvazione del PRG ma consentire comunque di realizzare opere di interesse vitale (come gli edifici e le strutture pubbliche o le opere di urbanizzazione primaria) e rispettare così gli obblighi normativi per opere pubbliche previste da leggi nazionali, quali sono appunto quelle di urbanizzazione secondaria (indicate nella L. n. 847/1964 e ricomprese nelle “attrezzature pubbliche” di cui all’art. 3 del D.I. n. 1444/1968) e di edilizia residenziale pubblica (L. n. 167/1962, L. n. 865/1971 e L. n. 219/1981). Il problema non può essere posto in termini cronologici (la legge 35/1987 è successiva alla 14/1982) se la nuova legge non abroga esplicitamente le precedenti ma è anzi coerente con esse. D'altro canto, la tua interpretazione sarebbe gravemente penalizzante proprio rispetto al principio posto dal legislatore nazionale e regionale a base della formulazione di quei valori minimi obbligatori di attrezzature che i Comuni devono comunque rispettare (anche in assenza di uno strumento urbanistico e anche in aree di interesse paesistico) e avrebbe una ripercussione fortemente negativa sulla qualità urbana degli insediamenti. Nello stesso tempo, metterebbe in discussione una prassi interpretativa che da anni viene adottata in proposito nell’area sorrentino-amalfitana e che ha consentito l’approvazione e realizzazione di numerose attrezzature pubbliche in altri Comuni. L'accordo di programma firmato da tutti gli enti, comprensivo del "parere di conformità" della Regione previsto dall'art. 5 del PUT va in questa direzione. Aspetto da te delucidazioni, alla luce di quanto appena detto, dei motivi per i quali (aldilà della cronologia) ritieni che la legge del PUT abroghi le leggi urbanistiche regionali.



Salzano

La legge 35/1987, quando afferma che sono escluse dal divieto a costruire fino all’approvazione del PRG “ le concessioni relative a opere di edilizia pubblica (residenziali, scolastica, sanitaria etc.)”, afferma nella stessa frase che esse “comunque dovranno essereconformi alla normativa urbanistica all'atto vigente, e munite del parere di conformità della Giunta regionale”. Alla normativa oggi vigente del PUT esse non sono certo conformi (questa è almeno l’opinione mia, ed essa coincide con quella del TAR quando sospese l’approvazione del PRG).

Per quanto riguarda la legge 17/1982 ti ripeto che nel diritto vige il principio (e i principi non si modificano con un parere tuo o mio) della prevalenza della disposizione secondo la loro successione cronologica, così come vale l’altro principio della prevalenza della legge speciale sulla legge ordinaria: ed è evidente che una legge di tutela di un ambiente come quello della Costiera non può non prevalere su una legge formata con l’occhio rivolto a Marcianise o a Gricignano o a Battipaglia

E per favore non mi venire a dire che la mia interpretazione “sarebbe gravemente penalizzante proprio rispetto al principio posto dal legislatore nazionale e regionale a base della formulazione di quei valori minimi obbligatori di attrezzature che i Comuni devono comunque rispettare”! Mi sembra proprio che ti arrampichi sugli specchi: (a) quei minimi obbligatori devono essere rispettati nella formazione dei piani urbanistici, come dice esplicitamente il DI 1444/1968; (b) un auditorium di 400 posti non rientra in certo quel “valore minimo obbligatorio” che deve essere assicurato ad ogni cittadino” (ti rendi conto che siamo in Italia?).

E non confondere “prevalenza” con “abrogazione”. La 35/1987 non abroga un bel nulla: invece, nella limitata (e delicatissima) area alla quale si riferisce, le sue determinazioni prevalgono, superano, devono essere rispettate anche se in contrasto (o meno “permissive”) di quelle di una legge che, come la 17/1982, oltre a essere antecedente, riguarda l’intera Regione Campania.

La chiudiamo su questo punto? La smetti di difendere la legittimità di una trasformazione sostenendo che tra le due leggi non c’è contrasto o che la più antica e generale prevale sulla più recente e speciale?

PUNTO SECONDO

Gasparrini

l'auditorium è a pieno titolo un'urbanizzazione secondaria compresa nelle attrezzature di interesse comune del DM stesso, e trovo singolari le omissioni in proposito di Sandro e Vezio che, per motivi incomprensibili, non citano le attrezzature di interesse "culturale" tra quelle obbligatorie per legge

Salzano

Non sono d'accordo. Le attrezzature di cui all'articolo 3 del DI (interministeriale, non ministeriale) 1444/1968 sono senza dubbio distinte dalle attrezzature d'interesse generale (le Zone F), e a differenza di queste sono attrezzature locali. Ed è evidente che non possiamo pensare di avere un auditorium di 405 posti in ogni comune della Costiera. O no?

Gasparrini

Ti rispondo: Francamente non capisco bene la tua risposta che non entra nel merito della questione, da me lungamente trattata nella perizia, di cosa siano le attrezzature pubbliche del DI (non DM, ok) 1444/1968. Ho cercato di chiarire che:

- l'elenco riportato da Vezio nella sua perizia per i privati espropriandi non corrisponde a quello del DI e omette, incomprensibilmente, le attrezzature di interesse culturale;

- le attrezzature di interesse culturale non sono elencate nella legge e quindi devono essere articolate successivamente. Da chi?: dai Comuni, ovviamente. E sono i Comuni che decideranno se fare una biblioteca, un centro socio-culturale, una sala per spettacoli o quant'altro. Non credo che dobbiamo essere noi a deciderlo e questa libertà consentirà di fare le attrezzature giuste nel posto giusto (come lo è un piccolo auditorium di 400 posti a Ravello "città della musica" che può svolgere molteplici funzioni per eventi culturali). Sai bene, peraltro, che un museo, una biblioteca o un'altro contenitore di tipo culturale non è necessariamente più invisibile di una sala per spettacoli. Anzi.

- sfido chiunque (e quindi anche te) a dire poi che, nella categoria delle attrezzature culturali, non siano comprese le sale per spettacoli: tu sai molto bene che in questa direzione è stata interpretata la legge da tantissimi comuni (ho fatto ampie citazioni di autori nella mia perizia e l'Italia è fortunatamente piena di standard "di quartiere" che hanno consentito di realizzare cinema, teatri, sale per spettacoli in genere e auditorium appunto). Come è giusto che sia, d'altronde: un bravo giurista sa che il problema, su materie di questo tipo, è la giurisprudenza "di fatto" che si determina nell'applicazione della legge e non una presunta fedele interpretazione della volontà del legislatore che non traspare affatto dal testo normativo (che si limita ad enunciare, fortunatamente, le categorie di attrezzature) e sarebbe quindi assolutamente arbitraria;

- in un picclo centro (2500 abitanti), non esiste il problema di un'articolazione delle attrezzature per "quartieri": il centro nel suo insieme è assimilabile alla scala del quartiere (nelle città i quartieri sono molte miggliaia di abitanti, infatti). Quindi la scala locale indicata nel DI è, per Ravello, quella dell'intero centro. Ma su questo non mi dilungo perchè l'ho fatto nella mia perizia e tu sei perfettamente a conoscenza del concetto e delle pratiche che ne discendono nella programmazione dei servizi;

- sai bene poi anche che le attrezzature culturali non sono nominate nel DI tra le attrezzature di livello superiore. Anche se lo fossero, la sala di Niemeyer non potremmo classificarla certo tra queste.

