ROMA — E adesso tocca alla Lega. Nello sport nazionale di “tiro al Ponte di Messina” , il Carroccio arriva buon ultimo, ma è in ottima compagnia. Ieri tre pagine del quotidiano “la Padania” hanno segnato l'apertura ufficiale della campagna contro l'opera definita dal premier Silvio Berlusconi “epocale” e dal ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, “degna dell'Impero romano” . Come sempre lapidario l'intervento del ministro della Giustizia, Roberto Castelli: “Se il Ponte sullo Stretto deve essere il pretesto per poi non costruire in Padania, non ci siamo proprio” e ancora: “Se per Calabria e Sicilia l'opera è importante, se la facciano” . A corredo, tanti pareri, tra cui quello del recordman d'immersione, Enzo Maiorca: “Stiamo andando verso il tramonto della civiltà dell'etica e dell'estetica, e la costruzione del Ponte accelererà la fine di questa civiltà” .
Niente di nuovo sotto il sole: in trent'anni di onorata “carriera” il Ponte di nemici ne ha collezionati in quantità. Sarà perché è un'opera che per il suo valore simbolico ha tentato tutti i governi, sarà perché nessuno finora l'ha spuntata, sarà perché in fondo sono meno di 3 chilometri e mezzo, ma qualcuno che a un certo punto organizza una campagna “contro” , c'è sempre.
Oggi è la Lega, ieri era la sinistra della sinistra. Il nemico spesso sta nella maggioranza di governo che ha partorito il progetto, perché solo così è sicuro che la sua opposizione, prima o poi, lo farà fallire.
E si ricomincia daccapo.
Ci sono i catastrofisti, come l'ex sottosegretario dei Verdi, Gianni Mattioli: “Il Ponte crollerà al primo terremoto” . E i filosofici, come il “governatore della Campania, Antonio Bassolino: “Bisogna intendersi sullo stesso concetto di opera pubblica. E non è detto che il Ponte lo sia” .
Ma soprattutto ci sono gli “alternativisti” , quelli come Vittorio Sgarbi per cui “è senz'altro più importante e culturalmente più valido ricostruire la Torre di Pavia che destinare i soldi al Ponte” .
In mezzo c'è di tutto.
Leader carismatici come Marco Pannella, per il quale “il Ponte è un esempio di sviluppo autodistruttivo e un simbolo di una sottocultura missina e palazzinara” . O come Sergio Cofferati che, da capo del maggior sindacato definì il progetto “inutil e e pericoloso: il quinto centro siderurgico del Duemila” .
E poi economisti riconosciuti come Luigi Spaventa per cui il Ponte è “l'ultima presa in giro sullo sviluppo del Mezzogiorno” .
Un politologo come Giovanni Sartori arrivò a scrivere sul Corriere : “Il governo punta su opere faraoniche e non si cura di dissetare persone e terre. Intanto al Nord si stanno liquefacendo i ghiacciai” . Toni più catastrofici di quelli adoperati da un documento della Cei ( Conferenza episcopale) che chiedeva al governo di turno di “non porre l'attenzione soltanto su grandi opere” .
Il tema non poteva sfuggire a un comico attento e irriverente come Beppe Grillo: “Il Ponte sullo Stretto — argomentava — serve solo ai calabresi e ai siciliani. Che poi si odiano e per questo la natura li ha tenuti finora separati” . Ma una vena involontariamente comica dimostrava nel 1994 anche l'allora sottosegretario ai Trasporti, Gianfranco Miccichè ( Forza Italia), che al posto del Ponte, troppo costoso, proponeva le “acquastrade” : “enormi catamarani per trasportare 100 autovetture e 400 persone da Napoli a Palermo” .
La palma della costanza va senz'altro ai Verdi: epica ( e vittoriosa) la battaglia del ministro dell'Ambiente, Edo Ronchi, con il fortissimo sostegno del leader ambientalista Ermete Realacci, contro Antonio Di Pietro, titolare dei Lavori pubblici nel governo Prodi. Ancora l'anno scorso con un blitz all'Europarlamento, verdi, socialisti, comunisti e liberali riuscirono a far cancellare il Ponte dalla lista delle opere prioritarie Ue. Un'operazione cui il governo Berlusconi ha dovuto porre rimedio. Ma di dubbi ne avanzano sempre. Per questo nel 2000 il Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, chiese chiarezza: “Il Ponte sullo Stretto non può essere una favola senza fine: bisogna scegliere” .
Tre chilometri di asfalto che sfigurerebbero uno degli ecosistemi più belli e pregiati d'Italia e sotterrerebbero la possibilità di dare al Mezzogiorno un sistema di trasporti efficiente e pulito. Questo in sintesi sarebbe il Ponte sullo Stretto di Messina, questa la ragione per cui Legambiente, Italia Nostra e Wwf, insieme a molte altre associazioni, promuovono a Messina oggi 12 marzo (l'appuntamento è alle 14 davanti alla Stazione centrale) una manifestazione nazionale per denunciare agli italiani, e in primo luogo ai siciliani e ai calabresi, l'insensatezza di questa opera “tormentone”.
Un'infrastruttura, appunto, insensata. Insensata per l'impatto ambientale e territoriale che determinerebbe su un'area come lo Stretto considerata a livello internazionale di primario interesse naturalistico; insensata perché insisterebbe su una delle zone a più elevato rischio sismico (e anche a più alta ventosità) dell'intero Mediterraneo; insensata, infine, se si confrontano gli oltre 5 miliardi di euro preventivati per la sua realizzazione con la cronica indisponibilità di risorse per affrontare i drammatici problemi di mobilità del Mezzogiorno. Oggi per andare in treno da Palermo a Messina (poco più di 200 chilometri) occorrono almeno tre ore di viaggio, per raggiungere Potenza da Reggio Calabria ce ne vogliono cinque o sei, e su 1450 chilometri di ferrovie siciliane solo 105 sono a doppio binario e quasi la metà non è elettrificata. Se a questi dati si aggiunge il pessimo stato di manutenzione delle reti sia stradali che ferroviarie e la qualità più che scadente dei servizi di trasporto pubblico, si ottiene una fotografia attendibile del collasso della mobilità nel Sud: rispetto a una situazione così degradata, che costituisce oltretutto uno degli ostacoli principali sulla via del rilancio economico delle regioni meridionali, il Ponte sullo Stretto non migliorerebbe le cose di una virgola, anzi le peggiorerebbe assorbendo molti miliardi di soldi pubblici. E qui veniamo all'altro punto dolente. Per anni i principali sponsor del Ponte hanno ripetuto fino alla noia che l'opera non sarebbe costata una lira allo Stato. Ora la verità è venuta a galla: l'ipotesi dell'investimento privato integrale non è praticabile, e almeno metà dei 5 o più miliardi di euro necessari a costruire il Ponte (lievitazioni in corso d'opera a parte) proverrà dalle casse pubbliche sotto forma di aumento di capitale garantito da Fintecna, Anas e Ferrovie, della Società Stretto di Messina. Inoltre, le Ferrovie si accolleranno la bolletta più alta, obbligate dal Governo a pagare un canone annuo di 100 milioni di euro (che col passare del tempo diverrà sempre più caro) come “pedaggio” forfetario per il passaggio dei propri treni sul Ponte. Complessivamente le Ferrovie dovrebbero così sborsare circa 4 miliardi di euro in 30 anni e, come non bastasse, cui si deve aggiungere il costo di tutte le opere di collegamento, interamente a loro carico, e la rinuncia a 38 milioni di euro l'anno che ricevono oggi per svolgere il servizio di traghettamento dei convogli (e che saranno intascate dalla Società Ponte sullo Stretto di Messina). Che bell'affare, eh? Come faranno le Ferrovie, se questo scenario si dovesse davvero realizzare, a investire sul resto della rete, sul completamento del raddoppio delle linee ferroviarie Palermo-Messina e Messina-Catania ad esempio, è davvero difficile da immaginare. E come farebbe il Governo a giustificare questi aiuti pubblici di fronte all'Europa, che non li consente?
Un altro “leitmotiv” molto caro alla “lobby del Ponte” è che l'opera porterebbe molto lavoro: anche in questo caso, però, i dati mostrano una realtà tutta diversa. Con l'apertura dei cantieri arriverebbero, è vero, alcune migliaia di posti di lavoro “a tempo”, ma quasi altrettanti se ne perderebbero stabilmente nel settore dei collegamenti via mare, senza contare che a parità d'investimento la costruzione di opere pubbliche ex-novo produce un vantaggio occupazionale molto più basso che non la manutenzione e l'ammodernamento delle infrastrutture esistenti.
Oggi queste realtà sono diventate evidenti. Oggi il sì al Ponte è tra i simboli più efficaci di scelte fallimentari nel settore delle infrastrutture, non sostenute da alcuna seria e intellegibile politica dei trasporti e che rendono sempre più forte il predominio della mobilità su gomma, allontanandoci sia dall'Europa (non c'è in nessun altro grande Paese europeo un tale predominio del trasporto su gomma) e sia dall'approdo a sistemi di mobilità più sostenibili (senza un forte rilancio delle ferrovie, l'Italia non potrà conseguire quella sensibile riduzione dei consumi energetici indispensabile per centrare gli obiettivi di stabilizzazione del clima che ci impone il Protocollo di Kyoto).
Realizzare il Ponte sarebbe una decisione inconciliabile con l'obiettivo, che tutti a parole indicano come prioritario, di rendere il nostro Paese, e il Mezzogiorno in particolare, più moderni e più efficienti. Quest'opera che qualcuno ancora agita come una sorta di panacea per i mali del Sud, non proietterebbe la Sicilia e la Calabria verso il terzo millennio, semmai sottrarrebbe le risorse agli investimenti veramente utili per queste due regioni e le inchioderebbe a perpetuare definitivamente la peggiore “italietta” del passato.
Un grande spazio verde nel centro di Caserta al posto di un asse viario, altri 200.000 metri cubi di cemento (il progetto del Comune). Questa è l’alternativa che Italia Nostra propone per recuperare l’ex area militare che si chiama Macrico. La novità è che questa volta l’alternativa è nelle mani dei cittadini. Il comitato Macrico Verde - nato su impulso dell’associazione che compie nel 2005 i suoi primi 50 anni - ha lanciato l’idea di una campagna per l’acquisto dell’area: ciascun cittadino versa 50 euro per comprare un metro quadrato (sono 330mila) e alla fine ciò che si realizzerà sarà il Parco dei parchi: un Orto Botanico “vivo” insieme all’Università, uno spazio per il festival internazionale dei giardini (quelli della Reggia, a pochi passi di distanza, accolgono un milione di visitatori l’anno); un’area dedicata ai giovani e lo sport, una agli anziani ... e così via, in una città dove non c’è nessun parco pubblico e senza costruire neppure un metro cubo di cemento. La parola d’ordine della campagna è: “50 euro per rimanere al verde”.
"MACRICO" (Magazzino centrale ricambi mezzi corazzati: ci sembra stupendo cambiare radicalmente la destinazione dell’area!) è stata recentemente dismessa dal Ministero della Difesa. Lo spazio è ora di proprietà dell'Istituto Diocesano di Sostentamento del Clero e allo stato attuale si presenta principalmente coperto da alberi e piante pregiate e occupato in parte da costruzioni in muratura e in parte da capannoni in lamiera, con presenza di amianto.
Macrico presenta un interesse anche dal punto di vista storico-artistico: si tratta infatti del cosiddetto "Campo di Marte", zona destinata alle esercitazioni militari dell'esercito borbonico, già pertinenza dell'antico edificio vescovile (XVII sec.), utilizzato nel dopoguerra dalle Forze Armate e oggi in stato di totale abbandono.
L’amministrazione comunale vorrebbe costruire un asse stradale sotterraneo al Macrico e nuovi edifici per circa 200.000 metri cubi. La realizzazione e la gestione successiva di queste opere (pari a 113 milioni di euro) sarebbero affidate a una società di trasformazione urbana pubblico-privata. Caserta è una città in bilico tra salvezza e dannazione: con il Parco guadagnerebbe bellezza, prestigio, coesione sociale e identità, con altro cemento la sua sorte è segnata.
Dopo aver raccolto le prime 10mila firme tra i casertani contrari alla cementificazione, Italia Nostra, con il comitato “Macrico verde”, ha quindi lanciato la sottoscrizione per acquistare l’area e donarla alla società civile per un Parco dei Parchi. Partecipate tutti!
Il Ponte sarà pagato dalle Ferrovie
Il Ponte sullo Stretto sarà costruito solo con soldi pubblici. I privati non rischieranno neppure un euro. E in questa situazione, un ruolo fondamentale lo giocheranno le Ferrovie dello Stato che, a causa di una convenzione siglata tra Governo e società Stretto di Messina, saranno costrette a svuotare le proprie casse per finanziare la mega opera: un investimento da oltre quattro miliardi di euro. Soldi sottratti ad altre – indispensabili – opere infrastrutturali per il Mezzogiorno.
Per questo motivo è stata organizzata una grande manifestazione nazionale che si terrà l’11 e il 12 marzo e che vedrà la partecipazione dei vertici nazionali del movimento contro il ponte. Il primo giorno davanti a diverse stazioni calabresi, il secondo con un doppio appuntamento: una manifestazione, al mattino, a Reggio Calabria, e una, nel pomeriggio, a Messina.
L’accordo tra Governo e società Stretto di Messina è la dimostrazione che “è il complessivo impianto economico-finanziario a non reggere, un vero e proprio colabrodo- afferma di Michele Pansera di Italia nostra Calabria -“Del resto- sono stati gli stessi advisor, a suo tempo nominati dal ministero, ad affermare che con il ponte non vi saranno significative modificazioni alle tendenze di traffico esistenti. Nella valutazione economica manca inoltre una stima credibile sulla concorrenza dei traghetti, proprio il motivo che ha determinato la crisi finanziaria del tunnel sotto la Manica”. Pansera aggiunge un elemento interessante: “La poca disponibilità a partecipare all’investimento da parte dei privati trova conferma nelle “condizioni di convenienza” improponibili rilevate dalla stessa commissione del ministero delle Infrastrutture coordinata da Gaetano Fontana già a settembre del 2001”.
La Convenzione che riguarda le ferrovie è un’ulteriore prova di ciò. “Pesantissima e insopportabile è la tassa che le Ferrovie dello Stato dovranno pagare – sottolinea Nuccio Barillà di Legambiente - per far passare i treni sul ponte: una cifra che da cento milioni di euro l’anno crescerà gradualmente in trent’anni. Con un costo complessivo di 4 miliardi di euro, ottomila miliardi di vecchie lire. Ma c’è di più: la convenzione stabilisce che, entro il 31 dicembre 2011, Rfi dovrà finanziare e realizzare tre opere ritenute “essenziali” di collegamento al ponte”. Si tratta del collegamento con Messina e la costruzione di una nuova stazione, lo spostamento della linea tirrenica in corrispondenza di Cannitello (perché lì andrebbero le torri del ponte) e un nuovo collegamento in galleria con Villa San Giovanni per recuperare il dislivello tra la linea storica posta vicina al mare e il ponte, a 70 metri di altezza. Beatrice Barillaro, del Wwf, sottolinea le procedure illegittime seguite dalla Commissione di Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente, con particolare riferimento per l’omissione della valutazione d’incidenza sulla zona di protezione speciale comunitaria dove dovrebbe sorgere il pilone del Ponte sul versante siciliano. Addirittura – afferma la Barillaro – il ministero non ci ha consentito l’accesso ai documenti, negandoci il fondamentale diritto all’informazione e impedendoci di presentare ulteriori osservazioni”.
Alla luce di tutto ciò, il comitato promotore dell’iniziativa lancia un appello a tutte le personalità del mondo della cultura, dell’informazione, dell’economia e della politica, per chiedere “di riaprire un confronto sugli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che parta dalla rinuncia al Ponte e metta al centro le priorità che riguardano le ferrovie, i porti, la sicurezza stradale, per avviare uno sviluppo virtuoso che valorizzi le risorse territoriali e crei occupazione duratura”
28 febbraio 2005
TEMPIO.Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, ha informato ieri con una lettera, il Parlamento della applicazione del segreto di Stato su tutti i lavori compiuti alla Certosa di Porto Rotondo. La comunicazione era già stata trasmessa con plico riservato alla magistratura gallurese. Il procuratore della Repubblica Valerio Cicalò, che coordina le indagini sui presunti abusi edilizi di Punta Volpe, aveva dato un termine più che congruo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La scadenza era stata fissata per il 12 gennaio, termine entro il quale dalla presidenza del Consiglio dovevano comunicare, ufficialmente, l’applicazione del segreto di Stato sui lavori compiuti nei 50 ettari della Certosa.
La comunicazione fa scattare ora la seconda fase giudiziaria. Quella del ricorso alla corte Costituzionale per il conflitto di attribuzione dei poteri, un atto che era stato già annunciato dalla procura della Repubblica gallurese. «Saranno gli avvocati dello Stato a decidere quando inoltrare il ricorso» dicono alla Procura di Tempio i cui magistrati, nei mesi scorsi, avevano inutilmente cercato di compiere due soppralluoghi alla Certosa.
«Il 5 novembre il procuratore della Repubblica di Tempio ha chiesto la conferma del segreto di Stato sull’area di Punta Volpe - dice la lettera di Gianni Letta -. Delicati profili di opportunità, legati alla circostanza che la questione attiene a provvedimenti concernenti misure per la protezione e sicurezza del Presidente del Consiglio dei ministri, hanno indotto lo stesso ad affidare allo scrivente ogni valutazione sulla ricorrenza del segreto di Stato. Confermo il segreto di Stato posto nel corso del procedimento penale n. 2550/04 in relazione a due decreti di “ispezione dei luoghi”.La conferma è motivata dalla inaccessibilità dell’area in esame come previsto dal decreto del ministro dell’interno n. 1004/110-1158 del 6 maggio 2004. Con tale decreto, che si colloca nella fase attuativa della pianificazione nazionale antiterrorismo predisposta dal ministro stesso, è stata individuata l’area in oggetto quale sede alternativa di massima sicurezza».
