Giuseppe Campos Venuti, noto urbanista e Presidente onorario dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) dal 1990, pubblica sull’Unità del 1 aprile un articolo sul Nuovo Piano Regolatore dal titolo “I mille centri della nuova Roma”.
L’articolo si apre con un appunto tutto economico: secondo Campos Venuti, il primo dato da evidenziare è la produzione di ricchezza e il primato di Roma come motore del mercato nazionale. A Roma, secondo Campos Venuti, si produrrebbe il 6,7% della ricchezza italiana. Naturalmente, come tante altre discussioni in corso (vedi TAV o Ponte sullo Stretto), il calcolo dei benefici non include il modo in cui viene ripartita la ricchezza prodotta, i modi in cui ricava profitto e i benefici per la comunità.
E’ di questi giorni la notizia che numerosi cantieri edili di Roma sono stati sequestrati non solo per inadempienze tecniche, ma anche per il massiccio uso di lavoratori pagati in nero, sottocosto e in condizioni di sicurezza scarse. Nessuna sorpresa, quindi, che il Pil (prodotto interno lavoro nero) si innalzi a vantaggio di quella dozzina di grandi costruttori attivi sulla scena capitolina.
Inoltre, nel calcolo economico di Venuti, non sembra essere stato incluso il danno agli abitanti per le spese aggiuntive (traffico, tempo, salute, ecc.) portate dalla massiccia cementificazione del Nuovo Piano Regolatore. Sono state infatti approvati mega centri commerciali senza linee di trasporto pubblico (vedi Ikea a Bufalotta), si costruisce in aree agricole lontane, si approvano progetti malgrado le valutazioni pessime da parte di commissioni tecniche.
Insomma, l’importante è che si parli di sviluppo, di qualunque natura sia, senza fare un serio calcolo dei benefici e dei costi per la comunità. A Roma si muore ogni anno di polveri sottili, un’alta percentuale di adolescenti soffre di malattie dovute all’inquinamento, il consumo di psicofarmaci è alto nelle zone di maggior traffico, il consumo di suolo innalza la temperatura atmosferica con conseguenze sulla salute e sulla spesa pubblica.
Sul consenso al Nuovo Piano, Campos Venuti si sbilancia (“tutto sommato le poche discussioni che si sono attardate a misurarsi con le vecchie patologie immobiliari del lontano passato, di fatto si sono occupate di una realtà che ormai non esiste più”): in una sola frase l’urbanista, con un colpo di spugna, cancella i mesi di polemiche sulle scalate degli immobiliaristi d’assalto (che hanno trovato sponda in ogni schieramento politico), i fiumi di inchiostro sulle spirali liberiste di Ricucci & co., le frequenti manifestazioni per il diritto alla casa e contro gli sfratti organizzate anche insieme alle associazioni ambientaliste.
Dov’è il “trionfo” di cui parla Campos Venuti? E’ ancora il caso, secondo lui, di giustificare il malaffare, affermando che più case si costruiscono più i prezzi d’acquisto si abbasseranno? E che dire dell’edilizia veramente pubblica, ipotizzata e mai realizzata?
Nessun partito politico ha difeso il Programma Pluriennale Attuazione, allo scopo di calcolare il fabbisogno di edilizia pubblica: il sindaco di Roma Luigi Pianciani, il 21 aprile 1873, affermò che “in scala assai più larga del fabbricare, si procede al negoziare dei terreni, e la popolazione intanto manca di case”. Sono passati 130 anni da quella affermazione ed essa è ancora così drammaticamente valida.
Non basteranno nuovi termini urbanistici a cambiare l’aspetto delle cose: una nuova espansione di servizi commerciali e palazzine, carente di trasporto e servizi pubblici, non si redime chiamandola “centralità locale” Con le periferie romane si continua il vecchio gioco di prenderne solo il nome, ma di mortificarne la storia: dove sono le vigne di Vigne Nuove? Dove il colle di Colle della Strega? Perché attorno alle ville romane di Faonte (Tufello) e di Fidene si colano centinaia di migliaia di metri cubi di cemento? Perché si costruisce i deroga ai vincoli paesistici? E’ un processo molto simile a quello che è successo negli Stati Uniti: i nativi sono stati pressoché sterminati e solo il loro nome è stato conservato sui caschi dei giocatori di football.
Infatti è ormai fuori discussione che la strategia del sistema policentrico romano basato sulle «nuove centralità», è confermata allo scopo di far nascere veri e propri centri in quelle città, grandi come Pisa o Ferrara, che nel Comune di Roma si sono formate, che già oggi chiamiamo Municipi e che occupano complessivamente un territorio più grande delle province di Milano o di Napoli. Municipi che, come abbiamo visto, non sono più i «quartieri dormitorio» di 25 anni fa, che oggi pulsano invece di produzione e di attività sociali e devono coagularsi intorno a «nuove centralità», indispensabili a definire l’identità autonoma di questi luoghi non più marginali.
In conclusione, è forse importante un pensiero più ampio sui reali esiti di questo presunto sviluppo senza limiti. Se è vero che grandi poteri economici come quelli immobiliari agiscono di concerto con le banche, e se è vero che le banche agiscono di concerto con l’economia indotta dai conflitti bellici e dai governi che appoggiano guerre grandi e piccole, si osserva una filiera corta che dallo stato fisico di cemento passa a quello ancor più pesante del piombo. Ci sono altre filiere da sfruttare. C’è un’altra economia, realmente rispettosa dell’ambiente e della società, che deve farsi spazio, soffocata da centri commerciali senza scrupoli per l’ambiente e per i lavoratori che producono i beni (?) esposti sui loro scaffali (vedi http://www.tmcrew.org/killamulti/cocacola/)
.E’ soprattutto così che si può fare pace.
Dal sito del Comitato Parco delle betulle
Già. Io vorrei aggiungere che l’aumento della “ricchezza”, misurato non sulla produzione di merci comunque utili (le scarpe, i componenti elettronici, gli occhiali, il prosciutto ecc.) ma su un’attività edilizia finalizzata al mero accrescimento della rendita immobiliare, mi sembra un segno di degrado e non di sviluppo. Così pensava anche Campos Venuti quando era un maestro.
A maggior ragione ciò è vero quando provoca la perdita di beni comuni,come 15mila ettari di Agro romano.
MESTRE. Nei disegni strategici sovra-regionali doveva servire come valvola di sfogo al traffico in transito lungo il corridoio V Barcellona-Kiev. Nei più circoscritti disegni locali doveva alleggerire la tangenziale di Mestre di circa 50 mila veicoli. «E invece la funzione originaria del Passante di Mestre è stata dimenticata - attacca Paolo Cacciari (Rifondazione comunista) - E assistiamo a una corsa all’urbanizzazione e alla cementificazione che favorisce solo grandi affari immobiliari e speculativi e devasta il territorio». Nel mirino non c’è solo Veneto City. Lungo il tracciato del Passante ci sono altri 2 milioni 310 mila metri quadri pronti a trasformarsi da terreno agricolo in qualcos’altro. E ad attirare, solo attorno a Veneto City, 70 mila auto in più al giorno.
I segretari provinciali di Rifondazione (Roberto del Bello per Venezia e Alessandro Sabiucciu per Treviso), il consigliere provinciale Aldo Bertoldo e il capogruppo di Mira Stefano Lorenzin hanno analizzato piani regolatori, varianti urbanistiche ed esaminato le ultime richieste avanzate agli uffici Urbanistica dei Comuni interessati dal Passante. E hanno composto un puzzle che rappresenta l’immagine prossima ventura delle tonnellate di cemento pronto a colare lungo il nastro di 32 chilometri dell’arteria autostradale o nelle immediate vicinanze. Dimostrando così che il loro timore («Chi semina strade raccoglie cemento») non solo era fondato ma si sta concretamente realizzando. Le dimensioni dei progetti approvati e in discussione fanno paura. Si parte da Veneto City (in discussione): un’area di 572 mila metri quadri per una colata di cemento da un milione 720 mila metri cubi realizzabili. Pochissimi chilometri più in là il Prg di Pianiga prevede l’area «Pianiga commerciale»: 243.100 mq ancora liberi in un’area da un milione e 215 mila mq. A Mirano il consiglio comunale ha recentemente dato il via libera al Motel di Vetrego: 200 camere, ristorante e parcheggio da 600 posti per 38 mila mq. Ma ci sono altre maxi aree prenotate. A Ballò su un’area di 169 mila mq ce ne sono ancora 68 mila mq a disposizione per un deposito di mezzi pesanti; nell’area ex Fornace il Prg prevede un’area di 35 mila mq ancora a disposizione con richieste avanzate di altri 300 mila mq in più in aree agricole. Spinea è il territorio con il più alto tasso di sfruttamento del territorio: il 70% è compromesso da edificazioni. Ma non sembra averne abbastanza, dato che, a poche decine di metri dal casello del Passante, in località Crea, ci sono 150 appartamenti in fase di realizzazione. Ampie aree ancora a disposizione ci sono a Martellago (150 mila mq nell’area Boschi e 45 mila in località Cavino), Scorzè (un’area per camion di circa 60 mila mq) e Salzano (il Prg prevede altri 118 mila mq a disposizione in zona industriale mentre in commissione si è discusso di una zona commerciale da 2.500 mq). Infine, in terra trevigiana, altri criticati interventi ad elevatissimo impatto ambientale come la discarica di Preganziol (progetto definitivo, 60 mila mq), il parco tematico del Sile (520 mila mq di area da terziario, commerciale e industriale) e l’inceneritore di Bonisiolo. «I furbetti del quartierino non esistono solo a Roma - attacca Cacciari - I cacciatori di terreni si sono mossi anche qui. Ci troviamo di fronte a un’urbanistica pattizia, contrattata. C’è stata una deregolamentazione rispetto ai Prg. Da una parte chi ha comprato terreni agricoli per pochi euro al metro; dall’altra Comuni sempre più a corto di soldi a caccia di Ici e oneri di urbanizzazione che hanno approvato varianti urbanistiche discutibili».
E’ mancata, denuncia Rifondazione, una programmazione a livello sovracomunale. Domenica alle 9.45 al Centro anziani di Mogliano ci sarà un convegno in cui verranno presentati questi dati. «In quell’occasione - conclude Cacciari - lanceremo alla Provincia e ai Comuni la sfida a contenere questa cementificazione».
Relazione del Comitato scientifico sulla prima fase di formazione del Piano
Il Comitato scientifico
1 - La progettazione del PPR ha comportato, per i componenti del Comitato scientifico, un coinvolgimento intellettuale ed anche emotivo che l’intero gruppo ha condiviso pienamente nelle intenzioni culturali e politiche, e che li ha particolarmente stimolati per l’assoluta novità dell’esperienza nella quale si troveranno anche contenuti che rivoluzionano il governo del paesaggio.
L’estensione dell’area disciplinata (è il più grande piano paesaggistico mai redatto in Italia), il carattere controcorrente della filosofia di fondo che sostiene il Piano rispetto alla tendenza prevalente (che è quella della corsa alla privatizzazione e alla dissipazione del territorio e delle sue risorse), la possibilità di verificare e applicare i nuovi orientamenti scientifici derivanti dalle direttive europee e le regole, a volta discutibili, del recente Codice dei beni culturali e del paesaggio, tutti questi fattori hanno reso il compito del Comitato scientifico intricato ma emozionante.
Così, incaricato di seguire la progettazione a partire dalla messa a punto delle “Linee guida”, il Comitato Scientifico non si è limitato all’espressione di pareri ma ha formulato una filosofia, una visione organizzata sulla quale, poi, si è sviluppato il piano. Negli ultimi mesi della progettazione (a partire dal luglio 2005) i membri del CS hanno costituito dei gruppi di lavoro misti con gli operatori tecnici dell’Ufficio del piano che, fin dall’estate del 2004, avevano avviato la progettazione, raccolto e ordinato il vastissimo materiale conoscitivo indispensabile, delineato i capisaldi del metodo.
Il paesaggio della Sardegna
2. L’oggetto del PPR, si può dire il suo protagonista, è il paesaggio della Sardegna. Un bene complesso e fragile. Complesso per la sua formazione: è il prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, lungo la cui durata si sono costruiti insieme, fusi nella medesima forgia, la forma dei luoghi (il paesaggio appunto) e l’identità dei popoli. Difficile da organizzare in conoscenza sistematica per la cognizione che ognuno di noi ne possiede pur esistendone una percezione comune. Osservato e studiato nella convinzione che conservare il paesaggio significhi conservare l’identità di chi lo abita e che un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità e memoria. Complesso e fragile proprio per la bellezza delle sue coste, preda delle più rapaci e violente distruzioni, e per le solitudini mistiche delle aree interne in abbandono.
Fragile ma consolatorio per la rassicurante certezza che ancora si prova nel riconoscere il territorio anche in una fotografia dell’isola trovata nella polvere, per la sensazione di infinito che l’isola provoca in chi guarda ciò che di intatto è stato conservato, per l’effetto dei venti dominanti che hanno piegato il paesaggio, rocce e alberi, in una forma unica che lo identifica e lo rende familiare.
Complesso nonostante l’unità sostanziale che secoli di storia hanno realizzato a partire dalle differenti forme, unificando il territorio della Sardegna che si è composto in una sintesi, articolata e armonica, delle sue molteplici identità locali. Complesso e fragile per i conflitti che sono nati negli ultimi decenni tra una civiltà fortemente radicata nella storia e nei luoghi e una deformata idea di modernità che è consistita nell’utilizzazione feroce delle risorse e nella trasformazione del territorio ispirata a modelli uguali e ripetuti in ogni parte del mondo.
L’assunto alla base del PPR è che questo paesaggio - nel suo intreccio tra natura e storia, tra luoghi e popoli – sia la principale risorsa della Sardegna. Una risorsa che fino a oggi è stata utilizzata come giacimento dal quale estrarre pezzi pregiati sradicandoli dal contesto, piuttosto che come patrimonio da amministrare con saggezza e lungimiranza per consentire di goderne i frutti alla generazione presente e a quelle future. Una risorsa che è certamente il prodotto del lavoro e della storia della popolazione che la vive, ma di cui essa è responsabile non solo nell’interesse proprio ma anche in quello dell’umanità intera. Una ricchezza che, nell’interesse della popolazione locale e dell’umanità, richiede un governo pubblico del territorio fondato sulla conoscenza e ispirato da saggezza e lungimiranza.
Il piano paesaggistico regionale
3. Il PPR è appunto lo strumento centrale di un simile governo pubblico del territorio. Esso si propone di tutelare il paesaggio, con la duplice finalità di conservarne gli elementi di qualità e di testimonianza mettendone in evidenza il valore sostanziale (valore d’uso, non valore di scambio), e di promuovere il suo miglioramento attraverso restauri, ricostruzioni, riorganizzazioni, ristrutturazioni anche profonde là dove appare degradato e compromesso. Il Piano è perciò la matrice di un’opera di respiro ampio e di lunga durata, nella quale conservazione e trasformazione si saldano in un unico progetto, essendo volta la prima a mantenere riconoscibili ed evidenti gli elementi significativi che connotano ogni singolo bene, e la seconda a proseguire l’azione di costruzione del paesaggio che il tempo ha compiuto in modo coerente con le regole non scritte che hanno presieduto alla sua formazione.
Il PPR è quindi, da una parte, il catalogo perennemente aggiornato - tramite il sistema informativo territoriale - delle risorse del territorio sardo e del suo paesaggio e delle regole necessarie per la sua tutela e, dall’altra parte, il centro di promozione e di coordinamento delle azioni che, a tutti i livelli, gli operatori pubblici pongono in essere per trasformare la tutela da insieme di regole a concreta gestione del territorio.
Particolare rilevanza devono assumere tra queste azioni quelle svolte dai soggetti seguenti:
- dagli enti locali nella definizione della pianificazione urbanistica dei territori di loro competenza amministrativa, anche attraverso le collaborazioni interistituzionali che il Piano propone;
- dalle articolazioni settoriali e funzionali dell’amministrazione regionale aventi come compito specifico la gestione degli interventi di promozione finanziaria, le politiche patrimoniali, la valutazione ambientale;
- dagli enti di rilevanza nazionale, regionale e locale cui è affidata la missione specifica di tutelare e gestire singole parti del patrimonio paesaggistico della regione (foreste, demani, aree protette ecc.).
Un lavoro che prosegue
4. La prima fase della formazione del PPR consiste nell’approvazione preliminare, da parte della Giunta regionale, in una serie di documenti i quali, pur essendo riferiti all’insieme del territorio regionale, disciplinano con particolare attenzione e compiutezza i beni e i paesaggi interessanti la fascia costiera, ossia l’insieme dei territori i quali (per la loro origine e conformazione, per le caratteristiche dei beni in essi presenti, per i processi storici che ne hanno caratterizzato l’attuale assetto) hanno un rapporto privilegiato con il mare.
Essa deve essere considerata la prima fase di un lavoro che si svilupperà nel futuro sotto un molteplice punto di vista:
- perchè è oggetto di una discussione sulle proposte formulate nella quale la società regionale, in particolare quella rappresentata dai soggetti indicati al punto precedente, si esprimerà proponendo integrazioni, correzioni, approfondimenti e specificazioni, dei quali terranno conto la Giunta e il Consiglio regionali al momento dell’approvazione del piano;
- perchè molte delle direttive e degli indirizzi espressi nei documenti di piano dovranno essere verificati, specificati, articolati, dettagliati nella pianificazione provinciale e comunale, nel quadro di quella “assidua ricognizione” dei valori paesaggistici e ambientali cui la Corte costituzionale si è più volte riferita;
- perchè infine anche per le parti del territorio regionale aventi minore attinenza con il mare di quelle particolarmente approfondite nella prima fase, si dovrà raggiungere lo stesso livello di approfondimento.
L’impianto normativo
5. L’impianto normativo del PPR è costruito in adeguamento alla legislazione sovraordinata, con particolare attenzione all’evoluzione legislativa che ha condotto dalla legge 431/1985 al Codice 42/2004, alla giurisprudenza costituzionale che si è susseguita in materia a partire dalle sentenze 55 e 56 del 1968, nonchè alla Convenzione europea del paesaggio, al Protocollo MAP per le zone costiere. Esso è accompagnato da un testo legislativo che propone alcune modifiche alla vigente legislazione regionale in materia.
Esso si basa nella sostanza sulla distinzione di due strati normativi:
- il primo strato normativo, è riferito sia ai singoli elementi territoriali per i quali è necessaria e possibile la tutela ex articoli 142 e 143 del DLeg 42/2004 (beni appartenenti a determinate categorie a cui è possibile ricondurre i singoli elementi con criteri oggettivi, in jure “vincoli ricognitivi”), sia alle componenti che, pur non essendo dei beni (anzi magari essendo dei “mali”) devono essere tenute sotto controllo per evitare danni al paesaggio o per favorirne la riqualificazione;
- il secondo strato normativo è riferito ad ambiti territoriali per la definizione dei quali i caratteri paesaggistici ed ecologici sono determinanti, e che saranno la sede per definire indirizzi, direttive e prescrizioni anche di tipo urbanistico, da rendere operativi mediante successivi momenti di pianificazione; in particolare per precisare, la definizione degli obiettivi di qualità paesistica, gli indirizzi di tutela e le indicazioni di carattere “relazionale” volte a preservare o ricreare gli specifici sistemi di relazioni tra le diverse componenti compresenti.
La fascia costiera
6. Tra gli elementi del primo tipo assume particolare rilevanza il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.
É anche grazie al suo eccezionale valore, e alla scarsa capacità di governo delle risorse territoriali che dimostrata nei decenni trascorsi dai gruppi dirigenti, che questo incomparabile bene è oggetto di furiose dinamiche di distruzione. E’ qui che si è esercitata con maggior violenza nei decenni trascorsi, e minaccia di esercitarsi nei prossimi, la tendenza alla trasformazione di un patrimonio comune delle genti sarde in un ammasso di proprietà suddivise, trasformate senza nessun rispetto della cultura e della tradizione locali né dei segni impressi dalla storia nel territorio, svendute come fungibili e generiche merci ad utilizzatori di passaggio, sottratte infine all’uso comune e al godimento delle generazioni presenti e future (ad esclusione dei privilegiati possessori).
Massima qualità d’insieme e massimo rischio: due circostanze che giustificano la particolare attenzione che si è posta per delimitare, secondo criteri definiti dalla scienza e collaudati dalla pratica, il bene paesaggistico d’insieme di rilevanza regionale costituito dai “territori costieri”, e per disciplinarne le trasformazioni sotto il segno d’una regia regionale attenta sia alla protezione che alla promozione delle azioni suscettibili di orientarne le trasformazioni nel senso di un ulteriore miglioramento della qualità e della fruibilità.
Tre letture, tre assetti
7. Il paesaggio è certamente il risultato della composizione di più aspetti. E’ anzi proprio dalla sintesi tra elementi naturali e lasciti dell’azione (preistorica, storica e attuale) dell’uomo che nascono le sue qualità. E’ quindi solo a fini strumentali che, nella pratica pianificatoria, si fa riferimento a diversi “sistemi” (ambientale, storico-culturale, insediativo) la cui composizione determina l’assetto del territorio, e dei diversi “assetti” nei quali tali sistemi si concretano.
Anche la ricognizione effettuata come base delle scelte del PPR si è articolata secondo i tre assetti: ambientale, storico-culturale, insediativo. Tre letture del territorio, insomma, tre modi per giungere alla individuazione degli elementi che ne compongono l’identità. Tre settori di analisi finalizzati all’individuazione delle regole da porre perchè di ogni parte del territorio siano tutelati ed evidenziati i valori (e i disvalori), sotto il profilo di ciò che la natura (assetto ambientale), la sedimentazione della storia e della cultura (assetto storico-culturale), l’organizzazione territoriale costruita dall’uomo (assetto insediativo) hanno conferito al processo di costruzione del paesaggio.
Ciascuno dei tre piani di lettura ha consentito di individuare un numero discreto di “categorie di beni a confine certo”, per adoperare i termini della Corte costituzionale: cioè di tipologie di elementi del territorio, cui il disposto degli articoli 142 e 143 del Dleg 42/2004 consente di attribuire l’appellativo di “beni paesaggistici”. Dalla ricognizione e dall’individuazione delle caratteristiche dei beni nasce la definizione delle regole. Sicché è dalle tre letture sono nati i tre “capitoli” delle norme. Ciascuno di essi detta le attenzioni che si devono porre perchè, in relazione ai beni appartenenti a ciascuna categoria, le caratteristiche positive del paesaggio vengano conservate, o ricostituite dove degradate, o trasformate dove irrimediabilmente perdute.
Gli ambiti di paesaggio
8. Le tre letture di cui al punto precedente hanno consentito di individuare e regolare i beni appartenenti a ciascuna delle categorie individuate. Ma, nella concretezza del paesaggio, ogni elemento del territorio appartiene a un determinato contesto, e in quel contesto entra in una particolare relazione con beni (e, più generalmente, con elementi del territorio) appartenenti ad altre categorie.
Ecco perchè, all’analisi del territorio finalizzata all’individuazione delle specifiche categorie di beni da tutelare in ossequio alla legislazione nazionale di tutela, si è aggiunta un’analisi finalizzata invece a riconoscere le specificità paesaggistiche dei singoli contesti. Sulla base del lavoro svolto in occasione della pianificazione di livello provinciale si sono individuati 27 ambiti di paesaggio, per ciascuno dei quali si è condotta una specifica analisi di contesto.
Per ciascun ambito il PPR prescrive specifici indirizzi volti a orientare la pianificazione sottordinata (in particolare quella comunale e intercomunale) al raggiungimento di determinati obiettivi e alla promozione di determinate azioni, specificati in una serie di schede tecniche costituenti parte integrante delle norme.
Gli ambiti di paesaggio costituiscono in sostanza una importante cerniera tra la pianificazione paesaggistica e la pianificazione urbanistica: sono il testimone che la Regione affida agli enti locali perchè proseguano, affinino, completino l’opera di tutela e valorizzazione del paesaggio alla scala della loro competenza e della loro responsabilità. In tal senso la disciplina proposta per gli ambiti di paesaggio è la parte del PPR che più viene segnalata agli interlocutori locali nella discussione dei documenti di piano, perchè è su di essa che le verifiche, gli arricchimenti, le correzioni e integrazioni avranno maggiore utilità per il completamento del piano.
Il Comitato scientifico
Edoardo Salzano, Urbanista - IUAV - Coordinatore
Giulio Angioni, Antropologo
Ignazio Camarda, Botanico - Università di Sassari
Filippo Ciccone, Urbanista - Università della Calabria
Enrico Corti, Urbanista - Università di Cagliari
Roberto Gambino, Urbanista - Politecnico di Torino
Giovanni Maciocco, Urbanista - Università di Sassari
Antonello Sanna, Ingegnere - Università di Cagliari
Helmar Schenk, Zoologo
Giorgio Todde, Scrittore
Paolo Urbani, Giurista - Università La Sapienza
Raimondo Zucca Archeologo
Tutti gli elaborati ufficiali del PPR sono pubblicati sul sito della Regione
Arroganza senza limiti. Alla vigilia delle elezioni politiche, quando il programma del centro sinistra prevede la sospensione delle procedure di realizzazione del ponte e sancisce la cancellazione del progetto, la Società Stretto di Messina ed Impregilo sottoscrivono il contratto la cui firma era stata sin qui rinviata. L’atto assume – in tipico stile berlusconiano – la caratteristica di una pesante provocazione nei confronti di un movimento di opinione nazionale largamente contrario al ponte, di un movimento di lotta che è fortemente cresciuto nel corso degli ultimi anni e che ha esteso la propria protesta, più in generale, nei confronti delle “grandi opere”. Una provocazione che, oltre a calpestare il diritto degli enti locali di Messina e Villa San Giovanni, colpisce la Regione Calabria, la cui giunta si è nettamente espressa contro il progetto e sta legiferando per proteggere il proprio territorio (l’area dello Stretto è stata dichiarata Zona di Protezione Speciale e la recente normativa urbanistica e paesistica non prevede una simile infrastruttura). Un affronto alle procedure di infrazione avviate dalla Comunità Europea ed ai procedimenti in atto da parte della magistratura.
La firma del contratto consente – come primo atto - l’avvio della progettazione esecutiva e quindi l’erogazione - per l’ennesima impalcatura di carta - di nuovi finanziamenti sottratti alle tasche dei contribuenti (com’è noto, dietro il mascheramento della “finanza creativa”, si tratta di danaro pubblico che proviene direttamente dalla svendita dell’IRI) e alla possibilità di avviare investimenti realmente necessari per Calabria e Sicilia. La lobby delle “grandi opere” si trova così in mano un’altra borsa di danaro sottratto alla collettività per ripianare (tendenzialmente) i propri bilanci, avventurarsi in manovre speculative e distribuire prebende ai propri associati e consulenti.
Ancora una volta si ripropone – in consonanza con gli ormai pietosi spot elettorali del Cavaliere disarcionato – la retorica della grande ed insostenibile opera a fronte dell’assoluta mancanza di idee e di progetti sensati per il futuro.
