Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2016 (p.d.)
La Sardegna è un formidabile museo all’aperto. Soltanto i misteriosi Nuraghe sono 8.815. Mentre i grandi Musei da “far fruttare” non esistono. Il Compendio Garibaldino di Caprera non ha un direttore, il Museo Sanna, archeologico ed etnografico, di Sassari è diretto da un geometra riqualificato antropologo. Senza direttore pure l’Antiquarium di Porto Torres e il Museo di Nuoro. Tutti offrono oggi servizi peggiori rispetto a quelli ante-riforma. Due anni fa, con la gestione della Soprintendenza, l’Archeologico di Cagliari ha quasi raddoppiato visitatori e incassi.
“Il Polo Museale in Sardegna creato artificiosamente”, mi dice Igor Staglianò, autore di memorabili inchieste per la Rai (l’ultima sui parchi nazionali semi-abbandonati), “ha avuto una ben misera dotazione, 150 mila euro in tutto. C’è un solo sparuto archeologo per l’intero circuito. La Soprintendenza ne contava 11 prima della riforma. Pochi e però l’unione faceva la forza. Separando i musei archeologici dal vero museo sardo che è il territorio, il ministero ha valorizzato, da Roma, una generale debolezza.”
Dedolante la situazione degli Archivi: non ci sono soldi per la digitalizzazione; gli Archivi di Stato sono retti da facenti funzione; alla funzionaria di Cagliari hanno scaricato pure Oristano. L’unica dirigente archivistica dell’isola deve pensare anche a guidare la conservazione degli archivi di Comuni, scuole, ospedali, ecc. A fronte di 150 mila euro richiesti ne ha ottenuti sei mila. A quattro Soprintendenze ne sono subentrate due che però devono tutelare 24.100 chilometri quadrati (più della Lombardia) con 18 sedi operative e depositi archeologici enormi (quattro statali e una trentina comunali), con un patrimonio alimentato da diverse civiltà mediterranee. Le due Soprintendenze “olistiche” hanno avuto da Roma 450 mila euro con cui tutelare l’isola, 1800 km di coste, migliaia di Nuraghe e aree di scavo, oltre a manutenzioni, bollette, impianti di sicurezza, ecc. Da piangere. Lavori di scavo? Messe in sicurezza? Zero euro. Auto? Le due Panda presto verranno ritirate: da un anno nessuno riesce a pagarne il leasing. Fra 1971 e 2011 le abitazioni (moltissime seconde case), sono balzate da 392 mila a 960mila(+ 136%). Percontro la Soprintendenza del Nord conta su 3 architetti (2 a tempo parziale), a fronte di circa 7.500 richieste annue di parere per nuove licenze e condoni paesaggistici: a pieno organico, 12 pratiche e mezzo a testa al giorno. Con l’umiliazione del silenzio/assenso (voluto da Renzi) e guasti paesaggistici inesorabili. A quei pochissimi custodi del paesaggio (pagati 1700 euro al mese e anche meno) toccano pure conferenze dei servizi, dichiarazioni di interesse culturale, pareri per l’impatto ambientale, progetti e direzioni dei restauri, manutenzione delle sedi.
La giunta Soru, col validissimo coordinamento dell’urbanista Edoardo Salzano, aveva approvato nel 2004 rigorosi piani di tutela delle coste isolane dopo un tempestivo decreto “salva coste.” La giunta Coltellacci (centrodestra), pur provandoci con forza, non è riuscita a devitalizzare il tutto. “Se non altro”, commenta lo stesso Salzano “sono state eliminate dalle previsioni dei piani urbanistici vigenti 15 milioni di metri cubi”. Una colata di cemento.
Nel sud i Musei sono soprattutto archeologici. Nelle chiese, nelle abbazie, o nei grandi palazzi, sta ancora la maggior parte delle pale, delle tele e delle tavole, degli affreschi, delle statue, insomma quanto al centro-nord si trova invece nelle Pinacoteche, statali e civiche. E qui la “riforma” Renzi-Franceschini dimostra in pieno tutta la sua assurdità. Come scindere i Musei archeologici dagli scavi? In Puglia, alla città di Taranto sede del bellissimo Museo nazionale della Magna Grecia e pure, da fine ’800 della Soprintendenza archeologica dell’intera Puglia, quest’ultima è stata “scippata”a vantaggio di Lecce e di Foggia. La creazione di tre Soprintendenze accorpate ha burocraticamente diviso fra loro territori omogenei come quelli abitati da Peucezi e Dauni. Il Chiostro del Convento di San Domenico (dove c’era la Soprintendenza Archeologica unica della Puglia, coi poderosi archivi regionali da fine ’800) è stato assegnato al Polo Museale che però non pare per niente interessato. Nell’area metropolitana di Bari ci dovrebbero essere cinque archeologi e però due soli operano qui perché altri due sono occupati altrove e uno ha ricevuto dal Polo anche l’incarico di dirigere il Museo di Manfredonia. Un solo archeologo a Foggia, altri due sono “in prestito” da Bari.
In Campania alla ex Soprintendenza di Caserta e Benevento i due storici dell’arte presenti nel 2015 sono andati in pensione. La Soprintendenza unica di Salerno e Avellino ha pochi archeologi perché qui sono migrati al Polo dove è confluita una decina di piccoli musei archeologici. Fanno incassi? No, perciò li aspettano giorni cupi. Migrano gli esperti e però gli archivi restano dove sono e quindi i primi devono trasformarsi in corrieri. Gli archivisti sono sempre meno e quindi le pratiche tardano anche più di dieci giorni. L’appena istituito Parco Nazionale dei Campi Flegrei ingloba solo i monumenti, non il loro contesto, ma sono confluiti in esso pure monumenti “minori” chiusi al pubblico. In alcuni hanno sede gli uffici periferici della tutela che dovrebbero traslocare a Napoli. Un caos per la gioia degli abusivi, dei tombaroli, dei camorristi.