Il governo ribadisce dunque il segreto di Stato sui lavori alla Certosa, la tenuta di Silvio Berlusconi in Sardegna. La lettera è stata letta nell’aula di Montecitorio dopo la mezzanotte di ieri dal presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. E le reazioni politiche non si sono fatte attendere. «Che significa individuare la villa sul mare del dottor Berlusconi come “sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio” - dice Massimo Brutti, vicepresidente dei Ds a Palazzo Madama -, forse, in caso di necessità o di pericolo attuale e concreto, sarebbe questo il luogo destinato ad ospitare il presidente e il suo staff, per proteggere la sua vita e la continuità dell’azione di governo? Se è così, la soluzione è tragicamente inadeguata. Il rischio dovrebbe essere gravissimo, atto a superare le difese normalmente apprestate per palazzo Chigi e per ogni altra sede istituzionale. Ma quale sicurezza può essere garantita se l’ubicazione del rifugio segreto, previsto, per l’esecutivo è in realtà nota a tutti? Villa Certosa è in una zona destinata alle vacanze, nella quale si suppone che la copertura radar e la protezione militare non sia ai massimi livelli. Nonostante la solennità dei proclami, mancano ragioni istituzionali credibili per questo provvedimento, che ha l’effetto concreto di nascondere lavori di interesse privato, realizzati in contrasto con le leggi vigenti. Su questi lavori è lo stesso proprietario della villa che oppone all’autorità giudiziaria il segreto di Stato. Un bell’esempio di rispetto delle regole e dei beni pubblici». Più sarcastico e pesante il giudizio di Ermete Realacci, della Margherita, il quale sostiene che «neanche a fine anno ci viene risparmiato il ridicolo.
Evidentemente il grave pericolo terroristico rappresentato dai magistrati sardi ha reso indispensabile l’imposizione del segreto sui lavori disinvoltamente eseguiti a Villa Certosa». Per il presidente dei Verdi Pecoraro Scanio si tratta «non di un segreto, ma siamo di fronte all’abusivismo di Stato. Berlusconi ricorre al segreto di stato per nascondere il suo abusivismo privato. E’ scandaloso ed è un pessimo esempio per i cittadini». Il segreto di Stato per i lavori a Villa Certosa - dall’approdo a mare con tunnel al laghetto artificiale fino all’anfiteatro - verrà valutato anche dal Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza. Lo dice il presidente Enzo Bianco.
La descrizione illusrtata della Villa del Cactus
Villa Certosa è come un blob, che cresce alimentandosi della violazione delle più elementari norme del diritto. Fino a ieri si pensava che solo dentro i confini della dimora berlusconiana di Punta Lada, a Porto Rotondo, valesse il segreto di stato che impedisce ai magistrati della procura della Repubblica di Tempio di oltrepassare i cancelli per verificare il rispetto dei vincoli paesagggistici e delle leggi sull'abusivismo edilizio. Da ieri si sa che tutte le proprietà del premier, in Sardegna e fuori dall'isola, sono obiettivi a rischio di attacco terroristico e sono soggette a segreto di stato. Così è scritto nei due decreti, siglati dal ministro dell'Interno Beppe Pisanu il 6 maggio 2004, ora consegnati al Copaco, l'organismo che dovrà pronunciarsi sulla fondatezza del segreto di stato opposto dalla presidenza del consiglio alla procura di Tempio. In Sardegna Berlusconi non possiede solo la Certosa. C'è anche Villa Stephanie, una grande casa con piscina e parco a poche centinaia di metri dalla dimora principale. E' una dépendance che viene utilizzata solo ad agosto per ospitare le guardie del corpo e gli addetti alla sicurezza dei capi di stato e dei leader che il presidente del consiglio convoca per i summit nella sua residenza estiva. Poco distante c'è la sontuosa villa (seicento metri quadrati di piscina) di Matilde Berlusconi, la sorella di Silvio. E sempre a Punta Lada sorgono il Monastero, la dimora che Paolo Berlusconi ha acquistato qualche anno fa, e Villa Veronica, destinata, invece, alla mamma del Cavaliere.
Ma oltre le case, Berlusconi ha in Sardegna anche molti terreni. E' da almeno quattro anni che la società immobiliare Idra, cassaforte nella quale sono custodite tutte le proprietà del presidente del consiglio (comprese quelle di Arcore e di Macherio), acquista a Punta Lada appezzamenti che confinano con Villa Certosa. Una vera e propria strategia di espansione fondiaria, con un esborso complessivo, ad oggi, di 23,9 milioni di euro. Una zona di rispetto intorno a Villa Certosa la cui esistenza viene giustificata, dai manager di Idra, con esigenze di tutela della privacy di Berlusconi. Alla privacy si sono aggiunti i motivi di sicurezza di cui parlano i decreti del Viminale. Decreti sui quali c'è stato di recente un braccio di ferro tra maggioranza ed opposizione nel Copaco. Per i membri della Casa delle libertà, i documenti già in possesso del Comitato erano sufficienti a giudicare fondato il segreto di stato. L'opposizione aveva invece chiesto di conoscere anche i decreti del ministero dell'interno.
Il presidente del Copaco, Enzo Bianco, si era rivolto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega ai servizi segreti, Gianni Letta, per chiedere la visione dei documenti firmati da Pisanu. In un primo momento, il 5 febbraio, Letta aveva risposto a Bianco con un no secco: «La richiesta è irrituale irricevibile». Poi però un'altra lettera di Letta a Bianco, dopo che i due si era sentiti, aveva annunciato l'accoglimento della richiesta. Il primo dei due decreti contiene l'approvazione del «Piano nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica»; all'interno di questo documento c'è anche il «Piano di sicurezza per Villa Certosa», che resta però secretato. L'altro decreto fa riferimento al terzo capitolo del «Piano nazionale» e indica che tutte le residenze private del presidente del Consiglio e le loro pertinenze, nonché quelle dei familiari e dei suoi collaboratori, sono sottoposte a misure di sicurezza. Per tutte è imposta la massima segretezza ed è disposta la totale interdizione all'accesso, salvo autorizzazione del premier. Si sottolinea poi l'urgenza di individuare una «sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumità del presidente del consiglio e per la continuità dell'azione di governo» e, su proposta di Pisanu, viene indicata Villa Certosa. Sia la sede di massima sicurezza (Villa Certosa), sia le residenze private del premier e dei suoi familiari, dice il decreto, sono soggette alla legge 801 del 1977. E' la legge che disciplina, tra l'altro, il segreto di stato. Ciò significa che, così com'è stato fatto per la Certosa, anche per le altre residenze del premier e per quelle dei suoi familiari può essere opposto il segreto di stato ad un'eventuale richiesta di ispezione da parte di una procura della Repubblica.
Tra le reazioni, quella del presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio: «Siamo oltre oltre ogni limite di decenza. Si ricorre al segreto di stato per dare una parvenza di legalità ai lavori abusivi eseguiti in una residenza privata. Un atteggiamento che tradisce l'arroganza del premier, ormai abituato a considerare l'Italia una sua proprietà privata».
L'auditorium di Oscar Niemeyer si farà. Lo ha deciso il Consiglio di Stato, che l'altro ieri ha annullato la sentenza 1792 del Tar della Campania che aveva bocciato il progetto. La sentenza non è stata ancora depositata, ma le indiscrezioni sono subito trapelate. Saremmo dunque alla conclusione di una vicenda che ha tenuto col fiato sospeso mezza Italia, divisa sull'opportunità o meno di piazzare la nuova struttura a Ravello, perla della Costiera Amalfitana.
« Provo grande soddisfazione — dice il sindaco di Ravello, Secondo Amalfitano — perché è la vittoria di tutto un paese che ha deciso di investire in cultura e in turismo di qualità. In questa avventura sono stato sostenuto da tutte le realtà sovracomunali, e credo che non ci siano sconfitti, perché ha vinto l'interesse pubblico. Un grande apprezzamento va al lavoro dei miei avvocati: Antonio Brancaccio, Lorenzo Lentini e Ruggerio Musio » .
Al primo posto fra gli enti sovracomunali di cui parla il sindaco c'è ovviamente la Regione Campania, che approvò il finanziamento dell'auditorium. Positivo è dunque il commento del governatore Antonio Bassolino: « La sentenza rappresenta un importante riconoscimento per coloro che si sono battuti affinché Ravello avesse un grande auditorium e un'opera architettonica di grande qualità, adeguata alle bellezze e alle grandi tradizioni culturali e musicali di Ravello. Adesso occorre rimboccarsi le maniche e recuperare il tempo perduto » .
Sul fronte opposto, Italia Nostra annuncia ancora battaglie. « È incredibile quello che è successo al Consiglio di Stato » , dice la presidente Desideria Pisolini, « dopo che si era vinto il ricorso al Tar e che era stata decisa una sospensiva. Resta il fatto che la costruzione dell'auditorium è illegale; cercheremo con ogni strumento di bloccare quest'opera inutile che può soltanto deturpare uno dei più bei paesaggi del mondo senza aggiungere nulla all'amore per la musica. Italia Nostra ha sempre sostenuto che ci sono zone in Campania che hanno bisogno di opere di riqualificazione, ed è lì che bisognerebbe pensare a darsi da fare con l'architettura contemporanea » .
Il fronte ambientalista, com'è noto, è peraltro spaccato. Di tutt'altro tono è infatti la valutazione di Legambiente, che attraverso Ermete Realacci, suo presidente onorario, plaude alla caduta di « ostruzionismi miopi e preconcetti » . « Sapere che l'auditorium ha compiuto un passo decisivo verso la realizzazione » , dice Realacci, « è una cosa che deve far gioire tutti » .
La storia giudiziaria dell'auditorium parte il 4 agosto 2003, quando la conferenza di servizi approva il progetto del celebre architetto brasiliano, che aveva già consegnato uno schizzo al sociologo Domenico De Masi, presidente della Fondazione Ravello, nel settembre 2000. Per l'opera viene previsto un Pit che la finanzia per circa 18,5 miliardi di lire. Ma i proprietari del terreno su cui dovrebbe sorgere l'auditorium presentano un ricorso supportato da una perizia firmata da Vezio De Lucia. Arrivano poi i ricorsi di Italia Nostra e Wwf, mentre Legambiente difende l'opera. Si combatte a colpi di perizie, carte bollate, appelli d'intellettuali. Davanti al Tar di Salerno si ritirano prima il Wwf, poi alcuni dei proprietari dei fondi. Resta solo Italia Nostra, mentre i fratelli Palumbo, proprietari di metà dei terreni interessati, ribadiranno il loro no. Il Tar dà loro ragione perché il piano paesistico che vincola la Costiera non prevederebbe la costruzione di un auditorium in quell'area, bensì attrezzature di quartiere, per cui sarebbe stata necessaria una variante. Quella variante è stata posta al vaglio della Regione; ma nel frattempo è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato.
Un conflitto istituzionale su Villa Certosa era già aperto. E' quello tra la procura di Tempio Pausania, che indaga su eventuali abusi edilizi e reati ambientali nella residenza estiva di Berlusconi, e la presidenza del consiglio dei ministri, che per impedire un'ispezione del corpo forestale delegato dal pm ha opposto formalmente il segreto di stato. Dovrà occuparsene la corte costituzionale davanti alla quale, con ricorso depositato il 15 gennaio, la procura di Tempio ha sollevato per l'appunto un conflitto d'attribuzione tra poteri dello stato. Ma ora il segreto raddoppia: il comitato di controllo sui servizi segreti (Copaco), secondo le destre al governo, non può neanche conoscere i decreti firmati il 6 maggio dal ministro dell'interno Giuseppe Pisanu che giustificherebbero l'opposizione del segreto, confermata il 23 dicembre ai magistrati da una notarella di Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega per i servizi segreti. E' un fatto senza precedenti. Dal `77, anno della legge 801 che riformò i servizi, il segreto di stato è stato opposto soltanto dieci volte e sempre su questioni di rilievo, dalle vicende dell'Eni ai traffici con il Medio Oriente e alle stragi. E il comitato, che comunque non potrebbe togliere il segreto ma solo riferire al parlamento che lo ritiene illegittimo (purché deliberi a maggioranza assoluta, almeno cinque su otto), non ha mai censurato i governi.
Nella documentazione fornita al Copaco, che ieri ha discusso di Villa Certosa, i decreti non ci sono. Gli esponenti dell'opposizione, perciò, l'hanno fatto notare, proponendo una formale richiesta a Palazzo Chigi. I quattro che rappresentano il Polo, però, si erano presentati agguerritissimi: no e poi no, nessuna richiesta di documenti, hanno risposto Pierfrancesco Gamba di An e Pasquale Giuliano di Forza Italia. Insieme a Fabrizio Cicchitto, vicecordinatore di FI, non sembrano riconoscono alcun ruolo al comitato. Ancora ieri sera sostenevano di non capire la polemica: «Il segreto di stato è fondato, altri documenti non aggiungerebbero nulla - ribadivano Cicchitto e soci -Villa Certosa è una dimora abituale del premier e va protetta dal terrorismo. Nessuna procura può far saltare il piano di sicurezza, noi non siamo comandati dalle procure». Massimo Brutti, Ds, non è d'accordo: «Si crea un precedente pericoloso in termini di limitazione dei poteri del comitato, in futuro potrà accadere anche su questioni più delicate. Intendiamo comunque verificare se, come dichiarato dal sottosegretario Letta, la residenza usata per le vacanze dal premier possa essere validamente sede alternativa di governo, idonea a garantirne la continuità nei momenti di pericolo». Gigi Malabarba, capogruppo di Rifondazione in senato e membro del Copaco, aggiunge: «Si vuole garantire in ogni occasione l'impunità del premier, in questo caso attraverso una sorta di extraterritorialità per la sede di vacanze».
Il comitato è paritetico, quattro posti alla maggioranza e quattro all'opposizione, compreso il presidente Enzo Bianco della Margherita, ex ministro dell'interno dell'Ulivo, che in genere si sbilancia poco ma stavolta vuole andare fino in fondo. I documenti li chiederà da solo, ha annunciato: vedremo se Berlusconi e Letta li negheranno di nuovo. In 27 anni il Copaco non si era mai diviso a metà, al massimo c'era stata una spaccatura tre contro cinque nell'85 sul segreto opposto dal Sismi e da Bettino Craxi sull'intrigo tra servizi, P2 e terroristi neri che stava bloccando le indagini sulla strage del treno Italicus (1974): il governo la spuntò anche quella volta, solo dieci anni dopo si potè accedere ai documenti, ma Craxi dovette andare di persona a dare spiegazioni al comitato. Qui, invece, pur trattandosi di lavori in corso in una villa privata, ai parlamentari non arrivano neanche gli atti del governo, peraltro classificati al livello «segreto» (neppure «segretissimo» come tanti altri atti che arrivano al Copaco) e già mostrati, purché non facessero copie, ai pm sardi. La residenza berlusconiana, del resto, compare anche in decine di foto pubblicate in un libro in commercio, Ville esclusive & Resorts (Archideos Milano) dedicato all'opera dell'architetto Gianni Gaimondi, quindi è persino bizzarro che il decreto di Pisanu abbia bloccato i fotografi del corpo forestale «allo scopo di preservare la conoscibilità dei luoghi».
Il ricorso dei magistrati alla corte, sottoscritto dai professori Alessandro Pace e Pietro Ciarlo, solleva anche quest'ultima obiezione. E soprattutto osserva che il segreto di stato può essere opposto a testimonianze e sequestri di atti ma non alle ispezioni, che non può riguardare luoghi realizzando così una sorta di extraterritorialità e di impunità penale in loco, che Villa Certosa non è una sede istituzionale ma un'area privata concessa in affitto al premier e chela legge 801 del `77 tutela le istituzioni costituzionali e non le persone fisiche.
La lettera di Domenico De Masi
Egregio Professore,
anche a nome del Sindaco di Ravello e dei Membri del Consiglio di Amministrazione e di Indirizzo della Fondazione da me presieduta, Le invio un dossier con cui vengono chiarite due questioni riguardanti l'auditorium.
1. In piú occasioni Italia Nostra ha dichiarato che tale auditorium andrebbe a inserirsi, sfigurandolo, in un paesaggio "intatto" e "perfetto". Il dossier contiene due fotografie del sito in cui é prevista la costruzione con una simulazione elettronica che ne rispetta scrupolosamente le proporzioni. Come puó vedere, si tratta di un paesaggio che, lungi dall'essere intatto e perfetto, é devastato da pessimi manufatti di speculazione edilizia condonata, che la presenza dell'auditorium potrebbe solo nobilitare. Le avevo giá inviato una di queste fotografie ma, dalle vostre successive esternazioni, mi pare di dedurre che non se ne é tenuto conto. Né se ne trova traccia nel suo sito web, peraltro scrupolosissimo nel riportare informazioni contrarie all'auditorium.
2. In molte occasioni Lei ha dichiarato che il progetto finale dell'auditorium non é opera di Oscar Niemeyer, il quale si sarebbe limitato a eseguire un semplice schizzo iniziale. Il dossier contiene una dichiarazione dell'Architetto e del suo strutturista, nonché una documentazione fotografica che dimostrano come la paternitá architettonica e strutturale dell'opera é totalmente di Niemeyer.
Poiché Lei non ha mai preso personalmente visione dei disegni iniziali e delle numerose tavole del progetto finale, immagino che sia stato male informata. Confidando perció nella Sua onestá intellettuale, La preghiamo di smentire le Sue inesatte affermazioni tramite gli stessi organi e con incisivitá pari a quella con cui le ha diffuse.
La ringrazio anticipatamente e, anche a nome dei Colleghi, Le invio i piú cordiali saluti.
(Domenico De Masi)
P.S. Per darLe un'idea del tipo di attivitá culturali che si svolgono a Ravello, facendone la sede di uno dei piú prestigiosi e raffinati Festival musicali d'Europa, Le accludo il programma dello scorso anno.
La risposta di Edoardo Salzano
Caro prof. De Masi,
la ringrazio molto della interessante documentazione che mi ha inviato. Il fatto che ella mi abbia trasmesso la sua lettera con un pacco postale, giunto in mia assenza e ritirato alla posta centrale giorni dopo, spiega il ritardo con il quale le rispondo. Di ciò mi scuso.
Nella sua lettera ella mi investe a proposito di due questioni.