E allora cos'è quest'opera? Quali sono le attrezzature "di interesse culturale"? Se fossero giuste le cosi che dici dovremmo arrivare alla conclusione che un'opera come quella di cui stiamo parlando (anche troppo) non potrebbe essere classificata e realizzata come un'attrezzatura pubblica. Mi sembrerebbe francamente paradossale (e non posso pensare che tu voglia dire questo, ma a questo si arriva seguendoti nel ragionamento). Poi ci meravigliamo perchè l'urbanistica viene odiata da alcuni (da altri lo è per motivi gravi e strumentali): facciamo il possibile per rendere complicata l'attuazione di cose che dovrebbero essere di normale amministrazione.

Salzano

La questione non è se un auditorium faccia o non faccia parte delle “urbanizzazioni secondarie”, o possa o meno essere considerato tra gli spazi pubblici di cui all’articolo 3 del DI 1444/1968. La questione è capire se un auditorium come quello progettato sia o no tra le opere previste, o consentite, dal PUT.

L’area dove dovrebbe sorgere l’auditorium ricade in Zona territoriale 3 del PUT. Questa zona – teniamolo presente – secondo la legge 35/1987, articolo 17, comprende “gli insediamenti antichi, integrati con la organizzazione agricola del territorio, presenti nella costiera Amalfitana e di notevole importanza paesistica”; una zona che “va trasferita nel Piano regolatore generale, come zona di «Tutela Integrata e Risanamento»”. In questa zona – prosegue la norma - ”con una progettazione estremamente dettagliata, documentata e culturalmente qualificata, il Piano regolatore generale fornirà indicazioni e norme (mediante elaborati di piano di dettaglio in scala almeno 1:500: planovolumetrici, profili, fotomontaggi etc.) tali da (omissis)”.

In questa zona delicatissima la legge 35/1987, sempre nel medesimo articolo 17, prescrive che il PRG deve

impedire ulteriore edificazione, fatta eccezione per:

- le attrezzature pubbliche previste dal PUT e quelle a livello di quartiere, sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale;

- eventuali limitatissimi interventi edilizi residenziali e terziari, ove ne sussista il fabbisogno di cui ai precedenti, articoli 9 e 10, e sempre che l'analisi e la progettazione dettagliata del Piano regolatore generale ne dimostrino la compatibilità ambientale”.

Quindi è inutile qualsiasi esegesi sul rapporto tra standard urbanistici e urbanizzazioni secondarie. I formalismi giuridici si infrangono sulla chiarezza della norma. Il PRG (che a Ravello non c’è, non per colpa di Italia Nostra) può prevedere non “urbanissazioni secondarie” o “centri culturali e da spettacolo”, ma “attrezzature di quartiere”. In parole povere, e da urbanista, quegli spazi pubblici di cui è essenziale che il cittadino disponga a una distanza tale da poterli raggiungere pedonalmente. Certo, in quartieri urbani si può anche pensare a una sala polivalente, a una biblioteca di quartiere, o a simili attrezzature. Ti sembra che sia questo il caso dell’auditorium progettato da Niemeyer-Zoccato?

PUNTO TERZO

Gasparrini

E’ un'attrezzatura "necessaria" non solo dal punto di vista normativo ma anche dal punto di vista dell'utilità inconfutabile di mettere in rete e valorizzare le strutture turistico-culturali esistenti, come dimostrano una serie di studi qualificati svolti per conto del Comune e che sono a supporto della valutazione di "compatibilità ambientale" che accompagna il progetto.

Salzano

E chi lo nega? Ma il fatto non cancella il diritto.

Gasparrini

Non ti rispondo perché la mia visione del diritto in questo caso l'ho già espressa. Ma prendo atto che sei d'accordo sulla necessità di un auditorium a Ravello.

Salzano

Non ho mai detto che sono “d'accordo sulla necessità di un auditorium a Ravello”. Ho detto che non ho mai negato questa necessità. Ma se si ritiene che un auditorium lì è davvero necessario, dopo aver ammesso che non si può farlo subito perché è illegittimo, bisognerebbe chiedersi che percorso occorre seguire per farlo. Lascio perdere l’aspetto procedimentale e mi soffermo sul merito urbanistico.

Poiché l’auditorium non è certo una struttura commisurata alle esigenze di 2500 abitanti, ma almeno di livello intercomunale (non parlo da giurista, quale non sono, ma da urbanista) occorrerebbe studiare il territorio almeno alla scala del presumibile bacino d’utenza. Vogliamo riferirci alla Costiera amalfitana, o vogliamo considerare l’intera penisola sorrentino-amalfitana? Naturalmente coinvolgendo gli altri comuni, oppureinveswtendo come protagonista un livello sovraordinato: la Regione? Forse si.

Poiché il sito è quello che è, occorrerebbe approfondire in particolare lo studio su due aspetti rilevantissimi: quello paesistico e ambientale da un lato, quello dell’organizzazione della mobilità e dell’accessibilità dall’altro. Se non facessimo così, correremmo il rischio di danneggiare un paesaggio la cui eccezionalità mi pare dimostrata, e saremmo certi di provocare disastri dal punto di vista di una viabilità già oltre l’orlo del collasso (se consideri le devastazioni del paesaggio che i lavori sulle infrastrutture hanno provocato).

Se gli studi confermassero l’opportunità e l’utilità di realizzare l’auditorium lì, occorerebbe tradurli in una serie coordinata e coerente di scelte sul territorio: in un piano, che probabilmente avrebbe qualche analogia con il PUT, ma naturalmente sarebbe più aggiornato, preciso, rigoroso, operativo. Dimenticavo, bisognerebbe provvedere anche alle risorse necessarie per renderlo effettivamente operativo (e allora, fatalmente, ci domanderemmo se, tra tutti gli interventi necessari, l’auditorium è proprio quella prioritaria).

Sulla base delle direttive di questo insieme di “scelte politiche tecnicamente assistite” (di questo piano territoriale) occorrerebbe poi redigere il piano comunale e, solo su questa base, affidare (magari con una procedura di pubblica evidenza? Non ne sono innamorato, ma forse un confronto tra soluzioni diverse potrebbe essere opportuno, per chi non s’innamora delle vedettes) affidare un incarico di progettazione, realizzare, inaugurare, con la certezza che il paesaggio sarebbe più bello che pria, e che le 400 automobili o i 5 pullman (pubblico, orchestrali, tecnici ecc.) non intaserebbero la precaria rete stradale e non solleciterebbero la realizzazione di nuove strade: magari avvalendosi di qualche nuova interpretazione corriva delle leggi, o a una legge ad hoc, o a una raccolta di firme prestigiose.

PUNTO QUARTO

Gasparrini

un piccolo (400 posti!) e pregevole intervento di architettura contemporanea che interpreta in modo straordinario linguaggi, qualità spaziali, disposizioni al suolo e relazioni con il paesaggio, valorizzando la straordinaria stratificazione della costiera amalfitana e introducendo nuovi valori fisici e simbolici capaci di consolidare e arricchire quelli esistenti (ma su questo aspetto, so che non sei d'accordo quindi non insisto)

Salzano

Ti credo, come credo a Cesare de Seta che sostiene che Niemeyer ha fatto il progetto, e non solo il bozzetto come invece aveva scritto il Sindaco ( Corriere del Mezzogiorno, 15 gennaio 2004, p. 1). Ma non è questo un punto che io abbia sollevato. Tra l'altro, del progetto ho visto solo il materiale pubblicato in internet, perciò, benché conosca bene Ravello, non sono in grado di confermare né di smentire la tua affermazione. Dunque, fino a prova contraria ti credo. Ma non c'entra con le ragioni della mia critica.