la Repubblica/Genova online , 26 dicembre 2016 (c.m.c.)
I turisti potranno tornare a popolarlo durante le feste, le scolaresche hanno ripreso i laboratori nei giorni scorsi. Mentre sul piazzale della fortezza sono ripartiti gli scavi grazie agli studenti dell’alternanza scuola lavoro: si lavora alla ricerca della facciata dell’antica cattedrale della città, che era arroccata quassù e i genovesi distrussero nel ‘500 per costruire la loro fortezza.
Il Priamar si rianima: grazie al Museo archeologico di Savona finalmente riaperto. Storia di un polo culturale che sembrava sacrificato sull’altare dei tagli, che è tornato a vivere grazie ai volontari, ma che vivrà solo un mese.
Il Museo archeologico era stato chiuso dal Comune, senza preavviso, a fine ottobre, per gli ammanchi economici e la decisione di sacrificare anche la cultura in nome della chiusura del bilancio. Tagliando al museo il 100% dei fondi, 54 mila euro l'anno giudicati non più sostenibili.
Ora si è ripartiti, mettendo una pezza: a riaprirlo è stato a titolo gratuito, ma solo per un mese, l'Istituto internazionale di Studi liguri, la onlus che lo fondò nel 1990 e lo ha fatto diventare un fiore all'occhiello della città, appena inserito tra i finalisti del Riccardo Francovich 2016, prestigioso premio per musei e parchi archeologici italiani.
Ma da metà gennaio che ne sarà del sito? Riaprirà stabilmente, magari grazie a sponsor privati, o diverrà un simbolo della difficoltà, incapacità, di gestire e mettere a frutto le risorse del territorio? «Noi chiediamo prima di tutto al comune un passo indietro – spiega Carlo Varaldo, docente di archeologia all'Università di Genova e responsabile del museo – Ci ripensi, e non ci tagli tutti i fondi, distribuisca i tagli con equità».
Anche perché l'Istituto ha dovuto licenziare i 3 dipendenti part time del museo, che facevano da guide e lavoravano alla schedatura dei reperti. «Ma di persone competenti come loro c'è bisogno, non possiamo affidarci solo al volontariato o a un dipendente comunale che viene ad aprire il museo qualche ora a settimana – prosegue Varaldo – Il museo archeologico non è un fossile, è una realtà viva, che deve crescere, tra attività di ricerca, corsi, laboratori, stage degli studenti universitari. Solo dalle scuole abbiamo decine di prenotazioni per visite guidate nel nuovo anno: speriamo di poterle accogliere e non dover chiudere di nuovo i battenti, interrompendo anche gli scavi».
Il tira e molla continua. Certo, bisogna tenere conto delle difficoltà economiche del Comune, della nuova giunta di centrodestra che dalla precedente ha ereditato un indebitamento per 100 milioni: e ha tentato di superarlo approvando un bilancio severo su tante voci, non solo al capitolo cultura.
Il museo archeologico la sindaca Ilaria Caprioglio dice di non volerlo chiudere, ma ricorda anche che a differenza della Pinacoteca e del museo della Ceramica, che espongono beni comunali, qui il materiale è di proprietà dello Stato: passando di fatto la palla alla Soprintedenza. E allora, fra i tre "litiganti", ecco l'opzione sponsor: «La proposta potrebbe essere quella di mantenerci trovando sostegni privati – continua Varaldo, pensando ad esempio a Costa Crociere che porta migliaia di turisti all'anno e potrebbe essere interessata – Ma ci vuole tempo.
E' successo tutto troppo in fretta, abbiamo saputo della chiusura a fine ottobre, non abbiamo avuto il tempo per organizzarci. Del resto, non possono neanche accusarci di essere poco virtuosi: siamo arrivati ad accogliere 6 mila visitatori l'anno, e mentre in media in Italia le entrate dei musei coprono solo il 7% delle spese, noi copriamo da soli più del 20%. Ma non si può pensare di arrivare al 100%». C'è preoccupazione, dietro le porte del museo. Anche perché piove sul bagnato: i rapporti con il comune negli ultimi anni sono stati tesi, fatti di ricorsi al Tar e lettere al veleno.
Qualche anno fa un bando per riassegnare la gestione del museo, vinto per pochi punti da un pool di cooperative savonesi che avrebbero dovuto subentrare all'Istituto. Varaldo e colleghi però hanno fatto ricorso al Tar e hanno avuto la meglio. «Ma proprio quando avremmo dovuto ricevere l'assegnazione definitiva, il concorso è stato annullato dal comune per i problemi economici», spiega ancora il professore.
E siamo ad oggi. «La nostra è una realtà in evoluzione, abbiamo appena terminato un periodo di ristrutturazione e abbiamo nuovo materiale da mostrare – conclude – Abbiamo reperti che vanno dall'età del ferro al Medioevo: questo luogo è espressione della città, della sua storia, del suo guardare avanti. Sarebbe un peccato interrompere il percorso».
«Un resoconto di Maurizio Geusa dell’incontro Abitare l’incompiuto in cui è intervenuto l’Assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici Paolo Berdini». carteinregola online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Si è tenuto lunedì 19 dicembre alla Città dell’Altra Economia, un incontro sulle opere incompiute nel nostro paese, “con l’obiettivo di sollecitare la cultura architettonica e urbanistica, la cittadinanza e le istituzioni al confronto con questi spazi dello scarto, attraverso la costruzione di strumenti idonei alla loro trasformazione”.