In primo luogo rileva che, pur avendomi inviato una fotografia che testimonia come il paesaggio nel quale l’auditorium si inserirebbe non è “intatto e perfetto”, di questa fotografia non avrei tenuto conto nelle mie “esternazioni” e “non se ne trova traccia nel [mio] sito web, peraltro scrupolosissimo nel riportare informazioni contrarie all’auditorium”.
Su questo punto devo replicare che evidentemente lei è stato molto distratto, o lo sono stati i suoi collaboratori. Non solo in eddyburg.it ho riportato numerosi documenti a favore dell’auditorium, ma ho pubblicato con evidenza la fotografia che ella mi ha inviato, nella nota editoriale (eddytoriale 42) del 2 maggio 2004, accompagnandola con il seguente commento:
"[…] Voglio invece replicare a una giustificazione dell’intervento che viene spesso sollevata dai suoi difensori. Essa è icasticamente espressa nell’immagine, che riporto nella massima dimensione consentita qui sotto, che mi ha inviato Domenico De Masi (che ringrazio). Il senso di quest’immagine è il seguente: questo luogo è tutt’altro che un “paesaggio perfetto”. È stato già pesantemente scempiato da interventi che l’hanno reso orribile. Un intervento di elevata qualità non può che migliorarlo.
" L’argomento è tutt’altro che sciocco. Esso potrebbe motivare un’iniziativa legislativa regionale che volesse riparare il vulnus di legittimità. Quindi mi sembra utile discuterlo. […] Mi dicono che le costruzioni recenti che appaiono nella fotografia di De Masi sono in grandissima prevalenza abusive o illegittime. Ciò deriva evidentemente dal fatto che la collettività aveva ritenuto che il paesaggio non dovesse essere modificato, e che la sua volontà è stata calpestata. Sostenere il progetto Niemeyer significa quindi consolidare una prassi sbagliata, confermare una devastazione che si riconosce essere tale e darle legittimità; quindi distruggere la speranza che si possa, domani o fra cent’anni, realizzare un progetto diverso."
Ella documenta poi il fatto che il progettista effettivo dell’auditorium sarebbe Oscar Niemeyer, avanza il dubbio che io sia stato male informato, e mi prega, di “smentire le [mie] inesatte affermazioni tramite gli stessi organi e con incisività pari a quella con cui le [ho] diffuse”.
In proposito la rassicuro informandola che non ho atteso la sua sollecitazione per rendere pubblico, sul mio sito, il “riconoscimento di paternità” da parte dell’architetto Niemeyer. L’ho accompagnato con una postilla nella quale precisavo ciò che testualmente riporto, e che naturalmente sarei ben lieto se la stampa pubblicasse:
"Niemeyer rivendica il progetto dell’auditorium di Ravello. Bene. Spiega che ha lavorato molto, e conferma che non è mai andato sul posto. Bene anche questo: ognuno progetta come vuole. Rettifica quindi quello che aveva scritto il sindaco di Ravello nella sua lettera al Corriere del Mezzogiornodel 15 gennaio 2004. In quella sede il sindaco affermava che Niemeyer aveva regalato al comune una “idea progetto”, che su quella base il comune aveva “realizzato il progetto preliminare, della cui redazione è stato incaricato l’ufficio tecnico comunale, che ha poi redatto un regolarissimo, completissimo progetto definitivo, firmato dall’arch. Rosa Zeccato”. Ma a me, francamente, che il progetto l’abbia fatto l’architetto brasiliano o un altro non è mai sembrato un fatto rilevante. Ciò che mi ha scandalizzato è che taluni si siano ammantati sotto il nome del prestigioso architetto per far passare un operazione illegittima. Questo rimane, e gli atti finora prodotti dalla magistratura l’hanno confermato".
Non ho nulla da aggiungere, se non ribadire quanto più volte ho già espresso: la mia amarezza per il fatto che numerose persone che stimo (tra le quali la annovero) siano così superficiali di fronte alla questione della legalità: una questione oggi più centrale e vitale che mai. Per conto mio, non mi sono stancato di ripetere che mentre la mia contrarietà a quell’intervento in quel luogo era un’opinione che fermamente sostenevo, ma solo un’opinione, l’offesa alla legalità – che individuavo nei comportamenti e nelle parole di molti sostenitori del progetto - mi sembrava un grave e colpevole errore.
Per evitarle di cercare in internet (non so che dimestichezza ella abbia con questo strumento) le accludo alcune delle note che ho pubblicato sull’argomento, sul mio sito e, alcune di esse, sulla stampa. Vi troverà le stesse tesi che ho esposto ogni volta che qualcuno ha chiesto il mio parere all’argomento, e potrà constatare quanto sia scarso il peso che ho sempre dato alla paternità del progetto.
Naturalmente la prego di trasmettere questa mia ai membri del Consiglio d’amministrazione e del Consiglio di indirizzo, cui invio, come a lei, i miei più cordiali saluti. Assicurando loro e lei che il mio sito, benché sia assolutamente personale ed esprimendo solo le mie personali opinioni, valutazioni e scelte, si sforza di documentare con attenzione l’espressione delle posizioni diverse da quelle che io sostengo. Sarei lieto se anche quanti non sono d’accordo con me facessero lo stesso, e replicassero nel merito delle questioni che pongo. Molte degli apparenti scontri d’opinione sono ahimé sintetizzabili nell’adagio: “Dove vai? – Son cipolle”
Edoardo Salzano
Più o meno cent’anni fa, l’apprendista falegname Mario Bottini usciva tutte le mattine dalla sua casa di Cappella Picenardi, e dopo aver attraversato i campi in direzione sud incrociava la ferrovia, il relativo sentiero più comodo per “andare a bottega”, e poi se avanzava tempo anche a trovare la morosa Paola, a Torre Picenardi, un paio di chilometri a est. Il giovane Mario voleva fare qualcosa di diverso dalla maggioranza dei suoi compaesani contadini, e ci riuscì anche abbastanza bene, visto che la sua abilità di ebanista lo portò, dopo la
Grande Guerra e la crisi economica nelle campagne, a “riciclarsi” nella nascente industria aeronautica e a trasferirsi di un centinaio di chilometri: dalle campagne cremonesi all’allora selvaggio ovest delle brughiere di Malpensa. Non sapeva, mio nonno Mario, che molti anni dopo non solo la sua nuova casa e i campi attorno si sarebbero chiamati “Hub”, ma anche quella vecchia di Cappella De Picenardi, e il sentiero lungo i binari da Isolello verso Torre, avrebbero preso il nome di chilometro qualcosa di una assai poco futurista autostrada, destinata nientemeno che al futuro popolo “catalaino”, o a piacere “ucralano”: in altre parole quelli che percorreranno il Corridoio 5 Barcellona-Kiev. Forse ne sarebbe stato entusiasta di questa autostrada ucralana, nonno Mario, visto il suo pallino per le innovazioni tecniche, anche se fini a se stesse, ahimé. Un entusiasmo però non universalmente condiviso, come cercherò superficialmente di raccontare.
Veniamo, se non all’oggi, almeno all’altro ieri. Alla legge regionale lombarda n. 9 del 4 maggio 2001, Programmazione e sviluppo della rete viaria di interesse regionale, che recita all’articolo 6: “Si definiscono autostrade regionali le autostrade oggetto di concessione dall’entrata in vigore della presente legge, interamente ricomprese nel territorio regionale, che assolvano prevalentemente ad esigenze di mobilità di scala regionale, e che non siano oggetto di concessione nazionale”. Dunque mobilità regionale, diremmo quasi quasi locale in una prospettiva realistica di osservazione della mobilità e uso quotidiano dello spazio nella “megalopoli padana”. Ancora in altre
parole, comunicazioni viarie rapide ed efficienti, diciamo, fra Orzinuovi e Voghera, o fra Bormio e Casalpusterlengo. E invece, pare che la prima direttrice di tipo autostradale realizzata in questa logica si inserisca, come molti dicono e ripetono, dentro il Corridoio 5 Barcellona-Kiev, scivolato per l’occasione a ridosso del Po, ed esattamente fra Cremona e Mantova. Certo ogni parte si inserisce in un tutto, ma qui la cosa pare assai forzata, come sottolineano i critici.
Come ad esempio la parlamentare europea verde Monica Frassoni, che in una interrogazione alla Commissaria ai Trasporti, cita la delibera n. 7/9865 della giunta regionale lombarda (19 luglio 2002): “Il quadro programmatorio di livello europeo definisce tra gli obiettivi infrastrutturali prioritari la realizzazione del corridoio n. 5, altrimenti definito corridoio “del 45° parallelo” o “Barcellona-Kiev”“, il quale, nel transito italiano, corrisponde ad un attraversamento transpadano che deve verosimilmente essere risolto con passaggio a sud del nodo di Milano” (da: http://www.verdilombardi.org). Si chiedono, la Frassoni e gli altri dubbiosi, non è che questo corridoio si sta allargando un po’ troppo di qua e di là? È coerente con le strategie comunitarie, l’interpretazione lombarda? Macché, risponde nel luglio 2003 l’interessata Commissaria Loyola De Palacio: “il corridoio n. 5 non attraversa la Lombardia” (da: http://www.noautostrade.it). Ma a quanto pare l’opinione politica della Commissaria De Palacio non conta gran che per il puro pensiero scientifico, se all’inizio del 2004 la professoressa Anna Gervasoni, Direttore del Centro Trasporti, Università di Castellanza, afferma ancora perentoria: “un’importante opportunità per la Lombardia e per l’Italia nel suo complesso è
rappresentata dall’autostrada regionale Cremona-Mantova, poiché costituisce un tassello di quello che dovrebbe essere il grande asse di collegamento Barcellona-Kiev” (AL - Mensile di informazione degli architetti lombardi, gen-feb 2004, p. 6). Insomma, corridoio anticamera o tinello questa autostrada s’ha da fare a tutti i costi. Come commenta amaro un rappresentante dei comitati che si oppongono al progetto, non importa molto se la striscia d’asfalto porta a Barcellona, Kiev, oppure semplicemente alle spiagge adriatiche. L’importante è aprire cantieri (“Continuano a chiamarlo Corridoio 5 anche se finirà ad Albarella?”, Lettera di Ezio Corradi su Inprimapagina, settimanale di Crema, del 1 agosto 2003).
Tra l’autunno del 2002 e l’estate 2003, prima della convocazione della Conferenza dei Servizi, secondo l’assessore provinciale cremonese ai trasporti “si sono susseguiti molti incontri con i Comuni -, tra dicembre e gennaio si sono svolte audizioni frontali, sono state raccolte perplessità e osservazioni. Molte delle quali intercettate nel progetto di massima” (Da: http://www.welfarecremona.it). Ma, come di nuovo emerge dalle osservazioni dei critici, pare che il coinvolgimento dei comuni si sia attuato in una logica non correttissima di do ut des, dove i promotori dell’autostrada si impegnavano sostanzialmente a realizzare varie opere, che gli enti locali aspettavano invano da tempo, in cambio dell’assenso generale al progetto. Opere, specie quelle di miglioramento viabilistico, che in buona parte risolverebbero anche il non certo caotico flusso veicolare fra i due capoluoghi della bassa lombarda (Barcellona-Kiev permettendo, naturalmente).
Infine e per ora, la delibera di giunta regionale del 30 dicembre 2003 fa proprie “le determinazioni della Conferenza dei Servizi sul progetto preliminare relativo all’autostrada regionale «Integrazione del sistema traspadano direttrice Cremona-Mantova»”.
Insomma una faccenda contraddittoria a dir poco. E anche vagamente sinistra, a leggere un altro passo, di un’altra lettera spedita dall’animatore di comitati Ezio Corradi, secondo cui l’autostrada, improvvisa come una metastasi, “compare a luglio 2001 con una riga nera tra le due città all’interno del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale” (da: http://www.noautostrade.it). Ma tant’è: la delibera con cui la giunta regionale lombarda chiude l’anno 2003 approva il progetto preliminare di quei 67 chilometri.
La “riga nera tra le due città” come si può vedere nelle tavole allegate alla delibera, prodotte dalla Società Centropadane (leggibili sulla versione cartacea in vendita a circa 9 €, non certo nel microscopico PDF online), scorre entro un “corridoio” locale già infrastruturato, ma non certo nel nulla, e nemmeno in un ambiente che si possa definire in qualsiasi modo metropolitano.
Il tracciato di quella che, giocando sull’acronimo e citando i cartoni Warner, possiamo chiamare ACME, parte come articolazione della A21 Piacenza-Brescia, nella periferia orientale di Cremona, poco a nord della località San Felice, col casello A21 e l’incrocio della SS10 Padana Inferiore verso Mantova, che si è da poco staccata a sua volta dalla tangenzialina cremonese e relative rotatorie. ACME punta verso sud-est, superando quasi subito la SS10 (che punta invece leggermente a nord-est), e incanalandosi nel corridoio di campagna delimitato a nord dalla stessa Padana Inferiore, e a sud dalla ferrovia Cremona-Mantova, dal canale Offredi, e dalla via Postumia in uscita dalla città verso est.
Scavalcando e facendosi scavalcare, ACME prosegue serpeggiando ampia fino al chilometro 9 e al primo svincolo, in località Borgo san Giacomo, a incrociare una delle direttrici nord-sud, ovvero quella che dalla pianura bresciana dell’Oglio-Mella scende verso il ponte Giuseppe Verdi a San Daniele Po, e la zona del bussetano-parmense. Al km 13, all’altezza del comune di Cappella Picenardi, esattamente fra Vighizzolo e Isolello, ACME scavalca la ferrovia Cremona-Mantova, iniziando a scorrere a sud, anziché a nord del tracciato, più o meno dove camminava cent’anni fa nonno Mario Bottini, e dove ora c’è un passaggio a livello che consente di risalire dal tracciato della Postumia, attraverso il capoluogo di Cappella, fino alla SS10 Padana un paio di chilometri più a nord. L’autostrada prosegue formando quasi un corpo unico col tracciato ferroviario (salvo scostarsi leggermente per questioni tecniche di sovrappasso), fino al km 21, sui margini occidentali dell’abitato di Piadena, quando piega decisamente verso sud,
disegnando una specie di contraltare meridionale alla tangenzialina nord della SS10, e immettendo alle rampe del secondo casello, che incrocia la seconda direttrice nord-sud, ovvero la statale Brescia-Casalmaggiore, serve l’adiacente zona industriale di Piadena a meridione della ferrovia Cremona-Mantova, e al km 25 scavalca un’altra ferrovia: la Brescia-Parma. Dopo questo nodo piuttosto complesso e intricato, ACME geograficamente risale verso nord, mentre fisicamente scende per un tratto in trincea, fino al km 28 dove risale fino a scavalcare di nuovo la ferrovia Cr-Mn e a unificare dopo un altro chilometro il tracciato con quello di un’altra autostrada contestatissima: la Ti.Bre., ovvero Tirreno-Brennero, per cui si rinvia almeno ai materiali del sito dei Verdi già citato (e che affronta la questione Cremona-Mantova in stretto rapporto “sistemico”). Sul Ti.Bre. una sola, piccola e ironica annotazione. Una giornalista della Padania, decantando l’approccio “ambientalista” di entrambe le autostrade al territorio, si riferiva ripetutamente alla Tirreno-Brennero usando l’acronimo TRIBE - che vuol dire, come tutti sanno a partire dai giornalisti: tribù. Non è chiaro se, con il gustoso equivoco-neologismo, si riferisse più agli abitanti dei territori festosamente attraversati, o al gruppo dei promotori dell’infrastruttura ambientalista a due rami (Cfr. Lucia Colli, “Un’autostrada unirà Cremona e Mantova”, La Padania 21 febbraio 2003, p. 11).
Dopo lo svincolo Ti.Bre.-SS10, ACME sale verso nord est parallela alla ferrovia e alla statale, fra i territori comunali di Bozzolo e Marcaria, dove all’altezza del km 264 della Padana Inferiore tutti e tre i tracciati tagliano il Parco Oglio Sud, scavalcano con tre ponti paralleli il fiume a distanza di qualche centinaio di metri, dopodiché il Ti.Bre. si stacca e si invola solitario verso settentrione, il tracciato della Postumia romana e poi il veronese. Sotto tutto questo bendiddio in ferro cemento e asfalto, fra le anse dell’Oglio si deve adattare in qualche modo anche il parco regionale, con “la graduale successione delle specie vegetali mano a mano che ci si allontana dallo specchio d’acqua, indice di un loro sempre maggiore affrancamento da questo elemento: dal canneto, ai salici, agli ontani e pioppi bianchi, al querceto” (http://www.parks.it/parco.oglio.sud ).
Abbiamo superato da un po’ la metà strada dei complessivi 67 chilometri del percorso, e siamo entrati nella provincia di Mantova. Dopo il distacco dal Ti.Bre., al km 6 di questa terza tratta ACME ri-scavalca in corrispondenza di un casello-svincolo sia la SS10 Padana che la ferrovia Cr-Mn, per proseguire una decina di chilometri parallelo a sud dei due tracciati, fino al casello successivo in territorio comunale di Castellucchio. Siamo ormai piuttosto vicini all’area propriamente mantovana, ovvero di rapporto diretto col capoluogo, e per evitare (presumo) l’urbanizzazione più fitta il tracciato inizia da qui a percorrere un ampio arco di circumnavigazione che porterà ACME a incrociare le frazione meridionali del comune di Curtatone, e relative campagne, o la strada secondaria verso il ponte di Borgoforte in località Ponteventuno (curiosamente, siamo anche al km 21 della tratta autostradale: era destino) sul passaggio a livello della ferrovia Mantova-Verona, o infine la statale 62 della Cisa a sud dell’abitato di Virgilio, con relativo svincolo al km 25, e il percorso principale verso Borgoforte-Suzzara. Ancora cinque chilometri verso oriente, e in territorio di Bagnolo San Vito ACME si immette sul tracciato dell’A22 Autobrennero, qualche centinaio di metri a sud dello svincolo di cui si è già detto su eddyburg nel pezzo sui “Cugini di Campagna” dei factory outlet.
