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MILANO Le difficoltà non mancano, e d’altronde non potrebbe essere diversamente per un progetto di così ampia portata, ma la convinzione di portare a Milano l’Expo nel 2012 si rafforza sempre più fra i suoi principali promotori. Che domattina, alle 11.30 nella Sala Gialla di Palazzo Marino, illustreranno alla stampa i dettagli della candidatura già presentata in Consiglio comunale lo scorso 21 febbraio. In prima linea figurerà il presidente del Consiglio comunale Vincenzo Giudice, di Forza Italia. che sarà affiancato dal presidente della Commissione Lavori Pubblici Fabrizio De Pasquale, dal consigliere comunale Manfredi Palmeri e dagli onorevoli Luigi Casero e Maurizio Lupi. «Ormai è un anno che siamo al lavoro per questo progetto - spiega Giudice - , da quando, cioè, Forza Italia chiese un emendamento al bilancio in previsione per il 2005 volto ad ottenere uno stanziamento per la presentazione della candidatura. Ebbene, la nostra richiesta è stata esaudita lo scorso dicembre e gode del pieno appoggio del sindaco Albertini, del Comune e della Regione, mentre nei prossimi giorni ascolteremo il parere della Provincia. Il prossimo passo, il più importante, sarà quello di riunire attorno ad un tavolo i privati interessati a sostenere l’Expo, perché senza il loro contributo l’impresa diventerebbe impossibile». In tal senso, però, Giudice si dichiara ottimista: «Siamo di fronte ad un evento che potrebbe segnare un deciso rilancio per Milano, come lo è già stato in passato per Siviglia e Lisbona, ed avere un consistente ritorno economico. Fra l’altro va ricordato che l’Expo concentra sì la maggior parte delle sue iniziative in un determinato periodo, la tarda primavera, ma in realtà rimane poi attivo tutto l’anno, attirando ogni mese un gran numero di espositori e di visitatori - sottolinea il presidente del Consiglio comunale. Alla luce di ciò, sono convinto che non si farà una gran fatica ad attrarre capitali, di cui Milano dispone in misura sostanziosa». Non è tutto: il progetto Expo 2012 viaggia a braccetto con un altro grande sogno, l’organizzazione delle Olimpiadi nel 2016. «Si sta agendo in sintonia, ma di certo per i Giochi le difficoltà sono maggiori, in primis perché Milano è ancora carente sul piano delle strutture sportive: per esempio manca uno stadio per l’atletica, uno per il nuoto ed il villaggio olimpico, anche se per quest’ultimo esiste già il progetto di realizzarlo a Rogoredo. In ottica Expo, invece, siamo messi decisamente meglio». Entriamo nei dettagli. «Beh, dal punto di vista delle strutture sfrutteremo il nuovo polo fieristico di Rho-Pero, così come la vecchia Fiera dove, in base al piano di recupero già attivo, sorgeranno nuovi edifici per l’esposizione e due alberghi - spiega Giudice. Non dimentichiamo, poi, che entro il 2012 potremo recuperare l’area di Garibaldi-Repubblica e disporre del nuovo Auditorium, oltre ad altre aree dismesse pronte per la riqualificazione. Di certo, andrà aumentato il numero delle strutture ricettive e alberghiere, al momento carente. Sotto l’aspetto dei collegamenti, invece, dovremmo avere in funzione almeno la metà della quarta linea di metrò che unirà Linate con il centro cittadino e Lorenteggio, dando la possibilità a tanti visitatori di raggiungere con più facilità la città». Le basi, insomma, non mancano, ma bisognerà poi battere la concorrenza delle altre città europee interessate: «Sarà fondamentale creare una forte lobby e avere appoggi in ogni angolo d’Europa. Per ora possiamo già contare su quello della Polonia, considerato anche il nostro gemellaggio con Cracovia, e con l’Ungheria: Budapest era interessata all’Expo, ma ha capito di non poter competere con Milano preferendo schierarsi al suo fianco».

OBELISCHI con spot: teli pubblicitari, dunque, annunciati a piazza del Popolo, a San Giovanni, al Pantheon, alla Minerva, e ancora in tante altre piazze monumentali di cui le antiche cuspidi costituiscono il fulcro visivo. Con buona pace del paesaggio urbano e di tutti coloro che da ogni parte del mondo giungono in questa città per compiere il proprio pellegrinaggio nella storia e nell'arte!

E' ripresa dunque in grande l'offensiva delle aziende che producono pubblicità. Già da tempo si erano guadagnate il consenso di alcuni degli uffici ai quali spetta il compito di concedere o di negare il permesso di installare i giganteschi impianti recanti messaggi pubblicitari.

Il dilagare dell'iniziativa, che l'anno scorso aveva minacciato addirittura di occupare la facciata del Pantheon e che si era annunciata anche nei confronti dell'obelisco di piazza del Popolo, e poi di quello del Laterano, suscitò scandalo sulla stampa internazionale e trovò un freno nella tutela archeologica. I monumenti antichi di Roma, infatti, sono rimasti indenni da questo flagello. Anche quest'ultimo ostacolo ora sembra però aggirato, come apprendiamo dal servizio pubblicato ieri da Repubblica.

Nel 2004 la Soprintendenza regionale dei beni culturali (in realtà è un ufficio ministeriale), fortemente impegnata nel sostenere la pratica delle concessioni di spazi monumentali per la pubblicità, impedì alla Soprintendenza archeologica di eseguire verifiche sulla proclamata necessità di restauro per l'obelisco di Piazza del Popolo.

Ora l'intento di installare un telo pubblicitario nel centro della piazza per sei mesi o per un anno viene riproposto, senza pudore, per «verifiche preventive» sulla stabilità dell'obelisco in relazione al rischio sismico.

Chi conosce i monumenti antichi di Roma sa bene che si tratta di un ingenuo pretesto: gli obelischi hanno peraltro superato il collaudo sismico nel corso dei terremoti degli ultimi secoli. Il reale pericolo che incombe su di essi è costituito dai fulmini. Lo stesso obelisco di piazza del Popolo ne fu danneggiate un paio di decenni fa, e molto più recentemente anche l'obelisco di Axum, come molti ricorderanno. Su questo problema erano in corso ancora durante l'anno passato indagini condotte dall'architetto Giangiacomo Martines con la collaborazione di importanti centri di ricercò scientifica.

DOPO aver devastato per anni l'immagine della città, oscurando le facciate delle chiese (si veda ora il Gesù, o la Trinità dei Monti perpetuamente mortificata dalla pubblicità e dalle finte architetture dipinte sui teli), alterando incomparabili contesti monumentali (piazza di Trevi, tenuta a lungo nascosta da obbrobriosi teloni, piazza Navona che per anni non è stato possibile ammirare libera da volgari quinte), l'attacco viene ora rivolto agli obelischi. Certamente: mediante il loro impiego grandi pontefici e architetti avevano saputo dare forma ad un mirabile paesaggio urbano affinchè i nostri tempi possano facilmente trame lucro.

Quando si sostiene che queste alterazioni dei monumenti per tempi più lunghi di quelli necessari al restauro servono per ottenerne i finanziamenti si dimentica, evidentemente, che il paesaggio è un bene di interesse pubblico tutelato nel nostro sistema giuridico tanto quanto al bene monumentale, e che i provvedimenti a favore di questo non possono costituire detrimento per l'altro.

Abbiamo raggiunto evidentemente i livelli più bassi da quando, agli inizi del Novecento, lo Stato italiano aveva cominciato a costruire il proprio sistema di tutela del patrimonio storico e artistico.

Un rifugio circondato da un boschetto di faggi secolari, a pochi passi un abbeveratoio per il bestiame, prati verdissimi e cielo splendente, macchine vietate. Un angolo di paradiso, come tanti ce ne sono in Italia. Solo che qualcuno qui, nel mezzo del Parco nazionale d'Abruzzo, ha pensato bene di avvicinare il paradiso metaforico a quello vero: così il Rifugio la Difesa di Pescasseroli il dì 22 marzo 2005 è stato ceduto all'ente «Gesù Nazareno delle salesiane di don Bosco». Comodato gratuito, «al fine di svolgere attività di preghiera». Tempo qualche settimana e l'Ente suore, pregando pregando, si è allargato e con il sostanziale consenso dell'Ente Parco ha costruito affianco al rifugio una chiesetta: «sennò il Signore dove lo teniamo?». Piccolo particolare: la cappella è abusiva, e adesso incombe su di essa e sulle suore un ordine di demolizione. Che fa discutere la comunità di Pescasseroli allargata ai suoi tanti turisti, incrocia le travagliate vicende del Parco nazionale d'Abruzzo e chiama in ballo le massime istituzioni: lo Stato, la Chiesa e il loro Concordato, art. 5 comma 1. In nome del quale le suore fanno le barricate: «Giù le mani (cioè le ruspe) dalla casa del Signore».

«E' giunto dunque il momento di incamminarsi sul percorso contemplativo `Rinascere dall'Alto ... Le vie del Silenzio', una mano tesa ai giovani, futuri protagonisti della società, verso cui le Suore salesiane sono particolarmente dedite e per i visitatori, un nuovo modo di vivere il Parco!».

Le prodighe religiose

A parlare così non è la madre superiora, ma il direttore del Parco nazionale d'Abruzzo Aldo Di Benedetto, considerato molto vicino ad An (come la gran parte dei titolari di cariche nei Parchi naturali gestione Matteoli) e ultimamente preso da afflato mistico. Sua la scelta di dare in comodato gratuito alle suore il Rifugio la Difesa (che prima, come succede a tanti rifugi del Parco, era abbandonato a se stesso e ai vandali): l'operazione, ha fatto sapere, ha «l'intento di armonizzare la missione del Parco con finalità di carattere spirituale». Finalità che mal si concilierebbe con materiali richieste come quella di pagare l'affitto. Sua l'attiva partecipazione al mini-concilio dei giovani organizzato quest'estate dalle sorelle «lungo il percorso contemplativo». Suo il sostanziale nulla osta, poche settimane dopo la firma del contratto di comodato, a una serie di lavori di «adeguamento funzionale» del rifugio e al «posizionamento provvisorio di un prefabbricato di legno».

Così quelle che l'Ente Parco definisce «le prodighe religiose», hanno iniziato i lavori, «imbracciando picco e pala»; ma poiché «le ecclesiaste sono sì forti nello spirito, ma pur sempre limitate nel fisico» (le citazioni sono tutte da un comunicato stampa dell'Ente Parco, sic), hanno avuto il supporto di «mezzi gommati». Che non passano inosservati.

Così al sindaco di Pescasseroli arriva un esposto-denuncia scritto da Stefano Tribuzi, tecnico naturalista, nel quale si elencano le opere che le prodighe religiose stanno realizzando alla Difesa: scavo e posa in opera di tubi per l'acqua, scarico ed energia elettrica, costruzione di un tratto di strada sterrata larga tre metri e lunga 100 al posto del sentiero, costruzione di una casetta di legno, più gran via vai di camion e auto. Tribuzi - che del Parco è stato dipendente per dodici anni e dunque qualche regola la conosce - fa notare che mancano le autorizzazioni edilizie, che il terreno è in demanio comunale e che per di più rientra negli «usi civici», istituto di antica provenienza ma con una regola chiara: prima di procedere a qualsiasi cambiamento, la zona va sdemanializzata. Cosa che non è successa per La Difesa.

Insomma, le suore stanno compiendo un abuso. Siamo ai primi dell'estate e il comune procede: prima chiede di sospendere i lavori, poi - quando il caso arriva anche alla procura - parte l'ordinanza di demolizione. In sostanza si chiede alle suore di rimuovere il «manufatto», cosa che si guardano bene dal fare. Anzi le religiose nel frattempo sono passate al contrattacco.

Nella tre giorni di luglio delle «Vie del silenzio» il direttore dell'Ente Parco Di Benedetto cammina e prega, e fa sapere che lui non ha mai dato il via libera ad alcuna «opera di urbanizzazione», la quale di fatto «non c'è mai stata». Alla mini-kermesse partecipa anche monsignor Giovanni Giudici, vescovo di Pavia e fratello di suor Maria Pia Giudici, responsabile del progetto di Pescasseroli: il quale, tra un silenzio e l'altro, consacra in fretta e furia la chiesetta. Una consacrazione il cui effetto pratico non sfugge agli avvocati delle suore, che immediatamente tirano fuori l'arma con la quale si opporranno all'ordine di demolizione: il Concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato italiano del 18 febbraio 1984, firmato dal cardinal Agostino Casaroli e da Craxi Benedetto detto Bettino.

Che c'entra il Concordato con il manufatto nel Parco, gli usi civici, le cisterne e le strade nei boschi? C'entra, c'entra. Giacché il secondo comma dell'articolo 5 del testo firmato da Craxi e Casaroli impedisce allo stato italiano di demolire un edificio aperto al culto, se non «per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica». Ergo, la nostra chiesetta non si tocca, dicono le suore e i loro avvocati. E il sindaco Carmelo Giura, cardiologo di Pescasseroli, giunta di centrosinistra, si trova - tirato per i capelli - a fronteggiare un caso diplomatico.

L'asso nella manica

Il primo nella storia del Concordato: gli urbanisti italiani non ricordano precedenti in cui sia stato invocato l'art. 5 a difesa di una costruzione abusiva. Mentre i giuristi si interrogano sulla reale portata della norma e sulla sua applicabilità al caso de «La Difesa»: è vietato demolire edifici «aperti al culto», ma basta la consacrazione per parlare di edificio «aperto al culto»?

Oltre alle armi giuridiche, le suore affilano quelle diplomatiche. Ormai la chiesetta c'è, troviamo una soluzione, dicono alla stampa locale. «Se anche il seme è caduto fuori dal terreno la pianta che è nata è molto bella e dà buoni frutti. Abbatterla sarebbe da stolti», dichiara al Centro suor Maria Pia. Che ha avuto un incontro con il sindaco dai contenuti ancora segreti. Intanto l'ordinanza di demolizione incombe, tra qualche settimana i termini scadranno. Al comune si chiede di concedere una sorta di condono speciale, magari prendendosi in proprietà la chiesetta.

«Ricordo, se mai ce ne fosse bisogno, che l'Italia è una nazione laica con una Costituzione repubblicana, con leggi e regolamenti propri di uno stato di diritto ove i rapporti tra cittadini ed istituzioni sono stabiliti da regole uguali per tutti». La lettera di Stefano Tribuzi ai giornali locali è quasi un urlo di dolore, che elenca tutti i fatti compiuti finora e conclude: «Tutto ciò viene definito dalle leggi dello stato `abuso edilizio e manomissione ambientale' e non ha nulla a che vedere con la propria o con altre confessioni religiose».

Non solo. «Si potrebbe instaurare un precedente - dice Tribuzi - basta la consacrazione per sfuggire alla legge. Si darebbe il via ad altri illeciti ambientali. Non ho nulla contro 'le vie del silenzio', anzi ne sono interessato, ma le suore potrebbero limitarsi a utilizzare il rifugio che è stato dato loro». Tanto più che Pescasseroli, pur essendo il cuore del Parco, è storicamente colpita dall'abusivismo: «Qui le strutture abusive non sono mai state demolite, ci sono 1.300 richieste per il condono edilizio», dice Francesco Paglia, consigliere provinciale di Rifondazione, che ricorda anche che la zona della Difesa era considerata dal Parco così importante da richiedere l'inserimento tra le aree di Riserva integrale.

La croce di Ponza

A giorni si saprà se dallo scontro tra il comune di Pescasseroli - e varie leggi italiane - e l'Ente Gesù Nazareno delle suore salesiane di Don Bosco si uscirà con una chiesa in più e qualche legge in meno. Oltre che per la piccola chiesetta della Difesa - e per i suoi annessi - la soluzione del caso potrebbe avere valore come precedente: nell'era dei condoni, sapere che basta una croce per fermare le ruspe potrebbe dar luogo ad attività frenetiche e conversioni spurie.

Ne lamentano una i cittadini dell'isola di Ponza, dove sulla sommità del Monte Guardia, in area classificata tra i «biotopi», verrà benedetta domenica una piccola costruzione in muratura con una croce sul tetto. La cappella - derivante da un vecchio capanno prima utilizzato per lo più dai cacciatori e che adesso viene dedicata a San Venerio, patrono dei fanalisti - è di proprietà privata e costruita in una zona dove, secondo la regolamentazione dei «biotopi» contenuta nel Piano paesistico della regione Lazio, «è inibita la realizzazione di qualsiasi intervento edilizio, ogni forma di attività agro-silvo-pascolare, ogni intervento che alteri la vegetazione esistente e l'attuale regime idrico». Ma forse tutte queste «inibizioni» cadranno, con una croce e una benedizione.

Il centro storico romano continua a conseguire due primati negativi. Il primo è l’aumento dei livelli di inquinamento atmosferico; il secondo riguarda l’inquinamento acustico. I provvedimenti fin qui presi dall’amministrazione comunale hanno una logica emergenziale e non colgono la complessità del problema che ha un’unica motivazione: l’eccesso di funzioni lavorative e di svago che si svolgono nel centro storico. Da moltissimi anni vige il provvedimento di divieto di accesso ai non residenti nelle ore diurne. Da pochi mesi, per contrastare l’invasione turistica che ogni sera soffoca ogni strada, il divieto di accesso vige –soltanto per i fine settimana- anche nelle ore notturne. Dopo il primo periodo “sperimentale” la Giunta comunale ha deciso di rendere definitivo il provvedimento. Il rinnovo della Ztl notturna è certo un fatto positivo; ma è pur sempre un provvedimento d’emergenza che non affronta fenomeni che hanno radici lontane.

La causa più remota risale agli anni 60-70, quando il sistema amministrativo dello Stato e il settore del credito hanno costruito il grande polo direzionale. Convivevano con esso un equilibrato settore commerciale e una rete artigianale legata alla forte quota di residenti: nonostante i primi processi di espulsione, in quegli anni vivevano nel centro storico circa duecentomila abitanti.

L’aumento della domanda di mobilità generato dai nuovi posti di lavoro fu combattuto attraverso due strumenti: con politiche di limitazione di accesso privato e con il rafforzamento del sistema di trasporto pubblico su gomma. La domanda di mobilità era infatti limitata nel tempo -essendo legata allo spostamento da casa a lavoro- ed era tutto sommato controllabile. Ciononostante, è appena il caso di ricordare che l’inquinamento aveva comunque raggiunto livelli di guardia.