Gasparrini

Prendo atto della tua fiducia e della disponibilità a pensare che questo sia possibile. Molti non lo sono per principio.

PUNTO QUINTO

Gasparrini

E’ compatibile, in una lettura più dettagliata del progetto, con i requisiti spaziali e ambientali che possono ricondursi ad una interpretazione complessa e non manichea del suo "impatto" (ovviamente, non condivido la tua posizione secondo cui è comunque sbagliato aggiungere qualcosa all'attuale, intoccabile, bellezza del paesaggio).

Salzano

Quando ero assessore ho chiamato Giancarlo De Carlo a Mazzorbo (Venezia), Vittorio Gregotti a Cannaregio (Venezia), Gino Valle alla Giudecca (Venezia). Non ho quindi nessuna pregiudiziale ostilità nei confronti dell'architettura moderna nei paesaggi consolidati. Posso sostenere che forzare la legge per abbellire un luogo già bello, investire risorse pubbliche per migliorare un luogo già ottimo e distrarle da altri impieghi più urgenti, aumentare il carico urbanistico in contrasto con l'unico piano territoriale esistente in quell'area, e in assenza perfino di un piano regolatore vigente, è un errore? L'ho detto e continuo a ripeterlo fino alla nausea. La questione centrale è per me quella della legalità. E invece, di fronte ai puntuali rilievi di De Lucia tutti hanno detto che, si, c'è "qualche problema legale", oppure che ci sono "questioni burocratiche", ma in un modo o nell'altro si troverà il modo di risolverle. Nessuno che abbia voluto cercare di entrare nel merito, né quando la sola perizia in campo era quella di De Lucia, né quando ce n'erano due che dicevano cose diverse. Forse il fatto che De Lucia fosse stato interpellato da un gruppo di cittadini anziché da un ente pubblico rendeva meno valide le sue ragioni? No, caro Carlo, la ragione è un'altra, e sta nel clima che tutti respiriamo e da cui molti si fanno condizionare. Il clima per cui se una causa è da me ritenuta giusta la legge, le regole che valgono per tutti, non valgono. Come ho scritto a de Seta, trascurare la questione della legittimità, ridurla a quisquilia o pinzillacchera, o considerarla come cosa che possa essere risolta con una interpretazione ad usum delphini o, peggio ancora, con una legge ad personam, è molto pericoloso. Significa cedere alla tendenza che sembra dominare oggi nel nostro sciagurato paese: la tendenza a considerare prevalenti certi interessi specifici (poco importa se di singoli soggetti o di intere comunità locali o scientifiche) rispetto alla legge comune. Ti piaccia o no, Carlo, questo è berlusconismo, il quale, come tutti i virus, conosce i portatori infetti e i portatori sani.

Gasparrini

Proprio perchè conosco bene lo spazio che hai dato all'architettura contemporanea a Venezia (ricorderai che ci siamo incontrati da te sul piano di Venezia, assieme a Edgarda, allo stesso Vezio e a tanti altri per discutere sulle regole della conservazione/trasformazione del centro storico) e proprio perché ho sempre pensato che la tua posizione sui centri storici non fosse quella della cristallizzazione tout court (come quella di altri) ferma restando la nostra comune posizione su una rigorosa conservazione del patrimonio storico (cosa che ho perseguito anche nel nuovo Piano di Roma), non capisco il tuo attuale radicalismo sull'argomento. Se mi dici oggi che, in realtà, la questione principale è quella della legittimità, ti seguo e ne stiamo discutendo civilmente. Certo con argomentazioni di segno diverso ma che credo abbiano pari dignità e richiederebbero, da parte di altri, la stessa pazienza e voglia di capire che stiamo dedicando noi ad affrontare questioni così complesse e delicate

Salzano

Non mi soffermo sulle altre questioni, per le quali ti rinvio alla lettera aperta a Cesare de Seta di Lodo Meneghetti che troverai in Eddyburg. Con affetto

Approfittando della distrazione generale (lettori e giornalisti erano più occupati nella caccia ai regali che a controllare leggi e regolamenti), il Cipe ha varato una direttiva sui beni culturali non esattamente cristallina. «Come al solito, si vuole proteggere soltanto la grande opera, e si lascia intendere che i piccoli o meno noti beni possono finire sul mercato», protesta il verde Sauro Turroni, vicepresidente della commissione ambiente del senato.

Che cosa non la convince, nella direttiva del Cipe?

Si parla di beni «di particolare valore storico, artistico, culturale e ambientale», intendendo con questo il Colosseo, la Fontana di Trevi e gli Uffizi. Che fine faranno, viceversa, le migliaia di torri medievali, castelli, piccoli musei che arricchiscono la vita culturale dei cittadini italiani ma non hanno mai goduto degli onori delle cronache? L'altro giorno ho visto il castello dove fu organizzata la congiura dei Pazzi: è un edificio senza «particolari» bellezze, ma certo pieno di storia. L'impronta «immobiliarista» che questo governo vuole dare al paese, consentirà che se ne facciano miniappartamenti?

La direttiva accenna al fatto che si potrà vendere solo ciò che è vendibile. Tautologia a parte, esistono davvero beni culturali pubblici alienabili?

La questione è attualmente controversa, poiché il codice civile, agli articoli 822 e 823 dice che il demanio culturale non può essere alienato, ma il regolamento approvato nel settembre del 2000, quando al governo c'era ancora il centro sinistra, ha aperto la porta alle alienazioni. Nonostante non abbia formalmente modificato il codice civile, si intende implicitamente superato, in base al principio della gerarchia delle fonti secondo cui una legge successiva cancella quella precedente.

In pratica, il dpr 283 del 2000 consente di alienare i beni che non sono esplicitamente protetti da un decreto di vincolo. Come lei diceva, si abbandonano al loro destino tutte le opere disseminate in giro per l'Italia e prive di una dichiarazione vincolante. Ma si potrà almeno salvare ciò che la legge già protegge?

Dipenderà dalle soprintendenze regionali, dato che quello stesso regolamento impone al ministero di aggiornare e verificare gli elenchi dei beni culturali. E la stesura dell'elenco è demandata, come è ovvio, agli enti di tutela sul territorio, che sono le soprintendenze. Del resto, soltanto le soprintendenze regionali conoscono a sufficienza il loro territorio e soltanto loro sono in grado di redigere gli elenchi richiesti. Ma questo lavoro è stato fatto? Nella mia regione, l'Emilia Romagna, si è provveduto. Vorrei che vi fosse certezza anche per le altre regioni.

Le altre norme del Cipe sono più tranquillizzanti?

Mi preoccupa anche il punto 4, secondo cui la Patrimonio SpA «osserverà tutte le forme di tutela previste per la difesa del demanio». Poiché la legge attribuisce appunto al ministero e alle soprintendenze la funzione di tutela, non vorrei trovarmi di fronte a un ulteriore sconfinamento di poteri.

In questi giorni, il tesoro ha annunciato la vendita di carceri, caserme e porti. Dunque il peggio è per ora evitato?