All’incontro, organizzato dal Gruppo degli eurodeputati di European United Left / Nordic Green Left, coordinato dall’eurodeputato Curzio Maltese, hanno partecipato: l’Assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini, l’architetto Alfonso Giancotti, il Professore di progettazione architettonica Luca Montuori, l’antropologo Giorgio de Finis, l’artista visivo Andrea Musa di Alterazioni Video e il regista Benoit Felici.
E’ stata l’occasione per l’Assessore Berdini di rivendicare il primato delle opere incompiute della nostra città, ricordando i cantieri abbandonati dei parcheggi pubblici, a partire da Cornelia con i suoi sette piani interrati, Viale Libia, Val Melaina, Tor Tre Teste, il Mercato pubblico di Via Appia, tutti finanziamenti pubblici spesi male. A questi si devono aggiungere le Torri dell’Eur rimaste scorticate, che forse si concluderanno e il patrimonio di Santa Maria della Pietà ridotto in condizioni di pericolo per i crolli.
L’Assessore ha anche ricordato le attuali proposte inaccettabili come il nuovo centro commerciale al posto dei Mercati Generali di Via Ostiense in cui il verde pubblico è stato proposto in verticale sull’esempio del Bosco verticale di Boeri a Milano.
A giudizio dell’Assessore sono due le cause strutturali di tali risultati. Una prima, da ricercare nel dominio dell’economia liberista che ha sciolto il legame fra capitali e luoghi togliendo i vincoli all’investimento di fondi mobiliari internazionali sulla nostra città.
Una seconda causa strutturale è da ricercare nella caduta delle regole della trasformazione urbanistica. In questo caso con la responsabilità di un pezzo della sinistra che si è adeguato alla deregulation delle trasformazioni urbanistiche.
Da questa premessa ha sviluppato la sua proposta in due mosse per ricostruire questa nostra città.
Una prima riguarda la vertenza relativa ai finanziamenti. Sempre secondo Berdini un pezzo di sinistra in questi anni ha tagliato circa 3 miliardi alle finanze locali. A fronte di questi tagli la recente ricerca del CRESME ci informa che Londra ha sviluppato un programma fino al 2030 con finanziamenti da parte dello stato per 1 miliardo all’anno. Parigi, altrettanto con un programma fino al 2025 e finanziamenti per 800 milioni all’anno. Per Roma la richiesta è di cinquecento milioni a fronte di cui sono stati assegnati 18 milioni con il recente bando per le periferie. Infine ha ricordato la situazione delle casse capitoline dove in mancanza di fondi per la manutenzione straordinaria dei treni l’Assessore Meleo sarà costretta a chiudere le linee A e B della metropolitana con conseguenze solo da immaginare.
La seconda mossa riguarda le regole per le trasformazioni urbanistiche. Da tempo, con il Piano casa della Regione Lazio, le regole sono state travolte, lasciando mani libere ai privati. Emblematico il caso dell’ex Centro Direzionale Alitalia della Magliana, presto trasformato in residenze, con incremento premiale della superficie utile lorda. Altro caso la trasformazione in studentato della ex Dogana di San Lorenzo. In definitiva, ha esemplificato Berdini “questa sembra una città fai da te. L’economia liberista ha finito per strangolare la città: giocando in difesa non si vincono le battaglie e togliere le regole porta all’inferno”. Da tutto ciò non siamo riusciti a dare una prospettiva alle periferie e al degrado sociale dentro la città.
Quindi, Berdini ha proposto di rovesciare il tavolo per un’idea di città pubblica. Perché il pubblico deve dare gli obiettivi.
E ha ricordato che in questa città ci sono 99 stabili occupati da cittadini senza casa, ma per dare risposte a questo bisogno primario si devono costruire case pubbliche. Il fabbisogno è nell’ordine dei 8.000-10.000 alloggi. Questo il primo obiettivo. Oggi per il residence di Ostia si spendono 3 milioni all’anno mentre sono circa 20 i milioni all’anno per l’assistenza alloggiativa. Il finanziamento richiesto al governo servirà a questo scopo.
A questo obiettivo primario, per il quale la nuova Giunta chiede risorse, si aggiunge un secondo obiettivo di breve termine di 7 nuove linee tramviarie.
Infine, l’Assessore ha ricordato come per realizzare la Nuvola si siano spesi 400 milioni cedendo il patrimonio immobiliare collettivo dell’EUR. Berdini ha concluso, ricordando un uomo importante laico e socialista come Adriano Olivetti di cui occorre riscoprire l’utopia per recuperare questo immenso patrimonio abbandonato, sostituendo la strada dell’urbanistica liberista con il pensiero collettivo.
«“Green infrastructure”: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi». Internazionale online, 21 dicembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo la terza ed ultima puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui, la seconda qui).
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti)
Il torrente
Sàvena Abbandonato striscia ai margini del nuovo casello autostradale, inaugurato nel 2006 come accesso diretto dall’A14 alla Fiera di Bologna. L’acqua color cartone s’infila tra due sponde di calcestruzzo, passa sotto lo svincolo e riemerge dalla parte opposta. La riva sinistra segna il confine del parco Nord, sede di concerti, giostre e feste dell’Unità. Un misto di tensostrutture e vecchie case coloniche. Poco avanti, prima del camping cittadino, l’immancabile rotonda sorveglia un incrocio di strade che vedrà passare dieci auto all’ora. Sulla destra, acquattata nel boschetto ripariale, s’intravede una striscia di orti clandestini, con tralicci di canne, bidoni di plastica, baracche da attrezzi (e forse da persone). Oltre gli orti si spalanca l’asfalto, uno spiazzo che subito si restringe a imbuto. All’imbocco, in un abbraccio di rovi, un cartello giallo recita: “Lavori III^ corsia – accesso urbano – 16 Nord”. La scritta nera si riferisce all’ultima ondata di interventi sul Nodo bolognese: terza corsia “dinamica” in autostrada, riqualificazione della tangenziale, nuovo casello Fiera. Lavori costati
247 milioni di euro che il Passante di Bologna in parte vanificherebbe, rimettendo mano a terrapieni, svincoli e barriere antirumore inaugurati nel 2008. Dunque il cartello è abbandonato, come il vecchio corso del Sàvena, e sta lì senza scopo da una decina d’anni. E sono abbandonati i muretti
jersey che delimitano l’accesso all’area, tutti scrostati “in duplice filar”. È abbandonata la strada di servizio, mangiata dalle buche e coperta di fango. È abbandonato l’asfalto del grande piazzale, dove ormai – come un rimosso freudiano – crescono erba, cespugli, pioppi, contribuendo al fascino perturbante di questo spazio, indeciso fin dall’appellativo con cui compare nelle carte. In quelle di
Bologna & Fiera Parking si chiama Parcheggio Romita, mentre in quelle del Passante di Bologna è l’Area ex Michelino.