Da oltre un decennio è emerso un altro fenomeno. Il centro storico di Roma, (ma il processo riguarda tutte le città d’arte nazionali e mondiali) sta diventando un grande palcoscenico ad esclusivo uso del turismo di massa. La domanda di spostamento indotta non è più limitata nel tempo, ma si mantiene elevatissima per quasi tutte le 24 ore, come sa bene la sempre più esigua ed insonne pattuglia dei residenti nel centro.

Questa nuova domanda di mobilità si somma a quella precedente. Che nel frattempo è aumentata vertiginosamente sia per il continuo trasferimento di attività dello Stato, sia per l’aumento del terziario minuto che sta occupando tutti gli spazi disponibili. Tanto che i residenti sono ormai vicini ai 100.000. Il rinnovo della Ztl serve a limitare la domanda di accesso turistico e svago notturni, ma non servirà a risolvere il problema della mobilità e della salute delle centinaia di migliaia di cittadini che quotidianamente lavorano in centro.

Per raggiungere questo ambizioso obiettivo occorre recuperare un’idea del futuro del centro storico. Decidere se abbandonarlo ad un uso turistico incontrollato che sta minando la stessa identità di molte strade ormai perennemente occupate da pizzerie e tavolini selvaggi o se è invece giunto il momento di definire politiche pubbliche in grado di riequilibrare la vita urbana. Un programma finalizzato alla creazione di una rete tranviaria che integri la più remota linea “C” di metropolitana; al decentramento delle funzioni amministrative dello Stato ed alla reintroduzione della residenza negli immobili liberati; alla tutela delle attività commerciali non omologate dalla globalizzazione. Un’idea complessiva in grado di recuperare il riequilibrio delle funzioni urbane, aria pulita e, perché no?, un po’ di silenzio.

Per l'ultimo film girato qui, The Passion di Mel Gibson, i Sassi sono stati trasformati in Gerusalemme e la scenografia di cartapesta, così precisa e così verosimile, ha conquistato a tal punto un paio di consiglieri comunali da spingerli a proporre, in Aula, di lasciare «per sempre, così com'è nel film» la Porta di Gerusalemme riprodotta da Gibson. Risate. Facce incredule. Occhi bassi. E rapido passaggio ad altro argomento all'ordine del giorno.

Non solo per non finire sepolti dalla fin troppo evidente ragione che i Sassi non possono e non devono diventare una sorta di Disneyland, ma anche e soprattutto perché parlare oggi dei Sassi come meriterebbe, a Matera, in Basilicata, in Italia, significa accendere una miccia dentro a una polveriera. Perché questo insediamento neolitico unico al mondo, paragonabile solo alla città di Petra, in Giordania, e appena nel 1993 dichiarato dall'Unesco «Patrimonio mondiale dell'umanità», sta subendo — assieme al resto della città moderna — un vero e proprio saccheggio edilizio e urbanistico.

Dovevano essere, questi anni, l'inizio di un'era nuova. Di riscatto e di rinascita. Il riscatto, dopo decenni di oblio e di vita grama e malsana, i «cristiani» insieme con gli animali nelle stesse grotte di tufo e la famosa denuncia di Palmiro Togliatti, «i Sassi sono la vergogna d'Italia». E la rinascita, con la speranza concreta accesa nel 1977 dal concorso internazionale per il recupero dei Sassi. Vince uno studio elaborato da architetti che per una volta non vengono da lontano, che hanno i Sassi nella testa perché si sono formati alla scuola dei Benevolo e dei Quaroni, ma li hanno anche nel sangue, perché sono nati qui, i loro sono nomi familiari, si chiamano Tommaso Giura Longo, Renato La Macchia, Letizia Martinez, Lorenzo Rota, Luigi Acito.

Forse ci siamo, pensano a questo punto anche i più scettici, forse è davvero arrivato il momento in cui nei Sassi, dopo la necessaria evacuazione di massa, tornerà la vita, con le persone a chiacchierare al fresco le sere d'estate, le botteghe, i bambini a giocare per strada. C'è anche una legge, perbacco, la numero 771, e ci sono i finanziamenti. Recupero conservativo, si chiama, e non ci sarà spazio per il trucco o per l'inganno. Basterà intervenire con saggezza, prudenza, garbo, intelligenza, lungimiranza, amore. Invece no, non è andata così. È andata, sta andando, come temevano e avevano detto gli scrittori Carlo Levi e Giorgio Bassani, il primo confinato in Basilicata dal regime fascista e «lucano» di fatto, il secondo presidente di Italia Nostra. «Temo che con il recupero i Sassi diventeranno preda di volpi e di serpenti» aveva detto Levi. E Bassani, in un intervento a Matera nel 1967: «Sono estremamente pessimista circa la sorte dei Sassi, come per Venezia». Aggiungeva, Bassani, che le amministrazioni comunali, specialmente se progressiste, hanno un dovere in più, «devono preservare le città e i centri storici dall'invasione di quella specie di Internazionale del vetro, dell'acciaio e del cemento armato, che sta coprendo di noia e di conformismo tutte le terre, tutti i Paesi e che

pensa soprattutto ai propri affari». Le parole di Bassani hanno quarant'anni, ma sembrano una fotografia di Matera e dei Sassi scattata oggi. C'è tutto, anche quella «amministrazione progressista» che governa da dodici anni con maggioranze bulgare del 72 per cento (tutti i «democristiani» dell'era Colombo diventati «comunisti») e che invece di vigilare di più e recuperare con rigore e saggezza ha aperto i recinti alle ruspe e ai palazzinari (pardon, immobiliaristi), che avvalendosi della zelante solerzia dell'Ufficio tecnico, dell'Ufficio Sassi e della Soprintendenza stanno cambiando i connotati alla città nuova e ai rioni antichi.

Lo documenta, con un bel numero monografico, la rivista Basilicata, fondata cinquant'anni fa sull'onda di quella grande esperienza culturale e di intervento pubblico urbanistico lanciata da Adriano Olivetti in Lucania con il nome di «Comunità». Il direttore di Basilicata, Leonardo Sacco, intelligenza critica rara e grande amico di Levi e Olivetti, sostiene che ormai anche Matera riassume «la cattiva urbanistica nazionale» e che il recupero dei Sassi è «maldestro, manipolato, fuori e contro piani e progetti». Mentre l'architetto Tommaso Giura Longo, il «capitano» della squadra che vinse il concorso internazionale del '77, denuncia la corsa ai finanziamenti statali a fondo perduto, senza cioè obbligo di restituzione, per la «ristrutturazione» di immobili e per l'avvio di nuove attività produttive nei Sassi. In teoria, un'opportunità di risanamento e sviluppo, se per esempio tenesse conto del Manuale del restauro approntato da un altro architetto materano, Amerigo Restucci, docente all'Università di Venezia. In pratica, una fabbrica di carte che renda possibile l'impossibile.

Due esempi chiariranno meglio. Nel Sasso Caveoso c'è un bel palazzo seicentesco. E c'è il figlio del presidente del tribunale di Matera, che lo vuole ristrutturare. In che modo? Taglia le volte interne, costruisce una canna fumaria non prevista, eleva una torre in cemento armato che fuoriesce di quattro metri dal tetto per metterci l'ascensore. Il cantiere viene bloccato, perché anche negli uffici tecnici comunali qualche geometra che fa bene il proprio lavoro c'è ancora. Ma l'ultima parola spetta al capo, in questo caso il dirigente dell'Ufficio Sassi, Francesco Gravina. Il figlio del giudice chiede una «sanatoria» e Gravina non si fa pregare. Del resto, anche il direttore della Soprintendenza per i Beni architettonici e il paesaggio, Attilio Maurano, ha dato il suo bel parere favorevole. I lavori riprendono. In che modo? Non secondo la già discutibile «sanatoria» ottenuta (e oggetto di ricorso al Tar), ma secondo nuove modifiche in corso d'opera, che nel progetto originario non c'erano e che, dice Raffaele Giura Longo, deputato del Pci per tre legislature, «sono un pesante attentato all'integrità futura dei Sassi, commesso da una lobby affaristica che non è trasversale, ma tutta intera espressione del centrosinistra».

Un altro caso clamoroso è quello del giardino del convento di Sant'Agostino, nel Sasso Barisano, meglio noto come «il parcheggio della Soprintendenza». Duecento posti macchina su tre piani interrati al posto del giardino e dei cipressi secolari, abbattuti. Lavori cominciati qualche mese fa e posti macchina che via via diminuivano e alla fine sono diventati 40 perché, com'era stato detto e ripetuto al sordo soprintendente, scavare lì avrebbe significato trovare tante di quelle testimonianze archeologiche da dover abbandonare l'idea. Come poi è avvenuto. Solo che ormai il giardino del convento è nulla più che una grande fossa a cielo aperto.

Nei Sassi tuttavia è stato fatto anche qualcosa di buono e un po' di gente è tornata a viverci. Non più di duemila persone però, contro le quattromila previste dall'opera di risanamento. E sono sempre di più quelli che pensano di andarsene di nuovo. Troppi pub, ristoranti, discoteche, taverne, pizzerie e addirittura 800 posti letto nei bed and breakfast. Troppo rumore, troppe auto nei vicoli tortuosi da percorrere invece a piedi. E troppo effetto zoo, tutto il contrario di quella vita «normale» che chi aveva abbandonato i Sassi sperava di trovare quando vi ha fatto ritorno. Leonardo Sacco ricorda ciò che disse Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e sindaco di Roma, all'assemblea nazionale dei Centri storico-artistici, nel 1990: «È ancora possibile pensare alla tutela dei suoli urbani e dei centri storici, se chi persegue questo obiettivo trova il più delle volte contrari il governo, la legge, la magistratura?». E i Sassi, è ancora possibile salvarli?

cvulpio@corriere.it

I Sassi di Matera in uno scatto del 1951 del celebre fotografo francese Henri Cartier-Bresson, scomparso nel 2004 (foto Magnum) Nelle altre immagini Palmiro Togliatti, Carlo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sacco

Titolo originale: The Couple who set Umbria alight – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Per John e Liliana Tunstill la goccia finale è stata la pioggia di Londra. “Ogni anno, dal nostro matrimonio, John mi prometteva che il tempo si sarebbe messo al meglio” ricorda Liliana, che è nata in Uruguay.

”Dopo sette anni, la voglia di spostarsi in qualche posto più caldo si è fatta insopportabile. Capisce, dove sono cresciuta, a Montevideo, ci sono spiagge dappertutto. E tanto sole, naturalmente”.

La ricerca di un posto al sole li ha portati a una rassegna delle offerte immobiliari all’estero, a Londra. “Ci siamo avvicinati a uno stand dove un signore stava seduto vicino a una scritta che diceva Northumbria” ricorda Liliana. “Per curiosità, gli abbiamo chiesto cosa ci faceva a una mostra delle offerte internazionali,e lui ci ha spiegato che in realtà quel cartello andava letto: North-Umbria”.

Un quarto di secolo fa, quello era un posto che pochi britannici avrebbero preso in considerazione per andarci ad abitare. Ma quando John e Liliana ci andarono, nei primi anni ‘70, si innamorarono immediatamente della regione, della gente: e del potenziale dell’investimento. La prima casa, comperata 23 anni fa, aveva capre che brucavano sulla loggia, e un albero che cresceva attraverso il soffitto; da allora, hanno comprato e venduto la stupefacente quantità di 227 case. La maggior parte si trovano in un raggio di 20-30 chilometri dai due centri principali della zona, Umbertide e Città di Castello.

Là dove una coppia più prudente avrebbe comprato uno o due immobili, per saggiare le acque, i Tunstill hanno acquistato all’ingrosso. È lo stesso comportamento impetuoso che ha consentito a John a suo tempo di conquistare Liliana. “Ci incontrammo su un aereo, quando c’erano ancora limiti per il duty-free “ ricorda Liliana. “Lui aveva quattro bottiglie di gin, e mi chiese se potevo tenergliene due per il passaggio alla dogana. Poi, mi ha offerto un caffè per ringraziamento, e chiacchierando ha scoperto che abitavo nella zona nord di Londra. Allora ha deciso di trovarmi, chiedendo in giro nei pubs di Islington se qualcuno conosceva una ragazza uruguaiana”.

Dopo aver sfatata l’improbabilità statistica di trovare una giovane sudamericana in una città da sei milioni di abitanti, John poteva considerare il fatto di comprare e ricostruire un rudere in Italia come un gioco da ragazzi. I Tunstill, tra l’altro, sono riusciti anche ad evitare la diffidenza che di solito si accompagna alla presenza di operatori immobiliari stranieri.

E ci sono riusciti non solo entrando a far parte della comunità locale, ma dando anche lavoro a una buona fetta della popolazione. Hanno almeno sette imprese del posto che lavorano sui cantieri Tunstill quasi a tempo pieno. Poi ci sono i lavori connessi a ciascuna opera di restauro ultimata: giardiniere, personale delle pulizie, manutenzione della piscina.

Gli abitanti del posto ci appoggiano, perché dicono che abbiamo illuminato la campagna” dice Liliana. “Trent’anni fa ci raccontano che la valle dell’alto Tevere era buia, ma ora ci sono scaglie di luce elettrica che brillano nella notte”.

Come riconoscimento del loro contributo all’economia locale negli ultimi vent’anni, di recente John è stato nominato cittadino onorario di Montone, uno dei numerosi centri medievali di collina dell’area.

E l’opera continua: l’ultimo progetto dei Tunstill è stato di trasformare un monastero del XII secolo in disuso, in un albergo country-house chiamato La Preghiera. “Quando l’abbiamo visitato la prima volta, c’erano cinque metri di fango al pianterreno, e il tetto era poco più che un colabrodo” ricorda John. “Il fatto che lo comprassimo ha confermato quello che gli abitanti della zona sospettavano da un pezzo: eravamo matti”.

Comunque, ora i matti gestiscono un adorabile manicomio, con biblioteca, sala da biliardo e dieci camere con vista panoramica sulla campagna intatta. C’è anche un museo di soldatini (prima di trasferirsi in Umbria, John gestiva il Soldier Shop a Lambeth, a due passi di distanza dallo Imperial War Museum di Londra).

Alla Preghiera, John ha stanziato una forza militare che conta circa 30.000 pezzi in piombo, insieme al pezzo forte della collezione: una scatola di carta igienica acquistata espressamente per il dittatore fascista Benito Mussolini in occasione della sua visita a un palazzo nella vicina Pierantonio, negli anni ‘30. Il Duce e i suoi accompagnatori hanno usato un po’ della carta nei loro tre giorni di soggiorno, ma il resto – ancora conservato nella confezione arancio brillante (marca Universal) – occupa orgogliosamente il proprio posto nel museo militare di John.

”I padroni del palazzo evidentemente ritenevano che il Duce meritasse un trattamento regale, e ordinarono una confezione di carta igienica speciale per questa visita” racconta John (la confezione è stampigliata con un motivo a corone). “Non si sa quanti [rotoli] siano stati effettivamente usati, ma sono lieto di aver acquistato quelli rimasti”.

Tra una spolveratura e l’altra delle sue armate, John, che ora ha 65 anni, si tiene occupato con il proseguimento dell’attività di recupero e riuso dei ruderi locali – abitualmente associato agli acquirenti britannici. La quotazione corrente di un immobile del genere nel nord dell’Umbria (senza tetto o impianti elettrici) è di circa €550 al metro quadro, e quattro volte tanto il restauro. Circa due terzi di quanto costerebbe nella più nota Toscana, dicono i Tunstill.

Oltre al denaro, ci vuole però anche pazienza. Dalla decisione di acquistare al giorno di ingresso possono passare anche tre anni. E anche una volta superata la soglia, c’è ancora una cosa indispensabile da fare: usare le buone maniere. “L’altro giorno, abbiamo mandato un paio delle nostre signore a pulire la casa di un inglese appena arrivato” dice Liliana. “Per dargli il benvenuto, loro gli hanno portato una borsa di pesche e una di pomodori, ma per tutto il tempo che hanno passato lì quello non gli ha offerto nemmeno un bicchier d’acqua”.

”Quello che si deve capire quando si viene qui, è che non ci si può prendere tutto. Date qualcosa in cambio alla gente che ci vive, e troverete amicizia, apertura e generosità”.

Non le manca la Gran Bretagna, allora? “Per niente!” ride Liliana. Quando ci svegliamo al mattino, vediamo una magnifico campo di granturco, e sulla collina una casa che abbiamo restaurato, circondata da piante di cipresso. Vediamo api e farfalle, non sentiamo altro che uccelli cantare. Perché dovrei volermene andare?”

Nota: il testo originale (per chi fosse proprio interessato, anche con i numeri di telefono dei signori Tunstill e il sito web dell’immobiliare) alle pagine di The Independent (f.b.)

Quanto valgono le aree dismesse ed in via di dismissione delle Ferrovie dello Stato a Milano? Nulla. A meno che...A meno che il Comune non pensi a renderle edificabili. Una volta edificabili il valore cambia.

Sì ma quanto? Si vedrà: lorsignori dicono che lo stabilirà il mercato. Più saranno edificabili e più varranno. I conti li faremo alla fine ma non è questo il problema perché il vero problema è di stabilire di chi sia questa nuova ricchezza che si crea dal nulla e che dipende solo da una decisione di politica urbanistica.

Io non ho mai avuto dubbi al riguardo, questa ricchezza appartiene per intero alla collettività locale all´interno della quale si trovano le aree: il loro valore è determinato da questa stessa collettività che col suo semplice esistere, con la sua attività, con i suoi investimenti, con le sue case, le sue strade e le sue piazze e con le sue proprietà private ne ha fatto un bene appetibile e di valore.

Queste aree sono un bene collettivo che ha perso, per ragioni storiche e tecniche, la sua funzione e che provengono da una ormai remota operazione di esproprio per pubblica utilità.

Tutto questo ragionamento per dire cosa? Per dire che l´accordo tra le Ferrovie dello Stato ed il Comune di Milano sul destino di queste aree, siglato "nelle solenne cornice della sala Alessi", come dicono lorsignori quasi fosse un trattato internazionale, è invece l´ennesima spoliazione a danno dei milanesi; la firma è del 25 luglio scorso e, tanto per non sbagliare, a Consiglio comunale ormai chiuso. Com´è l´accordo? Semplice: io Comune ti rendo edificabile le aree, tu Ferrovie della Stato te le vendi e incassi i soldi. Siccome qualcosa in cambio mi devi pur dare, se no è veramente insostenibile, mi prometti che i ricavi li destinerai al potenziamento del servizio ferroviario del nodo di Milano. Garanzie? Nessuna. Un progetto di potenziamento da vedere? Non c´è, solo parole.