Dopo essere risalita lungo il tracciato della A22 fino all’altezza – più o meno – dell’attuale casello di Mantova Nord, ACME se ne stacca poco a sud del tracciato mantovano orientale della SS10 Padana Inferiore, e inizia l’ultima tratta, che in poco più di dieci chilometri arriverà in territorio di Castel d’Ario, capitale del riso alla pilotta e patria di Tazio Nuvolari (un altro che, come il nonno Mario, sarebbe entusiasta dell’autostrada). Ancora un chilometro a oriente, e la linea scura del tracciato si interrompe brusca, perché proprio un attimo prima di incrociare la fatidica linea della Statale 12, a Nogara, ACME perde la sua ragione sociale d’essere, ovvero la regione lombarda. Una troncatura che me ne ricorda un’altra, antichissima, a interrompere il futurista progetto di città lineare dal Duomo di Milano al Ticino, pubblicata dalla rivista Le case popolari e le città giardino nel 1910, che con sistemi di trasporto a rotaia su vari livelli e velocità avrebbe dovuto surclassare o complementare a scala interregionale lo storico asse del Sempione, sostituendo all’insediamento consolidato una versione italica dell’utopia di Arturo Soria y Mata. Anche quel disegno, che oltre ad accattivanti prospettive urbane riportava anche un “tracciato di massima” territoriale, si interrompeva brusco sull’arida sponda del Ticino, come ACME alla periferia di Nogara. Ovviamente ci sono ampie rassicurazioni sul raccordo e proseguimento (e l’ovvia risalita verso la sponda dell’alto Adriatico) del percorso oggi molto imperfettamente servito dalla SS10 e poi dalla Monselice-Mare, ma restano comunque le battute polemiche, di chi si chiede se il Corridoio 5 non finisca a Kiev, ma ad Albarella.
Tutta questa descrizione del tracciato, non aveva comunque come scopo quello di contrapporre l’idilliaca campagna al devastante impatto dell’automobile, dello stridore al cinguettio, ma solo di chiarire un po’ meglio il contesto in cui si colloca questa iniziativa di autostrada regionale, a quanto pare di capire la prima in Italia, e che sempre a parere dei critici non sembra inaugurare una stagione nuova, ma solo (come già indicato in altri settori) sostituire o affiancare al centralismo statale un neo-centralismo regionale, catapultando decisioni sul territorio secondo una logica politica e tecnica vetusta.
Si è ad esempio citato sinora il solo tema del Corridoio 5, e della sua non riconducibilità né al quadro delle comunicazioni interne regionali, né alla lettera della fascia internazionale di relazioni e infrastrutture così denominata, che secondo la massima autorità della Commissione, letteralmente “non tocca la Lombardia”. Ma c’è pure il tema del traffico, con cifre di flussi che secondo i critici sono gonfiate o irrealistiche, e che certo nell’esperienza quotidiana non sembrano toccarsi con mano.
Perché se è vero che il tracciato della Padana Inferiore fra i due capoluoghi (Barcellona-Kiev a parte) ha numerosi intoppi, punti pericolosi, nodi irrisolti, non si vede perché il toccasana dovrebbe essere un sinuoso serpentone che come tutti i suoi simili appoggia un universo a parte sul territorio, i cui rapporti con l’intorno vengono di norma stabiliti e gestiti ex-post.
L’argomento è ovviamente complesso e io non sono né specialista né dilettante. Posso però considerare se non altro coerente la relazione che la senatrice Anna Donati ha redatto sul tema del sistema Ti.Bre.Cremona-Mantova (disponibile integralmente al citato sito dei Verdi), per esempio quando afferma che è proprio la contraddizione fra infrastruttura locale e tratto di infrastruttura continentale a indicare una assenza di progetto, o meglio una assenza di sistema nell’idea di progetto. Da qui, il non pensare in termini di comunicazione, di flussi, di modalità, ma solo in termini di opere, da piazzare dove capita secondo le giustificazioni più varie, e poi in seguito perfezionare e adattare ai contesti a seconda della resistenza che questi via via offrono.
C’è in effetti qualcosa di tragico, e qualcosa di complementarmente comico, nell’immagine del progetto ACME che corre in quello che considera dal proprio punto di vista un deserto, ignorando i propri “simili” (la Padana, la ferrovia) salvo quando se li trova di fronte ed è costretta a saltare in alto, in basso, a destra e a sinistra.
Non potendo offrire ovviamente soluzioni, posso al massimo proporre, per quanto mi compete, alcune letture su temi “stradali”, che ho iniziato a sistemare da qualche giorno sul mio sito a partire da poche cose che già avevo sotto mano.
Spero contribuiscano a far riflettere. Su questo e altri temi connessi.
Una citazione canzonettara anni '80 che mi pare adeguata, un breve commento, un link. Per ora basta così.
Le Louvre (Diana Est)
Fuori dai musei
nuovi amici miei
si distruggerà
la civiltà delle banalità.
Su seguitemi
esibitevi
alta moda va
vincerà
chi si distinguerà.
Per molti secoli
quei nobili
sono rimasti esposti sempre immobili
con una voglia intensa di entrare nei bistrot.
Nuove letture con tecnologia
ce li rivelano
dorata prigionia
Tempi di convenzioni
di provincialità.
Fuori dai musei
nuovi amici miei
si distruggerà
la civiltà delle banalità.
Su seguitemi
esibitevi
alta moda va
vincerà
chi si distinguerà.
Computer dimmi se
di nuovo liberi
con la Gioconda
corrono nei vicoli
Tempi di mutamenti
nuove modernità
Fuori dai musei
nove amici miei
si distruggerà
la civiltà delle banalità.
Su seguitemi
esibitevi
alta moda va
vincerà chi si distinguerà.
Queste a modo loro memorabili strofe, dovevano risuonare potenti nel retropensiero della signora Marta Vicenzi l’altra sera, almeno a quanto risulta dai resoconti della stampa. La signora Vicenzi è il sindaco di Vicolungo, e la sera dello scorso giovedì 7 ottobre inaugurava in grande stile il controverso “Parco Commerciale”.
Ci informa il sito specializzato Parksmania, citando a sua volta un articolo sulla stampa locale, che il Sindaco ha colto l’occasione per annunciare l’avvio dei lavori anche per quanto riguarda un parco a tema, col primo lotto dal titolo “L’Isola che non c’è” ispirato alla nota favola di Peter Pan. Così, col parco a tema, sempre secondo il Sindaco, si “consentirà al paese di uscire dall’oblio”.
Fuori dai musei, appunto: vincerà chi si distinguerà.
In che cosa, non è chiarissimo.
Nota: qui l’articolo di Parksmania con i particolari (e la scheda tecnica, ecc.). Per le opinioni di Eddyburg si vedano gli altri pezzi su Vicolungo, compreso lo scambio di opinioni col progettista del Parco Commerciale, William Taylor (fb)
Seguo con estremo interesse il vivace dibattito che il Corriere del Mezzogiorno porta avanti sull’auditorium di Ravello. Perché parte in causa, per buon gusto, per la levatura della quasi totalità degli interventi, ritenevo di dovermi cimentare nella sola lettura. Ma l’ultimo articolo di Giulio Pane m’impone di rispondere. Prendo in prestito due termini da lui usati: «ogni altra questione è impropria e falsa». Io riporterò i fatti veri, giudichi il lettore se definire le affermazioni di Pane improprie o false e/o false.
La maquette del progetto è stata presentata nel 2000, non nel 2002; come opera d’arte spontaneamente offerta da Niemeyer su sollecitazione di alcuni amici brasiliani che frequentano Ravello, è stata accettata dal Consiglio comunale con regolare delibera. Sulla base di quell’«idea progetto» il comune ha partecipato a un regolare concorso d’idee, ottenendo il cofinanziamento di 100 milioni di lire per lo studio di fattibilità di un «distretto turistico di alta qualità».
Lo studio fu affidato, con regolare avviso pubblico e concorso, alla Izi di Roma. Ha consentito di attingere ai fondi Cipe per il finanziamento della progettazione preliminare (sull’intera annualità 2002, con circa 8 miliardi di lire disponibili per la Regione Campania, solo Ravello è riuscita a presentare uno studio di fattibilità approvato con decreto del Presidente Sassolino, previo licenziamento positivo da parte del nucleo di valutazione regionale). Con i fondi si è realizzato il progetto preliminare, della cui redazione è stato incaricato l’ufficio tecnico comunale, che ha poi redatto un regolarissimo, completissimo progetto definitivo, firmato dall’arch. Rosa Zeccato. A Niemeyer è stata affidata una consulenza per la parte architettonica, al di sotto della cosiddetta soglia Merloni, per un importo di 95.000 euro. Si procederà poi con il sistema dell’appalto integrato, previo bando europeo, all’affidamento della progettazione esecutiva e dei lavori. Di quale «protervia e spregio delle regole» si farnetica? Niente di tutto ciò, prof. Pane; si tratta solo di decidere se considerare le sue affermazioni improprie e/o false. A Ravello c’è uno staff che studia leggi e carte: professionisti seri che mettono l’amministrazione al riparo di qualsiasi illegalità. Inoltre: tutti sanno che in conferenza dei servizi si possono esaminar e solo progetti definitivi compiuti. Di quale futuro progetto «vero» si parla?
Su una sua affermazione, prof. Pane, non ho dubbi: quando afferma che Niemeyer non ha mai visitato Ravello dice il vero; ma quando afferma che «non l’ha studiata» dice non solo il falso e/o l’improprio, ma una grave volgarità. Studi lei piuttosto! Imparerà molte cose che ignora; così come Niemeyer, molto prima di studiare Ravello e conoscerla meglio di tanti altri, ha studiato e imparato che «quel che conta non è l’architettura, ma la vita, gli amici, e questo mondo ingiusto che dobbiamo modificare».
Chiudo ricordando che l’auditorium è il tassello più piccolo di un programma complessivo avviato da cinque anni. In sintesi: 1) Ravello città della musica; 2) Ravello Comune antitransgenico; 3) riqualificazione e pedonalizzazione del centro storico; 4) Pit turistico concorsi di riqualificazione dell’offerta turistica; 5) riconoscimento dell’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità; 6) distretto culturale; 7) progetto «città d’arte»; 8) sistema di controllo della viabilità; 9) fondazione Ravello per la qualificazione dell’offerta culturale e turistica. Per non dire della lotta all’abusivismo.
I cittadini di una delle perle mondiali hanno scelto democraticamente un’amministrazione perché realizzi un protortipo di modello sociale che faccia della tutela ambientale, del senso estetico, della qualità assoluta, della cultura, i suoi strumenti quotidiani per la crescita sociale, culturale, ed economica del paese. Aiutateci a realizzarlo!
Secondo Amalfitano.
Niemeyer su Ravello «L'Auditorium? Idea mia
dal Corriere della sera del 30.12.04
L'architetto brasiliano Oscar Niemeyer ha risposto con un memorandum alle critiche di chi, come Italia Nostra, lo ha accusato di aver disegnato un semplice «schizzo» dell'auditorium da 460 posti destinato a sorgere a Ravello, sulla costiera amalfitana. Nella lunga lettera, pubblicata oggi dal «Corriere del Mezzogiorno» il celebre progettista rivendica in toto la paternità del progetto. «Questo progetto l'ho regalato alla città di Ravello - ha spiegato l'architetto brasiliano a uno dei suoi più stretti collaboratori - ma è scandaloso che ora qualcuno voglia pure rubarmi l'idea». Di qui la decisione di entrare per la prima volta nelle polemiche sulla costruzione dell'auditorium.
Storia di un progetto: Ecco com'è nato il progetto nello studio di Rio.
di Oscar Niemeyer
Per fugare ogni dubbio sulla paternità dell'auditorium da me progettato per Ravello - paternità che decisamente rivendico - ne descrivo qui di seguito le varie tappe.
Nel luglio 2000 i miei amici Roberto D'Avila e Domenico De Masi, anche a nome del sindaco di Ravello Secondo Amalfitano, mi hanno chiesto di progettare un auditorium per Ravello. Ho aderito con entusiasmo e, raccolte tutte le necessarie informazioni storiche, tecniche ed estetiche, ho iniziato il lavoro, posizionando il progetto nell'area indicata dal Comune. Iniziando i disegni del progetto, ho subito sentito che questa non era un'opera facile da progettare. Il terreno irregolare, stretto, con un'inclinazione trasversale molto accentuata. Di qui l'iniziativa di far costruire un plastico, desideroso di definire in condizioni poco favorevoli la conformazione naturale del terreno. Non pensavo a un'opera costosa che implicasse movimenti di terra non necessari, e perciò ho assunto come punto di partenza la decisione di localizzare il parterre esattamente secondo l'inclinazione data. E il progetto ha cominciato a sorgere. L'ingresso dell'auditorium, un grande salone aperto sul paesaggio, un muro curvo e basso che crea il palcoscenico, il parterre, il mezzanino e la cabina di proiezione. Un muro doppio servirà d'accesso, grazie a una scala proiettata in esso, ai servizi sanitari e, a un livello più basso, all'ambiente per le macchine dell'aria condizionata, che utilizzerà per l'inalazione gli spazi vuoti esistenti.
Sono ritornato al plastico e ho constatato che l'entrata dell'auditorium doveva essere più protetta, ampliandone la copertura in forma spettacolare, il che ha conferito al progetto un aspetto nuovo, capace di creare la sorpresa desiderata.
In seguito, analizzando l'insieme, ho verificato che la posizione dell'edificio in rapporto alle strade circostanti non permetteva ai passanti di avere una veduta più completa della sua architettura. E allora ho disegnato la piazza, stretta, che, io credo, arricchita da questo panorama magnifico potrebbe costituire, indipendentemente dall'auditorium, un luogo d'incontro di particolare interesse. Al di sotto di questa sarà costruito il parcheggio.
Per rispettare le norme e l'ambiente, ho contenuto al minimo la capienza dell'auditorium, limitandola a 406 posti, e ho concepito linee e volumi in perfetta sintonia col contesto in cui auditorium e piazza antistante sono destinati a sorgere.
Il 23 settembre 2000, nel mio studio di avenida Atlantica a Rio de Janeiro, ho consegnato a Domenico De Masi il plastico dell'auditorium e della piazza, 10 tavole di disegni e una dettagliata spiegazione necessaria. Il tutto ha rappresentato un mio dono all'amico De Masi e alla città di Ravello.
Dopo che il Comune di Ravello ha accettato ufficialmente il mio dono e ha avviato tutte le pratiche burocratiche per ottenere i relativi permessi e finanziamenti, mi è stato richiesto di proseguire il lavoro fino all'elaborazione del progetto definitivo e dei calcoli strutturali. Quando gli esperti del Comune hanno completato le rilevazioni di carattere geologico, si è recato appositamente a Ravello il mio strutturista José Carlos Sussekind che, nel marzo 2002, ha eseguito sul posto tutti i necessari sopralluoghi, ha accertato la serietà e attendibilità di tutti gli esami e le verifiche eseguite dall'ufficio tecnico del Comune e dei suoi consulenti. In quella occasione l'ingegner Sussekind ha incontrato il dottor Fabio Fassone, direttore del gruppo Adhoc, e i suoi collaboratori, che da vari mesi studiavano, per conto mio e del Comune, le esigenze logistiche relative a tre ambiti: la progettazione architettonica del palcoscenico e delle sue relative tecnologie; la progettazione architettonica degli spazi logistici dedicati agli artisti (camerini, sala prova, spazi orchestra e coro); la progettazione architettonica delle facilities destinate al pubblico quali la biglietteria, il guardaroba, la caffetteria. La collaborazione con il gruppo Adhoc è poi proseguita in più tappe a Rio de Janeiro dal 2 al 15 febbraio 2003 e dal 4 al 20 aprile 2003, e risulta tuttora molto utile per coordinare i vari livelli di analisi: quello > progettuale e architettonico, quello tecnico- logistico, quello organizzativo.
Il progetto definitivo ha richiesto alcuni mesi di ulteriore lavoro, e i contributi di numerose professionalità indispensabili. In ogni caso la paternità architettonica del progetto dell'auditorium «Oscar Niemeyer», così come si è man mano sviluppato e come è stato approvato in conferenza dei servizi a Napoli alla Ragione Campania il 4 agosto 2003, e in ossequio alla legge italiana sottoscritto dal dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Ravello, è totalmente ed esclusivamente mia, avendone io elaborato l'idea iniziale ed eseguito personalmente tutte le fasi e lo sviluppo fino agli elaborati finali, consegnati al Comune in copia autografata.
Nel maggio 2003 ho illustrato personalmente il progetto nella sua versione definitiva al governatore della Campania Antonio Bassolino, al sindaco di Ravello e al professor De Masi, che sono venuti appositamente nel mio studio in avenida Atlantica. La consegna ufficiale del progetto è avvenuta il 28 maggio 2004 alla presenza del presidente Lula.
Per ognuna di queste tappe esiste una puntuale documentazione amministrativa, fotografica e filmografica.
L'architetto novantasettenne si difende
di Adolfo Pappalardo
da Corriere del Mezzogiorno del 30.12.04
NAPOLI - Per la prima volta Oscar Niemeyer rompe il silenzio e dice: «Il progetto dell'auditorium di Ravello è interamente mio». Lo spiega per rispondere alle accuse secondo cui solo lo schizzo - e non il progetto- era suo. «Osservazioni lesive della nostra immagine», dicono dalla Fondazione Ravello. E sono pronti a far partire le querele.
Per la prima volta Oscar Niemeyer rompe il silenzio e decide di ribadire un concetto fondamentale, caro ad ogni artista: «L'idea, lo schizzo e il progetto definitivo dell'auditorium di Ravello sono opera mia». E aggiunge: «Posso documentarlo tappa per tappa».
Due cartelle dattiloscritte - e firmate foglio per foglio - nello studio di Rio De Janeiro da questo maestro dell'architettura, novantasettenne ma indomito, e che mai e poi mai avrebbe immaginato di trovarsi al centro di una disputa così accesa che si trascina da mesi. D'accordo, è nel suo lavoro mettere in conto eventuali voci contrarie; ma Niemeyer non avrebbe mai potuto supporre di essere accusato di aver elaborato un semplice schizzo e di aver affidato ad altri e sconosciuti progettisti il lavoro.
La polemica è nata sulle pagine del Corriere della Sera. Il 15 ottobre scorso, la presidente di Italia Nostra, Desideria Pasolini dall'Onda insisteva nel dire che «il progetto nasce da uno schizzo di Niemeyer, ma porta la firma di un'architetta salernitana». Concetto che la Pasolini ribadì il 9 dicembre scorso sul Magazine del Corriere e, qualche giorno dopo, rilanciò dal Corriere del Mezzogiorno l'urbanista Edoardo Salzano. Di qui l'indignazione del progettista della futuristica Brasilia. «Io questo progetto l'ho regalato al Comune di Ravello - ha confidato Niemeyer ad uno dei suoi più stretti collaboratori - ma è scandaloso che ora qualcuno voglia mettere in dubbio l'idea e tutto il lavoro».