Via Michelino, a dispetto del nome da fumetto Disney, è un’antica strada della campagna bolognese, appena fuori dalle mura della città. Il toponimo compare già nei documenti di quattrocento anni fa, mentre il suo percorso è attestato nella famosa Carta di Andrea Chiesa datata 1740. Oggi la via è spezzata in tre brandelli, tra la tangenziale, il nuovo casello, la Fiera e un vialone a sei corsie. Il primo troncone è ormai un’arteria della periferia storica. Il secondo ospita un parcheggio multipiano da 5.500 posti, costruito tramite
project financing, talmente in perdita che gli investitori privati – tra cui Autostrade e il consorzio Ccc –
chiedono al comune un indennizzo milionario per i mancati incassi. Il terzo segmento, ancora rurale, conduce alla pieve di San Nicolò di Villola. Si trova proprio all’uscita del piazzale abbandonato, ma chissà perché gli hanno cambiato nome. L’Area ex Michelino ha una superficie di due ettari e mezzo, circa quattro campi da calcio regolamentari. Nelle mappe regionali sull’uso del suolo, fino al 2003 non se ne vede traccia. Tutta la zona è registrata con il codice 2121: seminativi semplici irrigui. Ovvero: campi coltivati. In una foto dall’alto del 2006, invece, ecco apparire la macchia, abbacinante sotto il sole meridiano. I campi furono costretti ad accogliere un’“autorimessa temporanea”, che negli atti del comune ha un altro nome ancora: “Cadriano-Romita”. Il parcheggio servì come “
compensazione delle aree di sosta perdute”, perché i cantieri per il casello Fiera, e poi quelli per il parcheggio multipiano, avevano occupato 500 posti auto. Inoltre, a giudicare dal cartello giallo, lo spazio consentì anche l’accesso di ruspe e automezzi che lavoravano alla nuova uscita dell’A14.
Nubi di ieri sul nostro domani odierno
Oggi, tra le opere di bene promesse alla città grazie al Passante di Bologna, figura anche la deimpermeabilizzazione dei due ettari e mezzo dell’Area ex Michelino. Lo strato di catrame che la ricopre sarà rimosso, affinché la terra possa di nuovo assorbire l’acqua piovana e le piante crescere senza troppa fatica. In questo modo, quei due ettari e mezzo contribuiranno a totalizzare i
130 ettari “di verde” gentilmente distribuiti da Autostrade per l’Italia, come risarcimento per il suolo consumato dalla nuova infrastruttura (20 ettari secondo il dossier del progetto, 24 secondo il sito ufficiale). Ma se il dissesto dell’area è un “effetto collaterale” di vecchi cantieri di Autostrade, allora il suo riciclo dovrebbe essere considerato un intervento relativo a quei lavori, e non un valore aggiunto, quasi un regalo, della nuova opera appena approvata.
Nel dossier del Passante di Bologna i cantieri rientrano nella categoria delle “occupazioni temporanee”, e coprono in tutto una superficie di 20 ettari. Ma se “temporanee” significa “per molti anni”, come nel caso dell’Area ex Michelino, e magari anche di più, qualora non arrivi un nuovo progetto a finanziare la deimpermeabilizzazione, allora quei 20 ettari di terreno “temporaneamente” occupati diventano l’ennesima bugia, e faremmo meglio a considerare che almeno 40 ettari di suolo saranno impattati dall’infrastruttura, nel significato etimologico di “calpestati, trasformati in pattume”. Lungo il Sàvena Abbandonato, sulla riva opposta rispetto al casello Fiera, c’è un terreno agricolo e alberato di circa 23 ettari, undici dei quali saranno “temporaneamente” occupati da un cantiere del Passante, completo di campo base, officina, deposito mezzi e materiali di scavo, campo travi dei cavalcavia, impianti di produzione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso. Come si fa a sostenere che quel suolo non sarà “consumato” da un simile ingombro? Come si può pensare che, dopo tanta devastazione, torni a essere quello di prima? E il Sàvena Abbandonato – ritenuto “risorsa ecologica e ambientale” – come resisterà nella morsa tra un simile cantiere e lo svincolo autostradale, che ormai lo affianca fino a che morte non li separi?