Ma non voglio lasciar fuori il bello. Per indorare la pillola il Comune aggiunge: dai privati che si saranno comprati le aree dalle Ferrovie ne ricaveremo spazi verdi e superfici destinate all´edilizia economica. Insomma i milanesi torneranno ad essere proprietari ma solo di una parte di quel che era già loro. Sul resto promesse.

La stessa fine forse faranno le aree militari e le caserme, che già sono pronte al varo. Per me la logica è la stessa. Cosa offriranno in cambio alla città le Forze Armate? Mi viene freddo a pensarci: una missione di "peacekeeping" patrocinata dai milanesi? Che a qualcuno venga in mente di ridisegnare prima la città avendo tutte queste risorse territoriali a disposizione, valutarne le necessità e poi avviare trattative di vendita da posizioni di forza proprio non se ne parla.

Mai comprare ma vendere e fare in fretta, le elezioni sono alle porte va dimostrato dinamismo (disastroso), questo è il bello per chi non ha vero rispetto dei beni collettivi. Comunque il Comune nel suo comunicato di annuncio della lieta novella conclude dicendo che tutto avverrà con la massima trasparenza. Anche il vetro che separa il locale della sedia elettrica da quello dei testimoni è trasparente. Questo non vuol dire che quello che succede di là dal vetro vada bene. Dimenticavo i conti: per le Ferrovie stiamo parlando di un affare di almeno 500 milioni di Euro, ma forse anche il doppio.

luca beltrami gadola

APPELLO

AVVERSO LA COSTRUZIONE DEL TERZO

PONTE SUL FIUME PO A CREMONA

Le sottoscritte associazioni ambientaliste operanti nella zona piacentina e cremonese, vista l’inutilità dei precedenti interventi, formulano il presente ulteriore appello avverso la costruzione del cosiddetto “terzo nuovo ponte sul fiume Po a Cremona”, ovvero del raccordo autostradale che si intenderebbe realizzare, per iniziativa della società Autostrade Centropadane concessionaria dell’autostrada A21, tra il casello di Castelvetro Piacentino e l’ex-statale “Codognese” (località Cavatigozzi in Comune di Cremona).

Si espongono qui di seguito le motivazioni dell’appello.

1) Mancato rispetto della pianificazione urbanistica vigente

Il progetto del nuovo ponte autostradale e dei relativi raccordi (per un totale di oltre 10 Km) si pone in grave contrasto con le previsioni sia dei Piani Territoriali di Coordinamento delle province interessate (Cremona e Piacenza), che dei piani regolatori vigenti nei comuni attraversati (Castelvetro e Cremona).

Si ha poi notizia che alcune forze politiche locali premono perchè su tale opera vengano convogliate le attenzioni ed i finanziamenti della programmazione economica nazionale. Tutto ciò avviene scorrettamente, prima ancora che nelle assemblee competenti (consigli provinciali e consigli comunali interessati) abbiano provveduto a modificare le strumentazioni urbanistiche vigenti e quindi a democraticamente avallare quanto sino ad ora deciso solo in sede di segreterie politiche.

Tale iniziativa rischia di compromettere il destino dei territori interessati senza che ai cittadini sia stato dato modo di intervenire, anche presso la competente magistratura, a tutela dell’ambiente in cui vivono: in assenza di una adeguata formalizzazione amministrativa di quanto si sta “cucinando” in sede politica risulta infatti impossibile operare qualsiasi forma di ricorso nelle competenti sedi.

I cittadini vengono così, di fatto, privati del loro diritto di controllo sulle trasformazioni del territorio nel quale vivono.

2) Rischio di gravissimi danni all’ambiente e, in particolare, alla grande golena del fiume Po

Il territorio interessato dal progettato nuovo ponte, collocato immediatamente a monte di Cremona ed a valle dello sbarramento di Isola Serafini, rappresenta, nel quadro fortemente antropizzato dei terreni circostanti il corso sinuoso del fiume Po, una singolare ed importante eccezione per gli elevati caratteri di naturalità che ancora conserva.

In tale ambiente sono infatti presenti sia una fauna che una flora di notevole e rara ricchezza, che gli fanno assumere una importanza naturalistica particolare, significativa non solo di per sé stessa, ma anche in quanto, come zona “di passo”, componente di un sistema ecologico a carattere intercontinentale che sarebbe atto gravissimo distruggere, alterare, ovvero anche solo turbare temporaneamente con opere cantieristiche.


La zona dell'attuale Ponte di Cremona sul Po (foto F. Bottini)

Ebbene il progetto in questione sembra avere deciso di non considerare affatto tale delicata situazione ambientale nel momento in cui non si preoccupa neppure di rispettare l’eccezionale ecosistema qui presente della cosiddetta “isola del deserto”, sito la cui importanza è stata da tempo riconosciuta anche a livello comunitario (S.I.C.)! Proprio in tale sito verrebbe infatti impostata la testa meridionale del nuovo ponte!

In realtà si ha ragione di ritenere che la problematica ambientale sia stata semplicemente, e cinicamente, “rimossa” dai promotori dell’iniziativa che, fino a pochi mesi or sono, ancora ipotizzavano di realizzare l’opera, in tutto o in parte, in forma di un tunnel sotterraneo, tanto evidente era apparsa sin dall’avvio degli studi preliminari di progettazione, la delicatezza ambientale dei terreni interessati.

3)Devastazione ambientale alla periferia dell’abitato di Castelvetro Piacentino

Correndo in rilevato tra Fogarole e Castelvetro, il raccordo autostradale si collegherà all’attuale casello attraverso la realizzazione di un mastodontico nuovo argine che finirà con l’accerchiare l’abitato di Castelvetro alterandone il contesto ambientale e, in particolare, distruggendone del tutto l’attualmente già precario rapporto con la circostante campagna.

4) Inopportunità pratica della infelice soluzione viabilistica prevista in località Cavatigozzi (frazione di Cremona)

In località Cavatigozzi, zona Canale Navigabile, il raccordo autostradale, per mancanza di spazio, si sdoppierà in due carreggiate entrambe a due corsie. Entrambe le carreggiate saranno a doppio senso di circolazione! Non è chi non veda il gravissimo pericolo che una tale risicata soluzione comporterà alla luce della considerazione che il resto del raccordo, a monte ed a valle di tale sdoppiata strozzatura, sarà, ovviamente, a doppia carreggiata con distinte direzioni di marcia ciascuna impostata su doppia corsia.

In pratica, qualunque delle due distinte carreggiate venga in futuro imboccata dall’utente, sarà come, improvvisamente, incontrare un cantiere (permanente!) che determinerà un brusco, incomprensibile e pericolosissimo restringimento della sede viabile!

L’opera progettata appare pertanto irrazionale, del tutto inaccettabile sotto il profilo della mancata continuità nel livello di servizio offerto all’utenza e, in particolare, per quanto si dirà nel punto successivo, anche foriera di una drammatica accentuazione del rischio di incidenti rilevanti già precipuamente presente nei luoghi interessati.

5) Accentuarsi del rischio di incidenti rilevanti presente nei luoghi interessati dal raccordo sulla sponda cremonese

Il raccordo in terra cremonese si sdoppia come sopra descritto in due carreggiate parallele, divise tra di loro dall’oleificio Zucchi, ed incuneate tra una discarica di rifiuti tossico-nocivi (Arvedi, a ovest) e un deposito di gas combustibili (Abibes, ad est) la pericolosità del quale non ha probabilmente concorrenti sull’intero territorio nazionale.

Appare evidente l’assoluta inopportunità di realizzare tale raccordo in un sito così potenzialmente pericoloso.

È appena il caso di ricordare come anche recenti e terribili episodi terroristici sconsiglino vivamente di aggiungere pericolo a pericolo in un sito quale quello del Porto di Cremona che è già, purtroppo, caratterizzato da una singolarissima concentrazione di industrie a elevato rischio di rilevante incidente (il già citato deposito di gas Abibes, l’altro analogo deposito Liquigas e la raffineria Tamoil), concentrazione che potrebbe innescare un devastante effetto domino davvero esiziale per la vita stessa della vicina città di Cremona.

6) Inutilità pratica del proposto nuovo collegamento

Il proposto nuovo collegamento non risulterà utile che per una quota modestissima del traffico locale, praticamente solo per quella destinata a servire la zona industriale esistente in prossimità del Canale Navigabile.

Il nuovo ponte risulta infatti troppo decentrato rispetto a Cremona per dirottare su se stesso una quota significativa del traffico che attualmente percorre il vecchio ponte in ferro e non dispone, nè a monte, né a valle, di un bacino di attrazione adeguato a suscitare quelle correnti di traffico che ne potrebbero altrimenti giustificare la costruzione.

Le valutazioni in termini di costi-benefici forniscono al riguardo ipotesi di convenienza economica talmente risicate da far seriamente dubitare della reale fattibilità ed opportunità dell’iniziativa, per la quale esistono comunque valide alternative.

7) Esistenza di valide alternative al proposto nuovo tracciato

Il proposto nuovo tracciato potrebbe essere infatti agevolmente sostituito da valide alternative, assai più interessanti sotto il profilo territoriale ed assai meno impattanti sul paesaggio locale.

In primo luogo deve considerarsi l’ipotesi, da vari anni sostenuta e sempre rinviata, di liberalizzare o di agevolare nell’uso, con tariffe privilegiate quantomeno per il traffico pesante, l’altro ponte autostradale già preesistente poco a valle di Cremona.

In secondo luogo può considerarsi l’ipotesi di realizzare gli opportuni raccordi tra la viabilità piacentina, il ponte di San Nazzaro sul Po ed il ponte di Crotta sull’Adda, manufatti entrambi al presente significativamente sotto utilizzati e postii poco a monte dell’ipotizzato raccordo.

Quest’ultima soluzione sarebbe praticabile con modestissima spesa e ridottissimo impatto ambientale.

Cremona, luglio 2005

WWF Cremona

Italia Nostra Cremona

Lega Ambiente Cremona

WWF Piacenza

LIPU Cremona

GIS Cavatigozzi

Ambiente Territorio Società

Nota: qualche notizia tecnica in più (e una utile mappa) nel reportage a più voci del periodico cremonese Il Vascello, con interventi di Giorgio Albera - rappresentante del Porto e favorevole - e Massimo Terzi - ex assessore all'urbanistica e critico; altre informazioni e immagini QUI(f.b.)

IL VIANDANTE, il ciclista, o l’automobilista, che si lasciano alle spalle la Collegiata di San Candido col suo Cristo indifeso, attraversano un paesaggio verdissimo.

Pochi chilometri più in là c’è l’Austria: Sillian, Lienz, il Tirolo orientale. Ma l’Austria è molto meno bella dell’ultimo radioso lembo della Val Pusteria con i suoi piccoli paesi, che Gustav Mahler e Hugo von Hofmannsthal amavano. Tra questi paesi, mi piace soprattutto Obervierschach (Versciago di Sopra), dove forse la grazia e l’eleganza sudtirolese toccano il culmine. Masi secolari, oscuri o improvvisamente luminosi, con finissime ondulazioni e orlature e croci greche: legna tagliata con precisione, per un inverno che forse non verrà mai: discrezione; e su tutti i balconi moltitudini di gerani e di petunie d’ogni colore, come se i balconi e i cimiteri rivaleggiassero con la fecondità della natura. Infine, la chiesa gotica di santa Maddalena, che guarda dall’alto il paese addormentato.

Oggi, questa bellezza è minacciata. In mezzo al paese, sinistre e altissime gru gialle annunciano la costruzione di un grande albergo, che l’anno prossimo vedrà trionfalmente la luce. Non c’è il minimo dubbio che l’albergo distruggerà completamente il fascino di Versciago: adombrando per sempre masi, legnaie, fiori, chiese, stradine. Non capisco perché il comune di san Candido, al quale il paese appartiene, non abbia previsto di far costruire l’albergo cinquecento metri più in là.

Sarebbe bastato. I sudtirolesi, dopo aver salvato valli bellissime, sembrano oggi animati da un’immaginazione suicida. Guardano verso l’Italia e la Francia. Là trovano modelli: l’orribile Misurina, la Liguria occidentale distrutta, la Costa Azzurra distrutta, Deauville, Rouen, Positano, Siracusa, Agrigento distrutti. Farebbero meglio a guardare verso Fermo o Ascoli Piceno, nelle Marche, dove non è scomparsa, o forse è accresciuta, la grazia del tempo di Leopardi.

Questo disastro ha una ragione. Nel Sudtirolo è scomparsa la figura del Sovrintendente ai Beni culturali, ridotto a semplice funzionario.

Qui nessun La Regina e Paolucci possono impedire ai sindaci di Roma e Firenze di sconvolgere città e musei. Qui importa soltanto l’autorità politica e amministrativa, che pochi giorni fa, violando la sentenza di un giudice sudtirolese del Tribunale di Bolzano, ha raso al suolo a Monguelfo, un edificio del sedicesimo secolo.

Un futuro più oscuro si addensa, probabilmente, sulle regioni italiane previste dalla recente riforma. I poteri dei Sovrintendenti diminuiranno o scompariranno, l’ignoranza e l’arroganza delle autorità politico – amministrative cresceranno ogni giorno. A chi importa che un piccolo paese venga abolito? O che Palazzo Barberini abbia il suo museo? Basta costruire alberghi sempre più grandi, o minacciosi palazzi regionali, o musei che sogneranno di imitare gli infernali Beaubourg o Musée d’Orsay.

Settant’anni fa, quando da queste parti c’erano “sommergibili rapidi ed invisibili”, il sociologo di Chicago Roderick McKenzie studiava qualcosa di altrettanto sommerso e invisibile: la comunità metropolitana. Una comunità ben diversa da quella tradizionale del vicolo, della piazza, del quartiere, e che si riconosceva e articolava su punti di vista e strumenti più complessi: mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, tempi e spazi elastici. Era insomma un primo vagito di adattamento umano ai tempi della macchina e della modernità, oltre gli slanci elitari delle avanguardie di inizio secolo, per una convivenza più pacioccona (ma non per questo retrograda e reazionaria) col nuovo contraddittorio universo costruito dalla tecnologia.

Proprio questa nozione di comunità metropolitana mi è tornata in mente seguendo da vicino e da lontano la “navigazione” in questo agosto 2005 del sommergibile Enrico Toti: dal porto di Cremona al Museo della Scienza di Milano, ma soprattutto da piccola nota di cronaca a spettacolo nazionalpopolare seguito minuto per minuto dalla stampa. È stato detto molto, sulle migliaia di persone che durante le trasferte notturne o le soste diurne si sono affollate attorno al gigante nero che con dannunziana orgogliosa sicurezza risaliva la valle padana verso l’ultima dimora. Forse qualcosa di più si potrebbe dire sugli spazi dove questa nuova e inattesa socialità si è manifestata, e sulla ricerca di nuovi rapporti con questi spazi.

Non a caso il corteo inizialmente tecnico-militarizzato si è rapidamente evoluto in una versione tascabile del Giro d’Italia, con un particolarissimo ruolo delle “tappe”. Era qui, a mio parere, che si registrava uno degli aspetti più interessanti della nuova comunità mediatico-territoriale: la scoperta e tentativo di appropriazione dei nuovi spazi di solito preclusi all’incontro, alla vera frequentazione, alla socialità corrente, e lasciati a poche avanguardie specializzate. Avanguardie specializzate che difficilmente pensiamo come tali, sempre che ci pensiamo, ma che da veri impavidi pionieri iniziano la colonizzazione dei nuovi territori, un po’ come i gabbiani sulle isole sputate in superficie da un vulcano sottomarino: camionisti, puttane, pensionati con la passione dell’orto, qualche operaio delle manutenzioni, e pochi altri. Sono loro ad esplorare per primi l’immensa città proibita che si stende sulle grandi distanze fra un bozzolo privatizzato e l’altro, fatta di piazzole, cigli stradali, guard-rail, macchie di alberi, parcheggi, scarpate sul retro degli scatoloni precompressi artigianali e commerciali. Spazi preclusi ai comuni mortali, intravisti malamente anche da chi dovrebbe “progettarli”, e invece quasi sempre si limita ad applicare norme e regole in modo astratto. Spazi accettati e subiti soprattutto perché ignorati.

Chi ha mai fatto davvero caso a quanto sono inutilmente orribili, scomodi, alieni, questi spazi? Mercato, burocrazia, “tecniche” campate per aria organizzano localizzazioni, densità, arretramenti, miscele funzionali e rapporti con la strada, di questi sparpagliati baracconi, già settant’anni fa temuti come la peste (si veda ad esempio il dibattito sul britannico Restriction of Ribbon Development Act, 1935). E pure tranquillamente realizzati, che anche ora continuano a crescere come funghi, anche lungo il percorso sub-padano del sommergibile Toti. Chissà se qualcuno dei neo appassionati di navigazione padana su ruote se n’è accorto, di quanto un’idea del tutto scema di ruote, mobilità, nodi e tratte, ha finito per mortificare anche il “cuore verde della Megalopoli” (come lo chiama il geografo Turri).

Eppure anche in mezzo a questo neo-casino malpensato per automobili e umani, si sono affollate migliaia di persone, magari inciampando su cordoli superflui che però si studiano nei corsi tecnici, smadonnando per l’ombra che mancava, dagli standard e dai piazzali pieni di buche, per le piazzole di sosta assenti sul ciglio di decine di chilometri di statale, perché tanto prima o poi ci facciamo l’autostrada, a che serve migliorare il tracciato “vecchio”?

Speriamo, appunto, che qualcuno se ne sia accorto. Magari qualcuno che poi partecipa alle decisioni. Magari qualcuno poco propenso a ridurre il tutto a una versione all’amatriciana del new urbanism, con una bella siepe davanti ai capannoni, rotatorie con verde sponsorizzato ... e chilometri di barriere tipo “ new jersey” a tagliare fuori completamente l’ambito stradale dal territorio, e viceversa. Allora sì, che la mobilità diventerebbe davvero e per sempre una navigazione sottomarina, una Lega dopo l’altra, e il territorio una chimera, plasmabile a piacimento dagli schermi televisivi.

Per ora, ringraziamo anche il sommergibile Toti per averci riportati coi piedi per terra.