Niente affatto, e per le ragioni che si son dette in precedenza. Prendiamo la mia città, Forlì. Il carcere del suo centro storico è inserito nella rocca di Caterina Sforza. Pur essendo un edificio di epoca più recente, è stato inserito dal soprintendente nell'elenco dei beni culturali intoccabili. Vorrei la sicurezza che gli elenchi comprendano davvero soltanto edifici privi di qualsiasi valore artistico e di qualsiasi significato storico. Noi comunque teniamo alta la guardia. Sono riuscito ad esempio a inserire nella finanziaria una norma di tutela anche per gli immobili di interesse storico e artistico di proprietà delle regioni, delle province e dei comuni.

Caro Meneghetti,

un amico mi segnala la Tua lettera sul sito di Eddy Salzano con il quale ho un antico rapporto spero non intaccato da questa divergenza. Mi avvedo che gli architetti sono degli eccellenti epistolografi e ne sono lieto, ma trovo anche che è inutile pestare acqua nel mortaio. Sulla questione Ravello-Niemeyer si è ormai superato il segno. Ne ho scritto per primo nel 1999, poi ho raccolto il saggio in un mio libro Le architetture della modernità tra crisi e rinascite. Bollati-Boringhieri, 2002. Per fortuna tu non mi poni problemi di legalità urbanistica alla quale sono attento quanto i miei interlocutori anche se il mio mestiere è altro e mi fido di amici urbanisti (Carlo Gasparrini) e giuristi (il prof. Laudadio, amministrativista di rango) i quali hanno fugato ogni mia remota preoccupazione al riguardo. Che altri la pensino in modo diverso non mi sorprende, ma neppure turba le mie convinzioni acquisite con cura e in tempi assai lontani dalla polemica.

Tu mi poni un preciso interrogativo e hai la cortesia di citare un mio testo su Piero Bottoni a Capri: naturalmente io condivido quel che ho scritto e non ho abiurato. Proprio il caso della grotta resa abitabile da Bottoni è la testimonianza più clamorosa di come una sfida impossibile è stata vinta da un architetto sensibile e creativo. Gli oppositori di Niemeyer a Ravello avrebbero consentito a Bottoni di costruirsi una casa in una grotta demaniale? Chiedilo tu a loro. Quel che penso sul Paesaggio l’ho scritto in un paio di Annali della Storia d’Italia (Einaudi): tutta la mia vita testimonia quanto mi sia caro il paesaggio, l’architettura, la città nella lenta e affascinante dinamica storica.

Credo che Ravello non sarà lesa da Niemeyer: la sua integrità è già lesa dalle case popolari nella valle del Dragone, dal ristorante - accanto al suolo dove sorgerà l’Auditorium, lunghezza massima 32 metri – lungo circa 120 metri e da cento altre brutture. Nessuno se ne è accorto? La Rondinaia dove abita Gore Vidal (un villone che vorrei esser Gadda per vederla crollare sotto le mie parole) “lede” il paesaggio di Ravello? Caro, il Paesaggio che è un’entità storica creata dall’uomo viva e vivente, non metastorico simulacro, né idola metafisico. Il mio amico Marc Augé ha pubblicato un libretto sulle rovine e sarebbe utile che gli oltranzisti della difesa lo leggessero, piuttosto che farsi drogare da Put, Pit, Pat e Pot che per me sono i personaggi di un romanzo di Dickens. Se mi permetti ti segnalo le pagine dedicate alla nuova architettura nel mio ultimo romanzo Terremoti, Aragno 2002: lì troverai pagine forse gradevoli nelle quali spiego fino in fondo e in modo molto chiaro (I suppose) tutto il mio pensiero sul rapporto tra architettura malnata e paesaggio. Ma il Niemeyer meticcio, come si autodefinisce, 96 anni, onestamente faccio fatica a collocarlo tra i creatori di architettura malnata, come fai tu e altri con tanta intransigente baldanza e scarsa considerazione per quel bene supremo che è la capacità di creare bellezza.

Credimi con cordialità,

Cesare de Seta

La replica diLodo Menghetti

Caro De Seta,

ti ringrazio della lettera, benché, penso, forse giustamente stufo della diatriba, tu non accetti di accedere al senso del mio modesto intervento. Tra l'altro non noti che, circa Piero Bottoni e Capri, sono le case e non la grotta il centro del mio e del tuo stesso discorso. E poi non hai evidentemente letto il pezzo su Ravello precedentemente pubblicato da Eddy. Naturalmente conosco la tua effettiva posizione, Ravello a parte, figurati se no, e ti ammiro. Di qui la mia attuale sorpresa a vederti confuso in mezzo ai cosiddetti 165. Quanto all'"intransigente baldanza" che mi accomunerebbe ad altri, scusa carissimo, la respingo. Penso di aver ragionato, non di aver sentenziato. Non intendo paragonarmi a te, ai tuoi testi sugli Annali e ad altro. Ti indico però un mio libro abbastanza recente che mostra la mia posizione; potresti limitarti a leggere la recensione di Giancarlo Consonni che Eddy pubblica sul suo sito. Il libro, purtroppo pubblicato da un editore a scarsa diffusione (Unicopli di Milano), si chiama per l'appunto Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri.

Lodo Menghetti

Cambia la legge sulla vendita del patrimonio pubblico. E’ già al lavoro una commissione che, con la partecipazione di Sabino Cassese, dovrà «demarcare» ciò che è patrimonio artistico intoccabile, come il Colosseo o Fontana di Trevi, da ciò che artistico non è e dunque potrà essere ceduto. In arrivo c’è anche un catalogo di tutti i beni pubblici non disponibili, diviso per categorie.

Giuliano Urbani, ministro dei Beni e delle Attività culturali l’annuncia durante un contraddittorio con Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa, oltre che ex direttore del Getty Research Institute. Tanto Urbani che Settis hanno scritto un libro sul presente e sul futuro del patrimonio dello Stato. Quello del ministro (Il tesoro degli italiani, Mondadori) difende com’è ovvio l’azione del governo e in particolare l’istituzione della Patrimonio Spa, la contestata società che dovrebbe valorizzare i beni pubblici. Quello di Settis (Italia Spa, Einaudi) rappresenta all’opposto un duro atto d’accusa e mette in guardia rispetto all’«assalto» al patrimonio culturale dell’Italia da parte del governo e dei privati. Il colloquio si svolge nella redazione di Repubblica e muove appunto dai libri.

La legge sulla Patrimonio Spa ha suscitato molte polemiche: c’era e c’è il timore che le bellezze d’Italia finiscano nelle mani dei privati. Urbani ha dedicato alla questione solo sette pagine e mezzo. Settis un intero saggio. Una evidente disparità, come mai?

URBANI «Per me la Patrimonio Spa funziona e non deve intimorire perché i beni culturali sono già tutelati da altre leggi. Però c’è stata polemica, è vero, peraltro mal condotta dalla nostra opposizione parlamentare e non parlamentare. Diciamo che hanno scelto la via del manicheismo: tutto ciò che fa il governo è male. Siamo arrivati al ridicolo di contraddire per intero la gestione precedente. Ma un amministratore pubblico non è solo un amministratore, è anche un signore che sa che meno dissenso c’è, meglio è. Perciò ho pensato alla Commissione di esperti: decideremo così nei dettagli cosa privatizzare. Ma ripeto: il patrimonio artistico già oggi è difeso».