Ci ho pensato su, non consumo più
L’espressione “contenere il consumo di suolo”, proprio come “promuovere la partecipazione”, è diventata un’antifrasi. Ormai tutti si esprimono contro il consumo di suolo, e chi per anni lo ha combattuto si sente dire dai suoi avversari: “Visto? Adesso anche noi siamo d’accordo con te. Ci hai convinti, hai vinto, che altro vuoi?”. Intanto, dietro la cortina fumogena, si continua ad aggredire il territorio, come prima, più di prima. “Dobbiamo cambiare terminologia”, ci suggerisce
Paola Bonora, geografa. “Bisogna inventarsi parole nuove, oppure tornare a termini antichi, ma chiari, come ‘cementificazione’. L’espressione ‘consumo di suolo’ è ormai un paravento. Gli amministratori che ne parlano come di un’emergenza sono gli stessi che vogliono approvare la
nuova legge regionale emiliana ‘sulla tutela e l’uso del territorio’”. Secondo quel testo – avverte
una lettera aperta, firmata anche da Bonora – ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3 per cento del territorio urbanizzato. Un limite severo solo in apparenza, perché nel calcolo di quel 3 per cento non sono compresi: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative (ma tanto l’interesse pubblico quanto la mancanza di alternative sono concetti tutt’altro che obiettivi); gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale, nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge. Il risultato è che “il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3 per cento della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione”.
Ma non basta, perché con la scusa della “semplificazione”, il progetto di legge si spinge “fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica”. L’articolo 32 dichiara infatti che un comune non può stabilire quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze e attività produttive. La decisione “spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati”. In sostanza, la pianificazione dei comuni evapora, sostituita dall’esame, caso per caso, delle proposte dei costruttori. Proprio come era previsto da una proposta di legge di Maurizio Lupi, risalente al 2005, a dimostrazione dell’uniformità di vedute in materia di cemento tra centrodestra e centrosinistra. “È un ribaltamento totale della prospettiva”, continua Bonora. “Mentre un tempo la pianificazione serviva ad accreditare la dimensione pubblica della territorialità, oggi è l’esatto contrario, e sono gli investimenti privati che vanno salvaguardati. In Emilia vantiamo la pianificazione come grande scelta pubblica degli anni sessanta-settanta, mentre oggi ci troviamo a essere capofila della privatizzazione”.
Vestita di verde
Comincia proprio con un peana al bel tempo che fu, con lodi di architetti e ingegneri per l’urbanistica bolognese, l’incontro
“Qualità urbana, ambiente e paesaggio”, inserito tra gli appuntamenti del Confronto pubblico sul Passante di Bologna. Gli organizzatori, per l’occasione, hanno scelto la cappella Farnese, una delle più belle stanze di palazzo d’Accursio. D’altra parte, la riqualificazione delle periferie è il proverbiale “fiore all’occhiello” di tutto il progetto, un fiore che deve far dimenticare quanto vecchia, logora e impresentabile sia la giacca sul quale è appuntato. Rispetto agli incontri di quartiere, come quello della Birra (
vedi la seconda puntata), la scenografia è molto più tradizionale, da conferenza. Tavolo degli esperti, microfoni, bottigliette d’acqua e slide. In platea, circa 80 persone. Poche, se si considera che questa mattina saranno rivelati i dettagli degli interventi paesaggistici, magnificati ma
avvolti nel mistero per oltre due mesi di confronto pubblico.
L’assessora Valentina Orioli – responsabile di ambiente e urbanistica – introduce i lavori parlando delle opere di inserimento e mitigazione del Passante come di una “vera e propria infrastruttura ecologica che accompagna la strada”. Il concetto di “green infrastructure” ritornerà più volte nel corso della mattinata, con l’aggiunta di un pizzico di orgoglio patriottico, perché si tratta di una strategia adottata dall’Unione europea nel maggio 2013 su iniziativa dell’italiana Pia Bucella. Tuttavia, l’idea originaria di cucire tra loro le aree naturali di un territorio qui si traduce in un obiettivo più terra terra: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. L’architetto Carles Llop, come da copione, si dice onorato di lavorare a Bologna, ricordando quando i professori gli facevano studiare questa città modello e Pier Luigi Cervellati – assessore urbanista dal 1965 al 1980 – era il suo idolo intellettuale. Peccato che Cervellati sia seduto tra il pubblico, schierato con i cittadini che si oppongono al Passante. Llop fa partire una presentazione con 78 slide, fitta di mappe, rendering, tavole a colori. I materiali sono organizzati in base a cinque parole chiave: parchi, percorsi, passaggi, opere d’arte e porte.
Le porte sono una tipica ossessione bolognese, ma il trucco vale per qualunque altra città. Si prende un elemento del paesaggio urbano, carico di storia, caro ai cittadini, ricco di simbologie. Nel nostro caso, le dieci porte superstiti delle antiche mura. Quindi, si assimila a quell’icona una nuova architettura, potenzialmente sgradita, per presentarla come un’espressione del genius loci. A Bologna è già successo con la ripugnante porta Europa, un ecomostro per uffici del gruppo Unipol, che scimmiotta i casseri medievali fin nelle finte merlature, e che dovrebbe essere l’arco trionfale di accesso alla città dalla Fiera, dalle Alpi, dal resto del continente. Un’architettura pensata per favorire incontri e passaggi, ma affollata solo dalle auto che ci scorrono sotto. Ecco perché, quando sentiamo parlare degli svincoli del Passante come delle nuove “porte” di Bologna, un brivido ci scuote. Per carità, l’idea di rampe d’accesso e sottopassaggi che non siano un incubo ciclopedonale è senz’altro meritevole, ma quando si comincia a raccontarli come luoghi di scambio e identificazione, forse si sta esagerando con le pie illusioni. Perché una strada in rilevato a dodici corsie non la cancelli con quattro salici, il wi-fi diffuso e qualche bel lampione. E se la schiaffi in mezzo a una periferia, non sarà mai un polo d’attrazione. Ma su questo, Llop è molto chiaro: non spetta a lui giudicare l’opera. Il suo compito è migliorarne l’inserimento. Insomma, lo stesso obiettivo che i facilitatori hanno indicato ai cittadini durante il percorso partecipativo: essere propositivi, suggerire qualche abbellimento e contribuire a gonfiare una bolla di consenso intorno al Passante di Bologna e ai suoi promotori.