Nota: alcune delle riflessioni sulla comunità metropolitana di Roderick McKenzie citate all'inizio, sono disponibili tradotte qui su Eddyburg, nella sezione del testi "storici" Urbanistica, Urbanisti, Città ; per una non banale descrizione dell'ambiente stradale si veda anche sul mio sito la traduzione di RoadTown USA . In fondo, anche alcuni articoli sul sommergibile Toti dalle edizioni locali di Repubblica e del Corriere della Sera (
fabrizio bottini)

A chiunque è consentito utilizzare questo articolo alla condizione di citarne l'autore e la fonte

Dalla cronaca locale:

Annachiara Sacchi, Migliaia alla partenza del Toti: Viaggio-show verso Milano, Corriere della Sera 8 agosto 2005

Cinzia Sasso, Comincia al buio il viaggio del Toti, la Repubblica, 9 agosto 2005

Teresa Monestiroli, Un’altra notte di sagra infinita, la Repubblica, 11 agosto 2005

Teresa Monestiroli, Arriva il Toti due km di coda in tangenziale, Repubblica, 12 agosto 2005

Annachiara Sacchi, Il sommergibile a Milano Passerella del Toti per le strade della città, Corriere della Sera, 12 agosto 2005

Ezio Mauro ha indicato su questo giornale alcune anomalie della destra italiana, e le ha ribadite e argomentate rispondendo al presidente del Consiglio: cultura populista, monopolio televisivo, conflitto d’interessi e leggi ad personam. Sono le principali anomalie, ma non le sole. Un’altra ne ha rilevato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 5 agosto: "Mentre è la destra che dovunque mira a rappresentare e a difendere i valori e le istituzioni nazionali, in Italia invece no". Solo così si spiega il recente codicillo secondo cui gli archivi della presidenza del Consiglio non verranno più versati all’Archivio centrale dello Stato (come fino a oggi), ma costituiranno un nuovo, apposito archivio storico, con modalità e norme d’accesso stabilite dal presidente del Consiglio in carica. "Esempio - conclude Galli della Loggia - di una frantumazione della memoria storica del Paese e di una sorta di feudalizzazione della stessa, un piccolo-grande segno dei tempi".

Altro segno dei tempi, non meno indicativo, è la tendenza a svendere il nostro patrimonio culturale, come in una stagione di saldi al peggior offerente. Si vede qui come l’anomalia stigmatizzata dal Corriere si sposi con quelle indicate dalla Repubblica: è la moda e la prassi dell’impunità, delle leggi ad personam, della creazione di feudi e riserve di caccia, che si espande a macchia d’olio e autorizza chiunque abbia un amico in Parlamento a pretendere una legge ad hoc per coprire le sue magagne, autorizzare i suoi abusi, promuovere i suoi affari in barba all’interesse nazionale e alla Costituzione. Di tal stoffa è fatto il famigerato "archeocondono", e cioè l’indiscriminata licenza di uccidere per tombaroli e depredatori dei tesori archeologici del Paese, che verrebbero autorizzati a commerciarli liberamente col solo lasciapassare di una dichiarazione che li hanno acquisiti "in buona fede", e pagando il 5% del loro valore (si capisce, da loro stessi stabilito). Primo firmatario di questa proposta di legge è l’on. Gianfranco Conte, prontamente premiato con una poltrona di sottosegretario. La relazione introduttiva (pubblicata negli Atti della Camera) si spinge, senza nemmeno avvertire il lato grottesco, a far nome e cognome di collezionisti e antiquari perseguiti dalla magistratura per reati contro il patrimonio culturale, che da una legge come quella trarrebbero vantaggio.

Dopo un tentativo, fallito anche per merito di membri della maggioranza e del governo, di contrabbandare questa norma perversa come un articolo della Finanziaria, la legge Conte è ancora all’esame del parlamento. Maggior successo ha avuto la proposta avanzata da una lobby di collezionisti di monete (anche qui, nomi e cognomi sono noti a tutti) e fatta propria dal senatore Eufemi (Udc), che è riuscito a cacciarla a viva forza dentro un decreto-legge su tutt’altro ("Mezzogiorno e diritto d’autore").

L’orrido "emendamento Eufemi" esclude da ogni forma di tutela "le monete antiche o moderne di modesto valore o ripetitive, o conosciute in molti esemplari o non considerate rarissime". Norma in apparenza inutile, visto che il Codice dei beni culturali tutela solo le monete di "interesse storico o artistico particolarmente importante": ma è proprio ad azzerare una prassi già permissiva che è volto il codicillo Eufemi, negando la tutela anche alle monete "particolarmente importanti" in nome della loro ripetitività. Si ignora così (lo ha dichiarato l’Istituto italiano di numismatica) "che la moneta è di per sé un prodotto seriale, e che le sue potenzialità come fonte storica prescindono dalla sua unicità o rarità"; che essa, "come ogni altro reperto archeologico, assume valore in rapporto al contesto da cui proviene". La nuova norma "impedisce qualsiasi controllo sui materiali ritrovati, favorendo il commercio delle monete antiche illegalmente acquisite e incentivando gli scavi clandestini", anche perché "il giudizio sulla ripetitività delle monete e quello sull’esenzione dagli obblighi di denuncia è incredibilmente affidato allo stesso detentore delle monete, e non ad un organo competente e responsabile, come il ministero per i beni culturali".

Ci vuol poco a capire che uno sgangherato e incolto principio come questo, secondo cui la serialità esclude la tutela e il collezionista è controllore unico di se stesso, può facilmente essere esteso dalle monete ad ogni altro reperto archeologico, annientando di fatto ogni tutela. Insomma, l’emendamento Eufemi da un lato fa gli interessi dei mercanti di monete, dall’altro è il cavallo di Troia per il più vasto "archeocondono" prefigurato dalla legge Conte. Prevale, in queste ed altre norme (basti pensare a quelle sulla depenalizzazione dei reati contro paesaggio e ambiente, anch’esse concepite ad personam), quella sorta di "amorale familismo" che lontani osservatori d’oltralpe usavano rimproverare agli italiani, e cioè l’idea che provvedere agli affari di amici e parenti è molto più importante di qualsiasi legge o pubblico interesse. Perciò si fanno apertamente, con finta ingenuità e vera protervia, nomi e cognomi dei mandanti e beneficiari delle proposte: quanto più essi sono in vista, tanto più, a quel che sembra, è facile che i loro interessi prevalgano sulla pubblica utilità.

Scade intanto proprio ora il primo accordo quinquennale Italia-Stati Uniti, che vieta l’importazione in America dei nostri beni archeologici; e già l’opinione pubblica americana si sta mobilitando in favore del suo rinnovo (savingantiquities. org). Mobilitazione che avviene, paradossalmente, proprio mentre alcuni parlamentari nostrani fanno di tutto per vanificare quell’accordo, considerando monete e reperti non come documenti storici, ma solo per il loro valore venale. Si calpesta così l’art. 9 della Costituzione, che - lo dice una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986) più volte richiamata dal presidente Ciampi - sancisce "la primarietà del valore estetico-culturale, da non subordinarsi a nessun altro, ivi compresi quelli economici".

Risalta dunque anche su questo fronte l’anomalia della destra italiana, la sua tendenza a legiferare su commissione e su misura. Archivi "privati" per la presidenza del Consiglio, monete "personalizzate" per chiunque lo voglia, feudi e satrapie per gli amici degli amici. Ma non era stato questo stesso governo ad approvare, poco più di un anno fa, un Codice dei beni culturali che garantiva, invece, un sufficiente livello di tutela per monete e reperti archeologici? Non dovrebbe, questo stesso governo, cassare l’infelice emendamento Eufemi nel più breve tempo possibile? Non dovrebbe restituire agli archivi dello Stato le carte della presidenza del Consiglio? O si persevererà nel legiferare contro la Costituzione, contro i valori e le istituzioni nazionali, contro gli accordi internazionali, contro un Codice prodotto da questa stessa maggioranza di governo?

Uno Stato, come qualunque altra cosa, vive anche di simboli. Che non sono solo lo stemma, l'inno o la bandiera. Sono pure alcune istituzioni nazionali che con la loro sola esistenza esprimono, simbolicamente appunto, la consapevolezza dei cittadini di avere un retroterra e un destino comuni: un sistema scolastico unitario, per esempio, una radio pubblica, una polizia di Stato. O anche un archivio centrale dello Stato.

Di tutto ciò, però, la destra italiana si direbbe che non gliene potrebbe importare di meno. Mentre è la destra in particolare, infatti, che dovunque mira a rappresentare e a difendere i valori e le istituzioni nazionali, nel nostro Paese invece no. Nel nostro Paese essa li difende solo finché le fa comodo (o, il che fa quasi lo stesso, finché lo permette la Lega). Non si spiega altrimenti l'introduzione, passata fin qui inosservata, di un brevissimo comma all'interno di un lungo ed eterogeneo decreto legislativo approvato qualche mese fa e che sarà pubblicato nei prossimi giorni nella Gazzetta Ufficiale, entrando così in vigore. Un piccolo comma grazie al quale si otterrà un effetto, però, di rilievo: né più né meno che la cancellazione di un ganglio decisivo dell'attuale sistema archivistico nazionale e di documentazione dello Stato unitario.

Il comma di cui sopra prevede, infatti, che d'ora in avanti tutte le carte della Presidenza del Consiglio dei ministri non saranno più versate all'Archivio centrale dello Stato, bensì conservate in un apposito, neocostituito, archivio storico della stessa Presidenza «secondo le determinazioni assunte dal presidente del Consiglio dei ministri con proprio decreto».Con il medesimo decreto, si aggiunge, «sono stabilite le modalità di conservazione, di consultazione e di accesso agli atti presso l'archivio».

Insomma, d'ora in avanti, almeno in teoria, sarà lo stesso Berlusconi, e domani Prodi o chi per lui, a decidere non solo che cosa dovrà o non dovrà essere conservato degli atti che documentano l'azione del proprio governo, ma anche chi come e quando potrà consultare e studiare i documenti in questione.

Per capire la crucialità e l'entità del fondo archivistico di cui si tratta, basterà dire che dagli uffici del presidente del Consiglio passano, come è ovvio, tutte le decisioni più importanti sia del vertice politico del Paese, sia di tutte le amministrazioni centrali e spesso anche periferiche dello Stato. Tanto è vero che attualmente sono ben 9 mila circa i faldoni contenenti tale documentazione versati presso l'Archivio centrale dello Stato, faldoni la cui consultazione è stata resa sempre disponibile con larghezza e professionalità inappuntabili dai funzionari che vi lavorano, in obbedienza alle norme generali che regolano la materia.

D'ora in poi, invece, tali norme non varranno più. Tutto dipenderà dal buonvolere dell'inquilino di Palazzo Chigi o di qualche suo dipendente. E tutto questo semplicemente perché dopo le due Camere, dopo la Corte Costituzionale, dopo la presidenza della Repubblica — che almeno tuttavia possono accampare la ragione di essere organi costituzionali — ora anche la presidenza del Consiglio, che tale non è, ha voluto il suo archivio particolare: esempio di una frantumazione della memoria storica del Paese e di una sorta di feudalizzazione della stessa a cui è difficile non attribuire il significato di un piccolo-grande segno dei tempi.

Titolo originale:The super Tuscans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La prima generazione di britannici che ha comprato in Chiantishire, sta vendendo.

Quando Betsy e George Newell cercavano una casa sotto il sole toscano, c’era scelta in abbondanza, e qualunque cosa vedevano era a basso prezzo. Andavano e venivano da Londra, tutti i week-end per un paio di mesi, e in una ventosa giornata di febbraio comprarono due case agricole in cima a una collina con un’incredibile vista su sette castelli vicino a Gaiole in Chianti. Il prezzo? Un affare, a poche migliaia di sterline. Perché i Newell erano pionieri, e l’anno era il 1973. Ora la coppia ha deciso di vendere. E non sono soli: c’è un cambio della guardia in Toscana, con tutti i primi trasferiti stranieri, soprattutto da inizio anni ’70, a lasciare proprietà che richiedono troppo tempo e fatica.

Questa tendenza, in una regione dove altrimenti c’è molto poco ancora a disposizione, per gli acquirenti immobiliari ha aperto una possibilità di occasioni che non si vedeva da anni.

Il mercato completamente aperto incontrato da gente come i Newells trent’anni fa, significa che queste case sono spesso grandi, belle, e possono vantare magnifiche viste: il che naturalmente si riflette sul prezzo. La proprietà Newell, con 300 alberi di ulivo, è sul mercato per 2,6 milioni di sterline.

Dalla piscina, si possono vedere sette castelli del Chianti e le montagne a 80 chilometri di distanza. “Entrambe le case coloniche erano quasi dei ruderi, ma decidemmo di dare priorità alla piscina, così che i bambini potessero passare l’estate” ricorda George, banchiere americano in pensione, che all’epoca aveva trent’anni. “L’uomo che l’ha costruita ci credeva pazzi”.

I Newell hanno vissuto in tenda, i primi due anni, mentre si ricostruiva la prima casa, con spazio per sei camere. Con abbondanza di stanze per famiglia e ospiti, poi non è stato toccato il secondo edificio, le cui pareti spesse 50 cm sono abitate solo da un piccione solitario, ma che potrebbe essere trasformato in una casa da quattro camere.

La moglie inglese di George, Betsy, ex insegnante di cucina che ha trasformato la cima di collina intorno alla casa in un giardino a terrazze di lavanda, pruni e peri, dice che la famiglia non ha più tempo, per la Toscana.

“Sono un’appassionata di giardinaggio, e ho appena passato due mesi qui, a badare alle cose. Anche l’uliveto ha bisogno di molta manutenzione: bisogna potere gli alberi, tagliare l’erba sotto, e fare decine di altre cose”, dice. “Cerchiamo qualcuno che abbia l’energia non solo di gestire il posto, ma anche di restaurare la seconda casa”.

I Newell divideranno il proprio tempo fra le loro due altre case, una a Londra e una capanna di tronchi in Nuova Scozia, Canada, dove George ha iniziato un’attività nel campo del salmone affumicato.

Si sta preparando ad abbandonare la Toscana anche Douglas Anderson, un artista che comprò la sua casa vicino a Pisa nel 1972 scambiandola con un ritratto dell’allora proprietario, due grossi paesaggi, e 800 sterline. Ricorda una Toscana più tranquilla di quella di oggi.

A 71 anni, Anderson userà il ricavato dalla vendita della sua casa rosso ruggine – il prezzo richiesto è di circa 800.000 sterline, compreso un fienile che usa come studio, una piscina e 5000 metri quadrati – per pagarsi gli anni della pensione in Irlanda.

L’ironia sta nel fatto che nessuno della Vecchia Guardia pensava di fare un investimento acquistando immobili in Toscana. “Era solo un problema di comprare la cosa migliore che si trovava” dice Bill Thomson di Chianti Estates, associata all’agenzia immobiliare Knight Frank.

“Quando la gente iniziò a comprare negli anni ’70, c’era parecchio tra cui scegliere. At the time those homes were worth £10,000 at most. Ora, chi se ne va scopre che la propria casa vale più di 5 milioni di Euro (3,5 milioni di sterline)” dice Thomson.

È un cambio di generazione, e sta avendo un effetto valanga. Quando gente come i Newell se ne va, anche i loro amici iniziano a pensare seriamente a muoversi. E così vanno sul mercato case senza difetti evidenti: nessun vicino rumoroso, tralicci elettrici, fabbriche in vista, autostrade nei paraggi.

Le case più a buon mercato della Vecchia Guardia sono state vendute da Thomson poco sotto le 700.000 sterline. In catalogo ci sono due case vicine a Radda in Chianti che appartengono a un aristocratico britannico, e che per anni sono state disponibili in affitto. Hanno 40 ettari di terra, soprattutto boschi, e due piscine, a un prezzo di 3,5 milioni di sterline.

Gli agenti italiani in Chianti dicono che una casa di cima collina, restaurata con piscina e vista si può avere per circa un milione di sterline. Aggiungeteci una vigna e il prezzo sale a oltre 1,4.

La maggior parte delle case ora sul mercato hanno bisogno di restauri, o almeno di qualche manutenzione, perché non sono state toccate per molti anni. La classica casa di campagna del XVIII secolo comprata recentemente da Helen Wood, ex giornalista televisiva, e dal marito, da un proprietario di lunga data scozzese vicino al villaggio medievale di Castagnoli in Chianti, non fa eccezione.

Wood è stata la prima a innamorarsi della casa, detta L’Aiaccia, dopo aver cenato in un ristorante da cui si vedono la casa e i boschi e vigna circostanti. Ha pensato che fosse giusto dare al marito un’opportunità di scelta, e così lui è venuto a visitare L’Aiaccia e un’altra casa a Cortona verso sud, da dove era partita la ricerca.

Quando lui l’ha richiamata ha detto: “Beh, mi pare abbastanza ovvio, no?”. La signora Wood ha condotto lavori di rinnovamento che sono durati due anni e costati quanto la casa, a un prezzo di circa 1.000 sterline al metro quadro. Dato che l’edificio era costruito direttamente sul terreno, la coppia ha dovuto scavare e per costruire le fondamenta. È stato installato il riscaldamento centrale, tolte enormi travi di noce devastate dai tarli, trasformato il porcile in cottage per gli ospiti e il granaio in sala giochi, costruita un’elegante piscina, su progetto del noto architetto britannico Anthony Hudson, ravvivata da una passerella sotto il pelo dell’acqua.

“All’inizio venivamo una volta al mese, poi è diventato una volta ogni due settimane, e gli ultimi sei mesi una alla settimana” dice la Wood. Ha rinunciato al lavoro dell’epoca per dedicarsi al progetto, fondando poi “ Casa in Italia”, impresa di restauri e manutenzioni in Chianti.

Non tutti i nuovi arrivati in Toscana sono preparati, o possono permettersi, a ricostruire una casa praticamente da zero. A parere di un agente immobiliare, il Chianti è un campo di gioco per persone ricche, dove i prezzi – raddoppiati negli ultimi quattro anni – stanno lentamente togliendo il monopolio dalle mani britanniche, con nuovi arrivi come un produttore cinematografico di Hollywood, un finanziare di New York consigliere di amministrazione di una grossa banca americana, o un uomo d’affari russo.

“I prezzi in Chianti sono troppo alti per la maggior parte dei britannici, che di solito non spendono più di 600.000 Euro (415.000 sterline) e vogliono stare vicini a Pisa per i voli Ryanair o EasyJet,” dice Gregory Page, di Alfa Immobiliare, che ha sede in Chianti ma sta aprendo una filiale nella città murata di Lucca, a nord di Pisa, dove i compratori britannici chiedono case o appartamenti che non hanno bisogno di nessun lavoro.