SETTIS «Illustri giuristi da me consultati dicono di no. In via teorica il meccanismo della nuova legge prevede anche che si possa vendere il Colosseo: la normativa non lo esclude. Certo, ci vogliono le firme contestuali di Urbani e Tremonti. Ora i nostri ministri dicono che non firmeranno mai una cosa del genere: voglio crederlo. Ma che ne so io chi saranno i ministri tra otto, dieci, vent’anni?. E poi quando Urbani scrive nel suo libro che il nostro patrimonio nasce dai privati e dunque al massimo glielo restituiremo, ecco, è questo tipo di affermazioni che mi lasciano sconcertato. Sarebbe come dire che l’Unità d’Italia l’ha fatta un privato di nome Giuseppe Garibaldi. Il patrimonio, comunque sia arrivato, c’è. E di mezzo c’è l’entità dello Stato che lo elabora, i cittadini, la coscienza civica».

URBANI «Mi si consenta una precisazione: io sono un politologo e dunque attribuisco alle parole un significato più politico. Quando con una battuta dico che restituiremo ai privati un patrimonio realizzato dai privati, intendo dire che la peculiarità dei nostri beni artistici è quella di nascere più dall’iniziativa dei cittadini che non da quella delle istituzioni nazionali che peraltro fino ad un secolo e mezzo fa non c’erano neppure».

Al dunque cosa sarà privatizzato?

URBANI «Parlerei di privatizzazioni tra virgolette. In realtà si tratta di gestione in concessione. Chiederemo aiuto, con le modalità più sperimentate, a un mondo di specialisti per la gestione dei musei. Ma il pubblico rimarrà il padrone assoluto dei musei; i sovrintendenti restano i tutori. Diverso è il discorso delle dismissioni: c’è un enorme quantità di beni di cui lo Stato dovrebbe disfarsi. E’ nell’interesse pubblico venderli. Si tratta di capire cosa è disponibile e cosa non lo è».

SETTIS «E’ chiaro che nel patrimonio pubblico ci sono vecchi appartamenti lasciati da qualche vedova o vecchie scuole che non si usano: queste cose, se si vendono, è un bene. Il problema riguarda il patrimonio culturale. Qui è l’assalto. Non si possono mettere teoricamente sullo stesso piano, sia pure con delle garanzie, l’appartamento del 1950 e un bene culturale. E allora è chiaro che la Fontana di Trevi o il Colosseo non li vende nessuno, ma i beni più piccoli? Che ne è dei beni più piccoli? Ci vuole un intervento normativo che chiarisca bene ciò che è culturale ed incedibile. Da questo punto di vista la Commissione annunciata dal ministro aiuta».

Per favore, ministro, può spiegare bene il senso di questa commissione?

URBANI «Servirà appunto a tratteggiare un ragionevole confine tra ciò che è patrimonio artistico inalienabile e ciò che non lo è. Dico ragionevole perché non sarà facile per un paese come il nostro fare questa distinzione. Sarà poi ben richiamato il sistema dei vincoli a cui i beni sono già oggi sottoposti e a cui tutti teniamo molto».

Dunque in qualche modo il governo corregge la legge: è un ripensamento?

URBANI «Il campo è talmente delicato che più chiarezza facciamo e meglio è: siamo tutti più tranquilli rispetto al nostro patrimonio».

SETTIS «Se questa commissione ha il compito di fare chiarezza è un’ottima notizia: vuol dire che prima chiarezza non c’era. Ripeto: servono garanzie assolute per ciò che è patrimonio culturale. Questo è il punto».

Servirà anche un catalogo dei beni culturali. In Italia non c’è e in passato i tentativi di realizzarlo sono andati a vuoto...

URBANI «Sì certo, serve, ma non universale perché sarebbe un’aspirazione infantile e occorrerebbero dieci anni. Al contrario, il catalogo in un paese come l’Italia dovrà dire solo ciò che non è disponibile. Può fissare delle categorie, non fare elenchi».

SETTIS «Il fatto che finora non si è provveduto ad affrontare in modo sensato il discorso del catalogo denuncia uno scollamento istituzionale tra le esigenze di bilancio del paese e la gestione dei beni culturali. Se adesso si fa, tanto meglio. Detto questo: un catalogo universale è impossibile, è vero. Ma forme di catalogo progettate, questo sì. Mi chiedo: perché non se ne può fare uno finalizzato solo alle dismissioni? Già si escludono per esempio tutti i quadri, ci mancherebbe. C’è poi un altro punto su cui non sono per niente d’accordo col ministro: le mappe del rischio. Urbani nel libro scrive che queste cose possono farle anche i giovani, con un personal computer, a casa propria, nei pomeriggi liberi dalla preparazione degli esami universitari. E’ sbagliatissimo: queste sono cose di alta professionalità».

Finora s’è avuta solo una prima radiografia dei beni pubblici realizzata dall’Agenzia del Demanio: è uscita la scorsa estate ma era scritta in cifre, secondo un elenco di speciali particelle: non ci si capiva nulla.

URBANI «Vorrei ricordare che siamo in un paese che ancora non ha un catasto degno di questo nome. E vorrei aggiungere che io personalmente non dispongo neppure di un catalogo dei beni a rischio: non so dove concentrare le priorità perché non so dove sono i rischi maggiori. Quindi, figuriamoci.... Il lavoro da fare è immenso. Per questo insisto: non pensiamo a un catalogo universale, ma ad uno che elenchi ciò che non è disponibile, diviso per categorie. Oltretutto, grazie al cielo, gli archeologi continuano a scavare, a scoprire. Al resto, alle zone grigie, penseranno i sovrintendenti che sono quasi una magistratura»

Ministro, il presidente Ciampi, nel promulgare la legge su Patrimonio, ha chiesto garanzie per la vendita dei beni e chiarezza sui bilanci. Settis scrive che l’appello è rimasto lettera morta. Lei che dice?

URBANI «Non dimentichiamo mai che su quella legge il presidente ha apposto la sua firma. Vuol dire che ne ha condiviso la legittimità e anche la sufficienza formale. Dal punto di vista sociologico mi rendo conto che chi amministra ha il dovere di farlo con il consenso dei cittadini: meglio dunque accogliere perplessità e dissensi con una norma in più. Siamo il paese dell’eccesso normativo e dei ricorsi: non posso io fare il prezioso. Seriamente: più condivisione abbiamo delle regole del gioco, meglio è».

Il ministro converrà però che la legge è apparsa come un tentativo di monetizzare immediatamente qualcosa, per far arrivare quattrini nelle casse dello Stato. Era proprio necessario fare una legge prima di dotarsi degli strumenti che ne regolano la gestione? Non è stato un danno d’immagine per il governo?

URBANI «Nessun danno. C’è stata solo, come ho già detto, una vivace polemica, per di più mal condotta».

Il concetto di far cassa però è ben evidente.

URBANI «Questo non lo nego: è l’obiettivo innovativo della legge».

Ciampi non a caso parlava anche del rendiconto: voleva cioè una cassa pulita, chiara.

URBANI «E’ semplicemente un problema di soggezione e controllo della Corte dei Conti. Punto. A questo è stato risposto in maniera puntualissima ringraziando il presidente e accogliendo il suggerimento. Il rilievo del capo dello Stato è stato un auspicio, non un diktat. Non ha detto: se non fate questo io non firmo la legge».

SETTIS «Sulla questione del far cassa o non far cassa dico solo che c’è la Costituzione e una chiara sentenza della Corte costituzionale che sancisce la priorità del valore culturale: non può essere subordinato ad altri valori, compresi quelli economici».

Ministro, tra gli oppositori della Patrimonio c’è anche la Corte dei Conti. Ha scritto che in nessun paese Ocse si riscontra una soluzione così radicale nell’affidare la gestione del patrimonio dello Stato. L’accusa è consistente e non è di parte politica. Cosa ne pensa?

