Lo scorso 21 gennaio il Consiglio comunale di Palermo, tramite una procedura irrituale e non prevista dalla normativa urbanistica di riferimento, ha votato la «presa d’atto» che recepisce i due decreti regionali di approvazione della variante generale al Prg di Palermo. Con quest’atto amministrativo del tutto anomalo giunge a conclusione, con una perdita complessiva di qualità del piano, (e a un punto di pericolosa involuzione) quel processo di pianificazione elaborato negli anni 1988-2000 sotto le giunte guidate da Leoluca Orlando, con il conferimento di incarichi prima a Leonardo Benevolo, poi a Pierluigi Cervellati.
La variante generale che ora entra in vigore sostituisce il precedente piano regolatore del 1962 e la successiva variante di adeguamento del 1992, ma il recepimento dei due decreti della Regione stravolge profondamente il documento e solleva dubbi tanto di procedura che di contenuto. I due decreti di approvazione della Regione Sicilia, il primo del marzo 2002 (pochi giorni prima della scadenza delle norme di salvaguardia), il secondo del luglio successivo, contengono infatti modifiche al piano di tale entità da tradursi in una vera e propria variante urbanistica generale.
Un intervento confutabile, dal momento che la Regione (ai sensi della l.r. 71/78 e della l. 765/67) ha facoltà di apportare solo modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali da mutare le caratteristiche del piano stesso, oltre a quelle necessarie per assicurare l’osservanza delle vigenti disposizioni statali e regionali. La stessa «presa d’atto» ora votata dal Consiglio comunale si configura come una procedura fortemente atipica, imposta non dalla legge urbanistica regionale, ma dal primo dei due decreti regionali sopra ricordati, secondo il quale il Comune deve «curare che in breve tempo vengano apportate dall’ufficio redattore del progetto di piano le modifiche e le correzioni agli elaborati di piano che discendono dal presente decreto, affinché per gli uffici e per l’utenza risulti un testo definitivo e completo. Con successiva delibera il consiglio comunale dovrà prendere atto degli elaborati di piano come modificati in conseguenza del presente decreto» (decreto del 13 marzo 2002, Gurs 22/3/2002, n. 13, art. 4).
Le «modifiche e correzioni» contenute nei decreti sono davvero sostanziali (come più avanti specificato) e di fatto tendono a scavalcare ed esautorare il Comune quale unica figura preposta all’elaborazione dello strumento di pianificazione comunale, nonché a eludere quelle forme di partecipazione istituzionalizzata secondo cui le previsioni di piano devono essere sottoposte a regolare verifica culturale e sociale e a pubblicazione. L’operazione, molto grave, si fonda su una convergenza tra gli orientamenti politici della Regione e della maggioranza di centro-destra del Consiglio comunale (sindaco di Palermo è dal 2001 Diego Cammarata, di Forza Italia): solo i gruppi consiliari dei Ds, Margherita, Rifondazione Comunista, Primavera Siciliana, hanno votato contro. Contro le «modifiche e correzioni» è stato presentato ricorso da associazioni e movimenti come l’Inu, Wwf, Salvare Palermo, Primavera Siciliana.
Ciò che è accaduto è l’esito di una strettoia procedurale inconsueta. Essa da un lato anticipa e prefigura una forma di pianificazione «surrettizia» che favorisce processi di consumo di territorio, sostenuti da un generale disinteresse per la questione paesaggistica e ambientale. Dall’altro consente di sanare l’arbitrarietà della Regione: l’entità delle «modifiche e correzioni» contenute nei decreti è tale che il Consiglio comunale, nonostante pareri fortemente critici della stessa Avvocatura comunale (luglio 2002), è stato in un certo senso costretto alla «presa d’atto», anche per evitare di gestire le migliaia di contenziosi che sarebbero stati sollevati da quei soggetti a cui i decreti stessi hanno attribuito nuovi e insperati diritti edificatori.
Queste alcune tra le principali modifiche introdotte dai due decreti regionali nella variante generale al Prg di Palermo:
1. Eliminazione di attrezzature. Viene ulteriormente ridotto quanto già disciplinato dalla precedente stesura del Prg, prefigurano una dotazione di servizi assai inferiore agli standard.
2. Declassamento del cosiddetto «netto storico». Con quest’espressione si intende l’insediamento storico urbano e rurale, cioè le «parti di territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti che possono considerarsi parte integrante degli agglomerati stessi». Il «netto storico» (zone A del piano, distinte in A1 e A2) era stato delimitato da Pierluigi Cervellati sulla base della cartografia «Omira» del 1939. Ora viene in alcuni casi convertito in zona B, con conseguente aumento di cubatura e modifica delle azioni di trasformazione consentite.
3. Incremento della cubatura nelle zone B. Le zone B (distinte in B0a, B0b, B1, B2, B3, B4, B5) sono le «parti di territorio totalmente o parzialmente edificate diverse dalle zone A». L’aumento di cubatura, che si riflette in un ulteriore fabbisogno di servizi residenziali e urbani, non è giustificato da alcuno studio né dall’estensione delle superfici destinate ad attrezzature. Inoltre, alcune zone B1 («parti di territorio caratterizzate da edilizia residenziale a bassa densità, comunque maggiore o uguale a 1,54 mc/mq») diventano ora zone C.
4. Aumento delle zone C. Le zone C (distinte in zone Ca, e in zone Cb che derivano dalla riclassificazione delle zone B1) sono le «parti di territorio destinate a nuova edificazione per la realizzazione di manufatti ad uso residenziale o direzionale o ricettivo o extralberghiero». Vengono così individuate ancora nuove aree per la realizzazione di residenze, prevedendo un incremento diffuso della cubatura massima ammissibile e aggravando ulteriormente la carenza di standard urbanistici.
5. Riduzione drastica delle pertinenze agricole delle ville storiche e del verde storico. Tale categoria (prima inedificabile) viene ora dai decreti equiparata alle zone agricole E1 («parti anche residuali di territorio prevalentemente pianeggianti, ancorché compromesso da insediamenti residenziali, caratterizzate da colture agricole», con indice di fabbricabilità dello 0.02). Ne deriva un’ulteriore erosione delle aree intercluse ancora non edificate, nonché di un patrimonio identitario, ambientale e culturale già fortemente compromesso dall’attuazione del piano del 1962. Viene cancellato il riconoscimento del valore del verde storico, facendo aumentare il rischio di nuove edificazioni nelle aree in pianura così come nelle zone collinari.
Alcune fasi dell’iter
1988/89. La giunta Dc-Pci guidata da Leoluca Orlando avvia la «variante di adeguamento», affida la revisione del Prg a un gruppo di esperti coordinato da Leonardo Benevolo e istituisce l’Ufficio di piano, potenziato nel 1993
1992. Adozione della «variante di adeguamento»
1993. Incarico a Pierluigi Cervellati per la revisione del Prg.
1994. Elaborazione e consegna degli elaborati finali (1:5000) della variante generale
1997. Adozione della variante generale
1999. Il Consiglio comunale accoglie circa un terzo delle 2719 osservazioni presentate contro la variante generale
2000. Dimissioni di Leoluca Orlando, che si candida alla presidenza della Regione (non eletto)
2000/2001. Gestione commissariale del Comune affidata a Guglielmo Serio, vicino al centro-destra
2001. Novembre: insediamento della giunta di centro-destra, guidata da Diego Cammarata
2002. Invio alla Regione della variante generale. Decreto di approvazione regionale del 13 marzo che prevede «modifiche e correzioni». Ulteriore decreto del 29 luglio, che prevede ulteriori modifiche e delinea la procedura della «presa d’atto»
2004. 21 gennaio: il Consiglio comunale di Palermo «prende atto» dei decreti regionali
Niemeyer: È mio il progetto di Ravello
Pirani risponde (su Repubblica del 3 maggio 2004) ad alcune delle critiche sollevate da alcune delle lettere. Tace sulla questione della legittimità. E tace anche sul merito. Possibile che gli intellettyuli italiani non vedano al di lè della logora querelle “moderno ersus antico”, e viceversa?
Nell´ultima Linea di confine ho spezzato una lancia a favore della costruzione, su progetto gratuitamente offerto al comune di Ravello da uno dei più grandi architetti del mondo, il brasiliano Oscar Niemeyer, di un piccolo auditorium. La discussione che ne è seguita dimostra come la questione vada anche al di là del caso specifico per riproporre l´interrogativo se sia accettabile che un´opera nuova, a prescindere dalla sua valenza estetica, venga inserita in un contesto ambientale considerato di per sé perfettamente «concluso». Obiettavo che un simile convincimento aveva portato a volte a confondere la opposizione a scempi e speculazioni con una ostilità impaurita allo svolgersi della storia stessa dell´architettura e dell´urbanistica. Facevo il caso della opposizione che aveva impedito la costruzione di una piccola casa di Wrigth sul Canal Grande e dell´ospedale progettato da Le Courbusier a Venezia.
Debbo limitarmi a una scelta fra tutti gli scritti ricevuti. Comincio con la presidente d´Italia Nostra, Desideria Pasolini dall´Onda, che rivendica proprio la battaglia condotta contro la casa di Wright e la paragona a quella contro l´auditorium di Ravello, «tipico esempio di paesaggio con una perfezione data dall´equilibrio tra aspetti estetici e funzionali... che può essere solo conservato, curato, preservato.... eppure si vuole costruire un auditorium... di grandi ambizioni e grandi costi, firmato (ma non è proprio così) da un grande architetto.... a dispetto della legge che non lo prevede ed è questo il motivo fondante... del nostro ricorso al Tar... Enfatizziamo il rispetto per la natura nei luoghi in cui si interviene e abbiamo il coraggio dell´opzione zero se le altre ci sembrano sbagliate e illegali».
Analoghe le argomentazioni di Isabella Ripa di Meana («... questo luogo, unico per la sua bellezza, va strenuamente difeso da qualsiasi iniziativa»), della signora Fantin di Venezia, del signor Giuseppe Palermo di Siracusa, di Alda Croce, Mario De Cunzo, Guido Donatone e Carlo Iannello di Napoli che ribadiscono trattarsi di «... un´opera illegittima, in contrasto col piano urbanistico regionale... mentre il sostenere con tanta protervia da parte di pubbliche amministrazioni l´intento di procedere comunque... rappresenta la strada della illegalità generalizzata... Inoltre è stata una sorpresa generale vedere attribuita a Niemeyer la paternità del progetto.... quando il preliminare e il definitivo sono firmati da Rosa Zaccheo, capo dell´ufficio tecnico comunale... e Niemeyer ha donato solo uno schizzo dell´auditorium». Ma, dall´interno stesso del mondo ambientalista mi son pervenuti pareri di tutt´altro tono. Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente scrive: «Non trovo giustificato, utile, comprensibile che settori dell´ambientalismo confondano l´auditorium di Niemeyer con le torri del villaggio Coppola, il mostro del Fuenti o la saracinesca di Bari». Grazia Francescato, portavoce dei Verdi europei aggiunge: «Quando sono andata a Ravello e mi sono studiatale carte mi sono subito resa conto che "il giardino incantato"... non sarebbe stato sfregiato dall´innovativo e delicato progetto di Niemeyer... che sorgerà oltretutto su un roveto-immondezzaio circondato da case abusive, non certo su un frammento intatto del mitico paesaggio. « Le due principali critiche, la legittimità e la paternità dell´opera, che avevano ingenerato anche in me qualche dubbio, vengono contestate dal sindaco, Secondo Amalfitano, che scrive: «L´area prescelta è secondo la legge idonea per realizzare opere di urbanizzazione secondaria che prevedono esplicitamente centri sociali e culturali. Se invece di un auditorium di 409 posti, avessimo proposto un centro sociale di 409 posti firmato dal geometra del Comune saremmo legalmente in regola. Quanto alla paternità il 23 settembre 2000 Niemeyer ci ha regalato un plastico e 10 tavole dettagliate con una nota scritta in cui si elencavano gli obbiettivi, i criteri costruttivi, le esigenze connesse alla realizzazione dell´opera... Per rispettare le leggi vigenti in materia di progettazione il Comune ha accettato il progetto come dono di Niemeyer affidando in via formale le successive operazioni all´ufficio tecnico comunale. Tutte le tappe della progettazione sia esecutiva che definitiva sono state seguite personalmente da Niemeyer, tutti i disegni nelle diverse tappe sono a sua firma. A lavoro ultimato, il 28 maggio 2003 a Rio de Janeiro, egli ha consegnato personalmente il progetto completo in una cerimonia ufficiale alla presenza del presidente Lula al governatore Bassolino e al sottoscritto
Illustre dottor Pirani,
seguiamo con grande interesse i Suoi articoli su "La Repubblica", che apprezziamo molto e che forniscono sempre importanti e utili stimoli alla riflessione su rilevanti questioni d’attualità.
Ci permettiamo precisare, con riferiemento al Suo articolo del 26 aprile, che, in contrasto con coloro che hanno appoggiato l'illegittima iniziativa dell'Auditoium, eminenti urbanisti e personalità della cultura, come Salzano, De Lucia, Dal Piaz, Cervellati, Insolera, Craveri, Ronchi, Ripa Di Meana, Sgarbi, Emiliani, assieme alla Fondazione Iannello, hanno più volte ribadito che si tratta non soltanto di un’opera illegittima, in contrasto con un fondamentale Piano Urbanistico regionale, approvato addirittura con legge della Regione Campania anche a tutela del valore paesistico (il quale, è bene precisare, non prevede affatto parcheggi nel sito dove l'accordo di programma localizza l'Auditorium); ma che il sostenere con tanta protervia da parte di pubbliche amministrazioni l'intento di procedere comunque contra legem rappresentava la strada dell'illegalità generalizzata, in quanto costituiva un cattivo esempio ed un incoraggiamento per tutte le violazioni che si sarebbero sentite in tal modo coonestate.
E' stata inoltre una sorpresa generale vedere attribuita a Niemeyer la paternità del progetto, quando il Sindaco di Ravello in un articolo comparso il 15 gennaio 2004 sul Corriere del Mezzogiorno ha candidamente scritto che i progetti, preliminare e definitivo, sono firmati da Rosa Zeccato, capo dell’ufficio tecnico comunale, e che l'arch. Niemeyer ha donato solo uno schizzo dell’Auditorium, senza peraltro mai aver messo piede a Ravello, come ci conferma lo stesso Sindaco.
Ci è grato pertanto inviarLe in allegato l’articolo di Secondo Amalfitano, Sindaco di Ravello, che Le faremo avere anche a mezzo fax.
Con i più deferenti saluti
Alda Croce, Fondazione Benedetto Croce
Mario De Cunzo, Comitato per la difesa del Mezzogiorno
Guido Donatone, Italia Nostra Napoli
Carlo Iannello, Fondazione Antonio Iannello
Leggo con stupore che Mario Pirani, su "Repubblica" di oggi, contesta a "Italia Nostra" di essere "cieca" e ideologizzata perché si oppone "in sede Tar", insieme ad alcuni privati, all'auditorium progettato da un illustre architetto che il Comune di Ravello vorrebbe edificare dove non è consentito.
Vorrei far notare che se si presenta un ricorso al Tar (come lo stesso Pirani ci rammenta) è perché si ritiene sia stato consumato un atto
illegittimo e leso un interesse.
Il giudice naturalmente deciderà, ma dovrebbe essere ovvio che il rispetto della legge deve prescindere, al contrario di quanto Pirani scrive, "da ogni criterio culturale e persino da ogni valutazione estetica", sempre opinabili.
Se così non fosse, chi dovrebbe stabilire volta per volta se i progetti non in regola con le norme sono capolavori e vanno autorizzati in deroga alle leggi oppure no?
Le amministrazioni comunali? L'opinione pubblica? Gli amici del progettista? Le "personalità della cultura" mobilitate per l'occasione?
Ce ne vogliono 150 come nel caso in questione o ne bastano anche meno?
La battaglia di "Italia Nostra" contro questo insidiosissimo precedente è quindi sacrosanta.
Cordialmente,
Giuseppe Palermo
(Via Tagliamento 7, Siracusa)
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Trascorsero una guerra e un quarto di secolo prima che qual sogno si realizzasse. Quella della Pianura pontina fu una operazione di ingegneria territoriale, sociale ed economica (di pianificazione) confrontabile con quelle che, negli stessi anni, avvenivano negli USA, nel regime roosveltiano del New Deal, per reagire alla crisi del sistema capitalistico.
Oggi la terza fase della trasformazione dell'Agro romano avviene con gli interventi causali dell'esplosione metropolitana: una delle forme di "megalopoli"?
La questione è rimasta giovane pur essendo vecchia di secoli.
Roma è cinta di un deserto, che l'avvolge come un sudario, dal quale la sua testa emerge magnifica di una bellezza immortale. Una poesia dolorosa sale da quella campagna calva e squallida, senza paesi e senza case, interrotta da lugubri stagni, solcata da rivoli morti, rigata da stecconati, dentro i quali mandre di buoi e di bufali, dall'occhio selvatico e dal pelo ispido, guardano sospettosi il raro viandante o si voltano fremendo al fischio della vaporiera. Il pensiero si turba e s'interroga attraversando quel deserto, così muto e così pieno di memorie, mentre nella nostra anima moderna si alza alteramente un nuovo problema di conquista e di creazione.
Può Roma, ridivenuta capitale d'Italia, una nazione giovane e ardente al lavoro, profonda d'istinti ed arsa da tutte le febbri della modernità, rimanere così separata dalla patria, che per giungervi si debba ancora attraversare una solitudine quasi preistorica difesa dalle febbri contro ogni imprudente temerità di lavoro? Può ancora la grande metropoli portare stretto sui lombi questo cinto di dolore e di miseria, mentre la sua vita si gonfia a tutti gli aliti di una nuova primavera, e un'altra grandezza si prepara alla sua opera di capitale che può contenere il Papa e il Re, tutto quanto ancora ci resta di universale nello spirito delle genti e di più individuale nel monarca che unificò la sua storia e incarna la sua vita politica?
Qualche giorno fa la Camera discusse il problema dell'Agro.
Il sogno è di ridurlo una campagna florida, ondeggiante di messi e di alberi, sparsa di case e di paesi, solcata da canali e da strade; gli oratori si smarrirono fra le illusioni del passato e quelle dell'avvenire, ricostruendo su scarsi ed incerti frammenti di autori latini la storia agricola dell'Agro, o fantasticando dietro qualche affermazione di autore moderno sulla prossima ubertosità del suo deserto ancora consacrato ai silenzi della morte. Una dialettica monca ed aspra battaglia nel problema, a seconda dei partiti, si accusa tutto e tutti, dai barbari delle invasioni ai pontefici che pur :mantennero a Roma un primato universale, dai feudatari del medioevo ai latifondisti di oggi, dimenticando che il problema ha caratteri ben più originali e difficoltà più profonde.
Qualunque possa essere stata ai tempi belli della repubblica e dell'impero l'ubertosità dell'Agro, questo è ben certo, che i romani non furono mai un popolo agricolo e che intorno a Roma, troppo ingrossata di ricchezze e di vizii, la campagna non poteva avere che una vita riflessa del suo fasto e delle sue dovizie. Non si sa bene che intorno a Roma vi fossero città importanti e viventi di una propria prosperità industriale ed agricola: vi erano forse più ville che paesi, più schiavi che cittadini, più splendore di eleganze che vivacità di prodotti, più letizia di arte e gloria di monumenti che effervescenza di libero lavoro e originalità indigena di produzione.
Infatti bastò che Roma cadesse, perché tutto rovinasse nell'Agro senza speranza di resurrezione. Evidentemente le condizioni naturali di questo erano tristi e difficili, se un contraccolpo di sventura politica poté tutto isterilirvi; e quando, dopo l'invasione dei barbari, assodata la sua lava, ricominciò per tutta Italia, nell'epoca dei Comuni, il nuovo lavoro di fecondazione, l'Agro rimase ancora un deserto. Feudatari potenti e feroci vi si combatterono, ma il Comune non poté, come altrove, assorbirli e digerirli; i Pontefici avvicendarono sul loro trono tutta la varietà dei temperamenti e degli ingegni, dei vizi e delle virtù; ma da Roma non una irradiazione di fecondità arrivò alla campagna, oda questa una originalità di lavoro a Roma. Mancava nell'Agro la vita comunale e quella agricola e l'altra dell'industria e del commercio; il suolo era malato, e i radi paesi vi parevano appena fortezze o ospedali per un popolo d'infermi. L'infallibile istinto della vita lasciò stendersi sui campi la zolla pratile come un tegumento protettore; la popolazione si rarefaceva, e quindi i possedimenti si allargavano; il lavoratore ridiscendeva verso la barbarie della preistoria, non essendo oramai più che un pastore o un mandriano, mentre il padrone a Roma, senza personalità di cittadino nella città dei Papi, non aveva altri legami colla terra che quelli di una sovranità territoriale o di una curiosità di cacciatore.
Così Roma arrivò sino ai nostri giorni. Se lo stato pontificio era un muraglione cinese che impediva il contatto fra il Nord e il Sud d'Italia, e adesso l' inferiorità civile del Mezzogiorno non ha forse spiegazione più vera di questa, a Roma la politica dei Pontefici faceva un cinto d'ignoranza col misoneismo, e intorno a Roma l'Agro raddoppiava quel cinto col proprio deserto di morte.
Come improvvisarvi oggi una campagna ubertosa quanto la Lombardia, o ingegnosa quanto la Toscana? Invece vi manca il personale agricolo e cittadino; mancano le case dei coloni, i loro centri di scambio, i focolari d'interessi e d'idee, l'amore della terra e la fede nel lavoro. I latifondisti, a che accusarli? Non potrebbero improvvisamente mutare se stessi in industriali agricoli, mancando per questa improvvisazione nella medesima misura di capitali intellettivi ed economici; l'acqua e l'aria sono del pari insalubri; la poca gente non vi ha alcuna tradizione di campo o di bottega: Un governo che sappia, e sappia veramente volere ciò che sa, deve adesso guardarsi sopratutto dal sogno di una improvvisazione territoriale, giacchè vita e civiltà non s'improvvisano; non deve accusare nè il passato nè il presente, né i padroni nè gli operai, mentre l'antico problema è maggiore d'ambidue. Nessun provvedimento di legge o esenzione d'imposta o lusinga di premi o minaccia di pene può affrettare l'ora del risveglio: la legge non inventa e non crea, non muta l'animo o l'intelletto della gente, non suscita paesi, non affolla un popolo rado, vagante, muto e livido, per un deserto.
L'illusione legislativa è antica nelle democrazie che rappresentarono sempre piuttosto l'immaginazione e il sentimento che l'intelletto delle nazioni; è antica ed immortale. Come resistere, essendo voi stesso un legislatore improvvisato, all'illusione di potere col proprio pensiero e col proprio voto cangiare la faccia della terra e della gente?
La legge, invece, non è che istinto nel popolo, che la segue prima che sia formulata, od esperienza nel legislatore, che finalmente la formula per regolarizzare un ordine già esistente.
Non lo chiedete al ministro Baccelli; egli è di coloro che bevono da più lungo tempo alla coppa delle illusioni parlamentari; bevono e credono al miracolo della loro parola.
Non diventò forse, e per questo soltanto, ministro di agricoltura?
16 marzo 1903.
ROMA - Solo Ernesto Nathan era riuscito a farlo approvare, all´inizio del Novecento. Anche se, allora, c´era una Roma piccola piccola, che non arrivava oltre le Mura Aureliane. Il consiglio comunale della capitale, dopo cento anni, vota il nuovo piano regolatore alla fine di una maratona d´aula durata tutta la notte. Il sindaco Veltroni parla di «giornata storica» per la città più grande d´Italia che, dopo quasi dieci anni di lavoro e una larga consultazione dei municipi, disegna le linee del proprio futuro urbanistico.
Tutela integrale dell´agro, riduzione delle previsioni di nuovi edifici da 120 a 61 milioni di metri cubi, vincolo definitivo di 87mila ettari di territorio verde, istituzione di venti "centralità". Insediamenti, questi, che mescolano residenza, uffici, e commercio. E che dovrebbero ricucire, con buone architetture, zone periferiche sfilacciate e prive di servizi. E infine, la "cura del ferro", col permesso di costruire case solo se la più vicina fermata del metrò è a non più di un chilometro di distanza.
Il nuovo piano (il Polo ha votato contro) è una sfida ai costruttori e una scommessa sul futuro di Roma. Smentite le previsioni espansive (la capitale ha perso 300 mila abitanti negli ultimi dieci anni), il Prg sancisce la fine della rendita fondiaria e chiede agli imprenditori progetti per la demolizione e la ricostruzione di interi quartieri.
A seguire il lungo cammino del progetto, iniziato con l´amministrazione Rutelli, sono stati un giovane assessore, Roberto Morassut, e un vecchio urbanista, il bolognese Giuseppe Campos Venuti, punto di riferimento di generazioni di tecnici. Che però, a sorpresa, ha annunciato al sindaco Veltroni di voler ritirare la propria firma in calce al documento. Il motivo? L´abbandono dello strumento delle compensazioni, una delle novità del testo. In pratica un meccanismo per cui il proprietario di un´area verde cede al Comune l´80 per cento del terreno, in cambio del permesso di costruire sul restante 20.
L´innovazione non è piaciuta a Rifondazione, che ha scelto il più costoso strumento dell´esproprio. Non si tratta, però, di uno strappo definitivo. Campos Venuti loda il piano, giudicato «un disegno che innova radicalmente l´urbanistica italiana». E non esclude di riappropriarsi della paternità del Prg nel caso, in fase di osservazioni, venissero reintrodotte le compensazioni.
ROMA - Sindaco Veltroni, perchè ci sono voluti decenni per approvare il nuovo piano regolatore?
«Per la prima volta dai tempi di Nathan, il consiglio comunale, l´organismo eletto dai romani, decide il proprio destino. Con il voto sul piano abbiamo assistito a una pagina confortante di democrazia».
Roma, però, ha già avuto altri piani regolatori.
«Sì, ma non sono mai stati approvati dal consiglio. Ce ne furono vari, tra cui quello del '62, ma fu adottato dal commissario prefettizio. Per effetto di questo non governo del territorio Roma, la città più bella del mondo, ha subito ferite profonde. Ancora oggi investiamo molto per portare acqua e fogne nelle borgate cresciute senza regole e infrastrutture».
Milano, invece, non adottando il piano ha deciso di non darsi queste regole.
«Roma ha scelto di ridisegnare la città lungo alcune direttrici di moderna cultura urbanistica: non crescerà più alcun insediamento lontano da una stazione. La città storica viene allargata e ingloba quartieri come Eur e Garbatella. Mettiamo in campo investimenti per le infrastrutture, che serviranno per dotare la città di 600 chilometri di binari ferroviari e del metrò. Gli ettari vincolati diventano 87mila e Roma si riorganizza intorno a venti "centralità" con servizi dislocati nelle periferie. Tutto questo è un segnale per il Paese».
Perché?
«Il piano è il contrario della logica dei condoni. Ed è la dimostrazione che si possono fare regole leggere e flessibili. Noi crediamo che possano convivere la difesa della qualità ambientale e lo sviluppo economico. Grazie a una maggioranza unita, abbiamo approvato il bilancio e la più grande una manovra urbanistica fatta da decenni a questa parte. E che porterà investimenti per 5 miliardi di euro e 100 mila unità lavorative».
Storace aveva proposto di rimandare il voto del Prg a dopo le Provinciali.
«Storace, legittimamente, non voleva che si approvasse né il piano né le successive attuazioni. La destra ha annunciato ostruzionismo, ma la maggioranza ha avuto la forza e la determinazione di aprirsi al dialogo. Non si approva un testo così importante ignorando l´opposizione. Che, con senso di responsabilità, ha abbandonato il muro contro muro».
Campos Venuti, però, non si riconosce più nel "suo" piano.
«È naturale che in un organismo democratico come il consiglio il testo sia stato modificato. I cambiamenti sono frutto di un´ampia consultazione in città, e sono contento che il piano sia stato apprezzato dal mondo ambientalista e dai settori più moderni dell´imprenditoria».
Da parte dell´urbanista restano le critiche sulle compensazioni.
«Gran parte di quell´ispirazione è stata confermata, e lo stesso Campo Venuti loda il piano. La sua è una critica seria, su un punto particolare, e sarà un tema di discussione dei prossimi passaggi del piano. A cui Campos Venuti parteciperà con quell´affetto e quell´amicizia per Roma e la sua giunta che mi ha confermato al telefono».
«Roma non merita questo piano regolatore»: sotto questo slogan scritto a caratteri cubitali sullo striscione che guidava il corteo, centinaia di persone hanno manifestato ieri pomeriggio contro la proposta di Prg del comune di Roma. Il corteo, promosso da varie associazioni ambientaliste e comitati di cittadini (dalle «Rete per il piano regolatore partecipato» a Italia nostra, dal Wwf a Legambiente, da Verdi ambiente e società ai centri sociali ai disobbedienti) è sfilato dal Colosseo al Campidoglio, dove una delegazione di manifestanti ha incontrato i capigruppo in consiglio comunale. Alla giornata di protesta, seguita a molte iniziative promosse nei giorni scorsi in diversi quartieri, hanno aderito anche partiti (Rifondazione e Verdi), urbanisti, docenti universitari e sindacalisti Cgil. Al sindaco Veltroni contestano innanzitutto il «mancato coinvolgimento dei cittadini» nella redazione della nuova pianta di Roma. Nel merito del Prg, in particolare l'«enorme quantità di cemento» (sessantaquattro milioni di metri cubi) che si riverserà, se il Piano verrà approvato così come è dal consiglio comunale, nel territorio. Troppo, eccessivo in una città che «continua a perdere abitanti», fanno notare i promotori dal corteo, accusando il comune di «ascoltare soltanto i costruttori». «Il piano comunale - dice Mirella Belvisi, di Italia nostra, per anni consigliere comunale verde - va a compromettere aree che avevamo tutelato con il vecchio `piano delle certezze', le aree agricole infatti ora sono trasformate in aree di riserva per nuove costruzioni. Lo sviluppo urbano è inoltre previsto nella cintura verde della città, il che vuol dire che finisce la tutela ambientale per la quale ci eravamo tanto battuti in passato». L'altra «cosa grave - aggiunge Belvisi - è che nel centro storico il comune prevede la demolizione dell'esistente e la ricostruzione senza piano di recupero. E' un fatto gravissimo». «Basta con la città degli affari, con la città dei salotti - dice Guido Lutrario, della Rete per il piano regolatore partecipato - . Vogliamo un piano che salvaguardi l'identità storica della città, che tuteli i ceti popolari che ancora ci vivono».
I manifestanti ribadiscono al comune la richiesta di un confronto con «il nostro piano regolatore». «Roma - scrivono in un documento appello - ha davanti a sè la grande occasione per ripensare la città e farne il centro della sostenibilità (mobilità pubblica su ferro, lotta all'inquinamento acustico, atmosferico ed elettromagnetico), della biodiversità (tutela del territorio) e dell'accoglienza e la solidarietà verso i migranti e tutti coloro che vivono nel disagio».