L’intervento sui parchi è affidato alle parole di Andreas Kipar, dello studio Land, già coinvolto nella gentrificazione del quartiere Isola a Milano. Anzitutto, scopriamo che i parchi hanno una doppia funzione, come luoghi del tempo libero e spazi di mitigazione dell’opera. Grazie a questo duplice obiettivo, rientra nella definizione anche una zona interclusa, un filare di pioppi, un’aiuola spartitraffico. Accade con i parchi quel che abbiamo già visto per le “porte”. Anche questa è un’idea passepartout, un lasciapassare: chi semina parchi è sempre benvenuto. Eppure, non è affatto detto che un parco sia sempre e comunque una buona notizia. I paesaggi che accompagnano la tangenziale bolognese sono un impasto molle, in precario equilibrio chimico, di ruderi, palazzoni, squarci di campagna, canali, colonie feline, fasce boscate, rimesse di ferraglia, artigiani in baracche, sfasciacarrozze, centri commerciali, sottopassaggi dormitorio, cartelli “vendesi”, scavatrici, arredi da parco urbano spruzzati sui prati, sentieri nascosti, orti, studi di registrazione e startup ricavati in vecchi fienili. Un territorio nel quale qualsiasi intervento di “riqualificazione urbana” deve stare attentissimo a non cancellare ricordi e uniformare differenze, accorciando insieme all’erba anche il respiro delle storie.
Ci vuole l’albero
In via Frisi, all’Arcoveggio, c’è un parco con vista sulla tangenziale. Lo spazio verde, coltivato e agricolo fino tutti gli anni novanta, dopo vari accanimenti edilizi, era diventato un prato residuale e in abbandono. I lavori per la terza corsia dinamica l’hanno ulteriormente calpestato, in cambio di qualche metro di barriere acustiche, che il rumore aggira come la corrente di un fiume intorno a un masso. Di recente il comune ha riqualificato la zona. Ha tracciato un sentiero di ghiaia e disegnato una piazzetta. Ha piantato qualche alberello e promette di piantarne altri, per mascherare il Passante e accreditarsi un ettaro di “verde” in più. Ci sono panchine in alluminio, dove d’estate potresti grigliare salsicce, e una fontanella malata, sempre d’alluminio, che in agosto produce acqua bollente. Un sottovia tristo e fangoso porta alla fascia boscata di là della tangenziale.
In origine, consentiva il passaggio di una carrareccia. La carrareccia conduceva a un casale. Poi il casale è stato abbattuto e lo stradello che lo serviva non gli è sopravvissuto a lungo. Ma un’apertura nella grande muraglia autostradale è preziosa, e così, durante i lavori degli anni zero, la posterla fu ampliata e rinforzata. Non sappiamo cos’avesse in mente il comune, oltre alla necessità tecnica di allargare in quel punto l’infrastruttura sovrastante. Quale che fosse il progetto, dev’essere rimasto incompleto, vista la melma che trabocca dal tunnel. Un risultato che spinge a dubitare delle “riqualificazioni” pensate per accompagnare le grandi infrastrutture. Perché alla fine dei conti l’opera va avanti, a ogni costo, mentre la riqualificazione può sempre attendere, ridimensionarsi, fermarsi a metà o peggio marcire in poco tempo, dopo il taglio del nastro a favore di telecamere. I paesaggisti del Passante promettono di riqualificare “la superficie ammalorata interna” del sottovia, “mediante l’applicazione di materiali […] di gradevole aspetto estetico”. Ci auguriamo che altrettanta premura la riservino anche a Joseph, che di sicuro non compare sulle loro mappe, ma lì sotto ci dorme sul suo materasso.
Costeggiando la tangenziale in direzione del tramonto, si arriva al limite occidentale del parco, dove scorre il
canale Navile. L’accostamento è talmente brusco, che il comune ha piazzato una staccionata di legno a guardia della soglia. Il canale è un corteo vivace di fabbriche in rovina, filari di vite, ponti e chiuse idrauliche rinascimentali, alloggi di fortuna, animali da cortile. Sulle sue sponde puoi trovarci chiunque, dal ciclista al tossico, dall’agricoltore al
flâneur, perché è un corridoio meticcio, che non chiede i documenti a chi vuole percorrerlo. Il parco, invece, con la sua pretesa di darsi un’identità, finisce per essere un corpo estraneo. E infatti, se si escludono le coppie cane/padrone, è difficile trovare qualcuno che ci si fermi per più di due minuti. A sedersi sulle panchine si viene assaliti dalla sensazione di essere dentro un
rendering e dal timore di tramutarsi in figurine di
pixel. “Si cerca di trasformare il territorio nel suo messaggio”, ci ha detto ancora Paola Bonora. “Ogni luogo diventa un cartellone pubblicitario, ma in un cartellone pubblicitario non si vive. Qualcosa di simile sta succedendo anche con gli orti. È un’ossessione. Ce n’è uno anche in galleria Cavour, tra le vetrine di negozi come Gentryportofino e altre firme di lusso. Un grande vaso con dentro una pianta e il cartello ‘pomodoro’”.
Kipar mostra i rendering del nuovo parco Nord, che sarà rinverdito, riforestato, rinaturalizzato. Nell’immagine, si vede un tizio che va in monociclo sull’erba e sullo sfondo, oltre una fioritura di pruni, spiccano le due torri, che da parco Nord non si vedono manco con il binocolo. A ulteriore illustrazione del futuro dell’area, una foto mostra un concerto sul prato… del parc de la Villette, a Parigi. Grande spazio viene dato all’idea di connettere i parchi tra loro, con piste ciclabili, sottopassi pedonali e sentieri. Nelle slide che scorrono sul telo, non c’è l’ombra di un’automobile, eppure il motivo per cui siamo qui è una strada a 12 corsie. Kipar parla di trasformarla da ferita che taglia il territorio a sutura che lo tiene insieme, ma ripete troppo spesso “basta con l’ornamentalismo, basta con i giardinetti in mezzo alle rotonde” e l’impressione è che voglia scacciare un fantasma. Infatti, dopo aver parlato di ecotoni e biodiversità, l’architetto tedesco si lascia scappare una frase rivelatrice: “L’albero è un’architettura vegetale che piace sempre di più”.