URBANI «Che non è un’accusa: è una constatazione. Mi spiego: proprio secondo l’Ocse siamo al penultimo posto in materia di libertà economica all’interno dell’area perché abbiamo una dimensione enorme del patrimonio, non artistico, posseduto. Per arrivare al livello di Germania, Francia e Inghilterra dobbiamo proprio fare ciò che la Corte descrive. Ecco perché, nella mia lettura non è un’accusa, ma una constatazione di qualcosa di positivo, che per di più va fatta».

Eppure sembra lo stesso una critica...

URBANI «Non credo proprio. Se riusciamo a staccare il patrimonio artistico da quello pubblico, si capisce che la Patrimonio Spa insieme alla società Infrastrutture è stata creata per una ragione molto semplice: abbiamo un debito pubblico enorme sul quale paghiamo fior di interessi. Tutti noi cittadini, quotidianamente. Abbiamo invece un patrimonio pubblico, il che ci mette al penultimo posto in graduatoria, su cui paghiamo solo costi con ricavi irrilevanti. Le due società sono state fatte insieme perché dalla valorizzazione in senso economico dei beni pubblici - Patrimonio Spa- arrivano risorse per realizzare le infrastrutture di cui il paese ha bisogno».

Bel paradosso. Dobbiamo cioè auspicare più autostrade per avere più tutela dei beni artistici?

URBANI «Io auspico più infrastrutture per il paese che ne ha bisogno. Ma non per avere più tutela, bensì più risorse per l’amministrazione in generale. Del resto, in un contesto di risorse decrescenti o ci inventavamo questo oppure... Mica potevamo istituire la quarta giocata settimanale all’Enalotto. Era troppo».

Ora i poteri: Settis scrive che enorme è l’arbitrio del ministro dell’economia e debole la potestà del ministro dei beni culturali. Aggiunge che basteranno le vostre due firme per vendere il Colosseo. E’ così?

URBANI «Il potere di decidere una dismissione è metà per uno».

SETTIS «I giuristi da me consultati dicono che è giusta la mia interpretazione sulla suddivisione dei poteri tra lei e Tremonti. Tuttavia io non ho mai pensato che Urbani voglia vendere un bene culturale importante né che voglia farlo Tremonti, perché non voglio dire che lui è quello buono e quell’altro il cattivo. Il punto è che, al momento, la normativa non esclude che il Colosseo possa essere venduto».

La nuova legge prevede anche un canone d’uso, un affitto al valore di mercato per certi beni. Settis si chiede nel libro quali sono i prezzi degli uffizi, di Brera, del Pantheon? Si calcoleranno in base al loro uso attuale o a potenziali trasformazioni in condomini, garage, discoteche?

URBANI «Noi abbiamo il dovere di valorizzare le proprietà pubbliche sottoutilizzate. Quanto agli Uffizi, quelli non sono disponibili. Lo sono invece le biglietterie. Tutto quello che rientra nella valorizzazione del patrimonio pubblico va separato dal patrimonio artistico altrimenti è chiaro che viene fuori la domanda: affittiamo gli Uffizi? La risposta è no».

SETTIS «Forse i giuristi da me consultati non hanno capito, ma secondo loro la legge non dice qui si affittano gli Uffizi a qualcuno. Dice invece: si affittano gli Uffizi agli Uffizi. Mi spiego: lo Stato, che possiede il fabbricato in cui ha sede il museo, fa pagare agli Uffizi il prezzo dell’affitto. E lo decide Tremonti, lei stavolta non c’entra. Questo è rischiosissimo».

Ministro, Tremonti sta firmando col sindaco Veltroni un protocollo per la valorizzazione del patrimonio mentre Berlusconi ha appena affidato al Fai Villa Gregoriana a Tivoli. Siamo forse di fronte ad una strategia per tacitare le polemiche per poi un domani fare ciò che si vuole?

URBANI (scherzando) «Dovrei rispondere: come si permette?». Poi, serio: «Dietro il nostro comportamento non c’è falsità, perché altrimenti lo sarebbe anche questa nostra conversazione, qui a Repubblica con le mie dichiarazioni tranquillizzanti. Certo, è interesse di chi governa tranquillizzare, ma tacitare no»

(a cura di Elena Polidori)

Intervista di F. Erbani a Gaetano Benedetto del WWF "Ma per l’ambiente nessuna garanzia"

Giuliano Urbani innesta la retromarcia sulla Patrimonio S.p.A.. Gaetano Benedetto, vicepresidente del Wwf, apprezza, ma con moderazione. «Siamo contenti che il ministro voglia alzare il livello di garanzia per i beni storico-artistici, stabilendo nettamente che cosa non si può vendere del patrimonio pubblico. Il governo ha sbagliato, come sostenevano tutte le associazioni ambientaliste, e siamo contenti che lo ammetta. Ma gli suggeriamo una strada più rapida rispetto a quella che indica».

Il ministro ha incaricato una commissione per riformare il Testo Unico dei Beni Culturali. E lì verrà stabilito cosa è inalienabile. Non basta?

«Il governo potrebbe inserire una norma nella Finanziaria e chiarire in che modo il ministero del Beni Culturali può esercitare il suo controllo».

Vale a dire?

«Si deve richiamare esplicitamente il regolamento Melandri, il quale esclude categoricamente che si possano vendere alcuni beni e che in genere condiziona le cessioni a obiettivi di tutela. In ogni caso le parole di Urbani ci rassicurano solo per il patrimonio storico-artistico».

Che significa?

«Resta fuori tutto il patrimonio paesaggistico, per il quale la legge Tremonti non prevede alcuna intesa con il ministero dell’Ambiente».

Che cosa la preoccupa?

«Che una volta venduta una spiaggia, bene demaniale, chi la compra ci possa costruire uno stabilimento, con una strada per arrivarci, un parcheggio e un ristorante sconvolgendo paesaggio ed equilibrio territoriale».

E’ quello che può accadere?

«Certamente. Perché mentre per un edificio storico affidato ai privati la Soprintendenza avrebbe la possibilità di controllare che uso se ne faccia e se se ne fa un uso scorretto può anche revocare la concessione, per una spiaggia non è previsto un organo che vigili».

E la legge Tremonti non dà nessuna garanzia?

«Assolutamente no».

Sullo stesso argomento leggi l’intervista a Francesco Erbani rilasciata da Salvatore Settis, “Se l’arte finisce in mano ai privati

Visita il sito http://www.patrimoniosos.it

Italia S.p.A. si intitola il nuovo libro di Salvatore Settis (Einaudi, pagg. 149, euro 8,80). E´ un´accorata requisitoria sullo stato del nostro patrimonio artistico e sui rischi che corre la stessa identità nazionale se si usura quella parte della sua memoria.

La minaccia deriva da un inquietante paradosso, avverte Settis. Fu l´Italia a imporre nel mondo un modello di conservazione scaturito dalle corti rinascimentali e approdato, fra l´Unità e la seconda guerra mondiale, a una serie di saperi, di norme e di strutture che molti paesi, quando hanno potuto, hanno anche solo parzialmente riprodotto. Quel modello era fondato sul ruolo centrale che lo Stato si riservava nella salvaguardia. Ebbene, tutto l´impianto è ora logoro e si spegne progressivamente. E´ una lenta ritirata, promossa - ecco il paradosso - proprio dentro lo Stato, uno Stato che «confisca se stesso» (in copertina è riprodotto il sanguinolento quadro di Goya in cui Crono divora i suoi figli). Una marcia che il governo di centrodestra ha accelerato partorendo la «Patrimonio S.p.A.», la quale prende in carico tutti i beni pubblici, compresi quelli demaniali e di valenza culturale, li infila in un gigantesco catalogo immobiliare e potrebbe anche venderli.