L'approvazione del Prg è prevista per la fine dell'anno. Per le eventuali modifiche c'è ancora tempo, ma dal Campidoglio neanche ieri sono arrivati segnali «positivi» per i manifestanti». I Verdi e Prc, in giunta, minacciano di non votarlo. Noi il piano lo vogliamo, ma non così com'è, ora è un'orgia di cemento incontrollato», dicono.
In serata, mentre era in corso la riunione con i capigruppo capitolini, in via Ostiense un gruppo di studenti e lavoratori precari hanno occupato uno dei tanti edifici pubblici abbandonati. E' una ex sede della Croce rossa, dove, secondo glio occupanti, nascerà «la camera del lavoro e del non lavoro». Il nuovo centro di aggregazione giovanile ha già un nome: si chiama «Acrobax».
Roma ha il nuovo piano regolatore. Non è stato ancora varato, ma è già un evento: la sua redazione dura da otto anni e il piano precedente risale al 1962. Da settimane se ne discute in ogni circoscrizione (che ora si chiamano municipi) e in tante altre sedi: è come se la città si fosse ripresa da un certo intontimento. Il documento agita anche il meglio della cultura urbanistica: a Giuseppe Campos Venuti, che lo ha realizzato insieme a Federico Oliva e agli architetti del Comune, si oppongono Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano. Obiezioni ha avanzato anche Leonardo Benevolo.
Roma ha una storia politica, una religiosa, una affidata al suo ruolo, un´altra al suo mito. Eppure le trasformazioni vere della città, l´aggregarsi dei poteri, si leggono nelle vicende materiali, nella crescita dei quartieri, nel costituirsi e nello slabbrarsi della forma urbana. E niente, come la stesura di un piano, fa risaltare la trama degli interessi che innervano Roma e quanto restino forti quelli della proprietà fondiaria e immobiliare.
Il piano del 1962 si avventurava in previsioni clamorosamente smentite (una Roma da sei milioni di abitanti) e metteva il sigillo sulla speculazione, sugli affari del Vaticano e della Società Generale Immobiliare, sul dominio delle macchine, sulla crescita della città come una macchia d´olio che invadeva da tutti i lati la campagna romana. L´eredità di quel progetto è ingombrante: sono 120 milioni i metri cubi di nuovi edifici che allora erano stati previsti e che invece non vennero realizzati (per mille motivi, compresi il buonsenso e l´assenza di domanda, ma anche perché dilagò l´abusivismo).
La partita più delicata si gioca su quei numeri. Quasi che il nuovo non possa liberarsi dall´ingombro del vecchio e Roma resti inchiodata al suo passato. Il Comune vuole consentire l´edificazione di 65 di quei 120 milioni di metri cubi. Sono diritti acquisiti, si sostiene in Campidoglio, li abbiamo già dimezzati e non si può fare di più. Altrimenti finiremo sommersi dai ricorsi. Inoltre, 40 milioni sono già in costruzione (li ha decisi in gran parte la giunta Rutelli) per cui i nuovi sarebbero 25: cerchiamo di usarli al meglio, spiega il sindaco Walter Veltroni, «per mettere un punto fermo alla crescita della città, che altrimenti crescerebbe da sola, per creare tanti centri in periferia e per distribuire verde e servizi».
La replica arriva da tutto il fronte ambientalista (Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Polis, Comitato per la bellezza, Verdi ambiente e società, che oggi, alle 16,30, sfileranno dal Colosseo al Campidoglio) e da una parte della stessa maggioranza (il gruppo Aprile dei Ds, i Verdi e Rifondazione). Troppe scelte sono affidate ai privati, assicurano, in particolare ai proprietari delle aree. E poi non è vero che quei diritti edificatori siano intoccabili: lo dimostrerebbero sia sentenze della Corte costituzionale che la legge e basterebbe solo motivare con buona perizia il rifiuto opposto dal Comune ai proprietari e fissare regole valide per tutti, senza ammettere privilegi. Roma, aggiungono gli ambientalisti, non sopporterebbe questo massiccio carico di edifici, 540 mila nuove stanze ammassate su 7 mila ettari che dovrebbero ospitare quasi 270 mila persone: come se a Roma si aggiungesse Venezia. Il tutto in una città che negli ultimi dieci anni ha perso quasi 300 mila residenti, stando ai dati del censimento, e per la prima volta ha visto diminuire anche il numero delle famiglie.
Manca ancora il voto finale del Consiglio comunale e non è detto che l´approvazione del piano rispetti la scadenza del 31 dicembre (è in atto un braccio di ferro fra Veltroni e il presidente della Regione, Francesco Storace): ma non è secondario, insiste Campos Venuti, che si affidi alla pianificazione la capitale di un paese dove si diffonde la più sfacciata deregulation urbanistica e dove va affermandosi il modello milanese, tanto caro alla destra, di contrattare tutti gli interventi - Comune, da una parte, grandi investitori dall´altra.
Il marchio di Campos Venuti, urbanista fra i più affermati e di grande esperienza, è evidente: Roma in dieci anni avrà tre linee ferroviarie urbane e quattro metropolitane con 266 stazioni («E´ un passo in avanti, ma siamo ancora molto indietro rispetto a Londra, Berlino o Parigi», aggiunge Campos). Veltroni sottolinea anche altri aspetti: «Il perimetro della città storica si allarga oltre la parte monumentale, comprendendo l´edilizia novecentesca fino alle case popolari di San Saba, alla Garbatella, al quartiere delle Vittorie, all´Eur; nelle periferie vengono distribuite venti "centralità", e cioè insediamenti che mescolano residenza, uffici e commercio e che dovrebbero ricucire con buone architetture zone sfilacciate e prive di servizi, portando scuole, campi sportivi e tanto verde». E quanto al verde, ecco i numeri più imponenti: 87 mila sarebbero gli ettari di terreno vincolati e sui quali non si dovrebbe poter costruire mai più (l´intero territorio comunale ammonta a 129 mila ettari) e 7.700 gli ettari destinati a verde pubblico, «pari a cinquanta ville Borghese», sottolinea Campos Venuti.
Ma anche su queste ultime cifre si è aperto un contenzioso con gli ambientalisti. Che a tratti può sembrare paradossale. Per Campos Venuti è il fiore all´occhiello di un´urbanistica riformista. Non potendo più espropriare suoli da destinare a verde pubblico perché costerebbero troppo, il Comune avvia una trattativa con i proprietari, ai quali si consente di costruire, mettiamo, su un venti per cento del proprio suolo "regalando" all´amministrazione l´altro ottanta. E su questo ottanta il Comune attrezza un parco. Il meccanismo si chiama "compensazione". Che può avere anche un altro risvolto. Se gli interessa acquistare una certa area da destinare integralmente a verde pubblico, il Comune chiede al privato che la possiede di cedergliela e gli consente di andarsene a costruire altrove.
Legambiente, Italia Nostra e gli altri gruppi sostengono che questo meccanismo sia una trappola. Una legge del 1968 prevede che ogni abitante abbia una quota di territorio per verde e servizi pari a 18 metri quadri. E´ una legge scarsamente rispettata. Ma a Roma accadrebbe il miracolo: con il nuovo piano regolatore quella quota schizzerebbe a 32 metri quadri. «Il problema», spiega Edoardo Zanchini di Legambiente, «è che per fare parchi in città si costruirebbero case per 3 milioni di metri cubi nella campagna romana: è un gatto che si morde la coda. Il rischio è che quei parchi non si realizzino mai e che la campagna venga ulteriormente saccheggiata». Replica Veltroni: «Noi fissiamo delle previsioni di crescita, ottenendo in cambio di trasformare Roma nella città con più verde in Europa: non capisco lo scandalo».
Il confronto vede fronteggiarsi due anime dell´urbanistica e della sinistra (la destra sta a guardare divisa al suo interno: un po´ fa ostruzionismo, un po´ cavalca l´ambientalismo, ma nell´attesa la Regione di Storace riduce i perimetri dei parchi). Da una settimana è stato aperto un "tavolo verde": da una parte il Comune, dall´altra le associazioni ambientaliste. Il sindaco Veltroni mostra grande apertura: «Abbiamo proposto di ridurre le cubature e in particolare i volumi delle centralità. E inoltre abbiamo assicurato che mai più ci saranno compensazioni».
Nel frattempo Roma cresce. Non si vedeva da tempo un simile fervore di cantieri (la gran parte avviati nell´ultimo scorcio degli anni Novanta). Quaranta milioni di metri cubi dalla Bufalotta, estremo nord della città, dilagano su una striscia di campagna romana che supera il raccordo anulare e con le sue forme ondulate, le alture rotonde e i pini a ombrello, gli olmi e i lecci avvolge la città fin oltre la Magliana, nel lembo a sud-ovest che si spinge verso Fiumicino e il mare. E´ la città non-città. Le réclame dei costruttori sono intinte nella tavolozza del bucolico: boccioli di rosa e cespugli di alloro. Vaste praterie e oasi naturali ospitano complessi residenziali che scalano la sommità delle colline e ridiscendono nelle valli. Sono villette a schiera, palazzine o palazzi più grandi con videocitofoni, porte blindate, antenne satellitari, serrande elettriche e parquet. Si costruisce alla Marcigliana e a Ponte di Nona sulla Prenestina (qui i Caltagirone stanno realizzando un insediamento da 1 milione 200 mila metri cubi per 10 mila persone). Altri complessi spuntano a Ponte Galeria e a Mezzocammino, a Castellaccio e a Vitinia. A Tor Pagnotta, lungo la Laurentina, a ridosso di una torre medioevale che sormonta una villa romana, arriveranno 1 milione di metri cubi in un´area di proprietà Caltagirone.
La domanda di case, si assicura, è orientata verso questo tipo di edilizia. Pochi servizi e tanti centri commerciali. Gran parte degli spostamenti avverrà in macchina. E il ferro? Scarsissimo, assicura l´urbanista Paolo Berdini: «Nulla è previsto alla Bufalotta, dove stanno costruendo il più grande ipermercato della città, ventimila metri quadri; nulla a Ponte di Nona, dove Roma tenderà a saldarsi con Guidonia e Zagarolo; nulla a Tor Pagnotta». «Buona parte di questi insediamenti li ereditiamo e a Tor Pagnotta abbiamo più che dimezzato le cubature», insiste Veltroni. «Ma nel piano abbiamo fissato il principio che si costruirà solo dove arrivano le infrastrutture».
Da alcuni anni la residenza si sta ammassando nelle estreme periferie, mentre diminuiscono ancora gli abitanti del centro storico (dal 4,4 per cento dell´intera popolazione romana nel 1991, al 3,6). Il fenomeno, concordano tutti, aggrava la congestione di macchine e rende il centro sempre più povero di servizi essenziali (spariscono gli alimentari e gli artigiani, crescono jeanserie e bigiotterie), mentre sedi di assicurazioni e studi professionali divorano anche le zone semicentrali (da Prati ai Parioli, dal quartiere Trieste alla zona di Piazza Bologna). Con il passare del tempo si è sbiadito un orizzonte culturale che aveva animato l´urbanistica romana (un nome su tutti, Antonio Cederna): trasferire uffici e ministeri dal centro verso la periferia per migliorare l´uno e l´altra (Cederna si batteva anche per rimuovere via dei Fori Imperiali, creando un parco archeologico e impedendo alle macchine di affumicare piazza Venezia: ma anche quell´idea, rilanciata nei giorni scorsi da Leonardo Benevolo, è stata lasciata sfiorire). Qualcosa si sta realizzando: le venti "centralità" fissate da Campos Venuti dovrebbero andare in questa direzione e già è deciso che gli uffici del Campidoglio traslochino all´Ostiense. Manca però un piano organico, il governo nazionale non dà alcun contributo e si innestano le retromarce (gli uffici del ministero delle Finanze dall´Eur a Trastevere).
Basta abitazioni, non ne possiamo più: si alza forte la protesta di Sandro Medici, ex direttore del Manifesto, ora presidente del X Municipio, un cuneo che parte da Porta Furba e arriva fino alle vigne del Frascati, sotto i Castelli. E sono proprio le centinaia di ettari dove si produce il Frascati che rischiano di essere sommersi da case e villette. «In quindici anni abbiamo subito un´invasione di cemento, oltre a imponenti centri commerciali come l´Ikea e Cinecittà 2», spiega Medici. «Il nostro quartiere è stremato e non si risolvono i problemi che ci trasciniamo dal dopoguerra, quando questo territorio diventò il laboratorio della speculazione e poi ospitò interi insediamenti abusivi. Ora sono stati aggrediti i residui terreni agricoli ai margini della città, un processo che consuma suolo e moltiplica la rendita immobiliare nelle aree circostanti».
A Torre Spaccata e alla Romanina, fra Cinecittà e il raccordo anulare, sono previste "centralità" per 2 milioni e mezzo di metri cubi. Era concreto il rischio che questa massa di cemento ospitasse soprattutto case e centri commerciali che fanno guadagnare solo chi costruisce e non riqualificano niente. «Ora, però, il Comune si dice disposto a tagliare i volumi e ad accogliere la nostra richiesta di insediarvi dipartimenti universitari e altre strutture legate alla cinematografia, oltre a un polo per il volontariato», dice Medici. «A Roma esistono due trasformazioni positive generate da vere "centralità"», aggiunge Berdini, «le hanno prodotte la Terza Università all´Ostiense e la Seconda Università a Tor Vergata: entrambi interventi guidati dalla mano pubblica».
Il dibattito è acceso. Dalle stanze degli amministratori e dagli studi degli architetti si sposta nei quartieri, da quelli del centro ai più lontani spicchi di città. Non si sa se la disputa fra ambientalisti e Campidoglio sfocerà in un accordo. Veltroni assicura che si è sulla buona strada: troppo forte è il rischio che spunti un terzo contendente, quello che il piano regolatore a Roma non lo vuole né ora né mai.
Che la Coppa America sia un'occasione che Napoli non deve perdere è opinione su cui davvero pochi possono dissentire. Altro è il modo con cui arrivarci. L'amministrazione comunale sta provvedendo a rispondere alle 81 domande poste dagli organizzatori della competizione. Tre sembrano essere le carte di Napoli. Il golfo garantisce condizioni di gara che sono simili a quelle di Auckland su cui è stata tarata la barca vincitrice della precedente competizione. In secondo luogo Napoli è fornita di tutti i requisiti sufficienti a reggere le trasmissioni del grande fenomeno medianico che la Coppa America determina. Ultimo, ma non secondario elemento, c'è una grande area disponibile, quella di Bagnoli, come base logistica.
Di quest'area si conoscono gli incresciosi ritardi con cui è proceduta l'opera di risanamento, e come essi potevano essere già iscritti nelle iniziali previsioni, dati i vincoli espliciti ed impliciti con cui fu costituita la società che doveva operare il disinquinamento. Sono stati spesi molti soldi, molti altri debbono essere spesi. C'è stato su ciò un contrasto tra gli enti locali e il governo che pare ora superato in una comune prospettiva di rilancio della città. Il modo con cui sigillare questa sorta di nuovo patto politico per Napoli sarebbe il cosiddetto «accordo di programma». Uno strumento amministrativo che semplifica le procedure, consente di procedere in deroga ai vincoli esistenti, abbrevia i tempi, dovrebbe comportare una maggiore efficacia nell'esecuzione dei progetti.
Sui poteri di deroga che un tale strumento comporta si sono elevate giustificate riserve. Deroga a che? Al piano urbanistico di Bagnoli approvato quattro anni fa dal Consiglio Comunale di Napoli, dopo un serio dibattito che è approdato ad una destinazione di quell'area largamente condivisa? E perché? Il piano urbanistico di Bagnoli contiene in se tutti gli elementi che possono soddisfare i problemi organizzativi della Coppa America.
L'idea, che è serpeggiata anche su qualche giornale, che gli organizzatori della manifestazione sono interessati ai possibili affari edilizi che potrebbero realizzarsi a Bagnoli, fuori da qualsiasi regola, è un'idea molto napoletana, che, per atavica arretratezza, non vede altra forma di profitto che la speculazione edilizia, anche dinnanzi ad un evento che, tra sponsorizzazioni, diritti mediatici e quant'altro, eleva su queste voci cifre a cui nessun guadagno di costruttore edile può sognare di raggiungere.
Il piano urbanistico di Bagnoli, senza essere speculativo, prevede una struttura alberghiera di 1500 posti letto, che non è poco, e un'edilizia abitativa per trecento mila mc, pari a mille alloggi. Il piano particolareggiato, ora all'approvazione del Comune, formalizza questo comparto con una vasta area di case a soli tre piani, che ricorda molto il Villaggio Olimpico di Roma, trasformato, subito dopo le Olimpiadi del 1960, in quartiere residenziale, ora uno dei più ambiti della capitale. Non si vede perché analogamente a Bagnoli non si avvii subito la realizzazione di questo comparto, per destinarlo durante la competizione ai team, alle trouppe televisive, ai servizi organizzativi e giornalistici, etc. Si aggiunga che la struttura alberghiera sempre nel piano, è collocata a ridosso della piattaforma a mare e l'area dell'edilizia abitativa poco distante. Polemiche inutili anche sulla piattaforma, che il piano prevede giustamente di smantellare, ma il termine può essere differito a dopo la competizione, con previe garanzie per tutti. Meglio ancora sarebbe realizzare il porto turistico previsto dal piano urbanistico di Bagnoli e garantire eventualmente la necessità di costruzione delle rimesse delle barche in competizione su di una parte residuale della piattaforma. Come si vede non c'è sostanziale incompatibilità tra il piano urbanistico di Bagnoli e le necessità della Coppa America. Se ritocchi funzionali e provvisori sono necessari, l'accordo di programma può provvedervi con indicazione motivata e specifica degli interventi.
Napoli ha una storia urbanistica che parla chiaro, le poche volte che ci si è mossi su una direttiva urbanistica, come fu il piano delle periferie, per l'azione del Commissariato post terremoto, si è fatto bene. Le molte altre volte che ci si è mossi su esigenze prevalentemente speculative si è determinato il grande disastro urbanistico della città.
Proceda subito il Consiglio Comunale a varare il piano particolareggiato di Bagnoli. L'eventuale accordo di programma potrà così procedere proficuamente con riferimento ad esso. Tutto ciò è possibile, mentre, con questa amministrazione, non dovrebbe essere neppure plausibile ricalcare il più cieco malcostume urbanistico della città.
Le previsioni urbanistiche per Bagnoli
Una immagine del PP di Bagnoli
La maratona consiliare che ha consentito l´approvazione definitiva del piano regolatore segna un passo consistente di Napoli verso la normalità. Un passo tanto più importante in quanto viene in una fase surriscaldata della vita cittadina, che ha fatto ipotizzare in più di una circostanza una caduta della tensione innovatrice avviata con la prima giunta Bassolino.
L´adozione del documento segna anzitutto un successo di Vezio De Lucia, che ne ha disegnato l´impostazione e si è dovuto sorbire non poche critiche per aver rinunciato a strumenti, come il piano strategico, considerati più agili e moderni, in favore di un saldo e articolato quadro di legalità: la vera grande innovazione in una città che delle regole stracciate o inapplicabili aveva fatto a lungo la sua principale cifra urbanistica. Altro protagonista del successo è Rocco Papa, che ha gestito la ponderosa eredità di De Lucia con diplomatica e tranquilla determinazione. Né va dimenticata la capacità collettiva esibita dall´ufficio urbanistico comunale, che ha svolto con grande cura ed eccellenti risultati un´impressionante mole di lavoro.
Ma, se questi meriti si colorano in parte di tinte professionali, vi è un indubbio merito politico da attribuire al consiglio nel suo insieme. Perché, al di là delle lentezze e degli scontri esibiti, ha finalmente espresso il segno di una volontà di decidere nell´interesse comune della città. Un sussulto di dignità, applicato per di più a un buon documento.
Il piano uscito dal consiglio mostra solo ritocchi marginali rispetto alla stesura originaria. E´ stato opportunamente respinto un tentativo dell´ultima ora di lasciare aperta la porta a un futuro intervento di ristrutturazione di qualche ambito del centro storico; il vecchio edificato potrà invece, grazie alla minuta classificazione tipologica, essere oggetto degli interventi consentiti senza i ritardi e i rischi di ulteriori passaggi. E´ stato, intanto, sollecitato il piano esecutivo già previsto che dovrà concretizzare le condizioni per il risanamento e l´attrattività di Napoli Est.
E sono stati correttamente rinviati alla scala regionale e alla negoziazione con altri protagonisti territoriali la delocalizzazione dello scalo aeroportuale e quella dei depositi petroliferi. Sullo sfondo di queste ultime decisioni, del resto, si muovono alcune apprezzabili iniziative già assunte da Provincia e Regione: studi e documenti ai quali l´area metropolitana fa da spazio pertinente di riferimento.
Il governo cittadino, comunque, non può affatto riposarsi sugli allori delle decisioni appena assunte. Incombe la severa scommessa del progetto esecutivo di Bagnoli, con le quotidiane tentazioni di aprire nell´urbanistica per i cittadini e per la quotidianità qualche breccia speculativa motivata da occasioni più o meno "straordinarie". Del resto, ora che il piano c´è, la sfida più seria è proprio quella di farne una serena normalissima gestione, cogliendone le opportunità e suscitando interlocutori validi per trasformarlo in un efficace strumento di vaglio e promozione. Cominciano già a manifestarsi i segni di interessi rilevanti, anche a livello internazionale, e non ci sono più alibi per non affrontarli, verificandone la compatibilità.
PASQUALE COPPOLA
Mille case in più e meno servizi nel Centro direzionale, incentivi per i costruttori che investono in aree degradate del centro storico, una Società di trasformazione urbana (Stu) come a Bagnoli per rilanciare l´economia nell´area Est. Sull´aeroporto di Capodichino deciderà la Regione, che sarà coinvolta anche in un accordo di programma per delocalizzare i depositi petroliferi dalla zona orientale.
«Hanno vinto la città e il Consiglio» urla di gioia il sindaco Rosa Russo Iervolino. Passa alle 8 del mattino in consiglio comunale il nuovo piano regolatore che completa il ridisegno della città (la variante per Bagnoli risale al 1996). Passa il piano in seconda lettura e ora manca solo il visto del presidente della Regione per renderlo efficace. Un piano avviato negli anni '90 dall´ex assessore Vezio De Lucia, condotto in porto dal vicesindaco Rocco Papa («siamo l´unica grande città a varare il Prg») e accompagnato in ogni sua fase da Roberto Giannì, coordinatore del Dipartimento urbanistica. Dopo una maratona di dieci anni e ventuno ore (tanto è durata l´ultima seduta) vota a favore il centrosinistra, dicono no Forza Italia e il consigliere Mario Esposito (unità delle sinistre) mentre An esce dalla Sala dei Baroni. Un piano che si divide in due blocchi: una parte normativa e una mozione di indirizzi (favorevoli centrosinistra e Polo, contrario solo Esposito) che è un concentrato di compromessi.
Capodichino - Nella parte normativa il Comune conferma la delocalizzazione, ma in un emendamento votato assieme da Ulivo e Polo si legge tutt´altro: «Le scelte devono tener conto del piano aeroportuale campano». La scorsa settimana, singolare coincidenza, la giunta della Regione ha presentato assieme a Forza Italia lo studio di fattibilità in cui è previsto un city airport.
Centro storico - Ulteriormente ampliato a 1900 ettari comprendendo quanto edificato fino al '43, il centro storico è sottoposto alla normativa dell´analisi tipologica degli edifici. Una normativa quasi esclusivamente per intervento diretto. Fin qui tutto confermato. Ma segue la mozione che rende felici i costruttori: «Il Comune provvederà alla redazione di piani integrati concentrando nelle aree degradate le risorse disponibili».
Centro direzionale - Un ribaltone. Nell´area da completare era previsto il 70 per cento per i servizi e il 30 per le residenze. Ora il rapporto è fifty-fifty.
Napoli Est - La novità è nella mozione che «impegna il sindaco a presentare un piano esecutivo per l´area Est da portare all´approvazione del Consiglio nel più breve tempo possibile».
Depositi petroliferi - La parte normativa conferma la delocalizzazione. Altro discorso negli indirizzi: «Il trasferimento comporta un piano con la Regione e i Comuni che ospiteranno i nuovi impianti». E ancora: «Saranno definite forme transitorie di prosecuzione delle attività di stoccaggio» accogliendo una richiesta degli industriali.
Ponticelli - Lievitano da 0.1 a 0.5 metri cubi per metro quadrato le cubature per realizzare una megastruttura commerciale. Su questo punto ha votato contro il presidente del Consiglio, il diessino Giovanni Squame. Proprietaria dei suoli è la società Vignale.
I francesi - Un piano che a pieno regime, in uno studio del Politecnico di Milano, prevede sedicimila posti l´anno nell´edilizia. Ieri il vicesindaco Papa ha ricevuto una delegazione dell´ambasciata francese interessata a realizzare alberghi, porti, insediamenti industriali e sistemi di trasporto.
Bagnoli - Il ministro Tremonti ha firmato il decreto che sblocca 75 milioni di euro per completare la bonifica dell´ex Italsider. Ora l´atto passa alle Camere. La Iervolino ha parlato ieri con Pera e Casini e domani sarà in Parlamento.
Le vicende e i materiali sulla pianificazione a Napoli nel sito della Casa della città
A quaranta anni dalla discussione che portò all’adozione del piano del 1962, Roma inizia a discutere la nuova variante urbanistica. Oggi non si respira il clima di partecipazione e attenzione culturale che caratterizzava quegli anni: segno del forte declino dell’urbanistica. Proprio in questi giorni il governo Berlusconi sta varando il terzo condono edilizio. Sono ormai molti i comuni che giudicano il ricorso all’urbanistica come un’inutile perdita di tempo. Numerose sono le leggi dello stato e delle regioni che gareggiano nell’individuazione di deroghe e nella compressione degli spazi della discussione pubblica.
In questo clima generale, al comune di Roma va riconosciuto il merito di aver messo mano a un nuovo piano regolatore generale. Potrebbe essere una grande occasione per delineare una nuova cultura urbana in grado di recuperare le migliori tradizioni dell’urbanistica italiana. Ma il nuovo piano di Roma, nell’attuale formulazione, presenta alcune caratteristiche molto discutibili. Sono cinque gli aspetti fondamentali su cui è necessario concentrare l’attenzione.
Il primo è relativo a una previsione del consumo di suolo che ci sembra immotivata e insostenibile. Già oggi, come si vedrà in dettaglio nei successivi paragrafi, Roma presenta una superficie urbanizzata pro capite molto superiore a quella di altre grandi città. Il nuovo piano, pur in presenza di un decremento demografico 1991-2001 di 270 mila abitanti, prevede un’ulteriore, imponente, urbanizzazione di suolo agricolo.
Il secondo aspetto è relativo al modello di città delineato dal piano. Non convincono le decisioni sul futuro del centro storico dove, attraverso “gli ambiti di valorizzazione” si ipotizzano rilevanti trasformazioni del tessuto storico e non si prende una decisione chiara e irreversibile sul progetto dell’area centrale su cui si è cimentata la migliore cultura urbanistica, e cioè il progetto Fori. Analogamente poco convincente è il sistema delle nuove centralità che dovrebbero costituire una credibile alternativa al centro storico e appaiono invece frammentarie e prive di logica unificante.
Il terzo aspetto è relativo all’assenza di una vera attenzione verso la tutela dei beni archeologici e culturali diffusi nel territorio agricolo. La “Carta dell’agro”, storica conquista della cultura ambientalista, non è parte fondante del piano ma ne rappresenta soltanto un elemento di incerto riferimento.
Il quarto aspetto è legato all’ulteriore potenziamento della mobilità su gomma, a partire dal devastante completamento dell’autostrada tirrenica verso Napoli. Mentre appaiono incerti i tempi del completamento della rete del ferro, si è scelto di appesantire gli assi stradali già oggi al limite del funzionamento (la via Cassia e la via Ardeatina, per esempio) o interi quadranti urbani come l’area orientale.
Il quinto aspetto, infine, è relativo all’impianto normativo del piano che risente fortemente della cultura della deroga: lungi dal delineare una posizione di inequivocabile definizione delle trasformazioni ammissibili e dei loro perimetri, essa rinvia sistematicamente a successive fasi affidate alla pratica della contrattazione.
In questo documento si è scelto di concentrare l’attenzione sul primo aspetto, e cioè sul consumo di suolo determinato dal piano. In successive occasioni si darà conto delle critiche sugli altri aspetti del piano. Con atteggiamento sempre concreto e costruttivo. Al riguardo c’interessa chiarire subito che le elaborazioni di cui trattiamo in seguito sono state effettuate al fine di disporre dei dati indispensabili per le nostre valutazioni, e allo stato non reperibili nelle sedi istituzionali. Le operazioni di rilevo sono state condotte con la massima precisione ma, anche per evitare eventuali inutili discussioni sulle quantità in gioco, siamo pronti a sostituire le nostre elaborazioni con quelle che saranno fornite dall’amministrazione comunale.
Secondo i dati provvisori del censimento Istat 2001, la popolazione residente nel comune di Roma ammonta complessivamente a meno di 2,5 milioni diabitanti. Così come molte altre città italiane, nei dieci anni trascorsi dal censimento precedente Roma ha perso una quota molto consistente dei suoi abitanti (oltre un decimo, cioè 270.000 persone: praticamente l’intero comune di Venezia); già nel 1991 si era verificata una flessione rispetto al 1981 (allora gli abitanti erano più di 2,8 milioni).
Con la popolazione, rispetto al 1991, è diminuito anche il numero delle famiglie - che oggi sono poco più di un milione - ma in misura più contenuta (-1,2%).
Il censimento 2001 segnala che, nel corso degli anni novanta, sono diminuite di circa 35 mila unità anche le abitazioni, sia quelle occupate da residenti che quelle occupate da non residenti o non utilizzate. La flessione è evidentemente legata al fatto che molte abitazioni che al 1991 risultavano ad uso abitativo oggi sono esclusivamente utilizzate per altri usi, e in particolare per attività lavorative.
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3. nuovo Prg di Roma prevede al 2011 [3] una popolazione oscillante tra 2.611.724 e 2.716.488 abitanti, quindi consistentemente superiore a quella del censimento provvisorio 2001. Si prevede inoltre che il numero medio di componenti per famiglia sia di 2,39 persone. Arrotondando per eccesso le previsioni del piano, accettiamo pure una stima di 30 mila nuove famiglie al 2001 [4]. A 30 mila famiglie devono evidentemente corrispondere 30 mila nuovi alloggi, che dovrebbero quindi rappresentare il fabbisogno residenziale aggiuntivo del nuovo Prg. Assegnando 320 mc a ogni alloggio, la cubatura residenziale aggiuntiva del nuovo Prg dovrebbe essere di 9,6 milioni di mc.