E’ urgente rafforzare la mobilitazione, proseguendo nella scia della grande manifestazione che a Messina il 22 gennaio ha visto sfilare oltre 25.000 cittadini. E’ necessario che la Regione Calabria (che tra l’altro detiene ancora un proprio rappresentante nel CdA della Stretto di Messina spa) eserciti con decisione il proprio ruolo. E’ urgente che sia data visibilità ai progetti ed alle pratiche, ormai ampiamente diffuse, che dai conflitti per la difesa del territorio – dalla Val di Susa allo Stretto di Messina - mirano allo sviluppo locale autosostenibile, solidale e rispettoso delle regole coevolutive di comunità locali e ambiente naturale.
A quanti agiteranno il ricatto della penale che dovrebbe essere pagata in caso di cancellazione del progetto occorre – infine - ricordare quanto segue: la penale è categoricamente esclusa per la fase di progettazione e comunque fino all’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe e della Società Stretto di Messina - lo afferma esplicitamente lo schema di contratto approvato dal consiglio di amministrazione di Società Stretto di Messina e che è stato sottoposto alla firma del general contractor guidato da Impregilo. Non solo: L’articolo 43 dello stesso schema di contratto prevede che “il soggetto aggiudicatore, a suo insindacabile giudizio, ha la facoltà di recedere dal contratto in qualunque tempo e qualunque sia lo stato di esecuzione della prestazione oggetto del contratto stesso”.
L’affronto che l’amministrazione della Società Stretto di Messina esibisce provocatoriamente, al di là di qualsiasi contegno che si richiami almeno ad un minimo senso etico e giuridico, va rigettato e condannato con decisione da quanti si riconoscono in una sana e vera democrazia, che simili atti invece corrompono e spingono alla deriva.
Critiche a pagamento
Lunedì 20 marzo sulla cronaca del Corriere della Sera un’intera pagina era occupata da una denuncia del “comitato degli acquirenti dell’Acqua acetosa” che denunciava l’arrivo sulle aree destinate a verde privato da convenzione urbanistica prospicienti le loro abitazioni di 75.000 mila metri cubi decisi da un accordo di programma in variante al piano regolatore. Quello stesso piano che da lì a poche ore sarebbe stato approvato definitivamente dal Consiglio comunale[1]. Per difendere i propri diritti nella Roma del terzo millennio si deve pagare una pagina di quotidiano. Nessun partito politico si fa più carico dello stato della città.
E’ però vero che per far sentire la propria voce non tutti hanno pagato. In questi ultimi tempi moltissimi comitati di quartiere e di cittadini si sono impegnati contro questo piano regolatore per un’altra idea di città. Senza avere l’appoggio di partiti, hanno imposto –almeno formalmente, poiché i concreti risultati non sono stati così importanti- il loro punto di vista. Questo tessuto partecipativo, di cui anche Eddyburg ha dato rappresentazione, è la vera novità della vicenda dell’approvazione del piano di Roma. Si è trattato un punto di vista che ha cercato di collocarsi a favore della pianificazione, favorendo quindi il cammino del piano, battendosi nel contempo contro le scelte sbagliate che esso definiva.
Un punto di vista certamente minoritario nella società romana. Le critiche, anche quelle più moderate alla conduzione dell’urbanistica romana non hanno trovato facile udienza in questi anni. Ma i toni elogiativi hanno superato ogni livello di decenza nel commento al voto di controdeduzione del 22 marzo. Argomenti acriticamente elogiativi sono apparsi su tutti i quotidiani[2]. Una serie di numeri inventati – come vedremo - di sana pianta citati da assessori e consiglieri di maggioranza sono stati riportati fedelmente, senza la minima verifica. Un quadro desolante cui dobbiamo per ora rassegnarci.
Solo per ora, però. Gli effetti di uno sviluppo urbano senza regole verrà inevitabilmente alla luce in tempi molto più contenuti di quanto si crede. Si pensi soltanto all’ultima colossale bugia inventata per convincere l’opinione pubblica della bontà del nuovo piano. Affermano i giornali che verranno realizzati “tre campus universitari in periferia”, per riqualificare le periferie romane. In realtà si tratta soltanto di 6.000 posti letto per studenti localizzati in tre aree che con le sedi universitarie hanno poco a che fare [3]. Solo la localizzazione di Tor Vergata coincide con un polo universitario: ma si tratta si una università la cui localizzazione non è stata decisa da questo PRG, ma da quello del 1962, e che è stata realizzata grazie alla totale proprietà pubblica dell’area e alla determinazione del corpo docente di farne elemento centrale del sistema formativo romano. Le altre due localizzazioni sono invece diffuse nell’anonima periferia urbana, altro che campus! Per ora l’effetto mediatico è assicurato, poiché tutta la città è stata portata a credere che verranno costruite tre Cambridge nei posti più desolati della periferia romana [4]. Ma l’effetto durerà il tempo dei titoli dei giornali, lasciando irrisolti i problemi.
Converrà allora richiamare brevemente i principali elementi di critica che i questi ultimi anni sono stati inutilmente portati all’attenzione dell’opinione pubblica e degli amministratori. Erano critiche argomentate e civili: si riferiscono in particolare a un errore di fondo e, nel merito tecnico, a tre omissioni e tre errori di impostazione. Ad esse non è stata fornita risposta né in fase di adozione nel 2003, né in quest’ultima fase di controdeduzione. Il piano votato in via definitiva, infatti, non si scosta dall’impostazione fin qui avuta.
L’errore di fondo
L’errore di fondo è rachiuso in due espressioni equivoche, “compensazione urbanistica” e “diritti edificatori”. Un errore in apparenza nell’attuale stesura del piano, ma di fatto conservato. Si è dovuto prendere atto dell’autorevole parere espresso da Vincenzo Cerulli Irelli e Edoardo Salzano, che per conto di Italia Nostra che hanno dimostrato l’assoluta infondatezza giuridica della tesi secondo la quale aver ottenuto una certa edificabilità da una un PRG attribuisce alla proprietà dei “diritti edificatori”, che vanno in qualche modo “compensati” anche da nuove previsioni urbanistiche[5].
Il nuovo piano di Roma contiene continui rinvii ai due concetti. Se sono stati tolti, grazie alle puntuali denunce, gli articoli che li ne generalizzavano l’impiego tentando di dar loro dignità di principio, essi trovano surrettiziamente collocazione sia in numerosi articoli della normativa tecnica di attuazione, sia nella relazione di piano. Si sono insomma cancellate le stesure più vistosamente compromettenti per lasciarne intatta la centralità nella fase gestionale del piano [6].
Al di là di questa critica di fondo ricordiamo le critiche legate al merito delle scelte pianificatorie, accompagnandole con i commenti apparsi in questi ultimo giorni sui quotidiani, così da cogliere la distanza tra realtà e rappresentazione. Si tratta in grana parte di conseguenze tecniche di quell’errore di fondo.
Tre omissioni
L’area metropolitana. La prima omissione presente nella stesura del nuovo piano riguarda l’assenza di alcun ragionamento sull’area metropolitana. Attualmente non esiste nessun fenomeno urbano che non abbia origine negli squilibri tra Roma e il suo hinterland. La provincia di Roma ha incrementato la popolazione di circa 120.000 abitanti nel decennio 1991-2001. Tutta gente che non si può permettere più di abitare a Roma a causa di una rivalutazione immobiliare senza precedenti[7]. Tutti questi cittadini, in assenza di politiche di decentramento delle attività terziarie, devono raggiungere quotidianamente Roma contribuendo al quotidiano blocco della circolazione stradale.
Di tutto questo, però, non c’è traccia nel piano regolatore. Alle critiche di questi anni si è risposto solo in fase di controdeduzioni inserendo in uno studio allegato[8] la seguente frettolosa formulazione: “L’approfondita analisi delle dinamiche urbane dell’ultimo decennio consente di individuare alcuni elementi di novità rispetto al precedente scenario, e in particolare: …..l’accelerazione dei flussi migratori verso i comuni della corona”. Punto e basta. Ma il piano è rimasto lo stesso. Intanto i giornali hanno titolato che “Roma si apre alla sua area metropolitana”.
Il traffico. Gli stessi quotidiani hanno diffuso la notizia che i chilometri di metropolitana passeranno dagli attuali 39 a129. In realtà non si sa bene come e lo stesso assessore all’urbanistica ha affermato che l’attuazione è del tutto teorica. Ma non è questo il punto. Dobbiamo invece ricordare che si era sempre denunciata la mancanza di studi che dimostrassero la sostenibilità dell’enorme peso insediativo contenuto nel nuovo Prg. Uno dei precedenti assessori alla mobilità e vicesindaco della giunta Rutelli, Walter Tocci, ha affermato recentemente che durante il suo mandato fu realizzata la simulazione del modello di traffico, verificandone la compatibilità con la struttura urbana esistente e prevista. I risultati avevano dimostrato che la città non reggeva l’impatto, evidenziando diffusi blocchi del sistema. Abbiamo pazientemente chiesto che venissero fornite assicurazioni. Solo silenzi. Negli ultimi giorni che hanno preceduto l’approvazione è stato addirittura accettato un emendamento di Forza Italia che prevede un nuovo raccordo anulare ancora più esterno del Gra: il modello automobilistico trionfa. Ma si parla solo di ipotetiche metropolitane. Intanto prepariamoci ad sprofondare nel traffico.
Il centro storico. Nell’estate dello scorso anno insieme al Comitato per la Bellezza, l’associazione Polis ha organizzato un riuscito convegno sullo stato del centro storico di Roma. Gli studi eseguiti per l’occasione hanno permesso di svelare che i residenti all’interno delle Mura aureliane sono scesi sotto al soglia dei 100.000 abitanti. Erano oltre 350.000 nel 1951. Sempre nel centro storico le strutture ricettive raggiungono oltre 50.000 posti letto e proliferano i residence. Roma, insomma, è entrata nel grande circuito del turismo di massa internazionale che rischia di diventare un teatro turistico svuotato della complessità delle funzioni urbane, come Venezia. Ma di questa delicatissima problematica non c’è traccia nelle relazioni di piano. C’è invece una normativa tecnica di attuazione molto permissiva che agevola gli interventi singoli. E ci sono ulteriori cedimenti accolti in fase di controdeduzione, come l’articolo che permette la possibilità di sostituire residenza con attività terziarie in tutto il tessuto medievale (un buon terzo dell’intero centro storico) fino al primo piano degli edifici! I giornali titolano sul fatto che il centro antico è rigorosamente salvaguardato. Inutile ribadire che della più straordinaria idea di assetto del centro storico mai prodotta, e cioè del progetto Fori imperiali, non c’è la minima traccia. Abbandonata nel mare di retorica.
Tre errori di impostazione
Il consumo di suolo. E’ sul consumo di suolo che sono state avanzate le critiche più decise. Il gruppo di validissimi giovani urbanisti che sotto la guida di Vezio De Lucia hanno misurato la dimensione dell’urbanizzato e quella delle previsioni del nuovo piano (Alessandro Abaterusso, Georg Joseph Frisch e Andrea Giura Longo) avevano fornito i seguenti numeri. Superficie urbanizzata al 2002: 45.000 ettari; ulteriore consumo di suolo previsto dal nuovo Prg 15.000 ettari. In totale 60.000 ettari.
Anche questi dati sono stati presentati in convegni pubblici, ma le risposte sono state di aperto fastidio e di smentita. Oggi sono stati immessi in rete i dati misurati dall’Assessorato ai lavori pubblici: affermano che al 2003 la superficie urbanizzata è esattamente pari a 45.000 ettari. Nella conferenza stampa che festeggiava il voto finale del piano, Sindaco e assessori hanno continuato ad affermare che “su due terzi del territorio romano, 88 mila ettari sui complessivi 129 mila non si potrà costruire alcun edificio”. Una menzogna, smentita dagli stessi dati comunali: al massimo restano 69.000 ettari di agro romano, 19.000 in meno di quanto si annuncia. Ma è quanto succede a Roma.
Il dimensionamento della residenza. La seconda questione – connessa con la precedente - era relativa al dimensionamento del piano. Le previsioni edificatorie sono queste: un’incremento pari a 35 milioni di metri cubi residenziali e 30 milioni di metri cubi non residenziali. Nella relazione alle controdeduzioni è stato finalmente reso pubblico lo studio (Cresme) da cui è stato desunto il dimensionamento. Questo studio contiene un vistoso errore poiché conteggia due volte il fabbisogno dovuto al sovraffollamento. Correggendo l’errore avrebbero dovuto esserci “soltanto” 25 milioni di metri cubi residenziali. La questione è stata posta nelle sedi opportune. Nessuna risposta.
I quotidiani parlano di 100.000 nuovi alloggi realizzati con il nuovo Prg. In realtà se si tiene conto del taglio dimensionale preferito attualmente dagli operatori immobiliari, gli alloggi saranno almeno 150.000. Nessuno ha però sottolineato che viviamo in una città che ha perso nei dieci anni del precedente censimento oltre 60.000 famiglie. I prezzi delle abitazioni che si realizzeranno saranno inferiori a quelli i cui livelli hanno spinto migliaia di famiglia a spostarsi verso i comuni vicini? Nulla ne testimonia neppure l’intenzione. Ma allora proporre un così elevato incremento dell’offerta di alloggi è soltanto un grande regalo alla rendita immobiliare.
Il dimensionamento delle attività. Per quanto riguarda la quota di nuove cubature non residenziali, è appena il caso di ricordare che la Giunta municipale di Roma sta approvando una deliberazione che consente ai numerosi edifici destinati ad uffici vuoti da anni, in particolare nelle periferie, di essere trasformati in abitazioni. Come mai, dunque, se nelle periferie ci sono consistenti quantità di edifici destinati a uffici non utilizzati, si consente di costruire ulteriori 30 milioni di metri cubi per attività terziarie? Una risposta è rintracciabile nella grande espansione del comparto commerciale. Negli ultimi anni sono approdati a Roma i più grandi gruppi del commercio internazionale, da Panorama a Wal-Mart: i nuovi trenta milioni di metri cubi serviranno dunque a realizzare nuove superfici commerciali a scapito della ricerca di attività qualitativamente innovative.
E proprio le attività terziarie di qualità, si afferma, formano il pilastro della riqualificazione delle periferie articolata intorno a 18 nuove centralità che, in buona sostanza, sono l’idea di città del nuovo piano. I giornali hanno addirittura affermato che “il centro si sposta in periferia attraverso la realizzazione di attività pregiate”. Anche in questo caso facciamo parlare i documenti. Nella relazione di piano si afferma che “non è più attuale la questione dello spostamento delle sedi dell’amministrazione centrale dello Stato”. Un breve rigo che cancella trent’anni di dibattito culturale sui destini del centro storico, oggi intasato dalle attività direzionali e dalla conseguente morsa del traffico. Ma cancella anche ogni velleità di riqualificazione delle periferie. Con quali funzioni si qualificheranno infatti i tessuti urbani se non con lo spostamento di funzioni pubbliche?
È la stessa amministrazione comunale, del resto, a denunciare apertamente il fallimento dell’urbanistica privatistica perseguita a Roma in questi anni. A pagina 16 della relazione approvata alcune sere fa si legge: “Dall’adozione del Prg, sono stati presentati gli schemi di assetto preliminare per diverse “centralità da pianificare”. L’istruttoria predisposta dagli uffici comunali ha evidenziato da un lato le difficoltà da parte dei progetti presentati a garantire la subordinazione alla preventiva e contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie; mentre dall’altro lato, ha evidenziato una tendenza ad impoverire il contenuto di servizi ed attrezzature delle centralità a scapito delle funzioni più solvibili sul mercato immobiliare (residenze e attrezzature commerciali)”.
Si confessa insomma che le centralità definite nel Prg i privati intendono costruire residenze e supermercati infischiandosene delle altre funzioni “non solvibili”. Gli apprendisti stregoni si accorgono che il tanto mitizzato mercato fa i suoi interessi. Non se ne accorge la stampa che grida al miracolo del risanamento delle periferie.
Il piano della rendita immobiliare è stato approvato, in un assordante coro di elogi giunti anche da versanti inaspettati. I prossimi anni ci daranno la misura della distanza tra i numerosi effetti annuncio e la realtà dell’assetto urbano.
[1] E’ l’ultimo scandalo in ordine di tempo dell’urbanistica romana. Riguarda il proprietario del quotidiano Il Tempo, beneficiato da un enorme valorizzazione immobiliare fuori di ogni regola e legge. Di questo ennesimo caso, immediatamente censurato da tutti i quotidiani daremo conto in un prossimo intervento su Eddyburg.
[2] E’ sempre opportuno ricordare che i due quotidiano locali più diffusi a Roma, Il Messaggero e Il Tempo sono di proprietà di due imprenditori del mondo edilizio (Caltagirone e Bonifaci).
[3] I seimila posti letto saranno realizzati su finanziamento dell’Inail.
[4] Uno dei tre gruppi di case per studenti è localizzato all’interno dell’università di Tor Vergata che è realmente un grande campus universitario. Ma lo è in base a strumenti urbanistici pubblici,. Non è certo il frutto del nuovo piano regolatore.
[5] Il parere dei due autorevoli esperti affermava che i cosiddetti diritti edificatori non esistono poiché il piano urbanistico può cancellare in qualsiasi momento le previsioni edificatorie contenute in precedenti strumenti urbanistici. È sufficiente motivare adeguatamente le ragioni della modifica delle previsioni. L’istituto della compensazione urbanistica, dal canto suo, operando solo su iniziativa e su aree private ha portato nel caso romano ad ingiustificabili aumenti di cubature che in alcuni casi hanno superato il doppio del valore inizialmente previsto.
[6] E’ il caso di ricordare che nello scorso mese di dicembre il nuovo assessore all’urbanistica della Regione Lazio ha proposto una legge urbanistica che definiva “principio” la compensazione urbanistica! La stessa opposizione all’interno della maggioranza regionale ha consigliato l’abbandono della proposta indecente.
[7]Ance e Nomisma hanno stimato un aumento medio dei valori immobiliari su scala nazionale pari al 69% nel periodo 1998-2005. A Roma la stima raggiunge il valore del 100% di aumento.
[8] “Scenari della domanda residenziale e non residenziale a Roma” a cura del Cresme. Roma, novembre 2005.
«Non è solo indifferenza. È anche arroganza». Il professor Carlo Bertelli, storico dell'arte e dell'urbanistica, già sovrintendente a Brera, non è poi così convinto che sia solo la «polvere dell'amministrazione» a mettere a repentaglio i beni architettonici milanesi: «È anche quell'idea che bisogna fare i grattacieli, quando la modernità vera di Milano viene così poco considerata e valutata».
Che cosa rappresenta il Qt8 per Milano?
«Per Milano e anche per l'Italia, direi, visto che da noi non esistono altri esempi di quartiere sperimentali che invece all'estero sono più diffusi».
Quali furono le caratteristiche della sperimentazione?
«E’ stata una grandissima operazione di carattere urbanistico e ambientale realizzata sotto la guida dell'architetto Piero Bottoni a partire dal 1948, raccogliendo una serie molto articolata di lavori che si erano visti alle ultime Triennali».
Quali sono i segni più significativi del quartiere?
«Innanzi tutto, la grande collina, uno spazio verde assolutamente inedito, realizzato a terrazze con le macerie dei bombardamenti. E dal punto di vista architettonico, la chiesa di Vico Magistretti e Mario Tedeschi. Intorno, un quartiere ispirato al razionalismo e realizzato con architetture — e finIture — di qualità. In Italia è l'unico tentativo organico degli anni della ricostruzione postbellica, se vogliamo un paragone dobbiamo andare a Berlino nel quartiere Hansa-Viertel».
Il valore del Qt8 si è mantenuto al punto da richiedere una tutela?
«Il Qt8 resta ancora oggi un quartiere modello, una periferia non periferia immersa nel verde, collegata alla città e agli impianti sportivi. Anche se non tutti i servizi previsti sono stati realizzati».
Insomtna, il vincolo paesistico ci vuole?
«Assolutamente. Io credo si debba adoperare ogni energia perché questo esempio di urbanistica sana non vada perduto o snaturato. Se non per gli altri motivi che abbiamo detto, per il fatto che è unico. Perso quello non ne abbiamo altri».
Come mai Milano fa così fatica a valorizzare i propri luoghi significativi?
«L'indifferenza, innanzi tutto. Ma anche una certa arroganza, quel modello che pensa a fare i grattacieli sull'area della Fiera con l'idea che la modernità sia quella. Mentre la modernità vera di Milano viene così poco considerata e valutata».
DAL centro commerciale di Villabate al ben più lucroso affare del ponte sullo Stretto. Per la realizzazione dell'opera è stato al momento individuato solo il general contractor, Impregilo, ma per i subappalti le cosche si stanno già attrezzando. La "famiglia" mafiosa di Villabate si era messa in moto già l'estate scorsa. A rivelarlo ai sostituti procuratori Maurizio de Lucia, Nino Di Matteo e Michele Prestipino, alla presenza del gip Pasqua Seminara, è stato Vincenzo Alfano, costruttore trapiantato in Emilia Romagna e finito in carcere nell'ultimo blitz con l'accusa di associazione mafiosa perché ritenuto prestanome a tutti gli effetti dei boss di Villabate. Ai magistrati Alfano ha confermato quanto pochi giorni prima aveva detto il pentito Francesco Campanella in un verbale ancora coperto da segreto istruttorio: «Campanella mi chiamò e mi disse di tenermi pronto e di cominciare a muovermi per i subappalti e i lavori di fornitura per la realizzazione del ponte sullo Stretto».
A entrare nel grande cantiere del ponte avrebbe dovuto essere la Cga costruzioni di Vincenzo Alfano, imprenditore che i magistrati definiscono «a totale disposizione della famiglia di Villabate per appalti pubblici e per il reinvestimento dei capitali illeciti». Come quelli che provenivano dalle sale Bingo e dai centri scommesse gestiti dalla Enterprise. Grande amico di Campanella e di Mario Cusimano, il costruttore è stato incastrato proprio dalle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia. Che lo hanno descritto come uomo di strettissima fiducia di Nino e Nicola Mandala. Era lui, assieme al fratello Benedetto, l'uomo che aveva procurato a Nicola Mandala l'affare della fattoria in Venezuela da acquistare per trascorrere con Ignazio Fontana una latitanza dorata, ed era lui ad aver procurato la carta di identità di un ignaro dipendente della sua ditta che Mandala avrebbe potuto utilizzare per i suoi acquisti.
Già socio del deputato regionale Giuseppe Acanto nell'azienda di arredi da bagno Eurobarren, Alfano si era poi trasferito nel Modenese, dove la sua impresa aveva reinvestito in villette a schiera i soldi della cosca.
Nei suoi cantieri lavoravano solo villabatesi, ma aveva trovato posto anche il figlio del grande consigliori di Provenzano, Ciccio Pastoia, braccio economico del boss, suicida in carcere nel gennaio del 2005, subito dopo l'arresto.
Proprio Pastoia sarebbe stato la testa di ponte dei fedelissimi di Provenzano per arrivare ai grandi appalti, dal ponte sullo Stretto al passante ferroviario di Palermo, circostanza questa emersa la scorsa settimana al processo per l'omicidio dell'imprenditore Salvatore Geraci. Nella bisaccia dei riscontri alle dichiarazioni del pentito Campanella, i pm hanno aggiunto anche la confessione di Giuseppe Daghino, il manager della Asset development finito agli arresti domiciliari assieme al socio Paolo Marussig. Daghino ha ammesso tutte le sue responsabilità, a cominciare dal pagamento della tangente da 25 mila euro per il centro commerciale di Villabate, ma ha anche smentito Marussig sul ruolo di Marcello Massinelli, consulente economico del presidente della Regione Cuffaro. «È vero quello che dice Campanella — ha ammesso Daghino — Massinelli era l'uomo che doveva portarci i 200 mila euro
L’Unità
“Ecco il Prg che tutela l’ambiente”
intervista di Jolanda Bufalini
Nella sala Giulio Cesare si votano gli emendamenti di minoranza. Una campanella come quella delle scuole suona a lungo per richiamare l’attenzione dei consiglieri. È ormai rilassato Roberto Morassut. Si è da poco conclusa la riunione di giunta. Già ieri sera il testo è andato in votazione in Consiglio. Esprimono soddisfazione Legambiente e Prc. An voterà contro ma - dice Morassut - è normale che non ci sia una scelta ostruzionistica «anche perché le richieste che abbiamo accolto rientrano nella filosofia del piano».
E' possibile tenere insieme i tagli delle cubature e le “centralità” delle periferie?
Il ridimensionamento delle cubature riguarda tutta l’area del Prg mentre nelle centralità, anche se vi è una riduzione, vi è una massa critica adeguata per servizi di qualità, infrastrutture, oneri concessori anche a carico dei privati.
Facciamo qualche numero?
Ad Acilia-Madonnetta la riduzione è di 300mila mc, ad Anagnina-Romanina il taglio è di 200mila.Ripartiti a circa il 50% fra pubblico e privato (il taglio della quota pubblica ad Acilia è del 55,23%, alla Romanina del 57,95%, ndr). A Torre Spaccata dei 600mila metri cubi tagliati, 500mila sono di privati. Miriamo ad allargare la base produttiva della città in un patto chiaro col mondo dell’economia: l’obiettivo strategico di questo piano è spostare in periferia grandi funzioni di pregio di servizi pubblici e privati. È necessario garantire la contemporaneità di trasformazioni urbane e realizzazione delle infrastrutture e, attraverso i concorsi, la qualità urbanistico-architettonica.
A quali interventi pensa?
L’Amministrazione, insieme ad altre amministrazioni pubbliche, sta conducendo l’operazione dei tre campus universitari. Nei prossimi giorni approveremo la delibera che assegna le aree Sdo di Pietralata alla Sapienza (dove sulla base di un’iniziale lavoro di Franco Purini si farà un concorso), a Tor Vergata siamo già partiti con la città dello sport su progetto di Calatrava (il 22 l’architetto presenterà i primi bozzetti). Ad Acilia, dove l’area è privata(Pirelli), stiamo lavorando alla realizzazione del campus di Roma tre con Gregotti.
Torre Spaccata ha suscitato molte discussioni
A ragione, perché è un’area fra due grandi quartieri popolari, Torre Spaccata-via dei Romanisti e Subaugusta. In mezzo a questi realtà molto intensiva sorgerà la centralità che è una eredità del vecchio Sdo. Noi abbiamo ridotto e vincolato le funzioni che dovranno secondo me dialogare con i due grandi poli vicini: l’università di Tor Vergata e Cinecittà, con un museo dell’audiovisivo e quello del cinema. Lì si potrebbe insediare il Dams di Tor Vergata ed anche residenze per studenti. L’opportunità, con la realizzazione della centralità, è ottenere dai proprietari dell’area (la società Quadrante) circa metà del parco di Centocelle, un parco che - per quel che riguarda l’area già espropriata - verrà inaugurato fra aprile e maggio.
Passiamo alla questione dell’edilizia residenziale pubblica?
Il Prg ha individuato le aree, il Comune poi deciderà quanti dei 7000 alloggi previsti saranno edilizia sovvenzionata dal Comune e dall’Ater e quanti saranno invece gli alloggi delle case in cooperativa.
In che proporzioni?
Siamo in fase di discussione, si parte da un minimo del 30 per cento per l’edilizia sovvenzionata, stabilito dalla delibera sulla casa votata l’estate scorsa.
Quali sono le aree ?
I piani di zona futuri sono individutai su aree edificabili previste dal Prg, per ridurre l’impatto su aree agricole e di verde pubblico.
Sembra una grande novità, ma il comune pagherà a prezzi di mercato?