Settis ha sessantun anni. E´ nato in Calabria, dirige la Scuola Normale di Pisa e per quasi sei anni ha guidato il Getty Research Institute di Los Angeles. E´ storico dell´arte e dell´archeologia. Lo considerano un´autorità indiscussa e da quando ha preso a lanciare i suoi appelli (anche dalle colonne di Repubblica) ha scosso un ambiente rimasto tramortito dalle iniziative del governo Berlusconi. Un po´ come ha fatto Franco Cordero per la giustizia.

Urbani, Tremonti e persino Berlusconi giurano sul loro onore che non venderanno mai il Colosseo...

«Non c´entra niente la loro personale moralità. Ma fino a ieri il nostro patrimonio artistico era per legge rigorosamente inalienabile».

E ora?

«Ora non più. Come fanno a sapere Urbani, Tremonti e Berlusconi che cosa potrebbero decidere fra cinquant´anni i loro successori? La legge che hanno approvato è chiarissima. E poi perché parlano solo del Colosseo? E´ assai poco consolante che per rimettere in sesto il bilancio o per costruire autostrade si cominci col vendere monumenti «minori»».

Ma il ministero per i Beni e le attività culturali deve autorizzare la vendita.

«E cosa cambia? Per cedere un monumento ci vorranno due firme e non solo una. Posso immaginare quale conti di più. Il ministero per i Beni culturali è stato messo ai margini e le sue strutture mortificate da una serie di marchingegni burocratici di rara inefficacia».

Urbani è riuscito a tanto?

«Non solo Urbani, per la verità. La strategia distruttiva inizia quando Gianni De Michelis inventò i "giacimenti culturali". Da patrimonio prezioso in sé e bisognoso di molte cure e molti soldi si passò all´idea che quei beni servissero a far soldi».

Ma De Michelis non era ministro dei Beni culturali.

«Appunto. Era al Lavoro. Ma questo è il sintomo di quale considerazione godesse il ministero per i Beni culturali».

Siamo nel 1986. Poi cosa è successo?

«E´ successo che sulla poltrona di ministro si sono alternate tutte mezze figure. E i Beni culturali sono diventati un residuo. Pensi che il primo concorso dopo il 1991 fu bandito solo nel 1995 e furono assunti undici, dico undici, archeologi in tutta Italia, molti meno di quanti fossero andati in pensione. Lo stesso è accaduto per gli storici dell´arte. Un dissanguamento continuo».

Qualcosa è cambiato con il centrosinistra.

«Walter Veltroni ha alimentato molte speranze. Per la prima volta un vice presidente del Consiglio su quella poltrona. Un leader nazionale. Destinare al nostro patrimonio i soldi del Lotto è stata un´ottima scelta».

Sono stati restaurati musei. Si sono allungati gli orari di apertura.

«E´ vero. Ma la riforma voluta da Veltroni aggiunse ai "beni" le "attività" culturali, lasciando intendere che bisognava rimpolpare il magro carnet de bal del ministero. E anche che le mostre erano più importanti dei musei».

E che le piazze erano più belle se ospitavano i concerti.

«Certamente. Poi si sono aggiunte le competenze sullo sport e lo spettacolo, si sono moltiplicate le direzioni generali, si è spezzettata l´amministrazione. Nel frattempo montava la retorica del privato».

In che senso?

«Nel senso che si è ritenuto che i privati potessero fare più e meglio di un´amministrazione che lentamente si smantellava. Si è cominciato con la legge Ronchey, che però si limitava alle caffetterie e alle librerie nei musei, senza intaccare nulla di essenziale. Ma poi si è andati molto, molto oltre».

Fino a dove?

«Si è allungata la lista dei servizi concessi ai privati: le guide, l´assistenza didattica, l´organizzazione di mostre. Tutte attività che negli altri paesi europei sono affidate all´amministrazione, perché si ritiene che siano strettamente legate alla conoscenza e alla tutela».

Altro?

«Certo. Le fondazioni. La legge Bassanini e alcuni decreti hanno trasformato in fondazioni enti dello Stato, enti di ricerca importanti, consentendo per esempio la privatizzazione dell´Istituto nazionale di Archeologia e Storia dell´Arte di Palazzo Venezia a Roma. Privatizzazione promossa dal centrosinistra e attuata da Urbani. Prima si è lasciato che annaspasse, poi lo si è separato dalla sua biblioteca e proprio mentre in Francia si fondava una struttura analoga - siamo nel 1997, il nostro istituto fu fondato quando ministro era Benedetto Croce - invece di rilanciarlo è finito ai privati».

Mi perdoni. Lei per chi vota?

«Per il centrosinistra. Ma che vuol dire? La sinistra è stata affetta da un deficit culturale, che mi auguro comprenda, dichiarando di voler invertire la rotta. La gente capirebbe. I governi di centrosinistra hanno pensato di fare venti per evitare che la destra facesse cento. Senza rendersi conto che la destra sta facendo cento trovandosi il venti già fatto. Ma guardi che anche a destra ci sono molte personalità che contrastano questa svendita dello Stato».

Un´altra suggestione maniacale sembra il fascino suscitato dai musei americani. Lei li conosce. Sono un esempio?

«No. Qui scontiamo una forma di genuflessione culturale. In America andiamo a pescare modelli astratti, l´università, per esempio, scartando uno dei tratti più positivi di quella società, che è la capacità di autocritica. Noi pensiamo che l´ideologia del mercato presupponga uno Stato leggerissimo: niente di più falso negli Stati Uniti».

Restiamo ai musei.

«I musei americani funzionano benissimo. Ma non hanno alcun nesso storico o culturale con il territorio che li ospita. Se un museo di Los Angeles vende un quadro di Tiziano non toglie nulla alla storia della California. Se le Gallerie dell´Accademia di Venezia cedessero un Carpaccio mutilerebbero la storia della città e di tutta l´Italia. Il nostro patrimonio culturale è storicamente un insieme il cui collante non saprei definire meglio che "tradizione nazionale", "identità nazionale". Questo è il modello italiano formato nei secoli. E per questo lo Stato ha conservato un ruolo cruciale di tutela, sia che il patrimonio sia pubblico, sia che il patrimonio sia privato».

Ma i musei americani, si dice, potrebbero essere esempio di buona conduzione. O no?

«Anche qui: ma si sa di cosa si parla? Il Metropolitan o il Getty sarebbero in passivo se potessero contare solo sui biglietti (al Getty, oltretutto, si entra gratis) o sui ristoranti o sui gadget. Le spese del Getty vengono ripianate dal patrimonio di cui è dotato il museo e che viene oculatamente investito producendo profitti. Al Metropolitan pensano il Comune di New York e le donazioni private. Gli Uffizi o Capodimonte hanno questi fondi? Dove stanno i privati disposti a questi esborsi? E poi, scusi, perché mai dovrebbe valere per l´Italia il modello americano se i direttori del Getty, del Metropolitan e di altri musei hanno firmato un appello contro le ipotesi di privatizzazioni previste l´anno scorso dal governo Berlusconi?»