“Lucca naturalmente è meno prestigiosa del Chianti, e gli immobili sono più piccoli, ma ha un ambiente molto più autentico del Chianti. Non ci sono olio, o negozi di ceramiche” dice Page.

Hamish Scott-Brown, fotografo dello Ayrshire che ha appena comprato una nuova casa di tre stanze fuori Barga, una cittadine nei pressi di Lucca, a 210.000 sterline, dice che non aveva i soldi per il Chianti, ma aggiunge che si sarebbe sentito un “bianco forestiero” là.

“A Barga mi sento molto più benvenuto che in Chianti. L’ospitalità è straordinaria” dice. “Ero in un bar dentro a un supermarket, ed entra un uomo – aveva appena comprato un’Ape rosso, uno di quei furgoncini a tre ruote. Era così contento di sé che offriva a tutti un caffè o qualsiasi altra cosa. Ha scoperto che ero scozzese e insisteva perché prendessi un whisky. Quand’è l’ultima volta che avete visto una cosa del genere a Waitrose?”

I Newell si preparano a lasciare la loro collina in Toscana, e Betsy dice che la cosa che le mancherà di più sono i tramonti dalla terrazza. “Tutte le sere, indipendentemente da tempo, tutti lasciamo quello che stiamo facendo per guardare il tramonto. I colori, le ombre, sono diversi ogni giorno. C’è profumo di gelsomino nell’aria, e coi boschi tanto vicini si possono sentire le civette, gli usignoli e i cinghiali selvatici. Poi arrivano le lucciole”.

Nota: il testo originale di questa specie di spot pubblicitario per gli immobili in Toscana, al sito del Times online (f.b.)

COMUNICATO STAMPA

1 agosto 2005 - I Presidenti del Consiglio Regionale dell'Emilia-Romagna e della Sezione di Bologna di Italia Nostra hanno inviato in data 1 agosto la seguente lettera al Sindaco e all'Assessore all'Urbanistica del Comune di Bologna:

Egregio Signor Sindaco, Egregio Signor Assessore,

numerosi cantieri in corso nella collina prossima a Bologna fanno pensare che siano intervenuti negli ultimi tempi dei cambiamenti peggiorativi nelle politiche di difesa del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della collina, praticate con coerenza e sostanziale continuità dal Comune di Bologna da ormai quarant'anni.

In questo senso destano forti preoccupazioni tre cantieri (li citiamo ad esempio, ma ce n’é altri) posti l’uno all'inizio della via di Roncrio, un secondo presso la frazione di Roncrio al bivio di via della Trappola, il terzo a poche decine di metri dalla Basilica di San Luca sulla destra per chi sale dal Meloncello.

Il portico e la Basilica di San Luca, in particolare, non sono episodi qualsiasi del paesaggio e della storia culturale, religiosa e artistica di Bologna: meritano più attenzione e rispetto di quelli che si manifestano in quest’ultimo caso.

Le dimensioni e l'invasività dei nuovi edifici in costruzione sembrano a prima vista contrastare con le linee e le normative di tutela poste in essere fin dagli anni '60 da Comune e Soprintendenze. Siamo certi che il Comune, ove non l’abbia già fatto, verificherà la regolarità degli edifici e delle autorizzazioni anche alla luce delle localizzazioni e delle insolite dimensioni degli interventi in questione, e procederà di conseguenza qualora venissero riscontrate anomalie.

Se invece queste costruzioni fossero pienamente autorizzate, riteniamo sia urgente rivedere le parti di norme e regolamenti che si sono appalesate così clamorosamente inefficaci in questi casi, al fine di evitare che episodi simili possano ripetersi. Occorre poi che siano raddoppiati gli sforzi e le attenzioni degli organismi comunali preposti alle valutazioni di merito sui progetti sottoposti all’approvazione.

Confidando nella Loro attenzione e nel Loro efficace impegno e confermando la volontà di Italia Nostra di continuare a contribuire al migliore andamento delle politiche di difesa del patrimonio storico-artistico e paesaggistico della nostra città, porgiamo distinti saluti.

Paolo Pupillo, Presidente della Sezione bolognese di Italia Nostra

Raffaele Mazzanti, Consigliere Nazionale, Presidente del Consiglio Regionale di Italia Nostra

Postilla

Negli anni 60 i migliori nomi dell’urbanistica italiana e le più avvedute amministrazioni si impegnarono nella tutela del paesaggio urbano: a Firenze (Detti), ad Assisi (Astengo), a Bologna (Campos Venuti) le colline, che già la speculazione aggrediva, furono vincolate da varianti ad hoc o da piani urbanistici “innovativi” (allora non si diceva così, ma si faceva). Gli esempi fecero scuola, e le città che si muovevano nella direzione opposta sono oggi additate come esempi degli scempi più inumani (la collina del Vomero a Napoli).

Che cosa è cambiato, da allora a oggi? Molto, se a Bologna succede ciò che Italia Nostra denuncia. E non si tratta di abusivismo, né di colpi di coda della giunta Guazzaloca. Ciò che sta avvenendo è il risultato dell’applicazione del PRG approvato nel 1989 dalla Giunta PCI-PSI. Un piano che fu pesantemente modificato quando il PSI entrò in maggioranza. Tra l’altro, si consenti che potessero essere autorizzate ristrutturazioni edilizia di “edifici esistenti all'interno di zone agricole non destinati o non destinabili all'attività agricola (edifici residenziali accatastati al NCEU, edifici colonici non più funzionali alla produzione agricola, edifici o parti di edifici utilizzati per attività produttiva e/o di servizio)”, cambiandone la destinazione e con un significativo premio di cubatura”. (articolo 58 - Nuclei edilizi esistenti).

Una interpretazione abbastanza allegra della conservazione del paesaggio della collina. I cittadini bolognesi possono già immaginarne gli effetti osservando i numerosi cantieri apert: uno a fianco del Santuario di San Luca. C’è da sperare che l’allarme lanciato da Italia Nostra, e ripreso da Eddyburg, solleciti gli amministratori a tamponare con immediatezza gli effetti di quel perverso dispositivo.

Nello stagno di Campana svernano i fenicotteri rosa. E' un'area protetta dalle normative europee (fa parte di un «sito d'interesse comunitario», come si dice nel linguaggio della burocrazia di Bruxelles). Il comune di Domus de Maria ha ottenuto dall'Unione europea un finanziamento di 250.000 euro per tutelarlo, circondandolo di una palizzata di legno. Ora, a ridosso dello stagno, c'è un parcheggio, pieno, a luglio, delle auto di turisti che arrivano da mezza Europa. E' uno dei tanti scempi resi possibili dal piano urbanistico comunale (Puc) approvato all'unanimità a Domus de Maria, senza distinzione di maggioranza e opposizione, il 26 febbraio di quest'anno. In pochi mesi, una colata di cemento si è riversata sulla costa che va dalla laguna di Chia a Capo Spartivento, quarantacinque chilometri ad ovest di Cagliari. Una zona di straordinario pregio paesaggistico e naturalistico è stata devastata da villaggi turistici che si sono divorati intere colline e hanno distrutto ettari di macchia mediterranea, ginepri secolari fatti a pezzi dalle ruspe.

Disastro ambientale

Tutto nel silenzio più assoluto. Almeno sino a quando, lo scorso maggio, non è intervenuto il Wwf, che ha denunciato il saccheggio e che, per bocca dei suoi dirigenti regionali, non esita ora a parlare di disastro ambientale. Nel tentativo di bloccare lo scempio, l'associazione ambientalistica ha presentato un ricorso al Tar, per chiedere l'annullamento del piano urbanistico di Domus de Maria. Intanto, però, le ruspe hanno fatto buona parte del loro lavoro, e riportare Chia e la sua laguna allo stato originario forse non sarà più possibile.

Vedere da vicino che cosa è stato fatto è sconcertante. Il parcheggio delle auto che sorge accanto allo stagno dei fenicotteri è la deturpazione più evidente. Ma basta addentrarsi appena all'interno per capire che la parola disastro non è stata usata a sproposito dal Wwf. Sulla collina che declina verso la laguna sorge l'edificio di un club nautico che doveva essere costruito nella zona del porto. Porto mai realizzato per la sollevazione generale di ambientalisti e opinione pubblica: si dovevano spianare le dune e dragare il fondale dello stagno. A tanto non ci sono arrivati. Dal Puc il porto lo hanno tolto. Il club nautico è rimasto, anche se sulla costruzione la Guardia forestale ha sollevato dubbi di legittimità sulle proroghe della concessione rilasciata dal comune. Per non parlare della differenza tra ciò che era previsto nel progetto autorizzato dall'ufficio paesistico della Regione Sardegna e ciò che è stato costruito. Una relazione della Guardia forestale è stata consegnata alla procura di Cagliari lo scorso dicembre, quando del club nautico esistevano solo le fondamenta. La procura non si è mossa e ora l'edificio è arrivato al tetto. Poco oltre, in un posto che si chiama Tanca Sisca, lo scempio è totale. La collina è stata ricoperta da file e file di villette a schiera, un enorme villaggio turistico con tanto di piscine e di centri commerciali. All'ingresso del cantiere c'è scritto che i lavori sono cominciati il 15 febbraio 2005. In pochi mesi è venuta su una seconda cittadina, a poche decine di metri dal mare. Un sistema delicatissimo, come quello delle dune e della laguna, minacciato nei suoi equilibri, con il rischio di danni irreparabili.

Com'è potuto accadere tutto ciò in una regione in cui lo scorso 11 agosto la giunta guidata da Renato Soru ha approvato, tra i suoi primi atti, una legge che impedisce di costruire qualsiasi cosa, anche una semplice capanna di frasche, dentro una fascia di due chilometri dal mare?

Al comune di Domus de Maria dicono che loro sono in regola perché la legge salvacoste voluta da Soru esclude le opere edilizie già avviate al momento dell'entrata in vigore del provvedimento. Il Wwf replica che le cose, nel caso di Chia, non stanno per niente così. E cita il testo della legge salvacoste: «Restano fuori dalle disposizioni della presente normativa le opere che alla data del 10 agosto 2004 siano già legittimamente avviate, ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale e si sia determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi». «Nel caso specifico _ dicono al Wwf _ le opere edilizie non erano state neppure avviate alla data del 10 agosto 2004. E come se non bastasse, risulta dalla relazione allegata al piano urbanistico di Domus de Maria che buona parte delle convenzioni di lottizzazione cui si riferiscono le costruzioni in questione sono abbondantemente scadute». Il sindaco di Domus de Maria replica che le lottizzazioni erano già previste dal precedente piano urbanistico, bocciato solamente in parte, per irregolarità di legge, dal Comitato regionale di controllo, e quindi di fatto valido una volta che il consiglio lo ha riapprovato tenendo conto delle modifiche richieste. E' uno stratagemma, questo, cui altri amministratori stanno ricorrendo. Nei giorni scorsi è partito il consueto monitoraggio aereo della Guardia di finanza lungo le coste della Sardegna. Dall'elicottero si riesce a vedere che cosa sta accadendo nei territori dei diversi comuni. I casi come quelli di Chia sono molti. «In Gallura _ ha rivelato nei giorni scorsi il delegato regionale del Wwf, Luca Pinna _ sta succedendo di tutto. Ci sono cantieri aperti anche nelle isolette di fronte alla Costa Smeralda. Stiamo chiedendo gli atti a i comuni per capire sulla base di quali supporti legislativi sono state erogate le concessioni. Se sarà necessario, ricorreremo alla magistratura».

Il via libera di Legambiente

Intanto, però, Fulco Pratesi, con una lettera a Soru, chiede un intervento immediato della Regione Sardegna. Finora, però, dal governatore e dall'assessore all'Ambiente, Tonino Dessì, nessuna risposta. Il Wwf, inoltre, polemizza con Legambiente: «Il presidente regionale di Legambiente, Vincenzo Tiana _ spiega Pinna _ prima non ha firmato il ricorsa al Tar e poi ha siglato un accordo con Domus de Maria per un progetto di protezione dei cordoni dunali e dei ginepri, senza tenere conto di quanto sta accadendo». Tiana replica: «Il ricorso al Tar è inutile, perché il Puc, prima di essere adottato, deve passare alla Regione, che può e deve intervenire. Per noi le volumetrie sono eccessive. Perciò abbiamo chiesto alla Regione di ridurle e di spostarle lontano dal mare». «Il fatto è - controbatte il Wwf _ che nelle lottizzazioni dove i cantieri erano aperti il danno è già enorme e solo il ricorso al Tar ha potuto bloccarlo».

Tor Pagnotta è la sorella sfortunata di Tor Marancia. Le due torri e i due comprensori che le circondano, infatti, sono abbastanza vicine nello spazio urbano: sono entrambe localizzate nel quadrante meridionale della città. Sono anche vicine nel tempo perché nascono con il piano regolatore del 1962. In un certo senso ne rappresentano l’aspetto più criticabile, poiché era prevista, lì come in tanti altri casi, la realizzazione di grandi comprensori di espansione ad altissima densità. Nell’uno e nell’altro caso era consentita la realizzazione di 4 milioni di metri cubi, e cioè quartieri di oltre 40 mila abitanti: secondo gli ideologi del nuovo piano regolatore romano su di esse esistono dunque “diritti acquisiti”. La seconda analogia tra le due torri sorelle è rappresentata dal fatto che entrambe vengono drasticamente ridotte all’inizio degli anni ‘80 dalle varianti urbanistiche circoscrizionali (verranno formalizzate solo dieci anni dopo nella redazione delle varianti ambientali). Le aree sono simili, infine, per la straordinaria qualità dell’agro romano che ancora conservano.

Le loro strade divergono per due motivi che, con l’aria che tira, hanno giocato un ruolo decisivo. Il primo motivo risiede nella proprietà. Questa, nel caso di Tor Marancia era rappresentata dalla vecchia proprietà agraria e da un gruppo di immobiliaristi di peso non eccelso. A Tor Pagnotta l’azionista di riferimento è Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore famoso con un potere immenso rappresentato da molteplici imprese che spaziano dal cemento alla carta stampata; suo è, tra gli altri, Il Messaggero, molto diffuso a Roma. In precedenza l’area era di proprietà dell’Iri.

Il secondo risiede nella vincolistica esistente nelle aree vicine. Come accennavamo, la loro qualità paesaggistica è sostanzialmente identica: due grandi comprensori (oltre 200 ettari il primo, la metà il secondo) di colline con ampie presenze di zone boscate e di corsi d’acqua. Ma nel caso di Tor Marancia ha avuto un peso decisivo l’adiacenza con il Parco dell’Appia Antica. L’argomentazione più efficace utilizzata dal mondo che ne ha chiesto la cancellazione (primo tra tutti Antonio Cederna) ha infatti equiparato il paesaggio dell’area a quello limitrofo già tutelato, dando modo alla Soprintendenza archeologica di Roma di estendere il vincolo.

Nel caso di Tor Pagnotta non esistono invece vincoli e l’area confina con il Grande raccordo anulare: la motivazione forte con cui si è inutilmente richiesta la cancellazione della previsione di piano si è basata sulla preservazione di un raro cuneo verde che si ferma su quella infrastruttura stradale. Inutile dire che gli orientamenti urbanistici di questa, come della precedente amministrazione, non ritengono prioritario contenere l’espansione della città.

Un ultimo grande “colpo di teatro” perpetrato per dare il via libera all’edificazione di 1.100.000 metri cubi riguarda infine l’accessibilità dell’area. Il comprensorio di Tor Pagnotta, infatti, è collegata alla città da un'unica infrastruttura stradale, la via Laurentina, strada che presenta già oggi gravi problemi di percorribilità. Così l’amministrazione comunale di Roma afferma solennemente che non sarebbe stato costruito un solo metro cubo se non fosse stata prevista la realizzazione di una line di collegamento pubblico su ferro.

Detto-fatto. Come nelle più belle favole è stata programmata una linea tranviaria che collegherà il nuovo quartiere (e il vicino Laurentino 38, grande ensemble pubblico) con l’Eur. Il colpo di genio sta nel fatto che dei previsti 30 milioni di euro stimati per la realizzazione della nuova linea di trasporto, 27 li paghiamo tutti noi poiché la spesa graverà sul capitolo di spesa di “Roma capitale”. Solo il restante 12 % verrà (generosamente) offerto dalla proprietà. Chi dice che l’urbanistica contrattata non funziona è un rottame del passato. Funziona splendidamente!

PS - Il via libera alla lottizzazione di Tor Pagnotta è stato dato dalla maggioranza capitolina unita come un solo uomo, con la lodevole eccezione del gruppo di Rifondazione comunista che ha coerentemente (e coraggiosamente) votato contro.

Gli scafisti della natura partono all´alba e arrivano di notte. Con i loro tir carichi di alberi - alberi vecchi anche mille anni - di muretti a secco, pietre calcaree, cespugli, pezzi di trulli, solcano le autostrade aggirando i controlli. Se non ci sono intoppi, consegnano in giornata. Smontano il paesaggio pugliese, lo frantumano, segnano i pezzi uno per uno, come un mosaico. Poi lo ricostruiscono. Migliaia di chilometri più a nord. Nelle ville della Brianza, nei parchi dei ricchi lombardi. Immaginate un trullo nelle campagne intorno a Milano. O un muretto a secco e cespugli di gariga nel giardino di un villone di Usmate. Tutto questo è possibile: basta pagare, bene, e i contrabbandieri del verde mettono le ruote alla natura millenaria. Spiantano ulivi germogliati nel medioevo.

Spogliano le Murge della loro pietra naturale; saccheggiano chilometri di costa pugliese, da Fasano a Castellaneta. Poi riempiono i camion e trasportano la loro mercanzia lontano. Una tratta bell´e buona. «La cosa più preoccupante - dice Elio Lanzillotti di Legambiente - è che il 60 per cento di questi alberi dopo due anni al Nord muoiono. Non reggono le temperature». I predoni della natura tirano fuori gli ulivi con gli escavatori. Sventrano il terreno rossastro con gli scalpelli. Al tramonto, oppure all´alba. Al riparo dagli sguardi delle guardie forestali. Sradicano la storia e la piantano da un´altra parte. C´è una normativa che proibisce di espiantarli gli ulivi, ma poi concede una serie di deroghe: si possono portare via gli alberi dove è prevista la realizzazione di una zona industriale, oppure se le piante possono provocare danni al resto dell´uliveto. Risultato: basta un permesso dell´Ispettorato provinciale all´agricoltura, ed è fatta. Tu dichiari che stai spiantando l´ulivo vecchio, magari perché malato, per ripiantare quello nuovo: e già che ne togli uno ne togli venti.