Il Prg prevede, invece, un’offerta residenziale aggiuntiva al 2011 di 36,15 milioni di mc [5], ai quali corrisponderebbero circa 113 mila nuovi alloggi, che potrebbero ospitare quasi 270 mila abitanti in più (113.000 x 2,39 ab/fam), quantità che sembra difficilmente giustificabile a fronte della netta diminuzione di abitanti (- 273 mila), di famiglie (- 12 mila) e di alloggi (- 35 mila) che si è verificata negli anni Novanta [6].
Altrettanto immotivato appare il dimensionamento delle altre attività (terziario pubblico e privato, industria e artigianato) per le quali si prevede un’offerta pari a 28,74 milioni di mc [7], di cui non sembra che siano ben specificati i parametri di calcolo e i dati di partenza.
Nella seguente tabella [8] sono confrontati i volumi previsti dal piano con quelli dello stock attuale per le residenze e per le altre attività.
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Per concludere sul punto, è difficile non considerare improbabili le previsioni di piano sinteticamente esposte. Del resto, manca qualunque riferimento a specifiche strategie, e alle relative risorse, a sostegno, per esempio, di nuova edilizia abitativa per i giovani, per le fasce sociali sfavorite, per gli immigrati, che possano far prevedere orizzonti quantitativi diversi da quelli derivanti dalle previsioni demografiche. Come del resto manca qualunque indicazione di politiche a scala territoriale, provinciale o di area metropolitana, che renda plausibili le inversioni di tendenza che si propongono per il comune di Roma.
L’unica motivazione fornita dal piano è rappresentata dalla scelta, “a monte”, di vecchio stampo immobiliarista, di conservare, nel nuovo piano, circa la metà dei volumi previsti dal vecchio Prg del 1962: in sostanza, circa 65 milioni di mc, rispetto ai 120 milioni della cubatura residua del vecchio piano. Il nuovo Prg di Roma assume, infatti, fra le finalità generali, la diffusa preservazione dei diritti edificatori derivanti dalla disciplina urbanistica previgente. E’ bene chiarire subito che la salvaguardia delle potenzialità edificatorie pregresse non è richiesta né dalle vigenti leggi nazionali e regionali, né dalla giurisprudenza. Questa ha chiarito che la ridefinizione delle potenzialità edificatorie (fino alla loro totale soppressione) da parte della pianificazione sopravveniente rientra nella piena discrezionalità tecnica e politica del pianificatore, al quale è richiesto solo di motivare le nuove scelte[9].
4. Abbiamo finora analizzato i dati quantitativi, in termini volumetrici, desunti dagli atti di piano. Consideriamo ora le localizzazioni previste dal nuovo Prg al fine di effettuare anche in questo caso i necessari confronti con la situazione attuale. Non disponendo di dati ufficiali, è stato necessario, come si è già detto, procedere ad apposite elaborazioni, riportate nelle tavole allegate, di cui si dà conto qui di seguito.
La tav. n.1 riguarda il consumo di suolo al 1998. Per consumo di suolo si intende la somma di tutte le aree del sistema insediativo, dei servizi e delle infrastrutture esistenti nel territorio comunale. Si tratta, pertanto, dell’insieme delle aree sottratte all’agricoltura e alla natura. L’elaborazione è stata effettuata a computer sulla base della cartografia del nuovo piano regolatore. Alla scala di lavoro di 1:5.000 sono state perimetrate tutte le aree edificate e i relativi spazi di pertinenza, nonché il sedime delle principali infrastrutture per la mobilità. Costituiscono, inoltre, consumo di suolo gli spazi verdi di quartiere e le ville storiche (queste ultime sono state evidenziate). Gli edifici isolati, per i quali non è stato possibile individuare il confine del lotto, sono stati classificati come case sparse cui è stata attribuita una superficie complessiva di circa 400 ettari[10]. Tutti gli spazi liberi interni all’edificato, di estensione superiore a 1 ettaro, sono stati esclusi. Calcolato in tal modo, il suolo consumato nel comune di Roma al 1998 ammonta complessivamente a circa 41 mila ettari, pari al 33% della superficie comunale.
Non potendo escludere errori nella valutazione di spazi considerati liberi e invece eventualmente occupati da verde pubblico o privato o da servizi urbani, e più in generale per ragioni di precauzione, si è ritenuto opportuno incrementare la superficie calcolata sopra del 10% circa, assumendo dunque ai fini di questo studio una superficie del suolo attualmente consumato pari a circa 45 mila ettari. Di conseguenza, la superficie libera del comune di Roma risulta pari a 84 mila ettari.
Qui è possibile una prima valutazione. A Roma, il consumo di spazio per abitante corrisponde a quasi 180 mq, dato che non ha confronti con altre grandi città[11] e che non ha certamente contribuito a innalzare la qualità urbana della capitale, anzi, è all’origine di molte disfunzioni di larghe parti della città.
La tav. n.2 restituisce in estrema sintesi le destinazioni urbanistiche previste dal Prg 2002. Anche in questa tavola il territorio comunale è stato suddiviso secondo le due categorie dell’urbano e dell’extraurbano. Il sistema urbano include tutte le voci del sistema insediativo e dei servizi, così come sono definiti dal piano regolatore, il sistema ambientale è composto da fiumi e laghi, dai parchi istituiti e dalla tenuta di Castel Porziano, dalle aree agricole. Complessivamente, il sistema urbano misura circa 51 mila ettari, quello ambientale 78 mila. Come è evidente, il rapporto fra aree urbanizzate e aree libere subisce un notevole incremento rispetto alla situazione attuale.
Tab. 3 – Confronto fra il consumo di suolo attuale e quello previsto dal Prg 2002 (ha)
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Nella tav. n.3 è stato sovrapposto l’attuale consumo di suolo (ex tav. 1) alle previsioni del Prg 2002. Il confronto dettagliato è riportato nella tabella seguente dalla quale emerge che:
-dei 45 mila ettari di suolo consumato al 1998, circa 5 mila sono disseminati nel sistema ambientale e 40 mila ricadono nel sistema urbano;
-dei 51 mila ettari complessivi del sistema urbano previsto, 40 mila risultano già consumati e 11 mila rappresentano quindi l’espansione prevista dal nuovo piano.
Tab. 4 – Uso del suolo. Confronto fra la situazione attuale e quella prevista al 2011 (ha)
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E’ evidente che anche sottraendo agli 11 mila ettari di espansione del Prg 2002 i circa 4 mila ettari di verde pubblico di nuova previsione resta una superficie di 7 mila ettari destinati all’edificazione. Dato francamente allarmante.
Tab. 5 – Stato di fatto e previsioni del Prg 2002
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Che preoccupa ancora di più se confrontiamo l’incidenza percentuale delle previsioni d’incremento volumetrico del Prg 2002 con quelle relative all’incremento del consumo di territorio (escluso il verde pubblico). In sintesi, come appare dalla tabella precedente, ad un aumento delle cubature del 9,2% corrisponde un aumento più che doppio (19,8%) del territorio consumato.
5. Il presente documento è diretto con rispettosa fiducia al sindaco Walter Veltroni perché si dimostri sensibile all’esigenza di una sostanziale revisione di alcune scelte del Prg in discussione, al fine di ricondurlo a quel modello di sostenibilità più volte delineato in convegni e meeting internazionali. I documenti di piano non forniscono risposte convincenti in proposito. Com’è possibile che, a fronte del netto decremento di abitanti, di famiglie e di alloggi si prevedano 65 milioni di mc di edilizia aggiuntiva, e un’ancora più accentuato consumo di suolo? Per dirla con Antonio Cederna, si sarebbe deciso di realizzare 650 nuovi alberghi Hilton nell’agro romano.
Come si vede bene dalle tavole allegate, l’agro romano è ormai in via di estinzione. Ne sopravvivono sparsi brandelli, le uniche superfici consistenti sono quelle di proprietà pubblica: Castel Porziano, Santo Spirito, e poche altre grandi proprietà private. La ragione di tanto disastro va attribuita soprattutto, come si è già detto, al grande spreco di spazio che si è realizzato nella crescita di Roma dal dopoguerra, e di questo si deve tener conto nel formulare le ipotesi per la revisione del piano. E’ necessario il massimo impegno per salvare il salvabile. La richiesta che si sottopone al sindaco e all’amministrazione è di contenere l’ulteriore consumo di suolo entro limiti decisamente più ristretti di quelli attualmente previsti.
Per avviare il discorso, proponiamo, in primo luogo, la riduzione di alcune previsioni volumetriche e della conseguente superficie occupata, a partire dalle aree di riserva; in secondo luogo, l’accentuazione delle politiche di recupero e di ristrutturazione in quei quartieri periferici dov’è possibile un più razionale uso dello spazio.
[1] Al netto della circoscrizione XIV, trasformata nel comune di Fiumicino nel 1992.
[2] Dati provvisori ( www.istat.it).
[3] Cfr. il paragrafo 7.2.1 La domanda residenziale, p. 76 della relazione.
[4] Nel paragrafo citato prima, sulla base di calcoli non esplicitati, il nuovo Prg stima un numero di famiglie al 2011 variabile fra 22.384 e 29.470.
[5] Cfr. tab. 10, paragrafo 7.3, p.88.
[6] La differenza fra le previsioni residenziali del Prg 2002 e quella stimata sopra è attribuita dal piano a un non meglio precisato fabbisogno pregresso al 1991 e al suo aggiornamento al 2001.
[7] Idem
[8] I dati sono desunti, per quanto riguarda l’offerta di Prg, dalla citata tab. 10 e, per quanto riguarda lo stock esistente, dalla tab. 2, paragrafo 7.2, p.74.
[9] Va tenuto presente un altro fatto sostanziale e cioè che molte delle cubature che si intendono confermare erano destinate nel piano del 1962 a funzioni pubbliche (Zone M1 ed M3). Oggi si propone di trasferire questi “diritti” ai privati.
[10] A ognuna delle circa 1.600 case sparse è stata attribuita una superficie convenzionale di 2.500 mq di lotto.
[11]Secondo Alberto Lacava il consumo di suolo per abitanti a Roma è “pari a circa tre-quattro volte quello medio delle altre grandi città europee (Barcellona 36 mq/ab, Parigi 37 mq/ab)”. In, “La questione ambientale nel sistema territoriale dell’area romana”, in Ambiente e sviluppo sostenibile nei piani territoriali di coordinamento di nuova generazione, Edizioni Papageno, Roma, 1999, p.60 sgg.
[12] I dati sono desunti, per quanto riguarda il verde attuale, dalla tab. 3, paragrafo 8.3, p.93; per quanto riguarda il verde previsto, dalla tab. 5.2, paragrafo 8.3, p.98 della relazione.
Il piano contro l’antipiano
Il processo devastante che investe il governo delle istituzioni in tutto il Paese, non risparmia certamente la città, il territorio e l’ambiente. A Milano, dove già negli anni 80 si diffuse la deregulation urbanistica piegando alla speculazione edilizia le vecchie leggi, si sceglie oggi di formalizzare la deregulation. Elevando a sistema amministrativo la contrattazione degli interventi sulla città, con una valutazione caso per caso pudicamente nascosta dietro paraventi culturali. Questo smantellamento delle ultime regole urbanistiche, trova le forze politiche e intellettuali che dovrebbero opporsi al processo devastante, divise nel pensiero e nell’azione; spesso inattive, ma talvolta votate ad atteggiamenti esasperati, che cedono alla seduzione di stimoli irrazionali, rendendo così più debole la necessaria, ferma risposta alla nuova e sistematica deregulation.
In questo quadro indubbiamente negativo, non mancano però i segnali di resistenza e di alternativa, che rappresentano la base su cui costruire una più generale risposta razionale, offrendo così un contributo concreto alla ripresa del riformismo nel Paese. E dal Comune di Roma, che dopo 40 anni ha elaborato un nuovo piano regolatore, viene la risposta forse più significativa alla deregulation e alla passività, all’antipiano e all’estremismo. E’ un piano, quello per Roma, che ha saputo adeguarsi alle condizioni del 2000: un piano che fissa regole semplici, ma che esclude di contrattarle; che persegue la flessibilità, ma in modo uguale per tutti; che coinvolge gli operatori privati, ma in un preciso quadro di interesse pubblico. Un piano riformista, dunque, il solo che può sperare di superare il confronto con la deregulation urbanistica.
Il piano elaborato per Roma dalle Amministrazioni Rutelli e Veltroni è un concentrato delle più innovative scelte disciplinari, rappresentando quanto di più avanzato è stato prodotto in Italia in campo urbanistico. Un piano che, pur in assenza di un quadro territoriale di area vasta, nasce da una esplicita visione metropolitana, da cui deriva lo schema strutturale comunale e la conseguente processualità dello strumento urbanistico; un piano che, per la prima volta in Italia, sceglie la mobilità su ferro come prioritaria rispetto alla gomma; un piano che fa dell’ambiente e del verde un elemento determinante nel disegno territoriale e non un fattore residuale; un piano che fa uscire in modo originale la salvaguardia di valori storici dal chiuso della città antica, per investire l’intero comune; un piano che affronta a Roma per la prima volta lo scontro con la rendita edilizia, operando drastiche riduzioni previsionali ed estese riqualificazioni; un piano che raccoglie l’antica aspirazione al decentramento, spingendo la direzionalità all’estrema periferia, nel cuore dei Nuovi Municipi da realizzare; un piano costruito sulle antiquate leggi vigenti, per superarle con un meccanismo gestionale capace di attuarne realmente le previsioni, che ormai erano irrealizzabili con il vecchio metodo prevalentemente espropriativo.
Il peccato originale di tutti i piani romani è stata sempre la mancanza di una visione metropolitana, resa apparentemente meno necessaria dalla enorme dimensione del territorio comunale; un difetto per la verità abituale dei piani delle maggiori città italiane. Un difetto che ha sempre prodotto piani autoreferenziali, indifferenti alle interrelazioni con le aree circostanti, pensati per una mobilità centripeta e una crescita dimensionale indefinita, estranei al rapporto con le presenze ambientali marginalizzate rispetto alla città. D’altra parte, anche in questo caso, per l’area vasta intorno a Roma non esisteva alcun piano di inquadramento territoriale: era necessario allora che una visione metropolitana nascesse all’interno dello stesso piano comunale, condizionandolo e proiettandolo così verso i futuri rapporti con l’esterno.
E questa visione metropolitana è stata il punto di partenza dal quale il nuovo piano regolatore di Roma ha preso le mosse. Una visione metropolitana basata sulle tre scelte di fondo del piano: il trasporto su ferro, i parchi regionali e il controllo della dimensione insediativa. Infatti lo slogan della “cura del ferro” introduce a Roma una novità per l’Italia: le ferrovie metropolitane che - sul modello tedesco delle S-bahn e su quello francese del R.E.R. - rappresentano un mezzo di trasporto di scala provinciale e regionale, che dà ampio respiro ai tratti urbani della rete e offre una prospettiva ben diversa agli stessi nodi comunali. Mentre i parchi naturali regionali sostenuti e condivisi dal Comune di Roma, penetrano nel territorio municipale a realizzare un rapporto organico fra il cuore stesso della città e tutta l’area metropolitana, con una offerta ambientale che disegnerà il sistema locale come quello di tutta l’area vasta. E infine, aver dato finalmente battaglia alla rendita urbana nel comune di Roma, crea per il futuro una possibilità di relazioni dialettiche tra le trasformazioni proposte per la Capitale e quelle degli altri insediamenti della metropoli. Di fronte alla quale non c’è più l’attesa crescita indefinita di Roma, ma un centro urbano da controllare e qualificare, aprendo la prospettiva delle occasioni da cogliere nel restante territorio metropolitano. Innegabilmente, dunque, una visione metropolitana fino ad oggi mancata.
Questa visione metropolitana, chiara fin dall’inizio, ha permesso anche di formulare rapidamente uno schema direttore, che è stato chiamato “piano manifesto”, traccia esplicita di tutta la futura operazione urbanistica. E ciò ha consentito di adottare un metodo processuale per la costruzione graduale del piano, per non costringere la città ad una lunga apnea amministrativa in attesa degli elaborati finali; ma anche per sperimentare strada facendo le soluzioni innovative che si volevano introdurre nel piano. Questa metodologia, battezzata del “planning by doing”, ha permesso di realizzare in anticipo le prime tre linee di ferrovia metropolitana; di dar vita alle istituzioni gestionali dei parchi; di anticipare le nuove normative previste per l’intero piano, che hanno trasformato radicalmente le vecchie regole, abbassando le densità edilizie e moltiplicando le cessioni gratuite per vede e servizi. Del nuovo piano regolatore esiste, dunque, una parte già programmata, che in taluni casi è in corso di attuazione anticipata e una parte ancora da programmare, con regole comuni messe a punto nella fase processuale. Chi ha parlato di contrattazione è smentito dalla realtà, perché la sistematicità delle regole comuni è, invece, una caratteristica e un vanto del nuovo piano di Roma.
Altro difetto, oggi riconosciuto, del vecchio piano regolatore del 1962 era quello di aver basato ostentatamente la strategia della mobilità sulla motorizzazione individuale e non sul trasporto collettivo. Bisogna purtroppo ricordare in proposito la nota “anarchia genetica” delle città italiane, cresciute in ritardo rispetto alle consorelle europee senza il sostegno dei trasporti su ferro; trasporti che offrono una facilità di spostamento dieci volte superiore. Ebbene, il nuovo piano predisposto per Roma, è il primo in Italia basato concettualmente su quella che è stata chiamata la “cura del ferro”, cioè su una vera e propria rivoluzione del sistema di traffico; con un disegno che è l’esatto contrario di quello rappresentato ieri dall’”asse attrezzato” – un’autostrada urbana, cui erano collegati i nuovi centri direzionali – e dalla maglia viaria complementare. Il nuovo obiettivo del piano è quello di costruire il ferro per la città esistente e di non costruire la città nuova senza il ferro.
Nella formazione del piano, il maggiore impegno è stato quello di selezionare le zone edificabili da non cancellare, fra quelle raggiunte dalla rete su ferro esistente o programmata. Arrivando anche a predisporre il trasferimento delle edificabilità non cancellabili e non collegate alla rete del ferro, su altre aree prossime alle stazioni. In pratica l’edificabilità, che per decenni è stata determinata a Roma dalle scelte speculative, nasce oggi invece dalla garanzia dell’accesso al trasporto collettivo: raggiungendo l’obiettivo di nuovi risultati funzionali, ma anche di indiscutibili valori etici.
La nuova rete su ferro è basata su una doppia croce di metropolitane comunali, in prevalenza sotterranee, che attraversano diagonalmente la città; combinate con le ferrovie metropolitane che utilizzano i binari esistenti delle Ferrovie dello Stato, partono dalla cintura ferroviaria che avvolge il centro urbano e si spingono in profondità nell’area provinciale e regionale. A queste linee forti, si aggiungono i corridoi per il trasporto pubblico in sede propria, cioè le moderne linee tranviarie, delle quali è già partita la realizzazione.
Quando la formazione del piano è iniziata nel 1994, esistevano due sole metropolitane comunali (36 chilometri di linea e 49 stazioni); e a queste l’attuazione anticipata del piano regolatore – il planning by doing, che alcuni hanno accolto polemicamente – ha aggiunto tre linee di ferrovia metropolitana (93 chilometri e 39 stazioni), che hanno triplicato l’estensione della rete e raddoppiato il numero delle stazioni. L’obiettivo finale del piano è quello di realizzare quattro linee di metro comunale e sette linee di ferrovia metropolitana, che moltiplicheranno largamente la rete e le stazioni (598 chilometri e 289 stazioni). L’attuazione di questo ambizioso programma garantirà un buon servizio all’interno del Grande Raccordo Anulare, meno capillare all’esterno del GRA: non sarà il livello di Parigi o di Berlino, ma per Roma e per le città italiane sarà una innovazione radicale e un salto qualitativo eccezionale.
La dotazione romana di verde non è certo la peggiore in Italia, ma la vastità dell’Agro intorno alla città, più che rappresentare una riserva di verde, è piuttosto servita in passato a valorizzare le rendite di attesa per l’edificazione. Il vecchio piano del 1962 riuscì faticosamente a vincolare il parco dell’Appia Antica, inizialmente senza neppure impedirne del tutto l’edificazione. La strategia del nuovo piano regolatore ha rivoluzionato questo approccio miope e antiecologico, ponendo i valori ambientali del verde quale fattore determinante della struttura e della forma territoriale. Cominciando col cancellare ogni formula normativa del passato che consentisse nell’Agro Romano edificazioni non strettamente necessarie alla conduzione dell’agricoltura, intesa come valore produttivo, ma anche quale riserva ambientale. Realizzando finalmente la completa salvaguardia sui 2/3 del territorio comunale.
Sulla base di questa premessa, il disegno dei parchi naturali realizzato nelle anticipazioni del piano d’intesa con la Regione Lazio, incide esplicitamente sulla morfologia dell’insediamento esistente e programmato. Sono i grandi cunei verdi dei parchi di Veio e dell’Insughereta, della Valle del Tevere a nord e della Marcigliana, della Valle dell’Aniene e dell’Appia Antica, del Litorale romano che segue il Tevere da sud e di Castel Porziano, dell’Arrone e Castel di Guido che cinge i rilievi occidentali della città, fino ai più piccoli parchi della Tenuta dei Massimi, della Valle dei Casali e del Pineto. Un disegno complessivo che investe 23.000 ettari, pari a 1/4 del territorio comunale vincolato da 11 parchi: a fronte dell’unico parco dell’Appia Antica di quarant’anni fa. Ricordando nuovamente che dei parchi sono state ormai insediate le istituzioni gestionali, che funzionano egregiamente, con autonomia e aggressività. E ciò mentre la politica del governo nazionale, dei parchi mette in discussione lo spirito naturalistico e l’esistenza stessa.
Un altro aspetto strategico della cura del verde, riguarda il verde pubblico all’interno dei tessuti urbani: il piano raddoppia le dotazioni attuali (12 mq/ab.), raggiungendo l’obiettivo finale di 7.800 ettari e lo standard di 23 meri quadrati per abitante. Una dimensione ragguardevole, concretamente realizzabile proprio perché in larga prevalenza non sarà raggiunta tramite impossibili espropri, ma attraverso compensazioni gratuite. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si tratta di un’estensione pari ad ottanta volte Villa Borghese; senza dimenticare che il Bois de Boulogne ed il Bois de Vincennes a Parigi non arrivano a 1.800 ettari. E sarà giusto ricordare anche che le diverse previsioni di verde privato ammontano nel piano a oltre 2.300 ettari: il che porta a più di 10.000 ettari complessivi il verde previsto a Roma, pari ad 1/3 di tutti gli insediamenti esistenti e programmati.
E’ indispensabile a questo punto rendere chiaro come e perché si è arrivati a queste previsioni; partendo dai 7.000 ettari di vincoli per verde e servizi del vecchio piano, non utilizzati perché il costo calcolato variava da 4 a 6.000 miliardi di lire e che, comunque, erano scaduti per legge. Per far fronte alla situazione, le destinazioni edificabili non cancellate con il piano, sono state sottoposte a nuove regole; cioè al meccanismo di cessione gratuita di alte percentuali di aree per verde e servizi pubblici, a compensazione della edificabilità privata prevista. Chi, ostile a questa soluzione, continua a sostenere anche a Roma l’attuazione dei piani urbanistici sperando di poter utilizzare il meccanismo espropriativo, è fuori dalla realtà e difende soltanto posizioni ideologiche.
A Roma è stato, invece, rifiutato assolutamente il metodo milanese della contrattazione caso per caso, che baratta elevatissime quote di edificabilità privata, con cessioni compensative di aree per usi pubblici assai modeste e variabili secondo le circostanze, senza nessuna garanzia di equità nei rapporti fra istituzioni e proprietà immobiliari. Le compensazioni vanno, invece, normate preventivamente dal piano, come si è fatto a Roma, garantendo un trattamento “uguale per tutti”, diversificato soltanto per categorie di interventi urbanistici.
Nel piano di Roma le aree da acquisire per compensazione gratuita frutteranno ben 5.300 ettari per usi pubblici e in particolare 3.200 ettari di verde pubblico. Per ogni stanza che sarà costruita, le compensazioni gratuite assicurano circa 100 metri quadrati di servizi e verde, cioè cinque volte di più dello standard obbligatorio per legge. E il meccanismo del piano offre l’assoluta garanzia che gli edifici privati saranno costruiti solo se sarà fornita gratuitamente l’area per verde e servizi pubblici.
Nel piano non c’è, però, alcun rifiuto ideologico dello strumento espropriativo. Saranno espropriati i servizi della Città Storica, dove non si è ritenuta opportuna la compensazione, come avverrà in parte nei programmi di recupero urbano e perfino in alcuni casi negli interventi delle Nuove Centralità direzionali. Il grosso degli espropri che saranno effettuati a Roma riguarda, comunque, i comprensori del vecchio Sistema Direzionale Orientale che sono stati confermati e le aree per l’Edilizia Economica e Popolare. Complessivamente si tratta di circa 860 ettari; e sarà dura, sapendo i prezzi che si stanno pagando per i terreni dello SDO.
Si è, dunque, scartata l’idea di confermare il vincolo espropriativo sui 7.000 ettari destinati nel 1962 a verde e servizi; ma per una parte di questi, oltre 2.100 ettari, si è proposto un doppio regime, espropriativo-compensativo. Si è cioè proposta una edificazione alternativa privata a bassissima densità, contro la cessione gratuita per uso pubblico dell’80% dell’area, pari a poco più di 1.700 ettari. L’edificazione concentrata sul 20% dell’area sarà utilizzata per servizi privati dei settori assistenziale, sanitario, educativo, culturale e associativo. E in cambio di 430 ettari di servizi privati, si otterranno in cessione gratuita oltre 1.700 ettari di aree per verde e servizi pubblici: una superficie pari ad 1/10 del Comune di Milano.
Con queste acquisizioni in larga prevalenza compensative e gratuite, la dotazione media comunale per vede e servizi pubblici supera i 33 metri quadri per abitante. Questo parametro medio ha spinto alcuni critici superficiali a suggerire di ridurre lo standard delle destinazioni pubbliche, credendo di poter parallelamente ridurre le destinazioni private del piano. Per la verità se lo standard medio comunale è buono, quello medio di alcuni municipi è ancor più elevato. Il fatto è che i critici superficiali spesso dimenticano le dimensioni del Comune di Roma; dove due municipi sono più grandi del Comune di Milano e talvolta la distanza fra un capo e l’altro di un municipio arriva a 15 chilometri. Succede allora, che in un municipio a standard medio elevato, gli alti standard offerti dalle edificazioni non cancellate ad una estremità nascondano standard troppo bassi dei tessuti esistenti privi di servizi pubblici alla estremità opposta; e che la soddisfazione di queste carenze può essere affrontata soltanto con le compensazioni gratuite ricavate, in cambio della modesta edificazione a servizi privati, dalle aree destinate al cosiddetto doppio regime. Formula che rappresenta un evidente eufemismo: perché l’alternativa alla cessione compensativa di queste aree è l’esproprio al costo di circa 600 miliardi di vecchie lire, pari a 300 milioni di euro.
Le critiche superficiali trascurano anche l’elevatissima quota di verde pubblico o privato realizzata con queste operazioni, all’interno delle quali la percentuale di terreno piantumato e permeabile va dai 2/3 ai 3/4. Ed è strano che spesso queste obiezioni siano motivate da intenti ambientali: che finiscono così per chiedere la riduzione delle destinazioni a verde pubblico, o l’eliminazione di aree piantumate e permeabili pur di perseguire l’obiettivo ideologico nichilista di cancellare qualunque trasformazione dello statu quo, anche se propone una rilevante qualità urbanistica e ambientale. Il disegno concretamente realizzabile messo a punto per il piano di Roma permetterà, invece, di porre ogni iniziativa immobiliare futura al servizio di una qualificazione in profondità dei tessuti edilizi cresciuti senza attrezzature né forma urbana nella grande periferia romana, che saranno ricomposti spesso utilizzando proprio le aree per verde e servizi acquisite gratuitamente con il meccanismo compensativo.
Forse il più clamoroso errore del vecchio piano di Roma – che pure nel 1962 fu accettato positivamente dalla cultura italiana – è costituito dalla enorme ipoteca che la rendita fondiaria urbana poneva con quel piano sul futuro della città. Allora il dimensionamento non fu neppure calcolato con precisione: a conti fatti ci si è accorti che, a 2 milioni di stanze disponibili allora per i 2 milioni di abitanti esistenti, le previsioni consentivano di aggiungere altri 3 milioni di stanze. Bisogna riconoscere che la cultura urbanistica non raccolse le battaglie politiche condotte da Aldo Natoli nel Consiglio comunale di Roma contro la rendita urbana; e nel corso degli anni e dei decenni successivi il sovradimensionamento delle previsioni edilizie del piano vigente non ha ricevuto particolari attenzioni da parte della cultura urbanistica e ambientalista.
Soltanto all’inizio degli anni 90 la questione del dimensionamento edilizio è venuta alla luce, per diventare esplicitamente uno dei nodi fondamentali da affrontare. A quel punto però le condizioni giuridiche per risolvere il problema erano molto pregiudicate. Perché, se sentenze e leggi avevano fortemente penalizzato le destinazioni pubbliche (i vincoli) dei piani urbanistici, nessuno aveva messo in discussione le destinazioni private; e mentre le destinazioni pubbliche avevano ormai una validità perfino inferiore a quella del piano (5 anni invece di 10, decisione francamente stravagante, che obbliga a realizzare le previsioni pubbliche nella metà del periodo previsto per il piano), le previsioni private continuano ad avere validità a tempo indefinito. E nessuno degli attuali nichilisti previsionali ha mai affrontato in termini giuridici, culturali e politici il problema di come mettere in discussione le previsioni edificatorie private del piano di Roma e di una buona parte dei piani italiani.
Così la pesante eredità urbanistica ricevuta dalla nuova amministrazione di centro-sinistra che si era impegnata a dare a Roma un nuovo piano, fu un residuo di destinazioni pubbliche non acquisite e scadute per 7000 ettari; e insieme un residuo di destinazioni private non realizzate, ma sempre vigenti, per 1 milione di stanze. Fintanto che una legge non consentirà di porre una scadenza temporale ai diritti di edificazione privata riconosciuti dai piani, questi diritti possono essere cancellati soltanto espropriandoli; un piano urbanistico che basasse la sua strategia sulla pura e semplice cancellazione dei diritti privati residui, sarebbe impugnato e bloccato agevolmente dai ricorsi alla Magistratura di ogni ordine e grado, a cominciare dalla Corte Costituzionale.