Per questo, qualche giorno prima di Natale, Niemeyer ha preso carta e penna e ha deciso di spiegare come aveva proceduto nel suo progetto. Dallo schizzo iniziale, passando per le fasi intermedie in cui ha approntato le opportune modifiche, fino a quelle dieci tavole che rappresentano il progetto definitivo del contestato auditorium da 406 posti. Ad aiutarlo, il suo fedele strutturista José Carlos Sussekind, che da trent'anni lavora al suo fianco e che, per conto del maestro, si è recato a Ravello per compiere alcuni rilievi.
Insomma, Niemeyer è disposto anche ad accettare le critiche e la battaglia giudiziaria - ancora in corso, e sulla quale si attende la pronuncia definitiva del Consiglio di Stato nella prima quindicina del mese prossimo - di chi non vuole l'auditorium progettato per Ravello; ma si è stancato di chi sta tentando di far credere che l'intero progetto non sia suo.
Le considera vere e proprie illazioni; e il giudizio è condiviso dal Comune di Ravello e dalla Fondazione omonima, che sono pronti a querelare chiunque osasse nuovamente mettere in dubbio la paternità del progetto. «La sola idea è lesiva dell'immagine di Ravello», dice Domenico De Masi, presidente della Fondazione. Mai come in questo caso, aggiunge, esiste una dettagliata documentazione scritta, fotografica e filmografica che illustra tutti i passaggi del lavoro di uno dei più grandi architetti di tutti i tempi che ha lavorato con lo stile di un semplice artigiano. Facendo tutto da sé: schizzi, disegni, plastico e le dieci tavole finali.
CHI E' - E' il maestro delle forme fluide, alternativa poetica agli angoli retti dello stile internazionale. Nato nel 1907 a Rio de Janeiro, si diploma alla Escola Nacional de Belas Artes di Rio de Janeiro nel 1934. Presto si unisce a un gruppo di architetti brasiliani che collabora con Le Corbusier alla costruzione del Ministero dell'Educazione di Rio. Niemeyer proseguirà la collaborazione con Le Corbusier per la realizzazione del Palazzo Onu di New York. Oggi continua a lavorare nel suo ufficio di Copacabana.
Postilla
Niemeyer rivendica il progetto dell’auditorium di Ravello. Bene. Spiega che ha lavorato molto, e conferma che non è mai andato sul posto. Bene anche questo: ognuno progetta come vuole. Rettifica quindi quello che aveva scritto il sindaco di Ravello nella sua lettera al Corriere del Mezzogiorno del 15 gennaio 2004. In quella sede il sindaco affermava che Niemeyer aveva regalato al comune una “idea progetto”, che su quella base il comune aveva “realizzato il progetto preliminare, della cui redazione è stato incaricato l’ufficio tecnico comunale, che ha poi redatto un regolarissimo, completissimo progetto definitivo, firmato dall’arch. Rosa Zeccato”. Ma a me, francamente, che il progetto l’abbia fatto l’architetto brasiliano o un altro non è mai sembrato un fatto rilevante. Ciò che mi ha scandalizzato è che taluni si siano ammantati sotto il nome del prestigioso architetto per far passare un operazione illeggitima. Questo rimane, e gli atti finora prodotti dalla magistratura l’hanno confermato.(es)
Mi piacerebbe che solo un centesimo dei fiumi d’inchiostro versati sulla questione Meier-Ara Pacis fosse dedicato a ciò che sta succedendo sull’altra sponda del lungotevere, un po’ più giù, all’angolo tra via della Lungara e piazza della Rovere. Qui si è da poco impiantato un cantiere ed è già stato demolito il piccolo manufatto costruito su un relitto del nefasto sventramento con cui erano state a suo tempo tagliate via Giulia e la Lungara e che valeva solo per il frontocino baroccheggiante che lo sovrastava. Poi, in uno dei punti focali più in vista del centro storico, sorgerà un moderno palazzo di sei piani con relativo scavo per interrato e fondazioni. Siamo vicino al bastione e alla porta del Sangallo, di fronte a San Giovanni dei Fiorentini e all’elegante “confetto succhiato” della sua cupola, sulla testa del rettilineo che un tempo si chiamò anch’esso Via Julia, perché voluto da Giulio II in simmetria con la prestigiosa via sull’altra sponda del Tevere, sulla strada di Palazzo Corsini, della Farnesina e dell’Orto Botanico. Siamo anche sul terreno che separa il fiume dalla domus imperiale, detta “di Agrippina”, scoperta durante i discussi lavori giubilari per la rampa del Gianicolo. Insomma, tutto dovrebbe portare a grande attenzione e cautela prima di procedere a qualsiasi opera. Sarebbe in primo luogo necessario uno scavo archeologico per esplorare una possibile estensione verso la sponda del Tevere della domus e dei suoi affreschi.
Segnalai già questa necessità nella riunione della Commissione edilizia che si riunì eccezionalmente in sessione plenaria per esaminare il progetto nel giugno 2001, quando ci fu un’accesa discussione perché esso era stato prima respinto da una Sezione della Commissione stessa nel marzo 1999 e poi approvato a maggioranza in un’altra, nel febbraio 2001. La Commissione, che si poteva pronunciare solo sulla qualità architettonica dell’intervento e sul suo inserimento nel contesto urbano, manifestò diverse posizioni, ma concordò comunque su un punto: quello di trovarsi di fronte a “un momento importante della storia della città”. Ora vorrei sapere se le varie soprintendenze hanno aggiornato i propri pareri, visto che a quel tempo esistevano solo quelli espressi su elaborati precedenti alla scoperta della domus e dei suoi affreschi. In secondo luogo mi chiedo, e chiedo, se un intervento del genere possa realizzarsi solo sulla base della rispondenza o meno alle norme tecniche e non anche su una piattaforma culturale condivisa per il centro storico cittadino, che vede improvvisamente riaprirsi con un fatto compiuto la discussa e lungamente accantonata questione dei suoi cosiddetti “buchi”, da riempire o meno con edilizia contemporanea.
Mi piacerebbe, appunto, che la vasta nomenclatura che si è cimentata col progetto Meier si pronunciasse più in generale sulla legittimità culturale e sulla presenza o meno del moderno in centro storico, anche se posso già immaginare le varie posizioni. Ci sarà infatti chi invocherà la Rinascente di Albini, i vetri bronzei dell’hotel Jolly di Corso Italia o le sopraelevazioni di Ridolfi e ci sarà la pressione degli architetti per “lasciare il segno” nel centro, non accontentandosi di tutto il resto della città. Ma si potrà anche sorvolare sul pericolo di un’edilizia del tipo palazzo dei Monopoli dietro piazza Mastai e altri fattacci del genere, passati o possibili futuri. A mio giudizio l’intervento alla Lungara, che lo si consideri qualificato o meno, può dare l’avvio a molti episodi pericolosi per il delicato cuore della città. Sono rimasto colpito da un recente giudizio di Benevolo, alla presentazione del suo ultimo libro riguardante San Pietro e la spina dei Borghi, sull’inadeguatezza dell’attuale normativa per il centro cittadino e degli strumenti di cui l’Amministrazione dispone e sono anche perplesso sulla pur affascinante proposta del professore di ricostruire quella spina, proprio per l’inadeguatezza che egli denuncia e per quella piattaforma culturale condivisa che credo non ci sia. E per quanto riguarda i famosi “buchi” credo che eventualmente valga molto di più progettarli come vuoti che come pieni e che sia da riprendere la metodologia che Insolera propose nel 1969 partecipando provocatoriamente al concorso per piazza del Parlamento non col progetto architettonico di un nuovo edificio, ma con una soluzione urbanistica di quello spazio e dei suoi dintorni.
L' ultima cosa che viene in mente, parlando con Oscar Niemeyer, è che l'architetto che creò Brasilia stia per compiere 97 anni essendo nato il 15 dicembre 1907 a Rio de Janeiro. Perché, anche davanti all'interlocutore più agguerrito, sembra essere sempre e solo lui a condurre il gioco.
Così, nel suo piccolo studio affacciato sull'Avenida Atlantica, è lui che sceglie di parlare in francese («in inglese rischierei di fare troppi errori») o che chiede di avvicinarsi di più alla sua sedia («comincio a essere un po' sordo»). È ancora lui che a pranzo, dopo un involtino alla carne e un gelato all'avocado, domanda di Kakà e racconta della passione per il cinema di Visconti, Pasolini, Scola. Ed è sempre lui che mostra con orgoglio i suoi progetti, vecchi e nuovi: dal Museo d'arte contemporanea di Niterói al Caminho che a Rio prenderà il suo nome, dal Memoriale dell'America Latina di San Paolo al palazzo per il governatore di Minas Gerais, dalla Mondadori di Segrate al Memorial Oswaldo Aranha di Alegrete. Passando naturalmente per un sogno chiamato Brasilia, più o meno realizzato secondo alcuni critici, al quale Niemeyer ha lavorato come «soprintendente tecnico» dal 1956.
Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares, questo il suo nome per esteso, non è però un uomo arrogante. Tutt'altro. E questo nonostante tutti i suoi premi (Praemium Imperiale, Pritzker, Riba) e nonostante la celebrità («è come Pelé», è il minimo che ci si sente rispondere chiedendo di lui). Tanto che è lui stesso a rispondere al telefono ed è lui a riceverti, minuto ma elegantissimo nella camicia bianca con le cifre ON ricamate e le lucidissime scarpe marroni (sul tavolo c'è un flacone di Chanel pour homme), in uno studio microscopico tappezzato di tantissimi libri. Compreso il suo E agora? (E ora?) da poco uscito in Brasile: un racconto breve, e non un trattato di architettura, in cui Niemeyer narra la storia di Lucas, «un combattente di mille battaglie», un vecchio comunista che è quasi un suo alter ego e che ha scelto come lui «di non rassegnarsi mai davanti alle brutture della vita».
D'altra parte come non credere nella vena sovversiva dell'architetto dal momento che uno dei pochi decori di queste stanze con vista sulla spiaggia di Copacabana è una sua massima incisa sui muri che recita «quando la miseria si moltiplica e la speranza fugge dall'uomo, è tempo di rivoluzione»? Una rivoluzione legata «al rifiuto di ogni forma di capitalismo» e che finisce per tradursi persino nel rigore degli arredi di Casa Ypiranga: poche poltrone di cuoio nero con tanto di pouf poggiapiedi, una chaise longue, una sedia a dondolo di metallo, un tavolo semplicissimo. Tutto firmato Niemeyer.
Lei ha sempre detto che la vita è molto più importante dell'architettura.
«La vita può cambiare l'architettura e non viceversa. L'architettura è soltanto uno dei tanti tasselli che compongono l'esistenza dell'uomo. Al pari dell'arte, della letteratura, della musica, della scienza o della politica».
Per questo lei sostiene che l'architetto non si deve limitare a progettare?
«L'architetto non deve essere solo un tecnico. Deve avere una cultura generale, deve conoscere i classici della letteratura come gli scrittori contemporanei, deve intendersi di Matisse e sapere di filosofia. Il motivo? In questo modo riesce a conoscere l'ambiente che lo circonda».
E la politica?
«Anche la politica è parte della vita dell'uomo. Ed è una parte importante, almeno per me. Una parte che ho sempre vissuto sulla mia pelle: ho conosciuto Castro e ho fatto parte del Partito comunista brasiliano (più volte Niemeyer si è definito "l'ultimo comunista rimasto", ndr), sono stato in esilio a Parigi durante la dittatura militare e continuo a dichiararmi anticapitalista, un tempo ho protestato contro la guerra del Vietnam e oggi sono contro tutte le guerre».
Della guerra in Iraq cosa pensa?
«Bush ha invaso un Paese, lo ha oltraggiato e continua a oltraggiarlo. Questo per me è inammissibile. Ma la rielezione di Bush dimostra anche come siano ormai gli incapaci a governare il mondo».
Torniamo all'architettura: come giudica i suoi colleghi?
«Penso che ogni architetto sia capace di fare una buona architettura. Certo, quelli che possono dire di aver creato un'opera eccezionale non sono tanti, ma è un discorso che vale per tutte le forme della creatività: non tutti possono avere la capacità di progettare la chiesa di Ronchamp come ha fatto Le Corbusier, dipingere Guernica come Picasso o elaborare la teoria della relatività come Einstein».
Ha conosciuto e lavorato con Le Corbusier. Che ricordo ne ha?
«Un maestro, anche se non condividevo certe sue scelte. Umanamente era invece molto sfuggente e non abbiamo legato molto».
Chi sceglierebbe come modelli?
«Palladio e Alvaar Aalto sono stati fondamentali nella mia formazione».
Soltanto loro?
«No, anche l'invenzione del cemento è stata per me altrettanto fondamentale».
L'hanno spesso definita «razionalista sensuale». Perché?
«Non ho mai amato le linee rette e neppure gli angoli rigidi e inflessibili creati dall'uomo: li trovo innaturali. Sono sempre stato attratto dalle forme morbide e fluttuanti. Per questo i miei progetti nascono spesso da una forma curva come è curva la silhouette di una bella donna. Dunque un tratto semplice ma anche sensuale. Forse da questa miscela nasce l'idea del razionalista sensuale».
Che ricordo conserva del cantiere per la Mondadori di Segrate...
«Quella con Giorgio Mondadori è stata una bellissima esperienza, anche dal punto di vista umano. All'inizio non era quello che Mondadori avrebbe voluto, ma poi il risultato finale l'ha convinto».
Quando si parla di lei, impossibile non pensare subito a Brasilia. Come vede oggi quel progetto?
«Come un sogno realizzato: il sogno di dimostrare che il Brasile poteva essere capace di fare grandi progetti, di creare addirittura una città. Certo, anche i sogni possono dare problemi. E i problemi a Brasilia sono quelli, ad esempio, di edifici che si degradano o di una manutenzione difficile. Ma direi che può andare bene così».
Ma il Brasile non è solo il sogno di Brasilia...
«Oggi è anche violenza e povertà. È un Paese di grandezze e di miserie, il Paese di Ipanema e delle favelas. È un Paese per il quale bisogna continuare a combattere senza arrendersi mai. Anche se forse, davanti a questa realtà, viene da pensare che il progetto messo in pratica da Fidel Castro a Cuba sia l'unico che abbia dato risultati positivi. Almeno in tutto il Sudamerica».
Perché ha votato Lula?
«In realtà avevo scelto Ciro Gomes, ma non aveva alcuna possibilità di diventare presidente. Così ho ripiegato su Lula, che però mi sembra che si stia muovendo bene. E così, come dice Lucas il protagonista della mia novella E agora?, la rivoluzione per ora può attendere».
Dell'Italia cosa pensa?
«Un bellissimo Paese soprattutto perché in Italia ho tanti amici (d'origine italiana era anche Annita, la moglie di Niemeyer scomparsa all'inizio di ottobre, ndr)». E della sua architettura?
«Meglio quella classica, del Palladio, appunto».
A gennaio si deciderà la sorte del suo auditorium per Ravello, un progetto che ha suscitato molte polemiche...
«Credo che ci siano state incomprensioni. Continuo a giudicarlo un buon progetto, ma il modo con cui è stato sviluppato non è esattamente quello che pensavo».
Architetto, cosa si prova a essere definito un maestro?
«Niente. Continuo ad andare in studio tutte le mattine alle dieci e a progettare come ho sempre fatto, ma continuo anche a leggere, disegnare, scrivere».
Ma il suo studio nonostante i tanti lavori in corso non è poi così grande...
«E perché mai dovrebbe esserlo? Per progettare basto io».
CAGLIARI - Arriva l´acqua a valanghe, e la Sardegna sembra recuperare, anche se un po´ a fatica, la sua memoria contadina. Il fango travolge le case e le strade, le frane isolano ovili e porcili, si piangono i morti e si dice: «Mai tanta acqua, qua non eravamo abituati». E´ questa la frase che ricorre, tra i soccorritori e gli alluvionati, ma è un alibi. In realtà i fiumi perenni dell´isola sono solo due. E i fiumiciattoli, i torrenti, i rii sono centinaia.
Stanno in secca durante l´estate, o per anni interi, all´improvviso assecondano le leggi della natura e tornano a pulsare acqua e fango, ad incanalare tutto quello che il terreno della montagna - dove spesso si sono costruite le case e non si sono creati argini e muretti - non riesce più ad ingoiare.
«Su questi fiumi hanno costruito di tutto - dice Antonio Dessì, ds, assessore all´Ambiente della nuova giunta regionale di centrosinistra - ed è stato un grave errore. Se si costruisce su un fiume è imprevedibile solo il "quando" ci sarà il disastro, ma il disastro ci sarà. Un mese fa ero a Bonorva, nella zona di Sassari, e tre isolati sono franati. Sembra un´altra storia, rispetto al dramma di questi giorni, ma è la stessa storia, anche lì c´era un fiume, e ci hanno costruito sopra, e poi...».
Là eravamo a ovest, oggi siamo a est, nell´Ogliastra, nella Baronia, nella martoriata Galtellì, e siamo a Villagrande Strisaili, tra persone incrollabili che, con impermeabili di buste di plastica e a mani nude, spalano, sgomberano, si aiutano.
Il paese è ancora commosso per l´omelia di monsignor Antioco Piseddu, il vescovo di Lanusei. Ha preso la parola al funerale della nonna e della nipotina uccise dalle frane di Villagrande: «Mi piace immaginare che la nonna consegna la nipotina a Maria dicendole: "Tienila sempre con te, è così piccola, ha tanto bisogno di carezze"». Ma il paese è anche furibondo contro sé stesso, contro la politica che questa terra ha prodotto: «C´erano tre fiumi, il Mesu Idda, Bau Argili e Figu Niedda, passavano in mezzo alle case, ma li hanno intubati, ci hanno messo il cemento intorno e poi sopra l´asfalto. E adesso - spiegano - sono esplosi». Sono immagini difficili da credere, quelle che si vedono e che le tv locali continuano a trasmettere: una moderna litania dei ricordi perduti, delle occasioni sbagliate. I pezzi di quel cemento sono stati sparati dovunque, sembrano macerie di un attentato come quelli di Baghdad. Sono i fiumi che hanno mostrato i muscoli, distrutto appartamenti, allagato palazzine, rubato le automobili.