Il viaggio dei venditori di paesaggi chiavi in mano comincia da posti che si chiamano Egnazia, Fasano, Cisternino, Ostuni, Castellana Grotte. Qui gli ulivi sono sculture vegetali. Hanno rami contorti, i tronchi rugosi deformati dal vento mimano il trascinarsi dei vecchi contadini nelle piazze dei paesini dell´entroterra. A guardarli da vicino si capisce perché sul mercato li piazzano anche a ventimila euro. E perché i clienti, facoltosi del Nord, sono in aumento. Comprare ulivi secolari non è un reato. Però il loro commercio snatura il paesaggio pugliese, e anche quello dove vengono importati. Nella sua villa di Illasi, provincia di Verona, Don Luigi Verzè, il fondatore dell´ospedale San Raffaele, di ulivi secolari ne ha piantati decine (qualcuno è arrivato dalla tenuta di Albano Carrisi a Cellino San Marco). Anche nel giardino dell´ospedale. Ulivi storici arredano il parco di villa di San Martino, la residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore. Il premier, esperto di botanica e molto attento all´ambiente, ha voluto assicurarsi personalmente che la provenienza degli alberi fosse assolutamente "pulita". Ma altri non stanno tanto lì a guardare.

Per capire abbiamo seguito la tratta degli ulivi. Contattiamo Angelo, tramite un vivaista. Gli spieghiamo cosa vogliamo: un bel po´ di ulivi per farci, a Bergamo, un giardino mediterraneo. Ci porta in un angolo tranquillo di campagna pugliese, un pezzo di Murgia dove si sente solo il fischio del vento. Ci sono ulivi nodosi, file di muretti a secco e trulli, cespugli di gariga, di rosmarino, di lentisco. «Noi possiamo ricostruire questo paesaggio su da voi, tale e quale. Assicurato e con garanzia: se gli alberi seccano - dice - li cambiamo». Angelo è pronto a darci tutto. «Di ulivi ne vendo tantissimi. Tutti al Nord». Ne ha una decina pronti per la vendita, già spiantati e ripiantati in contenitori di plastica, radici e tutto. Indica un trullo già smontato: «Quello ve lo do a duemila euro. Insieme con tutte le pietre che volete». La scomparsa di trulli e muretti a secco è un altro fenomeno in crescita. Vengono rasi al suolo, e le pietre messe in vendita al miglior offerente. Per adornare le ville del Nord. Il tutto a rischio basso. Alla fine del giro chiediamo a Angelo un preventivo. Portare via un pezzo di Puglia costa 150mila euro. La cifra comprende: venti ulivi a quattromila euro l´uno; il trasporto; una settimana di manodopera per tre giardinieri che verranno a Bergamo a piantarli; trenta massi che fanno «effetto Murgia» (35mila); cinque casse di pietre da giardino; diecimila euro per il trullo, dieci melograni, un carrubo... «In regalo - chiosa Angelo - vi do un pero selvatico».

“Là dove c’era l’erba, ora c’è una città”, cantava nostalgico Celentano negli anni Sessanta. Sembrava già un’apocalisse allora, ma adesso credo nessuno si stupirebbe più di tanto, ascoltando versi che suonano più o meno: “Là dove c’era l’erba, ora c’è una schifezza”.

Perché una città (come cantava il socio Gaber) è anche bella, grande, viva, allegra, piena di case e di negozi, con tanta gente che lavora ecc. Una schifezza invece è solo una schifezza, e può essere al massimo “grande”, e “con tanta gente”. In fondo lo sappiamo anche quando stiamo a guardare, abbastanza entusiasti, le accattivanti prospettive dell’ultimo arrivato nella sterminata famiglia dei centri poli-super-mega-funzionali-integrati. Verde, superfici lisce e tonde, colori pastello, atmosfera che suggerisce flusso, ma anche pace e tranquillità fra i piazzali dei parcheggi e le zone di sosta ai piedi di qualche luccicante curtain-wall ingentilita da un portico neoqualcosa. Poi iniziano i lavori, o movimenti terra, il cantiere, mesi di fango, strade sbarrate, lamiere ondulate, e alla fine l’inaugurazione, con o senza cabarettista, comico, starlet nazionalpopputa sgambettante.

E puntuale, sgombrati i bicchieri di carta e i consiglieri d’amministrazione festeggianti appare lei, la Schifezza: ettari di parcheggio che sembrano progettati dallo stratega di Little Big Horn in quanto a vie di fuga, e lontani all’orizzonte i luccicanti padiglioni che invitano (sono pensati apposta) a fuggire all’interno, dove la Schifezza non si vede più. Questa roba la chiamano città, e ci aggiungono sempre “di” qualcosa: città della moda, città degli affari, cittadella degli spacci. Ma è sempre la solita solfa: uno svincolo, un parcheggio, uno spazio costruito completamente rivolto all’interno. Altro che città.


La zona dell'Outlet con gli svincoli ai margini del Parco Ticino Lo stato di fatto di Gallarate Sud lungo la superstrada dell'Aeroporto

Tutta questa lamentela, per finire alla non-notizia: ci stanno per propinare l’ennesimo factory outlet, stavolta collocato nel bel mezzo di Malpensa, ovvero del polo di attrazione che campeggia negli studi sul bacino di utenza di tutti gli altri. La cosa curiosa (se qualcuno ha delle curiosità in proposito) è che a quanto pare si tratta di struttura non commerciale, o che almeno dovrebbe essere a mille miglia dalla tipologia della grande distribuzione, inserita nel cosiddetto Business Park di Gallarate, una delle grandi strutture di complemento allo sviluppo territoriale previsto dal Piano d’Area Malpensa. E “grande” è dir poco, visto che l’idea parte robustamente a fine anni ’80 con qualche milione (avete letto giusto) di metri cubi, che si riducono via via a centinaia di migliaia negli anni, mentre cambiano e/o si precisano le funzioni.

L’area sta ai confini meridionali del comune di Gallarate, confini che segnano anche insieme l’inizio dell’area compatta di urbanizzazione Bu-Ca-Le (Busto Arsizio, Castellanza, Legnano), e quella del Parco Ticino. Dal punto di vista infrastrutturale la zona si caratterizza per la “V” definita dalla Statale 33 del Sempione in entrata a Gallarate, dalla superstrada 336 che connette l’Autolaghi all’HUB, e dallo svincolo Busto Nord che le collega tra loro e alla viabilità locale.

Non vale la pena ripercorrere qui la cronologia del Business Park, per cui si rinvia ai documentati articoli della stampa locale. Vale la pena invece di sottolineare come le due paroline magiche, Factory Outlet, non diano alcun risultato se digitate sul sito dello stesso periodico online. Segno che, forse, questa dell’outlet è una pensata recente per tentare di indorare la supposta. È vero, ahimè, che il trucco spesso funziona, visto che proprio a Serravalle si è inaugurata la serie italiana di questa tipologia commerciale piazzando un villaggio della moda là dove non poteva starci un centro commerciale tradizionale. Il tutto, guarnito dalle pur abituali sottolineature di come si tratti di insediamento ad alta qualità (quale? l’arredamento?), che non fa concorrenza alle botteghe del centro (altro errore), e che arricchisce l’offerta turistica del territorio.

Come ci informa il sito del promotore, la Insviluppo, “La previsione è di realizzare 20.800 mq. di negozi destinati soprattutto alla Moda, insieme a Bar, ristoranti e spazi per l’intrattenimento”. I bacini di utenza potenziale, sull’isocrona dell’ora e dei novanta minuti, coprono i soliti, sterminati territori di caccia al cliente. Altrettanto solito, il fatto di ignorare (a meno che il sito non sia piuttosti vecchio) come oltre a Serravalle esistano anche almeno Vicolungo, Franciacorta, Fidenza che hanno marcato territori di caccia sovrapposti. Sempre nel sito, consiglio di farsi un giro nell’efficace Virtual Tour, tanto per confermare (o smentire, se credete) quanto detto sopra sul rapporto fra progetti e realtà tangibile.


La superstrada di fianco all'HUB La statale del Sempione a Gallarate I terreni per l'Outlet, ora

All’osservatore minimamente scafato (come immodestamente pretendo di essere), basta però un’occhiata al cosiddetto Master Plan per confermare le aspettative: un nucleo centrale, allungato parallelamente al percorso della superstrada, e completamente circondato dai piazzali dei parcheggi. Ovvero, niente più e niente meno, innovazioni merceologiche a parte, della struttura spaziale dello shopping mall, così come infesta valli e pianure da un paio di generazioni. Non so se l’outlet e la città degli affari che gli sta attorno si faranno (c’è opposizione, pare pure ovvio), ma per l’ennesima volta sembra perso l’autobus del ricondurre almeno sul versante dell’organizzazione spaziale queste strutture a qualcosa di meno rozzo. Perché possiamo anche tralasciare, come non vanno tralasciati, il Parco Ticino, l’inquinamento da traffico, la saldatura della conurbazione, l’impermeabilizzazione dei suoli, lo stravolgimento della viabilità locale, la realizzazione di una “muraglia” a rafforzare la cesura della superstrada. Anche scordandosi tutto questo, resta la miseria spaziale dei cosiddetti mixed use assai poco misti, delle cittadelle che non sono città vive, ma somma sterile di ambienti chiusi e terre di nessuno. Provate a passeggiare, per esempio di Natale pomeriggio, dentro a una di queste cittadelle, e avrete la vera sensazione del genius loci. Provate.

Nota: come accennato nel testo, è disponibile un'ottima serie di articoli sul Malpensa Business Park, al sito di Varese News online; le informazioni dei promotori e il suggestivo Virtual Tour stanno al sito della Insviluppo; per il senso generale della pianificazione per lo sviluppo del bacino intercomunale di Malpensa, c'è un bell'articolo di Roberto Busi e Giovanna Fossa su Area Vasta 6/7 2003 (fb)

L’occasione del Consiglio comunale aperto che a Milano, su richiesta dell’opposizione, il prossimo 19 luglio discuterà in via preventiva il PII sulle aree dell’ex Fiera di Milano, presentato da Fondazione Fiera per conto del suo promissario acquirente, la cordata CityLife (Progestim/Ligresti, Generali, RAS, l’immobiliare romana Lamaro/Famiglia Toti e la spagnola LAR) mi induce a raccogliere il tuo invito di qualche tempo fa a documentare e riflettere sugli effetti della "programmazione negoziata" in alcune situazioni concrete.

Il Comune di Milano nel giugno del 2000, quando era assessore all’urbanistica Maurizio Lupi, si è dotato di un Documento di Inquadramento urbanistico (DIU), strumento previsto da una legge regionale n. 9/1999 per l’indirizzo dei criteri di approvazione dei PII (Programmi Integrati di Intervento) e dei PRU (Programmi di Riqualificazione Urbana), sulla base di uno studio redatto dal prof. Luigi Mazza del Politecnico di Milano.

Il DIU indicava alcuni criteri localizzativi molto "capienti" (lo schema della cosiddetta T rovesciata, vale a dire le direttrici di nord-ovest/sud est dall’asse Sempione/aeroporto Malpensa a Linate aeroporto/Rogoredo e la perpendicolare a nord-est verso Sesto/Agrate/ aeroporto Orio al serio) ed alcuni criteri di quantificazione edificatoria (It = 0,65 mq/mq) e funzionale (40% di edilizia residenziale convenzionata).

In conformità a tali criteri, come ho detto, di per sé già molto capienti, il Comune era in grado cioè di legittimare quasi tutte le operazioni di trasformazione immobiliare di aree dismesse in gestazione da tempo.

Vi era in quel Documento un’unica indicazione che non rientrava nel "carrello della spesa" già confezionato dalle trattative in sospeso, accumulatesi nel corso degli anni precedenti: e, cioè, a partire da "’l’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori che l’offerta esistente a Milano di spazi per uffici e servizi sia inadeguata alle richieste del mercato (che) nelle maggiori città europee è rivolta a superfici monopiano di grande dimensione, con luce diretta e ben dotate di tutti gli impianti necessari per la comunicazione trasmissione(…); (che) Milano sembra per ora esclusa da questo processo anche perché incapace di intercettare e trattenere gli investitori internazionali, (che) per dare un nuovo impulso a questo settore del mercato sia necessario il lancio di una nuova area, capace per caratteristiche funzionali e simboliche di reggere la competizione con le tradizionali aree centrali, (abbandonando) la tradizione milanese di evitare scelte selettive troppo forti, (con) il rischio di non disporre della dimensione di investimenti, di progettualità e di capacità promozionali in misura sufficiente per raggiungere la massa critica necessaria al decollo di un’area così attraente e visibile da attirare investimenti dall’esterno" si formulava l’ipotesi, per le nuove tipologie di terziario avanzato, "di scegliere una sola area e di concentrare su di essa sforzi progettuali e investimenti (con) l’utilità di far emergere alcuni nodi essenziali delle politiche degli usi del suolo e dei trasporti che riguardano la regione milanese: un’unica navetta su ferro che unisca Malpensa a Linate via Passante e Vittoria con la prospettiva nel tempo di giungere ad Orio al Serio (…)e l’opportunità di scegliere in qualunque momento l’aeroporto più conveniente, sempre con lo stesso mezzo e dovendo solo cambiare direzione. (…) sulla stessa linea dovrebbe essere collocata una stazione dell’alta velocità – l’ottimo sarebbe che stazione dell’alta velocità e stazione della nuova area direzionale coincidessero. Inoltre l’area dovrebbe essere direttamente collegata al sistema delle tangenziali autostradali. (…)"."La dimensione dell’area deve essere tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi, ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive: Bisognerebbe evitare un’area esclusivamente direzionale, sarebbe quindi necessaria una superficie sufficientemente ampia per permettere lo sviluppo degli uffici e l’insediamento anche di altre funzioni, compresa quella residenziale, in un contesto di particolare qualità ambientale. Il progetto dovrebbe diventare la prova della possibilità di costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto. Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…"" [1].

Con le opportune verifiche e cautele è una prospettiva che ha una sua attendibile credibilità: per chi non ne avesse ancora riconosciuto la fotografia, si tratta delle aree attigue al nuovo polo fieristico di Rho-Pero (con progetto di Fuksas, scelto dal general contractor Astaldi), e le proprietà hanno i nomi di Cam (gruppo Pirelli), Cabassi e (per le funzioni integrative concesse) Fiera/Compagnia delle Opere. Tuttavia è l’unica indicazione che non ha avuto alcun seguito (se si escludono, in parte, le destinazioni alberghiere all’interno dell’area della nuova Fiera): evidentemente il mercato non è in grado di affrontare anche queste realizzazioni, senza mettere in crisi l’attuazione delle trattative già concluse in precedenza.

Sono, quindi, stati approvati, "allargandoli" anche ad alcune occasioni contermini forse non del tutto coerenti con lo schema della T rovesciata, diversi PRU disposti a raggiera nelle aree semicentrali: ex OM in viale Toscana, ex FINA in via Palizzi, ex Marelli in via Adriano, ex Montedison a Rogoredo (nobilitato con il nome più accattivante di Santa Giulia e con la "alta supervisione" di sir Norman Foster).

Si può discutere molto della coerenza con una reale visione strategica dei servizi generali che sono stati di volta in volta contrattati in questi interventi (ad esempio: perché un Centro Congressi per 8.000 posti a Rogoredo, dove non vi è alcuna struttura di trasporto pubblico di alta capacità ?) e del rapporto fra aree in trasformazione e struttura insediativa dell’intorno, ma quella scelta ha almeno il pregio di garantire che i nuovi insediamenti siano dotati della quantità di spazi pubblici e servizi proporzionati al loro peso insediativo.

Vi sono però due casi che fanno ampia eccezione a questa pur labile logica di indirizzo: l’area dell’ex Fiera di Milano, in corso di dismissione dopo il trasferimento della nuova Fiera nell’area dell’ex raffineria di Rho-Pero, e quella del Centro Direzionale (incompiuto dagli anni Cinquanta), oggi ribattezzato Garibaldi/Repubblica. Su queste due aree sono state approvate delle Varianti al PRG, mediante Accordi di Programma, che consentono densità edilizie quasi doppie (ex Fiera It= 1,15 mq/mq) e triple (Garibaldi/Repubblica It=1,60 mq/mq) di quelle previste dal DIU, senza alcuna previsione di edilizia convenzionata né adeguamento delle dotazioni di spazi pubblici alle maggiori quantità edificatorie consentite.

Se chiedete ragione delle scelte operate dai piani di intervento su queste due aree al responsabile comunale dell’istruttoria dei PRU, arch. Oggioni, o al consulente del Comune per il Documento di Inquadramento urbanistico, prof. Luigi Mazza, come mi è capitato di fare recentemente in pubblici dibattiti, essi declinano ogni responsabilità al riguardo, allargano le braccia sconsolati e rispondono che sono il frutto di decisioni di pura opportunità politica, sancite dagli AdP al di fuori qualunque criterio di razionalità urbanistica.

Da parte sua, l’attuale assessore all’urbanistica Giovanni Verga, in recenti convegni pubblici, ha giustificato tali scelte col fatto che nel caso Garibaldi/Repubblica ciò consente la realizzazione del grattacielo per i nuovi uffici della Regione (progetto Pei/Cobb), del palazzo (privato) della Moda (progetto Cesar Pelli), già riciclato in palazzo delle Idee, per il sostanziale disinteresse dei maggiori stilisti, e con lo scambio tra la privatizzazione del grattacielo degli Uffici Tecnici comunali e la realizzazione a costo zero di un nuovo grattacielo dove ricollocare tali uffici, e che l’indice edificatorio era quello necessario a finanziare il costo di quelle operazioni. E’ facile, ovviamente, obiettare che in realtà la somma non è affatto a costo zero, perché, con la triplicazione del volume, il costo lo pagherà la peggiorata condizione insediativa ed ambientale degli abitanti del quartiere.