Pagheremo a prezzi di mercato. Anche se è chiaro che ormai la politica della casa non si può fare con il solo strumento invecchiato della 167. Con l’assessore al Patrimonio Minelli abbiamo concordato in 15 aree cambi di destinazione d’uso per ottenere alloggi di edilizia pubblica in cambio delle varianti ottenute dai proprietari delle aree. Un altro strumento è il ripristino del buono casa da parte del governo nazionale. C’è la vendita del patrimonio immobiliare del comune e c’è un quinto strumento previsto dal Prg. Bisogna unire la politica della casa e la riqualificazione della periferia: con gli interventi di ristrutturazione urbanistica si portano servizi, si fanno operazioni di demolizione e ricostruzione, si valorizzano aree oggi dismesse e degradate. È chiaro che così il valore immobiliare delle aree cresce e qui interviene un patto fra costruttori e amministratori. Una parte delle aree resta ai proprietari l’altra viene ceduta. Noi finora abbiamo usato questo strumento per le compensazioni che ci hanno consentito di realizzare i parchi (nel Prg sono previsti i tre nuovi parchi agricoli comunali di Casal del Marmo, di Arrone Galeria e di Rocca Cencia) ma nell’arco di due anni l’amministrazione potrà “spendere” questa riserva di edificabilità per l’edilizia pubblica.
Veniamo alle richieste di An e al declassamento di Corviale dalla città storica.
Questi complessi popolari unitari che Alemanno chiama «collettivisti» restano nella carta delle qualità e nella città consolidata.
Ma la carta delle qualità quanto tutela, le famose torri di Ligini sono in quella Carta...
È uno strumento importante perché l’Amministrazione se deroga e demolisce deve avere delle motivazioni fortissime. La carta delle qualità è uno strumento che potenzialmente può portare a un vincolo da parte delle soprintendenze. E non riguarda solo Corviale ma anche le borgate degli anni Trenta, Primavalle, Quarticciolo , Trullo, Acilia. D’altra parte gli incentivi volti alle operazioni di demolizione-ricostruzione ritengo che vadano indirizzati al vero «brutto» della città, l’edilizia privata a carattere intensivo realizzata fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta nei grandi quartieri popolari come Marconi, Tiburtino, Tuscolano, Prenestino.
eddyburg.it
Non c’è più alibi
di Paolo Berdini
L’approvazione del nuovo piano regolatore di Roma toglie finalmente alibi alla grande operazione mediatica cui siamo da qualche anno sottoposti. E ci sarà spazio per ragionamenti più distaccati. Anche nell’intervista dell’assessore all’Urbanistica all’Unità di oggi ricorre sempre l’immagine di una città che migliorerà il suo assetto grazie al nuovo piano. Rispetto molto questo atteggiamento ottimistico. Faccio solo notare che esso è quanto meno fuori luogo per un motivo e per un’esplicita ammissione.
Il motivo che non consente ottimismi di facciata sta nel fatto che l’approvazione di questa sera è solo un suggello formale. In realtà dei 65 milioni di metri cubi previsti (una quantità mostruosa e di cui non si mai dimostrata la necessità) almeno 50 milioni (e cioè il 75%) è già stato realizzato o è in corso di realizzazione. Nessun osservatore della realtà romana sostiene che la città sia migliorata da quando è stata sottoposta a questa sconsiderata cura di cemento, tutti dicono che la città è oggettivamente peggiorata. Come si fa allora ad evocare un futuro radioso quando la realtà, proprio in virtù dell’attuazione del piano, afferma l’esatto contrario?
Nell’intervista si afferma poi che nelle “centralità” verranno trasferite importanti funzioni dello Stato ed in questo modo si riqualificherà la periferia. Attendiamo fiduciosi e ci limitiamo a riportare una parte della relazione alle controdeduzioni dell’assessore Morassut dove implicitamente si denuncia il fallimento dell’urbanistica romana per aver fondato tutte le speranze per una città migliore sulle magnifiche sorti e progressive del mercato.
A pagina 16 della relazione che verrà approvata questa sera si legge infatti: “Dall’adozione del Prg, sono stati presentati gli schemi di assetto preliminare per diverse “centralità da pianificare”. L’istruttoria predisposta dagli uffici comunali ha evidenziato da un lato le difficoltà da parte dei progetti presentati a garantire la subordinazione alla preventiva e contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie; mentre dall’altro lato, ha evidenziato una tendenza ad impoverire il contenuto di servizi ed attrezzature delle centralità a scapito delle funzioni più solvibili sul mercato immobiliare (residenze e attrezzature commerciali)”.
Si confessa insomma che le centralità definite nel Prg non sono collegate dalla rete del ferro e che i privati intendono costruire residenze e supermercati infischiandosene delle altre funzioni “non solvibili”. Gli apprendisti stregoni si accorgono che il tanto mitizzato mercato fa i suoi interessi. Se ne accorgono, ma continuano a parlare di “allargare la base produttiva della città in un patto chiaro col mondo dell’economia”: dove la base produttiva è quella del mattone, e il patto è con i Ricucci.
Alcuni particolari significativi. Si sottolinea che si porterà qualità attraverso la “realizzazione di campus universitari”: ma non si tratta di campus, sono soltanto alloggi per studenti. Si afferma che la legge 167è uno strumento invecchiato” e che le aree perl’edilizia pubblica sarà pagata “a prezzi di mercato”, e concordando in 15 aree cambi di destinazione d’uso per ottenere alloggi di edilizia pubblica in cambio delle varianti ottenute dai proprietari delle aree”!.
Una postilla. Alleanza nazionale ha ritirato centinaia di emendamenti in cambio dell’accettazione di qualche localizzazione di edilizia residenziale pubblica e di un gravissimo cedimento culturale cui allude la stessa intervista (ma a cui non viene fornita convincente risposta). E’ stata infatti accettata l’ipotesi che alcuni interventi di edilizia residenziale pubblica degli anni ’80 (in particolare Corviale, ma si chiede la testa anche del Casilino di Quaroni) siano da demolire. La risposta di alla domanda della giornalista de l’Unità si riferisce infatti alla “carta delle qualità”, che è un mero elaborato d’analisi e che non comporta alcun vincolo. Significa dare una risposta possibilista a un’offensiva “culturale” dei neofascisti, finalizzata a mettere sul banco degli accusati lo stesso concetto di modernità. Si può certo discutere la qualità dell’esito di alcuni di questo interventi. Ma se si dimentica il contesto in cui questi interventi sono stati ideati e realizzati e si accetta che debbano essere demoliti, si compie un’operazione di revisionismo storico. Ed è grave che un’amministrazione progressista abbia accettato di mettere in discussione i valori e le esperienze che hanno segnato l’intervento residenziale pubblico nel momento più alto del dopoguerra.
Caro Eddyburg,
a Roma si sta approvando il nuovo Piano Regolatore che prevede 70 milioni di nuovi metri cubi di cemento. I giornali sono un plebiscito mediatico a favore di Veltroni, che ha il consenso dei poteri forti e anche della destra. Delle proteste dei cittadini, che vogliono una città più umana e impedire che essa si saldi alla provincia con un'unica colata di cemento, pochissimi ne danno notizia.
Ti chiediamo di aiutarci e se puoi, pubblicare questo appello che abbiamo inviato a Veltroni e soci.
Con stima,
Qui sotto la lettera aperta e le firme dei Comitati di quartiere. Una documentazione sugli errori gravi del PRG di Roma è nella cartella dedicata a Città oggi: Roma , in particolare negli scritti del 2004 e dei primi mesi del 2005
LETTERA APERTA AL SINDACO
E A TUTTE LE ISTITUZIONI CAPITOLINE
Egregi,
come comitati ed associazioni esprimiamo la voce della cittadinanza dell'estrema periferia Sud-Orientale di Roma.
I nostri quartieri, con l'abusivismo prima e i generosi permessi di costruire degli uffici comunali dopo, sono rimasti senza più aree libere e pubbliche, protesi a "saldarsi" coi quartieri limitrofi e la provincia. Le ovvie conseguenze sono il collasso viario, la carenza atavica di servizi a fronte di un'utenza ingigantita, i livelli illegali di smog e decibel (Legambiente - marzo 2005; ARPA - dicembre 2005), per cui il Comune non usa provvedimenti, come per la città interna al G.R.A.. Inoltre la concentrazione in zona Pantano-Laghetto e Rocca Cencia di poli industriali-commerciali, del deposito AMA, e di cantieri edili intensifica il traffico pesante sulla Casilina e sulle vie limitrofe senza marciapiedi e sicurezza alcuna per i pedoni.
Da fonti ufficiali, nel 2000 la zona Finocchio-Borghesiana contava 38.500 residenti. Il censimento del 2001 registrò per il medesimo quadrante l'incremento demografico (+6%) ed edilizio (+20%) più alto della città, rispetto al '91. Considerato che dal 2000 l'edilizia romana gode di un'espansione senza precedenti (fatturati quattro volte la media del pil nazionale: dati ANCE; 90.000 abitazioni costruite: dati CRESME) e che l'VIII Municipio è tra i fiori all'occhiello di questo settore, possiamo realisticamente supporre che la popolazione di Finocchio-Borghesiana sia oggi (2006) alle soglie dei 50.000 abitanti (comunque transitori). Conosciamo il DM 1444/68 che obbliga i COMUNI a garantire un minimo di 9 mq di verde pubblico attrezzato per abitante. In base a ciò nella nostra zona si dovrebbe disporre di almeno 45 ettari di verde pubblico.
Il nuovo Piano Regolatore secondo i suoi redattori doterebbe ogni municipio di oltre 13 mq/ab di verde e noi, sprovvisti di neppure un ettaro di verde, attendevamo con ansia i benefici annunciati. Ma esso, in barba a quanto pubblicato, nell'unica area del nostro quadrante salvata dalla speculazione, attorno via di Rocca Cencia, decide di edificare un NUOVO QUARTIERE di oltre 2000 persone ed un enorme POLO INDUSTRIALE-ARTIGIANALE; senza contare l'altro MOSTRO previsto nelle immediate vicinanze: il deposito Graniti della ferrovia, completamente progettato in superficie.
Vogliamo che ci dimostriate come si possono inserire simili opere in un quadrante così compromesso, senza peggiorarne oltremodo il collasso e il già illegale inquinamento!
Convinti che la volontà di un'amministrazione sia quella di migliorare, giammai peggiorare la vita dei cittadini, chiediamo la cancellazione delle citate previsioni, e l'istituzione in loro vece del PARCO DI ROCCA CENCIA, di cui rappresentiamo il Comitato Promotore.
Il parco oltre a ridare ossigeno ai cittadini, salverebbe dall'assedio e da panorami inquietanti le limitrofe bellezze superstiti di Pantano Borghese e Gabii.
La nostra richiesta è uleriormente legittimata dalla presenza nell'area di reperti di massima importanza come l'Acquedotto Alessandrino, la via Cavona, ville e villaggi d'epoca romana ecc. (prot. Soprintendenza N° 33757 del 28/12/2005; libro "Collatia" di Lorenzo Quilici), che andrebbero distrutti. Altresì, l'Acea Ato 2 ci ha dato conferma della presenza di vincoli di falda idrica "dell'Acqua Vergine".
Siamo certi che prevarrà il buonsenso e l'ascolto delle esigenze dei cittadini, piuttosto che l'interesse di pochi, che tanti spazi per la socialità e il verde hanno già sottratto. Ci auguriamo che possiate favorire in Consiglio Comunale il passaggio di un maxi-emendamento teso a migliorare dal punto di vista ambientale e qualitativo il nuovo Prg, e che contenga tra i suoi punti fondamentali l'ISTITUZIONE DEL PARCO DI ROCCA CENCIA, contestualmente alla CANCELLAZIONE DEL PIANO DI ZONA C-25 BORGHESIANA PANTANO e del PIANO INTEGRATO con destinazione ARTIGIANALE.
In caso contrario saremo costretti ad agire con quanto la legge ci mette a disposizione per tutelare i nostri diritti di cittadini.
Cordiali saluti.
Comitato Promotore per il Parco di Rocca Cencia
Via Casilina 1856, 00132 Roma;
fax: 0620763117; web: http://casilina18.free.fr A questo appello aderiscono tutte le seguenti Associazioni e Comitati che fanno capo al Coordinamento Romambiente
Ananke
Associazione degli abitanti del Villaggio Olimpico ADAVO
Associazione Ex Lavanderia
Associazione Fleming-Vigna Clara per la Mobilità
Associazione Hermes 2000
Associazione Il Parco (Spinaceto)
Associazione Ottavo Colle
ATAVIFE (Quartiere Parioli)
Balduina per il Pineto
Comitato "Antonio Cederna" per Tormarancia
Comitato Cittadino per il XX Municipio
Comitato Cittadino Pietralata-Tiburtino
Comitato Colle della Strega
Comitato della Collina di Pietralata -Area Pertini
Comitato di Quartiere Casilina 18
Comitato di Quartiere Collina Lanciani
Comitato di Quartiere di Torrespaccata
Comitato di Quartiere Ottavia
Comitato di Quartiere per la Difesa del Parco di Feronia
Comitato di Quartiere Pigneto - Prenestino
Comitato Parco della Caffarella
Comitato Parco delle Betulle
Comitato Parco delle Sabine
Comitato Promotore Parco di Veio
Comitato Quartiere Valli Conca d'Oro
Comitato Vitinia
Comunità Territoriale X Municipio
Coordinamento Comitati Quinto Municipio
Nuovo Comitato Quartiere Magliana
Occupiamoci di…..
Parco Aguzzano
Parco Monte Mario Insugherata
Radici
Certo il Prg non è intangibile, può essere perfezionato e prevede tra l'altro (articolo 11) l'integrazione a scala metropolitana del sistema urbano di Napoli. È assurdo invece che dopo anni di dibattito politico e culturale nelle sedi appropriate e di battaglie per raggiungere l'approvazione da parte del Consiglio comunale, lo si voglia subito revisionare in peggio invece di perseguirne l'attuazione. Peraltro gli attacchi al Prg non vengono dai costruttori, ma da alcune forze politiche, anche del centrosinistra, e soprattutto da alcuni architetti, che pur esprimendo legittime opinioni non si avvedono di incorrere nel conflitto di interesse per la presenza degli interessi professionali nelle proposte di costruzione di nuova edilizia nel centro storico e di conseguenti varianti urbanistiche, che devono invece essere dettate dall'interesse pubblico. L'ultimo attacco frontale al Prg, apparso su "Repubblica" di domenica scorsa, proviene dall'architetto Giulio Pane, dal quale ci si attendeva posizioni rispettose dei valori naturalistici, paesaggistici e ambientali. Invece, mentre critica la realizzazione del porto canale a Bagnoli — avversato anche da Italia Nostra e da altre associazioni ambientaliste — propone alternative all'attuale destinazione penitenziaria di Nisida che finora ha salvaguardato l'isola dalla cementificazione (Alessandra Mussolini, candidata sindaco nel 1993, prometteva la costruzione di un casinò). In altri suoi interventi Pane ha sostenuto che anche il porto turistico va realizzato a Nisida, vanificando così con l'inquinamento marino e atmosferico la riappropriazione del mare da parte dei napoletani. Sempre a proposito del Prg egli esprime poi l'accusa di una "camicia di Nesso"o dell'"ingessamento" più volte ripetuta da certi politici. È bene chiarire per i non addetti ai lavori che tali definizioni si riferiscono ai vincoli del Prg, soprattutto per quanto concerne il centro storico, dove alcuni architetti auspicano, invece del sancito restauro conservativo,la sostituzione del tessuto edilizio storico. Insomma la speculazione edilizia. Non a caso Pane si riferisce spesso al "centro antico" invece che al centro storico: ciò sottende la nota, anacronistica posizione che prevedeva una qualche tutela per il nucleo più antico della città, mentre era consentita la demolizione e sostituzione edilizia nella Napoli costruita dal Cinquecento in poi determinando l'alterazione e il deturpamento irreversibile dell'unità ambientale e architettonica del centro storico.
La novità in assoluto del dibattito in corso è costituita invece dalla consapevolezza degli ambienti imprenditoriali cittadini più seri e moderni (un tempo attestati su posizioni opposte a quelle di Italia Nostra) della validità delle scelte urbanistiche e specificamente della strategia del Prg, di cui la città è riuscita a dotarsi. Tale strategia è basata sul fermo equilibrio tra due esigenze: quella di arricchire la dotazione cittadina di beni pubblici (ad esempio il sistema di aree verdi), di tutelare rigorosamente il centro storico (patrimonio dell'umanità nella mappa dei siti protetti dall'Unesco), e nel contempo l'esigenza di promuovere regole e procedure trasparenti e certe. È significativa al riguardo la dichiarazione, rilasciata su "Repubblica" del 5 marzo, dell'imprenditrice Marilù Faraone Mennella (e sulle stesse posizione sono anche i vertici dell'Acen), che così definisce il Prg: «Lo strumento che gli imprenditori napoletani aspettavano. Non una piattaforma ad personam o per interessi precostituiti, ma che crea davvero pari opportunità e le mette a disposizione di chi ha voglia di rimboccarsi le maniche e investire».
PADOVA. Chi si rivede: l’architetto Alberto Arvalli, socio di Luigi Endrizzi in mille e una progettazione, da Padova Est a Veneto City. E l’ingegner Tommaso Riccoboni, che faceva l’assessore comunale quando servivano i permessi per l’Ikea a Padova Est.
E poi, non rieletto nel 2004, si è messo nell’avventura di Veneto City tenendo i collegamenti con la Regione. E negando di farlo, chissà perché (dov’era il problema?). Adesso i due presentano insieme il progetto di una «Lottizzazione area termale di Battaglia Terme», che detto così non significa nulla. Proviamo a tradurre: edifici per 90.000 metri cubi nelle Valli Selvatiche, una piana rimasta libera da 400 anni, irraggiungibile senza una camionabile che taglierà a metà il giardino di Villa Selvatico progettato da Giuseppe Jappelli nel 1816. Anche la strada si dovrà fare.
Gli ispiratori. Sarà perché Arvalli comincia come Alvar Aalto, ma uno si aspetterebbe di ritrovare nel progettazione qualcosa che ricordi il famoso architetto finlandese. Un tratto nuovo, invenzioni, stupore. Caschiamo male, cari. Arvalli ha due lauree e in lui si combattono due professionisti: l’architetto e l’ingegnere. Purtroppo vince sempre l’ingegnere. D’altra parte il suo committente è l’Immobiliare San Carlo il cui titolare, un geometra di Arcugnano, è conosciuto anche come l’Attila dei Colli Berici. Si sta spostando verso Est.
Il progetto. Prevede un tappeto di casermoni a tre piani, incastrati come i Lego, senza offesa per l’inventore del gioco. Presi uno a uno potrebbero essere capannoni di carrozzerie industriali con finestre di aerazione al terzo piano. Oppure un complesso di caserme per militari di leva, commissionato fuori tempo massimo. Colonie montane stile anni sessanta con alberelli di falsa pineta. Case popolari di un improbabile piano Fanfani anni 2000. Soggiorni per anziani con sfruttamento intensivo dello spazio, perché i vecchietti non hanno voglia di camminare. Perfino la Soprintendenza ha avuto un moto di ribrezzo e ha detto: signori, no, questo progetto non si può fare. Motivo: gli edifici si vedono anche da lontano (testuale!). Retropensiero: almeno fossero bassi, nascosti. Insomma, avete ideato una sconcezza.
Il terzo piano. Colpiti nell’orgoglio, gli impavidi progettisti hanno fatto finta di niente e stanno prendendo per il collo il Comune di Battaglia Terme (raccomandata del 6 febbraio 2006, per conoscenza alla Soprintendenza di Venezia) perché convochi la conferenza dei servizi, disposti perfino a tagliare il terzo piano se proprio non se ne potrà fare a meno. Ma se pensate che recupererebbero nell’interrato vi sbagliate: è già previsto. Vero è che potrebbero sempre spingersi a -2. Farà più fresco e si potranno tenere i salami (no, poca aria, farebbero la muffa; meglio il vino).
Altri protagonisti. Questa storia è piena di personaggi già visti. Uno è l’architetto Vicenzo Fabris, l’uomo che Tommaso Riccoboni voleva come rappresentante della Regione quando organizzava incontri pubblici su Veneto City, in quel di Dolo. Un altro è l’architetto Guglielmo Monti, l’austero capo della Soprintendenza del Veneto, che il 23 luglio 1993 con una lettera di 9 righe e mezza autorizzava l’attraversamento stradale del giardino di Villa Selvatico e adesso, con raccomandata dell’11 ottobre 2005, cerca disperatamente di fare marcia indietro. Poi c’è l’Ente Parco, nella persona del presidente Simone Campagnolo e del direttore Silvio Bartolomei, che hanno un ruolo centrale nella costruzione del falso (avete letto bene: un falso) avallato dalla Regione, sul quale si regge questa storia. Infine, nel ruolo di cantore del paesaggio veneto, c’è il presidente della giunta regionale Giancarlo Galan, aiutato dal portavoce Franco Miracco che anche l’altro ieri indicava le linee maestre del governo regionale ad un convegno intitolato «Restauro del paesaggio verso il terzo Veneto». Qualche prolusione in meno e qualche controllo in più sull’operato degli uffici non guasterebbero. Fuori campo, ma tutt’altro che fuori gioco, ci sono le associazioni degli ambientalisti che urlano allo scandalo dal 2003 e la procura della repubblica di Padova che ha aperto un’inchiesta (pm Roberto D’Angelo).
Il falso. Eccolo qua: «Negli intorni delle emergenze architettoniche, riconosciuti nella tavola di piano, è escluso ogni intervento che possa pregiudicare la loro leggibilità e riconoscibilità o il loro apprezzamento paesistico. In particolare ciò comporta (la conservazione dei grandi connotati naturali, delle masse arboree e degli spazi aperti, e) l’esclusione di interventi edilizi (e infrastrutturali di nuova costruzione od ampliamento di strutture esistenti, nonché di ogni intervento, anche agroforestale,) che modifichi significativamente l’aspetto visibile dei luoghi o il loro rapporto con le emergenze interessate».
Questo è l’articolo 33 secondo comma del piano ambientale del Parco. Le parti messe tra parentesi in corsivo sono omesse. Per far correre il discorso, il verbo modifichi diventa modifichino. Chi fa l’operazione è il direttore del Parco Silvio Bartolomei, in un lettera spedita in Regione (Direzione urbanistica e beni ambientali) il 13 gennaio 2004, per attestare la compatibilità della variante adottata dal Comune di Battaglia con il piano ambientale del Parco.
Il risultato. Ne consegue che dove non si poteva piantare un albero, si possono tirare su 90.000 metri cubi di cemento. Non solo: lo strappo funziona a cascata per tutti gli intorni delle emergenze architettoniche, come sono definite le ville storiche. Gli ambientalisti parlano di «abbellimenti al paesaggio» in corso un po’ dovunque: un villaggio turistico con 50.000 metri cubi attorno a Villa Emo Maldura, a Rivella; costruzioni per 25.000 metri cubi addosso alla villa del Catajo, sempre a Battaglia Terme; un palazzetto dello sport nell’intorno di villa Lugli, a Bresseo di Teolo.
Jappelli Street. Il giardino di Villa Selvatico, attraverso cui dovrebbe passare la strada per arrivare alla lottizzazione (altro modo non c’è) è una pertinenza protetta da un secondo articolo del piano ambientale, il 32, comma 9, che consente solo «la manutenzione, il restauro e il risanamento conservativo, statico ed architettonico, filologicamente guidato ed eseguito con materiali tradizionali». Ci vuole un professore con il camice e i guanti bianchi. Altro che la ruspa. Se n’è reso conto anche il soprintendente Monti, che vuole conoscere «l’ingombro e l’esatto tracciato» della strada «perché la nuova viabilità non potrà interferire con l’ambito vincolato di Villa Selvatico». Ma Arvalli, riassumiamo con parole nostre, gli ha risposto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, io non mi scordo il passato. Allude all’autorizzazione del 1993. Ha torto?
Nel panorama nazionale, l’urbanistica è pressoché scomparsa e molti comuni si contendono il primato nell'uso sistematico degli strumenti della deroga che permettono di approvare senza alcuna coerenza complessiva progetti, i quali, dal punto di vista economico, rappresentano un grande premio alla rendita immobiliare. Il caso che ci accingiamo a descrivere riguarda Roma: è la vicenda dell'autoporto sud della cittàLa narrazione deve necessariamente iniziare dal piano regolatore di Roma approvato nel 1965, che ha rappresentato il disegno dell’assetto futuro della città per quarant’anni, fino al nuovo piano regolatore adottato dal comune di Roma nel marzo 2003. Quel piano prevedeva che a sud di Roma, lungo l’autostrada che collega con l’aeroporto di Fiumicino -realizzato alla metà degli anno ’50- doveva sorgere l’autoporto sud, e cioè uno dei centri di scambio intermodale delle merci in arrivo nella capitale. Il luogo prescelto era localizzato a Ponte Galeria, piccola località alla confluenza con l’autostrada per Civitavecchia-Livorno: l’estensione dell’area prescelta era di circa 150 ettari.
Trent’anni dopo, durante tangentopoli su quei terreni viene sperimentata la nuova urbanistica caratterizzata dall’assoluta arbitrarietà della destinazione d’uso rispetto a quella prevista dagli strumenti urbanistici. E’ la proprietà immobiliare a decidere la destinazione più consona alle proprie convenienze: l’amministrazione pubblica deve soltanto mettere il timbro. L’area è di una società nota e qualificata, la Lamaro, che forzando le normative realizza un edificio per uffici e un grande numero di capannoni commerciali. Nulla a che vedere, dunque, con il previsto autoporto.
Siamo nel 1991. I manufatti vengono sequestrati dalla magistratura e si apre un processo che non avrà alcun esito. Nel 1995, passata la speranza rappresentata da Mani pulite, la giunta comunale di Roma, sindaco Francesco Rutelli, permette l’apertura di un polo commerciale, denominato Commercity. Il valore di quei terreni subisce una seconda –enorme- rivalutazione economica. Non solo. Il quadrante urbano in cui inizia ad operare la nuova struttura è tra i più accessibili e pregiati di Roma: è inevitabile che a quella lacerazione ne seguano altre.
Nel 2001, sindaco Francesco Rutelli, iniziano a trapelare sulla stampa le prime indiscrezioni sulla volontà del comune di Roma di localizzare sui terreni residui di Commercity e su altri a limitrofi, la nuova Fiera di Roma. Ma l’annuncio della decisione non avviene attraverso le procedure urbanistiche, anche se proprio in quel periodo la nuova variante di piano è sostanzialmente definita. L’annuncio della decisione di localizzare su altri 223 ettari di territorio la struttura fieristica romana viene comunicato agli inizi di marzo del 2003, e cioè due settimane prima del voto di adozione del nuovo piano da parte del Consiglio comunale di Roma, alla Fiera immobiliare Mipim che ogni anno si svolge a Cannes, un incontro del grande capitale internazionale alla ricerca di affari. E’ con l’amministrazione guidata da Walter Veltroni che il comune di Roma inizia ad essere sistematicamente presente alla “fiera della speculazione immobiliare”. Una decisione coerente con il pilastro teorico del nuovo piano che nelle relazioni di accompagnamento viene apertamente definito come il “piano delle offerte”.