Secondo lei è stato un bene aver distinto, perfino nella riforma di un articolo della Costituzione, la tutela del patrimonio attribuita allo Stato e la gestione del patrimonio alle Regioni?

«E´ un pasticcio che produce effetti destabilizzanti. Tutela e gestione sono due momenti connessi di un unico processo: la ricerca e la conoscenza del bene da tutelare e da gestire. Per misteriose ragioni qui non ha funzionato il modello americano, dove chi tutela gestisce. Prenda il deposito di un museo: chi decide quale anfora tirare su dal magazzino per esporla? Chi tutela o chi gestisce?»

Questo sistema apre ulteriori varchi ai privati?

«Questo non lo so. So però chi se ne avvantaggia».

Chi?

«Gli avvocati, perché fioccheranno mille contenziosi, con il risultato di paralizzare tutto. Qualche giorno fa il Consiglio di Stato ha bocciato Urbani: vedrà, andremo avanti così».

Avanti così con «i talibani a Roma», come ha intitolato il suo primo capitolo?

«Per la verità quel titolo l´ha coniato la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ed è appropriato. Mai come ora il nostro patrimonio è minacciato. Mai, neanche quando Napoleone spogliò molti musei italiani. Io credo che capiremo presto da questo governo se lo Stato, come Crono, continuerà a divorare i propri figli o se, come ancora mi auguro, capirà che così facendo ucciderà se stesso».

Caro Carlo, rispondo anche a te. Punto per punto.

Tu dici: “- l'intervento è, a mio avviso, coerente con le procedure previste nei casi dei Comuni sprovvisti di PRG e, come sai, ha l'avallo di tutti i soggetti istituzionali preposti ad approvarlo (oltre al Comune, la Regione, la Comunità Montana, la Sovrintendenza, l'ASL e così via): la legge approvativa del PUT non cancella infatti la Legge 17/1982 per i motivi che ho provato ad esplicitare e che leggerai. D'altro canto il Comune è ancora commissariato da anni sull'argomento (con un piano adottato e sospeso) non certo per colpa dell'attuale Sindaco e sarebbe assurdo pensare che, finché tale situazione non si risolve (così come quelle di eventuali altri comuni in situazioni analoghe), non valgano le norme derogatorie della legge 17/1982 limitatamente alle categorie di opere pubbliche in essa previste, con i danni che sarebbe facile immaginare sulla dotazione di attrezzature del DM 1444/1968

Non sono d’accordo. Le legge regionale 17/1982 è anteriore alla legge regionale 35/1987, e quindi non può prevalere su di essa. Per di più, la 35/1987 è una legge speciale, perciò prevarrebbe in ogni caso su una legge ordinaria, quale la 17/1982 è.

Tu dici: “- l'auditorium è a pieno titolo un'urbanizzazione secondaria compresa nelle attrezzature di interesse comune del DM stesso, e trovo singolari le omissioni in proposito di Sandro e Vezio che, per motivi incomprensibili, non citano le attrezzature di interesse "culturale" tra quelle obbligatorie per legge

Non sono d’accordo. Le attrezzature di cui all’articolo 3 del DI (interministeriale, non ministeriale) 1444/1968 sono senza dubbio distinte dalle attrezzature d’interesse generale (le Zone F), e a differenza di queste sono attrezzature locali. Ed è evidente che non possiamo pensare di avere un auditorium di 405 posti in ogni comune della Costiera. O no?

Tu dici: “- è un'attrezzatura "necessaria" non solo dal punto di vista normativo ma anche dal punto di vista dell'utilità inconfutabile di mettere in rete e valorizzare le strutture turistico-culturali esistenti, come dimostrano una serie di studi qualificati svolti per conto del Comune e che sono a supporto della valutazione di "compatibilità ambientale" che accompagna il progetto;”

E chi lo nega? Ma il fatto non cancella il diritto.

Tu dici: “- è un piccolo (400 posti!) e pregevole intervento di architettura contemporanea che interpreta in modo straordinario linguaggi, qualità spaziali, disposizioni al suolo e relazioni con il paesaggio, valorizzando la straordinaria stratificazione della costiera amalfitana e introducendo nuovi valori fisici e simbolici capaci di consolidare e arricchire quelli esistenti (ma su questo aspetto, so che non sei d'accordo quindi non insisto)”

Ti credo, come credo a Cesare de Seta che sostiene che Niemeyer ha fatto il progetto, e non solo il bozzetto come invece aveva scritto il Sindaco (Corriere del Mezzogiorno, 15 gennaio 2004, p. 1). Ma non è questo un punto che io abbia sollevato. Tra l’altro, del progetto ho visto solo il materiale pubblicato in internet, perciò, benché conosca bene Ravello, non sono in grado di confermare né di smentire la tua affermazione. Dunque, fino a prova contraria ti credo. Ma non c’entra con le ragioni della mia critica.

Tu dici: “- è compatibile, in una lettura più dettagliata del progetto, con i requisiti spaziali e ambientali che possono ricondursi ad una interpretazione complessa e non manichea del suo "impatto" (ovviamente, non condivido la tua posizione secondo cui e comunque sbagliato aggiungere qualcosa all'attuale, intoccabile, bellezza del paesaggio)”.

Quando ero assessore ho chiamato Giancarlo De Carlo a Mazzorbo (Venezia), Vittorio Gregotti a Cannaregio (Venezia), Gino Valle alla Giudecca (Venezia). Non ho quindi nessuna pregiudiziale ostilità nei confronti dell’architettura moderna nei paesaggi consolidati. Posso sostenere che forzare la legge per abbellire un luogo già bello, investire risorse pubbliche per migliorare un luogo già ottimo e distrarle da altri impieghi più urgenti, aumentare il carico urbanistico in contrasto con l’unico piano territoriale esistente in quell’area, e in assenza perfino di un piano regolatore vigente, è un errore?

L’ho detto e continuo a ripeterlo fino alla nausea. La questione centrale è per me quella della legalità. E invece, di fronte ai puntuali rilievi di De Lucia tutti hanno detto che, si, c’è “qualche problema legale”, oppure che ci sono “questioni burocratiche”, ma in un modo o nell’altro si troverà il modo di risolverle. Nessuno che abbia voluto cercare di entrare nel merito, né quando la sola perizia in campo era quella di De Lucia, né quando ce n’erano due che dicevano cose diverse.

Forse il fatto che De Lucia fosse stato interpellato da un gruppo di cittadini anziché da un ente pubblico rendeva meno valide le sue ragioni? No, caro Carlo, la ragione è un’altra, e sta nel clima che tutti respiriamo e da cui molti si fanno condizionare. Il clima per cui se una causa è da me ritenuta giusta la legge, le regole che valgono per tutti, non valgono. Come ho scritto a de Seta, trascurare la questione della legittimità, , ridurla a quisquilia o pinzillacchera, o considerarla come cosa che possa essere risolta con una interpretazione adusum delphini o, peggio ancora, con una legge ad personam, è molto pericoloso. Significa cedere alla tendenza che sembra dominare oggi nel nostro sciagurato paese: la tendenza a considerare prevalenti certi interessi specifici (poco importa se di singoli soggetti o di intere comunità locali o scientifiche,) rispetto alla legge comune. Ti piaccia o no, Carlo, questo è berlusconismo, il quale, come tutti i virus, conosce i portatori infetti e i portatori sani.

Per fortuna tu sei sano, perciò ti abbraccio

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