La furia degli elementi non la può negare nessuno, la notte di lunedì è stata una notte di Valpurga. Ancora adesso riemergono chicchi di grandine tra i detriti che, come un nuovo manto stradale, hanno sfigurato il paese. Ma se i danni materiali sono ingenti, qui è stata davvero la tragedia di Francesca, che aveva tre anni, e di nonna Assunta, a spezzare i discorsi e trasformare il dolore in polemica. E la morte delle due compaesane a rammentare che sono sempre le persone comuni a pagare il prezzo più alto, e c´è la cugina di Francesca che ancora va in giro con la bambolina che la bimba portava con sé, e piange. «Siete i nostri angeli, vegliate su di noi», si pregava in chiesa.
Ma, insieme alle lacrime, sembra tornare la saggezza perduta dei nonni.
Bruno Alfonsi, il procuratore di Lanusei, non ci sta, nemmeno lui: «Non è giusto addebitare ogni cosa alla forza distruttrice del caso».
Indaga per duplice omicidio e disastro colposo, e sostiene che è «un dovere morale, prima ancora che giuridico».
Costruire case per abitare, costruire case da affittare, costruire case per investire capitali. Costruire su ogni metro quadrato disponibile, costruire il più possibile, anche questo è all´origine delle tragedie in Sardegna. Come mai, se no, l´altro disastro è a Siliqua, nel cagliaritano? E dove, a Siliqua? Semplice: dove hanno costruito a ridosso del Rio Forrus, che s´è gonfiato e ha occupato campi, capannoni, aziende. Qui ognuno racconta le scelte di paesi vicini, che hanno lasciato i fiumi all´aperto, hanno costruito argini antichi, e non hanno deviato gli alvei.
Dall´alto gli elicotteri controllano le dighe, che sinora reggono. I forestali portano foraggio ad armenti isolati, piccoli furgoni trasportano cadaveri di mucche e pecore, i volontari dell´organizzazione Masesu danno pasti caldi a chi lavora, ai 29 sfollati. Qui chiamano «montagna» le grandi colline, ma molte di queste gobbe verdi sono rovinate da frane grigie e marroni. E non è ancora finita, quest´emergenza-Sardegna: si teme per oggi, soprattutto nella parte meridionale, il ritorno degli acquazzoni. «Mai tanta acqua», ripetono in tanti, è forse un indizio del clima che sta cambiando dovunque nel mondo. Ma non è solo questo, se l´assessore all´Ambiente aggiunge: «Nel cassetto c´era il Pai, piano di assetto idrogeologico, che non è stato mai reso operativo. Noi lo faremo al più presto - assicura Dessì - non si possono ripetere gli errori del passato».
Non si può dar torto a Berlusconi quando afferma che il ponte sullo Stretto è "un'opera strategica". Se infatti tutti i suoi predecessori, Presidenti del Consiglio, hanno tergiversato accontentandosi di foraggiare le piccole lobbies locali pro Ponte e garantendo loro per trent'anni lauti stipendi ed uffici, solo lui ha saputo intuire le potenzialità straordinarie del progetto. Un'opera inutile e irrealizzabile, è vero, ma con una formidabile disponibilità finanziaria immediata (3.000 miliardi di lire, dote dell'Iritecna, immediatamente spendibili) che rende piacevole la altrimenti disperata missione di rendere progettabile l'impossibile.
Un'opera inutile che nessuno vedrà mai completata può fare miracoli. In primo luogo la progettazione ha già una dotazione finanziaria che metterebbe l'acquolina in bocca a chiunque. La società che vincerà la gara come "main contractor" vedrà le sue quotazioni impennarsi e questo soltanto potrebbe garantire il profitto dell'operazione. Il completamento o meno del lavoro diventa ininfluente in quanto nessuna garanzia, sembra, sarà richiesta circa i tempi. E centinaia di motivi salteranno fuori, in corso d'opera, per giustificare ritardi ed errori di progettazione, e richiedere quindi ulteriori finanziamenti e allungamento dei tempi di consegna.
Si preannuncia quindi una specie di pozzo di San Patrizio da cui si potranno drenare risorse pubbliche (e solo pubbliche) per decenni. I precedenti, per quanto modesti al confronto, sono sotto gli occhi di tutti, dall'Autostrada Palermo-Messina alla Variante di Valico. Si ripeterà quindi, molto in grande questa volta, il solito scenario in cui tutti i profitti vanno ai privati (ampia categoria che troverà una fonte di finanziamento praticamente illimitata) e tutti i costi al pubblico a cominciare dai fondi che potrebbero essere spesi in modo produttivo altrove nel Meridione o nel resto d'Italia.
Tutto ciò dimostra una cosa: che questa è un'opera strategica non solo per la Sicilia o la Calabria ma per l'intero Paese, che la sua realizzazione avvenga o meno. Ancora oggi fuori dalle aree direttamente interessate si tende a considerare la questione Ponte come un problema locale che poco tocca gli interessi collettivi. Su questo le associazioni ambientaliste sono sicuramente più avanti di molti partiti avendo intuito che non sarà solo la devastazione ambientale a segnare l'esecuzione (anche se solo parziale) del Ponte. L'impiego di migliaia di miliardi solo sul Ponte frena la realizzazione di infrastrutture di trasporto alternativo alla strada (Autostrade del Mare e ferrovie in primo luogo) condannando le produzioni meridionali alla pura sopravvivenza assistita e le reti autostradali del nord al già visibile collasso.
Va detto che anche molti settori del centro sinistra su questa vicenda sono spesso reticenti e ambigui. Non è stato dimenticato l'intervento di Rutelli in campagna elettorale che assicurava ai giornalisti che con il suo governo il Ponte sarebbe stato realizzato. Frutto del desiderio di far contenti tutti, di scarsa informazione o della consapevolezza delle potenzialità "strategiche" che si aprono per un governo che possa mettere le mani su una torta di queste proporzioni e caratteristiche?
Oggi che, grazie alla determinazione del governo Berlusconi, si è passati dalla fase immaginifica a quella operativa con i quattrini fra i denti, alla sinistra spetta il compito di dire una parola chiara e di scegliere una linea. Linea che non può essere quella di nominare commissioni di studio, advisors e simili facezie. Meglio affrontare il problema e decidere da che parte stare e meglio ancora dire ai propri elettori le ragioni delle scelte senza rifugiarsi nelle solite parole vaghe e buone per tutte le occasioni.
Si può decidere che il Ponte è opportuno farlo. Legittimo. Mettendo subito in mano a chi farà la progettazione qualche migliaio di miliardi (i nomi già circolano), far partire appalti per movimento terra per altre migliaia di miliardi (sperando che siano riconoscenti subito ed al momento delle elezioni) sapendo che questa scelta avrà conseguenze sul futuro non solo dell'area dello Stretto.
Ci auguriamo, senza voler dare lezioni a nessuno, che si riesca ad avere la lucidità di comprendere che non è utile accodarsi e condividere posizioni che nell'immediato possono sembrare più produttive sul piano del consenso. Le Associazioni non dispongono di sondaggisti ma possiamo assicurare che in un anno l'opinione pubblica, grazie all'opera di informazione che capillarmente si sta conducendo almeno in Sicilia, sta cambiando punto di vista. Informazione e non propaganda, si noti. Siamo disponibili, dopo esserci spesi nell'approfondimento di tutti gli aspetti di questa vicenda (tecnici, economici, trasportistici) e non solo quelli di stretto carattere ambientale, a dare un contributo per spiegare il nostro punto di vista non preconcetto ma informato. Spiegarlo in tutte le sedi a chi è interessato, e ci auguriamo, quindi, in primo luogo anche a chi fa la politica del nostro Paese.
RAVELLO - Dal belvedere mozzafiato di Villa Rufolo, la terrazza a sbalzo nel vuoto dove si tengono durante l´estate i concerti di musica classica a Ravello, lo sguardo si perde sullo spettacolo naturale della costiera amalfitana, fino alla linea dell´orizzonte che delimita il mare. Ora, nella stagione invernale, il turismo cade in letargo. Ma la "Città della Musica" coltiva un sogno che in un futuro prossimo venturo potrebbe rianimarla per tutto l´anno: quello di un Auditorium da 400 posti, progettato dall´architetto brasiliano Oscar Niemeyer e diventato inopinatamente il pomo di un´assurda discordia fra le associazioni ecologiste.
Méta abituale di un turismo colto e raffinato, incastonata come una perla a 350 metri d´altezza fra le colline dell´entroterra e il Tirreno, prodiga di monumenti e ville storiche, Ravello gioca oggi la "scommessa della qualità italiana" come antidoto al declino nazionale, di cui il nuovo presidente della Confindustria, Luca Montezemolo, non vorrebbe neppure sentir parlare. E così il Comune, la Provincia e la Regione, con il sostegno del Monte dei Paschi, hanno costituito una Fondazione che, nell´ambito del celebre Festival, promuove un "meeting" annuale a cui partecipano i maggiori esperti della materia: produttori, imprenditori, studiosi e ambientalisti. Da qui parte, dunque, il nostro viaggio nell´Italia di Qualità, alla ricerca di quel "modello" evocato dal presidente Ciampi, fondato sulla "ricchezza e varietà del patrimonio culturale", un esempio unico al mondo, in grado di coniugare i rapporti sociali ed economici con la tradizione e l´innovazione.
"Per dare uno sviluppo duraturo e sano al Paese - si legge nella "Carta di Ravello", una sorta di manifesto programmatico della Fondazione - dobbiamo fare appello alle sue risorse più preziose". E´ una Santa Alleanza che, sotto il segno della qualità, chiama a raccolta le Reti territoriali, "una delle più originali occasioni di riscoperta delle risorse naturali, storico-culturali, enogastronomiche e artigianali"; il mondo delle imprese e del credito, "a partire da tutti coloro che per competere nella dimensione globale hanno scelto di fare leva sulla vocazione italiana all´eccellenza"; e infine la società civile che "su strade non convenzionali ha saputo orientare grandi energie proprio verso la ricerca della qualità" nell´ambiente o nei servizi di assistenza. In questo variegato "cartello", si ritrovano perciò soggetti e personaggi di estrazioni anche molto diverse: dall´Associazione Città del Bio, e poi del pane, del vino, dell´olio, del miele o del tartufo, all´Associazione dei Paesi dipinti e dei Borghi più belli d´Italia; dall´amministratore delegato di Unicredito, Alessandro Profumo, all´industriale delle scarpe Diego Della Valle e al presidente dei Giovani imprenditori, Anna Maria Artoni.
In che cosa consiste, concretamente, questa mitica "qualità italiana"? E´ un dono della natura, un´eredità della storia, un prodotto dell´uomo e magari anche della donna? «La qualità si vede, si sente, si annusa, si gusta e si tocca», elenca il sociologo Domenico De Masi, grande affabulatore e presidente della Fondazione Ravello. C´è dentro, insomma, di tutto e di più: il paesaggio, la cultura, l´arte, la musica, il design, la moda, i profumi, gli odori e i sapori, tutti i prodotti di un "made in Italy" che forse a questo punto converrebbe ribattezzare "made in Quality".
«Dalla produzione di beni materiali in grandi serie - argomenta De Masi - i Paesi più progrediti stanno passando alla produzione di beni immateriali: informazioni, simboli, valori, estetica. Tutto il resto ormai lo producono le macchine oppure il Terzo Mondo». Nella visione cosmica del sociologo, il pianeta si divide in tre grandi aree: i produttori di idee; i produttori di beni materiali, come Taiwan, Singapore, la Russia o il Brasile; e i produttori di materie prime. Rispettivamente il reddito medio pro-capite corrisponde a 20-30 mila dollari all´anno nella prima area; arriva fino a 7-8 mila nella seconda e si ferma a 100 nella terza. E di conseguenza, il costo orario del lavoro va da zero a 25 dollari.
Con uno standard appena inferiore ai massimi, l´Italia - spiega il sociologo - è incastrata: «Noi possiamo produrre solo beni da primo mondo». Ma per fare questo su scala nazionale occorrono tante "fabbriche delle idee", università di alto livello, scuole di eccellenza, laboratori, centri di ricerca. Nel frattempo, con il suo Festival estivo, la Fondazione e domani magari l´Auditorium, Ravello cerca di fare la sua parte offrendo un "pacchetto" che riunisce tre requisiti: «Una vacanza di qualità, un contesto urbano di qualità, una rete di persone di qualità».
E´ così che questo paesino di 2.500 anime viene invaso ogni anno - secondo i dati dell´Azienda di soggiorno - da un esercito di circa 120 mila turisti, più stranieri che italiani, richiamati dai concerti all´aperto, dagli spettacoli e dagli altri eventi culturali, con le punte più alte da maggio a settembre. L´insufficienza di sale chiuse e capienti impedisce però di proseguire oltre. Con l´Auditorium di Niemeyer, invece, il Festival potrebbe continuare anche d´inverno e la stagione dei congressi allungarsi a dodici mesi, a vantaggio degli alberghi, delle pensioni, delle camere in affitto, dei bar e dei ristoranti. E a trarne beneficio sarebbe, ovviamente, tutta la comunità locale.
Sono passati quattro anni ormai da quando l´architetto brasiliano ha consegnato il suo progetto, regalandolo alla città con tanto di plastico in scala. Il terreno è stato individuato. I fondi (18,5 milioni di euro) sono stati stanziati e sono già disponibili. Ma l´opposizione di Italia Nostra, preoccupata dell´impatto ambientale, ha bloccato finora l´inizio dei lavori con un ricorso che è stato accolto dal Tar di Salerno. A favore dell´opera, insieme agli amministratori locali, si sono schierati invece Legambiente, il Fai e il Wwf in una paradossale diatriba che ha spaccato il fronte ecologista.
Ora la "Città della Musica" aspetta il responso del consiglio di Stato per rilanciare il suo "programma di qualità" 365 giorni all´anno. In un comune che registra più di ottocento domande di condono, affacciato su una costa devastata dalla speculazione edilizia, non sarà verosimilmente il moderno Auditorium di Niemeyer a deturpare il paesaggio. «Anzi - replica il sindaco della Margherita, Secondo Amalfitano - l´opera servirà a restituire dignità architettonica a uno degli angoli più panoramici, ma anche più degradati di Ravello». L´alternativa, del resto, è che un gruppo di privati - in opposizione al Comune, alla Regione e alla Comunità montana - costruiscano su questo stesso terreno un parcheggio di loro proprietà e per il loro personale profitto.
Allo "spirito di Ravello", dopo una riunione trasversale dei Governatori tenuta qui nei mesi scorsi, s´è richiamato recentemente anche il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, come a una fonte d´ispirazione e di concordia. «Questo - dice ancora il sindaco - è un contenitore ideale delle qualità italiane, rappresenta un luogo e un momento unificante». E in una prospettiva più nazionale il suo collega di partito, Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente onorario di Legambiente, uno dei promotori della Carta di Ravello, professa un "patriottismo dolce" avvertendo proprio da qui che «la scommessa politica del nuovo Ulivo sarà quella di coniugare modernizzazione e competitività».
Postilla
Valentini dimentica di dire che l'opposizione non è solo di Italia Nostra, e che l'unico motivo di opposizione non era "l'impatto ambientale", ma una serie molto più ricca di ragioni. Tra queste, dirimente era per alcuni (me compreso) quella della palese illeggittimità dell'intervento. L'illeggittimità era già stata rilevata dal TAR in occasione della presentazione del nuovo PRG, che difatti non fu mai approvato. Ne ha preso atto di nuovo il TAR alla deliberazione del progetto. La ripetuta pronuncia del TAR è stata convalidata in prima istanza dal Consiglio di Stato, che ha negato al Comune la sospensiva. E' stata implicitamente riconosciuta da quanti (Bassolino, Di Lello) hanno dichiarato che cambieranno la legge pur di far fare l'auditorium.
Se la legge non mi va bene la ignoro, la scavalco, e se non mi riesce ne faccio un'altra che mi vada bene. E' un bell'esempio che i pubblici poteri danno, in una regione infestata dalla camorra! (es)
Sullo stesso argomento:
Eddytoriale n. 35 del 19 gennaio 2004
Eddytoriale n. 42 del 2 maggio 2004
e molti altri scritti nella cartella
SOS -SOS - SOS / Ravello
Il rilancio dell’urbanistica
La differenza tra le esperienze urbanistiche di Milano e Bologna e quella romana sta tutta nello stato d’animo di chi ha il compito di svolgere la relazione introduttiva. I due relatori che mi hanno preceduto, infatti, hanno sottolineato con forza e con sdegno le distorsioni prodotte da una prassi che demolisce la pianificazione sull’altare di una contrattazione continua con la proprietà fondiaria.
Non si può dar loro torto, poiché criticano quello stesso schieramento politico che nel breve volgere di un anno ha sconvolto il panorama legislativo nazionale. La legge sulla privatizzazione dei beni immobiliari pubblici prevede la possibilità di variante urbanistica mediante accordo di programma per valorizzare (così recita l’articolo 14, comma 3) i beni da vendere. Con la legge sulle grandi opere si abolisce di fatto ogni vincolo paesistico e ambientale: basta essere inseriti nell’apposito elenco delle opere strategiche per superare qualsiasi tutela. Con la introduzione della “super dia” è permesso demolire e ricostruire anche nei centri storici con una semplice segnalazione al comune. La valutazione di impatto ambientale è di fatto abolita. E mentre si avvia la svendita del patrimonio culturale per fare cassa, nel Lazio si vuole restituire alla speculazione una parte delle aree tutelate dai parchi. Lo sdegno è dunque il sentimento adatto per giudicare l’operato delle forze della destra.
Il mio stato d’animo non può essere lo stesso. Dovrò elencare una serie di gravi alterazioni della prassi pianificatoria che a Roma ha preso il nome di “pianificar facendo”, che non differisce affatto dai due precedenti casi. Anzi a ben guardare è la più sistematica operazione culturale di demolizione dell’urbanistica mai tentata fin d’ora, anche per la contiguità fisica e culturale tra le persone che hanno contribuito alla redazione dei nuovi strumenti di intervento in deroga che il Ministero dei Lavori pubblici ha emanato negli anni ’90 e quelle che hanno costruito la nuova disciplina urbanistica romana.