La variante circoscritta alle aree della nuova Fiera viene anticipata rispetto all’iter amministrativo del nuovo Prg e perfezionata attraverso lo strumento dell’accordo di programma: da notare che insieme alla struttura fieristica verrà realizzato un nuovo quartiere residenziale di circa milione di metri cubi. La sottoscrizione dell’accordo di programma da parte della Regione Lazio avviene agli inizi del 2004. Pochi mesi dopo iniziano i lavori di costruzione.
Un altro gigantesco regalo alla rendita immobiliare
Ma fin qui, come dicevamo, siamo nella prassi canonica dell’urbanistica contrattata: i terreni cambiano destinazione d’uso in relazione alla volontà della proprietà fondiaria. Ma c’è un fatto nuovo e inquietante, e cioè il ruolo della Regione Lazio di Francesco Storace: nel febbraio 2002 -in una data in cui non è ancora concluso l’iter della variante che localizza la Fiera nei terreni dell’Autorporto- l’amministrazione regionale stipula con il comune di Fiumicino (anch’esso guidato da una giunta di centro destra) un accordo di programma che individua in 160 ettari di terreno agricolo, localizzati a meno di un chilometro dall’originaria previsione del piano del 1965, un nuovo autoporto.
Riassumiamo. I vecchi terreni dell’autoporto erano stati trasformati negli anni ‘90 in un centro per il commercio. Sulla base di questa preesistenza, nel 2004 viene variato il piano urbanistico per prevedere la nuova Fiera di Roma. Il comune di Fiumicino due anni prima, con l’esplicito consenso dell’ente Regione che dovrebbe teoricamente vigilare sul rigoroso rispetto delle attuazioni previste dai piani regolatori comunali, trasforma 160 ettari di campagna in un autoporto nuovo di zecca.
Un giro di rivalutazione economica di qualche milione di euro a vantaggio della rendita immobiliare. Un rapido calcolo. La valutazione di un terreno agricolo in quel quadrante non supera 20 euro al metro quadrato: il terreno del nuovo autoporto valeva dunque inizialmente 32 milioni di euro. Il cambiamento di destinazione d’uso porta il valore unitario a almeno 100 euro al metro quadrato: il terreno viene dunque portato ad un valore di circa 160 milioni di euro. Ecco il vero volto dell’urbanistica contrattata.
POST SCRIPTUM
Dopo che l'articolo era andato in stampa sono venuto in possesso del parere di Aeroporti di Roma sulla proposta di realizzazione del nuovo interporto.Le aree del nuovo autoporto, infatti, sono confinanti con l'aeroporto Leonardo da Vinci. Il parere era negativo poiché -si affermava - le aree in questione servivano per la programmata realizzazione dellla quarta pista dell'aeroporto internazionale. Nonostante questo parere, Regione Lazio e comune di Fiumicino si sono affrettate a chiudere l'accordo di programma! In questi giorni a Roma si parla insistentemente della necessità del potenziamento degli aeroporti di Ciampino e dell'Urbe. Il primo verrebbe utilizzato da compagnie low cost; il secondo da voli esclusivi. Questi due aeroporti si trovano in ambiti urbani densamente abitati e, specie a Ciampino, ci sono continue proteste per il rumore da parte dei residenti. Quando le loro condizioni di vita peggioreranno, potranno almeno ringraziare la banda degli speculatori e i pifferai della "nuova" urbanistica.
Il declino dell'Italia non è inevitabile. E' vero: i più recenti dati sulla crescita economica nazionale confermano una linea di tendenza modesta. In assoluto, e anche se si fa un raffronto col resto d'Europa. Ma la strada imboccata non è inesorabilmente in discesa. Le possibilità di andare avanti, di riprendere a crescere, il nostro Paese le ha tutte. E ci sono realtà che in questi anni, nonostante uno scenario nazionale «stanco», lo hanno dimostrato.
Lo dico senza alcuna presunzione, ma con il giusto orgoglio: Roma è una parte importante di queste realtà, la principale. E' la più grande area metropolitana italiana e da sola, secondo le stime del Censis, produce il 6,5% del pil. Nel 2004 è cresciuta del 4,1% contro l'1,3% nazionale. E anche i segnali congiunturali più recenti continuano a essere positivi: l'ultima indagine dell'Isae sottolinea quanto stia crescendo il clima di fiducia degli imprenditori, passato nel terzo trimestre del 2005 dall'89,4 al 98,1. In quattro anni poi, e questo lo dice l'Istat, l'occupazione è cresciuta di 145 mila unità, il 10,3% in più, contro il 3,7% a livello nazionale. Il tasso di occupazione è cresciuto di 5,7 punti, mentre in Italia di 1,4 punti: è del 48,3%, contro una media nazionale del 45,4%. Di questi risultati, peraltro, protagoniste decisive sono le donne: tra il 2001 e il 2004 la crescita dell'occupazione è aumentata, per quanto le riguarda, del 17%, contro una media del 5,3%. E l'imprenditoria femminile è passata, nello stesso periodo, da 144.742 a 154.306 unità, vale a dire il 6,6% in più.
Questi sono i dati. A spiegarli c'è un lavoro, c'è una visione della città e del suo futuro, ci sono alcuni fattori che vorrei provare a riassumere. Parto da un modo di procedere che a Roma in questi anni è stato una costante. Tutti i risultati che abbiamo raggiunto sono la conseguenza di una comune assunzione di responsabilità, di una capacità di programmazione e di concertazione. Pubblico e privato insieme, con l'Amministrazione che definisce un'agenda, che dà garanzie e certezze negli obiettivi e nei tempi, e con le energie di cui sono ricche l'economia e la società romana: imprenditori, istituzioni, associazioni, centri di ricerca e formazione, rappresentanti dei lavoratori. E' il metodo che abbiamo seguito insieme con un principio: non c'è vero sviluppo senza qualità sociale, una città, una comunità, non cresce davvero se di essa cresce solo una parte o un solo settore.
E poi, certo, c'è stata la capacità di compiere scelte chiare, precise. Roma ha avviato un importante ciclo di investimenti in infrastrutture su cui ha convogliato risorse finanziarie per 6 miliardi di euro. Risorse non solo pubbliche, perché anche i privati sono stati coinvolti, ad esempio, in vasti programmi di riqualificazione urbana, dedicati in particolare alle periferie della città, che hanno visto una forte partecipazione dei cittadini stessi. Con lo stesso metodo si sono realizzate opere come il Centro agroalimentare o l'Auditorium, il Passante a nord-ovest o la nuova Fiera di Roma, che sarà inaugurata ad aprile, così come i passi che stiamo compiendo per l'Alta velocità e per la nuova rete di metropolitane.
Secondo fattore è l'investimento nell'inclusione sociale. Se in cinque anni abbiamo aumentato del 63% i posti negli asili nido, se migliaia di anziani sono seguiti ogni giorno grazie alla teleassistenza e se le famiglie che hanno al loro interno un ragazzo disabile sanno di poter contare su una fondazione chiamata «Dopo di noi», è perché ad animarci è l'idea di un nuovo welfare
locale, assai lontano dal vecchio assistenzialismo. Non più uno Stato che elargisce dall'alto, ma una welfare community, dove le risorse della società civile, di tanti volontari e associazioni, delle stesse famiglie, disegnano una rete in cui la cura dei bisogni va di pari passo con nuove tutele a favore dell'ingresso nel mondo del lavoro e della stabilizzazione degli impieghi. Terzo fattore: Roma e il suo sistema produttivo hanno risposto con la prontezza e la fiducia ai momenti più difficili di questi anni, moltiplicando gli sforzi di promozione, non abbassando la guardia sulla difesa della principale attrattività di Roma, quella legata alla cultura, al turismo. Se nel 2005 siamo arrivati al massimo storico di 16 milioni e mezzo di presenze turistiche, è anche perché oggi a Roma non si viene più soltanto per ammirare le sue bellezze artistiche e archeologiche, ma anche per i grandi eventi, per i concerti, per le mostre, per il ritorno della grande architettura contemporanea: la nostra città sta assumendo un volto nuovo, con l'Auditorium di Renzo Piano, il Polo culturale e multimediale di Rem Koohlaas negli ex Mercati generali, il Macro di Odile Decq, il Centro congressi di Massimiliano Fuksas, l'Ara pacis di Richard Meyer.
Quarto fattore della crescita di Roma è la scelta della diversificazione. La nostra competitività è più forte anche perché sempre più Roma ha una struttura produttiva diversificata, perché possiamo contare sulla forza del terziario avanzato, del settore della comunicazione, dell'audiovisivo e del cinema, sull'editoria, sull'informatica e sulle nuove tecnologie, sulla ricerca. Proprio sull'università abbiamo puntato come motore dello sviluppo locale, favorendo programmi di rilocalizzazione e di ampliamento, per il trasferimento tecnologico e per l'eccellenza formativa. E grazie anche all'investimento da parte dell'Inail di 500 milioni, diventeranno presto realtà i nuovi grandi campus universitari di Tor Vergata, Pietralata e Acilia. Ecco: i risultati di questi anni sono venuti da questa visione della città. E d'altra parte è all'Italia intera che ho sempre pensato in questo modo: un'unione di storia e di modernità, di antica cultura e di innovazione, di capacità della nostra società e della nostra economia a pensare il mondo e il futuro. Dobbiamo guardare avanti per non perdere l'appuntamento con i più importanti obiettivi di interesse nazionale. Perché l'Italia ritrovi fiducia e voglia di fare, di cercare, di intraprendere.
Sarebbe interessante conoscere, oltre ai dati celebrati dal Sindaco di Roma, anche il contributo che all’incremento del PIL è dato dalle attività immobiliari, e l’incentivo offerto allo “sviluppo” della rendita dal nuovo PRG e dalle variazioni in aumento che la Giunta sta promuovendo.
In queste settimane si registrano (trovando poca eco sulla stampa) le protesta di moltissime associazioni e comitati di cittadini che, in molti municipi, stanno contestando le “compensazioni” che aumentano le cubature edificabili (attraverso i Programmi di recupero urbano) rispetto a quelle, gia esageratamente eccessive, del PRG adottato
L’immagine in apertura dell’articolo, che riportiamo qui sotto, è stata diffusa via e-mail da uno di questi comitati. Essa è accompagnata dallo slogan:
centro sinistra +
centro destra =
centro commerciale .
Davide Sfragano
Rifondazione: troppo cemento, non votiamo
L’Unità
NON È PROPRIO PIACIUTA al partito della Rifondazione comunista e a Legambiente Lazio, ma anche ad altre associazioni ambientaliste, la delibera, inserita nei cosiddetti «Progetti speciali», proposta dall'assessore al Patrimonio Claudio Minelli e approvata
lunedì dal consiglio comunale. La delibera prevede, in cambio della realizzazione della nuova sede del Municipio XX la modifica della destinazione d'uso di un ex albergo sito in Via Flaminia km 8,5 e l'ulteriore realizzazione di 80mila metri cubi a destinazione residenziale, in un'area sita nel Municipio XII. Tanto che ieri il capogruppo del Prc in Campidoglio, Patrizia Sentinelli, ha annunciato che «il cammino per l'approvazione definitiva del Prg è ormai pregiudicato», e che «la delibera deve essere bloccata per recuperare il lavoro per l'approvazione definitiva del piano». Un altolà cui si è associato anche Mauro Veronesi, responsabile territorio e ambiente di Legambiente Lazio che ha aggiunto: «Il voto del consiglio comunale di lunedì, in relazione al progetto speciale proposto dall'assessore "all'Urbanistica creativa" Minelli, è semplicemente sconcertante. Chiediamo non solo di annullare tale delibera, ma di cassare tutti i progetti speciali incompatibili con il Prg adottato». Ma oltre all'oggetto della delibera, inoltre, al Prc non è piaciuto anche il metodo con cui la stessa è stata approvata. Ha spiegato a tal proposito la Sentinelli: «L'unica cosa che giustifica la delibera è la proprietà delle aree interessate. Evidentemente per qualcuno, anche per coloro che governano il Comune, il piano, le regole, danno fastidio, sono considerate un intralcio alla "modernizzazione della città". Così si preferiscono concessioni ad alcuni proprietari di aree scelte senza alcuna trasparenza e in modo discrezionale».
Critiche molto aspre, alle quali la reazione dei rappresentanti della giunta comunale non si è fatta attendere. In primis, il diretto interessato, l'assessore Minelli, che ha replicato: «La delibera in questione ha rispettato tutti i passaggi amministrativi e di confronto democratico, sia a livello centrale che a quello municipale. Sono state accolte gran parte delle proposte emendative avanzate in sede tecnica, di commissione consiliare e municipale». Poi, quella più distensiva dell'assessore all'Urbanistica Roberto Morassut: «Il percorso del nuovo Prg non è compromesso. La preoccupazione sul contenimento dei pesi e sulle regole è condivisa da tutta la maggioranza, e deve e può essere affrontata con misure accorte e ragionevoli. Perciò andremo avanti per cogliere questo obiettivo con la consueta ragionevolezza e tenendo conto di tutte le posizioni».
Carlo Alberto Bucci
"Così l´arte invaderà le periferie"
la Repubblica
Nel futuro delle periferie romane c´è il segno dell´arte contemporanea. Strettamente legato, sin dai primi disegni, al progetto architettonico. Sembra di essere tornati agli anni d´oro del Bauhaus, la scuola d´arte creata da Gropius a Weimar. Invece la novità è contenuta nel provvedimento, che sarà approvato nei prossimi giorni dalla giunta comunale, in base al quale tutte le tipologie di opere pubbliche a Roma saranno sottoposte alla legge del 2 per cento. Nata nel 1949, la 717 stabilisce di destinare almeno il 2% della spesa prevista a opere d´arte che abbelliscano l´edificio in costruzione. Rispetto alla norma nazionale, destinata ai palazzi (caserme, carceri o uffici postali), il piano capitolino estende l´apporto degli artisti ai parchi, alle piazze, alle strade e agli interventi di urbanizzazione. E stabilisce che pittori, scultori, fotografi o videomaker siano coinvolti sin dalle prime fasi dei progetti, soprattutto nei piani di recupero e riqualificazione delle periferie (articoli 11 e 2).
«Opere d´arte contemporanea non come lusso, ma elemento fondamentale della progettazione urbana. Insomma, una necessità della città», ha spiegato ieri Roberto Morassut, presentando in Campidoglio l´iniziativa. L´assessore all´Urbanistica ha ricordato anche l´inizio dei lavori per la trasformazione dell´ex Mattatoio al Testaccio in "Città delle arti". E ha annunciato la norma in base alla quale «gli studi d´artista saranno riconosciuti come tali dal nuovo piano regolatore generale». Così non sarà più "cambio di destinazione d´uso" l´adibire alla creazione artistica una parte, non superiore al 30%, della superficie della propria casa.
Tre gli obiettivi della delibera del 2%, secondo Walter Veltroni: «Migliorare la qualità dei progetti delle nostre opere pubbliche. Creare domanda d´arte contemporanea che coniughi l´intervento del pubblico e del privato. E - ha concluso il sindaco - liberare Roma dall´idea che il bello sia solo legato al passato di questa città».
La deliberazione comunale - che prevede il coinvolgimento dei giovani delle accademie di belle arti nei cantieri dal costo basso, compreso tra i 250 e 500mila euro - è nata in seguito al convegno del 2004 al Macro "Io arte, noi città". Ed è stata redatta con la consulenza di una commissione ad hoc composta da Bruno Civello (Miur) e Patrizia Ferri (Miur/Afam), Anna Maria Tatò del ministero delle Infrastrutture, Gaetano Castelli e Gabriele Simongini dell´Accademia di belle arti di Roma, Alfio Mongelli e Paolo Dorazio della Rome University of Fine Arts, Daniela Fonti della Sapienza, Manuela Crescentini dell´Archivio Crispolti e da Alberto Abruzzese.
Attraverso l´estensione e l´applicazione certa della legge del 2%, l´arte contemporanea potrebbe riacquistare una funzione attiva nel tessuto sociale. A scongiurare il pericolo che siano sempre i soliti noti a spartirsi gli 11milioni di euro per l´arte nelle periferie, il Comune metterà in campo una commissione composta da un artista, un critico e un urbanista. Sarà in carica per un solo anno e dovrà decidere della bontà di progetti artistici da far sposare a quelli architettonici.
La sentenza 51/2006 della Corte costituzionale
Ecco il testo integrale della sentenza con la quale la Consulta ha respinto i ricotsi presentati contro il vincolo di salvaguardia sulla fascia costiera (2000 metri di profondità) della costa della Sardegna
SENTENZA N. 51, ANNO 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
[omissis]
ha pronunciato la seguente SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 e 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 24 gennaio 2005, depositato in cancelleria il 2 febbraio 2005 ed iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2005.
Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna nonché gli atti di intervento della Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S.;
udito nell'udienza pubblica del 10 gennaio 2006 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Graziano Campus e Vincenzo Cerulli Irelli per la Regione Sardegna.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 24 gennaio 2005 e depositato il successivo 2 febbraio, il Presidente del Consiglio di ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004 n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), per contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con gli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché «con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e con l'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità).
2. – Il ricorrente rileva che, con la legge in questione, la Regione Sardegna ha provveduto a dettare norme urgenti per la salvaguardia del paesaggio, in funzione dei tempi occorrenti per l'approvazione, secondo modalità stabilite nello stesso provvedimento legislativo, di piani paesaggistici regionali, destinati a sostituire i precedenti piani territoriali paesistici, tredici dei quali, sul complessivo numero di quattordici per l'intero territorio regionale, annullati dal Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna ovvero, in sede di ricorso straordinario, dal Capo dello Stato.
Nel ricorso si premette che la Regione Sardegna vanterebbe, ai sensi degli articoli 3 e 4 dello Statuto speciale di autonomia, competenze primarie in materia di urbanistica ed edilizia, mentre, in relazione alla tutela paesaggistica, sarebbe vincolata dalle disposizioni statali in materia, ed in particolare dagli artt. 131 e seguenti del codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137).
Il ricorrente, inoltre, afferma che sarebbe profondamente mutata la originaria disciplina legislativa in tema di cosiddette “misure di salvaguardia”, poiché, «mentre per le aree assoggettate a vincolo ex lege l'articolo 1-quinquies della legge 31 agosto 1985» (recte: del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431 recante Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Integrazioni dell'art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616), «vietava “ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia”, “fino all'adozione da parte delle Regioni dei piani di cui all'articolo 1-bis”», l'articolo 159 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevederebbe invece «un particolare procedimento di autorizzazione in via transitoria “fino all'approvazione dei piani paesaggistici, ai sensi dell'articolo 156 ovvero ai sensi dell'articolo 143 e al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 145”».
Ancora, il ricorrente afferma che i contenuti dei piani territoriali paesaggistici (e le deroghe ivi previste secondo la legislazione regionale, di cui si lamenta la illegittimità costituzionale), riguarderebbero «la disciplina d'uso sia di beni paesaggistici individuati direttamente dalla “legge Galasso”, sia di vaste ed importanti aree, anche urbane e costiere, che erano state specificatamente individuate come “bellezze naturali”, da distinti, motivati e tuttora vigenti provvedimenti dell'amministrazione statale».
3. – In tale contesto, le norme contenute negli articoli 3, 4, commi 1 e 2 «e, per certi aspetti, nello stesso articolo 7» della legge regionale impugnata prevederebbero, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, «autonome e non coordinate misure di salvaguardia, comportanti il divieto di realizzare nuove opere, soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nelle zone costiere, ed esclusioni e deroghe di tale divieto» che risulterebbero, «in relazione alla disciplina generale statale, illogiche e manifestamente irragionevoli e, conseguentemente, in contrasto con gli articoli 3, 97 della Costituzione e con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio». I criteri adottati nelle norme censurate, infatti, non troverebbero giustificazione in alcuna valutazione paesaggistica; il fatto che una serie di interventi di modifica del territorio fossero accidentalmente previsti in piani urbanistici comunali o programmi di fabbricazione, ovvero finanziati da particolari soggetti pubblici sarebbe, sul piano della tutela paesaggistica, circostanza del tutto irrilevante «e tale da non giustificare o sorreggere razionalmente alcun divieto e/o deroga». Del tutto priva di logica sarebbe inoltre la possibilità di dar corso ad interventi ed opere, allorché le stesse «siano previste in piani urbanistici comunali che risultino adeguati a quei piani territoriali paesaggistici già dichiarati illegittimi dalla giurisprudenza amministrativa per contrasto con l'interesse pubblico relativo alla tutela paesaggistica e ambientale».
Del pari, la previsione di un divieto generale di realizzazione di nuove opere edilizie esteso a tutta la fascia costiera compresa nei duemila metri dalla linea di battigia, indipendentemente dalla sussistenza in concreto di un vincolo paesaggistico, finirebbe, ad avviso del ricorrente, per paralizzare senza alcuna plausibile ragione, «per tutto l'arco temporale della approvazione dei piani regionali paesaggistici, una serie di iniziative ed attività che, ai sensi della legislazione nazionale e regionale, devono considerarsi lecite, se non di interesse generale».
Infine, l'utilizzazione della legge regionale nella concreta cura dell'interesse paesaggistico, in particolare nell'apposizione di divieti generali e relative deroghe, costituirebbe «cattivo uso della discrezionalità amministrativa (art. 97 Cost.)», realizzando una «sostanziale ed immotivata deroga al principio, stabilito nella legislazione statale, per il quale l'interesse paesaggistico deve essere (soprattutto dall'autorità regionale delegata) valutato nel concreto».
Quanto, poi, alla disposizione di cui all'art. 8, comma 3, della legge impugnata – la quale vieta, fino all'approvazione del piano paesistico regionale, la realizzazione di impianti di produzione di energia eolica nell'intero territorio della Regione, ammettendo peraltro la prosecuzione dei lavori di realizzazione degli impianti già autorizzati solo nel caso in cui lo stato dei lavori stessi abbia già comportato una irreversibile modificazione dei luoghi e sottoponendo a procedura di valutazione d'impatto ambientale gli impianti già autorizzati in assenza della medesima (sempre che i lavori non abbiano comportato una irreversibile modificazione dello stato dei luoghi) – essa eccederebbe «dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d'autonomia, ponendosi in contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dei beni culturali».
Tale disposizione violerebbe, inoltre, l'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003, il quale prevede che le fonti energetiche rinnovabili «sono considerate di pubblica utilità con la conseguente dichiarazione di indifferibilità ed urgenza dei lavori necessari alla realizzazione degli impianti».
4. – Con atto depositato il 23 febbraio 2005 si è costituita in giudizio la Regione Sardegna, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato.
La Regione premette, in fatto, di aver esercitato la propria competenza legislativa esclusiva in materia di “edilizia ed urbanistica”, di cui all'art. 3, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, nonché di “governo del territorio”, dettando una disciplina volta a fronteggiare una situazione particolarmente grave ed urgente attraverso la salvaguardia del territorio e dell'ambiente per un periodo di tempo circoscritto, ossia fino all'approvazione del piano paesaggistico regionale di cui all'art. 135 del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvazione che – in base all'art. 1, comma 1, della legge impugnata – dovrebbe avvenire entro 12 mesi dalla entrata in vigore della medesima legge regionale.
La Regione ricostruisce in termini diversi rispetto al ricorrente il quadro delle competenze di cui si ritiene titolare: in base all'articolo 3, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, alla Regione spetterebbe una competenza legislativa di tipo “esclusivo” o “primario” in materia di “edilizia ed urbanistica”, onde ad essa non dovrebbe applicarsi il limite dei principi fondamentali della materia; inoltre, anche sulla base dell'orientamento della Corte costituzionale (sentenze n. 362 e n. 303 del 2003), secondo la quale «le materie edilizia ed urbanistica rientrano in quella che il nuovo terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione definisce “governo del territorio” ed assegna alla potestà legislativa “concorrente” delle Regioni a statuto ordinario», alla Regione Sardegna spetterebbe, per le parti eccedenti la propria competenza primaria, una competenza concorrente «in base al combinato disposto del terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione e dell'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001».
Quanto alla competenza in ordine alla “tutela dell'ambiente”, la Regione richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 307 e n. 222 del 2003, n. 407 del 2002), secondo la quale anche le leggi regionali in materia di “governo del territorio” potrebbero legittimamente assumere fra i propri scopi le finalità di tutela ambientale. Ma soprattutto la difesa regionale afferma che l'«imbricazione» fra l'urbanistica (o più ampiamente il governo del territorio) e la tutela dell'ambiente, ed in particolare la tutela paesaggistica, costituirebbe – oltre che una costante di tutta l'esperienza storica del sistema legislativo italiano – una peculiare caratteristica della speciale autonomia della Regione Sardegna, come definita dallo statuto e dalle relative norme d'attuazione. Infatti, l'art. 6, comma 2, del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme d'attuazione dello statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), nel definire i confini delle competenze esclusive della Regione in materia di “edilizia ed urbanistica”, le attribuisce anche «la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all'articolo 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (e, implicitamente, il potere di emanare le relative misure di salvaguardia)».
Proprio sulla base di tale competenza, a seguito delle novità introdotte dalla cosiddetta “legge Galasso” cioè la legge 8 agosto 1985, n. 431, la Regione aveva provveduto ad approvare la legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 (Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale), contenente la disciplina della pianificazione regionale e, in particolare, dei “piani territoriali paesistici” (artt. 10 e 11); legge i cui articoli 12 e 13 stabilivano norme di salvaguardia del tutto analoghe a quelle impugnate nel presente giudizio, destinate a valere fino alla approvazione dei piani territoriali paesistici e comunque per un periodo non superiore a trenta mesi.
Alla luce di questo quadro delle competenze e dello stesso art. 8 del codice dei beni culturali e del paesaggio (laddove si prevede che «nelle materie disciplinate dal presente codice restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione»), la Regione Sardegna sottolinea l'erroneità dell'impostazione del ricorso del Presidente del Consiglio, secondo la quale la Regione non avrebbe competenze proprie (ma solo delegate) che possano riguardare la tutela dell'ambiente e del paesaggio.
5. – Quanto alle specifiche censure mosse dal ricorrente, la difesa regionale mette anzitutto in rilievo come il ricorso lamenti «al tempo stesso, curiosamente, sia un eccessivo rigore delle norme di salvaguardia, sia una “irragionevole” ampiezza delle deroghe».
Tali censure, secondo la Regione, sarebbero in parte inammissibili e, comunque, tutte infondate.
Inammissibile sarebbe il denunciato contrasto con «la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio», poiché ove il ricorrente intenda sostenere una “incompetenza” della Regione ad intervenire in una materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato, la censura «sarebbe inammissibile per la mancata indicazione del parametro costituzionale (norme dello statuto speciale, oppure art. 117, comma 2, lettera s, della Costituzione), oltre che per la insufficiente determinazione della censura stessa»; nell'ipotesi, invece, in cui il ricorrente voglia far valere una violazione di principi fondamentali contenuti nella «disciplina nazionale» evocata, la censura sarebbe egualmente inammissibile per la mancata definizione del parametro del giudizio.
In ogni caso, la censura sarebbe infondata, sia perché la Regione avrebbe in materia una competenza legislativa esclusiva e quindi non limitata dai principi fondamentali della materia stabiliti dalle leggi dello Stato, sia comunque perché non sarebbe ravvisabile alcun contrasto fra le disposizioni impugnate della legge regionale e quelle della «disciplina generale statale» contenuta nel codice del 2004.