Le interpretazioni giuridiche ripetute anche dalla Corte Costituzionale, attribuiscono ad un solo tipo di vincolo la possibilità di cancellare il diritto di edificazione esistente: il vincolo ambientale, imposto sia da un Piano Paesistico, sia dalla istituzione di un Parco Naturale con legge nazionale o regionale. E a Roma si è deciso di sfruttare proprio questa possibilità offerta dalla giurisprudenza, spingendo la Regione Lazio e collaborando con questa per la adozione dei parchi regionali estesi nel Comune di Roma su molte aree residue edificabili, anche se caratterizzate da alti valori ambientali. In sostanza è con questo accorgimento principale che il piano di Roma ha potuto cancellare il 50% delle previsioni edificabili residue, pari a circa 60 milioni di metri cubi; vale la pena di ricordare che alla cancellazione ha contribuito l’eliminazione della edificabilità residenziale in zona agricola, resa possibile dalla scelta di destinare esclusivamente agli usi produttivi e ambientali il territorio dell’Agro Romano.
Questa riduzione indubbiamente assai drastica, è per altro il massimo risultato ottenibile con gli strumenti giuridici esistenti. Sul residuo edificabile che non si è mai riusciti a cancellare, si è operato in tre direzioni: favorendo in larga misura gli interventi di riqualificazione dei tessuti esistenti rispetto a quelli nuovi; destinando una percentuale assai consistente alle destinazioni terziarie rispetto a quelle residenziali; e infine trasferendo con appositi meccanismi regolati, la quota peggio ubicata del residuo in aree servite dal trasporto su ferro. Proprio perché la maggior parte del residuo non cancellato era stata già selezionata fra quelle servite dal trasporto su ferro.
I nuovi interventi del piano regolatore sono quelli indicati come tessuti della Città da Ristrutturare e della Città della Trasformazione; i primi sono sempre relativi ad aree già edificate, in modo disordinato e assai incompleto, spesso abusive, che vanno riqualificate completandone il tessuto slabbrato e introducendo inoltre servizi pubblici e privati; ma anche fra i secondi, negli ambiti a pianificazione già definita, sono frequenti i tessuti nati abusivamente da recuperare. Così sul totale dei nuovi interventi previsti dal piano, il 60% della superficie riguarda i tessuti esistenti da recuperare e il 40% i tessuti da realizzare ex-novo. Mentre la quota di edificabilità attribuita al terziario sfiora il 40% del totale e raggiunge il 45% con le destinazioni flessibili, praticamente dimezzando il residuo di edificabilità non cancellato. Il piano formula inoltre la proposta innovativa di trasferire intorno alle stazioni del ferro, la quota del residuo di edificabilità mal localizzata dal punto di vista urbanistico e ambientale; e ciò si realizza aumentando dell’8% l’edificabilità residua.
Il dimensionamento complessivo è, comunque, pari a 500.000 stanze equivalenti – fra residenziali, non residenziali e flessibili -, alle quali si aggiungono circa 40.000 stanze equivalenti degli ambiti di riserva per i trasferimenti volumetrici. E il dimensionamento residenziale, che sembra il principale nodo polemico del piano arriva, calcolando anche gli ambiti di riserva, a 300.000 stanze di abitazione. Queste previsioni, confrontate con lo stock edilizio del comune di Roma che è di 4.700.000 stanze, rappresentano un incremento pari al 6%: una quota di crescita fra le più basse in assoluto mai registrate dal piano regolatore in Italia.
Come è possibile considerare il piano sopradimensionato? Si tratta di una previsione da distribuire nell’arco di 10-15 anni, sperando che entro 15 anni il Comune di Roma sia in grado di darsi un altro piano. Dunque una produzione abitativa di 30.000, o piuttosto di 20.000 stanze di abitazione all’anno, potrebbe realmente danneggiare la Capitale? Gli operatori immobiliari parlano, comprensibilmente, di offerta troppo bassa; la domanda è naturalmente anch’essa più alta, ma non è detto che sia domanda solvibile. Il problema non è, quindi, quello di una “crescita zero” per Roma: il vero problema è quello di una crescita di elevata qualità urbanistica e ambientale – e questo il piano lo garantisce – e insieme quello di una politica pubblica e privata per la casa, che realizzi una riduzione dei costi delle abitazioni, in affitto come in proprietà. Ma quest’ultimo non è un obiettivo realizzabile con un qualsivoglia piano regolatore; né un piano che adotti la strategia della crescita zero, sarebbe in grado di influenzare in alcun modo i prezzi del mercato, che essendo un mercato oligopolistico non è in alcun modo proporzionale alla quantità dell’offerta. Senza dimenticare che queste previsioni hanno già dato, o daranno in cambio, una superficie per verde e servizi di oltre 11.000 ettari, che è pari ai 2/3 dell’intero territorio comunale di Milano.
Il Sistema Direzionale Orientale nacque con il piano del 1962 allo scopo di realizzare la grande intuizione di Luigi Piccinato, che mirava a decongestionare il centro di Roma e a qualificare la periferia orientale con il decentramento terziario. Purtroppo, aver affidato l’operazione al trasporto su gomma e non a quello su ferro, non ha permesso di realizzare quella intuizione; inoltre l’iniziativa partì concretamente soltanto 25 anni dopo l’adozione del piano, quando le aree dello SDO che distavano 4 o 5 chilometri da Piazza Colonna erano già diventate semicentrali, invece di essere collocate nel cuore delle periferie programmate o abusive nate ai margini del Grande Raccordo Anulare e ben oltre questo. Il nuovo piano raccoglie allora la grande suggestione piccinatiana del decentramento terziario, ma la applica in modo radicalmente diverso. Anche perché nel frattempo ha preso forza la nuova strategia del decentramento istituzionale, che tende a trasformare le Circoscrizioni romane nei Nuovi Municipi, perché la popolazione di questi oscilla da quella di Padova a quella di Pavia.
Il piano, quindi, tende a rafforzare l’identità urbana dei Municipi, moltiplicando in periferia i fattori di centralità usati, anche morfologicamente, per creare numerose alternative decentrate alla monocentralità della zona storica, alla quale fino ad oggi si è aggiunta soltanto l’EUR. L’operazione è, dunque, quella di stimolare la crescita di 19 Nuove Centralità, che avranno un ruolo decisivo per trasformare le vecchie Circoscrizioni nei Nuovi Municipi. E già nella prima fase di programmazione anticipata del piano, è stato definito il disegno urbanistico di 8 fra queste centralità “urbane e metropolitane”, dalla Bufalotta al nord, a Tor Vergata al sud, mentre 11 restano ancora da programmare, da Collatino-Togliatti ad est, a Massimina ad ovest. Le sole due Centralità poste ancora in posizione non periferica sono Pietralata (che riutilizza le aree dello SDO già in corso di attuazione) ed Ostiense, che godono di un eccezionale accesso al ferro ed hanno un ruolo decisivo per la riqualificazione di due settori strategici della città.
Le previsioni insediative delle Nuove Centralità, contribuiscono fra terziario e residenza, ad 1/4 della dimensione complessiva; di queste previsioni, insieme ad una larghissima prevalenza di terziario, si è voluto mantenere nelle Nuove Centralità un 16% di previsioni residenziali, considerate la quota minima per evitare la rigida monofunzionalità degli insediamenti. E a fronte di queste modeste previsioni abitative, che le ingiustificate preoccupazioni sul sovradimensionamento insediativo vorrebbero cancellare, si ricorda il rischio che la monofunzionalità potrebbe produrre su questi interventi; cancellando la residenza, diventerebbero tessuti privi di vita una volta cessato l’orario di lavoro, facile preda del degrado sociale e dell’insicurezza.
Per quanto è stato possibile il piano ha, comunque, ricercato la più stretta integrazione fra i vecchi tessuti periferici disordinati e gli interventi che vi introdurranno nuove funzioni e una vitalità oggi sconosciuta. In ogni caso non si deve mai dimenticare l’ampiezza del comune di Roma, che giustifica e rende necessaria una operazione così decisa e originale. Se confrontate con Milano, le posizioni indicate a Roma per far nascere le Nuove Centralità, corrispondono a quelle di Monza, Abbiategrasso o Legnano. E all’operazione darà forza determinante, aver strettamente collegato alla rete del ferro comunale e metropolitana i nuovi insediamenti; che nasceranno così, non come luoghi direzionali isolati, ma come una rete di terziario nella quale ogni nodo aumenterà la forza di tutti gli altri. Una operazione ambiziosa, indubbiamente, ma basata assai più sulla qualità che sulla quantità. A fronte dei 32 miliardi di metri cubi previsti dai 5 comprensori del vecchio SDO semicentrale, abbiamo oggi appena 16 milioni di metri cubi, distribuiti fra 17 Nuove Centralità fortemente periferiche, oltre alle 2 semicentrali la cui localizzazione necessaria non smentisce però il disegno complessivo.
Il ritardato sviluppo industriale italiano, insieme al pesante prezzo negativo economico e sociale pagato dal Paese, ha però offerto alle città una condizione assai rara in Europa; salvandone sostanzialmente l’integrità dei preziosi centri storici, altrove prevalentemente distrutti. E’ certamente questa condizione originale che ha maturato in Italia prima che in altre nazioni europee, la cultura dei centri storici; producendo anche negli anni 60 il primo modello di salvaguardia – quello bolognese – poi diffuso in Italia e in Europa. Le condizioni di partenza hanno spinto il modello bolognese a ricercare i valori della storicità in un periodo che termina appunto con la rivoluzione industriale; e in Italia questo approccio culturale alla storicità si è anche sovrapposto a quello razionalista che considerava gli interventi urbani dell’Ottocento e del primo Novecento come ideologicamente negativi e possibilmente da distruggere. E’ questo l’approccio corbusieriano del Plan Voisin per Parigi che, come Haussmann aveva cancellato la città medievale e rinascimentale, progettò di cancellare la città haussmanniana dell’800, sostituendola con anacronistici grattacieli razionalisti in mezzo al verde.
Una delle innovazioni disciplinari che caratterizzano l’urbanistica del nuovo piano per Roma, è allora quella che fa finalmente i conti con i valori storici nelle città italiane e supera il blocco ideologico che li faceva fermare alla breccia di Porta Pia. Tra l’altro utilizzando fino in fondo le analisi propedeutiche di Muratori e Caniggia sulle tipologie, che il piano bolognese sfrutta per le sole tipologie edilizie, mentre a Roma il percorso culturale avanza verso il pieno utilizzo delle tipologie urbanistiche. Il piano di Roma suggerisce, dunque, l’innovazione disciplinare del passaggio dal Centro Storico, che ha per facili confini territoriali la rivoluzione industriale, alla Città Storica, che non ha più confini temporali e si impegna, dunque, nella difficile ricerca dei valori storici da individuare fino ai giorni nostri.
Così al Centro Storico, tutto compreso all’interno delle Mura (1.500 ettari) anche se manomesso dall’Ottocento fino agli anni 50, il piano sostituisce la Città Storica, che interessa i tessuti dell’Ottocento e del primo Novecento, ma i cui valori arrivano a coinvolgere tessuti più recenti dell’ultimo Novecento e riguardano un’area di circa 6.500 ettari. Si comprende allora come, dall’uso delle tipologie edilizie quale unica matrice delle regole di salvaguardia nel Centro Storico, rigidamente disciplinato edificio per edificio, il nuovo piano di Roma estenda alle tipologie urbanistiche la matrice delle regole di salvaguardia per la Città Storica; con un meccanismo che modella la conservazione dei valori storici da conservare, passando dai tessuti medievali da curare fin nel particolare edilizio, ai tessuti dell’Ottocento e del Novecento, nei quali la conservazione interessa prevalentemente aspetti urbanistici.
E all’analisi statica, elaborata cioè una volta per tutte al fine di identificare le regole necessarie per il Centro Storico, si sostituisce una analisi dinamica, aperta ad ogni nuovo contributo conoscitivo futuro, indispensabile per arricchire nel tempo le regole fin da oggi indicate per i diversi tessuti della Città Storica. Piuttosto che ripetere a Roma un modello statico analisi conoscitiva-sintesi pianificatoria come quello bolognese, si è allora scelto un modello dinamico, che anche per i tessuti più antichi non rinuncia a profittare delle future conoscenze per condizionare i futuri interventi. Una concezione dinamica che, dopo aver individuato i tessuti della Città Storica, aggiunge con la Carta della Qualità, le conoscenze già disponibili per le preesistenze isolate storico-archeologiche di tutto il territorio comunale, allo scopo di condizionare qualunque intervento alla salvaguardia dei valori storici localmente riconosciuti.
Un’altra innovazione disciplinare è quella che ha spinto a individuare cinque grandi ambiti di programmazione strategica, che investono prevalentemente la Città Storica: il Tevere e l’Aniene, le Mura, il Parco archeologico monumentale, l’asse virtuale Flaminio Fori Eur e la Cintura Ferroviaria. Si tratta di grandi segni della forma urbana, sui quali il piano pone l’attenzione per l’importanza degli interventi di conservazione che richiedono, ma anche per le grandi occasioni che offrono. Non è sembrato assolutamente lecito che il piano proponesse per questi ambiti una qualunque, esplicita proposta di trasformazione urbanistica. Che nel quadro della pianificazione processuale già iniziata, potrà maturare per gradi, anche in funzione delle occasioni che la città realizzerà al contorno; a cominciare dall’aumento della mobilità su ferro, che potrà ridurre lo stato di necessità di alcune strade, permettendone un uso meno subalterno al traffico di quello attuale. Un approccio complessivamente nuovo, di alto valore scientifico, con cui i valori storici di importanza decisiva per Roma sono stati affrontati, colmando un vuoto culturale che a Roma durava da troppo tempo e che offre preziosi avanzamenti alla disciplina, validi per tutto il Paese.
Il piano è pronto per l’adozione in Consiglio Comunale, anzi l’iter di adozione è già cominciato, in Giunta, nei Municipi, nelle Commissioni. Le dimissioni anticipate del Sindaco Rutelli, candidato premier per l’Ulivo alle elezioni politiche del 2001, avevano interrotto un iter iniziato due anni fa, che altrimenti avrebbe potuto già essere concluso. La nuova Amministrazione Veltroni ha fatto propria pienamente l’eredità, confermando l'impegno di dare a Roma il nuovo piano; e ha profittato delle circostanze per affinare e perfezionare un progetto che, comunque, nelle sue linee essenziali non è certamente cambiato. Il maggior tempo disponibile, se ha permesso a molti nella società civile e politica, come negli ambienti culturali, di maturare una maggiore consapevolezza del piano, ha anche provocato le ultime polemiche, il più delle volte basate sulla cattiva informazione, ormai difficile da comprendere.
L’obiettivo che il sindaco Veltroni si è dato, di ottenere il voto del Consiglio Comunale entro il 2002, resta probabilmente valido, anche dopo la decisione dalla Regione Lazio di prorogare per dodici mesi il quadro legislativo che fa da sfondo al piano. Non so se tale proroga sarà utilizzata o meno dalle forze politiche presenti in Consiglio; ma se dei dodici mesi sarà utilizzato un breve periodo, non credo ci sia molto da preoccuparsi. Altro sarebbe se i tempi di adozione dovessero slittare ampiamente nel tempo; perché ciò aprirebbe un interrogativo preoccupante sulla reale possibilità di arrivare all’adozione in Consiglio Comunale. Nel quale caso ogni parte politica si prenderà la propria responsabilità.
Ciò che indubbiamente oggi può preoccupare, è la possibilità che la proroga offra l’occasione a forze politiche e ad ambienti culturali, per riaprire la vertenza del Nuovo Piano Regolatore di Roma. Per quanto riguarda quegli ambienti culturali che non hanno mai risparmiato all’operazione urbanistica romana, gli strali più acerbi e il più delle volte oggettivamente ingiustificati, questo è il momento per dimostrare che la polemica era frutto di passione intellettuale e mirava soltanto a migliorare lo strumento urbanistico.
Nessuno può illudersi che il progetto di piano attualmente in corso di adozione non sia ancor oggi perfezionabile; ma la sua redazione con il metodo processuale ha costruito questo progetto passo a passo, sottoponendo ogni fase al vaglio del Consiglio Comunale. E anche se non sempre ciò viene ricordato, ogni tessera del mosaico non è fine a se stessa, ma al contrario rappresenta una parte essenziale della strategia generale; e cambiando quella tessera è l'intera strategia che viene messa in discussione. Ad esempio, eliminando unilateralmente una delle previsioni non cancellate, ma trasformate, non è solo questa scelta che rischia di essere impugnata di fronte alla Magistratura; è l'intero meccanismo selettivo che rischia di saltare giuridicamente, perché questo meccanismo si basa su un trattamento uguale per tutti i soggetti che si trovano nelle stesse condizioni.
Così come è stata ricordata l'impossibilità di ridurre lo standard medio delle dotazioni di verde e servizi, al solo scopo di produrre una modesta riduzione delle non certo alte previsioni residenziali; perché per farlo bisognerebbe ridurre la quota delle cessioni compensative di aree gratuite prevista per tutto il piano, senza poter ridurre l'edificabilità - e perché mai, allora, rinunciare a centinaia o migliaia di ettari gratuiti ? - oppure privare molte zone periferiche carenti di verde e servizi delle dotazioni pubbliche previste per tutte le zone della città. Come mai c'è ancora qualche romano che non conosce l'apologo di Trilussa sul mezzo pollo della media fasulla ?
Bisogna, allora, riconoscere che l’operazione culturale del piano di Roma costituisce l’impegno più ragguardevole messo a punto in questi anni nel campo della disciplina urbanistica. E che, dunque, è giusto e necessario adottarlo. Per l’enorme ritardo che sta alle spalle del nuovo piano, per l’eccezionale dimensione fisica e problematica che il piano ha affrontato, per l’originalità delle numerose innovazioni che il piano presenta, per il valore emblematico culturale e politico che può avere oggi il piano regolatore di Roma. E perché questo, certamente più di altri piani italiani di oggi, si presenta come un piano riformista, senza aggettivi, ma carico di concreta progettualità innovativa. Mi auguro che l'Amministrazione Comunale condivida queste valutazioni e con un atto storico adotti quanto prima il nuovo piano regolatore di Roma.
NAPOLI — Partono i lavori di riqualificazione dei porti campani. In totale saranno 980 i nuovi posti barca mentre ne verranno riqualificati altri 3850 per una spesa complessiva di 165 milioni di euro.
Questa volta però, è certa anche la data di apertura dei cantieri: entro il 2005 anche se già dalla prossima estate iniziano i lavori di messa in sicurezza. Anticipazioni che l’assessore regionale ai trasporti, Ennio Cascetta ha illustrato, ieri mattina, nel corso di una tavola rotonda sulla portualità al “ Nauticsud”. « In particolare — spiega l’esponente di Palazzo Santa Lucia — sono stati approvati otto studi di fattibilità tra quelli presentati alla prima fase di selezione prevista dal nostro bando. Ma oltre a questi, presso i nostri uffici sono sotto esame i progetti presentati entro il dicembre del 2003. Lavori che prevedono un investimento di 165 milioni di euro, di cui 32 provenienti dal Por Campania » .
Per i prossimi mesi però, partiranno i lavori per i porti di Casamicciola, Forio d’Ischia, Piano di Sorrento, Sapri, Serrara Fontana, Torre del Greco, Vico Equense e Salerno. Ma sono previsti ancora, cantieri per l'adeguamento dei porti di Acciaroli, Monte di Procida, Pisciotta, Casalvelino, Montecorice, Cetara, Riva Fiorita, Marechiaro, Gaiola, Serrara Fontana e per la riqualificazione di Capri e Agropoli, e si aprirà la darsena di Marina di Stabia.
« Ma entro la prossima estate — precisa ancora Cascetta — partiranno i lavori di messa in sicurezza dei porti di Palinuro e Sapri, di riqualificazione degli approdi di Positano, Villa Favorita- Ercolano e Pozzuoli- molo caligoliano e dei porti di Sorrento e Procida » .
Ma se la portualità turistica prende il largo si progettano nuove soluzioni anche per Napoli dove si sente la penuria di posti barca per il diporto. « Attualmente la disponibilità — spiega Pietro Capogreco, segretario generale dell'Autorità portuale di Napoli — è di appena 2500 posti barca mentre la richiesta è doppia. Per questo stiamo accelerando i tempi ed abbiamo approvato i progetti di ammodernamento per gli approdi turistici di Riva Fiorita, Gaiola e Marechiaro mentre, a breve, partiranno i lavori per l’area di Vigliena dove contiamo di ormeggiare almeno 800 barche » .
Adolfo Pappalardo
La voragine apertasi a Capodichino sotto il carrello di un Fokker è certo un evento grave, che poteva anche sfociare in tragedia. Speriamo, peraltro, che non sia un´ulteriore occasione per disperdere nei fossi della pista anche il buonsenso e per dare la stura a ulteriori sterili polemiche sulla localizzazione dell´aeroporto. Il sito, infatti, con la manutenzione e la capacità di carico del manto d´asfalto non c´entra niente. O quasi...
Comunque, per prevenire nuovi impellenti bisogni di esternazione e di stravolgimento circa le scelte del piano regolatore, sarà bene proporre una breve messa a punto sulla vicenda aeroportuale.
Un paragrafo del documento di piano approvato in sede municipale riprende la prospettiva di delocalizzazione già assunta dal precedente schema del 1972 e conforme ai vincoli vigenti a livello nazionale circa la sicurezza degli impianti aeroportuali.
Anche se si volesse prescindere dalla legittima domanda di spazi verdi avanzata da questa parte di città, finché la legislazione in materia non cambia, l´indirizzo di abbandonare alla lunga Capodichino appare un´opzione obbligata. Al tempo stesso, il peso dei collegamenti aerei nell´economia è destinato a crescere in modo quasi esponenziale, sicché Napoli e la sua area di gravitazione avranno al più presto bisogno di un nuovo grande scalo, capace di soddisfare un movimento in rapida ascesa, di accogliere aerei di stazza adeguata e d´incentivare una fitta trama di connessioni internazionali. La disponibilità di una tale infrastruttura è premessa essenziale per il desiderio di promozione nella gerarchia delle città, in particolare sotto l´aspetto della funzione turistica. Ed è una condizione che le strutture di Capodichino, per quanto ammodernate, non potranno mai soddisfare. Il futuro allora non può che collocarsi a Grazzanise, come viene indicato in sede regionale: in un aeroporto che disponga di grandi spazi, con piste di adeguata lunghezza e resistenza, sul modello di Caselle, Malpensa e Fiumicino; e che venga raccordato alla città con una linea veloce su ferro.
Solo che l´opzione Grazzanise si misura su tempi tutt´altro che brevi. E´ evidente che nel frattempo non si può lasciare Napoli senza uno scalo aereo decoroso: il che comporta continuare a investire a Capodichino per attrezzature e servizi che saranno del tutto ammortizzati per quando si completeranno le nuove piste tra le bufale dell´Agro Campano. Del resto, la possibilità di compiere gli interventi necessari a Capodichino non è affatto esclusa dal piano adottato e consentirà agli inglesi della società di gestione di trarre, come già avviene, gli attesi ricavi. Tra una decina di anni si verificherà poi se Grazzanise sarà davvero pronto e avviato, se i cambiamenti nella legislazione sulla sicurezza dei city airport apriranno nuove compatibilità, se la sete di verde del quartiere sarà ancora ampiamente insoddisfatta. E si tireranno le somme, scegliendo in via definitiva l´utilizzo socialmente più congruo per l´area di Capodichino. Intanto, amministratori oculati, invece di consumarsi in confronti polemici, non potranno che concordare sul principio della gradualità: mettendo al più presto in cantiere il nuovo scalo ed evitando che quello che c´è già affondi tra buche e disservizi.
Auditorium, critico anche Ripa di Meana
4 gennaio
MARIO AMODIO
«Apprezzo Niemayer, ma Ravello non deve essere toccata». La dichiarazione choc è di Carlo Ripa di Meana, presidente del Comitato Nazionale del Paesaggio, che si inserisce così nella querelle sull'auditorium.
La presa di posizione dell'ex Commissario alla Cultura dell'Ue, in una lettera inviata all'urbanista Vezio De Lucia. «Aderisco alla tua coraggiosa iniziativa nel dire no ad un padre dell'architettura, quando vuole esercitare le sue grandi capacità in un luogo dove non ha mai messo piede in vita sua e che non fa parte della sua storia», scrive Ripa di Meana. E sottolinea la mancanza di senso di un'operazione che non servirebbe a ridare speranze e funzioni ad un luogo come Ravello.
Poi Ripa di Meana aggiunge: «Conosco ed apprezzo le opere di Niemeyer e credo che facendo appello alla sua intelligenza e modernità possa capire che la Costiera e Ravello non sono i luoghi della sovrapposizione e del cambiamento, bensì i luoghi della conservazione e della tutela in nome di tutti i contemporanei e di coloro che seguiranno».
Dichiarazioni forti giunte mentre a Ravello era in atto un incontro (conclusosi a tarda sera) con l’avvocato di Italia Nostra, Oscar Cardillo che si è intrattenuto a lungo col sindaco ha visionato i prospetti planimetrici e il video relativo all'opera di Niemeyer, di fronte a cui pare si sia apparentemente ammorbidita la diffidenza iniziale. «Attendo la decisione del Tar - conclude Carlo Ripa di Meana - e se vi sono stati passaggi non legali mi auguro che i ricorsi siano accolti. Vi sarà poi il tempo per trovare un'altra collocazione dell'Auditorium, badando anche ad adattarne le dimensioni alla reale vivacità musicale italiana: sarebbe triste consegnare un'opera di Niemeyer al destino di sala convegni per odontotecnici o dimostratori di pentole».
La costiera che cambia
6 gennaio
MARIO AMODIO
Nei sogni di molti ravellesi è già disteso sulla collina come un enorme guscio di tartaruga. Un contenitore, simbolo dell’arte moderna dove si potrà ascoltare la musica guardando il mare della Costiera. È l'auditorium studiato per Ravello, e per questo regalato alla «città della musica», da Oscar Niemeyer, il grande architetto brasiliano che progettò ex novo un'intera capitale: Brasilia. «L'auditorium è un'opera strategica di valore regionale», va predicando il sindaco Secondo Amalfitano che nel maggio dello scorso anno volò in Brasile insieme con il governatore Antonio Bassolino per ricevere dalla mani del presiedente Lula il progetto della struttura che cambierà il volto della sua città. «C'è solo il rammarico - aggiunge - che un'operazione di ampio spessore culturale e progettuale debba subire l'onta di una speculazione di infimo ordine». Ma a sostegno del progetto, si sono schierati centosessantadue esponenti del mondo politico, intellettuale e delle professioni a livello nazionale che hanno sottoscritto un appello inviato alle massime istituzioni del Paese.
L’auditorium oggi definito come un segno inconfondibile ma non dissonante con il contesto architettonico di Ravello ha diviso gli ambientalisti: da una parte Legambiente che sostiene l’iniziativa e dall’altra Italia Nostra e Wwf, che hanno impugnato l'accordo di programma siglato da Regione, Comunità Montana e Comune di Ravello per la realizzazione dell'opera. E sul ricorso presentato al Tar di Salerno, i giudici si esprimeranno giovedì.
A difesa dell'opera di Niemeyer scendono in campo tra gli altri il sociologo Domenico De Masi, presidente della fondazione villa Rufolo e gli albergatori di Ravello. Non eseguire il progetto, per molti sarebbe come infliggere un duro colpo al cuore della grande musica che a Ravello troverebbe la sua sede in una struttura futurista e suggestiva al tempo stesso. Ma rinunciare all'auditorium significherebbe far svanire quei progetti di destagionalizzazione dell'offerta turistica con presenze spalmate sull'intero arco dell'anno. «Questo è un paese che ha scelto la musica classica da 50 anni - spiega De Masi - ed è su questa base che si è plaffonato. L'auditorium è un elemento di crescita sociale che servirà a dare lavoro ai giovani evitando che si allontanino dal loro paese d'origine. Un progetto che cambierà il volto della città perché ci consentirà di ospitare eventi tutto l'anno».
E nella polemica sulla realizzazione dell'auditorium sono scesi in campo anche gli albergatori che hanno preso posizione a favore del progetto riconoscendone la validità soprattutto nella direzione di consolidare l’immagine e l’identità culturale della città della musica. «Sarebbe delittuoso fermare questo processo - dice il presidente Gino Caruso - e l’alt all’intervento nuocerebbe in modo irreversibile al percorso intrapreso, vanificando tutti gli sfozi fin qui prodotti».
Oltre cento intellettuali favorevoli all’intervento
Ambientalisti divisi
7 gennaio
MARIO AMODIO
E venne il giorno della mediazione. Per il via libera alla realizzazione dell'auditorium di Ravello si comincia a trattare. Soprattutto all'interno delle associazioni ambientaliste (la discussione del loro ricorso al Tar contro l'accordo di programma è stato rinviato al prossimo 23 gennaio) dove secondo alcune indiscrezioni si vivrebbe un clima di forte conflittualità. Complici le numerose spaccature tra favorevoli e contrari, particolarmente all'interno del Wwf, dopo la decisione di ricorrere alla giustizia amministrativa per fermare la nascita della creatura di Niemeyer.
A confermarlo sarebbe la voce relativa ad una visita a Ravello di Grazia Francescato che, approfittando della prossima tappa salernitana, visiterebbe volentieri la «città della musica» per visionare l'area destinata alla realizzazione dell'opera ed i prospetti planimetrici redatti dall'architetto brasiliano. Tutto questo, all'indomani della presa di posizione dei 162 tra intellettuali e uomini di cultura che hanno firmato il documento a favore dell'auditorium di Niemeyer e indirizzato rispettivamente ad istituzioni e associazioni ambientaliste. «C'è anche una attenzione trasversale di politici di spessore», avverte il sociologo Domenico De Masi che è riuscito a mettere d'accordo anche destra e sinistra. Tra i firmatari del documento figurano infatti il leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti, e l'economista forzista, Renato Brunetta, oltre al presidente di Legambiente Ermete Realacci e all'ex sindaco di Salerno Vicenzo De Luca. Musicisti e musicologi hanno apposto la loro firma così come architetti e urbanisti del calibro di Alison e De Seta, che vanno ad aggiungersi a Fuksas che già si pronunziò a favore dell’opera. Non mancano neppure firme autorevoli del giornalismo come Augias, Beha, Ghirelli, Lubrano e Liguoro, o filosofi come Giorello e Cacciari. Tra i tanti, anche top manager e imprenditori, mentre registi e attori completano il parterre (Wertmuller e Danieli) con editori (Avagliano) e fotografi come Jodice e Toscani. E questi soltanto tra gli italiani. Già perché anche dal Brasile è arrivato il sostegno all'opera di Niemeyer. E la firma più rappresentativa è certamente quella del ministro dell’istruzione Buarque. Una mobilitazione imponente per quell’Auditorium che rappresenterà un esempio altissimo di intervento funzionale ed estetico, «un baluardo tangibile contro la speculazione edilizia che ha fin qui insidiato la bellezza della Costiera». Ed in quell'area dove dovrà sorgere la struttura, i vigili urbani di Ravello hanno recentemente sottoposto a sequestro un gazebo ritenuto abusivo e per questo segnalato alla procura della Repubblica di Salerno. «Quando siamo venuti a ispezionare l'area - dice il sindaco Amalfitano - con lo strutturista di Niemeyer, Carlos Sussekind, non c'era assolutamente nulla».