Gli fa eco Paolo Desideri dello studio Abdr, orgoglioso responsabile di quelle che negli appalti italiani si chiamano ancora “opere d’arte”, quasi a voler preservare la gloriosa tradizione romana di coniugare architettura e ingegneria. Desideri quindi si occuperà di barriere antirumore, cavalcavia, viadotti. E soprattutto della galleria acustica di San Donnino, fiore all’occhiello sul fiore all’occhiello, grande sfoggio di attenzione per i cittadini del quartiere più segnato dal passaggio dell’A14/Tangenziale. Non a caso, di tutti i rioni che abbiamo visitato lungo l’infrastruttura, San Donnino è quello che più fa sentire la sua opposizione al passante, con striscioni, tazebao e volantini. Uno di questi ritrae uno scheletro intento a fare jogging. La didascalia recita: “Andava tutti i giorni a correre nel giardino pensile sul Passante di Bologna”. Giardino pensile, ecodotto, galleria fonica: comunque lo si voglia chiamare, si tratta di un tunnel artificiale, steso sopra le 12 corsie della nuova strada, e rivestito da “un panneggio ambientale”, un “manto verde”, secondo le parole dello stesso Desideri. E dunque alberi, perché piacciono sempre di più, e giardini usati come camouflage. A dispetto del grande impegno progettuale, l’obiettivo reale di questi interventi emerge dai lapsus linguae. L’elemento naturale serve a infilare il pugno d’asfalto in un guanto di velluto verde.
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria
Ma non basta. Con ardita sineddoche la carta da regalo verde che impacchetta l’infrastruttura finisce per la rappresentarla nella sua interezza, così il Pd chiama l’opera, durante la campagna elettorale, “
Passante verde di mezzo”. Un verde che poi, levandosi in cielo, si fa azzurro, l’azzurro di un’aria pulita. A luglio il comune pubblica su YouTube
un video in cui promette, grazie al Passante, la riduzione del 50 per cento di “alcuni inquinanti” nelle ore di punta. In modo un po’ imbarazzante un filmato del tutto uguale, uno stesso diagramma e un frameidentico (a parte la cifra sovrimpressa!) promettono, sulla
home page del Confronto pubblico, un ripulitura dell’atmosfera del solo 40 per cento. Facesse così un negozio d’abbigliamento durante i saldi, rischierebbe una multa. Saranno la fluidificazione del traffico dovuta all’aumento delle corsie, l’istituzione di limiti di velocità a 80 chilometri orari e “l’evoluzione del parco auto” a dare “un notevole beneficio in termini di emissioni con una riduzione delle stesse che per alcuni inquinanti può superare il 40 per cento”, assicura il dossier di Autostrade. Gli inquinanti di cui si promette un così vistoso abbattimento sono gli ossidi di azoto, NOx. Ma andiamo a curiosare, a scomporre nei suoi elementi costitutivi questo “notevole beneficio”. Nelle
proiezioni di Autostrade al 2025, una riduzione di NOx del 42 per cento ci sarebbe anche senza fare il Passante, per il solo effetto del “rinnovo parco veicolare”, cioè il progressivo prevalere dei modelli “euro 5”, “euro 6” e così via. Facendo anche il Passante, quella riduzione arriverebbe al 50 per cento. Chiunque si chiederebbe, a questo punto, se non ci siano altri interventi meno impattanti per recuperare un modesto 8 per cento di differenza. Istituire da subito il limite di velocità? Fare uno sforzo decisivo sul servizio di trasporto pubblico?
In realtà la risposta alla domanda è fin troppo facile, e altrettanto deludente: le proiezioni fatte da Autostrade sono fondate su pensieri speranzosi, più che su solide realtà. Il ritmo con cui gli automobilisti cambiano la vettura è condizionato dai redditi in calo e dalla precarietà lavorativa, e i dati delle emissioni dei nuovi modelli di auto sono notoriamente poco affidabili. Inoltre il governo Renzi, dello stesso segno dell’amministrazione bolognese, si è caratterizzato come uno dei meno virtuosi: “Tra i paesi dell’Europa occidentale l’Italia veramente balza all’occhio come quella che vuole rinviare e indebolire” norme più stringenti sui test per le emissioni dei veicoli, dice Julia Poliscanova dell’associazione Transport & Environment a Radio 24. Infine andrebbe sempre ricordato che costruire un’auto nuova inquina quanto guidarla per tutta la sua vita utile, quindi sarebbe doppiamente saggio frenare gli entusiasmi attorno al “rinnovo parco auto”. Il wishful thinking di Autostrade è interessato: dire che le nuove auto quasi quasi quasi purificano l’aria è parte della campagna comunicativa che conduce, anche per conto delle istituzioni, a favore del Passante di Bologna. Ma non è un caso isolato: una schiera di ideologi di un modello di città integralmente privatizzata va ripetendo la stessa presunta profezia. Il milanese Giacomo Biraghi, già uomo dei social di Expo 2015, scrive: “Nonostante un decennio di lotta allo sviluppo della mobilità individuale e di investimenti sulla mobilità collettiva, le auto resteranno protagoniste delle nostre città. Saranno sempre meno a combustione e sempre più a trazione elettrica, con versioni innovative che si guidano da sole […]. Dovremmo cominciare a ripensare all’equilibrio di attenzione, spesa corrente e investimenti tra trasporto pubblico e nuovi sistemi di mobilità personale”. Il contenuto politico è chiaro: il ritorno delle auto ovunque e il disinvestimento nel trasporto pubblico. A Bologna in tanti pensano esattamente lo stesso, ma la comunicazione risulta distorta dal mito autocompiaciuto del buongoverno emiliano. Così si arriva a sostenere che allargare autostrada e tangenziale è l’atto inaugurale di una stagione di riscatto… per la mobilità ferroviaria!