La difesa regionale sostiene l'esistenza di un grave fraintendimento nelle premesse del ricorrente, laddove quest'ultimo pretenderebbe di avvalorare la tesi che mentre la disciplina regionale impugnata vieterebbe drasticamente l'edificazione nelle zone costiere, invece la corrispondente disciplina statale – individuata muovendo dal raffronto tra l'art. 1-quinquies del decreto-legge n. 312 del 1985 e l'attuale art. 159 del codice – prevederebbe «un particolare procedimento di autorizzazione in via transitoria». Secondo la Regione, il raffronto operato dal ricorrente tra le due indicate disposizioni statali sarebbe «del tutto fuori luogo»: infatti, l'inedificabilità fino all'approvazione dei piani paesistici di cui all'art. 1-quinquies non riguarderebbe affatto le aree sottoposte al vincolo ex lege (generico e presuntivo), oggi individuate nell'art. 142 del codice dei beni culturali ed in origine nell'art. 1 del d.m. 21 settembre 1984, bensì «le aree ed i beni individuati ai sensi dell'art. 2» del d.m. appena richiamato, «cioè le aree ed i beni specificamente individuati dal Ministero con i cosiddetti 'galassini'»; l'art. 159 del codice del 2004, invece, non avrebbe nulla a che fare con la disciplina appena citata, e meno che mai con misure di salvaguardia, in quanto riguarderebbe «solo le autorizzazioni paesistiche ordinarie da rilasciarsi nelle zone soggette al vincolo paesistico permanente».
Il ricorso, in definitiva, muoverebbe da una confusione fra i vincoli paesistici permanenti e quelli temporanei, con i relativi diversi regimi.
Da tutto ciò deriverebbe la mancanza di fondamento delle censure rivolte dal ricorrente avverso gli artt. 3, 4, commi 1 e 2, e 7 della legge regionale impugnata.
Quanto specificamente all'art. 3, che prevede le misure di salvaguardia, la censura non terrebbe in alcun conto la differenza sostanziale tra il vincolo permanente, basato sulla concreta valutazione paesaggistica che si effettua in sede di redazione del piano paesaggistico, ed il vincolo della misura di salvaguardia, che costituisce un limite provvisorio ma necessariamente generalizzato, poiché ha lo scopo di impedire che, nelle more delle «concrete» valutazioni paesaggistiche che verranno poi fatte dai piani, il territorio venga irrimediabilmente compromesso.
Quanto all'art. 4, le deroghe previste dal legislatore regionale non sarebbero irragionevoli. Infatti, esse riguarderebbero sia (comma 1) «attività (di ridotto impatto ambientale: interventi di manutenzione, ecc.) corrispondenti a quelle per cui l'articolo 149» del citato codice stabilisce deroghe all'obbligo di autorizzazione, sia (comma 2) situazioni in cui la Regione avrebbe ritenuto di non potere ignorare la preesistente disciplina urbanistica e di dovere tutelare l'affidamento dei cittadini e la parità di trattamento.
Anche in relazione all'art. 7, l'infondatezza della censura risulterebbe dalla peculiarità del caso e della relativa disciplina, che renderebbe pienamente giustificata la deroga concernente gli «interventi pubblici».
In conclusione, secondo la Regione Sardegna, sarebbero le stesse censure in questione a risultare del tutto irragionevoli, soprattutto in considerazione del carattere «provvisorio» e «transitorio» della disciplina in questione, efficace fino all'approvazione del piano paesaggistico e comunque per non più di diciotto mesi dalla sua entrata in vigore.
6. – Anche le censure proposte nel ricorso avverso l'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, ad avviso della difesa regionale, sarebbero inammissibili e, comunque, infondate.
La prima censura, con la quale lo Stato contesta l'eccedenza dalla competenza spettante alla Regione in base agli artt. 3 e 4 dello statuto speciale ed il contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, sarebbe inammissibile «per difettosa formulazione del parametro del giudizio», in quanto nel ricorso mancherebbe ogni riferimento alla operatività della clausola contenuta nell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
La questione dovrebbe comunque ritenersi infondata. Anche quella dell'art. 8, comma 3, dovrebbe infatti considerarsi come «disciplina che la Regione ha emanato nell'esercizio della sua competenza legislativa esclusiva in materia di “edilizia ed urbanistica” (e di “governo del territorio”) ovviamente soprattutto con finalità di tutela dell'ambiente e del paesaggio». Considerato l'evidente impatto ambientale degli impianti eolici di produzione di energia, non dovrebbe potersi dubitare – ad avviso della resistente – della necessità di una misura di salvaguardia anche in relazione ad essi nelle more dell'approvazione del piano paesaggistico; ed anche in questo caso la ragionevolezza e la costituzionalità tanto del divieto di realizzare gli impianti, quanto delle relative deroghe sarebbero avvalorate dal carattere di provvisorietà e temporaneità.
La seconda censura, con la quale lo Stato lamenta la violazione dell'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003, sarebbe inammissibile per la mancata individuazione di un parametro costituzionale rispetto al quale la predetta disposizione fungerebbe da «norma interposta».
Anche tale censura sarebbe in ogni caso infondata, dal momento che la pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza degli impianti in questione non osterebbe in alcun modo alla possibilità di misure di salvaguardia per la tutela paesaggistica in relazione ad essi. In questo senso, del resto, varrebbe esplicitamente quanto disposto dallo stesso art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 invocato dal ricorrente, laddove stabilisce che la costruzione degli impianti di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili è soggetta ad una «autorizzazione unica» di competenza della Regione «nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico» (comma 3). Rileva, inoltre, la difesa regionale che la medesima disposizione, al successivo comma 10, aggiunge che «in Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti».
7. – Hanno depositato atto di intervento ad opponendum, in data 11 marzo 2005, l'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., il FAI Fondo per l'Ambiente italiano e Italia Nostra O.N.L.U.S.
Gli intervenienti chiedono il rigetto del ricorso sostenendo che la Regione Sardegna, con la legge impugnata, si sarebbe limitata ad emanare disposizioni di salvaguardia che, lungi dall'invadere l'ambito statale, avrebbero come unico fine quello di regolamentare l'attività urbanistica ed edilizia (oggetto di competenza legislativa esclusiva della Regione) sino all'adozione degli strumenti tecnici ritenuti dallo Stato più idonei per regolamentare, nel rispetto delle competenze, il bene paesaggio anche in raccordo con le esigenze urbanistiche locali. Infatti, dall'analisi del contenuto delle disposizioni legislative oggetto di censura, risulterebbe di tutta evidenza che «esse tendono a dare una regolamentazione sotto il profilo urbanistico, individuando gli interventi edilizi cosiddetti compatibili con l'attuale stato regionale (e cioè in assenza di qualsivoglia programmazione paesistica)».
Del tutto infondato sarebbe inoltre l'asserito contrasto della normativa in questione con le disposizioni del codice del 2004. Il richiamo all'art. 159 del codice, infatti, sarebbe irrilevante, dal momento che tale disposizione non sancirebbe affatto un generale diritto ad edificare nelle aree di interesse naturale riconosciuto, limitandosi a disciplinare l'iter di richiesta ed emanazione delle autorizzazioni in carenza del piano paesaggistico regionale.
Né, d'altronde, la disciplina dettata in via temporanea e provvisoria dal legislatore regionale potrebbe in alcun modo ritenersi illogica o ingiustificata, giacché «consentire l'edificazione avrebbe certamente comportato il serio rischio di porre nel nulla previsioni successive del Piano che andassero ad incidere in zone profondamente trasformate a causa dell'edificazione avvenuta nelle more di approvazione del Piano medesimo» (sentenza della Corte costituzionale n. 379 del 1994). Del pari giustificata sarebbe la prescrizione che consente la realizzazione delle opere già previste dagli strumenti urbanistici attuativi se già avviate e con trasformazione irreversibile dello stato dei luoghi.
Quanto, infine, alla censura concernente l'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, gli intervenienti osservano che gli impianti per la produzione di energia eolica sono specificamente contemplati dall'allegato B del d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale), rientrando pertanto a pieno titolo tra quelli per i quali la Regione Sardegna può richiedere, nell'ambito del governo del proprio territorio, la valutazione di impatto ambientale.
8. – In prossimità della data fissata per la pubblica udienza, la Regione Sardegna ha depositato una memoria nella quale riferisce che la Giunta regionale, con delibera n. 59/36 del 13 dicembre 2005, ha adottato il piano regionale paesistico e ha avviato l'istruttoria pubblica prevista dalla legge.
La difesa regionale ribadisce le tesi fondamentali espresse nell'atto di costituzione, secondo le quali la Regione Sardegna godrebbe, in materia di territorio e di paesaggio, di una autonomia legislativa «ben più ampia di quella riconosciuta alle regioni a statuto ordinario», dal momento che l'art. 3, lettera f), dello statuto speciale, prevede che in materia di edilizia e urbanistica la Regione ha potestà legislativa esclusiva, ovviamente nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e da obblighi internazionali. Inoltre, in base all'art. 6 delle norme di attuazione dello statuto (d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480), le funzioni amministrative in materia di tutela del paesaggio sarebbero state trasferite alla Regione (e non già delegate, come nell'art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382).
Su questa base, la legge regionale n. 45 del 1989, emanata in attuazione dell'art. 3, lettera f), dello statuto regionale, stabilisce che i piani territoriali paesistici siano l'unico strumento di pianificazione di livello regionale per l'uso e la tutela del territorio, di talché, nell'ordinamento regionale sardo non sussisterebbe alcuna contrapposizione tra governo del territorio e tutela del paesaggio. Inoltre, la possibilità di deroga della disciplina statale sulla tutela del paesaggio, ad opera delle Regioni a statuto speciale, sarebbe espressamente riconosciuta dall'art. 8 del codice dei beni culturali, il quale stabilisce che «nelle materie disciplinate dal presente codice restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione».
Con specifico riguardo alle norme censurate, la difesa regionale afferma che esse costituirebbero solo misure temporanee di salvaguardia volte a «tutelare i beni indicati all'art. 3, 1° comma della legge (ossia le coste sarde) per il periodo indispensabile – non superiore comunque a diciotto mesi – all'approvazione dei piani paesistici». D'altra parte il meccanismo utilizzato dalla legge regionale sarebbe piuttosto comune ed utilizzato anche dal legislatore statale.
La previsione delle misure di salvaguardia (e delle deroghe, commisurate a specifiche situazioni di fatto o ad esigenze di sviluppo) sarebbe ragionevole sia in considerazione del particolare pregio delle aree considerate, sia in relazione alla situazione di incertezza che si sarebbe venuta a creare nel territorio sardo a seguito dell'annullamento di quasi tutti i piani paesistici regionali da parte del TAR.
Per quanto attiene alla censura concernente l'art. 8 della legge regionale impugnata, la Regione rileva innanzitutto di essere titolare di una competenza legislativa concorrente in materia di produzione di energia elettrica (ex art. 4, lettera e dello statuto), la quale si estenderebbe anche alla localizzazione degli impianti di produzione di energia eolica. Inoltre, richiama la sentenza n. 383 del 2005, nella quale questa Corte avrebbe riconosciuto che tutti gli impianti di energia elettrica, ivi compresi quelli eolici, producono un notevole impatto sull'ambiente e sul paesaggio e che alle Regioni deve essere lasciato un congruo margine di valutazione circa l'impatto ambientale che tutti gli impianti, anche quelli eolici, possono produrre ai fini della loro corretta localizzazione.
D'altra parte, la stessa legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), ed in particolare l'art. 1, comma 4, lettera i), imporrebbe alle Regioni di farsi carico dell'impatto che gli impianti di produzione di energia elettrica (anche eolici) producono sul territorio, sull'ambiente e sul paesaggio.
Considerato in diritto
1 – Il Presidente del Consiglio dei ministri, ha impugnato gli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), per contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con gli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché «con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e con l'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità).
Sostiene il ricorrente che la Regione Sardegna non sarebbe titolare di alcuna competenza in tema di tutela paesaggistica; inoltre le disposizioni di salvaguardia adottate, così come le deroghe previste, risulterebbero «in relazione alla disciplina generale statale, illogiche e manifestamente irragionevoli e, conseguentemente, in contrasto con gli artt. 3, 97 della Costituzione e con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio»; la norma di salvaguardia relativa alle centrali eoliche non solo sarebbe stata adottata da un soggetto non competente in materia di tutela dell'ambiente, ma violerebbe anche l'art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003.
2. – In via preliminare vanno dichiarati inammissibili gli interventi ad opponendum dell'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S., sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nei giudizi promossi in via principale nei confronti di leggi regionali o statali non possono intervenire soggetti diversi da quelli titolari delle attribuzioni legislative in contestazione (fra le più recenti, v. sentenze n. 469, n. 383 e n. 150 del 2005).
3. – Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata l'inammissibilità delle censure rivolte nei confronti degli artt. 3, 4, commi 1 e 2, e 7 della legge regionale impugnata, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, sotto i profili della intrinseca illogicità e della manifesta irragionevolezza, nonché del «cattivo uso della discrezionalità amministrativa», a prescindere dalla violazione del riparto di competenze tra lo Stato e la Regione. Tali censure, infatti, risultano sommarie e meramente assertive, così contraddicendo l'esigenza, più volte sottolineata da questa Corte, che il ricorrente esponga specifiche argomentazioni a sostegno delle proprie doglianze (fra le molte, si vedano le sentenze di questa Corte n. 270 del 2005, n. 423, n. 286 e n. 73 del 2004,).
4. – In accoglimento della eccezione espressamente formulata dalla parte resistente e conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (v. sentenze n. 482 del 1991 e n. 155 del 1985), deve altresì essere dichiarata inammissibile la censura rivolta nei confronti dell'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, sotto il profilo del contrasto con l'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003. Il ricorrente, infatti, non individua un parametro costituzionale rispetto al quale la disposizione legislativa indicata dovrebbe fungere da norma interposta; né, dal momento che viene invocata una disciplina attuativa della direttiva 27 settembre 2001, n. 2001/77/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), è possibile in alcun modo desumere dalla formulazione del ricorso, quale sia l'obbligo comunitario rispetto al quale la norma regionale impugnata dovrebbe – in ipotesi – ritenersi in contrasto, così violando l'art. 117, primo comma, della Costituzione.
5. – Prima di passare all'esame delle residue censure prospettate nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, tutte fondate sul presupposto della incompetenza della Regione ad emanare le norme impugnate o sulla violazione della disciplina statale in materia, occorre chiarire la natura e la portata delle attribuzioni spettanti alla Regione Sardegna in relazione agli oggetti disciplinati, rilevando peraltro fin da ora come il ricorrente non abbia in alcun modo dato conto né della presenza, in tema di tutela paesaggistica, di apposite norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Sardegna, né della stessa esistenza di una risalente legislazione della medesima Regione in questo specifico ambito (legge della Regione Sardegna 22 dicembre 1989, n. 45, recante “Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale”) e di cui le disposizioni impugnate nel presente giudizio rappresentano una parziale modificazione ed integrazione.
Le ripetute affermazioni contenute nel ricorso, secondo le quali le disposizioni impugnate sarebbero illegittime perché «eccedono dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d'autonomia, ponendosi in contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dei beni culturali», anzitutto non prendono in considerazione che il Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), intitolato “Edilizia ed urbanistica”, concerne non solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche le funzioni relative ai beni culturali e ai beni ambientali; infatti, l'art. 6 dispone espressamente, al comma 1, che «sono trasferite alla Regione autonoma della Sardegna le attribuzioni già esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765 ed attribuite al Ministero dei beni culturali ed ambientali con decreto-legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5, nonché da organi centrali e periferici di altri ministeri». Al tempo stesso, il comma 2 del medesimo art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 prevede puntualmente che il trasferimento di cui al primo comma «riguarda altresì la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici, di cui all'art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497».
Tenendo presente che le norme di attuazione degli statuti speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle Regioni ad autonomia speciale e non possono essere modificate che mediante atti adottati con il procedimento appositamente previsto negli statuti, prevalendo in tal modo sugli atti legislativi ordinari (secondo quanto ha più volte affermato questa Corte: si vedano, fra le molte, le sentenze n. 341 del 2001, n. 213 e n. 137 del 1998), è evidente che la Regione Sardegna dispone, nell'esercizio delle proprie competenze statutarie in tema di edilizia ed urbanistica, anche del potere di intervenire in relazione ai profili di tutela paesistico-ambientale. Ciò sia sul piano amministrativo che sul piano legislativo (in forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all'art. 6 dello statuto speciale), fatto salvo, in questo secondo caso, il rispetto dei limiti espressamente individuati nell'art. 3 del medesimo statuto in riferimento alle materie affidate alla potestà legislativa primaria della Regione (l'armonia con la Costituzione e con i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica).
A tale ultimo riguardo, va osservato che il legislatore statale conserva quindi il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l'emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”: e ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia “edilizia ed urbanistica” (v. sentenza n. 536 del 2002). Invece, come questa Corte ha più volte affermato, il riparto delle competenze legislative individuato nell'art. 117 della Costituzione deve essere riferito ai soli rapporti tra lo Stato e le Regioni ad autonomia ordinaria, salva l'applicazione dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, peraltro possibile solo per le parti in cui le Regioni ad autonomia ordinaria disponessero, sulla base del nuovo Titolo V, di maggiori poteri rispetto alle Regioni ad autonomia speciale.
In questo quadro costituzionale di distribuzione delle competenze, il legislatore nazionale è intervenuto con il recente codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”), il cui art. 8 è esplicito nel dichiarare che «restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione». In quest'ultimo testo assume rilevante significato sistematico anche la norma contenuta nell'art. 135, laddove lo stesso legislatore statale, nell'individuare gli strumenti della pianificazione paesaggistica (rivolta non più soltanto ai beni paesaggistici o ambientali ma all'intero territorio), affida alle Regioni la scelta di approvare “piani paesaggistici” ovvero “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, con ciò confermando l'alternativa tra piano paesistico e piano urbanistico-territoriale già introdotta con l'art. 1-bis del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), così come convertito in legge ad opera della legge 8 agosto 1985, n. 431.
Quanto specificamente alla Regione Sardegna, va aggiunto, infine, che proprio sulla base dell'esplicito trasferimento di funzioni di cui alle norme di attuazione dello statuto speciale contenute nel d.P.R. n. 480 del 1975, la Regione – già con la citata legge n. 45 del 1989 – aveva appositamente previsto e disciplinato i piani territoriali paesistici nell'esercizio della propria potestà legislativa in tema di “edilizia ed urbanistica”. Questa legge, che all'art. 12 prevedeva anche apposite “norme di salvaguardia” ad efficacia temporanea in attesa della approvazione dei piani territoriali paesistici (analogamente a quanto attualmente previsto con le norme impugnate), viene solo in parte modificata dalla legge regionale n. 8 del 2004, oggetto del ricorso governativo, particolarmente per ciò che concerne il recepimento nella Regione Sardegna del modello di pianificazione paesaggistica fondato sul piano urbanistico-territoriale, appunto attualmente contemplato nel richiamato art. 135, comma 1, del codice dei beni culturali.
6. – Sulla base delle considerazioni appena svolte, anche le questioni concernenti l'asserita violazione del riparto delle competenze legislative e della disciplina statale in materia di tutela del paesaggio devono essere dichiarate inammissibili. Il ricorrente, infatti, muove dall'erroneo presupposto secondo il quale la Regione Sardegna risulterebbe priva di potestà legislativa in tema di tutela paesaggistica, omettendo conseguentemente di argomentare in base a quale titolo la legislazione dello Stato in materia dovrebbe imporsi come limite per il legislatore regionale e di individuare le specifiche norme legislative statali che dovrebbero considerarsi violate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi dell'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S.;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, dalla legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, agli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché alla «disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e all'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2006.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2006.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
L’approvazione definitiva del piano regolatore è uno dei risultati più importanti conseguiti dall’amministrazione in carica. Dopo l’entrata in vigore della legge sull’elezione diretta dei sindaci, Napoli è a scala nazionale l’unico grande capoluogo che è riuscita a dotarsi di un nuovo piano regolatore generale. Un piano basato su una strategia che è un buon punto di equilibrio tra due esigenze: da un lato quella di arricchire la dotazione cittadina di beni comuni, di spazi e funzioni pubbliche; dall’altro quella di favorire l’iniziativa privata nei processi di rigenerazione urbana, con regole e procedure trasparenti e certe.
Napoli è una città povera di beni comuni, di spazi pubblici qualificati che sono poi quelli che consentono alla gente di vivere insieme, sono quelli che “fanno città”, costituendo anche un fattore di attrazione proprio per le aziende che operano nei settori più avanzati e innovativi
Un grande bene comune è, ad esempio, il sistema di aree verdi miracolosamente scampate alla speculazione, gelosamente tutelato dal piano regolatore, e a partire dal quale è nato il Parco delle colline, un esperimento unico in Europa, un nuovo grande quartiere verde che occupa un quinto della città. E’ uno dei pochi casi in Italia in cui una nuova area protetta non nasce in opposizione alla pianificazione ordinaria ma in attuazione di essa.
Beni pubblici sono la linea di costa nella sua interezza; il centro storico (“patrimonio dell’umanità” secondo l’UNESCO), le piazze e le strade, sempre più liberate dalle auto; i parchi di quartiere e i due nuovi grandi parchi territoriali a oriente e a occidente della città.
Tutto questo, messo in comunicazione e innervato capillarmente dalla grande rete di trasporto su ferro, che rappresenta un’alternativa sempre più competitiva all’auto privata.
Dicevamo che il piano di Napoli si regge su un equilibrio tra produzione di beni pubblici e promozione dell’iniziativa privata. Proprio in questi giorni l’Acen (Associazione costruttori edili napoletani) presenta il documentario dal titolo “Un salto nel futuro”. Il video illustra i 20 grandi progetti di infrastrutturazione e riqualificazione in corso di attuazione nell’area napoletana “resi possibili - cito testualmente - grazie all’attuazione del Piano regolatore”, con investimenti pubblici e privati pari a complessivi 3 miliardi di euro. Insomma, come ha osservato nei giorni scorsi il presidente Squame, contrariamente alle preoccupazioni di quanti affermano che il prg avrebbe “ingessato” la città, sembra invece che l’imprenditoria e gli investitori gradiscano di operare in un ambiente regolato, nel quale sia possibile contare su scenari di azione certi, su norme e procedure trasparenti.
Una strada differente da quella scelta per esempio a Salerno, dove si è scelto di procedere caso per caso con varianti ad hoc, con risultati e problemi che sono sotto gli occhi di tutti.
Tutto bene dunque? No, perché nonostante la rilevanza dei progetti in fase di realizzazione, ci sono ancora troppe resistenze, difficoltà e lentezze che devono essere superate.
C’è innanzitutto un problema politico: anche in questi giorni, leggendo alcune dichiarazioni dissonanti di esponenti della maggioranza, si avverte l’esigenza che l’amministrazione dia all’esterno segnali più chiari ed univoci. E’ assolutamente necessario che nelle parole e negli atti di tutti gli esponenti dell’amministrazione, seguendo l’esempio del sindaco, i cittadini e gli operatori possano cogliere un atteggiamento di fiducia e di sincera condivisione nei confronti delle strategie e delle regole che la città si è data, che non sono un’inutile zavorra ma un patrimonio di tutti. Senza riserve mentali, e restituendo all’istituto dell’accordo di programma la sua vera funzione: che è quella di strumento utile per accelerare l’attuazione della strategia, piuttosto che di grimaldello derogatorio per disfare nottetempo la tela faticosamente tessuta alla luce del giorno.
Un segnale forte e univoco è necessario anche per migliorare il gioco di squadra tra l’amministrazione da un lato e gli enti, le agenzie e le società strumentali dall’altro – mi riferisco alle società di trasformazione urbana, all’autorità portuale, le grandi concessionarie ecc. Un gioco di squadra nel quale i ruoli sono chiari: dove sono il sindaco con i suoi assessori e il consiglio a definire con chiarezza le strategie, fornendo l’indispensabile impulso politico per la loro attuazione: e dove sono gli enti di settore ad attuarle, con lealtà, prontezza, efficacia, evitando sia incertezze che protagonismi difficilmente comprensibili.
Signor Sindaco, la richiesta di porre saldamente al centro del suo programma per la prossima consiliatura l’attuazione spedita e convinta della strategia che la città si è data, non si basa sulla difesa di questa o quella tendenza o impostazione urbanistica (tutte cose che al cittadino giustamente non interessano affatto), ma su una certa idea di cittadinanza, di rappresentanza politica, in definitiva di democrazia.
L’Assessore regionale alla pianificazione territoriale, mobilità e infrastrutture di trasporto della regione Friuli Venezia Giulia, Sonego (DS), al convegno del 24 febbraio scorso a Villa Manin di Passariano su “La nuova politica urbanistica della Regione”, ha sostenuto che il Friuli Venezia Giulia è una delle regioni più ordinate e non soffre del caos urbanistico che ha dilapidato il confinante Veneto. Per l’Assessore ciò è risultato del civismo delle amministrazioni locali e delle popolazioni e poiché la Regione è pervenuta alla decisione di ritirarsi dai controlli sui piani urbanistici comunali riconoscendo alle amministrazioni locali piena autonomia pianificatoria, questo dato garantisce da futuri scempi a danno del territorio regionale. Che il territorio della regione sia esente da caos urbanistico è un’affermazione comprensibile sul piano politico, ma appare un pò trionfalistica e a ben vedere non corrisponde del tutto al vero : anche questa regione non è esente dal degrado urbanistico, paesaggistico e ambientale e da inefficienze territoriali molto serie. Infatti se è corretto riconoscere storicamente al Piano Urbanistico Regionale Generale del 1978 una funzione importante, dato che ha delineato criteri per la pianificazione urbanistica locale e modalità di tutele del territorio più che un modello di sviluppo economico-territoriale, e ai conseguenti controlli sui piani regolatori generali comunali che la Regione ha saputo e voluto fare conferendo autorevolezza e credibilità al suo operato, è anche vero che non sempre quella stessa Regione è stata capace, sul piano prevalentemente politico, di garantire il territorio regionale secondo le sue stesse regole, correggendo storture della pianificazione comunale.