Auditorium, non basta il sì della Francescato
11 gennaio
MARIO AMODIO
Grazia Francescato dice sì all'Auditorium ma fallisce la mediazione con Italia Nostra e Wwf che restano fermi sulle loro posizioni. A nulla è servito l’intervento della portavoce dei Verdi che nei saloni di villa Maria a Ravello ha incontrato ieri per due ore i rappresentanti degli ambientalisti che osteggiano il progetto di Niemeyer nel tentativo di invocare ragionevolezza alla luce della presa visione dei progetti e della visita all’area prevista per la struttura. «È un’opera illegittima che va contro le norme vigenti e se la Regione vuole davvero l’Auditorium deve avere il coraggio di approvare una variante al Put». Lo sostengono Luigi Giuliani e Oscar Cardillo, rappresentanti di Wwf e Italia Nostra. «Abbiamo fatto il possibile - dice la Francescato - e la strada politica è stata percorsa. Il nostro ruolo si può dire concluso. Ora tocca a Comune e ambientalisti andare avanti in maniera autonoma. Anche se, torno a ribadire, che nel rispetto delle norme noi non siamo contrari all’Auditorium».
Di altro parere Italia Nostra e Wwf secondo cui «la realizzazione dell'opera viola il Put». Lo continua a ripetere Luigi Giuliani, che poi aggiunge: «Questa non è una novità, perché già nel 2000 il Tar emise un’ordinanza di sospensione ignorata sia dal Comune che dalla Regione. In quell’area l’Auditorium non è affatto contemplato». Ma non finisce qui. Già, perché poi si punta l’indice anche contro la Regione, rea d'aver aggirato le norme chiamando in causa una legge di ventidue anni fa. «Come ha ricordato anche l’urbanista Vezio De Lucia nella sua perizia giurata - avverte poi Giuliani - è inammissibile che questa prevalga sulla legge successiva». Intanto è proprio quel documento firmato da De Lucia a subire una serie di contestazioni e in particolare al riferimento che egli stesso fa a un decreto interministeriale del 1968. Nel citarlo, all’interno della perizia giurata, pare abbia omesso proprio il passaggio relativo a strutture di interesse sociale e culturale. Le stesse a cui si ispira in un certo senso l’accordo di programma impugnato dagli ambientalisti e dai proprietari dei terreni.
«Non discutiamo la bontà del progetto ma siamo convinti che realizzare l’Auditorium rappresenterebbe un segnale negativo in materia urbanistica», ha commentato invece Oscar Cardillo di Italia Nostra.
E di fronte a tutto ciò, Grazia Francescato, che ieri mattina ha svolto il suo sopralluogo, insieme al sindaco Secondo Amalfitano e al presidente della Fondazione Ravello, Domenico De Masi, ha ribadito che la preoccupa più l'abusivismo che l'Auditorium. «Qui siamo circondati da tanti piccoli omicidi» ha detto guardandosi intorno. E poi ha aggiunto: «Quanto alla conformità della legge sembra che la realizzazione dell'Auditorium sia contemplata, ma ne discuterò con i miei legali. Penso che sulla vicenda ci siano state molte esagerazioni. Ora spero davvero che si trovi una soluzione - ha concluso - e stando qui, sinceramente mi scandalizzano ben altre opere perché i dati dell’auditorium parlano chiaro. La struttura comprende solo 406 posti sedere, ha una larghezza di 30 metri, e di 21 di altezza. L’impatto è davvero quasi inesistente».
Amalfitano replica a Ripa di Meana
«Noi degni eredi di Wagner e Gide»
15 gennaio
MARIO AMODIO
E venne il tempo della ragionevolezza. Già, perché intorno all’auditorium di Oscar Niemeyer sembra che si vada pian piano instaurando un clima di serenità. E questo grazie all’ammorbidimento di alcune posizioni iniziali soprattutto tra gli ambientalisti, che pare abbiano detto no più per partito preso che per reale cognizione di causa. Di tutto ciò è indicativo anche il risultato dell’incontro svoltosi l’altra sera tra il sindaco di Ravello Secondo Amalfitano e l’avvocato di Italia Nostra Oreste Cantillo, per il quale nel progetto esistono caratteristiche positive. «Anche se gli strumenti audiovisivi non rendono merito - precisa il legale - ma ovviamente io mi occupo del ricorso in cui sono individuati i punti carenti sotto il profilo giuridico. Per la perizia giurata ci siamo rifatti a quella che De Lucia ha prodotto per altro ricorso. Comunque sia è auspicabile il dialogo anche perché le porte non sono affatto chiuse».
«Ho trovato un grande desiderio di approfondimento - è la replica del primo cittadino di Ravello - e soprattutto ho colto l’intenzione che ha il mondo della politica, della cultura e degli ambientalisti, di riappropriarsi delle decisioni prima che tutto sia demandato a un tribunale. Non senza aver verificato la correttezza e la legittimità delle scelte».
Intanto però tutti parlano, tutti dicono. Ieri è intervenuto fra gli altri Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente, a giudizio del quale la costruzione dell’auditorium dovrebbe comportare «una modifica normativa regionale» e non «una semplice deroga amministrativa», contro il rischio di «creare un precedente» e «incoraggiare future deroghe facilitate». Per Amalfitano «anche se a fatica s’intravedono spiragli di ragione». Tutti, continua il sindaco, «hanno convenuto su una regolarità e una legittimità procedurale esemplare» e la bontà dell’intervento «è unanimemente riconosciuta». Così come «in modo sempre più chiaro e palese - continua il sindaco - mi giungono da tutte le parti attestati di apprezzamento per il lavoro che l’amministrazione comunale sta svolgendo. Ovviamente ci sono residui di inesattezze e di attacchi gratuiti».
Il riferimento è alla dichiarazione choc firmata da Carlo Ripa di Meana. «A Ripa di Meana - continua il sindaco - dico che l’auditorium che si farà, in piena legittimità perché conforme a tutte le norme urbanistiche vigenti, verrà consegnato ai cittadini di Ravello. A quei cittadini figli della frequentazione di Boccaccio, Wagner, Gide, Lawrence, che dopo aver custodito e valorizzato patrimoni del calibro delle Ville Rufolo e Cimbrone e dopo aver assorbito a livello quasi cromosomico un raffinato gusto estetico e un elevato patrimonio culturale, sapranno custodire e valorizzare anche questo nuovo gioiello. Ripa di Meana - conclude poi Amalfitano - ignora evidentemente che Ravello oltre all’auditorium sta lavorando a un programma di ampio respiro per la riqualificazione urbana, sociale e ambientale dell’intero territorio».
E mentre per lunedì prossimo sarebbero attesi a Ravello i vertici nazionali del Wwf, sul fronte del no si segnala un’altra presa di posizione. «Né Auditorium, né parcheggio» dicono i Vas, che di quell’area vorrebbero farne «giardini della musica» come quelli di Forio d’Ischia.
L’impegno di Italia Nostra e delle altre associazioni ambientaliste per migliorare il piano regolatore di Roma credo debba essere conosciuto e apprezzato da quanti hanno a cuore il futuro delle nostre città. Com’è noto, infatti, le questioni dell’urbanistica romana assumono sempre un rilievo nazionale e forniscono un modello di riferimento per altre esperienze. Nelle pagine interne si fornisce un primo resoconto dell’attività svolta, al quale spero possa far seguito una pubblicazione più ampia e documentata. I temi trattati sono molti, ma con determinazione particolare sono stati affrontati, soprattutto da Italia Nostra, i criteri assunti dal piano di Roma in materia di governo della proprietà fondiaria. Sto parlando dei cosiddetti “diritti edificatori”, vale a dire delle previsioni del vecchio piano regolatore, che gli amministratori di Roma e gli estensori del nuovo piano hanno equiparato a “diritti acquisiti” e quindi a decisioni non modificabili (se non attraverso l’esproprio dei beni interessati). E’ evidente che non si tratta di astrazioni, ma di questioni assai concrete, dalle quali dipendono le scelte fondamentali del piano, in primo luogo il suo dimensionamento.
Per comprendere la gravità della linea seguita dall’amministrazione capitolina, si deve tener presente, in primo luogo, che il piano regolatore della capitale, quello del 1962-65, decrepito ma tuttora vigente,era stato concepito per una città di cinque milioni di abitanti; in secondo luogo, centinaia di migliaia di alloggi sono stati realizzati abusivamente: sono perciò molto estese le previsioni di piano non attuate. Dette previsioni, una volta promosse al rango di diritti, formano una pesantissima eredità negativa, che condiziona inesorabilmente ogni ipotesi alternativa di assetto del territorio. Secondo il Comune di Roma, per rimuovere i diritti acquisiti, l’unica strada possibile è il ricorso alla “compensazione”e cioè il trasferimento in altra parte del territorio delle edificabilità previste dal vecchio piano. Il che determina, inevitabilmente, la moltiplicazione delle espansioni, che nel nuovo piano di Roma ammontano a molti milioni di metri cubi, spalmati su migliaia di ettari dell’agro romano ormai avviato all’estinzione.
Tutto ciò è stato al centro della contestazione sviluppata da Italia Nostra, grazie anche ai contributi di Vincenzo Cerulli Irelli e di Edoardo Salzano, riportati di seguito, che hanno autorevolmente smentito i principi ispiratori del piano di Roma in tema di diritti edificatori. Tant’è che l’amministrazione capitolina ha in qualche misura accolto il nostro punto di vista, cominciando a mettere in discussione orientamenti assunti da quasi dieci anni. Ma tutto può ancora succedere, siamo solo all’inizio dell’iter di approvazione del piano.
CORRIERE DELLA SERA, 20 Marzo 2003
Campidoglio, votazioni-fiume nell’aula Giulio Cesare. Il documento urbanistico ha «tagliato» metà delle previsioni edificatorie
E’ «verde» il nuovo piano regolatore di Roma Su 130 mila ettari di territorio, 89 mila restano all’ambiente. Nuove costruzioni per 60 milioni di metri cubi
È la notte in cui il Campidoglio deve «adottare» il nuovo Piano regolatore, una decisione preparata da anni e attesa forse da decenni. L’ultimo, del 1962, prevedeva un’enorme espansione della Capitale. Tale da mettere in conto ben 120 milioni di metri cubi, un’intera città. Roma in quarant’anni si è fermata, dai cinque milioni previsti i suoi abitanti si sono bloccati a meno di tre milioni. Il nuovo Piano ha dunque «tagliato» la metà delle previsioni edificatorie per privilegiare l’ambiente, il verde tra pubblico e privato. Dei 130 mila ettari del territorio comunale (la superficie delle prime nove città italiane, Capitale esclusa) quasi 89 mila restano destinati al verde. Il nuovo Prg prevede poco più di 60 milioni di metri cubi da costruire, ma i due terzi sono stati già decisi o individuati. Restano «liberi», dunque, poco più di ventimila ettari. L’appuntamento col voto, caduto fatalmente nella nottata della guerra in Iraq, è stato preceduto da un dibattito durato alcuni giorni ma soprattutto da infinite polemiche tra centrodestra e maggioranza veltroniana. La CdL schierata contro il nuovo progetto urbanistico preparato da Rutelli e messo a punto dall’amministrazione Veltroni, la maggioranza impegnata a raccogliere i benefici effetti che derivano dal varo di un nuovo Piano regolatore. Tra questi, anche quelli elettorali: a maggio ci saranno le elezioni provinciali e il nuovo Prg della Capitale sarà un argomento da spendere nella campagna di Enrico Gasbarra. Nella comprensibile soddisfazione delle forze politiche che l’hanno portato al voto si infila una nota distonica: il «padre» del Piano, l’urbanista Giuseppe Campos Venuti, annuncia stamane di «ritirare la firma» del Prg. È una protesta contro la forte compressione dell’uso delle «compensazioni» per attuare gli obiettivi ambientalistici. Si tratta di una delle maggiori novità di questo Piano (il proprietario di un’area cede al Comune quattro quinti da destinare a verde ma può utilizzare il resto «a scopo sociale» con fini di reddito): è stata messa da parte a favore, soprattutto su pressione di Rifondazione, dell’uso dell’esproprio, uno strumento «senza compromessi» ma costosissimo per il Comune. Di qui il gesto di Campos Venuti. Il centrodestra ha rinunciato infine all’ostruzionismo ritirando migliaia di emendamenti. Ne sono stati votati centinaia, quasi tutti respinti. Il voto finale sul Piano era in programma per l’alba di stamane. Il sindaco Veltroni ha seguito fino all’ultimo le votazioni, impegnato a legare il suo nome al varo del nuovo Prg di Roma, il quinto da quando è Capitale (1883, 1909, 1931, 1962). «Abbiamo scritto le regole della futura Capitale - dice Lionello Cosentino, Ds - che punta sulla modernità. È un evento storico, ma il lavoro inizia ora. Nella cornice del Prg, le scelte urbanistiche sono tutte da costruire». Commenta Franco Dalia, della Margherita: «Dopo il voto, i cittadini potranno fare le loro osservazioni: è la prima volta che un Prg vede i romani protagonisti nella politica urbanistica. È straordinario». Aggiunge Silvio Di Francia, dei Verdi: «Di fronte a tanti interessi, l’amministrazione ha tenuto una linea dritta. Forse siamo alla fine delle logiche della rendita fondiaria che ha sempre pesato sulla città». L’opposizione contrattacca. Dice Gianfranco Zambelli, di FI: «Abbiamo rinunciato all’ostruzionismo perché il sindaco si è impegnato ad accogliere alcune mozioni politiche dell’opposizione che cambieranno in parte il Piano. Apprezziamo le scelte sul verde, ma questo Piano non crea occupazione, è sottodimensionato nell’edificazione. Dopo tanta attesa, una delusione». Bruno Prestagiovanni, di An: «Un evento storico non sfruttato a dovere. È un Piano non discusso dalla gente. E poi, quanti "buchi neri", quante domande senza risposta: non viene indicata una nuova discarica per la città e quella di Malagrotta sarà chiusa tra due anni». Infine, Marco Di Stefano, dell’Udc: «Con questo Piano Roma non offre nessun interesse per gli investitori, non porta lavoro. Se vinceremo le future elezioni, lo cambieremo». A mezzanotte, è giunto in aula Mimmo Cecchini, ex assessore all’Urbanistica che ha preparato il Prg per anni: «Questo Piano va bene, ma migliorerà col tempo». Un pizzico di veleno.
G. Pull.
Pietro Samperi, docente di materie urbanistiche alla Sapienza, è stato il responsabile del Piano regolatore dal 1968 al 1980. Da allora segue la città con l’occhio del super-esperto. Si definisce un «tecnico», anche se «cattolico e di centro».
Questo Piano di Veltroni è proprio da buttare? «In un Prg c’è sempre qualcosa da salvare. Questo Piano regolatore va corretto, modificato. Anzi: tutti i Piani andrebbero sempre aggiornati ma non cambiati rispetto a quelli precedenti, a meno che non siano da attuare autentiche rivoluzioni di tendenza. Il Prg del 1962 fu aggiornato con le Varianti del ’67 e del ’74».
Ma il «pianificar facendo» che ha ispirato il nuovo Piano non va in questa direzione? «No. Questa espressione vuol dire "decidere una cosa nuova e poi metterla nel Piano". Ma così non c’è più un Piano bensì una situazione di fatto. Io parlo di "pianificar aggiornando" in coerenza con il disegno del Piano». Cosa salverebbe del nuovo progetto urbanistico? «La manovra sul verde e l’ambiente. È una scelta di salvaguardia che speriamo funzioni. È uno sforzo da apprezzare».
Nient’altro? «Sì: l’analisi dei valori della città consolidata, l’aver individuato questi valori e averli classificati in categorie per epoche. Nel suo complesso, la città è più preparata ad essere difesa da trasformazioni che ne altererebbero un volto da conservare. Tuttavia manca una disciplina che tuteli gli abitanti-proprietari da interventi speculativi di trasformazione».
Quali sono le cose da buttare di questo Prg? «Manca la struttura del Piano, una forte configurazione del progetto urbanistico. Nel ’62 si poteva parlare, ad esempio, dell’Asse Attrezzato poi divenuto Sdo. Oggi cosa c’è al suo posto? Il verde? Ma è solo un complemento, seppure importante. Si parla di policentrismo, ma in cosa consiste? Le nuove "centralità" con quali criteri sono state fissate? Perché è stata decisa lì e non altrove? Quali rapporti hanno con i Municipi? Manca una proiezione su scala metropolitana, il Piano non va oltre i limiti del Comune. Regione e Provincia non hanno neppure provato a dire la loro in proposito. Il futuro urbanistico della città non può prescindere dal rapporto col territorio che la circonda. La "cura del ferro": in cosa consiste? Il Piano disegna lo stesso numero di linee del metrò del precedente, con la sola differenza che la D (ex Bufalotta-Laurentino) è stata sostituita da una linea, parallela alla B, che passerà in pieno centro storico. E le "ferrovie metropolitane", le FM, risalgono a una dozzina d’anni fa. E comunque non servono i romani, ma i pendolari».
Basta così o continua?
«C’è altro. Sono spariti tutti gli autoporti, i centri merci come Bufalotta, Romanina, Ponte Galeria: perché? Con le nuove destinazioni le aree non sono forse divenute più redditizie per i proprietari? E infine, il dimensionamento: ha seguito e non preceduto il Piano. I 60 milioni di m3 che prevede questo Prg sono la somma di interventi già decisi negli anni scorsi col "pianificar facendo", in parte realizzati o in corso di realizzazione. Non rispondono a un calcolo del fabbisogno. Ma non è la quantità di cubature che mi spaventa, ma la mancanza di una programmazione nel tempo poiché è stata rifiutata l’applicazione del III Piano poliennale di attuazione. Comunque, i 150 milioni di m3 decisi nel ’62 quando Roma cresceva di 100 mila abitanti l’anno non erano poi tanti, se oggi se ne prevedono 60 con popolazione in diminuzione e 50 milioni di m3 abusivi già costruiti».
Come giudica le «compensazioni», la novità di questo Piano?
«Sono un’invenzione improvvida, non prevista dalla legge. Le aree destinate all’edificazione ma non inserite nei Piani di attuazione possono tranquillamente cambiare destinazione senza compensazioni o indennizzi».
Insomma, il quinto Prg di Roma è un evento storico o no? «Era un dente da levare e ce lo siamo tolto. Comunque è meglio avere un Piano che...pianificar facendo. Speriamo che ne vengano rispettate le regole».
E cosa pensa dell’assessore Morassut?
«Ha cercato di rimettere a posto molte cose rispetto alla proposta di Piano che ha ereditato. Ma non ha potuto, come nel caso del Centro Congressi dell’Eur, perché erano state irrevocabilmente decise».
Stefano Garano, direttore del Dipartimento di Pianificazione del territorio della Sapienza, fa parte del gruppo di urbanisti che, sotto la guida di Giuseppe Campos Venuti, ha «disegnato» il nuovo Piano regolatore.
Perché si è voluto fare un nuovo Prg? Quello del 1962 non andava più bene?
«Ci voleva un progetto coerente per rispondere ai nuovi bisogni della città. Già nel ’74 si fecero i primi tentativi di rinnovare il Piano con le Varianti circoscrizionali. Le città si trasformano, cambiano le esigenze produttive, di mobilità, di servizio. Anni fa fu creato il Poster Plan, un quadro di riferimento per una trentina di interventi specifici con cui riqualificare la periferia. Siamo partiti da lì».
Quando avete cominciato a fare il nuovo Piano?
«Il via è stato dato dal Piano delle Certezze del ’97, che definisce la città consolidata, i territori esterni da tutelare e la città della trasformazione, una zona mediana che viene rimandata alla competenza del nuovo Prg. Fu fissato, sui 130 mila ettari di un territorio comunale grande come la provincia di Milano, l’equilibrio tra verde e cemento. Fu cancellata la metà dei 120 milioni di m3 previsti dal vecchio Piano».
Lei dice: questo è un buon Piano. Perché?
«Perché contiene tutti gli elementi più innovativi dell’urbanistica contemporanea, seppure innestati in una legislazione vecchia, del 1942, che frena ogni progetto urbanistico. E perché risponde alle esigenze di una metropoli che ha bisogno di nuove strutture per dare qualità della vita ai cittadini. Così si espandono anche le opportunità economiche di Roma e si rende la città più competitiva con le altre capitali».
Qual è il modello ispiratore del nuovo Prg?
«Ci sono alcuni punti-base. Il policentrismo, in contrapposizione con l’idea centralistica di prima, che concentrava le funzioni: il direzionale, ad esempio, era fissato sull’Eur e sullo Sdo. Poi abbiamo puntato sulla riqualificazione delle periferie rilocando le funzioni pregiate (università, tempo libero, commercio, ecc.). Un terzo principio riguarda la mobilità su ferro, che è anche anti-inquinamento. Le nuove centralità vengono localizzate presso i nodi della mobilità. Il tutto, ed è il quarto criterio ispiratore del Piano, è immerso in un territorio fortemente tutelato con aree verdi e agricole di alto valore paesistico collegate al sistema dei parchi regionali».
Quali sono le novità di questo Piano?
« Parecchie. Il centro storico diventa "città storica", si passa da mille a settemila ettari tutelati (quartieri Parioli, Trieste, Garbatella, Flaminio, ecc.) nella diversità dei loro tessuti storici, dal Medioevo al Novecento. C’è anche il superamento della monofunzionalità delle destinazioni d’uso nei nuovi poli urbani. Ogni polo viene arricchito con diverse funzioni: servizi, commercio, ricettività, ricerca, case.....». Ma con quale criterio avete individuato le centralità? «Tenendo presenti i problemi della mobilità e il residuo del vecchio Piano. Dove erano previsti forti carichi di cubature, abbiamo ridotto». Continui con le novità. « Ecco: la limitazione degli espropri, costosissimi. Per evitare una spesa che il Comune non può sostenere - gli ettari vincolati sono migliaia - e per difendere il programma di verde e servizi di quartiere, è stata introdotta la "cessione compensativa", un sistema adottato a Torino e Reggio Emilia: al cedente resta un 20% di area su cui può realizzare servizi che danno reddito. Con i soldi risparmiati, il Comune risana le periferie e potenzia il trasporto pubblico. Purtroppo le esigenze della politica hanno ridotto l’uso di questo strumento».
E la storia degli edifici che si possono abbattere?
«Si, è un’altra novità. Al Tuscolano, Tiburtino, Marconi, quartieri ad alta densità abitativa, è previsto il "diradamento": verde e servizi al posto del cemento. I palazzoni abbattuti sono ricostruiti nelle aree di riserva, ma con densità minore».
Il cemento va così nelle aree agricole? Non è peggio?
«Si creano insediamenti più umani nella campagna romana: mettiamola così».
Perché il Prg non è allargato all’hinterland, all’area metropolitana?
« Per sua natura è comunale, non può farlo. Ma è un Prg "aperto" sotto l’aspetto della mobilità, del verde, delle centralità urbane. È perfino possibile una co-pianificazione con i comuni confinanti».
Anche questo Prg durerà 40 anni?
«La città cambia sempre: un Piano dovrebbe essere aggiornato ogni 10 anni».
G. Pull.
Ma il «padre» del documento urbanistico, Campos Venuti, ritira la firma
Una maratona notturna per consentire al Campidoglio di «adottare» il nuovo Piano regolatore, una decisione preparata da anni e attesa forse da decenni. L’ultimo piano, del 1962, prevedeva un’enorme espansione della Capitale e disegnava una città da 5 milioni di abitanti. Oggi, che i residenti sono meno di tre milioni, il nuovo Piano ha «tagliato» la metà delle previsioni edificatorie per privilegiare l’ambiente, il verde tra pubblico e privato. Dei 130 mila ettari del territorio comunale, quasi 89 mila restano destinati al verde. Il nuovo Prg prevede poco più di 60 milioni di metri cubi da costruire. Nella comprensibile soddisfazione della maggioranza, una nota polemica: il «padre» del Piano, l’urbanista Giuseppe Campos Venuti, annuncia stamane di «ritirare la firma» del Prg per protestare contro la forte compressione dell’uso delle «compensazioni».
Legambiente, attraverso una presa di posizione di Maurizio Gubbiotti e di Mauro Veronesi, annuncia fin d’ora una serie di «osservazioni» al nuovo Piano regolatore: «Per ottenere la riduzione dell’obiettivo rischioso dei 32 metri quadri di verde e servizi per abitante». Gli ambientalisti ritengono infatti che questo obiettivo, che comporta l’esproprio di 3 mila ettari, è astratto non avendo il Comune la possibilità di finanziare una tale operazione. Per rendere invece realistico l’obiettivo da raggiungere (25 mq), gli ambientalisti chiedono che le aree destinate a verde e servizi (N) siano riclassificate H2 (aree agricole con valenza ambientale, ad edificabilità quasi nulla). In tal modo per «salvare il verde» non occorrerebbe spendere somme impossibili. La quota dei 32 mq per abitante era possibile, secondo le prime previsioni del Prg, ricorrendo alla manovra «perequativa» (il proprietario di un terreno lo cede restandone però utilizzabile un quinto). Ma nelle ultime settimane la quota di cubature collegata a questo meccanismo, 5 milioni di mc, è scesa a 1,2 milioni di mc con relativo aumento delle aree da espropriare dovendosi mantenere l’obiettivo dei 32 mq. Insomma, Legambiente trova irreale questa quota in quanto fondata su espropri «impossibili» perché troppo cari. Meglio usare lo strumento della «destinazione».
In dirittura d’arrivo il nuovo Piano Regolatore. Prosegue la maratona in consiglio comunale. L'approvazione del provvedimento è prevista nella notte. Ieri per tutto il giorno è continuato l'esame degli emendamenti. Udc e Forza Italia hanno ritirato quelli ostruzionistici. Il consiglio ha cominciato i lavori alle 11 e dopo una pausa per il pranzo e la conferenza dei capigruppo, ha ripreso i lavori alle 15,30. Un'ulteriore sospensione dei lavori è stata prevista dalle 19 alle 22.30, per la cena, ma soprattutto per consentire ai consiglieri romanisti di seguire la partita Roma-Ajax. Dopo la mezzanotte è previsto che si voti senza discussione. In stretto collegamento con l’adozione del nuovo Prg, prossime sedute del consiglio sono previste lunedì e martedì prossimi: all'esame saranno le delibere attuative del vecchio piano regolatore, quelle che prevedono numerose edificazioni, tra cui Tor Pagnotta e le compensazioni di Tor Marancia. La rivoluzione è rappresentato dall'idea di città policentrica, caratterizzata da 20 centralità, cioè aree con proprie vocazioni e riqualificate con un mix di uffici, servizi e funzioni moderne. Queste le innovazioni. Il maxi emendamento Presentato dalla maggioranza, prevede la riduzione di nuove edificazioni fino a 61 milioni di metri cubi, dai 64 milioni inizialmente previsti; la possibilità di costruire nelle aree individuate nell'ambito delle compensazioni derivanti dalla Variante delle certezze; maggiore e definitiva tutela per l'agro romano. A 1 km dalla stazione Roma crescerà con le sue infrastrutture su ferro. Niente edifici se si trovano a più di un chilometro da una stazione della metro o di ferrovia. Tutela città storica Dai 1000 ettari del centro storico ai 7mila ettari della città storica, comprendendo anche edifici dell'800 e del '900, con cinque ambiti strategici: Tevere, Mura aureliane, anello ferroviario, direttrice Appia, Eur e Flaminio. Demolizioni La riqualificazione di aree degradate, come ad esempio quelle del quartiere San Lorenzo, avverrà attraverso il sistema della demolizione e ricostruzione. La città si trasformerà senza ricorsi a varianti o espropri, ma con il sistema delle compensazioni. 500.000 stanze in meno Rispetto al piano del '62 che prevedeva 120 milioni di metri cubi, le nuove edificazione saranno per 61 milioni di metri cubi (il 58% servizi), di cui 42 già deliberati e 19 milioni ancora da decidere. Più verde e parcheggi Le aree destinate a verde e servizi: 32 metri quadri per abitante, contro 22 metri quadri del resto d'Italia e i 18 del precedente piano. In particolare, gli standard del nuovo Prg prevedono, in media, 22,5 metri quadri di verde per abitante, 7,3 di servizi e 2,9 di parcheggi. Il verde tutelato aumenta rispetto al cosiddetto Piano delle certezze: da 82mila a 87mila ettari (dal 66 al 68% del territorio). Trasporto su ferro Oggi: 49 stazioni e 36 chilometri di metropolitana. Domani: 57 stazioni e 129 chilometri. Aumentano anche le ferrovie metropolitane: da 430 a 470 chilometri. La maggioranza «Con questo piano - ha osservato il capogruppo dei Ds Lionello Cosentino - finisce l'espansione a macchia d'olio della città». Per il capogruppo della Margherita Franco Dalia, «Importante è la tutela delle aree agricole e la parte normativa che dà certezze sulle procedure». Il capogruppo di Rifondazione Patrizia Sentinelli sottolinea che si mette fine «al pianificar facendo e all'idea che si possa costruire in modo scriteriato in aree agricole». «Il prg pone un limite allo sviluppo indiscriminato della città - ha aggiunto il capogruppo dei Verdi, Silvio Di Francia - tutela le aree agricole e pone il principio che non ci può essere sviluppo senza infrastrutture e servizi». L’opposizione Il centrodestra ha annunciato che voterà contro. Per il capogruppo di An, Bruno Prestagiovanni, «c'è una cementificazione senza criterio, senza infrastrutture di collegamento, e ci sono poi alcuni problemi senza risposta, ad esempio lo smaltimento dei rifiuti solidi della città». Secondo l'eurodeputato, coordinatore regionale e consigliere comunale di Forza Italia Antonio Tajani, «c'è carenza sul fronte della viabilità e degli aspetti sociali e sanitari, anche se abbiamo cercato di presentare emendamenti migliorativi, come quelli per l'impiantistica sportiva. La fermezza non si misura con gli strilli». Infine il capogruppo dell'Udc, Marco Di Stefano: «Il nuovo piano regolatore è sottodimensionato. Prevede solo 10 milioni di metri cubi di nuove edificazioni, il resto sono residui del piano del '62. Ossia le attuazioni del vecchio piano che ci apprestiamo ad approvare: 47 milioni di metri cubi, il grosso delle quali sono Tor Pagnotta e le compensazioni di Tor Marancia». L’iter Dopo la pubblicazione del piano, che avverrà tra 45 giorni, scattano i 60 giorni per le osservazioni dei cittadini. Potranno essere presentate anche su carta semplice. Il piano poi dopo le controdeduzioni del consiglio alle osservazioni dei cittadini, alla fine dell'anno andrà al parere della Regione Lazio.