Nel caso dell’ex Fiera la giustificazione è stata quella della necessità del finanziamento del nuovo quartiere fieristico e del ruolo che Fiera ha nell’economia del Paese. Ciò è stato reso possibile dall’introduzione fatta dalla L.R. 9/99 dell’ambiguo concetto di "standard qualitativo"(in pratica meno aree pubbliche, ma opere pubbliche più fantasmagoricamente rutilanti e costose: palazzi della moda, musei del design, centri congressi e chi più ne ha più ne metta) e monetizzazioni (che oggi non sono più garantite debbano tornare ad impiegarsi in aree od opere pubbliche), che consentono di approvare qualunque progetto che a Sindaco, Giunta e maggioranza consiliare del momento paia convincente, indipendentemente dalle dotazioni di aree pubbliche previste. Anzi, sempre più spesso, l’effetto di "scoop" dell’immagine di queste opere pubbliche affidate all’indiscutibilità della fama mediatica dei grandi nomi dello stilismo architettonico viene usata da amministratori in vena di cavalcare una sempre più pervasiva politica-spettacolo per giustificare la necessità di volumetrie adeguate a sostenerne il loro costo, tanto da indurre a riflettere se non sia giunto il momento di chiedere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica.

Ci si potrebbe chiedere, a ragione, quando mai verranno realizzate le aree pubbliche previste dal Piano Regolatore se, quando se ne approvano gli strumenti attuativi – sia pure in Variante, come sono i PII – le aree vengono a piacere convertite in opere o monetizzate ed usate in spese correnti. La domanda ha una risposta nel corollario della ricorrente lamentazione sulla scarsità di risorse per finanziare l’esproprio di aree pubbliche e la conseguente indicazione della necessità di introdurre una versione spuria della "perequazione volumetrica", che consiste nell’attribuire indici volumetrici virtuali a queste aree, in realtà, veri e propri premi aggiuntivi alla rendita che stravolgono le previsioni insediative e comportano esiti delle pratiche d’uso dei suoli imprevedibili nei loro effetti finali.

In ogni modo, prima ancora che i contenuti della Variante per l’area dell’ex Fiera fossero comunicati alla Giunta e al Consiglio comunale, Fiera ha pubblicato sulla stampa economico-finanziaria un invito agli aspiranti acquirenti a presentare progetti per attuare quelle previsioni, indicando come criterio di scelta quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa[2]. Già allora obiettai che non era chiaro se con ciò si dovesse intendere quella più vantaggiosa complessivamente (cioè, remunerazione della rendita fondiaria al proprietario dell’area + valore dei servizi pubblici proposti) o più vantaggiosa per il solo proprietario dell’area. Fiera indirettamente ha risposto alla fondatezza di questa obiezione modificando in corso di svolgimento il proprio bando di offerta di vendita, che prevedeva inizialmente una valutazione preventiva del prezzo di acquisto offerto, e comunicando che, invece, avrebbe selezionato un gruppo di progetti ritenuti accettabili, procedendo poi all’apertura delle offerte economiche e scegliendo quella di maggior importo. Anche così, tuttavia,non viene perseguito un criterio di maggior vantaggio complessivo.

Fiera avrebbe potuto, invece, scegliere un criterio che privilegiasse il vantaggio complessivo, se, ferma restando la base d’asta ritenuta necessaria alle esigenze finanziarie indotte dalla realizzazione del polo esterno e alla stima di valore dell’area, avesse deciso di impostare la gara su un criterio di ribasso delle volumetrie progettate rispetto a quelle massime contrattate. Fiera non ha mai reso noto ufficialmente quale fosse la base d’asta richiesta agli aspiranti acquirenti, anche se indiscrezioni la indicano attorno ai 250 milioni di Euro.

Tra i progetti presentati il Consiglio di Amministrazione di Fiera ne ha selezionati cinque, scegliendo infine quello che le garantiva la più alta remunerazione, cioè 523 milioni di Euro. Se è vero che la base d’asta era di 250 milioni, se ne deduce che ferma restando questa e riducendo proporzionalmente la volumetria, se ne sarebbe potuto realizzare meno della metà di quella assentita. Ma anche se vogliamo stare a dati più accertabili, cioè l’offerta più bassa tra quelle selezionate da Fiera pari a 378 milioni, il criterio della riduzione proporzionale dei volumi porterebbe ad un indice di 0,83 mq/mq e a una volumetria complessiva di 635.000 mc, che con la prevista cessione del 50% dell’area consentirebbe di soddisfare entro l’area almeno le dotazioni pubbliche locali di 26,5 mq/ab prescritte dalla legge urbanistica regionale. Ma così Fiera non ha voluto fare, trasformando l’abnorme densità edilizia che grava sull’area e sul quartiere (1,15 mq/mq di densità territoriale e più di 8 mc/mq di densità fondiaria !) interamente in surplus di rendita immobiliare. A quali finalità, scopi ed obiettivi esso sarà destinato non è dato sapere. Una quantità edificatoria così elevata su un’area così ristretta non può realizzarsi che con edifici molto alti e ravvicinati. Tanto ravvicinati che quasi tutti i progetti hanno dovuto utilizzare l’area pubblica inframmezzandola agli edifici privati per distanziarli almeno un po’.

Così fa anche il progetto CityLife (Ligresti, Generali, RAS, Lamaro e la spagnola LAR) che è quello prescelto da Fiera, che prevede tre torri di 220, 180 e 150 metri di altezza (progetti di Isozaki, Hadid e Libeskind) e una corona di edifici che vanno dai 50 ai 90 metri (da 14 a 23 piani, per lo più progettati dal quasi sconosciuto studio torinese di Pierpaolo Maggiora), che prospettano direttamente sugli edifici circostanti alti al massimo 8-10 piani.

D’altra parte, come si è detto, il Comune non aveva preventivamente indicato alcun obiettivo progettuale di interesse pubblico a Fiera, né – quindi – questa agli aspiranti acquirenti e ai loro progettisti. Eppure il problema urbanistico del quartiere Fiera era noto da tempo alla miglior cultura urbanistica milanese: la Fiera di Milano, si insediò nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione. Essa ha, quindi, storicamente rappresentato un problema urbanistico irrisolto per la direttrice nord-ovest della città, provocando inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano. Nel tempo numerosi studi e progetti cercarono di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponevano l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 con il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 con il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 con il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 con i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera. Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile persino nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico del 2000.

Tuttavia ciò che non è stato fatto in sede di Variante può e deve essere fatto dal Comune in sede di esame del progetto di Piano di Intervento presentato da Fiera per conto del suo promissario acquirente. Occorre, innanzitutto, che il volume consentito venga riportato a quello previsto per tutti gli altri PII del Documento di Inquadramento Urbanistico (0,65 mq/mq), come avrebbe dovuto essere se non si fosse utilizzata illegittimamente la scappatoia dell’Accordo di Programma.

Inoltre, è necessario che il verde pubblico non venga utilizzato per distanziare gli edifici privati (lasciandolo oltre a tutto al buio delle loro ombre per gran parte dell’anno), ma venga mantenuto compatto (ciò che ne migliora la valenza in termini di vitalità della vegetazione ed effetti di termoregolazione dell’ambiente), funzionalizzandolo anche a schermare il nuovo insediamento dagli edifici circostanti. Ciò è tecnicamente possibile addirittura con le stesse volumetrie previste dalla Variante, come dimostra il progetto di Renzo Piano per Pirelli RE, selezionato e non scelto da Fiera solo per minor la minor remunerazione offertale, grazie al fatto che concentra le destinazioni terziarie in un’unica piastra e le residenze in un’unica torre.

Se si chiede all’Amministrazione comunale, quale che sia l’acquirente prescelto da Fiera, di impostare il confronto a partire dalla richiesta di una simile impostazione progettuale, Fiera replica che non può perché quella soluzione appartiene ad un aspirante acquirente (che l’ha fatta elaborare, assumendosene i costi), con il quale non ha sottoscritto il compromesso di vendita dell’area. E così si scopre che, in questa frenesia di privatismo, nemmeno le idee sono più di libera disponibilità, come accadeva nella pianificazione promossa dall’Ente pubblico: esse appartengono a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono liberi di discutere solo le impostazioni progettuali dell’acquirente con cui il proprietario dell’area ha stretto un contratto.

E’ comprensibile e legittimo che Fiera tuteli prioritariamente i suoi interessi economici; ciò che non è comprensibile né legittimo è che il Comune subordini il proprio ruolo a quegli interessi anziché tutelare prioritariamente gli interessi della città e dell’ambiente. Sinora a questo ruolo ha surrogato l’azione spontanea dei cittadini del quartiere: quando vedremo fare il proprio dovere da parte dei nostri amministratori pubblici?. Il primo passo spetta al Consiglio comunale, che sinora si é occupato solo marginalmente della questione e solo per ratificare decisioni già prese in ambiti decisionali molto ristretti, dove non sono tenute in alcun conto le ragioni degli interessi collettivi dell’ambito urbano e dei cittadini, impegnando la Giunta a non presentare all’approvazione il PII proposto da Fiera per il vecchio recinto prima che tutti gli aspetti critici sopra illustrati siano compiutamente discussi e risolti.

Sono trascorsi oltre trent'anni da quando Antonio Cederna denunciò, dalle colonne del Corriere della Sera, l'inutilità del tracciato autostradale che avrebbe dovuto collegare Trento a Vicenza e Rovigo. Un tracciato voluto dai grandi democristiani dell'epoca, un'autostrada denominata A31, che, per l'opinione pubblica, divenne Pi.Ru.Bi, ovvero l'autostrada di Piccoli (Trento), Rumor (Vicenza), Bisaglia (Rovigo). L'infrastruttura, grazie alle campagne giornalistiche e all'aperta opposizione delle maggiori associazioni ambientaliste, in particolare Wwf ed Italia Nostra, che la definirono: «l'autostrada meno utile d'Italia» e «mostro ecologico», venne realizzata per un breve tratto di neppure 40 km, tra Vicenza e Piovene-Rocchetta, all'imbocco della Val d'Astico.

Il fantasma d'asfalto

Negli ultimi anni se n'è tornato a parlare e questo fantasma d'asfalto, inesistente per la pianificazione fino alla metà degli anni Novanta, aveva assunto una consistenza sempre maggiore, un coltello brandito, pronto a colpire in ambiti di grande sensibilità ambientale, a polverizzare gli elementi armonici di un paesaggio storico costruito dalla prima centuriazione romana ed esploso in quella dimensione di bellezza unica che è il contesto delle ville palladiane. Il coltello della Pi.Ru.Bi taglierà il territorio, spalmando un po' ovunque la marmellata del traffico e dell'urbanizzazione, in un ambito regionale che, dal 1961 ad oggi, ha visto cambiamenti nelle destinazioni agricole quali mai si erano verificati in 2.000 anni di attenta agricoltura. Il tessuto ambientale del basso veneto è stato stravolto, nel solo 2001, da capannoni che, messi in fila, andrebbero ben oltre il tracciato dell'autostrada già in esercizio, una linea di 42 km, una superficie di 2.450.000 metri quadrati.

La novena per la riproposta della A31 comincia nel 1995, quando viene presentato un nuovo progetto, venduto come il solo, vero catalizzatore per lo sviluppo del sud del Veneto. Molti traffici attorno al progetto, con l'entusiasmo e l'adesione della giunta regionale Galan di centro-destra. La risorta autostrada della Valdastico sembra poter sfidare ogni attento esame urbanistico, storico e ambientale, ma ecco la pioggia fredda per i sostenitori dell'infrastruttura (industriali veneti, giunta Galan e Società per l'Autostrada Brescia-Padova): il ministero dell'ambiente ed il ministero dei beni culturali, nel 2001, esprimono parere negativo.

Nel 2002 il progetto viene leggermente modificato, non nella sostanza del tracciato ed ecco subito scattare il parere positivo da parte del ministero dell'ambiente, mentre il ministero dei beni culturali ribadisce il proprio dissenso.

Nel 2003 Berlusconi approva il progetto con un decreto, onde superare la discordia e il contrasto tra i due ministeri.

Le associazioni ambientaliste, i comitati locali per la difesa del territorio, sostenuti, come negli anni Settanta, da Wwf ed Italia Nostra (ma anche da Our Europe e dall'inglese Landmark Trust) fanno ricorso contro un'infrastruttura non prevista dalla pianificazione, una vera forzatura nel disegno della rete di collegamenti tra le Alpi e la pianura, venduta come completamento di un tratto autostradale esistente. La realtà è ben diversa: il tratto esistente, tra Vicenza e Piovene-Rocchetta è di soli 38 chilometri, mentre il tracciato nel suo insieme ne misura 128. Si tratterebbe di realizzare i 90 chilometri mancanti e non mi sembra proprio che si possa parlare di semplice completamento.

I danni ambientali sarebbero irreversibili, in particolare nel tratto della bassa vicentina, mentre nel tratto trentino si sommerebbero problematiche ambientali con problematiche apparentemente irrisolvibili del traffico pesante.

In questo contesto, ambientalisti e comitati civici del Basso Vicentino e del Trentino si sono trovati a Venezia nell'auditorium dell'università di Ca' Foscari a Venezia, in Campo Santa Margherita, per definire gli impatti significativi dell'infrastruttura.

Nel tratto vicentino l'autostrada lambirebbe 9 ville venete, distruggerebbe intere aree agricole e traccerebbe un solco tra gli ambiti naturali dei Colli Berici e dei Colli Euganei, cancellando il sistema ecotonale che connette le due aree naturali, fino ad ora non ancora frammentate, che mantengono un disegno di landscape ecology sublime, nel suo intrecciarsi con l'oculata presenza umana delle ville del XVI- XVIII secolo. Se si vuole capire l'ecologia del paesaggio, esaltarsi nei meccanismi della percezione biosemiotica, se si vuole coltivare il proprio ecofield, il proprio ambiente soggettivo o Umwelt, si deve passeggiare tra i Berici e gli Euganei. Potete anche usare un manualetto per fare questo, il bel libro di Almo Farina «Verso una scienza del paesaggio», pubblicato lo scorso anno dall'editore bolognese Alberto Perdisa. Se volete poi capire cosa succederebbe se la A31 passasse a cuneo tra i Berici e gli Euganei dovete leggervi un testo che, se richiesto, la provincia di Roma vi invia a casa gratis, un testo che consiglio a tutti per intendere le problematiche ambientali di questo scontro titanico tra uomo e natura, a danno in particolare della fauna selvatica, il lavoro di Corrado Battisti: «Frammentazione ambientale, connettività e reti ecologiche».

I comitati hanno studiato a fondo la valutazione di impatto ambientale presentata dal proponente, la Società che gestisce il tratto autostradale da Brescia a Padova, rilevando lacune ed errori, sia procedurali che metodologici: il tracciato autostradale non viene considerato nella sua interezza, non vengono correttamente posizionate le aree di cava dalle quali si estrarranno i materiali lapidei per la costruzione, in una situazione di sfruttamento del bacino che già si colloca al limite della sostenibilità, non esiste un'adeguata valutazione di alcuni strumenti della pianificazione, dal Piano di Sviluppo Rurale al Piano di Sviluppo Regionale, non c'è un'analisi di landscape ecology per un territorio che è significativamente segnato da un formidabile paesaggio culturale ben armonizzato con resti di vegetazione e culture agrarie.

Gelsi e salici addio

L'ambiente attraversato dalla A31 è un'enciclopedia di eventi speciali, dalle opere idrauliche al paesaggio culturale, ha sostenuto lo studioso inglese Richard Haslam. Come è possibile inserirvi i caselli? Come potrà, questo ambiente, fare a meno di gelsi e di salici? Le ville venete esistono dal 1512 (a Vicenza tempo fa c'è stata una mostra), come si può consentire che un'autostrada distrugga questa cultura? Si predica il restauro conservativo per il paesaggio culturale e lo si va invece a colpire a morte con un'infrastruttura inutile. Non è sufficiente infatti, come sostiene il prof. Foscari, difendere le ville venete limitandosi ai confini dei giardini. « Il faut cultiver notre jardin», diceva Voltaire.

Il presidente della sezione di Italia Nostra di Medio e Basso Vicentino ha rilevato come faccia una certa impressione che su questi temi domini il silenzio degli intellettuali, un silenzio forse barattato con la classe politica, un silenzio-assenso che pone gli intellettuali in una condizione di sudditanza del potere. Il che succede alle volte anche all'interno dell'Università, ha sostenuto il rettore di Ca' Foscari, Pier Francesco Ghetti.

Non tutti gli intellettuali tacciono però. Emanuele Curzel, uno storico del Medioevo attento ai particolari, all'informazione e al ruolo della stampa del suo Trentino, ha ricordato come non sia corretto sostenere che la Valdastico sarebbe la soluzione per il problema del traffico in Valsugana, valle particolarmente segnata dalla circolazione automobilistica e dal traffico pesante delle merci. Nel 1995, quando si rilanciò la A31, si stimava che la Pi.Ru.Bi avrebbe risolto parte del traffico della Valsugana. Come può essere possibile, se il suo contributo di alleggerimento sarebbe solo di 2-3.000 veicoli/giorno su di un totale, in Valsugana, di 13-15.000? Post hoc ergo propter hoc. Come può essere che la A31 risolva i problemi della Valsugana, dal momento che questa resterebbe una camera a gas per via del traffico pesante?

Nel 2000 si aggiustano i conti e si dice che la A31 sottrarrà 25.000 veicoli alla Valsugana. Lo studio si dice prodotto dalla Ata di Arco di Trento, o almeno così sostengono i giornali, ma poi si scopre che la provincia autonoma di Trento non ha mai commissionato questo studio alla Ata engeneering.

Uno studio vero è invece quello che, nel 2002, la provincia di Trento commissiona alla Tps di Perugia, uno studio che focalizza il flusso di traffico in veicoli equivalenti (un veicolo pesante eguale a 2,5 veicoli leggeri): a Divezzano, vicino a Trento, senza la A31 ci sarebbero 44.000 veicoli, con la A31 i veicoli equivalenti sarebbero 8-10.000 in meno.

Riparte il ritornello: la Pi.Ru.Bi salva la Valsugana.

La banda riparte con la stessa musica nell'ottobre 2004, quando anche la giunta di centro-sinistra della provincia autonoma di Trento scende in campo in appoggio alla A31, sparandola grossa. L'assessore Grisenti dichiara che la Valdastico toglierà dalla Valsugana circa 8.000 veicoli pesanti. Purtroppo si tratta di veicoli-equivalenti, non pesanti. La provincia si dice anche disposta a finanziare in parte la A31, sostenendo che un tale impegno segna l'attenzione dell'amministrazione provinciale per la Valsugana. Gli amministratori della provincia di Trento sembrano inoltre dimenticare alcune cose: che la Convenzione delle Alpi non prevede più infrastrutture stradali, anche se si insiste sul fatto che la realizzazione della A31 sarebbe un completamento e che la provincia di Bolzano è contraria alla ripresa del tracciato della Valdastico per l'insostenibilità della pressione del traffico nelle valli dell'Adige, dell'Isarco e dell'Inn. La provincia di Trento dovrebbe anche valutare cosa ne sarebbe della tangenziale di Trento, nel caso in cui vi sfociasse anche la Valdastico.