Ad onore del vero l’incipit espresso pubblicamente dall’Assessore Sonego nell’introdurre il suo intervento al convegno suona poco incoraggiante. L’Assessore, suscitando una certa meraviglia tra gli astanti, ha pubblicamente confessato di essere giunto a ritenere preferibile, seppure in ritardo, il privato al pubblico. Una simile confessione spostata nella sfera urbanistica, di questi tempi, suona una dichiarazione di campo allarmante per il territorio e per la garanzia dell’interesse pubblico e generale. Invero ancor meno tranquillizzante è parso il taglio politico che Jilly ha dato al suo intervento, tutto teso a condividere la posizione di Confindustria, la quale chiede sostanziale mano libera nella pianificazione degli insediamenti industriali, che dovrebbero essere direttamente ed unicamente pianificati dai consorzi industriali, al cui interno il peso degli industriali è rilevante, senza che i comuni ci mettano praticamente naso. Jilly ha poi auspicato una forte semplificazione delle procedure per accorciare i tempi della burocrazia, dato che non è possibile porre freni allo sviluppo del territorio e rispetto all’Assessore ha aggiunto, che la Regione deve definitivamente disinteressarsi dell’operato dei comuni in campo urbanistico, per volare alta, molto alta, da dove si vede molto poco del mondo reale che sta sotto. Jilly ha poi proseguito sostenendo che l’autocertificazione deve essere alla base di ogni rapporto tra il cittadino-imprese e la pubblica amministrazione nel settore edilizio-urbanistico. In capo a pochi anni tutto il processo deve essere velocizzato, le fibre ottiche serviranno anche a questo ha assicurato il Presidente. Jilly ha ricordato, infine, che vi sono nuovi strumenti del fare pianificazione e questi vanno usati, valorizzando il concorso dei privati e sostenendo la sussidiarietà orizzontale. Un po’ di folklore è stato portato dall’intervento di un architetto austriaco Dustin Tusnovics direttore della scuola di architettura Baugestaltung-Holz di Salisburgo (Trieste esige un po’ di valzer e di Mozartkugeln). L’oratore neo-esteta giurava ai vari periti-edili degli uffici tecnici comunali, che la qualità estetica dell’architettura fa bene all’occhio delle masse, ingentilisce i cuori, rende buoni gli spiriti e arricchisce la democrazia. L’oratore faceva venire in mente quella tale Antonietta, che un bel dì, assai scocciata, ordinò di dare delle brioches al popolo affamato che reclamava qualcosa di più sostanzioso. Di li a poco non ebbe una gran prospettiva quella signora, così almeno narra la storia. Guardare e non infastidire, quindi. L’indirizzo che traspare è dunque chiaro: odore di lupi.
Siccome la speranza è dura a morire c’è da augurarsi che l’esito del movimento che l’attuale maggioranza al potere in Friuli Venezia Giulia ha intrapreso, avviando incontri aperti al pubblico, purtroppo specialistico e su ristretto invito, approdi a risultati più decenti della recente legge regionale campana, tutta tesa a snellire procedure e ad accelerare i tempi perdendo di vista tutele e priorità, e soprattutto meno intrisi dell’impronta privatistica che pervade la prossima leggiaccia “Lupi” di sfascio del territorio. La Regione Friuli Venezia Giulia ha una cartuccia in più : deve assolutamente utilizzare tutta la sua potestà legislativa primaria in materia urbanistica che gli conferisce lo statuto d’autonomia, anziché appiattirsi su indirizzi politici i cui esiti non possono che essere deleteri, proprio per quel modello di territorio abbastanza ordinato cui lo stesso Assessore fa riferimento e vanto.
Ci sono dunque nella regione aree in cui il disordine e l’inefficienza urbanistici, ambientali e paesaggistici hanno assunto livelli preoccupanti che devono far pensare ed intraprendere conseguenti azioni, politiche e tecniche, per correggere se non bloccare modelli insediativi in atto, errori pianificatori, assenze e carenze degli attori istituzionali in gioco, se non si vuole arrivare nel breve periodo a situazioni di vero tracollo, analoghe a quelle tanto vituperate del confinante Veneto. Ma ci sono anche aspetti e problematicità inerenti tanto l’amministrare che il fare urbanistica, che richiedono assunzioni di responsabilità ai competenti livelli. I tratti salienti di alcune di queste aree e problematicità, si tracciano di seguito avendo presente che non assolvono l’intera gamma delle questioni aperte.
L’area pordenonese ha continuato a perseguire un modello insediativo diffuso, incapace di correggere i macroscopici errori e assenze di una corretta pianificazione urbanistica. Lo sprawl di capannoni artigianali, industriali, commerciali, plurifunzionali, industriali, ecc. ora ammassati in piccole zone artigianali incastrate tra corsi d’acqua di risorgiva o nodi viari, ora secondo il ritmo casa-capannone-strada, ha assunto risultati che sono sotto gli occhi di chi voglia osservare e capire. La qualità del paesaggio ha subito danni difficilmente recuperabili. La mobilità su gomma, sia di merci che di persone dovuta alla diffusione insediativa, si riflette in maniera pesante sulla funzionalità del sistema della viabilità, con costi economici e sociali pesanti. E’ noto che ci sono tratti fondamentali della rete viaria in quella zona, che hanno raggiunto un livello di assoluta disfunzione ed inefficienza. La SS13 Pontebbana, la principale arteria che unisce l’udinese al pordenonese e questo al Veneto, è il caso più eclatante. La continuità del sistema insediativo che si attesta e che continua con pervicacia a consolidarsi lungo quella strada statale, rende impossibile qualsiasi distinzione dei limiti tra un comune e l’altro, tra una provincia e l’altra, tra una regione e l’altra. Quale differenza ci sia tra questo modello e quello veneto è assai difficile da percepire con lo sguardo. Se nel Veneto si è inseguito l’interesse privato, qui ha prevalso quello pubblico nelle scelte della pianificazione urbanistica locale ?
L’area del distretto industriale della sedia a sud-est di Udine (dove si produce il 40% circa della produzione mondiale di sedie), che si diffonde prevalentemente nei territori dei comuni di Butrio, Manzano, San Giovanni al Natisone, Corno di Rosazzo e Pavia di Udine (area che peraltro costituisce la porta obbligata di accesso al Collio, territorio cosiddetto di eccellenza per lo sviluppo del turismo eno-gastronomico in virtù della produzione vinicola di altissima qualità), ha assunto un carattere insediativo diffuso, destrutturato, privo di qualità, non molto dissimile da quello pordenonese. In questo caso il paesaggio extra-urbano ha pagato un tributo severo ai seggiolai, mentre l’esile cordone ombelicale della strada statale che collega l’area udinese e del capoluogo del Friuli al capoluogo isontino ed al monfalconese, è prossimo al tracollo per gli elevati flussi di traffico di merci e persone.
Non è esagerato affermare che in queste due macro-aree territoriali la dispersione insediativa di capannoni, diventati un tutt’uno con il paesaggio, abbia fortemente impoverito e compromesso la qualità del paesaggio agrario, ma anche dei sistemi insediativi urbano e rurale. In più circostanze i capannoni sono stati costruiti a ridosso o in prossimità di ville o di edifici che costituiscono il patrimonio culturale storico e architettonico, magari anche minore ma pur tuttavia testimonianza della storia della comunità. Per non parlare dei rilevanti effetti che questi modelli insediativi hanno prodotto pure sulla rete viaria intermedia e locale.
L’enorme diffusione dei centri commerciali è uno dei più rilevanti problemi urbanistici che negli anni più recenti si è posto al centro dell’attenzione generale. Il consumo di suolo derivato dagli insediamenti commerciali, sviluppatisi senza un quadro pianificatorio di coordinamento capace perlomeno di indirizzarne, se non di limitarne, l’attuazione, ha prodotto inefficienze territoriali, diseconomie di scala, messa in crisi di segmenti fondamentali della rete viaria di rilevanza strategica per la logistica di ampi territori centrali regionali (la legislazione regionale sul commercio ha richiesto che gli insediamenti commerciali si collocassero lungo gli assi viari principali), dando luogo a pesanti effetti che hanno coinvolto anche le reti viarie locali. Il richiamo determinato dalla concentrazione di questi vasti poli monofunzionali, ha incrementato i già intensi flussi di traffico su gomma, riducendo la velocità commerciale, con conseguente concentrazione di inquinamenti anche in spazi non urbani. Pesanti sono gli effetti che i poli commerciali hanno prodotto sui -sistemi economico-sociali locali, soprattutto, ma non solo, a svantaggio del sistema distributivo e della vivacità delle aree centrali dei nuclei urbani e delle città intorno alle quali tali meteore si sono sviluppate. Il caso più emblematico è rappresentato dalla meteora commerciale che si snoda tra Udine e Cassacco lungo la strada statale 13 Pontebbana (strada che è destinata a soccombere), chiamata dai commercianti anche Strada Nuova quasi a contrapporsi con le strade antiche dei centri storici. Questo lungo agglomerato insediativo ha assunto una dimensione spaziale considerevole, risulta tra le maggiori concentrazioni commerciali non solo italiane, ed ha raggiunto un livello di saturazione dello spazio inedificato ancora disponibile prossimo al completamento. Ciò nonostante proprio tra Udine e Tricesimo vi sono programmi insediaitivi di centri e complessi commerciali per ulteriori 60/70.000 mq di superfici di vendita che quanto prima si tradurranno in ulteriore stress urbanistico. La statale 13, lasciata priva di efficaci difese, è stata prima declassata a provinciale e ora è in corso il suo ulteriore declassamento a strada locale all’interno della meteora commerciale. La fase successiva sarà il declassamento a passeggiata ciclo-pedonale ? Da ciò l’esigenza di trovare nel territorio spazi dove far passare proprio quel tratto di viabilità che è venuta a mancare tra la città di Udine e la parte settentrionale del Friuli, altrimenti collegati solo attraverso l’A23 Palmanova-Tarvisio. Solo enormi investimenti pubblici, purché fortemente guidati da un livello superiore in grado di farsi valere, a salvaguardia di una visione davvero alta a favore del pubblico interesse per l’intera comunità, possono, forse, tentare di risollevare le sorti collassate del sistema viario. Cosa che tuttavia non si può dire che sia accaduta e le prospettive economiche perché ciò accada paiono assai remote, perlomeno non pare siano nell’agenda della politica in questi tempi di vacche magre.
Questo modo di concepire la pianificazione comunale alla prova dei fatti è risultato incapace di andare oltre una visione ristretta al solo orizzonte del confine amministrativo comunale, in quanto mirata esclusivamente ad ottenere vantaggi monetari immediati, tutto e subito, determinati dai maggiori introiti della “bucalossi” che le vaste superfici commerciali garantiscono ai bilanci comunali, ma ha prodotto l’abbandono dello scopo politico della pianificazione pubblica, cioè la guida e la gestione delle trasformazioni e delle tutele territoriali nell’interesse pubblico e generale. E’ questo, però, l’esito grave dell’incapacità e/o non volontà della Regione di correggere, nell’interesse pubblico e generale, attraverso le diverse politiche settoriali che hanno effetti sulle strutture e sui sistemi territoriali (in questo caso le politiche commerciali e della mobilità-viabilità), le deviazioni della spinta privatistica volta a massimizzare nell’immediato la rendita di posizione nello spazio territoriale, a fronte della cecità ma anche della debolezza delle amministrazioni locali a reggere l’urto dei capitali delle catene della grande distribuzione commerciale. E’ proprio in queste circostanze che è venuto meno il ruolo alto, strategico come si ama sostenere, della Regione, la quale ha rinunciato a svolgere la propria funzione di coordinamento e di indirizzo pianificatorio territoriale, fino al pressoché pieno disconoscimento del proprio strumento di pianificazione settoriale, cioè il Piano regionale della viabilità per quell’ambito territoriale. Si è scontata in questo frangente l’aggravante da parte della Regione per ciò che attiene alle politiche viabilistiche e cioè l’inazione, determinata dal non aver voluto modificare-adeguare gli strumenti di propria competenza ritenibili, forse non del tutto a torto, inadeguati alle mutate condizioni. In questa circostanza la Regione ha fatto una ritirata, più che strategica poco onorevole, delegando al salvifico e demiurgico mercato la tutela del pubblico interesse, costituito dal capitale fisso della rete viaria, costato soldi all’intera collettività attraverso la tassazione diretta e no.
Checché ne dica la classe politica regionale al potere, la quale all’atto del suo insediamento garantì il blocco totale dell’espansione dei centri commerciali, è alle porte una valanga di mega centri commerciali superiori a 10.00 mq di superficie di vendita e di parchi-cittadelle commerciali-outlet alla Serravalle Scrivia. Tutte le big della grande distribuzione sono presenti, dalla rossa Coop, al Gruppo Bernardi, dalla svedese Ikea, alla Sorelle Ramonda. A Villesse, appiccicato all’autostrada Venezia-Trieste e a ridosso dell’innesto con la strada Villesse-Gorizia, si realizzerà un insediamento commerciale su un’area di mezzo milione di metri quadrati. Gli euro sloveni fanno gola e a ridosso del confine con quel paese a Trieste e a Muggia, dove la viabilità farebbe schifo anche agli albanesi, si stanno caricando gli obici dell’artiglieria commerciale pesante. La vendita di mutande con il filo interdentale, di telefonini che parlano da soli e di pizze al taglio mastica e sputa da consumarsi su uno sgabello di frassino curvato, risolleverà e modernizzerà le sorti dell’economia regionale, essendo la produzione industriale ormai attività di nicchia da veri amatori, vista la delocalizzazione imperante.
Resta che gli enormi “scatoloni” commerciali, la fine dello sviluppo dei quali non si vede ancora, posto che lo sviluppo non è illimitato come qualcuno sostenne negli anni sessanta, lungi dal venire demoliti o riconvertiti allorquando la festa finirà, resteranno, bene che vada, da monito per le future generazioni di come non fare “pianificazione” comunale. Emblematica Stalingrado dell’urbanistica, sicuramente contrattata e non imposta dall’alto, rappresentativa vicenda, peraltro, di come l’impresa sia ben lungi dal non essere al centro delle attenzioni e cure della Regione e dei comuni nelle politiche di localizzazione urbanistica.
Ci sono in regione, poi, aree in cui la diffusione insediativa residenziale, ad alto consumo di suolo e a bassa intensità edilizia, è andata oltre ogni più ragionevole e sostenibile logica di pianificazione. Anziché rispondere con scrupolo e nella sostanza a dimostrati fabbisogni residenziali, privilegiando politiche rivolte al recupero del patrimonio urbanistico-edilizio esistente anziché rivolgersi esclusivamente all’espansione, avendo responsabilmente a cuore l’uso accorto della risorsa in assoluto meno riproducibile, il suolo appunto, si è preferito rincorrere spasmodicamente il voto del cittadino-elettore. Gli esempi in regione non mancano e sono indifferenti alla geopolitica. Gemona del Friuli è il caso forse più emblematico dell’anarchia urbanistica e del mal governo del territorio, ancorché tutto si sia svolto in assoluta conseguenza del piano regolatore. L’addizione erculea di Ercole d’Este a Ferrara deve essere il punto culturale di riferimento ma dal solo profilo quantitativo. ( E’ un dato oggettivo: all’avvicinarsi delle elezioni si assiste ad un crescendo esponenziale di adozioni di varianti di ogni genere ai piani regolatori, ma tendenzialmente caratterizzate da una solerte disponibilità ad accogliere istanze della gente. Si tratta di varianti “gestionali” tese a “migliorare” il piano. Insomma le urne fanno il piano partecipato. La fase post elettorale, in genere, ma magari in tono minore, risente ancora dei benefici effetti delle urne e così permane l’apertura delle amministrazioni locali a soddisfare le istanze rimaste inevase. L’Agenda 21 è già pratica corrente. Sviluppo e fare soldi sono l’imperativo categorico che, indistintamente, pervade tutti. Non si è mai sentito un politico affermare che il suo obiettivo è la frustrazione delle aspettative della gente, non certo di quelli che potenzialmente gli assicurano la carriera attraverso il voto. La coscienza del territorio è estranea a tutto ciò.)
Il Friuli Venezia Giulia è una regione in cui la popolazione non cresce come ci sarebbe bisogno. La compagine demografica invecchia, si rinnova poco e lentamente. Quei pochi e piccoli numeri di segno positivo sono dati da saldi sociali, che però non sono bilanciati da saldi naturali perlomeno di pari peso. Basterebbe comparare i PRG della stragrande maggioranza dei comuni della seconda metà degli anni ottanta e confrontarli con quelli scaturiti dalla legge urbanistica del 1991, per rendersi conto che in pochi lustri, a fronte di una stasi-riduzione degli abitanti, gli insediamenti, le urbanizzazioni aggiuntive, le nuove espansioni edilizie, si sono ampliate in maniera assai consistente, erodendo ulteriori quote di spazio rurale e producendo un vero spreco di risorse e di suolo. Gli esiti della qualità urbanistico-insediativa sono deboli, culturalmente sempre più avulsi dai contesti storici e tradizionali degli insediamenti. Il paesaggio urbano è stato impoverito e le campagne inquinate dalle urbanizzazioni. E le prospettive di crescita demografica di questa regione non paiono particolarmente brillanti. Poi bisognerebbe incominciare a studiare con cura le serie della produzione edilizia da dopo l’apice della ricostruzione post sisma. Si scoprirebbero sicuramente cose interessanti. Altro che stasi del settore, altro che vincoli, impedimenti e burocrazie.
L’esito dell’assenza della Regione nello svolgere il ruolo alto di indirizzo e coordinamento, si verifica dalla debole e spesso contraddittoria mancanza di dialogo tra gli strumenti generali dei comuni costituenti aree urbane intercomunali vaste. Le conurbazioni dei capoluoghi provinciali e altre aree di rilevanza territoriale, esprimono un formidabile bisogno di coordinamento, che al momento però non ha avuto risposta soddisfacente. Anche in questo caso gli esiti territoriali sono spesso al limite della tenuta. Il dimensionamento e l’offerta di aree edificabili in queste realtà, ad esempio, hanno necessita di una visione unitaria e coordinata, dato il forte grado di interrelazione che esiste all’interno di queste aree territoriali. Il Greater London Council del suo periodo migliore dovrebbe essere assunto a paradigma di democratica efficienza negli atti di pianificazione territoriale di area vasta.
Negli anni più recenti si è assistito ad una consistente conversione d’uso di strutture edilizie nei territori agricoli della regione verso funzioni abitative estranee alle attività agricole. A questo fenomeno, però, non corrisponde una diminuita intensità dell’espansione delle nuove aree insediative residenziali negli ambiti urbani. Il recupero e la riconversione dei volumi edilizi non più funzionali alle attività agricole, dovrebbe essere molto attentamente considerato e valutato, sia in termini di potenziali maggiori costi dei servizi a rete, delle accessibilità, ecc., che in rapporto alla capacità del territorio rurale ed extra-urbano di sostenere la diffusione dell’urbanizzazione, trattandosi di riconversioni non correlate alla conduzione del territorio agricolo e ben avendo presente che lo spazio extra-urbano e rurale soprattutto, è l’unico spazio territoriale – oltre a quello sottoposto a speciali tutele naturali e ambientali – ancora non del tutto riempito e più indifeso. Il terriotorio agricolo richiede grande attenzione e cura per la sua conservazione perché la trama del paesaggio è prevalente rispetto ai segni dell’urbanizzazione. Peraltro in altre realtà regionali il fenomeno della riconversione ad usi abitativi non primari o anche ricettivi di edifici rurali dimessi, è stato oggetto di specifiche disposizioni legislative, conducenti alla costruzione di un dettagliato quadro conoscitivo nei piani regolatori. In Friuli Venezia Giulia il legislatore non si è preoccupato adeguatamente di guidare e orientare questo fenomeno, richiedendo ai comuni indagini dettagliate finalizzate a costruire un catalogo del patrimonio rurale dismesso ed emanando specifici indirizzi tecnici finalizzati a salvaguardare le strutture edilizie rurali tradizionali. E non c’è dubbio che alle peculiarità culturali, linguistiche ed ambientali che arricchiscono il territorio della regione, stanno modalità costruttive e insediative altrettanto varie: dall’architettura carsolina e istro-dalmata, a quella carnica; dalle isole linguistiche tedesche prealpine, ai casoni della laguna; dagli edifici in sasso nelle campagne e delle colline moreniche, alle pietre arenarie del Collio; dal cotto della bassa pordenonese, alla pietra calcarea della pedemontana pordenonese. Questo patrimonio culturale e paesaggistico deve essere salvaguardato, definendo modalità accurate di conservazione, estendendole a tutti gli aspetti, anche minuti, del segno materiale che la comunità ha lasciato sul territorio.
Ci sono poi alcuni aspetti di diversa natura, ma strettamente connessi con le questioni che si sono trattate, che hanno concorso al calo della qualità delle azioni di governo del territorio e della città in questa regione, perlomeno negli ultimi tre lustri. Gli effetti della fine della cosiddetta Prima Repubblica hanno creato un vuoto pesante nella classe politica, regionale e locale. Le mutate condizioni delle regole elettorali, l’elezione diretta del sindaco, il conseguente diminuito peso dell’azione collegiale nelle scelte politiche locali e la drastica riduzione di incidenza dell’azione dei consigli comunali, hanno fortemente ridotto le politiche urbanistiche locali a scelte sempre più costruite intorno ai tavoli di ristoranti piuttosto che nelle aule istituzionalmente deputate a ciò. La repentina messa al bando dei partiti di massa, ha allontanato sempre di più la politica dalla società civile, avvicinandola fin quasi a mescolarla in maniera pressoché indistinta agli interessi forti, alle lobbies, alle categorie professionali, alle corporazioni, al capitale finanziario. A volte si ha la sensazione che Orwell ci abbia davvero azzeccato. La politica, fare il politico, è diventato un affare e non più un atto di partecipazione alla costruzione della società nel nome di ideali di equità e giustizia sociale. Il successo individuale nella carriera politica mette al sicuro il proprio futuro in termini economici. Il partito è lo strumento attraverso il quale si raggiunge lo scopo del singolo. Spesso in Friuli Venezia Giulia si fa riferimento all’epica epopea della ricostruzione dopo i terremoti del 1976/77, quando i sindaci ed i comuni furono investiti di una considerevole autonomia decisionale e gestionale (in urbanistica solo per i piani particolareggiati di ricostruzione e per alcune limitate varianti allo strumento generale invero). Senza entrare nel merito degli esiti della ricostruzione fisica dei centri distrutti, sicuramente di gran lunga più efficace e rapida che altrove in Italia, c’è da dire che tale forte autonomia, discendenti dalla necessità di dare risposte concrete e quanto più rapide possibile alle comunità locali che un evento catastrofico quale il terremoto richiede, si reggeva anche su una classe politica di amministratori, regionali e locali, di tutt’altra pasta e levatura. Non foss’altro per l’elevato senso di responsabilità, di rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica e per una buona dose di senso etico della politica che contraddistinse quasi per intero gli uomini di quella stagione politica. Quella classe di governo, regionale e locale, non esiste più e non ha trovato un gruppo dirigente di pari valore. Questo non è dato di poco conto e fa la differenza. E’ questa una delle chiavi di volta per cui oggi la devoluzione di competenze ai comuni in campo urbanistico, rischia di produrre effetti non necessariamente civili, come auspica l’Assessore, se non c’è a monte una politica regionale di grande respiro sociale ed etico in grado di far volare alto cui corrisponde un piano territoriale molto forte, incisivo, corredato di documenti tecnici di indirizzo ricchi sul piano tecnico-disciplinare, di strumenti capaci di monitorare gli effetti sul territorio in tempo reale, in modo da poter rapidamente apportare gli adeguamenti necessari a correggere la rotta se e quando è strettamente indispensabile.
C’è un dato ulteriore che non emerge nella relazione dell’assessore e che invece ha un peso ed è giusto che sia preso in considerazione. Si legge e si assiste un po’ in tutti i campi professionali ad un generale calo del livello della qualità prestazionale. Nella sanità, come nelle professioni manuali e intellettuali in genere. Il calo di competitività e di civiltà di una nazione passa anche attraverso questi aspetti, cioè dal livello di cultura e di conoscenza. Da più parti si osserva criticamente l’incapacità dell’università nel preparare professionisti culturalmente capaci, eticamente e deontologicamente motivati. Se questo è vero, non si capisce per quale ragione le professioni di architetto, di urbanista e di ingegnere dovrebbero uscire indenni. Il fare urbanistica sta pagando il tributo al lassismo e al mercantilismo diffuso. C’è un calo diffuso, non di rado grave, della professionalità nella redazione dei piani urbanistici. La superficialità, l’inadeguata conoscenza delle regole, l’accondiscendenza acritica e passiva alle richieste del committente, garantiscono esiti disiciplinarmente discutibili, anticamera di sfasci annunciati. Peraltro gli esiti che scaturiscono queste deficienze, hanno un ché di curioso. In diverse circostanze la qualità dei piani approvati dagli stessi comuni (la Regione non approva più i piani regolatori e loro varianti dal 1991, al più si limita a correggere le sole difformità negli stretti limiti che l’ordinamento le riconosce) crea all’atto pratico difficoltà gestionali da parte delle stesse amministrazioni locali, che sempre più spesso se ne lamentano, anche se però queste lamentazioni sono sussurrate a denti stretti tra un sorso di caffè e l’altro. Il confronto dei piani urbanistici elaborati e approvati in questa regione con quelli di altre realtà regionali, anche vicine, è poco incoraggiante. Ciò dovrebbe suggerire che si attivi una considerazione attenta da parte degli ordini professionali. Le stesse strutture tecniche comunali costituiscono in parecchi casi un anello debole, a prescindere dalla generosità che esprimono nello svolgere i propri compiti istituzionali. Il livello di scolarizzazione e di specializzazione (quasi sempre diploma di scuola media superiore) non è sempre adeguato e sufficiente a far fronte alla complessità dei temi che richiede la disciplina urbanistica e il governo del territorio, non più circoscrivibile alla verifica del rispetto della distanza dai confini di proprietà e alla mera conformità urbanistica. Le stesse piante organiche comunali sono inadeguate ad affrontare le attuali competenze richieste. L’unificazione delle forze potrebbe, perlomeno in parte, migliorare le cose, ma l’esito dei consorzi intercomunali ha dato risultati assolutamente sconfortanti.
In questo mutato quadro generale, il piano regolatore ha perso, nei fatti concreti, la funzione esclusiva di documento fondamentale e organico della pianificazione locale, per assumere quello sempre più frequente di mero catasto sul quale registrare le scelte prese fuori dalle aule consiliari comunali.
Rispetto a tutto ciò, lascia perplessi e preoccupa perfino, l’asserzione dell’Assessore Sonego per cui la Regione Friuli Venezia Giulia intende d’ora in poi mettere il cittadino e le imprese al centro del proprio operato in politica urbanistica. La domanda sorge spontanea avendo a mente i fatti e le questioni rilevate. Fin’ora i piani regolatori comunali sono stati fatti dai comuni contro i cittadini e contro le imprese ? E la Regione ha forse “vessato” cittadini e imprese ? Se fosse così ci sarebbe la rivolta dei ciompi. Nel documento l’Assessore denuncia che la Regione è scivolata sempre più verso un profilo caratterizzato da un’invadenza tentacolare negli aspetti procedimentali più minuti. Credo che si sbagli a ritenere invadenza il richiamo al rispetto degli obblighi di legge e quindi al rispetto della legittimità che la stessa legge urbanistica regionale pretende. D’altrocanto la frequenza dei richiami dimostra che c’è una diffusa persistenza a non rispettare la legge, urbanistica e no. E’ di questi giorni l’informazione che il contenzioso amministrativo in questa regione è tra i maggiori d’Italia con il Piemonte. Qualche cosa dovrà pur significare questo dato. Deve essere assolutamente nitido che la legittimità e il rispetto della legge non vanno ridotti a fatti meramente burocratici o ad inutili orpelli perditempo, in quanto costituiscono fondamentale garanzia degli interessi generali. Il recentissimo conflitto aperto dal Presidente del Consiglio nei riguardi del Presidente della Repubblica costituisce un esempio oltremodo emblematico che dovrebbe fare alzare le orecchie.
Lasciano poi perplessi alcuni passi del discorso dell’Assessore.