Seduta fiume nell’aula Giulio Cesare, ultima tappa per varare la nuova manovra urbanistica - di CLAUDIO MARINCOLA
«Aspetteremo le due di notte, e solo allora, allo scadere dell’ultimatum di George W. Bush, ritireremo i nostri emendamenti». Sembrava uno scherzo, una minaccia buttata lì. Era invece l’ultimo scampolo di “intransigente opposizione" che ha costretto il Consiglio comunale ad una lunga maratona notturna. Nulla a che vedere ovviamente con la guerra, anche se a metà seduta Nunzio D’Erme (Rifondazione) ha esposto la bandiera della pace e Roberto Lovari (FI) gli ha risposto sventolando quella americana. Nulla a che vedere con la guerra ma neanche con l’ostruzionismo ad oltranza agitato nei mesi scorsi. Tutta l’opposizione si è condensata in una notte. Un passaggio obbligato prima di annunciare alla città un evento in un certo senso “storico": l’adozione del nuovo Piano regolatore. Arriverà a 41 anni di distanza dal Piano elaborato dalla commissione di esperti guidata nel 1962 da Luigi Piccinato. Ma rimanda al Prg del 1909, l’unico adottato dall’aula Giulio Cesare al termine di un lungo percorso democratico. Ieri l’ultima tappa, anche se in realtà tutto o quasi era già deciso. Un hortus conclusus al quale mancavano piccoli aggiustamenti definiti in aula, col rischio che comporta un intervento in extremis, l’incremento o la riduzione delle aree di riserva. Dinanzi ad una maggioranza compatta, nonostante le differenze affiorate anche ieri (sul futuro di Corviale e sui Ponti di Laurentino 38, ad esempio) l’opposizione si è divisa. È successo col Bilancio, approvato in anticipo. E una volta spianata la strada, frantumato il fronte, il sindaco Walter Veltroni ha intravisto la possibilità di chiudere entro marzo. Progetto che ora sembra a portata di mano, visto che da lunedì prossimo si tornerà in aula per approvare le delibere attuative. Una coda tutt’altro che irrilevante, il rispetto dei diritti acquisiti durante il vecchio Prg. La lunga notte, in realtà, è cominciata sin dalle 11 del mattino, a mano a mano che i gruppi dell’opposizione cominciavano a ritirare gli emendamenti ostruzionistici. «Questo piano non ci convince - ha comunque ribadito Antonio Tajani, coordinatore regionale di Forza Italia - ma voteremo contro perché non ne condividiamo l’assetto generale. Abbiamo cercato una opposizione costruttiva presentando emendamenti migliorativi, come quelli per l’impiantistica sportiva». Il maxi emendamento della maggioranza prevede la riduzione di nuove edificazioni dai 64 milioni previsti inizialmente a 61. Rispetto al Piano del ’62, il nuovo Prg di Morassut - l’assessore all’Urbanistica che ha continuato il lavoro del suo predecessore Domenico Cecchini, con il concorso di Giuseppe Campos Venuti, di Maurizio Marcelloni e Daniel Modigliani - definisce l’idea della città policentrica. Non rincorre il “ferro", ma si sviluppa quadruplicando la rete dei trasporti. Promette verde, servizi, parcheggi, tutela ed estensione della città storica, la riqualificazione delle aree degradate e della periferia anche attraverso lo strumento della demolizione e ricostruzione. «Non ci può essere sviluppo senza infrastrutture - spiega Silvio Di Francia, l’esponete verde che ha cucito i rapporti tra maggioranza e opposizione - le osservazioni dei cittadini potranno rafforzarlo ulteriormente». Prendono corpo anche le nuove centralità urbane, alcune già pianificate altre nuove. Saxa Rubra, Acilia-Madonnetta; La Storta; Massimina e Santa Maria della Pietà. Ma anche Torre Spaccata, Fiera di Roma, Bufalotta, Ostiense, Sdo Tiburtino, Polo Tecnologico, Lunghezza, Alitalia, Castelluccio, Tor Vergata. Nomi e località tornati a ripetizione anche ieri nella lunga notte del Prg suscitando nuovi contrasti. Su un solo punto i consiglieri si sono trovati d’accordo: la pausa dalle 19.30 alle 22.30. Giocava la Roma.
Ora dovrà andare alla Regione per le eventuali modifiche
IL CONSIGLIO comunale ha approvato in tarda notte il nuovo Piano Regolatore. La maggioranza ha votato a favore, la Casa delle Libertà invece contro. «È UN PIANO poco partecipato, che non risponde alle esigenze di una capitale del terzo millennio — ha spiegato il capogruppo di An Bruno Prestagiovanni — C’è una cementificazione senza criterio, senza infrastrutture di collegamento». «Questo Prg non ci convince — ha aggiunto l’eurodeputato di Forza Italia Antonio Tajani — Votiamo contro perché non condividiamo l’assetto generale, c’è carenza sul fronte della viabilità e degli aspetti sociali e sanitari». E anche dal segretario romano dell’Udc Marco Di Stefano arriva una sonora bocciatura: «È un Piano sottodimensionato, che prevede solo 10 milioni di metri cubi di nuove edificazioni, il resto sono residui del piano del ’62». «Quello che volevamo affermare — afferma soddisfatto Silvio Di Francia — è che le regole valgono per tutti, il progetto-città viene prima delle scelte caso per caso. E in più abbiamo messo fine a quel consumo delle aree agricole andato avanti per anni».
Trenta ore di discussione e dodici sedute del Consiglio comunale: entro martedì prossimo, con le attuazioni, si chiuderà la sessione urbanistica.
Dalle 5,20 di ieri Roma ha un nuovo Piano regolatore. Lo ha votato il Consiglio comunale al termine di una seduta fiume con 35 voti favorevoli e 18 contrari. Alla maggioranza è mancato solo il voto di Nunzio D’Erme, consigliere di Rifondazione, nonché leader dei centri sociali, d’accordo, però, sul maxiemendamento presentato dalla giunta. Il sindaco Veltroni è rimasto in aula tutto il tempo, seguendo su un piccolo televisore le prime immagini della guerra. Ci sono volute in totale 30 ore e 12 sedute. Che sembrano tante ma sono meno del previsto. Consentiranno di archiviare la sessione urbanistica al massimo entro martedì prossimo con l’approvazione delle attuazioni del vecchio Prg. «Mi ero impegnato a chiudere la manovra entro il 31 marzo, mi scuso per l’anticipo», ha chiosato Veltroni, annunciando «l’evento storico» nella conferenza stampa tenuta ieri pomeriggio in Protomoteca. Con lui tutta la “squadra": il vicesindaco Enrico Gasbarra, l'assessore all'Urbanistica Roberto Morassut, la giunta, i capigruppo e i consiglieri di maggioranza. «Erano cento anni che l'organo sovrano dei cittadini non adottava un piano regolatore, l' ultimo fu quello ai tempi del sindaco Ernesto Nathan nel 1909», ha puntualizzato il sindaco, rimarcando il carattere democratico del nuovo strumento urbanistico. A seguire i ringraziamenti: «alla maggioranza «che si è dimostrata compatta e non si è sfarinata dinanzi alle prime difficoltà» e «al coordinatore Di Francia e ai capigruppo». Ma anche all’opposizione che, nonostante i 5000 emendamenti inizialmente presentati sul bilancio e gli 8000 sul Prg, «non si è chiusa a testuggine, non è caduta in un ostruzionismo privo di qualsiasi capacità propositiva». Si è corso il rischio di un corto circuito istituzionale. «Lo abbiamo evitato - dice ora Veltroni - perché non siamo mai stati arroganti e non abbiamo perso la capacità di ascolto. Errore che invece ha fatto Milano». La città aspettava questo piano da 41 anni. «Roma è cresciuta per molti anni senza regole urbanistiche, senza relazione fra infrastrutture e nuove edificazioni. Ora queste regole ci sono», ha continuato il sindaco. Il percorso si completerà in consiglio comunale con l'approvazione delle delibere attuative del vecchio piano, con programmi di trasformazione urbana «che porteranno ad investimenti di 5 miliardi di euro nei prossimi 8 anni e 100mila posti di lavoro». Il nuovo Piano riassunto in sintesi punta sulla tutela dell'agro romano, e sulla diminuzione della previsione edificatoria che nel precedente piano nel '62 prevedeva di 120 milioni di metri cubi e che ora passa a 62 milioni. cubi. Aumenta la tutela del verde che passa da 82 a 87 mila ettari e divenuta "sistema" con una rete ecologica. I Prg prevede centralità metropolitane e urbane, programmi integrati, ambiti di trasformazione residenziale e non residenziale e verde attrezzato. Distingue tra la città storica con cinque ambiti strategici (Tevere, Mura Aureliane, Anello Ferroviario, Direttrice Appia, Eur e Flaminio), in tutto 1.500 ettari all’interno delle mura più 6.500 tutelati da una “carta della qualità". E tra una città da ristrutturare (le borgate abusive e le zone 0). L’intero Prg è governato dal piano della Mobilità, legato in modo indissolubile allo sviluppo, definisce il nuovo polo della Stazione Tiburtina. Ma fatto il nuovo piano ora bisogna metterlo in pratica. «Anche per questo, ora è importante chiudere subito la sessione - è l’impegno di Franco Dalia, capogruppo della Margherita - ciò vuol dire attivare sviluppo, posti di lavoro, fare di Roma un grande polo per attrarre investimenti nazionali e internazionali». E l’opposizione? Quelli di An, sfiniti anche loro per la notte insonne, hanno scelto di presentarsi sulla piazza del Campidoglio una carriola carica di mattoni. Nel gesto il senso della loro protesta. Nelle parole del consigliere Luca Malcotti il risentimento per non essere stati "ascoltati": «Sono stati respinti quasi integralmente i 13 punti che il nostro partito aveva indicato come qualificanti».
Notizia che mette in difficoltà il Campidoglio: il professor Giuseppe Campos Venuti, l’anziano urbanista bolognese considerato «padre» del nuovo Prg, disconosce il Piano.
Perché il suo «no», professor Campos Venuti? «Guardi, con gli ultimi emendamenti approvati nella notte, è stato disfatto il meccanismo innovativo del "mio" Piano. In questa maniera, gran parte dell’innovazione diventa irrealizzabile».
Addirittura? «Sì... La posizione dei gruppi che definirei più estremisti, ha inferto un serio danno. Spero che si possa ricucire nella fase delle osservazioni. E mi rendo conto che il sindaco doveva tenere conto di tutte le posizioni. Anche di quelle più ritardatrici, immobiliste, ma che paradossalmente danno spazio a quelle antitetiche, le liberiste a oltranza, di chi dichiara faccio-quello-che-mi-pare. Così gli opposti estremismi finiscono per danneggiare il riformismo. Ma d’altra parte è una vecchia storia in questo Paese».
Si sente in minoranza? «Putroppo sì. Anche qui: una lunga storia. Ho fatto la resistenza. Ero nel partito d’Azione. Poi tante battaglie urbanistiche. E tante sconfitte».
Il punto che lei contesta è sul meccanismo delle compensazioni. La maggioranza in Campidoglio ha preferito la via degli espropri. Ci spieghi la differenza. «Semplice. Con le compensazioni, che stanno funzionando benissimo in tanti piani regolatori, specie al Nord, noi garantivamo migliaia di ettari gratis. Un terreno contro un altro. Con gli espropri, ci vorrebbero migliaia di miliardi. E i soldi non ci sono. Se ci fossero, il Comune costruirebbe le metropolitane che mancano».
E ora? «Gli amministratori romani sono troppo avvertiti per non sapere che si dovrà tornare alle compensazioni. Altrimenti salta tutto. E’ molto bello il meccanismo di far costruire accanto alle future stazioni della metro o della ferrovia. Ma come si fa a convincere i costruttori? A qualcuno fa schifo spostare i diritti edificatori? E allora che resta: la forza? li convinciamo manu militari? oppure a suon di miliardi? La legge parla chiaro: i terreni vanno pagato a prezzo di mercato. Ed è giusto così».
Quelli che lei chiama «immobilisti» la pensano diversamente. «Il Piano ha indubbiamente delle norme innovative a cui io stesso ho dato un contributo. Ma se lo ingessiamo a monte, lo si rende ingestibile. Con la mia lettera, ho voluto testimoniare coerenza. Oltretutto, c’è un aspetto tragicomico che emerge dalla notte del consiglio comunale: a forza di togliere e aggiungere, la somma algebrica dei metri cubi previsti è superiore a quella dell’inizio».
Di qui la sua lettera aperta. «La mia paura è l’ennesima sconfitta. Già ne ho incassata una, ai tempi del governo di centrosinistra, sulla legge urbanistica che poi non ha mai visto la luce. Ora non vorrei assistere al disastro del Piano regolatore che è il più importante d’Italia. E’ anche quello più innovativo e che si erge contro l’altro modello, quello di Milano, dove trionfa il liberismo. Lì il consiglio comunale decide caso per caso, tu sì e tu no, tu mi piaci e tu mi stai antipatico. A Roma doveva essere un’altra cosa».
È considerato il "padre" del nuovo Piano regolatore di Roma. Per anni ha collaborato con il Campidoglio per definire le linee guida del nuovo strumento urbanistico. Ma ieri, a poche dall’adozione del Prg, ha scritto al sindaco per «separare le sue responsabilità». Il professore bolognese conclude la sua lettera pregando o al sindaco di cancellare il suo nome dai consulenti del nuovo Prg «nella versione adottata dal consiglio comunale, nella speranza spero non illusoria che questo gesto individuale contribuisca in futuro a riproporre il percorso urbanistico che oggi sembra abbandonato». L’accusa che Campos Venuti muove è di aver liquidato le compensazioni a beneficio degli espropri, ovvero stravolto la strategia innovativa del piano per non dividere la coalizione, un «prezzo» pagato alla politica, insomma. «Il meccanismo attuativo - scrive ancora l’urbanista - dimezzava le vecchie previsioni residue del ’62 ma evitava di aprire un contenzioso giuridico sulle previsioni non cancellate». E ancora: «questo meccanismo attuativo, costruito assieme al piano in anni di lavoro è stato sacrificato sbrigativamente in poche settimane». Il professore prende quindi le distanze dal maxiemendamento proposto dalla giunta che «ha provocato una inevitabile turbolenza in tutto il sistema del piano». Secca la risposta di Veltron: «Ho già parlato con lui. Continuerà a lavorare con noi - ha commentato il sindaco - al di là della riserva su un aspetto, resta il suo giudizio assolutamente positivo sugli aspetti innovativi del piano».
Claudio Marincola
«L’idea delle venti centralità è bella ma c’è il rischio che ogni municipio si rinserri nel suo piccolo privilegio. Il piano del 1962 nei fatti non è mai stato attuato: prevedeva l’Asse attrezzato a Est, invece è nato all’Eur».
Giornata storica, quella che vede il varo di un nuovo Piano regolatore. Capita in media una volta ogni quarant’anni. E’ il caso, insomma, di parlarne con uno storico. Vittorio Vidotto, ad esempio, insegna Storia contemporanea alla Sapienza. Conosce bene le vicende di Roma avendo da poco licenziato un paio di volumi sulla Capitale.
Professor Vidotto, ci si avvia ad archiviare il Piano Regolatore del 1962. Dobbiamo esserne dispiaciuti? «Non c’è mai stato un Piano meno applicato di quello. Ricordiamo che prevedeva un cosiddetto Asse attrezzato a Est, dove sarebbero dovuti sorgere uffici e ministeri, ma in quarant’anni non s’è mai fatto. Al contrario, non previsto da quel Piano, il centro direzionale è nato all’Eur. Cioè verso Sud e il mare come voleva Mussolini. In pratica, tra urbanistica democratica e urbanistica del fascismo, nonostante la Liberazione, vinse quest’ultima. D’altra parte basta guardare le biografie personali: Virgilio Testa, il dominus dell’Eur, l’uomo che portò a compimento il quartiere, e riuscì a tenere assieme qualità edilizia e verde pubblico, portandosi dietro l’Archivio di Stato e l’edificio della democrazia cristiana, le residenze e gli uffici, era l’ex segretario generale del Campidoglio ai tempi del Governatorato fascista».
Quale fu il tallone d’Achille del Piano regolatore? «La coesione tra politica ed economia. Andarono ciascuno per la sua strada. Ma siccome la domanda di alloggi è incomprimibile, lo sfogo fu l’abusivismo a macchia d’olio. Non tanto quello dei tuguri, quanto interi quartieri di palazzine e di villette. Poi ci si misero i cosiddetti Peep, i Piani di edilizia economica popolare, che nacquero a raggiera un po’ dappertutto, a Est, ma anche a Sud. Nacquero il Laurentino o Spinaceto. Ma così si spostarono irrimediabilmente persone e mezzi. Mettiamoci poi che il Raccordo Anulare è stato snaturato, è diventato sul malgrado il vero Asse attrezzato, trasformandosi da via di scorrimento veloce extraurbana a urbana, ed ecco la città d’oggi».
Da come ne parla, sembra che il primato della politica abbia preso una bella bastonata dall’economia. «No, attenzione, stiamo parlando degli anni democristiani. Fu una scelta politica anche quella di accontentare tutti, accogliere ogni sollecitazione, concedere licenze che pure contraddicevano il Piano regolatore in cambio di consenso. Il primato della politica non ne venne affatto intaccato. Solo che era cambiato il disegno. E gli interessi cacciati dalla porta rientravano dalla finestra».
Fu la speranza (o illusione) della pianificazione, allora, a esserne infranta? «Senza un’idea precisa dei tempi e dei luoghi di dove costruire, senza priorità, insomma senza una volontà politica più che salda, non poteva che essere un’illusione».
E oggi? Cosa dobbiamo attenderci da questo Piano regolatore che il Campidoglio ha appena votato? «Oggi la città è forse ferma quanto a incremento demografico, ma non è ferma tout court. Ha nuovi bisogni. I miei studenti affannosamente cercano di andare via di casa. Proprio in questi giorni, un’allieva mi raccontava che assieme a quattro altri colleghi hanno affittato un appartamento all’Esquilino. Ecco, i giovani hanno dei bisogni a cui si deve dare risposte. E non dimentichiamo quel recente passato in cui la distribuzione delle case pubbliche ha premiato la violenza. Nel complesso s’era dato un senso di incertezza permanente. L’abusivismo è stata una scelta obbligata. Ma i danni sotto gli occhi di tutti».
Cioè? «Quando si permette di costruire senza strade adeguate, o in un budello, interi quartieri saranno invivibili. D’altra parte è solo di recente, con la giunta Rutelli, che si comincia seriamente a mettere al centro della città i trasporti pubblici su ferro. La speculazione edilizia non è un male in sé. A me, a noi, non importa se un costruttore guadagna poco o tanto: importa che che sia ben guidato. Importa che le linee di comunicazione siano veloci. Oggi, spostarsi da Est a Ovest è un dramma. Bisogna mettersi a fare calcoli: quanto tempo ci vuole? Ne va della vivibilità generale della città».
E per il futuro? Ottimista? «Mica tanto. E’ bella questa idea delle venti centralità, di dare orgoglio ai municipi. Ma se deve diventare microcampanilinismo, se poi tutti insorgono contro una via di scorrimento veloce o un parcheggio sotterraneo, se diventa dominante l’idea che non si deve più toccare un mattone e che ognuno sta rinserrato nel suo piccolo privilegio, allora non ci sto. D’altra parte si sente nell’aria quest’idea che il futuro si sia fermato. Un’idea neoconservatrice di città, trasversale a destra e sinistra. S’è rinunciato all’audacia dell’innovare».
IL PIANO Regolatore sarà approvato dalla prossima giunta regionale, non certo da quella attuale. Ne è sicuro Francesco Storace che però gela le speranze del centrosinistra che intravede in questo modo la possibilità di affidarlo a un futuro presidente, possibilmente non di centrodestra: «Se è la loro speranza allora il Comune se lo dovrà tenere per altri 20 anni». STORACE interviene anche sulle polemiche esplose dopo l’approvazione alla Regione della nuova legge sui parchi. «L’OPPOSIZIONE ha presentato 6 mila emendamenti, erano stati chiaramente scritti solo per fare ostruzionismo. E noi avevamo il diritto-dovere di stroncarlo. Se avessero presentato solo 100 emendamenti ci potevamo anche stare, ne avremmo discusso per una settimana, serenamente. Invece hanno perso e non lo accettano».
Il sindaco Walter Veltroni ha ragione di essere soddisfatto. Non perde occasione di ricordare che solo Ernesto Nathan, nel 1909, era riuscito a far adottare un piano regolatore dal consiglio comunale di Roma. I due successivi strumenti urbanistici furono approvati, con una legge quello del 1931, e da un commissario prefettizio quello del 1962. Veltroni ha il merito di aver condotto con equilibrio e autorevolezza l'ultima fase di formazione del piano, apportando, mi sembra, miglioramenti rilevanti alle elaborazioni ereditate dalla precedente amministrazione. Al nuovo piano regolatore si mise mano all'inizio dell'amministrazione Rutelli, circa dieci anni fa, assumendo subito la parola d'ordine del «pianificar facendo», che è una specie di contraddizione in termini nel senso che, mentre si lavorava alla stesura del piano con vaste risorse, anche propagandistiche, al tempo stesso si «anticipava» il piano, sfornando interventi di ogni genere, di ogni misura, in ogni angolo della città, per un totale di oltre 40 milioni di metri cubi di nuova edificazione (vedi Paolo Berdini, Il Giubileo senza città, Editori Riuniti, 2000).
Così Roma ha continuato a espandersi a macchia d'olio, in tutte le direzioni. Il consumo del suolo, secondo me, è la questione centrale dell'urbanistica romana. Vale la pena di ricordare che, negli ultimi quarant'anni, la capitale ha sacrificato sotto il cemento e l'asfalto 30mila ettari di agro romano. Mille ettari all'anno. In 40 anni, la popolazione è aumentata del 13 per cento e il territorio urbanizzato del 360 per cento. Oggi Roma, come tutte le grandi città, è in forte declino demografico. Secondo i dati, ancora provvisori, del censimento 2001, la popolazione di Roma è diminuita di 270 mila unità rispetto al 1991, si è ridotto anche il numero delle famiglie e addirittura il numero delle abitazioni che, evidentemente, sono state destinate ad altri usi.
Ma il consumo del suolo continua a ritmo frenetico. L'agro romano è la più importante riserva archeologica d'Italia, forse del mondo; è il nucleo originario dell'identità romana, eppure continua a essere considerato buono a tutti gli usi. E' ormai ridotto a brandelli, sopraffatto da periferie in perenne espansione che hanno raggiunto la costa e i confini comunali. E' attraversato da una rete imponente di strade, ferrovie, elettrodotti, e frantumato dalla diffusione, in forma legale e più spesso illegale, di case e casette, impianti sportivi, servizi pubblici, uffici e attività produttive, depositi, esposizioni di ogni genere, vivai, maneggi, discariche, squallide distese di piccoli orti, spazi dismessi o in abbandono. Anche all'interno dei parchi naturali è evidente la disseminazione edilizia. Le uniche residue superfici agricole di consistente ampiezza sono quelle di proprietà pubblica (Castel Porziano, Santo Spirito) e poche altre grandi proprietà private.
La conseguenza di tutto questo è una città dov'è smodato lo spreco del territorio. Più che nelle altre città italiane ed europee. Nel 1961 ogni cittadino romano utilizzava meno di 60 metri quadrati di spazio urbanizzato, 40 anni dopo la superficie pro capite è aumentata a quasi 180 mq. Per completare il quadro, una recentissima legge della regione Lazio conferma l'edificazione nelle aree agricole.
Di fronte a tendenze come queste sommariamente descritte, sarebbe stato necessario un energico provvedimento volto a porre un freno alla rovina della campagna romana. La bassa densità delle periferie avrebbe potuto indurre a scelte di riorganizzazione e di ristrutturazione del territorio urbanizzato prevedendo un'intensificazione del suo uso, evitando un ulteriore consumo del suolo. Così non è stato. Il piano regolatore di Roma adottato mercoledì scorso prevede invece che, entro il 2012, la superficie urbanizzata aumenti di quasi 15 mila ettari e il volume edilizio di oltre 60 milioni di metri cubi.
Non si tratta solo di quantità esorbitanti. Un altro difetto fondamentale del nuovo piano riguarda la forma della città futura. Il decrepito piano regolatore del 1962, un piano indifendibile, immaginato per una città di cinque milioni di abitanti, senza alcun'attenzione per il rapporto con l'ambiente circostante, era però fondato su una suggestiva idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna. Lì dovevano trasferirsi i ministeri e le altre attività terziarie, liberando il centro - da riservare alla residenza e alle più pregiate funzioni di rappresentanza istituzionale - dalle oltraggiose condizioni di congestione e di inquinamento in cui viveva, e continua a vivere. Il successivo progetto Fori, ponendo l'archeologia al centro della città, completava un'immagine straordinaria della Roma moderna. Il nuovo piano, ahimè, non prevede niente del genere. Non c'è un'idea, se non quella, modestissima, di una quindicina di cosiddette centralità, più o meno una per ogni municipio (le vecchie circoscrizioni), dove concentrare attività commerciali e poco più. Il requiem al progetto Fori è stato celebrato di recente ponendo sull'area un vincolo monumentale che ne impedisce la trasformazione, inconfessato omaggio al regime fascista. Con tanti saluti al lavoro e alle speranze di Antonio Cederna, Luigi Petroselli e Adriano La Regina.
Se penso così male del nuovo piano di Roma, perché giudico positiva l'azione condotta da Veltroni? In primo luogo, perché è comunque un bene che la capitale non abbia rinunciato, come proponevano tanti portatori di interessi fondiari operanti in tutti gli schieramenti politici, alla pianificazione del territorio, e cioè al primato del- l'azione pubblica. Non va dimenticato che Milano ha, di fatto, rinunciato al piano regolatore generale, avendo assunto come strada maestra la contrattazione con i proprietari immobiliari, e che in larga parte d'Italia gli strumenti urbanistici sono ormai consunti simulacri di altre stagioni, all'ombra dei quali s'infittiscono le pratiche di accordo diretto con i privati, com'è consentito dall'ultima generazione di leggi varate ben prima del governo Berlusconi.
In secondo luogo, l'azione condotta da Walter Veltroni è positiva perché, senza il suo intervento, il piano sarebbe molto peggiore. Mi riferisco alla strumentazione attuativa e, in particolare, alla cosiddetta compensazione, che è il presupposto dell'urbanistica contrattata, un marchingegno perverso, funzionale all'obiettivo di rendere potenzialmente edificabile qualunque suolo, in qualunque circostanza. La possibilità di far ricorso alla compensazione ha indotto, con un madornale errore giuridico, a considerare diritti edificatori le vecchie previsioni urbanistiche. Grazie alla compensazione, si sono moltiplicati gli scambi obbrobriosi fra verde pubblico e nuova edificazione, con esiti paradossali, fino a 80 metri quadrati ad abitante di verde pubblico nel XII municipio, sì da indurre le associazioni ambientaliste a pretendere meno verde. Lo stesso sindaco ha preso le distanze dalla compensazione. A difenderla sono rimasti i costruttori e pochi altri. Alla fine, grazie a una decisiva mobilitazione di associazioni ambientaliste, dei verdi, di Rifondazione comunista, che si sono avvalsi anche di illustri specialisti (il giurista Vincenzo Cerulli Irelli, l'urbanista Edoardo Salzano), la compensazione urbanistica è stata depennata dagli strumenti di governo del territorio in uso nella capitale. Mi sento in obbligo di ricordare l'impegno lucido e convinto di Patrizia Sentinelli, capogruppo di Rifondazione comunista, protagonista delle discussioni negli ultimi mesi. L'esperienza di Roma non è conclusa.
All'adozione del piano farà seguito, nei prossimi mesi, la presentazione di osservazioni consentite agli operatori della materia e a chiunque intenda portare un contributo. La risposta spetta al consiglio comunale. Tutto può ancora succedere, non si possono escludere colpi di coda degli interessi colpiti. Spero che prevalga la ragione e siano possibili altri miglioramenti. Spero soprattutto che la vicenda del piano di Roma fornisca l'occasione per riflettere sull'urbanistica italiana, sui disastri degli ultimi anni, sui comportamenti delle istituzioni e del mondo politico. Anche a proposito di programmi del dopo Berlusconi. E' stato notato che in uno degli ultimi fascicoli di MicroMega, quello che conteneva i programmi della sinistra, erano elencate ventiquattro voci, dalla giustizia alla polizia, al lavoro, all'emigrazione, eccetera, ma niente che riguardasse il territorio, la città, le condizioni urbane. Un tempo l'urbanistica era una voce importante della politica, particolarmente a scala locale; e l'urbanistica romana, nel bene e nel male, era un riferimento per tutti. Si potrebbe ricominciare.
Appena approvato tra mille polemiche il provvedimento ora passa alla fase attuativa - Dagli inizi con la giunta Rutelli all’allargamento politico della maggioranza - L’assessore all’Urbanistica ripercorre i passaggi salienti ed elenca le priorità di un piano storico Morassut: «Il Nuovo Piano Regolatore è una scommessa delle periferie»
Una rivoluzione copernicana. Si parte dalla concezione stessa della città, politica e culturale, per rinnovarla dalle radici. Si arriva alla forma estetica della metropoli il più possibile equilibrata, bella da vedersi, buona da viversi. Questi gli ambiziosi obiettivi del Nuovo Piano Regolatore, approvato la settimana scorsa a quarant’anni dall’ultimo provvedimento urbanistico, a cento dall’ultimo Piano votato da un’assemblea democraticamente eletta e non per decreto presidenziale. Tanti gli artefici di questo riassetto cittadino, tra loro, in primo piano, l’assessore all’Urbanistica Roberto Morassut che ha raccolto un’eredità fitta di storia che ha voglia di raccontare:
«Il Piano nasce nel `96 con la giunta Rutelli come base di un bilancio urbanistico romano temporalizzato. Con la variante delle certezze, primo rivoluzionario passaggio, si chiudeva con il passato e la sua pesante eredità fatta di abusivismo, degrado generalizzato condizionato da Tangentopoli. Questa Variante completava la Variante di Salvaguardia iniziata da Signorello sulla quale la sinistra impegnò una dura battaglia politica finalizzata e migliorarla. Ci riuscì e poi con Rutelli si completò. A questo punto, 1996-1997, si costituì il gruppo di lavoro del quale fece parte da subito anche Campos Venuti. Nel 2000 ci fu una prima proposta di Giunta accompagnata da atti importanti, articoli 11 mirati al recupero delle periferie, più in generale al recupero urbano e alla salvaguardia dell’ambiente. Su questi punti si è articolato il lavoro di Bettini che diede la barra politica del risanamento».