Ma Roma rappresenta contemporaneamente la più solida speranza di un’alternativa al governo delle destre. Per questo motivo, insieme alla critica severa non è mai mancata in nessuno di noi la consapevolezza di non fare regali a coloro che renderebbero ancora peggiore la qualità del governo urbano. Anche nei momenti di maggiore attrito si è sempre mantenuto un atteggiamento teso alla correzione di quelli che consideriamo errori gravi.
In quest’ultimo periodo, per la verità, siamo in presenza di segnali che non sottovalutiamo. Il sindaco Veltroni è intervenuto spesso nella vicenda urbanistica dimostrando di avere a cuore le critiche che si muovono in molte parti della società romana. Svolgerò la mia relazione nella speranza che si possa ancora cambiare una proposta di piano regolatore che non convince la città.
Se poniamo con forza una questione di numeri del piano è perché ci troviamo di fronte ad una contraddizione insanabile. Una città che conferma il forte declino demografico viene allo stesso tempo sottoposta ad una previsione edificatoria che è pari a quella che venne realizzata nel periodo 1981/1991. Allora furono realizzate 135.000 nuove abitazioni, pari a circa 40.000.000 di mc. Oggi i documenti ufficiali del nuovo piano ci dicono che la manovra complessiva è pari a 69 milioni di metri cubi, equamente suddivisi tra residenze e servizi.
Appare evidente che la città viene condannata a un destino insostenibile, anche perché il consumo di suolo aumenta vertiginosamente proprio per le caratteristiche culturali del piano. Di recente le associazioni ambientaliste hanno presentato un approfondito studio da cui si evince che a fronte dei circa 40.000 ettari di territorio urbanizzato al 1998 si aggiungono altri 11.000 ettari, ma a fronte di una percentuale di aumento di volume sull’esistente pari al 9,2%, si arriva ad un valore del 19,8 % di incremento di consumo del suolo: è la conseguenza del meccanismo della “ compensazione urbanistica” come vedremo in seguito. Resta il fatto che se ai 51.000 ettari se ne aggiungono ulteriori 5.000 relativi a tutte le aree urbanizzate presenti all’interno dei perimetri dei parchi, si ha che la superficie urbanizzata totale al 2011 è pari al 43 % dei complessivi 129.000 ettari del territorio romano. Restano dunque 73.000 ettari di spazi aperti: ma essi sono parzialmente a rischio per l’indeterminatezza della normativa tecnica del piano (come ad esempio per le aree ferroviarie).
Lo ripetiamo, questa prospettiva è insostenibile a fronte dell’enorme spostamento di popolazione nella fascia metropolitana: qui è la prima censura verso l’impostazione del piano, e cioè l’abbandono di qualsiasi prospettiva di assetto metropolitano, proprio oggi in cui tutti i fenomeni -dalla mobilità alla demografia- si comprendono soltanto se si guarda al di là dei confini di Roma.
Dalle relazioni allegate alla nuova proposta di piano leggiamo poi che circa 40 dei 69 milioni previsti sono già stati decisi dalla cultura del pianificare facendo, e cioè attraverso la versione romana del liberismo applicato all’urbanistica. Nessuno sembra chiedersi quando e perché sia stata decisa una così colossale colata di cemento. E’ invece fondamentale comprenderne motivazioni e strumenti utilizzati ai fini operativi.
Sono tre i periodi in cui si può suddividere la storia urbanistica di questi ultimi anni. Ciascuno di questi periodi ha utilizzato un concetto chiave, nell’ordine i diritti acquisiti, le centralità e la compensazione, su cui svolgeremo alcune riflessioni.
Il primo periodo è quello, così si affermò, relativo all’anticipazione del nuovo disegno di piano. Si disse che l’avvio di alcune trasformazioni era coerente con gli assunti teorici del nuovo piano.
Sono cinque i quadranti urbani interessati da quelle decisioni. Alla Bufalotta oltre a due consistenti piani di zona si prevede la trasformazione dell’ex autoporto. La conseguenza sarà la saldatura del quadrante nord sul Gra, mentre l’intera area è priva di trasporti su ferro. Al Collatino si concentrano il nuovo mercato agroalimentare, il polo tecnologico, il grande quartiere privato di Ponte di Nona e una grande area commerciale. La conseguenza sarà la saldatura con Guidonia-Zagarolo, mentre è assente il trasporto su ferro. A Cinecittà si avviano due nuovi piani di zona, l’area commerciale Ikea e altre localizzazioni terziarie. La conseguenza sarà la saldatura con Frascati. Il comprensorio è solo lambito dal sistema su ferro. Al Laurentino oltre al piano di zona di Tor Pagnotta e al polo sanitario privato a Trigoria si pensa di avviare la lottizzazione privata di Tor Pagnotta. La conseguenza sarà l’accentuazione delle tendenze alla conurbazione con Pomezia. Il comprensorio non è servito dal ferro. Alla Magliana si è dato avvio alla edificazione delle aree Alitalia, al completamento dell’ex autoporto di Ponte Galeria e ad alcune attrezzature alberghiere. La conseguenza sarà la saldatura con Fiumicino. Il comparto è solo lambito dal sistema su ferro. Questi quadranti sono attualmente in fase di completamento: i loro effetti sull’organismo urbano si sentiranno pertanto a partire dalla metà del prossimo anno.
Gran parte delle decisioni sono state prese con varianti di destinazione d’uso mediante accordi di programma e si basavano su uno dei pilastri teorici del piano: che tutte le cubature residue del piano del 1962 fatte salve dalle varianti ambientali degli inizi degli anni ‘90 fossero “diritti acquisiti”. E’ invece noto che le leggi urbanistiche in vigore non contengono alcun riferimento di questo tipo: attraverso una rigorosa motivazione si possono cancellare previsioni giudicate superate o anacronistiche. Ma questa motivazione deve essere coerente: quando invece, come a Roma, si applica una politica di variazione discrezionale e continuativa non si è in grado di opporre coerenza. Nessun obbligo, nessun diritto, dunque, ma una deliberata scelta.
Il secondo periodo è relativo al sistematico uso dei cosiddetti programmi complessi e cioè l’insieme degli strumenti derogatori del piano regolatore ideati dal Ministero dei Lavori pubblici. Sottolineo ancore che a differenza di Milano e Bologna, Roma si pone in questo caso come la punta più avanzata della sperimentazione della cosiddetta nuova urbanistica: lo testimonia l’ampiezza delle operazioni avviate. Appartengono a questo periodo l’avvio di 5 programmi di riqualificazione urbana (Case Rosse, Borghesiana, Pigneto, Quadraro, Ostia Ponente) e di 11 programmi di riqualificazione urbana (Valle Aurelia, Fidene-Val Melaina, San Basilio, Labaro-Prima Porta, Tor Bella Monaca, Laurentino, Acilia, Magliana, Corviale, Primavalle-Torrevecchia, Palmarola-Selva Candida). In complesso altri milioni di metri cubi in variante: per quanto riguarda i primi stanno per iniziare i cantieri in questi giorni. I secondi saranno approvati tra breve dopo una defatigante opera di contrattazione con la Regione Lazio.
Il pilastro teorico che regge l’operazione è che in questo modo si sarebbe portata qualità nelle anonime periferie romane, e cioè che si sarebbero costruite “ centralità” e servizi che mancano. Credo al contrario che sia maturo il tempo in cui sottoporre ad un giudizio esente dalla vuota retorica questi programmi. Essi si basano sul principio della contrattazione urbanistica, ma il loro incipit pone una insuperabile ipoteca da qualsiasi prospettiva socialmente utile: la delega al privato della definizione degli obiettivi. So bene che vengono redatti programmi preliminari -tanto generici quanto elastici, peraltro- e anche nella fase della concertazione molto spesso i programmi vengono migliorati. Ma, appunto, se va bene si limitano i danni, non si costruisce una svolta: tant’è che in quelle desolate periferie verranno realizzati pochi edifici per uffici e molti nuovi insediamenti commerciali di media e grande dimensione che non rappresentano certo un modello culturale e sociale.
Del resto, anche se analizziamo quali siano stati le centralità fin qui concretamente realizzate si resta nel campo delle attività commerciali: Alla Pantanella ha aperto un Super Bingo, alla Bufalotta verrà realizzato la più grande superficie di vendita fin qui realizzata, alla Magliana i rari edifici terziari sono avulsi dal tessuto urbano, al Polo tecnologico, in attesa del Polo satellitare che colpevolmente si continua a negare a Roma, verrà realizzata una superficie commerciale.
C’è poi da osservare che la “cura del cemento” in atto non sembra giovare alle quotazioni di mercato. La rivista mensile della Borsa immobiliare, infatti, continua a produrre i dati storici dell’evoluzione del mercato edilizio romano da cui emerge che nel decennio 1992-2002 crescono molto i valori degli immobili localizzati nelle aree qualificate della città, mentre i prezzi nelle periferie al massimo sono stabili nel decennio, mentre più frequentemente accusano leggere flessioni: continuare ad edificare, dunque, non sembra una ricetta efficace né per la città nè per gli abitanti di quei luoghi.
Eppure nell’indifferenza generale esistono a Roma esempi di trasformazioni positive e di creazione di vere centralità: i due programmi di sviluppo dell’università di Tor Vergata e del terzo ateneo, dimostrano che un lungimirante progetto pubblico è l’unico strumento in grado di riqualificare la città. E’ un punto fondamentale per la ripresa di un pensiero progressista sulla città: il recupero del ruolo pubblico, di un pensiero alto che sappia interpretare bisogni e costruire le condizioni per attuarle. Certo che questa impostazione deve fare i conti con la limitatezza degli investimenti pubblici, ma mi chiedo se non sia arrivato il momento in cui non venga ponga finalmente come grande questione nazionale il destino delle città: Roma potrebbe porre tutto il suo peso in questa affascinante sfida.
E veniamo alla terza fase, e cioè alla proposta di piano regolatore in discussione. Si comprende che è inevitabile una prima critica metodologica. All’interno degli elaborati di piano, infatti, le nuove trasformazioni previste sono state graficizzate allo stesso modo di quelle appartenenti ai primi due capitoli che invece sono ormai decisi e in gran parte attuati: chiediamo pertanto che venga fornita una chiara distinzione tra ciò che è stato deciso e ciò che è ancora in discussione e cioè, i residui trenta milioni di metri cubi. Non è un passaggio che allunga i tempi: con gli strumenti informatici questi elaborati possono essere prodotti in pochi giorni. Polis e Aprile sono per una rapida approvazione del piano, ma una discussione vera potrà avvenire soltanto se la città sarà messa in grado di capire. Del resto, è una questione di trasparenza e democrazia analoga a quella che l’assessore Morassut, gliene do atto con piacere, ha compiuto sulla questione delle cubature del piano: l’operazione di corretta quantificazione delle cubature effettuata è stato infatti un atto coraggioso.
Ma veniamo al merito: il piano in discussione inverte la china rovinosa che ho tratteggiato o la conferma? Credo che siamo sempre all’interno della stessa logica che contratta ogni trasformazione senza definire un quadro di coerenze. Molte delle norme rinviano a successive specificazioni, è il caso dei progetti urbani e dei programmi integrati di riqualificazione. In molte aree urbane strategiche non vengono specificate le trasformazioni previste, come nel caso degli enormi comprensori ferroviari di San Lorenzo. In altri casi si da il via a trasformazioni con una disinvoltura che rischia di mettere a repentaglio il patrimonio storico della città: è il caso degli ambiti di valorizzazione della città storica. Ancora, si consente un’ulteriore, definitiva, terziarizzazione del centro storico e della fascia all’interno dell’anello ferroviario perdendo di vista i destini dell’intera città.
Ma sono solo alcuni esempi: credo che non sia necessario che mi soffermi su dettagli tecnici che altri potranno fare meglio di me: il dibattito fornirà sicuramente molti suggerimenti che l’assessore potrà utilmente prendere in considerazione. Vorrei invece soffermarmi su tre questioni cruciali. La prima è come si affronta lo squilibrio tra l’eccesso di funzioni nel centro storico e la desolazione delle periferie. Mi sembra al riguardo che non sia stata colta l’occasione di un effettivo decentramento di funzioni pubbliche, né tantomeno di una posizione chiara sul progetto Fori, e cioè sull’idea di centro storico che si vuole perseguire: lo si abbandona all’attuale insostenibile congestione. Ne’ sembrano convincenti le centralità sparse in ogni dove (come a Massimina o nella lontana Gabi) e lasciate a funzioni ancora indeterminate proprio perché si è rinunciato a governare la leva pubblica.
Il secondo aspetto riguarda il modello che viene prefigurato: siamo di fronte ad una gigantesca macchia d’olio, e cioè un assetto che è congeniale alla moltiplicazione delle rendite, ma che non delinea un’idea alternativa rispetto all’attuale stato di crisi urbana. Anzi, dobbiamo rilevare un grave peggioramento del piano presentato dalla precedente amministrazione nella definizione di ulteriori aree di espansione urbana – gli ambiti di riserva edificatoria- che aggiungono alle conurbazioni già elencate anche quelle lungo la via Cassia, così da prefigurare una conurbazione con Anguillara e lungo la via Ardeatina.
Da ultima la questione del consumo di suolo che è intimamente legata ad un altro pilastro teorico del piano, “ la compensazione”. Vale la pena di ripeterlo, ma la quantità delle aree messe in gioco è insostenibile, non serve ad una città in declino demografico e non inverte la tendenza ad un progressivo impoverimento della periferia. Questo diluvio di cemento non sembra infatti portargli fortuna: la Borsa immobiliare ha certificato che la quasi totalità dei quartieri esterni di Roma hanno subito un decremento di valori immobiliari nel decennio 1992-2002. Occorre dire basta all’espansione e dedicarsi alla riqualificazione: questo è l’obiettivo. Anche perché attraverso il meccanismo della compensazione si aumenta esponenzialmente il consumo di suolo. A Tor Marancia, ad esempio, un partito politico che era favorevole alla completa edificazione ha ora proposto che venisse compensata la parte (400.000 metri cubi) che veniva realizzata lontano da quel meraviglioso comprensorio. Così i proprietari che ci guadagnano sono due e si consuma suolo prezioso.
Proprio in questi giorni il sindaco Veltroni ha rilasciato un’intervista al Messaggero in cui sancisce il definitivo tramonto dell’istituto della compensazione: è un passo importante per porre le basi per una profonda revisione del piano.
E torno per concludere alla questione principale. L’urbanistica -insieme a tanti esempi negativi che non vanno sottovalutati- ha permesso anche di creare città più vivibili e di contribuire alla maturazione di una coscienza civile. La discussione sul futuro della città deve riguardare tutti i cittadini e non solo gli addetti ai lavori. I nuovi strumenti dell’urbanistica hanno cancellato partecipazione e trasparenza: proprio a Roma sono stati decisi 40 milioni di metri cubi senza che il coinvolgimento sociale permettesse di costruire una città migliore e più vivibile.
Ecco dunque la grande occasione che ci permettiamo di sottolineare: il sindaco Veltroni può invertire questa china rovinosa per le forze di progresso e porre le basi per una rinnovata fiducia con la città. Del resto, e finisco davvero, la situazione romana è caratterizzata dallo svolgimento di una numerosa serie di assemblee sul piano regolatore: in esse si coglie un atteggiamento consapevole e maturo, ma non si coglie consenso verso questo piano.
Non cerchiamo scorciatoie o forzature: recuperiamo invece queste zone d’ombra invece di farle andare verso la deriva di un silenzioso distacco dalla politica e dall’impegno sociale.
Paolo Berdini
CASTELLAMMARE DEL GOLFO - La collina sfregiata è un pizzo leggendario da queste parti. Dicono che il Castellaccio sia una montagna sacra, battuta dai venti, inospitale e impossibile da coltivare. Ha però un´impareggiabile vista: guarda dritto al mare di Scopello, lì dove comincia la riserva dello Zingaro. Per secoli non ci hanno tirato su neppure un muro a secco. Ma da vent´anni a questa parte la storia è cambiata. I palermitani arrivano a ondate, pronti a comprare un fazzoletto di terra in questa terrazza naturale sul golfo di Castellammare. Rosicchiano qua e là spingendosi sempre più vicini al limite dell´area protetta.
L´ultima colata di cemento l´hanno bloccata carabinieri e poliziotti. Sono venuti a sigillare ville già finite e scheletri pronti per le rifiniture: 23 costruzioni che sulla carta dovevano essere rustici agricoli.
Nel registro degli indagati per lottizzazione abusiva sono stati iscritti venti nomi: i proprietari delle case abitate, il titolare dell´immobiliare che stava tirando su un complesso di 9 residenze di lusso e tre tecnici del Comune di Castellammare del Golfo che rispondono anche di abuso d´ufficio. Avevano rilasciato regolari concessioni edilizie ma su presupposti che la Procura contesta.
Il trucco è semplice e diffuso. In verde agricolo si possono costruire solo rustici e di modeste dimensioni. Occorrono mille metri quadrati di terreno per tirare su un edificio di trenta metri cubi. Attenendosi alle cubature previste e contrabbandando per case rurali ville di pregio con patio e, in qualche caso anche piscine, spuntano interi villaggi e residence.
Il pasticcio poggia su controlli inesistenti e uffici tecnici quantomeno distratti. Il resto lo fanno le leggi regionali. L´ultima sanatoria mascherata, bloccata dallo stesso governo Cuffaro dopo una levata di scudi, consentiva di variare la destinazione d´uso dei fabbricati rurali. In pratica, le ville già costruite tornavano ad essere tali anche sulla carta.
Probabilmente sarebbe accaduto questo anche alle ville ora sequestrate sul pizzo del Castellaccio.