Cosa vuol dire diventare più ricchi. Chi, quanto e in che misura e come si deve arricchire; a svantaggio di chi e di cosa. Questo non è scritto e invece andrebbe chiarito e precisato. Di certo non si è mai sentito un politico asserire pubblicamente che il suo programma è finalizzato a mettere in ginocchio la comunità, o a fare tabula rasa del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. Però c’è modo e modo per dire e per non dire.
Cosa si intende essere più civili. Il fatto che il Friuli Venezia Giulia sia, forse, meno arretrato in alcuni settori rispetto ad altre realtà regionali, non può giustificare l’inazione e i ritardi. L’applicazione delle direttive europee in materia ambientale (Siti di interesse comunitario e Zone di protezione speciale) in questa regione non è da prendere da esempio di civiltà. Tutto è stato fatto in piena assenza di atti legislativi e regolamentari regionali, si è proceduto solo mediante l’emanazione di, confuse e contraddittorie deliberazioni della giunta regionale. Idem per quanto riguarda l’assoluta inadempienza verso disposizioni normative nazionali che discendono da direttive europee di effettiva civiltà, in quanto volte a tutelare la salute e la sicurezza degli individui, lo sviluppo compatibile della città e dell’ambiente, in cui la comunità stessa vive. E ‘ il caso della delicatissima materia degli insediamenti industriali a rischio di incidenti rilevanti. In regione ci sono diversi insediamenti a rischio e il trattamento delle previsioni urbanistiche negli strumenti di pianificazione comunale resta privo di riferimenti di metodo volti a ridurre i rischi per gli altri insediamenti prossimi, esistenti e no. Sono solo due tra i diversi possibili di carenza di civiltà.
A ciascuno secondo le proprie esigenze, suona un pochino come l’accondiscendere a tutto e a tutti. Si dovrebbe essere più cauti e responsabili ad affermare questi principi, forse un po’ demagogici. Si dovrebbe ribaltare l’approccio, ponendo l’attenzione sulla sostenibilità delle risorse, piuttosto che spostare l’asse di interesse su consumi e merci.
Preoccupazione, poi, sorte la sollecitazione a cavalcare lo sviluppo del territorio che emergerebbe nell’affermazione dell’Assessore secondo cui, una volta definiti i campi di operatività delle funzioni regionali, il comune dovrà decidere come “riempire i vuoti che ci sono negli interstizi dell’ossatura”. Il termini riempire non prelude a rassicuranti garanzie, al contrario potrebbe suonare come un incitamento a darsi da fare: “Che la festa cominci !”. Forse andrebbe considerata seriamente la modalità di identificazione del limite quantitativo e fisico del riempimento.
Una visione civile di governo del territorio, onesto e ossequioso delle regole di legge della democrazia costituzionale, responsabile nei confronti della comunità locale, in rapporto corretto e leale con la comunità regionale e nazionale, mosso da una visione rivolta all’uso parsimonioso delle risorse, primo fra tutti il suolo, dovrebbe far fare agli amministratori conti sulla sostenibilità ambientale ed economica delle scelte urbanistiche. E chi sbaglia quei conti dovrebbe pagare, anziché scaricare facilmente sulle future generazioni, ma anche sugli attuali abitanti, gli effetti della sua elezione e della facile carriera politica individuale.
Si contano su poche dita le amministrazioni che si preoccupano di svolgere preventive verifiche di sostenibilità delle scelte urbanistiche: capacità del territorio di sostenere ulteriori sviluppi insediativi in rapporto alle risorse disponibili (energetiche e naturali), all’incidenza sui costi di estensione, manutenzione e gestione di reti, di viabilità, di erogazione di servizi, ecc. Ancora di più rare quelle che curano, promuovono e coinvolgono le comunità locali ad avere nei confronti del territorio e dell’ambiente, in quanto risorse della comunità, un rapporto responsabile e cosciente che non sia quello del solo sfruttamento immediato. La ragione è evidente e sta tutta nel meccanismo elettorale: il famigerato quinquennio entro il quale il piano del principe, come qualcuno con lucida ma sciocca esemplificazione lo ha definito, deve dare risultati concreti. Il piano dei prendi i soldi e scappa, insomma. Ma la conoscenza necessaria e approfondita dei fenomeni, la capacità di intravedere e comprendere gli effetti delle possibili opzioni di piano sui sistemi coinvolti, richiede tempo, danaro, testa e cuore. Ogni scelta affrettata, non ponderata con responsabilità e coscienza, produce effetti difficilmente recuperabili, se non a costi monetari enormi, che solo la fiscalità generale può assicurare, in condizioni economiche di crescita, magari dirottando risorse da altri investimenti socialmente indispensabili. Tutto questo deve essere ben presente e posto alla base di ogni scelta di politica urbanistica che la Regione intenda assumere.
C’è da chiedersi sino a che punto il sindaco o la maggioranza di governo di una città, possano fare ciò che credono del territorio, posto che questo non è un feudo, né è di proprietà esclusiva di una singola comunità, ma è parte integrante di una comunità regionale e nazionale. C’è da chiedersi se in nome dell’autonomia e dell’assenza dei controlli, tutto sia sempre e comunque ammesso. Se insomma non esiste più un etica dell’amministrare la cosa pubblica e l’urbanistica.
Concludendo ma non avendo senz’altro esaurito le questioni, non è proprio del tutto vero che l’amministrare l’urbanistica e il territorio in questa regione ha dato frutti eccellenti. Se qui si è stati meno bravi del Veneto nel fare danni ciò non deve far dimenticare che i problemi, grossi e gravi, ci sono. E’ ora che la Regione li affronti per davvero facendo con responsabilità, coscienza e scienza ciò che le compete.
Nota: qui allegato e scaricabile, il PDF della relazione presentata dall'assessore regionale al territorio del Friuli Venezia Giulia, Lodovico Sonego (Villa Manin, Passariano, 24 febbraio 2005), a cui si riferisce tra l'altro il testo (f.b.)
ARZACHENA. Lo scenario è allarmante: ci sarebbe un disegno strategico per affossare il turismo in Gallura e per fermare iniziative e progetti per la Costa Smeralda favorendo, invece, la realizzare di grandi investimenti sul versante opposto dell’isola, nelle vecchie miniere della costa di Arbus. L’accusa, pesante come un macigno, giunge da Mauro Pili, consigliere regionale di Forza Italia e sostenitore della linea dura contro la politica urbanistica del governatore Renato Soru e della sua maggioranza di centrosinistra. Pili si spinge oltre: denuncia l’ombra di un interesse personale dietro il piano di affossamento della Costa Smeralda e annuncia l’imminente arrivo da Milano di documenti che proverebbero la compravendita e la proprietà delle ex aree minerarie; documenti che saranno poi illustrati pubblicamente in Consiglio regionale.
Mauro Pili non ha scelto a caso la tribuna per la sua requisitoria: Arzachena, insieme a Olbia, è infatti l’epicento della rivolta dei sindaci del centrodestra contro la legge salvacoste. E sempre da Arzachena proprio nei giorni scorsi è partita la proposta di inserire Porto Cervo nell’area urbana evitando le meglie strette della legge regionale che, di fatto, paralizzano i grandiosi progetti messi in cantiere da Tom Barrack, padrone della Costa Smeralda. Così, ieri mattina, un normale congresso cittadino di Forza Italia (uno dei tanti che si celebrano in questi giorni) si è improvvisamente trasformato in rampa di lancio per i siluri lanciati contro la giunta regionale e il governatore Renato Soru. Un rapido tam-tam telefonico e il commissario provinciale Tonino Pizzadili ha annunciato l’arrivo di Mauro Pili e del coordinatore regionale Pier Giorgio Massidda, poi i sindaci Pasquale Ragnedda e Settimo Nizzi più un nugolo di assessori e dirigenti di partito di mezza Gallura. Niente contraddittorio, solo sorrisi tra amici, uno scenario ideale per l’ex sindaco di Iglesias che non si è lasciato sfuggire l’occasione per affondare un colpo durissimo all’avversario politico.
Nel tratteggiare i contorni della presunta manovra per affossare la Costa Smeralda Mauro Pili cita episodi, date e circostanze riservandosi l’illustrazione di ulteriori dettagli non appena saranno disponibili le carte milanesi. «Quando ero presidente della giunta regionale - racconta l’esponente di Forza Italia - Renato Soru era impegnato in una delle cordate che volevano acquistare la Costa Smeralda. Volle incontrarmi per lamentare il fatto che la Sfirs non dava la copertura per l’operazione».
Alla fine la corsa all’acquisto della Costa Smeralda andò come tutti sanno, cioè con la vittoria della Colony dell’imprenditore americano di origine libanese Tom Barrack, e adesso per Mauro Pili è tempo di rispolverare la storiella della volpe e dell’uva. «Soru non è riuscito a comprare la Costa e oggi dice che non è “matura”. Da qui il suo desiderio maniacale di distruggerla, la sua missione di bloccare tutte le iniziativa e i progetti che possono accrescerne il valore, soprattutto quelli che riguardano l’allungamento della stagione turistica». «Dal punto di vista dell’accoglienza - continua Pili - la Sardegna poteva diventare un punto di riferimento per tutto il Mediterraneo, invece oggi ogni progetto si ferma irrimediabilmente davanti alla legge regionale salvacoste. Altra storia in Tunisia e Marocco dove tutti gli operatori si stanno attrezzando con centri benessere e altre strutture per coprire 12 mesi all’anno di attività».
In realtà, sostiene Mauro Pili, non tutto è fermo e congelato. «È stata astutamente inserita nella legge regionale la disciplina delle ristrutturazioni, che il centrosinistra ha dovuto inghiottire in silenzio, ed è questa la chiave che spalanca le porte al disegno del governatore». Il consigliere di Forza Italia indica una data (dicembre 2003) e una località (Milano): sono gli estremi di certe carte (atti notarili) che proverebbero operazioni di compravendita riguardanti immobili ex minerari nel comune di Arbus, nel Guspinese. La libera interpretazione di Pili si può sintetizzare così: «La legge salvacoste blocca tutto in Costa Smeralda ma, attraverso il grimaldello delle ristrutturazioni, renderà possibile realizzare investimenti turistici nella costa opposta a quella gallurese». «Quando arriveranno le carte da Milano - conclude - conosceremo finalmente i nomi dei protagonisti di questa operazione e ne discuteremo direttamente in consiglio regionale».
Più che mai linea dura, dunque, contro la politica urbanistica e turistica della Regione (Pili ha parlato apertamente di sfida e, addirittura, di «resistenza autonomista»). «Ma la nostra non è una semplice opposizione di parte o di partito, destra contro sinistra - precisa ancora Pili - piuttosto è una questione che riguarda i progetti di sviluppo per la Sardegna. I nostri puntano sull’ambiente e sull’uomo che ne è il naturale protagonista. Per questo diciamo ai talebani che vogliono chiudere l’ambiente in una campana di vetro».
Il solito Pili. Si fionda in una sala amica, dov’è più facile dismettere l’abito blu d’ordinanza per indossare i panni del tribuno che bacchetta e moralizza, senza uno straccio di contraddittorio. Per l’ex presidente della Regione, che conosce bene i meccanismi per conquistare un titolone sui giornali, l’opposizione si fa attaccando frontalmente chi nel passato si è messo di traverso (Mario Floris), o chi l’ha battuto in campagna elettorale (Renato Soru). Altri scelgono la strada della battaglia politica sui programmi non condivisi, sulle promesse non mantenute, sugli impegni disattesi. Lui no. Lui punta il suo bazooka contro qualcuno, non contro qualcosa.
Mauro Pili è libero di fare quel che gli pare. E’ anche libero di infischiarsene altamente di ciò che pensano numerosi esponenti della Cdl di questo personalissimo modo d’intendere la politica, quando non si è al governo. Un modo che si fonda su un iperindividualismo sfrenato che esclude il resto del mondo, anche il popolo della minoranza.
Per essere più credibile ed efficace, però, bisogna che Pili corredi le sue denunce con prove provate, e non si limiti a promettere atti ufficiali che poi non arrivano. Che Renato Soru volesse comprare la Costa Smeralda, è un fatto vero: la Nuova, a suo tempo, l’ha scritto. Che Renato Soru oggi detesti il modello di turismo della Costa Smeralda, è un altro fatto assodato. Altra cosa però è affermare che Renato Soru sia il capo di un’organizzazione che complotta contro la Costa Smeralda per favorire, per poco nobili interessi personali, altre zone della Sardegna. Se fosse vero, sarebbe un fatto non grave, ma gravissimo e la stampa avrebbe il dovere, oltrechè il diritto, di sottolinearlo fino alle estreme conseguenze, con servizi e titoloni. Bisogna dimostrarlo, però. Con atti incontrovertibili, che Pili dovrebbe affrettarsi a esibire, come ha promesso ad Arzachena.
C’è un precedente, che fa riflettere. Mesi fa, Mauro Pili e alcuni esponenti del centrodestra hanno consegnato alla stampa un copioso e sontuoso dossier, corredato da fotocolor, filmati, schede e cd, in cui si denunciavano torbidi interessi del Presidente, sempre a proposito di fasce costiere da punire o valorizzare. E’ finita così: Pili non ha ancora fornito le prove dello scandalo. E Renato Soru ha incaricato l’avvocato Cocco di Sanluri, un suo amico, di querelare i partecipanti a quella conferenza stampa.
Titolo originale: Bound to charm, if only it gets done – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Chiamatela presunzione, o incrollabile ottimismo . Quando abbiamo comprato la casa, in Italia, dove aveva abitato il compositore Arturo Toscanini negli anni ‘30, speravo di trasformare questo un tempo elegante palazzo in un’affascinante locanda a nove camere con comodità high-tech e un ristorante, nel giro di un anno.
Dopo due anni non c’è ancora una data fissata, per la grande inaugurazione della Locanda Toscanini. Forse all’inizio della prossima estate: se tutto va bene.
Sarebbe facile dare la colpa dei rinvii al mio architetto. Ma non sarebbe giusto. È anche il mio caro marito, amorevole padre dei nostri tre figli. E deve fare molto. Non sono una cliente facile.
Abbiamo attraversato il nostro primo “inferno del restauro” dieci anni fa, quando scoprimmo una casa di campagna abbandonata a Palazzone, un incantevole angolo del Chianti meridionale, a metà strada fra Roma e Firenze, e decidemmo di farne la nostra seconda casa.
Una settimana dopo aver firmato il compromesso, ovvero l’impegno a comprare, e versato il 30% del prezzo d’acquisto concordato, crollò il tetto. Ed era solo l’inizio.
Nonostante una serie di rinvii, la casa fu terminata – in tempo – un anno più tardi. E, a rischio di esagerare, è semplicemente uno dei più adorabili posti i questo pianeta.
Il nostro nuovo progetto, il palazzo nel villaggio di Piazze, era in condizioni migliori della casa di campagna quando l’abbiamo comprata, con acqua corrente ed elettricità. Vero, il tetto perdeva, non c’era un vero e proprio sistema di tubi dell’acqua, e nell’edificio abitavano più gatti randagi che esseri umani. Ma non c’era niente con cui non potessimo confrontarci.
Gli italiani hanno un detto che recita, i ciabattini spesso hanno le suole bucate. E in realtà il mio architetto da’ grandi consigli, ma non sempre li segue.
Nella scelta dell’impresa di costruzione, per esempio, dice ai clienti di chiedere tre preventivi e scegliere quello intermedio. I contratti, insiste, devono comprendere forti penali per i ritardi (a differenza di altri architetti italiani, i suoi progetti sono completati in tempo). E quando le coppie clienti litigano su un progetto, saggiamente consiglia ai mariti di delegare alle mogli.
Per gli interventi sul palazzo abbiamo avuto due preventivi più o meno con la stessa cifra, e abbiamo passato i mesi successivi a bisticciarci sopra.
Un’impresa, guidata dall’energico Signor Angelo, coi baffi nerissimi, veniva dal nostro primo villaggio, o paese. L’altra, dell’anziano e affabile Signor Giovanni, è il costruttore principale di Piazze, il nostro nuovo paese.
In italiano, la parola paese significa sia la nazione che la cittadina natale. Se si pensa che l’Italia non è stata unita con Roma capitale sino al 1870, non sorprende che molte persone si identifichino più con la cittadina di quanto non facciano con lo stato.
Nel nostro tranquillo angolo di Toscana vicino al confine con l’Umbria, le rivalità scorrono profonde, accenti e addirittura nomi di pietanze cambiano da villaggio a villaggio, un paio di collinette più in là. Ma una cosa è universale: si favorisce sempre il paesano, il concittadino.
In quanto americana trapiantata, con un marito romano, ma di estrazione tedesca e italiana del nord, credevo che queste regole non scritte non valessero nel nostro caso. Ma alla fine, dopo molto digrignare di denti e vari appelli da parte di entrambi, abbiamo scelto il nostro paesano, Signor Angelo. È partito alla velocità del fulmine.
Grazie alle norme recenti, le riparazioni di urgenza possono cominciare 30 giorni dopo aver presentato un documento chiamato DIA all’ufficio tecnico locale, anche se i progetti definitivi di restauro non sono stati ancora approvati.
Angelo ha sostituito il tetto prima della scadenza prevista, così quando abbiamo firmato l’altra serie di contratti non abbiamo inserito la penale per i ritardi. Francamente a quel punto la nostra preoccupazione era di trovare i soldi per pagare i lavori completati in anticipo: a pensarci ora non c’era niente di cui preoccuparsi, visto cha Angelo si è impegnato in due altri grossi lavori oltre al nostro.
Ci sono altre ragioni per i rinvii. Io sono una di quelle. Quando il nuovo camino ha iniziato ad assomigliare a quello di una casetta svizzera dozzinale, ho insistito per rifarlo. Poi, e qui confesso di essere una tossica dell’informazione, le spesse pareti di pietra hanno dovuto essere cablate per internet ad alta velocità, televisione satellitare, e naturalmente l’aria condizionata.
E ci sono stati altri eventi fuori dal nostro controllo: la scomparsa di un parente, la morte di un papa, i problemi di un nuovo bambino e la necessità di trovare un’altra casa più grande a Roma. Nonostante il mio brontolare, il mio architetto ha dispiegato la solita pazienza: quasi sempre.
Una delle imprese più difficili è stato convincerlo che gli ospiti avrebbero avuto bisogno sia di una lavatrice che di un asciugatore. Per qualche motivo (sciovinista, secondo me) gli uomini italiani nutrono un’avversione per queste cose. Ma quando ho storto il naso davanti a certi muri di pietra e mattoni, il mio architetto è stato irremovibile. Era lui l’esperto di progetti, ha detto, e sarebbero andati benissimo.
Probabilmente sarà così. Vedremo. Cominciamo ad arredare il mese prossimo.
L´auto sbuca dalla nebbia, rallenta, monta sulla passerella a passo d´uomo, percuote le vecchie assi come uno xilofono, al ritmo sincopato lento della pianura. È il rumore dei francesi sulla Beresina, dei carriaggi di Armando Diaz verso il Piave, dei tedeschi in fuga nel ‘45. Le giunture coperte di "galabrösa" - la brina dei padani - cigolano al passaggio, il pianale tuona sui barconi inchiavardati con pulegge. Sotto, il mormorio dell´acqua alpina in viaggio verso il Po, che sbuca lì dietro l´angolo. «Giù le mani dal ponte» ti dicono i passanti intabarrati, e fanno il segno di vittoria con le dita, come se Torre d´Oglio fosse Mostar. Non difendono un manufatto, ma l´anima della pianura.
La Padania è in guerra per l´ultimo ponte. Non vuole che gli cambino i connotati, come la Provincia di Mantova è decisa a fare in febbraio. La protesta è arrivata in Parlamento, con firme, interrogazioni, presidi sul territorio. Questo, ti dicono, non è solo un «ponte di barche». È di più: un ponte che naviga. L´unico in Europa. Risale o scende la corrente, si sposta come un traghetto con a bordo due passerelle - simili ad ali di pipistrello - da agganciare a quattro approdi diversi, su livelli stradali differenti. Ha anche il suo ponte di comando: la baracca degli addetti, con letti e cucinino. A bordo vietato dormire, il fiume può alzarsi anche di due metri in meno di ventiquattr´ore.
Sta effigiato in tutte le guide turistiche, il Touring lo mette in copertina, ma fa niente. Al suo posto vogliono metterci «un ambaradan». Una struttura galleggiante fissa, con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po´ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana. Il ponte, del ‘26, è uno degli ultimi del mondo di ieri; fatto prima che il calcestruzzo generasse le «ardite campate» d´epoca totalitaria, e le bombe del ‘45 completassero l´opera affondando le strutture galleggianti sopravvissute nel Grande Nord.
Mica per niente Bertolucci ci ha girato Novecento. Intorno, un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E poi argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e canali di bonifica che si incrociano, si sovrappassano in una trama indecifrabile, con l´Oglio che scorre più alto rispetto alla pianura e la può inondare in ogni momento. E il Po, che nei millenni s´è cercato la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, e oggi, ancora qui, compie la sua virata più spettacolare. Dopo Pomponesco, il Dio Serpente si gira verso le sorgenti, risucchiato dall´Oglio che subito lo rigurgita in direzione del Delta, in un´altra pazzesca curva da autodromo.
Altro che i canali di Francia. Questa è una Mesopotamia, con segni secolari di regimazione delle acque, ben precedenti alla bonifica fascista (la chiamarono «riscatto delle terre»), con cascine del Cinquecento, luoghi come Sabbioneta - capolavoro italiano del Rinascimento - costruita su un terrapieno che, in mezzo a fiumi pensili, la fa diventare isola nel gioco impercettibile delle isoipse di questo mare di mezzo pronto a riformarsi a ogni piena. Un labirinto di meraviglie: con in mezzo lui, il ponte di Torre d´Oglio, simbolo e baricentro di un mondo in bilico fra Reggio, Mantova, Parma e Cremona, cuore nobile della pianura.
«Protesta lumbard». Alla Provincia di centrosinistra liquidano così la rivolta, e accampano «spese di gestione insostenibili». Poi vai a vedere chi attraversa il ponte, e non trovi leghisti. Stupefatti tedeschi in bicicletta che passano in muto raccoglimento. Contadini della Bassa con i trattori, mamme mantovane che portano i figli all´asilo, cavallerizzi pavesi che vengono qui solo per sentir gli zoccoli calpestare le assi di legno, o i giunti pigolare sulla corrente verdegrigia. Fai il conto dei passaggi - mille in sei ore in un´orrenda giornata di pioggia - e t´accorgi che, col pedaggio di un euro a testa ai non residenti, il ponte si autofinanzierebbe alla grande.
Ma alla Provincia non mollano. Per convincerti che non sarà una tragedia, ti mostrano un bel modello: la passerella di Arles, quella a bilancieri dipinta da Van Gogh. Così, come se la Padania fosse la Provenza, come se la corrente del fiume camuno fosse quella, sonnolenta e navigabile, delle chiatte del Midi. Intanto il ponte agonizza per assenza di personale. I pontieri vecchi se ne sono andati, stufi di combattere; quelli giovani non riescono a coprire i turni, non hanno più qualcuno che insegni loro il mestiere. Spesso il pontiere è solo, non ce la fa a navigare verso l´approdo giusto quando l´acqua sale, e così il glorioso manufatto si logora. E il problema si risolve all´italiana, senza bisogno di permessi della Soprintendenza.
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A Viadana, poco a monte, di fronte a Brescello e al campanile di Don Camillo, il Po scroscia sotto le stelle d´inverno. Sull´argine fa un freddo becco, «da lazaron» dicono qui. All´osteria Bortolino si batte carte tra tortellini di zucca, trippa con fagioli, bottiglie di Barbera. Cibo tosto, in bilico fra Lombardia ed Emilia. «Quando vuoi far conoscere la pianura ai forestieri, li porti a vedere quel ponte. Lì c´è già tutto. Ma vallo a spiegare ai politici», brontola Paolo Bergamaschi, 55 anni, consigliere per gli affari esteri dei verdi al Parlamento europeo. Sa che, se fosse in Francia o Germania, la gloriosa passerella navigante sarebbe una vedette. La circonderebbero di cartelli, la collegherebbero a un museo e a un percorso turistico. «Non ci vuole niente far rendere questo posto, e trovare contributi europei».
Al mattino dopo fai appena a tempo a vederlo. Dalla passerella fra le barche avvisti già alle sette una striscia fosforica, alta poco più di un metro, che arriva controcorrente dalla confluenza col Po, invade le golene disseminate di salici e alberi di noce, dilaga nelle terre basse, diventa una banchisa di latte, poi si gonfia, oscura il cielo in pochi minuti, forma una massa compatta, felliniana, da Amarcord. «La nebbia ritorna», ghigna Umberto Chiarini, padano innamorato delle sue terre, dietro il suo barbone da baleniere. E col caravan ti porta in immersione, come in sommergibile, in un silenzioso fondale oceanico.
Navighiamo in un bicchiere di orzata. Intorno, non c´è luogo che non abbia nome "idraulico". Sabbioni, San Matteo delle Chiaviche, Boccabassa, Canale Navarolo. O la Valle dell´Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. Oltre i filari di pioppi, la Corte Motta o la Corte Camerlenga - sentite che nomi - fattorie con terrapieni che portano al primo piano, dove rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di "rotta" del fiume, arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre.
«Non tutto si misura in denaro e viabilità - si accalora Chiarini - i pontieri sono anche sentinelle delle acque». Col ponte, spiega, si rischia di cancellare un presidio. La contezza dei punti deboli dove il fiume può sfondare. La topografia delle "brede", le terre basse; o dei "bugni" (o "budri"), voragini tonde come pignatte che squarciano le argille; dei fontanazzi addormentati; dei sifoni alla base dell´argine. La conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini, della permeabilità dei terreni. O i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l´acqua si asseconda, non si tappa mai. Altrimenti, esplode e fa disastri.
Odone Rondelli, pontiere in pensione, abita a Cizzolo, a due passi dall´argine, in una casa decorata da vecchi legni portati dal Po. Radici a forma di mantide, uccello, tartaruga. Sul tavolo, ciccioli, salame e lambrusco. Quando arrivò la piena del 2000, fu lui a dire come bloccare i fontanazzi senza danneggiare il terrapieno, usando la stessa acqua che usciva. Lo sapeva perché glielo avevano insegnato i vecchi. Ora, con i nuovi pontieri trimestrali, la sapienza antica non passa più di mano. La controprova? «Le rotte del Po sono spesso coincise col passaggio di eserciti, quando la gente, per salvarsi la pelle, non riusciva più a controllare il fiume».
Nella bruma l´impianto idrovoro di San Matteo delle Chiaviche, dove confluiscono tre canali su livelli diversi (Fossola, Ceriana e Navarolo), ti si para davanti enorme, sembra la diga sullo Yangtse, con la lapide dell´ingegner Cavour Beduschi «redentore» delle terre impaludate, l´uomo della grande bonifica mantovana. Pannelli elettrici anni Venti, pompe a elica e chiocciola, fondamenta fatte con migliaia di tronchi di salice piantati nel fango a suon di battipali. Una meraviglia, perfetta per un ecomuseo che forse si farà, forse no.
Il ponte cigola, fa un lamento lungo come di uccello. Questo, spiega Chiarini, era ed è un punto d´incontro di passanti, turisti, pescatori e barcaioli. «Non capirlo, rivela non solo ignoranza nei confronti di un territorio complesso e affascinante, ma anche la fine di un´etica della manutenzione, che è alla base della sopravvivenza del sistema padano». Il freddo aumenta. Poco in là, cavalieri passano in silenzio sotto l´argine maestro. Un terzetto di poiane in predazione si appollaia sui fili della luce. Nella nebbia filtra aria di neve.