E siamo ai giorni nostri. La giunta Veltroni a questo punto come si è mossa? «Abbiamo ereditato un Piano che esce, dopo un anno e mezzo di lavoro, arricchito anche nel suo quadro politico. Penso a Rifondazione, alla riorganizzazione del centro. Ci vedo pure una coerenza maggiore un rapporto tra Piano e sistema della Mobilità più fluido. Infrastrutture, senza le quali non c’è edificabilità. Gli architetti Colasante e Maltese, tecnici del Comune, hanno lavorato molto alle previsioni di sviluppo legate all’edilizia residenziale pubblica». [RMINTERV]A questo proposito, il Piano pare pensi poco all’edilizia residenziale pubblica, sembra più un piano di protezione... «È un’offerta che dovremo implementare con scelte che privilegino il recupero di aree dismesse e che non sfruttino il suolo nuovo. Tor Pagnotta, forse lì l’edificabilità è eccessiva (1 milione e mezzo di metri cubi) pur se già ridotta di tre quarti rispetto a prima. Su Tor Marancia avevamo avuto un parere di non edificabilità che adesso ci pone il problema delle compensazioni, la necessità di costituire la riserva di aree pubbliche per onorare questo debito. Trecento ettari di aree di riserva, un esperimento per trovare il giusto equilibrio con le istanze ambientaliste. Dobbiamo mettere a punto una manovra sostenibile per l’edilizia residenziale pubblica in accordo con la Regione che promuova bandi anche per incentivare il riuso del già esistente. Dando premi per chi vuole recuperare edifici dismessi da strappare al degrado».
Ma i costi sono maggiori e gli imprenditori non ci stanno «Costi maggiori, soprattutto una filiera produttiva diversa, competenze, tecniche e rischio imprenditoriale differente, anche la sfida di superare una cultura vecchia. Io ho molta fiducia in una certa ala di imprenditori romani che ha imboccato la strada della consapevolezza e della qualità, costruttori dalla mente aperta, sensibili, che vedo ben guidati. Se fossero aiutati dagli incentivi pubblici andrebbe ancora meglio. La Regione deve dare una mano alle imprese di costruzioni romane».
E i 105 mila immigrati che gravitano su Roma dove andranno a vivere? «Mai in quartieri ghetto. L’edilizia residenziale pubblica è fatta di programmi per l’affitto da destinare i monoreddito, a coloro che comprano casa a costi ridotti con incentivo pubblico e alle fasce del bisogno e all’emergenza. Quest’edilizia deve tendere a forme sparse, inserite in quartieri di alto e medio livello; Massimina, Romanina, La Storta, che sono le centralità del futuro. Così garantiamo un’integrazione e un’articolazione del sistema sociale».
L’opposizione vi accusa di avere messo insieme un Piano poco partecipato, nato e cresciuto nelle segrete stanze. Come ribatte alle accuse? «Con la realtà. Tutti i Municipi hanno votato tre volte gli elaborati del Piano. Abbiamo ascoltato le associazioni e i comitati dei cittadini con grandissimo senso di responsabilità. E ne è venuto fuori un Piano moderno che punta a recuperare il gap infrastrutturale, che valorizza il lascito ambientale, culturale e storico di Roma. L’agro romano, per esempio, perché la capitale non è solo dentro le mura».
Il padre ideologico del Piano, Campos Venuti, ha fortemente criticato una parte del provvedimento, tanto da ritirare la sua firma. La sua riserva era puntata sullo strumento della perequazione. Lei come risponde? «Accolgo le osservazioni di Campos Venuti. Bisogna acquisire aree verdi per i servizi locali senza usare come unica arma l’esproprio. La perequazione è una via percorribile. Si tratta dell’acquisizione gratuita di un terreno in cambio di un 20% da lasciare ai proprietari. Questo 20% deve essere usato per pubblici esercizi, o ambulatori o servizi socio-assistenziali. Uno strumento nuovo che utilizzeremo nella città da ristrutturare. Vorrei approfondire la discussione che deve però essere svincolata dal contrappunto tra urbanisti riformisti e urbanisti massimalisti, altrimenti si rischia di rendere poco chiaro il contorno del problema. I fatti sono che si deve riorganizzare il tessuto delle borgate intermedie, mi riferisco a Torre Maura, Vitinia, Monte Spaccato, Giardinetti, cresciute tra palazzoni di periferia e una vasta proliferazione abusiva della corona esterna. Ecco quel tessuto manca di infrastrutture, intese persino come marciapiedi. Questa situazione può cambiare anche con la perequazione. Accetto le critiche di Campos Venuti. Mi dispiace la sua radicalità, non penso che il "suo Piano" sia stato stravolto. Lui era consapevole delle tante istanze che abbiamo rafforzato. Il passaggio da centro a città storica, il policentrismo, la ricerca di un equilibrio tra periferia e centro ancora lontano dall’essere raggiunto e soprattutto l’importanza dei municipi».
In definitiva, avremo modo di vedere una città architettonicamente omogenea, innovativa, in grado di coniugare passato e presente in modo armonioso? Come si può ottenere questo risultato? «Grazie agli architetti che progetteranno su uno schema preliminare di assetto unitario dell’intera centralità. La qualità urbana è proprio nelle nostre priorità, per questo abbiamo pensato a un comitato per la qualità con la partecipazione di urbanisti di chiara fama che dovranno approvare i progetto con un occhio aperto al nuovo ma compatibile con il già esistente».
I costruttori lamentano che non sia inserito, all’articolo 1 del piano, la parola «sviluppo». Perché è stata omessa? «Perché il Piano Regolatore non è uno strumento per promuovere sviluppo ma è la base per le politiche di crescita. Il Piano è la maglia, agli imprenditori il compito di dotarsi degli strumenti adatti allo sviluppo».
Gli abitanti della zona con La Regina, i politici con l’amministrazione. Se, da una parte, l’associazione «Centro storico» e gli ambientalisti di «Scopriroma» concordano in pieno con quanto denunciato ieri sul Corriere dal sovrintendente ai beni archeologici, dall’altra assessorato al Commercio e Primo Municipio, ricordano quanto, fin qui, è stato fatto per salvare la parte pregiata della città dal degrado. «Oggi stesso chiederò un incontro con Adriano La Regina. Voglio parlare con lui per fare il punto su quanto è stato fatto e su quello che c’è da fare». L’assessore al Commercio Daniela Valentini, dopo il j’accuse
E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica.
La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646). Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).
Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il PRG non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2).
In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.
Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.
Effettuata questa premessa mi preme formulare un ulteriore considerazione.
La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).
Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che 1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni; 2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.
Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.
Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".
Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).
In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.
Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.
1. Con Paolo Berdini ho condiviso un’indimenticabile stagione di impegno politico, nel Pci prima, poi nel Pds, negli anni che vanno dalla primavera del 1985, quando fu sconfitta l’amministrazione di sinistra in Campidoglio, all’autunno del 1993, quando Francesco Rutelli fu eletto sindaco per la prima volta. La politica per noi coincideva con l’urbanistica. Non solo per noi. Da sempre, da Porta Pia in seguito, a Roma la politica è la politica urbanistica. Lo dimostra il fatto che in nessun’altra città ; come a Roma è stata prodotta tal e tanta letteratura in materia di urbanistica, soprattutto nel secondo dopoguerra.
In quegli otto anni fiorirono discussioni appassionate e senza fine, nel comitato federale, nella commissione urbanistica, nelle sezioni del Pci, nelle associazioni, nei circoli, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle feste dell’ Unità , nelle assemblee elettive. Il primo tema che affrontammo – in una discussione aspra, dura, senza complimenti – aveva riguardato una fondamentale questione di metodo e di sostanza, e cioè la necessità di restituire alla pianificazione urbanistica il ruolo di strumento irrinunciabile per il governo della città. Avevamo assunto una posizione critica verso la giunta di sinistra e verso chi aveva amministrato l’urbanistica romana dal 1976 al 1985, soprattutto per non aver messo mano a un nuovo piano regolatore, al posto di quello decrepito e pericoloso del 1962.
Capofila del nostro gruppo era Walter Tocci. Con Goffredo Bettini e altri dirigenti del Pci guidava il rinnovamento del partito dopo la sconfitta del 1985. Di quel percorso furono tappe importanti i convegni “Roma da slegare”, “Le città della metropoli”, il dossier dal titolo Chi comanda a Roma e tante altre iniziative. Cominciammo con Tocci a delineare i contenuti e la forma del nuovo piano regolatore e delle cose da fare per mettere ordine nell’urbanistica di Roma. Italia ’90, Roma capitale, lo Sdo, il vecchio e il nuovo abusivismo, il secondo Peep, l’autoporto di Ponte Galeria, il ministero della Sanità alla Magliana: sono solo alcuni dei temi allora trattati. Con modestissime risorse riuscimmo a produrre documenti e materiali di analisi e di proposta, alcuni a stampa. Lo Sdo e l’urbanistica romana , del 1989, mi sembra che sia il primo testo in cui la nostra impostazione è esposta in modo compiuto e convincente. Chiedevamo che si mettesse mano, contemporaneamente, a tre diversi piani urbanistici: una variante di salvaguardia, per confermare gli interventi già decisi e sospendere le altre previsioni del Prg allora (e oggi) vigente; il piano dell’area metropolitana di Roma, per definire le scelte strategiche a scala provinciale; il nuovo piano di Roma. La variante di salvaguardia, se ricordo bene, è stata inventata allora. Quello stesso fascicolo trattava del verde pubblico, della mobilità – proponendo, tra l’altro, un tracciato per la linea D – e dello Sdo, temi ripresi e approfonditi in altre elaborazioni.
Ai nostri dibattiti partecipava il meglio della cultura cittadina, cito per tutti Antonio Cederna, che decise di fare politica in prima persona, come deputato della sinistra indipendente e come consigliere comunale. La sua proposta di legge per Roma capitale raccoglie la parte essenziale del lavoro condotto insieme in quel periodo, soprattutto riguardo allo Sdo e al grande parco archeologico dei Fori e dell’Appia Antica. Per lo Sdo Cederna propone la soluzione che avevamo definito “a saldo zero”: i ministeri trasferiti nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico. “ L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’ intervento”. Inoltre, secondo Cederna, lo spostamento dei ministeri non deve essere limitato a uffici secondari: “verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico”. La difesa del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati a ospitare funzioni di prestigio. Cederna assume insomma, compiutamente, la filosofia dello Sdo com’era stata originariamente pensata da Luigi Piccinato: il trasferimento dal centro di alcune delle più importanti funzioni come idea forza dell’urbanistica romana, presupposto e condizione per costruire la città moderna.
Quanto all’area centrale, secondo Cederna, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di un “incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Il parco archeologico centrale proseguirà extra moenia nel grande parco dell’Appia Antica. Ma soprattutto, “coll’ eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l’ incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.
2. Paolo Berdini racconta come e perché non resta nulla degli obiettivi e della strategia fin qui descritti. Il libro di Berdini si colloca nella scia di Roma moderna . Insolera si occupa di un secolo di urbanistica romana, dall’unità d’Italia alla metà degli anni Settanta. Berdini tratta solo degli ultimi sei anni, ma uguale è la passione civile e il rigore della documentazione 1 . Per quanto mi riguarda, mi limito a riprendere soltanto tre temi, che però mi sembra che siano quelli decisivi per il futuro di Roma: l’ assetto della direzionalità o, se volete, dopo lo Sdo; il progetto Fori, a vent’anni dall’elezione a sindaco di Luigi Petroselli, che fu l’artefice e il fondatore di quel progetto; e, infine, il problema, che pare senza fine, del nuovo piano regolatore.
Lo Sdo è accantonato, in parte ridotto a un’appendice delle operazioni immobiliari Fs. Il documento del Dipartimento politiche del territorio, “Verso il nuovo piano regolatore di Roma”, del maggio 1998, conferma “la cancellazione dell’asse attrezzato quale nervatura di un decentramento funzionale e strutturale ancora troppo a ridosso del centro urbano”. Ma sullo stesso documento, due pagine prima, a proposito dei nodi di interscambio, si legge che “le aree ferroviarie e comunque le aree di diretta pertinenza di tali nodi diventano aree privilegiate dove collocare servizi qualificati, direzionalità, funzioni dotate di forte attrazione e di elevato standard funzionale e di immagine”. E’ appena il caso di ricordare che le aree ferroviarie utilizzabili sono tutte più centrali dello Sdo.
L’operazione Fori invece procede, e si deve dar atto all’ amministrazione Rutelli di averci rimesso mano dopo tre lustri di abbandono, e di aver ripetuto l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma questa è solo una parte del progetto Fori, che aveva la sua ragione, urbanistica , prima ancora che archeologica, nell’incompatibilità fra le automobili e gli antichi monumenti. O le une o gli altri. Il sindaco Rutelli e la sua giunta non hanno mai fatto i conti, veramente, con la questione delle automobili. E alla fine delle automobili sono diventati sudditi. Non è vero che l’eliminazione della via dei Fori Imperiali determinerebbe insostenibili problemi di traffico. E’ vero il contrario. L’ esperienza fatta a Napoli con la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito, e poi di via Toledo, dimostra che può essere abbondantemente ridotta la congestione nei centri storici. Il traffico di via dei Fori finisce tutto nel marasma di piazza Venezia, uno dei luoghi più inquinati d’Europa, dove cerca di fare del suo meglio l’ultimo vigile urbano che regola il traffico a mano. L’irrisolta questione delle automobili ha determinato anche il disastro del sottopasso di Castel Sant’Angelo e del parcheggio sotto il Gianicolo, che Berdini efficacemente ricorda. Ci si aspettava che, in occasione di un evento epocale come il Grande Giubileo, Roma fornisse al mondo l’esempio del possibile uso pedonale delle città storiche nel terzo millennio. Ha dimostrato invece il contrario, e cioè che, sventrando e snaturando, si può andare in automobile dovunque, anche in piazza S. Pietro.
Ed eccoci al terzo, e fondamentale, tema, quello del nuovo piano regolatore generale. Siamo a sei anni e mezzo dall’elezione di Rutelli, e del nuovo piano – nonostante gli impegni ripetutamente e solennemente assunti, anch’essi ricordati da Berdini, a cominciare dal programma ufficiale della giunta del 1993 – esistono solo bozze e brandelli. Per quel poco che se ne sa il nuovo piano pare meglio di quel che si temeva: non sovra-dimensionato, non afflitto dalle ossessioni perequative dell’Inu. Avremo occasione di approfondirne la conoscenza e di discuterne nei prossimi mesi. Qui ora ci interessa il modo in cui si sta procedendo, a cominciare dalla questione dei tempi. Quand ’anche si arrivi all’adozione del piano, ci si arriverà allo spirare delle due amministrazioni Rutelli. Come dire che si chiudono i cancelli quando i buoi sono fuggiti. Oppure, se volete, che la politica di piano, le sue regole, il suo rigore, vanno bene per quelli che verranno dopo.
Non si può tacere un’altra considerazione relativa al messaggio che la capitale trasmette al resto d’Italia: fare un nuovo piano è un’impresa quasi disperata, forse è meglio rinunciare, come hanno deciso i sindaci di Milano e di Salerno.
3. Il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, cui va riconosciuto il merito di un sorprendente miglioramento dell’ambiente urbano della sua città, in occasione della visita del presidente del consiglio, Massimo D’Alema ha dichiarato che si guarda bene dal mettere mano a un nuovo piano regolatore. Credo che anche a Roma siano in molti a pensarla così, ma non hanno la stessa franchezza del sindaco De Luca.
Ben più ambizioso è il comune di Milano che ha recentemente posto in discussione un documento titolato “ Ricostruire la grande Milano ”. La notizia l’ho letta su Ilsole-24 ore , che ha presentato il testo come “un vademecum per fare le varianti con l’accordo di programma”. “La giunta Albertini – ha scritto ancora il quotidiano della Confindustria – punta in modo netto sulla flessibilità, sulla deregulation e sulla contrattazione pubblico-privato come strumento prevalente per effettuare le trasformazioni urbane”. Percorso da un brivido ho cercato e letto il testo milanese. E’ il De profundis per l’urbanistica.
Luigi Scanoha scritto che “i primi quattro capitoli della prima parte del documento costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio. Non poche delle posizioni affermate mettono infatti in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano. La più spettacolare di tali affermazioni – continua Scano – è senza dubbio quella per cui nel ‘continuo confronto tra ragioni’, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, ‘lo stato ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci’. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leninista memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di stato minimo mai avanzate dall’anarchismo reazionario, o liberismo libertario”.
A Milano è una tradizione evidentemente irriducibile quella di derogare dalle disposizioni degli strumenti urbanistici: negli anni Cinquanta si chiamava rito ambrosiano, ed era legittimato da mediocri giustificazioni formalistiche. Oggi nessuna ipocrisia fa velo alle intenzioni eversive. Mi limito a riportare qualche brano del documento. Nel paragrafo 18, sotto l’ amabile titolo “L’indebolimento del piano regolatore generale”, si legge che “la trasformazione normativa introdotta negli ultimi anni comporta da parte di ogni ente competente il riconoscimento che l’ esercizio del potere di pianificazione del territorio non esclude, anzi implica il coinvolgimento diretto dei soggetti privati nella fase progettuale delle scelte di pianificazione, e non limita l’accordo con gli stessi alla sola fase esecutiva o attuativa”. Dopo aver reso omaggio all’urbanistica contrattata, si conferma che i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni Novanta (programmazione negoziata, intesa istituzionale, accordo di programma quadro, patto territoriale, contratto di programma e contratto di area) “costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana”.
A proposito di accordi di programma e simili, è bene ricordare quanto ha scritto Edoardo Salzano nella sua comunicazione alla Conferenza nazionale sul paesaggio: “Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione anomali è quella di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè alle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)”. In effetti, le varianti urbanistiche autorizzate con il ricorso agli accordi di programma non sono soggette alle osservazioni dei cittadini, com’è previsto dalla legge urbanistica del 1942 per le procedure ordinarie, e gli stessi consigli comunali sono in larga misura spodestati. Con tanti saluti alla partecipazione e alla questione morale.
Tutto ciò non interessa il comune di Milano che assume un solo inconfutabile valore: la flessibilità. Ne lla prospettiva del modello flessibile si assume che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore – ad esclusione di particolari salvaguardie –, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”. “In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto”. Niente insomma è definito una volta per sempre. In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sembra quello di assicurare la (crescente) valorizzazione degli immobili, e la riduzione al minimo del rischio d’impresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
4. Il modello delineato dal comune di Milano merita una riflessione vasta e ben condotta, senza trascurare le questioni legate alla trasparenza. Finora non è successo nulla, non c’è stato scandalo. Non sono stati svegliati dal letargo quanti, in particolare nel mondo della politica e della cultura di sinistra, hanno dimenticato da qualche anno di occuparsi di urbanistica, non vedendo che in gran parte d’Italia città e campagne sono più di prima esposte a ogni insulto, grazie proprio a quegli strumenti micidiali, elencati prima, accordi di programma, eccetera, non a caso esaltati dal comune di Milano.
E’ impossibile avviare ora una discussione approfondita. Si può solo accennare allo scenario che tende a configurarsi a mano a mano che guadagna consensi il modello milanese. Bisogna in primo luogo considerare che l’affermazione dell’urbanistica contrattata è andata di pari passo con la diffusione degli strumenti di pianificazione specialistici e di settore: piani di bacino, piani paesistici, piani dei parchi, piani dei trasporti. In verità, per ora siamo solo alle buone intenzione, ma è innegabile che si tratta di una novità importante, grazie alla quale si potranno offrire alla collettività garanzie di tutela di diritti e di interessi vitali: la difesa del suolo, la qualità estetica e ambientale del territorio, il godimento della natura, migliori condizioni di mobilità. L’insieme delle pianificazioni specialistiche e di settore tende a coprire gran parte del territorio, in particolare gli spazi aperti. Che cosa resta fuori? Restano fuori soprattutto i luoghi destinati o da destinare a trasformazioni urbane. In buona sostanza, lo scenario si scompone in un diffuso sistema di vincoli e di tutele, mentre le aree più pregiate, quelle del business , della contrattazione, dei piccoli e grandi affari sono oggetto di decisioni al riparo da sguardi indiscreti. Si opera, insomma, con procedimenti discontinui che frammen tano e disarticolano lo spazio. Si sta rinunciando, in qualche città si è già rinunciato, all'idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio, all' universitas del patrimonio territoriale.
Ma una città può fare a meno di discutere del suo futuro? E che cos’è un piano regolatore se non la discussione e la decisione sul futuro di una città? Nel dibattito sull’urbanistica di Roma dopo la sconfitta dell’amministrazione di sinistra del 1985 intervenne Italo Insolera con una memorabile intervista all’ Unità : “Quattordici anni dopo il piano regolatore i comunisti alla guida della città non rompono decisamente con il passato, non rivedono quel disegno, non lo riaggiustano secondo le ispirazioni che li avevano guidati nelle lotte precedenti. Non voglio dimenticare nulla, né la sparizione delle borgate, né le estati romane. Ricordo tutto e lo apprezzo […] Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell’abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”. Credo sia questo il punto da cui è necessario ricominciare.
5. Torniamo al libro di Berdini dove, con rigorosa documentazione, si da conto dell’urbanistica romana degli ultimi anni. Si parla delle cose ben fatte, che non sono poche: la politica dei parchi e del verde, la nuova sistemazione di strade e piazze nel centro storico, e soprattutto la variante di salvaguardia che ha posto al riparo dai disegni speculativi ben 50 mila ettari in agro. Ma il libro dimostra soprattutto che Roma, negli ultimi anni, ha preceduto Milano nella pratica dell’urbanistica contrattata. Molti dei 52 milioni di metri cubi calcolati da Berdini sono stati autorizzati con il ricorso alle deroghe, mentre si continuava a promettere il nuovo piano regolatore generale: è questo il “pianificar facendo”?
Che succederà con il nuovo piano, si continuerà con gli strumenti derogatori? Il piano sarà ancora un paravento, al riparo del quale continuerà l’urbanistica contrattata, o si cambierà registro? Ci piacerebbe vedere l’urbanistica di Roma alternativa a quella di Milano. Un formidabile scontro politico e culturale. Ma la svolta dovrebbe essere autentica. E perché sia tale i protagonisti dell’urbanistica capitolina degli ultimi anni dovrebbero sapersi mettere in discussione, cominciando con il fare buon uso del libro di Berdini.
Un primo campo di verifica è la politica nazionale. L’urbanistica della sinistra a Roma, più ancora che quella dell’Emilia Romagna, ha rappresentato sempre il modello per le politiche e le proposte legislative nazionali (dagli standard, alla legge 167, al programma poliennale di attuazione, eccetera). Oggi non è così. Nessuno stimolo è venuto dall’urbanistica romana. Anzi, se si tiene conto dell’assetto generale dell’urbanistica romana (e milanese), se si tiene conto del “ ;pianificar facendo”, occorre riconoscere che il disegno di l egge – finalmente un buon disegno di legge – predisposto da Rita Lorenzetti, presidente della commissione Lavori pubblici della Camera dei deputati va in controtendenza rispetto alla prassi seguita a Roma (e teorizzata a Milano): esso infatti prevede fra i principi generali il divieto del ricorso a istituti derogatori. Un’esplicita e formale condivisione di quest’ obiettivo sarebbe un buon viatico per una svolta romana.
Un secondo campo di verifica riguarda l’autentica disponibilità al confronto e alla discussione. Prevale oggi l’attitudine alla propaganda. Né le istituzioni, né i partiti si sono misurati in confronti pubblici. Anche le cronache romane dei grandi quotidiani, Il Corriere della sera, Il Messaggero, la Repubblica , che in passato avevano sostenuto iniziative e posizioni critiche verso l’ ;urbanistica capitolina, sono scrupolosamente allineate sulle posizioni della giunta. La lettura del libro di Berdini può essere l’occasione per ricominciare.
Sul finire del mandato la Regione Lombardia ha regalato al territorio un bel pacchetto di nuove leggi.
Grazie ad esse i piani regolatori potranno essere modificati in base alle singole proposte dei proprietari. Gli standard urbanistici, e cioè le aree che devono essere destinate al verde, ai servizi e ai parcheggi, sia nelle previsioni a lungo termine che in quelle immediatamente operative sono stati dimezzati. Per avviare la costruzione di qualsiasi edificio non serve più l’approvazione del progetto: basta presentare una dichiarazione di inizio attività.
Non occorre essere specialisti per nutrire il timore che le pretese novità ci stiano invece ricacciando verso una situazione di arretratezza della pratica urbanistica da anni cinquanta, aggravata però dallo scenario attuale della crescita urbana smisurata, dell’emergenza ambientale e dell’incertezza del diritto.
Il Comune di Milano ha subito approfittato delle nuove leggi, elaborando il documento che avvia l’approvazione dei progetti privati in variante del piano regolatore, con l’obbiettivo dichiarato di alimentare il mercato immobiliare. Con il dimezzamento degli standard torna legittima, dentro gli angusti confini comunali una crescita urbana di svariate diecine di milioni di metri cubi: come costruire dentro Milano nuove città della taglia di Brescia.
Per sostenere la concentrazione il nuovo piano del traffico programma una serie di nuove superstrade e di nuovi supersvincoli in piena città: alla gronda nord tengono compagnia un nuovo asse di penetrazione lungo le ferrovie varesine, dalle autostrade al Monumentale, una galleria sotto il parco Sempione, un’altra a fianco dei Giardini e un’altra ancora lungo la darsena di Porta Ticinese, lo sbocco di viale Fulvio Testi sul viale della Liberazione, e il potenziamento di oltre venti incroci. Et cetera. Fluidificazione del traffico!
I danni ambientali di questi progetti, e l’aggressione al bene più prezioso, la salute, in una città dove la gran parte delle centraline rileva una qualità dell’aria fuori legge, allarmano i cittadini, che infatti stanno alzando sempre più la voce contro di essi.
E’ bene chiarire che, sotto il profilo tecnico, la fluidificazione del traffico costituisce, nel contesto dato, un obbiettivo negativo: sia perché, accrescendo la competitività dell’auto, sottrae utenza al trasporto pubblico, sia perché la maggior fluidità del traffico attuale servirà a far spazio a quello aggiuntivo prodotto dai nuovi insediamenti auspicati dalla Giunta. Più auto dunque nel nostro futuro!
Non meno gravi sono i danni che queste politiche provocano proprio sul terreno dello sviluppo economico, in nome del quale vengono proposte.
Raddoppiare la volumetria di un’area edificabile non produce reddito perché comporta che da qualche altra parte si costruirà per la metà, a causa delle dimensioni sostanzialmente rigide della domanda: sposta però l’utile da una immobiliare all’altra. Uno scenario di programmatica inesistenza di regole urbanistiche scatena la competizione tra imprenditori (non solo del settore edilizio, la storia insegna) sul terreno più sterile, quello della ricerca delle protezioni istituzionali, invece di indirizzarlo su quello dell’innovazione tecnica e della qualità del prodotto: un danno netto per l’economia.
Vecchi difetti, dunque, sotto la vernice della urbanistica postmoderna.
Quel che servirebbe dalle istituzioni è tutt’altro: scelte strategiche per rimediare al pauroso degrado ambientale, per selezionare le infrastrutture necessarie a modernizzare l’area, per introdurre un modello territoriale più razionale. Una istituzione milanese, la Provincia, ha tentato, un anno fa di svolgere questo ruolo, elaborando il proprio Piano territoriale.
Il Comune di Milano ha rifiutato di partecipare alla formazione del piano, trincerandosi dietro motivazioni giuridico - formali. Ora mi sembra risultino evidenti le ragioni vere della defezione.
Il documento del Comune, che significativamente si intitola “ Ricostruire la Grande Milano”, pretende di coprire lo stesso territorio che le leggi attribuiscono alle competenze della Provincia. E con scelte di merito molto distanti: concentrazione contro policentrismo, auto contro trasporto pubblico, più cemento contro più verde.
La nuova Provincia dovrà decidere se difendere il proprio ruolo istituzionale, o ritirarsi dietro le quinte, magari con il fragile ( e costoso) alibi di rincominciare a studiare tutto da capo. Lo sapremo presto: la cartina di tornasole sarà la scelta di continuare il processo di formazione del Piano, dando corso alla consultazione formale dei comuni sul progetto già fatto proprio dal Consiglio provinciale, o viceversa di troncarlo, con la prevedibile conseguenza di non riuscire a definire, anche nei prossimi quattro anni, il piano strategico che tutte le metropoli europee hanno già da molti decenni.
Giuseppe Boatti
(Professore di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano)
Tra poche settimane si chiuderà la prima parte (la più complessa e determinante) dell’iter di formazione del nuovo Piano Urbanistico della città di Bologna, che andrà a sostituire il “vecchio” Piano Regolatore Generale.
Nella più completa assenza di dibattito pubblico, di partecipazione diffusa, si chiude una parte importante del processo che costituisce il fondamento dello sviluppo fisico e funzionale di Bologna per i prossimi anni e che – con ogni probabilità – porrà condizionamenti di rilievo a chi governerà la città dopo il 13 giugno.
Alcuni numeri di questo Piano chiariscono la dimensione dell’investimento – o dell’ipoteca – che ci sta per piovere addosso: 20 mila nuove abitazioni previste nei prossimi 15 anni, a fronte di un mercato che oggi non ne assorbe più di cinquecento l’anno. Quasi 3 milioni di metri quadrati di superficie edificabile per la residenza, per gli insediamenti produttivi e per il terziario, di cui almeno due terzi collocati in zone agricole, all’esterno della Tangenziale: e dire che negli ultimi anni del secolo scorso sembrava consolidata la cultura della non erosione di altro suolo agricolo tanto prezioso per il riequilibrio ambientale.
Nulla, o molto poco, verrà impegnato per recuperare la qualità della città già costruita, e nessun progetto viene messo in campo per sviluppare e qualificare gli spazi pubblici, i luoghi di relazione e di produzione sociale.
Ancora, tre linee di metropolitana sotterranea (Staveco-Fiera, Piazza Unità-Aereoporto, Certosa-Due Madonne) i cui costi esorbitanti non trovano copertura nelle casse comunali né in quelle statali, se non per una quota marginale (il primo tratto della linea 1), quota che tuttavia ha già ipotecato per diversi lustri la capacità di spesa dell’amministrazione cittadina, assieme agli ultimi suoli urbani liberi, che ora vengono impegnati con la promessa di edificabilità per pagare proprio la metropolitana.
Contestualmente sta per essere cantierato un “non-tram” su gomma, che costa il doppio di un normale filobus ma trasporta meno persone e corre sulle stesse corsie “preferenziali” degli autobus, con i medesimi problemi di congestione da promiscuità viabilistica (il non rispetto delle corsie preferenziali è un costume patologico dei nostri tempi).