L´area sulla quale sorgono era originariamente un´unica estensione di 60 ettari che dal pizzo della montagna scende giù lungo il costone fino al mare. L´unico frazionamento possibile era quello tra gli eredi del vecchio proprietario. Dalla tenuta sono così spuntati 25 diversi lotti di terreno e per ciascuno è stata chiesta e ottenuta da figli nipoti e pronipoti del possidente una concessione edilizia in verde agricolo. Una girandola di compravendite ha poi concentrato nelle mani di un solo imprenditore edile 9 lotti sulle quali erano in corso i lavori di costruzioni di altrettante case. Il resto delle ville erano state in parte tenute dai discendenti del proprietario originario e in parte vendute singolarmente ad acquirenti cui è riconosciuta la buona fede. Tuttavia non potranno tornare in possesso delle abitazioni fino a quando non sarà chiarita la vicenda giudiziaria. Destino analogo a quello di migliaia di proprietari di case in mezza Sicilia. Costruite con tanto di concessione ma su lottizzazioni abusive.
Eolie, il Governatore tira diritto
Abbate, Patrizia
Le Eolie sono ancora a rischio. Totò Cuffaro, il presidente rinviato a giudizio per mafia, contrasta l’annullamento delle norme perverse da parte del commissario dio overno. Da il manifesto del 4 novembre 2004
Il .caso Eolie. sfocia in uno scontro istituzionale, con il governatore siciliano Totò Cuffaro deciso a sfidare il commissario dello Stato e a riproporre al parlamento regionale le norme impugnate qualche giorno fa dal prefetto Gianfranco Romagnoli. Nel nome della «legittima autonomia» regionale, Cuffaro . che ha vissuto come un vero smacco la decisione del commissario di bocciare ben quindici articoli della manovra di assestamento di bilancio, demolendola di fatto . passa dalle critiche alla contrapposizione netta. E se nei giorni scorsi già alcuni suoi assessori avevano sollevato la questione giuridica della legittimità dell.esistenza stessa di questo «controllore di costituzionalità», lui sceglie di provare a ignorarlo; di chiamare l.aula a un voto bis, e di avviare così la cosiddetta «procedura di resistenza» di fronte alla Corte costituzionale.
Una scelta inaspettata, quella di Cuffaro, che solo oggi saprà se la sua decisione sarà avallata dai deputati dell.assemblea e se quindi approderà davvero in aula: lo decideranno i capigruppo. La richiesta è già però un segnale politico forte, che va controcorrente rispetto a una prassi che normalmente vedeva abbandonate le norme impugnate dal commissario dello Stato. Stavolta no, «siamo convinti che il commissario dello Stato sia andato oltre le sue competenze, dando giudizi di merito che non gli spettano», ha affermato il governatore. E. fuori di sé, Cuffaro. E non tanto per le norme più criticati della manovra, quelle appunto dello scempio delle Eolie con la deroga al piano paesaggistico, e dei capannoni agricoli trasformati in case e alberghi: su queste la stessa maggioranza si era spaccata, e probabilmente nessuno vorrà riproporle così come sono. Ciò che crea più problemi è il no all.assunzione di alcune centinaia di forestali, e di circa 700 medici nelle aziende sanitarie siciliane. Per il presidente «non si capisce dov.è la lesione delle norme costituzionali ». E il fatto che il prefetto Romagnoli invece non l.abbia avallato, o abbia bocciato anche l.articolo 3 che .assolveva. il mancato pagamento di concessioni governative, avvertendo che si trattava di una norma «che incoraggia il dilagare dell.evasione fiscale », lo fa gridare alla scandalo. E dire che lamanovra .aggiustativa. si era resa necessaria per ripianare il deficit della sanità isolana, che ammonta a circa 460 milioni di euro. Era il risanamento dei conti del settore entro il 2006 l.obiettivo delle variazioni di bilancio che invece hanno innescato la bomba ambientale, e che anziché puntare al risparmio, ipotizzavano molte nuove assunzioni e dunque ulteriori spese.
E il commissario Romagnoli? «Ribadisco di essere insensibile alle pressioni, da qualunque parte vengano, e mi limito ad applicare la legge», ha risposto ieri alle accuse di Cuffaro. Per Romagnoli, se Cuffaro intende chiedere «la riapprovazione in forma diversa delle norme è nel suo diritto. Non avrebbe però senso . spiega . una riapprovazione tale e quale degli articoli già impugnati davanti alla Consulta». Che sembrerebbe invece quello che si vuol fare, anche se sulla procedura da seguire non mancheranno ulteriori querelle. «La manfrina che si è aperta contro il ruolo del commissario dello Stato, di fatto, ha una sola ragione: poter compiere i peggiori scempi senza alcun controllo e senza alcuna verifica di legittimità», taglia corto Francesco Forgione, capogruppo del Prc all.Ars. Clientele? Scempi? Nient.affatto, assicura Cuffaro. Che ci tiene a difendere il «ruolo del parlamento siciliano» e si erge a paladino della sua autonomia.
Un piccolo paese, Spilamberto, provincia di Modena. Un´area grande sessanta ettari nei pressi del fiume Panaro, dove i boschi avvolgono quel che resta di un antico stabilimento di polveri da sparo. Un progetto per realizzare, nel bosco, trecentosessanta appartamenti, una città di mille abitanti, con alberghi, centri commerciali e uffici. Un vincolo della Soprintendenza sull´intera area, al quale, però, si è subito mostrato contrario il ministero per i Beni culturali nella persona di Roberto Cecchi, allora Direttore generale, e che, insieme ad altri interventi molto rigorosi, è costato il posto a chi lo aveva emesso, il soprintendente dell´Emilia Romagna Elio Garzillo.
Sono gli ingredienti di una storia che divide questo piccolo paese, ma che scuote anche il ministero retto da Giuliano Urbani, deciso a smentire l´operato del suo soprintendente. In questi giorni, infatti, da Roma è partita un´ispezione che deve verificare se quel vincolo è corretto, ma che, temono in molti, rappresenta il primo passo per annullare il provvedimento e dare via libera al progetto edilizio.
La zona della lottizzazione è a sud del paese. Qui nel 1510 fu avviata dagli Estensi la produzione di polvere da sparo. Furono edificati casotti e laboratori, fino ad arrivare, in epoca napoleonica a un manufatto tuttora esistente, circondato poi da stabilimenti realizzati fra Otto e Novecento. Tutto intorno il paesaggio è di grande bellezza, il bosco è solcato da corsi d´acqua e modellato da rilievi e terrapieni fitti di alberature che scendono fino al fiume.
A poco a poco la polveriera, che prende il nome di Sipe, diventa la più grande industria del modenese, occupando fino a 20 mila persone. La proprietà dell´area e degli stabilimenti passa di mano in mano (per un certo periodo è appartenuta a Cesare Romiti e poi alla Fiat). Fino alla chiusura, negli anni Settanta.
L´attuale proprietà, la Green Village, ha presentato un progetto per trasformare i sessanta ettari in un quartiere residenziale e commerciale. In cambio bonificherebbe il terreno, in cui si sono accumulati scarichi di tutti i tipi, e cederebbe i capannoni al Comune che vi realizzerebbe un Polo scientifico-tecnologico. Il Comune (centrosinistra) ha accolto il progetto. Ma in paese sono da tempo montate le proteste. Si è formato un agguerrito comitato di cittadini, che ha raccolto centinaia di firme. Fin dall´inizio è intervenuta contro il progetto Italia Nostra, seguita da Wwf e Legambiente.
Il Comune sostiene la bontà dell´iniziativa, vantando la cessione degli stabilimenti e i benefici della bonifica, per la quale, aggiunge, non avrebbe i soldi. Ribattono il comitato e le associazioni ambientaliste: la proprietà non regala nulla, perché si disfa di capannoni che non potrebbe riutilizzare, essendo costosissimo il loro restauro; inoltre, secondo gli oppositori, la bonifica spetta per legge ai proprietari. Gli esponenti del comitato lamentano poi che Spilamberto non ha alcun bisogno di case per altre mille persone (il dieci per cento dell´intero paese) e del suo sconvolgente carico urbanistico. E aggiungono che questa zona del modenese è già satura di cemento, per cui preservare un´area verde, di grande pregio paesaggistico e così densa di memoria, non può che far bene a una collettività strangolata da case e capannoni.
Che la zona andasse tutelata si era convinto anche l´ex soprintendente Garzillo, il quale a fine aprile scorso ha proposto un vincolo paesaggistico. Dura è stata la reazione del Comune, che si è persino rifiutato di affiggere nell´albo pretorio il provvedimento, producendosi in un elogio del nuovo Codice dei Beni culturali di Urbani - inedito per esponenti del centrosinistra - che di lì a qualche giorno sarebbe entrato in vigore e che, a detta dell´Amministrazione, avrebbe reso inutile il vincolo. Nel frattempo un ricorso al Tar contro il vincolo veniva respinto, ma intanto per Garzillo è arrivato il trasferimento al Ministero. Per molte associazioni di tutela, quella di Garzillo, come di altri soprintendenti che insieme a lui persero il posto in quella tornata di nomine, fu una vera punizione.
Con l´ispezione la palla torna a Roma. Ma quando ci si infila nei meandri burocratici le complicazioni non finiscono mai. Contemporaneamente al trasferimento di Garzillo, venne decisa la promozione di Cecchi a capo del Dipartimento paesaggio e beni culturali, il ponte di comando del ministero. Ma ora la Corte dei Conti ha sospeso quella nomina: Cecchi non avrebbe maturato, dicono i magistrati contabili, l´anzianità necessaria.
Vogliono far sparire perfino le spiagge. Quelle nere di lava e anche quelle bianche di pomice, pensano di spostarle un po´ più in là o seppellirle per sempre, affogarle nel cemento. E vogliono costruire moli così grandi e così lunghi che quel loro mare vivo e profumato prima o poi si trasformerà in un lago morto, uno stagno tra le isole. E sognano aeroporti che si mangiano le colline, centrali elettriche che sventrano boschi.
Vogliono depuratori, strade, gallerie, dighe foranee, alberghi e residence sparsi dappertutto. Progettano in silenzio a Lipari e mandano carte a Palermo. Tramano. Da soli e in compagnia, uno contro l´altro o in società. E già calcolano i prezzi dei terreni da espropriare. E già contano i soldi.
Quelle stanze con vista mare che in questi giorni fanno tanto scandalo sembrano vergogne divulgate a bella posta per nascondere ben altri oltraggi e ben altri affari tra Vulcano e Alicudi, la più sperduta nell´arcipelago. Piccoli interessi privati di piccoli notabili, pochi o tanti metri quadri «regalati» con un colpo di mano dagli amici che stanno alla Regione siciliana, scandalo quasi finto se non fosse per la spudoratezza di qualche onorevole che ha cancellato vincoli paesaggistici con il favore delle tenebre. Ma c´è qualcosa di più rapace che si sta abbattendo su Lipari e sulle altre isole. E si avvistano segnali di una guerra cattiva per accaparrarsi gli appalti prossimi venturi, aspetti inconfessabili.
Vicenda eoliana contemporanea che sembra ispirarsi a quell´antica contesa descritta da Leonardo Sciascia nella sua "Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D.", storia di un violentissimo conflitto politico economico tra la Chiesa e il viceré di Sicilia - siamo ai primi del ?700 - che iniziò intorno al pagamento di un balzello per «una piccola partita di ceci» e che poi durò per due decenni.
Un pretesto di trecento e passa anni fa e un pretesto di oggi, nella Lipari che aspetta le sue colate di cemento. Se arriveranno, arriveranno insieme a quasi 200 milioni di euro. Fremono progettisti, ingegneri, costruttori. E manovrano le lobbies fra Lipari e Messina e Palermo, plotoni di deputati locali che appoggiano questo o quel gruppo per far «passare» il loro «piano di sviluppo» per le Eolie, gioco sporco senza esclusione di colpi. Partiti del mattone, ex democristiani confluiti nell´Udc che fanno patti di sangue con rampanti di An, assessori-imprenditori di Forza Italia, vecchi e nuovi ras, tutti uniti e tutti contro, tutti in corsa per far diventare queste isole un albero della cuccagna.
Altro che le tre stanze di 84 metri quadri che avrà l´assessore all´Urbanistica Mimmo Fonti grazie al voto furbastro dell´altra notte all´Assemblea regionale. Altro che «il recupero di tre fabbricati» in località San Nicola o «l´ampliamento dell´edificio storico» in contrada Candali. Ce ne sarà per tutti. «Dovranno passare sul mio corpo prima di mettere una sola pietra», assicura il sindaco di Lipari Mariano Bruno che è stato appena convocato a Palermo dal governatore Totò Cuffaro, che vuole carte e mappe per capire fino in fondo in quale altro pasticcio è finito il suo governo.
Il sindaco Bruno parla di «inganno mediatico», si lamenta, tuona. Ma non parla del nuovo piano regolatore di Lipari dove tre maxi opere sono già inserite in aree vincolate. Una è quella che chiamano «aviosuperficie», un aeroporto, pista lunga 1200 metri e larga 40 tra le colline di Poggio dei Funghi, un business da 50 milioni di euro. Un´altra opera è la centrale elettrica che dovrebbe sorgere a Monterosa in mezzo agli alberi, ci sono tante voci sull´esproprio dei terreni che faranno ancora più i ricchi i proprietari. Affare di una quarantina di milioni di euro, cifra che comprende anche la realizzazione di una galleria che sbuca in mare. E lì vicino a Monterosa dovrebbero fare anche il depuratore, altri 10 milioni di euro.
L´affare più goloso è un altro ancora, sono i porti, i sei che vorrebbero realizzare in ciascuna delle isole esclusa Salina. «Alla Regione c´è un progetto in sonno che prima o poi tireranno fuori, aspettano soltanto il momento giusto», racconta Giuseppe La Greca, il segretario dei Ds di Lipari che nella passata amministrazione di centro sinistra era assessore al Territorio. E´ un progetto «tecnico-economico per le opere portuali delle isole Eolie» firmato dall´ingegnere Giuseppe Rodriguez. E´ l´annuncio ufficiale dello scempio più grande. A cominciare dalla bella spiaggia nera di Stromboli. L´ingegnere Rodriguez prevede di scavarci lì una fossa e poi costruirci sopra i moli. E trasportare la sabbia eruttata dal vulcano a qualche decina di metri. Tutto per 18 milioni di euro. Ad Alicudi e a Filicudi il suo progetto cancella in parte le due spiagge, quella di scalo Palomba nella prima isola e quella di Capo Graziano nella seconda. Costo dei due porti 14 milioni di euro. A Panarea il mare sarà soffocato per 15 milioni di euro: dal molo vecchio che verrà allungato e da quello nuovo che, a semicerchio, chiude in una camera a gas l´abitato. Poi ci sono i 10 milioni di euro per il porto di Vulcano, altra spiaggia rosicchiata e i moli che affondano nella base lavica. Per finire, Lipari: 13,5 milioni di euro il porto di Pignataro, 10,5 milioni per Marina Corta, 12 milioni circa per quello di Sotto Monastero.
«Un vero delirio costruttivo», commenta secca Marina Tarusello, rappresentante di Legambiente alle Eolie. E non è ancora finita. Accusa Domenico Fonti, l´assessore che ha "guadagnato" tre stanze del suo residence con il voto notturno della Regione: «Ho il feroce sospetto che questa campagna sia stata scatenata per spostare l´attenzione su chi vuole costruire alberghi su alberghi a Canneto». Punta il dito contro i D´Ambra, i proprietari delle cave di pomice. Tra loro e tutti gli altri è scontro eterno, qui nell´arcipelago. Uno dei tanti capitoli della "controversia liparitana".
COMUNICATO STAMPA
La decisione del Consiglio di Stato non lascia spazio a dubbi: l’illegittimità del “progetto Auditorium” per contrarietà alle norme del Piano Urbanistico Territoriale vigente, così come da noi denunciata, è stata confermata, in sede di cognizione sommaria, dal supremo organo di giustizia amministrativa.
Con ordinanza n. 5278/2004, assunta nella Camera di Consiglio del 2.11.2004, il Consiglio di Stato ha, infatti, rigettato la richiesta di sospensione della chiarissima sentenza del TAR Salerno – significativamente proposta dal solo Comune di Ravello e non anche dalla Regione Campania e dalla Comunità Montana Penisola Amalfitana – sostanzialmente affermando che non vi sono ragioni giuridiche per disattendere la corretta pronuncia dei giudici di primo grado, i quali, come è noto, avevano accolto il ricorso di Italia Nostra.
Si tratta di un ulteriore tassello che conduce al definitivo riconoscimento della correttezza e della validità della tesi giuridica da noi sostenuta e, fino a questo momento, condivisa da tutti gli organi di giustizia amministrativa che si sono occupati della vicenda.
(Avv. Oreste Cantillo, Legale di Italia Nostra)
Il Consiglio di Stato ha confermato che le nostre perplessità sulla conformità dell’Auditorium di Ravello alle norme urbanistiche erano più che fondate.
Il supremo organo della giustizia amministrativa, infatti, ha rigettato la richiesta di sospensione cautelare che il Comune di Ravello – unica amministrazione tra quelle soccombenti – aveva proposto avverso la sentenza del TAR Salerno che, nell’agosto di quest’anno, accogliendo il ricorso presentato da Italia Nostra, aveva bollato di illegittimità la paventata costruzione.
La decisione rappresenta un ulteriore significativo ostacolo al tentativo di vanificare l’impianto normativo dettato dal Piano Urbanistico Territoriale vigente nella penisola sorrentino-amalfitana, il quale, proprio perché contenente le regole per la pianificazione del territorio, costituisce la sola garanzia per lo sviluppo armonico di quelle zone, nel rispetto della legge finalizzata alla salvaguardia di un sito unico al mondo per le sue peculiarità ambientali.
Italia Nostra, nel rinnovare il proprio ringraziamento ai tanti privati cittadini ed alle illustri personalità del mondo accademico, politico e delle professioni che, sin dall’inizio, hanno appoggiato la difficile battaglia intrapresa, non può fare a meno di rimarcare con rammarico l’assenza di altre associazione ambientaliste che hanno inteso lasciare sola Italia Nostra nel contenzioso amministrativo avviato; così come – d’altro canto – deve con soddisfazione sottolineare che – probabilmente prendendo atto dell’erroneità delle scelte a suo tempo compiute – sia la Regione Campania che la Comunità Montana Penisola Amalfitana non hanno inteso contrastare la chiarissima pronuncia resa dal TAR Salerno, non costituendosi nel giudizio di secondo grado.
(Raffaella Di Leo, presidente della Sezione di Salerno di Italia Nostra)
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