Per i nostri beni culturali e ambientali, per la cultura in genere, sono stati cinque anni orrendi. Con Buttiglione che, adesso, riesce a fare, talora, persino peggio di Urbani: nei giorni scorsi ha nominato un consiglio di amministrazione della Holding Cinecittà, composto da ignoti (evidentemente di area); tranne (?) un doppiatore e la ex moglie di un politico molto in vista. Il ministro-filosofo, dopo aver messo il responsabile, da decenni, delle Biblioteche, Franco Sicilia, a capo del Dipartimento dei Beni culturali e paesaggistici, ha stilato una norma ad personam per cercare di tenerlo in attività oltre i 70 anni.
Possibilità, quest’ultima, invece negata ad Adriano La Regina per la Soprintendenza archeologica di Roma e ad Antonio Paolucci per il Polo museale fiorentino. Cioè a due specialisti della materia di valore internazionale (anche se il primo, chiamato “Signor no”, risultava particolarmente “scomodo”, diciamolo, nella sua autorevolezza e quindi da pensionare appena possibile per la gioia degli immobiliaristi vecchi e nuovi).
Non basta: il ministro Buttiglione ha nominato direttore generale dei Beni storici e artistici - al posto di Mario Serio, per anni figura di rilievo - non uno dei soprintendenti più in vista rimasti, bensì l’ennesimo quadro amministrativo. Un bel bilancio. Ma vediamo, in sintesi, i misfatti del 2001-2005.
Sul piano finanziario: nel terribile quinquennio berlusconiano, tagliati con l'accetta i fondi per gli investimenti; dirottati quelli del Lotto del mercoledì dai restauri alle spese di sopravvivenza degli uffici; Fondo Unico dello Spettacolo ridotto in cinque anni del 27 per cento; risorse del Ministero precipitate (dal 2002 in specie) del 57 per cento, ecc. Quindi “buchi” di organico a tappeto, fra i tecnici in specie. In compenso, denari a pioggia distribuiti a ben 45 Comitati, per esempio al Comitato per il IV Centenario della nascita della beata Giovanna Maria Bonomo (150.000 euro) o a quello Nazionale “Viaggio dei Re Magi” (100.000 euro). Molti di più, pacchi di milioni, ne ha dispensati la società Arcus, una SpA, dove comanda soprattutto Pietro Lunardi, ministro delle Infrastrutture, e dove i Beni culturali non mettono lingua: difatti una bella fetta di euro è finita a Parma «capitale della musica» dove Lunardi potrebbe candidarsi a sindaco e dove il centrodestra progetta una sorta di anti-Scala, col sostegno di Mediaset e di Fedele Confalonieri che ha mollato Scala e Filarmonica.
Sul piano delle leggi: ridotto e peggiorato, col Codice Urbani e con altro, il livello della tutela rispetto alle due leggi Bottai del '39 (patrimonio storico-artistico e paesaggio), alla legge Galasso (piano paesistici), ecc.; ribaltato il principio plurisecolare della inalienabilità dei beni culturali pubblici, (salvo eccezioni certificate dalle Soprintendenze); travolto in pochi attimi il Regolamento Melandri elaborato in proposito in un anno di lavoro, tutto ciò al fine di far agire liberamente la Patrimonio SpA per la vendita di quei beni; approvati devastanti condoni edilizi e ambientali; prime privatizzazioni di Musei italiani contro il motivato parere dei direttori di tutti i maggiori musei del mondo, ecc. ecc.
Sul piano politico-amministrativo: spoil-system e accantonamento o trasferimento di soprintendenti e di alti funzionari sgraditi; devitalizzazione totale del Consiglio Nazionale dei BC, non convocato per mesi e mesi; guerra aperta ad alcuni soprintendenti, per esempio a Pier Giovanni Guzzo di Pompei al quale è stato messo vicino quale city-manager nientemeno che il direttore del Museo di Mondragone paese natale del ministro di An, Mario Landolfi, col fine (agognato anche dal sottosegretario Martusciello) di accorpare Pompei e Napoli nominandovi una figura di archeologo che non abbia la personalità, che diamine, di Guzzo; fusione o minaccia di fusione di Soprintendenze storiche (Etruria Meridionale, Ostia Antica, ecc.) in un calderone regionale, contro ogni criterio scientifico.
Si potrebbe continuare, ma conviene invece parlare della reazione, che tutti gli addetti ai lavori, partecipando a convegni, firmando appelli motivati, preparando contro-progetti, si attendevano dal centrosinistra sulla linea della “terapia d'urto” chiesta da Prodi al tempo delle primarie. I documenti di programma che sono circolati sin qui non recano l'impronta di una netta discontinuità rispetto ad alcune politiche del centrodestra. Certo, propongono di riportare i finanziamenti ai livelli ante-Berlusconi, ma bisognerà trovare le risorse, e non possono certo bastare l'8 per mille e il recupero del Lotto del mercoledì, che Veltroni volle aggiuntivo. Dicono recisamente di no ad altri condoni, ma poco parlano della “ricostruzione” di un apparato di garanzie, di organismi e di leggi semidiroccato, della riqualificazione del Ministero. Nella tutela, allo Stato subentrerebbero - vecchio disegno “federalista” - le Regioni, pur avendo davanti il disastro del modello regionale siciliano. Vi si parla inoltre soprattutto di ”valorizzare”, con un economicismo ed un produttivismo applicato ai beni culturali e ambientali che a volte ricorda sinistramente il De Michelis dei “giacimenti culturali” non mai abbastanza deprecati negli anni '80 e quel ministro-pianista, Mario Pedini, il quale coniò la dannata espressione: «I beni culturali sono il nostro petrolio».
Ora, il petrolio, a parte che inquina moltissimo, è lì per essere sfruttato fino all'esaurimento, mentre il patrimonio storico-artistico-paesaggistico è lì - secondo l'art. 9 della Costituzione - per essere anzitutto tutelato e, se debitamente, conservato (cosa che accade sempre di meno), all'interno della tutela, valorizzato. Rischia dunque di passare nel programma dell'Unione una linea che, ponendo la “produttività” (economica, occupazionale, turistica) quale metro essenziale di valutazione, distingue nel contesto italiano, i beni suscettibili di «fornire reddito» da quelli che proprio non ne potranno dare (musei medi e minori, la maggior parte delle chiese, centri storici svuotati ma vincolati, archivi, biblioteche, a meno di non venderle). Si rischia di confondere il Bel Paese e il suo patrimonio, fonte di crescita culturale, civile, sociale, con l'industria turistica mossa da quel formidabile complesso di centri storici, di abbazie, di castelli, di pievi, di musei di ogni tipo, di torri, tutti legati nel “palinsesto” del paesaggio storico e naturalistico. Il turismo, lasciato libero di dilagare, ci ha regalato massacri paesistici e ambientali non meno dell'industria pesante e quello “culturale” sta travolgendo, per esempio, i centri di Firenze, di Venezia, in parte di Roma, piegandoli a bazar, a fiera permanente. Vanno fortissimo le grandi mostre di consumo (con gli Impressionisti, poveretti, in tutte le salse, per «idioti da viaggio», sferza «Le Monde»), mentre i musei, spesso molto belli, battono il passo, o meglio, crescono sempre i soliti noti. Un caso esemplare: sull'onda del “valorizzare” è stato prestato, per molti mesi, ad una mostra milanese lo splendido Caravaggio di Sant'Agostino a Roma; negli stessi giorni la chiesa ha mostrato seri cedimenti strutturali. Qual è il vero compito dello Stato? Valorizzare i quadri come merce, oppure salvaguardare, in ogni senso, il patrimonio? A noi la risposta sembra una sola, la seconda.
L'ultimo assalto del centrodestra al territorio siciliano si chiama "polo turistico" dell'Etna. In effetti, proprio per non farsi mancare niente, il disegno di legge in discussione nei prossimi giorni all'ARS di "poli turistici" ne istituisce quattro: uno dentro il parco dell'Etna, un altro nel parco dei Nebrodi, il terzo in quello delle Madonie e l'ultimo a cavallo fra quelli dell'Etna e dei Nebrodi. L'ambizione è quella di realizzarvi quattro stazioni sciistiche invernali (funivie, seggiovie, impianti sportivi, alberghi, strade, parcheggi, ecc.), obiettivo che ha fatto sollevare non solo tutte le associazioni ambientaliste ma anche tutti gli studiosi, vulcanologi, botanici, zoologi, geologi e persino urbanisti ed economisti, i quali non solo hanno spiegato come questa ipotesi comprometterebbe la salvaguardia dell'ambiente nei parchi, ma sarebbe anche economicamente destinata al fallimento. Giacché la Sicilia non è il Trentino né la Valle d'Aosta e piuttosto che inseguire modelli oggettivamente impraticabili, proprio la valorizzazione del parco, se attentamente condotta, ne farebbe quell'unicum anche turisticamente redditizio.
Ciò detto, il disegno di legge, bisogna ammetterlo, è un piccolo gioiello dell'inganno. Non solo perché di tutto questo non c'è scritto nulla (lo si apprende bene solo dal dibattito sulla stampa, dai lavori parlamentari e se ne trova appena la traccia nella relazione allo stesso ddl) ma perché è costituito da un solo articolo che a prima vista può sembrare perfino innocuo. Proprio per questo è molto interessante analizzarlo. I quattro poli turistici vengono infatti istituiti in zone cosiddette "di protezione di tipo C", già previste nella norma fondativa dei parchi in Sicilia, la famosa L.R. 98/81, poi modificata dalla 14/88. In quella erano ammesse "soltanto costruzioni, trasformazioni edilizie e del terreno rivolte specificatamente alla valorizzazione dei fini istitutivi del parco quali strutture turistico-ricettive, culturali, aree di parcheggio"; nel ddl in oggetto vi è consentito "realizzare strutture turistico-ricettive, culturali, aree di parcheggio, nonché trasformazioni edilizie finalizzate esclusivamente alla valorizzazione dei fini istitutivi dei parchi". Stessa cosa, come si vede. Il trucco dov'è? Nella perimetrazione di queste nuove zone "C", che il ddl evita di compiere ma rimanda ad una subdola procedura definita alla fine dell'articolo. Mentre la legge attuale prevede l'approvazione di un piano territoriale esteso all'intero parco in cui individuare le zone A, B e C organicamente relazionate fra loro sulla base di accurati studi e progetti, unitamente ad un regolamento che disciplina tutti i lavori di costruzione all'interno del parco, il ddl esplicitamente deroga a tale procedura prevedendo che l'Assessore regionale al Territorio ed Ambiente, con proprio decreto e senza alcuna pianificazione, catapulti dentro i parchi le zone "C" desiderate. Esattamente come sostituire ai piani regolatori delle città i decreti dell'assessore regionale che, accontentando il sindaco suo amico, decide qua un'area artigianale e là una zona di espansione edilizia. C'è anche un paravento, apposta per la bisogna: la proposta la formulano ufficialmente i sindaci dei comuni interessati (gli stessi, in massima parte di Forza Italia, che ce l'hanno già pronta e volevano l'istituzione delle zone C direttamente per legge) e vanno acquisiti i pareri dei comitati esecutivi e di quelli tecnico-scientifici dei parchi, da rendersi entro 30 giorni, decorsi i quali si intendono favorevolmente resi. Pareri, manco a dirlo, non vincolanti. Come si vede, più una finzione che altro.
Se, come si è visto, il ddl è un capolavoro di dissimulazione, sul piano politico è la summa delle ipocrisie. Indigna il governo regionale, che non ha un minimo di linea politica né di coerenza programmatica, che per sua natura dovrebbe avere un’idea e per ciò governare, e invece lascia fare senza intervenire. La proposta è infatti “di iniziativa parlamentare”, firmata da Forza Italia e questo gli dà l'alibi per dire che non c'entra nulla. Così il ddl va avanti e supera l'esame della IV commissione dell'ARS, grazie alla presenza massiccia, assolutamente insolita ma organizzata per l'occasione, dei deputati del centrodestra. La polemica gonfia, poi esplode. Con le semplificazioni di sempre: "cementificatori" contro "imbalsamatori". E ancora una volta il miracolo: dentro il governo c'è posto per tutti e il contrario di tutto, l'assessore Cascio da una parte, Granata dall'altra. Con Cuffaro che fino ad ora tace, solo per annusare da quale parte spira il vento migliore e poi dichiarare ad hoc una presa di posizione salvafaccia. Cascio è quello stesso che in queste settimane racconta la favola della riforma urbanistica e poi appoggia un disegno di legge che, prima ancora che compromettere i parchi siciliani, si mette sotto i piedi il principio stesso di pianificazione territoriale. E Granata va declamando poesie per i suoi viaggiatori mentre la Regione investe cifre colossali per cofinanziare impianti da golf e incredibili parchi di divertimento come quello di Regalbuto, vere truffe ai danni dei siciliani. Noi non stiamo meglio: la matrice culturale sembra essere la stessa, la superficialità delle analisi pure. Non vogliamo uno sfruttamento che comprometta l'ambiente, ma il nostro "sviluppo sostenibile" è ancora tutto da sviluppare.
Per questo sono convinto che dal prossimo governo la Sicilia debba attendersi una marcia in più ed in una direzione ben precisa, non un’altra marcia e basta.
Sul ddl ora in discussione si veda anche, in questo sito, l’articolo di Maria Zegarelli.
Quando Renato Soru ha annunciato il suo programma i più avvezzi ai linguaggi della politica hanno capito che la sua indignazione per il malgoverno dei territori costieri era autentica. E che faceva sul serio quando diceva di volere mettere un freno all’ aggressione a quei paesaggi. Con questo punto in evidenza il centrosinistra, sempre molto esitante al riguardo, ha vinto le elezioni.
Quelli più preoccupati hanno provato a consolarsi pensando che sarebbe andata a finire come sempre – tra un rinvio e una lite – facendo conto sul malcontento che nel frattempo si attizzava, sindaci di destra in prima linea, qualcuno di sinistra nelle retrovie.
Ma le cose vanno avanti e l’idea si rafforza. Alle ultime elezioni provinciali il centrosinistra vince ancora e anche in Gallura che non è, come ci volevano fare credere, tutta agli ordini dei palazzinari.
Oggi mentre il lavoro procede, forse troppo lentamente, uno sguardo retrospettivo dà la sensazione che le cose sono cambiate, seppure in ritardo, perché la politica non è mai puntuale su queste questioni. Le vicende degli ultimi 50 anni, che occorre tenere nello sfondo, spiegano che – pure con qualche eccezione – la classe dirigente locale, con il suo codazzo di sapienti, è responsabile almeno di omertà verso un processo che non ha fatto bene alla Sardegna. Al luccichio dei troppi villaggi turistici fa da controcanto lo spopolamento progressivo dei paesi dell’interno. Il più cupo degli squilibri, con prevedibili effetti a catena nel territorio e nel corpo sociale.
Gli esordi
In Sardegna, ancora nei primi decenni del Novecento, le strade che portano al mare sono quelle di sempre, poche e difficilmente percorribili. Non ci sono stati in realtà motivi che nel tempo abbiano convinto i sardi a spostarsi verso i litorali; anzi, com’è noto, sono state molte le ragioni che hanno nel corso dei secoli allontanato le popolazioni dalle linee di costa. Con relativi pregiudizi.
Poi, quando il mare non rappresenta più un pericolo ha prevalso un sentimento di indifferenza nei confronti di spiagge e scogliere. Dove per tanto tempo non succede nulla, e quasi nessuno pensa che un giorno quei luoghi selvaggi e disagiati possano essere trasformati secondo le regole mercato.
Sarà, Maurice Le Lannou, che visita la Sardegna negli anni Trenta, a constatare come le straordinarie risorse della isola non siano state sfruttate, nonostante gli esempi della Corsica e della Sicilia.
E prevede che i paesaggi della Sardegna resteranno ancora per molto preservati “dalle grandi costruzioni alberghiere, e le sue strade sconosciute alle lunghe file di pullman zeppi di gente“.
Dei pericoli, a cui accenna lo studioso, nessuno all’epoca coglie appieno il senso. Il turismo è un’eventualità considerata con distacco. I sardi che raccontano l’isola, per spiegarla ai turisti appena evocati, trascurano di informare sugli ambienti costieri, molti dei quali sono sconosciuti ai più.
Ma il turismo arriva a un certo punto nella povera Sardegna.
E coglie alla sprovvista la classe dirigente locale, che aperti gli occhi su questa prospettiva, si prodigherà per agevolarla acriticamente. La Sardegna deve muovere i suoi passi nella competizione per lo sviluppo del Mezzogiorno. Il sottosviluppo è la condizione sempre richiamata nei discorsi (e presupposto di utili patti, non sempre nell’interesse pubblico, da contrarre per combattere disoccupazione e miseria).
Intanto nei libri patrocinati dalla Regione foto e descrizioni dell’isola celano la precarietà degli abitati e le gravi carenze infrastrutturali, omettono i dati sull'emigrazione, offrono versioni pittoresche del banditismo che connota tragicamente la Sardegna dell'interno.
Costa Smeralda
A metà degli anni Sessanta sulla scia dell’impresa del principe Karim in Gallura, l’azione di promozione del paesaggio sardo s’intensifica ed è il mare in primo piano.
Le parti più pregiate del territorio sardo, sono ormai diventate materia prima, pronte per entrare nel circuito delle cose da vendere. E tutto si ascrive all’arrivo del principe benefattore.
Non si fa molto per fare crescere le iniziative a conduzione familiare, lo sviluppo locale diciamo oggi. Si preferisce fare conto sulla grande intrapresa turistica, per poli di sviluppo, (il gruppo di Rovelli – la Sir – sta già provvedendo alle prime assunzioni a Porto Torres).
Anita Ekberg si bagnava nella fontana di Trevi, e non nelle acque di Porto Cervo, quando “Costa Smeralda” comincia a prendere forma. Ma si annotava già nei rotocalchi la presenza di esponenti delle casate nobiliari, di attrici, attori e nuovi ricchi.
Ai quali piacciono le case rustiche e leziose volute dal principe: un florilegio di linee curve, in pianta e nei prospetti, abbondanza di archi finti, a pieno centro e ribassati, l’intonaco grossolano che avvolge mollemente i muri con l’effetto dello zucchero filato.
Il clamore provocato da quel flusso di presenze impiega poco ad arrivare alle orecchie di speculatori, palazzinari, faccendieri che comprendono di poter contare a lungo sulla reclame. Per contro è debolissima nell’isola la volontà di governare il territorio, come se la politica avesse deciso di stare a guardare compiaciuta la ressa attorno alla merce. Assicurando che ce n’è per tutti. Chiunque venga in Sardegna per fare affari, cioè case, ha buon gioco: i timbri per sancire la legittimità di progetti si ottengono in fretta.
Nei primi anni Settanta “Costa Smeralda” progetta la sua crescita (370.000 vani), mettendo in secondo piano l’attività ricettività alberghiera. E nessuno rileva questa circostanza diffusa; più in generale prende corpo corpo l’equazione secondo cui il flusso turistico è proporzionale alle case edificate, e mai viene evidenziata adeguatamente la grande, sostanziale differenza, tra costruttori e operatori turistici.
Inizia l’era delle ipotesi megalomani dei comuni. La previsione totale, pari a settanta milioni di metri cubi che si vorrebbero realizzare un po’ dappertutto, è una misura che comincia a scuotere qualche coscienza. I segni lasciati dalle attività edilizie di quegli anni in molti litorali sono vistosi. Si legge il procedere rapido (e negligente) di chi approfitta di una congiuntura favorevole (che si teme transitoria). “Fare in fretta” per costituire i presupposti di future urbanizzazioni, sembra la parola d’ordine. Come in un ‘altra epoca secondo i versi di Melchiorre Murenu che scrive nel primo Ottocento: Tàncas serràdas a muru/ fattas a s’afferr’affera/si su chelu fid in terra,/l’haiant serradu puru. ( Terre recintate con muri/ arraffando/ se il cielo fosse in terra/ lo avrebbero recintato).
Riforme e controriforme
La partita si fa stringente negli anni Ottanta. “Costa Smeralda” tratta separatamente con Comune e Regione, mentre si avvia il dibattito per l’approvazione della legge urbanistica regionale e dei piani paesistici secondo le disposizioni della legge Galasso. Un iter che si conclude nel 1993 con molte ambiguità: le norme fissano principi di tutela strutturali ma si mettono i presupposti per fare salvi i casi che contano. Tiene “Costa Smeralda” che ha condizionato fortemente il processo di formazione della legge regionale (che ridimensionerà le pretese . da sei a due milioni e mezzo di mc. !) insieme al progetto di “Costa Turchese” della famiglia Berlusconi, sempre in Gallura.
La finalità delle imprese è quella di sfondare le regole attraverso la concertazione con le parti pubbliche a cui si propone di pagare un magro pedaggio. La richieste, molte in deroga alle previsioni del piano, si dovrebbero accordare in forza di un famigerato codicillo della legge regionale. Un procedimento azzardato, tutto fondato sull’eccezione: impossibile da realizzare, per fortuna.
Ciò che risulta con chiarezza di questa fase è la linea di alcuni soggetti istituzionali, che confina con la subordinazione agli interessi privati.
L’obiettivo trasversale è la rivincita nei confronti di una stagione di riforme mal tollerate, e “Costa Smeralda” è la punta avanzata dell’offensiva. Si fa conto sull’imprenditore con maggiori credenziali per sondare la tenuta dell’impianto di salvaguardia – in primis il vincolo della fascia dei 300 metri dal mare – con il proposito di scardinarlo. Effetto domino assicurato.
La partita si trascina negli ultimi dieci anni con ricorrenti incursioni. Ma la strumentazione, pure con tanti difetti, è più resistente di quanto non appaia. E saranno i gravi difetti – denunciati da un’ associazione ambientalista – a convincere i giudici della necessità di invalidare i piani paesistici. Un atto che produce un vuoto clamorosamente dilazionato. Trascorrono quasi due legislature –maggioranza di centrosinistra prima, poi di centrodestra – senza che si avvii il processo per ripristinare la legalità. Un vantaggio di cui si giovano in molti com’ è ovvio che sia.
Qui interviene l’indignazione di Soru che inaugura un capitolo che ci fa sperare. Nonostante il clima sia assai favorevole agli immobiliaristi veri e falsi, gli unici che sembrano godere di buona salute, oltre che dei favori del Parlamento.
Qui una sintesi del pensiero di Renato Soru
Serravalle SCRIVIA - Il termometro segna - 1, l´orologio le 9.45. Il casello di Serravalle si infila veloce arrivando da Genova, ma da Milano le auto si snodano fino al curvone della rampa. Robetta: sabato mattina qui c´era già il caos, a mezzogiorno i chilometri di coda sulla A7 erano più di dieci. Non è più il primo giorno di saldi all´Outlet di Serravalle, ma tutti accelerano verso il parcheggio, dove una cinquantina di camper (prevalentemente piemontesi le targhe, sembrano essere una costante di tutti i weekend) svettano bianchi nella nebbiolina e alcune centinaia di auto si piazzano qua e là con gli occupanti pronti a catapultarsi fuori, non appena spento il motore: presto, che c´è già coda. È vero, davanti a "Dolce e Gabbana", nella "piazza" centrale, si assiepano in una sessantina, una ventina aspettano pazienti che si apra la porta di "Prada", altrettanti - di età decisamente più bassa - sono in attesa di catapultarsi dentro "Calvin Klein Jeans". Prima si arriva meno si aspetta: qui si entra pochi per volta, quando il volto corrucciato della security di guardia ti fa un cenno. Dieci in punto, si apre la seconda battuta, pardon giornata di caccia al saldo. Annarita e Gloria, da "Marzotto Factory Store", primo negozio sul percorso, sono ancora frastornate dal primo, clamoroso sabato di saldi: «Lavoro qui da cinque anni, mai vista una cosa così. L´affluenza è stata incredibile» dice una. E la collega: «Cos´hanno comprato? Tutto, direi. Soprattutto camicie da uomo, una marea. Di più non le so dire perché non sono riuscita nemmeno ad alzare gli occhi».
«Mammina siamo appena arrivati sì, adesso facciamo il giro... va bene, un bacio mammina!» Diana viene da Torino, chiude in fretta il cellulare, gli amici la incalzano: «Dài, dobbiamo comprare un sacco di roba!». Ma l´affare c´è davvero? Prezzi in vetrina: lupetto di cashmere che in tre mosse (prezzo originale, cartellino outlet, saldo) passa da 218 a 131 e infine a 92 euro; maglione in pile bianco griffato che con lo stesso meccanismo scivola da 91 a 54,50 e infine a 32,70 euro. Ammesso che si trovi la misura e s´incontri il gusto sì, l´affare è certo. Da "Brioni", capi d´alta sartoria, una giacca in cashmere riesce a scivolare da 1350 a 405 euro. «Ieri? Non ce la facevamo più da sole, abbiamo dovuto chiamare i colleghi...» ridono le vendeuses. Da "Borrelli Camicie" Laura mette le mani nei capelli: «Cavallette. Erano come le cavallette. Non sono nemmeno riuscita ad andare a mangiare, me ne sono resa conto alle nove meno cinque. Ho venduto cose che mai al mondo... Oggi, al confronto, è un lusso».
È mezzogiorno. Luigi Battuello, direttore del Serravalle Outlet, indica fuori dalla finestra del suo ufficio: «Vede là fuori? Quello spazio oltre la statale? Tutto pieno di auto. I tremila posti qui, gli altri duemila a lato, tutto pieno. Poi hanno cominciato a riempire ovunque, lungo le strade... tra un paio d´ore mi sa che sarà lo stesso. D´altro canto, il primo giorno di saldi è così, ma il problema sono gli accessi dall´autostrada: chi arriva da Milano deve fare lo stop, lasciare la precedenza alle auto in arrivo da Genova, e l´autostrada si blocca. Mi rendo conto che il casello era dimensionato per altre necessità, forse è il caso che si faccia qualche intervento». Quarantacinquemila persone sabato, circa 35 mila ieri, anche se più diluite nella giornata, fanno ottantamila in un weekend: annaspa la viabilità autostradale, ma all´Outlet e dintorni - un migliaio di posti di lavoro diretti, oltre duecento nell´indotto, progetti di nuovi centri commerciali già attivi in zona - i saldi sono la punta di diamante di un afflusso costantemente alto. «Ma per quale ragione dovevo comprarmi le scarpe prima dei saldi? Costano la metà, adesso» dice la signora bionda dall´accento milanese al telefonino. A dir la verità, a Serravalle lo sconto-dello-sconto, almeno per i clienti affezionati invitati via lettera o mail, era cominciato già con l´anno vecchio, con i pre-saldi. «Certo che sono venuti, e in tanti - sospira l´elegante signora alla cassa di "Loro Piana" - Non pensavamo di vedere ancora così tanti nostri clienti... cos´è successo sabato? Lo vede com´è ridotto il negozio?». Eh già, sono ben sguarniti, gli scaffali. Le cavallette griffate sono già sciamate via.
Nota: è forse di cattivo gusto (imperdonabile, davanti a tante griffes!) notare pur gentilmente, che "l'avevamo detto", e poi "l'avevamo anche ripetuto"? (f.b.)