I risparmi di Lunardi

Erasmo Venosi ha avuto modo di approfondire il modello finanziario e contrattuale per la realizzazione delle opere pubbliche e ne parla mettendo tutti in guardia: il committente pubblico si spoglia della propria funzione e la delega al general contractor. Lunardi dice che così si abbassano i costi, ma come è possibile se i costi della Tav tra Torino e Milano sono cresciuti del 650%?

Sull'altro fronte, Bersani dice che la legge obbiettivo è un flop e che il centrosinistra, se andrà al potere, varerà ancora più opere pubbliche del centrodestra. Al momento dominano Infrastrutture spa e Patrimonio spa, finanziatori dell'Alta velocità e del ponte sullo stretto di Messina al 60%. Questa finanza di progetto che Venosi chiama «alle vongole» produrrà buchi enormi a causa di una falsa impostazione privatistica. Restano anche seri dubbi sulla possibilità che la gente riesca ad intascare qualcosa dagli espropri e dagli indennizzi. Insomma, tutte queste opere, compresa la A31, non servono ad altro che a mettere in moto un vero mulinello di soldi, lasciando le perdite alle future generazioni.

Considerata quindi dal punto di vista dei trasporti e del traffico, dal punto di vista storico-ambientale e da quello economico, questo tentativo di resurrezione macabra della Pi.Ru.Bi sembra la riedizione di una vecchia commedia di spettri.

Finalmente, il 31 maggio di quest'anno la svolta: con una sentenza del Tar Veneto che gli ambientalisti definiscono storica, vengono accolti i ricorsi delle associazioni ecologiste e dei comitati territoriali e il progetto di resuscitare la Pi.Ru.Bi è bocciato. E speriamo che non se ne parli più.

01 Luglio 2005: Via libera dal TAR al progetto

Da TorinoCronaca del 1 luglio 2005, un articolo di Claudio Neve:

IVREA - Millenium Canavese si farà. Il grande parco divertimenti, destinato a rivaleggiare con Gardaland e Mirabilandia, sorgerà nella piana di Albiano d’Ivrea, proprio come progettato da Mediapolis, la società che da anni porta avanti l’investimento.

Il via libera è arrivato ieri dal Tar, il tribunale amministrativo regionale, che ha respinto il ricorso presentato un anno fa dalle associazioni ambientaliste Legambiente, Italia Nostra e WWF, guidate dal Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano) che della battaglia contro il colosso del divertimento ha fatto una delle proprie bandiere. Gli ambientalisti, infatti, si oppongono al progetto sostenendo che Millenium (questo per ora il nome del futuro parco) «presenta un alto rischio idrogeologico che la struttura porterebbe una volta costruita» e che «avrà un catastrofico impatto ambientale» su un paesaggio ritenuto unico come quello della Piana di Albiano, dominata dal castello di Masino. Motivazioni respinte dal Tar con una sentenza motivata in 140 pagine nelle quali si sostiene che il parco tematico «non produrrebbe un impatto ambientale tale da dover bloccare il progetto». Il Tar ha anche respinto l’istanza di rischio idrogeologico, sollevato soprattutto da Legambiente e WWF, preoccupate delle conseguenze in caso di alluvione.

Così come emerso nei mesi scorsi, ottenuto il via libera dal Tar, con ogni probabilità nel prossimo autunno verranno affidate le concessioni edilizie. I lavori potrebbero essere terminati in un paio d’anni e la struttura inaugurata già entro il 2008. Millenium Canavese sorgerà su un’area supeiore ai 140 mila metri quadrati, con investimenti di oltre 150 milioni di euro. Darà lavoro a circa 1.550 persone e sarà in grado di attrarre oltre 2 milioni di visitatori all’anno che, tra le altre cose, potranno divertirsi con le attrazioni meccaniche (montagne russe e giostre varie) all’aperto e al chiuso, guardare un film in una delle sale del multiplex, fare acquisti nel centro commerciale, visitare il museo della musica. Molto di più di quanto offra Gardaland, l’attuale numero uno in Italia.

Nota: sul sito Parksmania tutte le varie informazioni e commenti sul progetto; qui su Eddyburg l'articolo sul Millennium Canavese ; numerosi interventi - compresa una lettera di Giulia Crespi Mozzoni - sul sito di Beppe Grillo (f.b.)

Don Virginio Colmegna è uno dei più autorevoli esponenti del mondo della solidarietà milanese, ex direttore della Caritas e oggi alla guida della Casa della Carità Angelo Ariani, un istituto di prima accoglienza che è anche un particolarissimo osservatorio di disagi e di richieste d’aiuto. Colmegna è un “teorico-pragmatico”, se si accetta l’ossimoro: osserva le dinamiche della città tenendo come sfondo l’Europa e i grandi flussi dell’immigrazione internazionale, e qui sta il teorico; il suo aspetto pragmatico emerge nella ricerca, anche quotidiana, di soluzioni, nella sua attività appassionata per unire forze diverse che possano generare nuovo sviluppo. Il “Nuovo Rinascimento” di Milano è un concetto che non nega, ma ammette di “essere ottimista soprattutto grazie alla ragione”. Perché? gli chiediamo.

“Viviamo di forti contrasti. Da una parte il disastro quotidiano della precarietà, che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere, dall’altro, per fare un esempio, l’inaugurazione della nuova fiera”.

Ma il mondo dell’economia che si dota di strutture è un segno di progresso per tutti.

“Per questo ho una visione ottimista, e il tessuto sociale di Milano mi aiuta ad esserlo. Se ci sono atteggiamenti di pessimismo, questi non mi appartengono. Eppure ...” Eppure?

“La sofferenza maggiore emerge quando non si crea uno sviluppo integrato. Non devono esserci una città del progresso e una città assistenziale, separate. La crescita della città dev’essere una sola e deve provenire dall’interno della sua struttura di valori”.

A Milano lo sviluppo è integrato o no?

“Nell’America latina le città hanno le favelas alloro esterno. Milano, certo, ha una dialettica stretta tra centro e periferia. Ma le aree dimesse invocano iniziative di rivitalizzazione e danno l’immagine cruda dell’emarginazione”.

Qual è questa immagine?

“È fatta di cinquemila persone, italiane e straniere, che vivono per strada e che pernottano in quegli edifici fatiscenti. Sono luoghi di pericolo per la città”.

Questo pericolo come va contrastato?

“Il problema non si risolve solo dal punto di vista della sicurezza, dell’ordine pubblico” Come, allora? “L’ emigrazione non va aiutata solo come emergenza. Il problema è di carattere strutturale, torniamo al concetto dello sviluppo integrato”.

Ci spieghi meglio “Faccio un esempio. Milano ha reagito al primo sviluppo economico con lo sviluppo integrato dell’area metropolitana, che è stata allargata per accettare l’emigrazione dal Mezzogiorno. Adesso che arrivano grandi flussi dall’Est, che i romeni sono la prima nazionalità di immigrati, l’ottica dello sviluppo è in ritardo. La povertà richiede sviluppo, non assistenza”.

Una visione quindi di ampio respiro “È un fatto culturale. Ha una sua forte premessa in un ripensamento dell’urbanistica, passa dalla ricerca di soluzioni ai problemi della casa e da un riequilibrio delle diversità sociali. Che tristezza assistere alle beghe di condominio della Scala, quando aver pensato il teatro degli Arcimboldi in periferia è un importante fatto che va letto in chiave di partecipazione; e in questo senso ricollocarlo adeguatamente è essenziale.

Che cosa intende per ripensamento dell’urbanistica?

“Milano non è la città, ma l’intera area metropolitana, integrata con i Comuni che la circondano. Me lo lasci dire: chi lavora nella povertà è più avanti dei politici. Sesto è Milano, Bresso è Milano. E tutto il territorio deve procedere a una, non a due velocità, e nel suo motore deve avere come propellente la cultura dello sviluppo”.

Non è un’operazione facile, lo ammetta.

“L’alternativa è quella di una città assediata dalla paura, nella quale i cittadini vivono disorientati. Solo la fiducia dà la voglia di vivere a Milano. La città cresce se si sa creare fiducia nelle relazioni”.

Sicurezza, dunque “I vertici in prefettura vanno bene, ma la questione va oltre. Ma il problema è quello della dignità sociale”

Lo spieghi da uomo pragmatico. “La soluzione al problema dell’emigrazione, al di là delle diversità culturali, sta nell’alleanza tra un’ ospitalità seria e il sistema economico”.

In che senso.

“Il mondo delle imprese ha bisogno degli immigrati, che sono ormai una forza lavoro insostituibile. Solo una cultura ristretta e criminale favorisce il lavoro nero, che è un cancro dell’economia, mortificazione del lavoro e fonte di concorrenza sleale. Occorre una sana alleanza di sviluppo”.

A che tipo di impresa pensa? “All’impresa in generale, indipendentemente dai settori, a quella dove c’è necessità di manodopera anche non specializzata. Penso all’edilizia, innanzitutto. Ai servizi. Ma anche all’assistenza domestica a domicilio, quella destinata agli anziani non autosufficienti”.

L’occupazione in questi settori è già in gran parte straniera.

“Sì, ma la città deve dotarsi di un registro culturale diverso. Il trend di crescita di Milano, non solo quello dell’occupazione, è sostenuto solo dagli extracomunitari. In altre parole, la popolazione aumenta perchè aumentano gli immigrati. Gli italiani tra gli 1 e i 15 anni sono meno numerosi di quelli dai 65 in su. Occorre un’iniezione di futuro. Possiamo parlare di Nuovo Rinascimento solo se c’è dialogo, rispetto, se si adottano i codici di quella che molti ormai chiamano “filosofia del meticciato”. A cominciare dalla scuola, che sempre più è frequentata da ragazzi nati qui da genitori stranieri, quindi da nuovi cittadini che si formano in Italia. Occorrono regole, capacità di gestione. Vanno creati strumenti di difesa dai conflitti e dalle rotture. Va aumentata la capacità di gestione. Insisto: una positiva visione di sviluppo. Le faccio un esempio...”.

Quale?

“L’ esperienza della Casa di prima accoglienza che dirigo è cominciata pochi mesi fa ed è piena di energia. Qui vicino c’è un asilo. C’era diffidenza nei confronti del nostro insediamento e fu chiesto di costruire un muro che tenesse ben separate le due realtà. Adesso no: i bambini vengono alle feste da noi. Abbiamo creato una struttura aperta alla partecipazione del quartiere, all’associazionismo, l’abbiamo fatta diventare una risorsa per tutti, non ha creato nessun problema. Anzi: la gente ormai sa che se si imposta male anche architettonicamente una struttura si abbassa il valore delle case circostanti. Tutto questo è un esempio per “fare rinascimento”.

Non sarà un fortunato caso isolato? “Lo sviluppo esiste se si ha anche il senso del limite. Prendiamo il problema degli zingari: nel contesto di un’area metropolitana va sterilizzato lo scontro pubblico e vanno applicate regole europee. Non possiamo metterli in campi di concentramento, fare sgomberi con la forza. Il problema torna: non scompare, torna. Come per i rifiuti: un libro intitolato Vite di scarto paragona gli emigrati a scorie umane da accogliere, ma che la gente vorrebbe che non ci fossero. Lo sviluppo è un nuovo modo di interpretare il pensiero urbano e la partecipazione”.

Non è mica facile “La sfida è attivare la responsabilità sociale dell’impresa, in una logica non individualista. L’impresa è un bene pubblico, va regolata in una logica di partecipazione. Si parte dall’assistenza, si passa all’ospitalità, ma l’obiettivo sono le occasioni lavorative. Lo sviluppo non può prescindere dalla crescita di dimensioni della persona”.

Le sembra che Milano risponda a queste sollecitazioni?

“Milano è aperta, anche se talvolta si sollevano polemiche sull’immigrazione. Ma la città ha forti tradizioni sociali diverse, cattolica, socialista, c’è un sottofondo di mecenatismo buono. La mia è una visione ottimista, ma non ingenua”.

Ci sono anche i pessimisti però “Sono quelli che hanno l’angoscia del vivere in città e che scappano alla fine della settimana. Stanno qui solo con l’affanno del lavoro. Occorrerebbe nei loro confronti Quasi un’azione pedagogica, perché per far vivere la città è necessario riversarvi energie positive. Milano non dev’essere la capitale del disagio”.

Come immagina Milano tra dieci anni?

“Dipende tutto dai prossimi tre. Le scelte importanti vanno fatte subito, senza rinvii. Il mutamento passa da una diversa concezione degli stranieri: non “utili invasori”, ma persone che prendono responsabilità nello sviluppo della città, con senso di appartenenza. Vanno riconvertite le fasce abbandonate, se no la città si carica di conflittualità e di paura”.

Che scelte occorre fare? “Creare un’area metropolitana, con un governo metropolitano, investendo in infrastrutture e trasporti per recuperare il senso della vicinanza e creare legami. Intervenire in fretta sulle aree degradate, sulle cascine, le industrie dismesse. Affrontare il problema dell’abitare e del lavoro. Milano deve collegarsi all’Europa, e usare bene i fondi messi a disposizione dalle politiche sociali degli ultimi anni. Se si creano le condizioni per sviluppo e vivibilità, le occasioni crescono e si moltiplicano”.

“Sono ottimista. Ottimista per volontà”.

La questione Ravello non è un’altra occasione di pubblica inaugurazione, nella quale mostrare efficienza nell’uso delle risorse finanziarie. La questione Ravello non è un caso come un altro di contrasto tra pareri diversi su materie opinabili. La recente sentenza del Consiglio di Stato, che ha giudicato irricevibile il ricorso promosso e vinto da Italia Nostra dinanzi al TAR Salerno, in quanto non notificato anche al Ministero dei Beni Culturali, è invece un ennesimo esempio dell’ipocrisia italiana, che attraverso la constatazione di una imperfezione del modus operandi esercita in realtà una sanzione sul fatto stesso di cui è causa, anche senza entrare nel merito. Si profila così una sostanziale iniquità del giudizio, aggravata dalla presenza di una sentenza netta, dettagliata e non equivoca del TAR, ma di senso opposto.

Ci saremmo perciò attesi che, invece delle dichiarazioni trionfalistiche rese al termine di oltre un anno di polemiche e di azioni giudiziarie, la sua amministrazione si fosse distinta per equanimità e senso degli interessi culturali compromessi, promuovendo un ripensamento del progetto, che conducesse ad una corretta ubicazione della struttura, secondo le direttive inequivoche del PUT Costiera Sorrentino - Amalfitana. Avremmo insomma auspicato che la Regione, quale ente gestore del PUT, non intendesse, sia pure con l’avallo del soprintendente pro-tempore, mettersi sotto i piedi le norme di uno strumento urbanistico faticosamente varato dopo oltre quindici anni di attesa, e innumerevoli abusi nel frattempo compiuti.

Invece, le dichiarazioni recentemente rese da lei e dall’assessore del ramo suonano offensive del senso giuridico comune, quello stesso che conferisce legittimità alle rappresentanze democratiche ed agli atti amministrativi (e giuridici) che da loro promanano.

In altre parole, dare corso alla realizzazione dell’Auditorium di Ravello, ignorando l’articolata sentenza contraria del TAR di Salerno, significa esercitare violenza sull’elementare senso del diritto. Non è facendo lo sgambetto agli avversari che si vincono le partite. Non è alleandosi di fatto con l’ipocrisia di un’obiezione procedurale – tra l’altro quanto mai pretestuosa – che la sostanza del problema potrà considerarsi superata. Il fatto grave che lei fa passare, in questo modo, è la vanificazione dell’unico piano urbanistico territoriale con valore paesistico che la Campania si sia dato, è l’avallo a qualunque altra operazione di incremento insediativo voglia essere realizzata in Costiera, purché ammantata da operazione culturale e convenientemente tutelata politicamente.

In queste condizioni, lei contribuisce ad avvilire le coscienze e la memoria di quanti hanno dedicato e dedicano i propri studi e la propria azione civile alla salvaguardia dei valori culturali autentici di questi luoghi, valori poi trasfusi in uno strumento normativo, nella fiducia – ma dovremmo dire nella certezza – che una volta approvati, altri li avrebbero condivisi e difesi.

Presidente Bassolino, quei valori e quell’azione culturale impongono una distinzione ed un equilibrio, nell’attività amministrativa, bene interpretati da un antico motto latino, che le raccomandiamo vivamente: Pacta quae turpem causam continent, non sunt servanda.

Quei valori e quell’azione culturale richiedono più che mai, nel caso di Ravello, che l’azione amministrativa si faccia più meritoria dell’applicazione pedissequa della formalità giuridica. Le chiediamo perciò di volere assumere in tempo utile, e prima che gli atti già avviati vengano condotti a più gravi conseguenze, ogni iniziativa che riconduca la vicenda entro la normativa e la regolarità giuridica degli strumenti vigenti, senza che la Regione si debba prestare a campanilismi di sorta, ma secondo una visione rigorosamente urbanistica e territoriale del problema.

Il sindaco di Ravello, Secondo Amalfitano, ha di che rallegrarsi. E con lui Antonio Bassolino, presidente della Regione, e il presidente della Fondazione Ravello, Domenico De Masi. La lunga diatriba che ha visto opposti Italia Nostra e il Comune della Costiera sul progetto dell'Auditorium (costo circa 19 milioni) ha dato ragione a chi lo ha sponsorizzato e fortemente voluto. L'Auditorium, firmato dal celebre architetto brasiliano Oscar Niemeyer, si staglierà dunque come un'ala bianca di gabbiano su un tratto di macchia mediterranea, a picco sul mare, per consentire lo svolgersi durante tutto l'anno di una stagione concertistica e di convegni. Paradossalmente proprio Italia Nostra, fondazione che tutela il paesaggio, aveva fatto ricorso al Tar contro il 'mostro' architettonico di Niemeyer perché in contrasto con il PUT (Piano di urbanizzazione territoriale). In pratica per Italia Nostra sarebbe andato bene un parcheggio progettato da un geometra di quartiere, ma non l'edificio ideato del padre di Brasilia. Il Consiglio di Stato, con sentenza pubblicata a maggio, ha accolto il ricorso presentato da Comune e Regione, annullando e riformando la sentenza del Tar. Spianando così definitivamente la strada all'Auditorium. Seppure con 17 mesi di ritardo sulla tabella di marcia. A. D.

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