Nel complesso, si tratta quindi di un Piano che non sembra rispondere alle domande collettive: maggiore vivibilità, più qualità ambientale, una politica della casa che aggredisca la speculazione e non i cittadini, un sistema di politiche per la mobilità che riveda nel complesso la disciplina del traffico e non si esaurisca in costose (e di dubbia utilità) infrastrutture. In compenso questo Piano risponde, con messaggi chiari, alle attese di rendita delle società immobiliari.
La Compagnia dei Celestini, nelle prossime settimane, s’impegnerà nella discussione critica dei documenti che stanno per essere licenziati da Palazzo d’Accursio. Lo faremo a partire da una festa: il 3 aprile pomeriggio, alla Multisala di via dello Scalo. Inizieremo lì, con proposte alternative, a raccontare le nostre idee per una città più equa e vivibile.
Ringrazio gli organizzatori di questa serata, perché mi danno la possibilità di portare la voce di un'associazione bolognese di cittadini e di urbanisti, che si chiama Compagnia dei Celestini.
Quattro anni fa ci siamo messi a ragionare sui motivi per cui a Bologna la qualità della vita si fosse così deteriorata, perché la città fosse meno amichevole d'un tempo. E abbiamo cominciato a ragionare con gli strumenti analitici che avevamo a disposizione, riattivando un dibattito pubblico che si era assopito, producendo analisi che hanno "resistito" nel tempo - grazie al loro rigore - anche all'assalto dei nostri più agguerriti oppositori.
Sapete tutti infatti che l'urbanistica è un tema molto spinoso, e che spesso sta sulle pagine dei giornali, in modo più o meno diretto, e di conseguenza chi "critica" e chi propone "cose fuori dal coro" ha in genere vita difficile: noi sopravviviamo - passatemi il termine - grazie al rigore delle nostre analisi e al divertimento che prova solo chi non ha padroni a cui rispondere.
Il titolo del mio contributo un po' lo anticipa: le cose che dirò sono tese a rivendicare l'utilità pubblica dell'urbanistica e della pianificazione. L'urbanistica deve servire per vivere meglio, per far vivere meglio i cittadini. Deve cioè organizzare un sistema democratico di regole e di opportunità orientate ad aumentare l'equità sociale e l'equilibrio ambientale nel suo complesso: in una parola l'urbanistica deve servire per sostanziare i diritti fondamentali di cittadinanza.
Credo sia necessario, oggi più di ieri, sottolineare questa necessità del governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali perchè negli anni novanta si è smesso - a Bologna e anche in altre parti del Paese - di credere che l'urbanistica potesse realmente concorrere a realizzare questi princìpi, e conseguentemente si è scelta un'altra strada: si è scelto di non pianificare, si è scelto di trasformare la città "navigando a vista", volta per volta, caso per caso, senzaobiettivi di lungo respiro, ma soprattutto si è persa la "bussola" dell'interesse pubblico. Si trasforma la città, piccoli o grandi lotti che siano, costruendo soprattutto palazzi, villette, condomini, senza chiedersi cosa ci guadagnano i cittadini e la città nel complesso dalle trasformazioni che si compiono.
La classe politica sembra aver rinunciato ad una delle principali responsabilità che le spetta per "statuto": cioè progettare il futuro della città che governa. Che poi il progetto abbia le "gambe" (passatemi il termine) nei poteri economici che hanno la forza e l'interesse legittimo e positivo di costruirla questa città, è evidente e fuori discussione: la città è costruita prevalentemente, da sempre, per mano di operatori non pubblici, con i quali si deve trasparentemente discutere e negoziare.
Ma quello che è necessario ritrovare, perché a me sinceramente sembra essersi perduto, è la capacità che solo un governo pubblico è legittimato a fare: costruire un progetto con obiettivi e regole "del gioco", chiare, durature e indiscriminanti, a cui deve riferirsi chi ha le opportunità e gli interessi per trasformare suoli ed edifici.
Questo progetto ripeto non può che essere pubblico, perché solo un governo pubblico può e deve prendersi cura, cioè tutelare e promuovere, anche chi non ha potere, chi non ha interessi immobiliari, chi non è proprietario di suoli o di edifici: cioè la stragrande maggioranza dei cittadini.
Queste cose le dico non per dare lezioni a qualcuno, ma perché servono ad inquadrare il senso del mio contributo.
Perché la strada che si è intrapresa a Bologna ha mostrato di essere fallimentare: un fallimento oggi documentabile e che ha radici ben definite.
A Bologna - ma non solo a Bologna - nell'ultimo decennio del secolo scorso, si è subito pesantemente il fascino del «neoliberismo deregolativo», che altrove aveva cominciato a farsi vivo già dagli anni ottanta.
Negli anni ottanta, a Bologna, si era invece scelta un'altra strada: si era cercato di costruire un progetto per il futuro della città con un Piano, un buon Piano Regolatore, che puntava a non espandere ulteriormente il suolo urbano ma a compiere operazioni di vera riqualificazione. Era un Piano dimensionato con quote di sviluppo residenziale credibili e sostenibili.
Ma quel Piano così adottato nel 1985 fu tradito e stravolto nella sua versione definitiva, approvata 4 anni dopo, a seguito di un drammatico conflitto politico all'interno della giunta di sinistra: aumentarono notevolmente gli indici edificatori, saltarono molte altre garanzie circa la sostenibilità delle operazioni urbanistiche; da una previsione di circa 6 mila alloggi da costruire in 10 anni se ne inserirono 19 mila.
Quello che si cominciò ad attuare all'inizio degli anni novanta era dunque un Piano stravolto, inadatto a guidare lo sviluppo di Bologna, inadatto a creare opportunità per gli operatori del mercato e vivibilità per i cittadini.
A 14 anni di distanza quel Piano, talmente era sovradimensionato, è rimasto inattuato per quasi la metà delle sue capacità edificatorie e laddove lo si è attuato esso ha mostrato drammaticamente tutti i suoi limiti: gli indici edificatori elevati hanno prodotto comparti urbani densi e massicci, privi di qualità e in cui ci sono serie difficoltà di reperimento di suoli per i servizi di quartiere. E di conseguenza sono emersi problemi di congestione e di traffico, e anche di degrado diffuso.
Di fronte a questa condizione, nella seconda metà degli anni novanta, invece di scegliere di "rifare il Piano", cioè di rimettere mano alle regole e alle strategie per la trasformazione della città, si è scelta la strada della deroga dal Piano: significa che si è deciso di procedere inseguendo gli stimoli che il libero mercato proponeva all'amministrazione pubblica, senza che quest'ultima avesse degli obiettivi chiari e di lungo periodo a cui riferire quegli stimoli che venivano dagli operatori di mercato.
Si è aperta così la stagione della così detta riqualificazione urbana, o dei programmi integrati: una stagione transpartitica, a cui Guazzaloca ha contribuito continuando e peggiorando una situazione già in essere.
Non entro nel merito di questa strumentazione (i Programmi Integrati e di Riqualificazione appunto) perché credo sia qui inopportuno. Racconto invece che cos'ha prodotto questa stagione, negli ultimi sette anni.
Nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria manifatturiera o "pesante", e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelle di altre aree del Paese (per esempio a Napoli – Bagnoli, o a Sesto San Giovanni), Bologna è stata martellata per gli ultimi 7 anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella di una «riqualificazione» che ha riqualificato - a nostro parere - soprattutto la speculazione edilizia.
L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni, effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai così detti "programmi integrati" prima e poi da quelli di riqualificazione, realizzati o in fase di realizzazione (si tratta in totale quasi tremila nuovi alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.
Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» bolognese riguarda la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che chiarisca l'interesse collettivo derivante dai singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l'una dall'altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell'area, con un rendimento ingente e diretto solo per i soggetti privati interessati dalla trasformazione (proprietari di aree e costruttori).
In secondo luogo le quantità edilizie messe in gioco, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica complessiva di Bologna, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi[1], tutti in deroga dal PRG, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di Superfici Utile, della quale il 70% destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi.
Per inquadrare il significato di questi dati bisogna ricordare che il PRG vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di meno di 6.000 alloggi - come ho ricordato prima: una stima che sostanzialmente non è stata smentita dai dati della produzione edilizia degli anni novanta, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno; un dato questo che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.
Con i programmi complessi, tra il 1998 e oggi si «aggiunge» quindi alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia (tutto questo in deroga da un PRG con ingenti quantità edificatorie ancora da attuare).
Terza questione: molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, sociale, funzionale ecc.) da riqualificare.
Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal PRG a zone per servizi pubblici (verde, parcheggi, scuole ecc.), con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni che sono state proposte sembrano quindi originate e motivate da problematiche importanti (i vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.
Quarto: la questione dei tempi e della presunta velocità di trasformazione delle aree tramite la deroga dal Piano. I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l'inconsistenza della tesi secondo cui procedere «caso per caso», derogando dal Piano Regolatore, è il mezzo più veloce per trasformare la città.
Quinto e ultimo punto: le "contropartite" per la collettività. La asserita «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie e dunque, anche per questo aspetto, il «sacrificio» della pianificazione urbanistica non è servito a dotare la città di attrezzature pubbliche di significativa consistenza.
La destinazione abitativa, come ho già ricordato, è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa: dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.
Insomma, mi pare che a fronte di questi risultati si debba avere il coraggio politico di riconoscere l'inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pinaificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive: assemblee ridotte a semplici organi di ratifica di contrattazioni eseguite nella "riservatezza", per usare un eufemismo.
Questi fatti, a mio parere, non lasciano dubbi sull'opportunità di chiudere una stagione che a Bologna ha peggiorato la qualità della vita dei cittadini, ha depotenziato il ruolo e la responsabilità dell'amministrazione cittadina nel progettare strategie per il futuro, ha eroso le conquiste sociali connaturate a quell'urbanistica riformista che a Bologna era gemmata.
Credo, per finire, che sia venuto il momento di riprendere una strada che rimetta al centro delle trasformazioni urbane l'interesse pubblico e la responsabilità politica, assieme a tre importanti valori: la trasparenza (che vuol dire anche la partecipazione) dei procedimenti urbanistici; il rigore nelle valutazioni di un territorio sempre più fragile e limitato; e l'equità nel trattamento di tutti cittadini, anche di chi non è interessato a concessioni edilizie, ma ha il diritto a una città vivibile.
Mi pare che l'urbanistica, in questo senso, sia uno strumento di governo necessario.
Grazie
[1] Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.
Non nascondo che raccontare dell'urbanistica bolognese è per me come raccontare di un grande maestro, quando di lui si cominciano a capire anche i lati più complessi e oscuri, le pieghe più critiche e i difetti profondi.
Così oggi, con la necessaria umiltà, racconto a voi il lato dell'urbanistica bolognese che non sta nell'immaginario collettivo, cioè non la "mitica" Bologna della tutela della collina, del Peep centro storico, delle periferie vivibili e ottimamente servite, dei piani urbanistici paradigmatici; oggi racconto invece cosa è successo a Bologna negli anni novanta, quando si è cominciato ad attuare il PRG '89, e quando, contestualmente, si è cominciato a derogarlo, fino a rendere la "città del mito urbanistico", oggettivamente, quotidianamente, critica sotto il profilo della vivibilità generale. So che qualcuno, alla fine, penserà che Bologna è ancora una città molto vivibile se la confrontiamo con altre realtà italiane: questo è vero, ma a me interessa registrare il recesso della cultura urbanistica e politica che qui si è verificato; capire e raccontare perché Bologna non produce più buone pratiche.
Ho pensato di intitolare il mio intervento "Bologna e la pianificazione dell'incertezza" per tre motivi:
1. perché lo strumento che nell'89 è stato varato, cioè la Variante Generale al PRG, è uno strumento che conteneva geneticamente l'incertezza, in particolare l'incertezza sulla dimensione fisica che la città avrebbe dovuto assumere nell'orizzonte degli anni di validità del Piano, cioè i suoi previsti "carichi urbanistici". Con ciò voglio dire che quel piano è nato con delle qualità indubbie nella versione adottata nell'86, ma alla sua approvazione - dopo tre anni - conteneva nelle norme e "nelle strategie" delle previsioni di crescita e un mix d'usi non definiti in maniera accettabile, e dunque oggettivamente non relazionati alle dinamiche sociali, demografiche ed economiche che in quegli anni di formazione del Piano già si cominciavano a presagire; per di più, quel Piano, non è riuscito a trovare nella sua attuazione la necessaria coerenza con la questione della mobilità dei cittadini e delle merci, immobilizzando di fatto, per oltre 10 anni, lo sviluppo delle tecnologie e delle reti di trasporto pubblico di massa;
2. la seconda ragione del titolo di questo mio intervento riguarda l'attività di edificazione che negli anni novanta si è svolta al di fuori del Piano Regolatore, a partire dai Programmi Integrati per arrivare a quelli di così detta Riqualificazione, fino al ricorso ordinario all'Accordo di Programma;
3. la terza ragione riguarda l'incertezza degli obiettivi dell'azione pubblica e politica in questi ultimi anni: il bilancio degli atti "urbanistici" conseguenti a questa incertezza evidenzia una chiara e pesante condizioni di crisi della città.
Capire queste tre incertezze, quella del Piano, quella del "non-Piano" e quella relativa ai loro effetti sulla città di oggi, credo sia utile a comprendere "dove va l'urbanistica" bolognese in questo difficile inizio secolo.
Bologna ieri e oggi
Bologna è una città che perde residenti ormai dal censimento del 1971: la popolazione a quel censimento era di 490.128 residenti, nel 1981 si riduce a 458.939, e oggi, secondo i dati provvisori del nuovo censimento i residenti sono meno di 370.000. Il numero di famiglie è passato da 171.233 del ’91 a 176.931 del censimento 2001 (2,33 individui/famiglia nel ’91 e 2,06 nel 2001).
Nell'intervallo intercensuario '71-'91 le abitazioni complessive aumentano da 173.222 unità a 190.154, ma quelle non abitate addirittura raddoppiano, passando da 10.637 del 1971 a 21.438 del 1991.
Nel frattempo, la sua vocazione terziaria e di città universitaria si consolida. Centomila studenti iscritti all'ateneo bolognese e un peso del tutto marginale degli addetti nell'industria, che rappresentano oggi meno del 16% degli addetti totali.
Ma la città si trasforma radicalmente anche sotto il profilo fisico: negli anni cinquanta la superficie urbanizzata del comune era di circa 1.400 ettari, negli anni ottanta aumenta fino a 3.800 ettari e oggi, nel duemila, la superficie urbanizzata di Bologna è di oltre 5.800 ettari: questo significa che in cinquant'anni il suolo urbano si è praticamente quadruplicato, e la sua incidenza sul suolo agricolo o "non urbano" (cioè la collina, le aste fluviali e i cunei periurbani) è passata dal 10% degli anni cinquanta a oltre il 40% di oggi. Ma questo significa anche che un cittadino bolognese solo vent'anni fa - negli anni '80 - aveva a disposizione circa 80 metri quadrati di suolo urbanizzato mentre oggi ne ha a disposizione oltre 150, cioè quasi il doppio.
Non c'è tempo di raccontare come queste quantità siano anche delle qualità, perché Bologna è cresciuta ma ha saputo farlo bene, almeno fino ad un certo periodo storico, almeno fino a quando è stato chiaro l'obiettivo pubblico delle trasformazioni. Qui m'interessa invece darvi la misura del problema, per dire che queste radicali trasformazioni hanno oggettivamente trasformato il ruolo della città, le sue relazioni interne ed esterne, hanno trasformato e dissolto i confini, al punto che oggi Bologna è un organismo assai più vasto e complesso di quel che i confini amministrativi racchiudono. Quei confini su cui negli anni ottanta si è costruita la Variante Generale al PRG.
1985-1989: due Piani, diversi obiettivi, una mutazione genetica
Il PRG che si forma nei primi anni ottanta viene discusso dal Consiglio Comunale nel 1984, ma l'iter viene sospeso per una "rottura" politica tra la componente Comunista e quella Socialista. Nella primavera dell'85 dalle elezioni amministrative si forma una nuova giunta, sostanzialmente monocolore, composta dal Partito Comunista, con l'appoggio esterno dei Socialdemocratici e dei Repubblicani. Nel luglio dell'anno successivo il Piano viene finalmente adottato, ma nell'autunno dello stesso anno la Giunta fu modificata, allargandosi alla compagine Socialista: negli anni che seguirono, dalle controdeduzioni all'approvazione, all'attuazione, il PRG appare drasticamente difforme, nei contenuti, nelle dimensioni e nelle strategie, dal Piano adottato nell'estate dell'86!
Esso, nella versione adottata, conteneva importanti innovazioni, ma soprattutto conteneva forti obiettivi d'interesse pubblico:
1. si proponeva la logica della trasformazione e della qualificazione degli insediamenti esistenti come scelta portante dell'intero progetto;
2. Bologna era considerata come un elemento non chiuso ma organico ad un sistema regionale, grazie anche alle esperienze del PUI e del PIC;
3. la nuova strumentazione tendeva a qualificare le periferie intermedie, tra il centro storico e le zone Peep degli anni '70;
4. si attribuiva alle Zone Integrate di Settore, cioè le grandi aree interstiziali tra la prima periferia e l'arco della tangenziale, il ruolo di spina dorsale dello sviluppo dei nuovi insediamenti residenziali e terziari, strutturando questo sviluppo attorno a un asse di trasporto pubblico di massa in sede propria. E' un queste zone che per la prima volta si potrà parlare di due temi che in futuro diverranno molto rinomati: la perequazione e la riqualificazione! (badate, entrambe all'interno di un solido processo di Piano);
5. si ribadiva la salvaguardia della collina, sulla base del piano approvato nell'82;
6. si ribadivano le scelte riguardanti la salvaguardia del centro storico, rafforzandole, individuando in esso il luogo principale per le funzioni di carattere pubblico, culturale e formativo;
7. si individuava la così detta "fascia boscata” al di sotto la tangenziale e al di sopra della ferrovia, come parte di un ecosistema urbano che faceva da cornice alla città, con le aste fluviali del Savena, del Reno e con la collina;
8. Infine, ma non ultimo, il dimensionamento del Piano, attestato su 6.500 nuovi alloggi circa, che oggi per altro risulta molto ragionevole, anche alla luce dell’aumento del numero di famiglie, pari a circa 5.700 unità, avvenuto nell’intervallo intercensuario ’91-2001.
Come ho già detto questo Piano non è quello che fu attuato a partire dal 1990. Nella fase immediatamente successiva all'adozione infatti gli equilibri politici, i rapporti di forza, si complicarono; vennero meno gli obiettivi di chi aveva pensato al piano quale strumento per il governo degli interessi pubblici. Il tutto con disastrose conseguenze:
1. si gonfiarono in modo sconsiderato gli indici edificatori, con la conseguenza di raddoppiare le previsioni urbanistiche originarie;
2. si introdussero - con serie incertezze giuridiche - meccanismi premiali sugli indici, fino al 20% in più, con l'unico scopo di velocizzare l'attuazione del Piano;
3. con un cambiamento, apparentemente innocuo, della definizione di Superficie Utile (da lorda a netta) si concessero implicitamente ulteriori possibilità edificatorie, in modo del tutto casuale, e si premiò la rendita fondiaria;
4. nelle zone investite da nuova edificazione, non si garantì il mix funzionale, perché si scardinò il principio della "percentuale minima di usi garantiti", lasciando invece al mercato la libera allocazione delle funzioni: e il mercato ha risposto con case, case, case, e un po' di terziario!
Successe insomma che l'incertezza politica di quella fase modificò incertamente anche la paternità del Piano: chi l'aveva proposto e pensato non era più chi lo stava portando avanti. Ma la stessa incertezza, in fase di controdeduzione alle osservazioni, modificò gli stessi obietti e criteri con cui si andava a rispondere alle osservazioni. Nel frattempo, sempre in quei tre anni, a complicare le cose, molte delle aree in Piano cambiarono di proprietà, innescando ulteriori aspettative di rendita, e complicando le relazioni tra il pubblico e i "nuovi" privati.
Privati che però, ben presto, cominciano ad avvertire che da quel Piano sorgono notevoli problemi: ad esempio le zone terziarie e per il produttivo avanzato sono così sovradimensionate da non incontrare la reale domanda; gli indici poi, nelle zone residenziali, sono così elevati che in alcuni comparti interstiziali, risulta oggettivamente impossibile reperire gli standard minimi di legge: con uno standard di 1 mq per ogni mq di superficie edificabile - com'è il caso Emiliano - quando l'indice di utilizzazione territoriale si avvicina a uno, è molto difficile rispettare la norma!
Gli anni del "non Piano"
Il Piano quindi fatica a decollare, per le sue stesse incertezze, e soprattutto perché esplode di fatto un conflitto tra chi gestisce le aree e chi deve gestire il Piano. Mentre nel dibattito nazionale cominciano ad apparire, per complicate questioni che qui non riassumo, i così detti "programmi complessi".
Sebbene la legge che prevede i "piani integrati" sia del 1992, le incerte vicende di questo strumento inducono la Regione Emilia-Romagna ad introdurlo solo nel 1995, con la legge numero 6 (articoli 20 e 21).
Nel luglio 1996, il Consiglio Comunale di Bologna approva un ordine del giorno intitolato “per l’attivazione di interventi in materia urbanistica” [1], con il quale la Giunta viene impegnata a definire nuove modalità di intervento, sulla base di alcuni criteri di "sostenibilità" degli interventi e in coerenza con la legge 179/92.
Nell’aprile del 1997, un anno dopo, il Consiglio delibera quindi le procedure per la promozione e l’approvazione degli interventi di recupero e riqualificazione urbana [2].
Si procede mediante un bando pubblico per la presentazione di proposte di intervento da parte di soggetti pubblici e privati, che l’Amministrazione si riserva di valutare nel merito per definirne l’ammissibilità ed arrivare alla formazione di una variante specifica al PRG che ne consenta l’attuazione. La stessa procedura si applica relativamente alla valutazione di ipotesi di dismissioni industriali, che vengono valutate in un tavolo specifico, con la partecipazione delle organizzazioni sindacali e della Conferenza metropolitana.
La procedura di valutazione si conclude nel dicembre del 1997, definendo l’ammissibilità di 23 dei 51 interventi proposti. Delle 23 proposte ammesse alla concertazione, 7 riguardano aree non edificate. 11 comparti hanno destinazione quasi esclusivamente residenziale e altri 6 hanno più della metà della superficie con medesima destinazione.
Oggi, in un momento in cui si possono apprezzare nella loro consistenza materiale i primi risultati dell’attuazione dei programmi integrati, è possibile cominciare qualche seria valutazione.
Innegabilmente, si sono ottenute alcune contropartite a favore della collettività:
- in vari casi la cessione di aree pari al doppio degli standard minimi di legge o anche di più;
- in qualche caso qualche onere di opera pubblica a carico degli attuatori;
- in qualche caso qualche alloggio convenzionato in affitto.
Disastrosi i casi invece di ridislocazione industriale nei quali le contropartite dovevano essere rappresentate da presunte garanzie occupazionali, sulla tenuta e l’efficacia delle quali l’insuccesso è completo.
L’impressione, in complesso, al di là di qualche rara eccezione, è che dalla concertazione si sia ottenuto talmente poco, che per alcune delle operazioni non si capisce in cosa consistesse l’interesse della collettività, e bisogna dire che non è stato serio accettarle. [3] Badate, sebbene presi singolarmente questi siano quasi tutti piccoli interventi, se si mettono assieme i soli programmi integrati fin qui negoziati (circa la metà del totale) e gli si aggiunge qualche piccolo accordo di programma nel frattempo sopraggiunto, la superficie della città investita da questa modalità casuale e derogativa, è di quasi 40 ettari, a cui corrispondo quasi 1.500 nuovi alloggi: questo è accaduto a partire dagli ultimi 3-4 anni; e la cifra, ripeto, è assolutamente in difetto!
Ma i risultati dei programmi integrati sono prevalentemente preoccupanti ed insoddisfacenti anche per altri osservatori [4], mi riferisco in particolare ai giudizi espressi dal direttivo regionale dell'Inu Emilia-Romagna (che com'è noto non è composto da un nucleo di estremisti); risultati insoddisfacenti per diversi aspetti (cito testualmente il documento dell'Inu diffuso qualche mese fa):
- quello della qualità ambientale, della vivibilità e salubrità della città; quasi tutti gli interventi si traducono in un aumento di residenze, e quindi di persone, in collocazioni esposte a cattiva qualità dell’aria e ad alti livelli di rumore.
- quello delle conseguenze per la città in termini di incrementi di carico urbanistico su reti infrastrutturali, tecnologiche e per la mobilità che sono rimaste quelle di prima, vecchie e insufficienti; non c’è stato un intervento di trasformazione che si sia fatto carico della realizzazione di nuove infrastrutture per la mobilità;
- infine anche i risultati formali lasciano in molti casi quanto meno perplessi: indici di edificazione ingiustificabilmente alti hanno prodotto e stanno producendo il sorgere di complessi massicci, densi, sproporzionati rispetto ai caratteri del contesto urbano in cui si collocano.
Qualche anno fa, come sapete, per la prima volta dal dopoguerra, alle elezioni amministrative la coalizione di centro destra vince, grazie al non voto meditato di molti elettori di sinistra (infatti, nello stesso giorno, 15.000 elettori scelgono di votare solo la scheda per le elezioni provinciali astenendosi dal votare per il comune), e a un risicato margine di vantaggio nei ballottaggi. E vince, probabilmente, anche perché i cittadini hanno ritenuto insostenibili i livelli di vivibilità urbana prodotti da tutte le incertezze delle precedenti amministrazioni.
S'insedia una nuova giunta, ma sul profilo urbanistico la "musica" non cambia. Anzi, peggiora. A fronte dei problemi del PRG - che ho ricordato poco fa - e a fronte dei pessimi esiti dei programmi integrati, la nuova giunta risponde con un ”avviso pubblico per la promozione di proposte di intervento per la formazione ed attuazione di programmi di riqualificazione urbana”; cioè nuova edificazione al di fuori di un disegno di Piano, sulla base di criteri di selezione ancora più deboli di quelli della giunta precedente.
Richiamando ancora le preoccupazioni recentemente espresse dall’INU regionale, quest'ultimo avviso pubblico ha aspetti fortemente critici perchè:
- non contiene nessuna vera preindividuazione delle aree da interessare con la riqualificazione urbana: anche se c’è un riferimento ad una precedente individuazione di cosiddetti “ambiti strategici” (che peraltro nell’insieme coprono buona parte della città e quindi non sono selettivi), tuttavia le proposte possono essere avanzate ovunque; la collocazione entro gli “ambiti strategici” è considerata solo uno dei criteri di “priorità”;
- non contiene alcun criterio di esclusione, a parte le ovvie esclusioni di legge e le zone CVT (Zone per verde urbano e territoriale);
- contiene un elenco di “criteri di priorità”, che di per sè non produce alcun effetto selettivo, non venendo definito un tetto o un limite all’accettazione: le proposte infatti potrebbero essere accolte anche tutte, fino a quella che nella scala delle “priorità” risultasse ultima;
- non contiene alcun limite massimo di valorizzazione del suolo, in termini di massima densità edilizia, lasciando così aperta la possibilità di ulteriori operazioni di addensamento indiscriminato rispetto alle caratteristiche del contesto e alla capacità di carico delle infrastrutture urbane;
- non contiene nessuna effettiva individuazione di obiettivi, a parte quelli desumibili dai generici “criteri di priorità”.
- viene inoltre abbandonata anche la richiesta di un raddoppio delle aree da cedere come standard (che era presente nel bando precedente del 1997), preferendo viceversa la monetizzazione del 50% del plusvalore economico generato.
Insomma la strada dell'incertezza prosegue.
La nuova legge urbanistica Emiliana prevede una nuova strumentazione per il governo del territorio, e il Comune, sulla base anche di questo rinnovamento normativo, si è impegnato a redigere un nuovo Piano Strutturale, ma ha chiarito da subito che lo intendeva più strategico che strutturale: come dire, non aspettatevi scelte di struttura, ma politiche flessibili. Di questo Piano, tuttavia, non se ne sa più nulla, ma si presagisce il peggio: cioè che sia tutto fermo!
Ma quel che è peggio, è che in città si sta diffondendo "la voce" che il Piano è "morto", cioè non esiste più (quello vigente), non serve più, e che la strada per lo sviluppo sia la contrattazione diretta tra chi possiede un area e chi vuole trasformarla. E l'assessore all'urbanistica, nel gennaio dell'anno scorso, in un documento di indirizzo dichiarava (cito testualmente):
[della pianificazione urbanistica] tre caratteri negativi saltano all’occhio: l’autoritarismo, la rigidità, l’inefficacia. (..) All'autoritarismo va sostituito il contratto; alla rigidità ed alla gerarchia va sostituita la pluralità e la parzialità dei progetti;
A questo atteggiamento rispondo che l'autoritarismo è per chi non ama la democrazia; la gerarchia e l'inefficacia sono proprie di chi non sa governare: il Piano non è il governo, il Piano è uno strumento per il governo, e chi non perde l'occasione per indicarlo come "rigido e inutile", nasconde che ha politicamente bisogno di derogarlo, cioè nasconde la completa assenza di obiettivi pubblici nell'azione di governo.
Spero, con questo intervento, di aver contribuito a chiarire "dove va l'urbanistica a Bologna". Dico solo, per chiudere, che per combattere questa recessione culturale a Bologna è nata una esperienza, di cui faccio orgogliosamente parte
La Compagnia dei Celestini è un gruppo di persone, cittadini bolognesi e non solo, che si è incontrato circa un anno e mezzo fa, rispondendo all’appello di una decina di urbanisti preoccupati per l’assenza di dibattito sulle politiche urbanistiche che stavano e stanno trasformando la nostra città. Denunciamo l'assenza di obiettivi politici per una città pubblica che è in via di progressiva scomparsa, una città nella quale gli spazi fisici per la qualità della vita dei cittadini e le occasioni per la partecipazione alle scelte sulla trasformazione urbana sono costantemente negate.
www.celestini.it
grazie
[1] Comune di Bologna, consiglio comunale, O.d.G. n. 221 del 22.07.1996
[2] Comune di Bologna, consiglio comunale, O.d.G. n. 70 del 11.04.1997.
[3] Rudi Fallaci, Le “ragioni di scambio” nell’attuazione del PRG di Bologna, in Dal piano regolatore al piano regalatore, a cura della Compagnia dei Celestini, 2002, Bologna.
[4] i commenti che seguono sono tratti dalla relazione introduttiva presentata dal Consiglio Direttivo Regionale dell’Istituto di Urbanistica al convegno “Urbanistica a Bologna: situazioni e prospettive”, organizzato a Bologna dall’INU Emilia-Romagna il 10 maggio 2002.