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina
È Fiorella Belpoggi, che fa parte del comitato scientifico del Confronto pubblico, a
suggerire questo incredibile nesso causale durante l’incontro “L’ambiente e la salute” del percorso partecipativo. Belpoggi prima conferma tutti gli argomenti della propaganda del Passante: la fluidificazione del traffico grazie all’allargamento, la limitazione degli
stop and go, il rinnovo del parco auto. Poi, sdoppiandosi retoricamente, si domanda se siano davvero validi; infine si risponde da sola. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi. Belpoggi, forse involontariamente, ne fornisce solo l’ennesima interpretazione, intervallata alle solite lodi al tempo che fu: “Oggi ho seguito con attenzione le presentazioni [dei consulenti dei Comitati contrari al Passante di mezzo] e ho visto che [il miglioramento della qualità dell’aria] non è proprio una cosa sicura, però mi dico: al massimo rimaniamo come siamo! E voi direte: ma dottoressa, tutta questa confusione per rimanere al massimo allo stato in cui siamo? Io dico: è un’occasione! […] La mia città è stata un simbolo, un simbolo di buona gestione e io sono stata orgogliosa per anni di dire che ero di Bologna: vogliamo riprendere la città in questo modo, cioè qualificarla dal punto di vista ambientale ma con delle azioni che non siano puntiformi. Allargo l’autostrada, chiusa lì? No! Vogliamo delle uscite autostradali connesse possibilmente con delle stazioni ferroviarie, vogliamo dei parcheggi per le biciclette, vogliamo dei punti di ristoro sui quali poter riprendere un momento fiato durante le corse verso il lavoro e al ritorno dal lavoro…”. Ecco che di nuovo precipitiamo in un
rendering. Le parole di Belpoggi ci fanno immaginare una proiezione in 3d. Ci sono allegri precari in bicicletta, eternamente giovani e belli (è un
rendering, che ci vuole?), che hanno parcheggiato l’automobile appena usciti dalla nuova tangenziale, hanno estratto la bici dal bagagliaio e ora sostano davanti al chiosco del punto di ristoro. Sulla lavagnetta decorata coi gessi colorati leggono: “Da Maria Antonietta, oggi brioches a 1 euro”, e decidono di fermarsi: “Dobbiamo pur riprendere fiato mentre corriamo al lavoro…”. Intanto, sotto il cavalcavia di argomentazioni così modeste, corre il tema di quel 42 per cento di riduzione degli inquinanti affidato al “rinnovo parco auto”. No, non è solo un trucco per inserire un dato arbitrario in un bilancio di inquinanti, ma un subdolo messaggio iperliberista. La città soffoca, i tuoi figli si ammalano? Colpa tua, pezzente, non hai cambiato l’automobile. Noi facciamo grandi progetti, grandi autostrade a favore del trasporto ferroviario e della pulizia dell’aria; poi se tutto fallisce è perché metti i soldi sotto il materasso e non compri un’euro 6.
Il racconto del Passante di Bologna si arricchisce così di un terzo livello di privatizzazione, dopo quelli che abbiamo già visto nelle puntate precedenti. Il primo è nel rapporto ombelicale con Autostrade, che condiziona tutte le scelte sulla mobilità; il secondo consiste nella privatizzazione ed esternalizzazione del rapporto tra cittadini e amministratori; quello definitivo, nella privatizzazione della politica ambientale, ridotta a semplice questione di consumi individuali. Stabilita questa equazione mistificante, si possono tranquillamente condurre politiche che generano traffico (e cementificazione) senza ritenersi responsabili delle conseguenze. Si promette la fluidificazione del traffico grazie al Passante di Bologna, e nello stesso tempo si genera traffico con Fico, parco tematico fintissimo ma vero centro commerciale della smisurata galassia Coop. Fico ambisce a milioni di visitatori; gran parte di loro sono attesi in automobile e dunque andranno a intasare nuovamente l’infrastruttura – ma questa contraddizione svanisce nella bolla di irrealtà in cui è immersa Bologna, e si perde nel gioco di rifrazioni della dialettica emiliana. Il giorno dopo la sconfitta al referendum costituzionale viene presentato un “ordine del giorno” in consiglio comunale. Il documento si limita a chiedere un maggiore coinvolgimento dei consiglieri nelle decisioni che riguardano il Passante. La prima firmataria è un’alleata esterna, Amelia Frascaroli, ma il testo è approvato grazie ai voti favorevoli (e alle astensioni) nelle file del Partito democratico. Il sindaco Merola la prende molto male, l’assessora Priolo reagisce in modo scomposto. L’accusa che rivolge a Frascaroli e, implicitamente, ai consiglieri Pd che ne hanno sostenuto la mozione, è quella di non essere stati presenti “al percorso di condivisione con i cittadini, quando c’erano da prendere i pomodori in faccia”, e di presentarsi solo “alla fine (a pomodori scansati, ad assemblee pubbliche durate fino all’una di notte, a più di mille cittadini ascoltati)”. Noi in quelle assemblee c’eravamo e non abbiamo visto volare pomodori, nemmeno quelli Gentry della galleria Cavour. A quanto pare, la scarsa consuetudine con il conflitto porta a scambiare per ortaggi le fin troppo disciplinate critiche di un pugno di bolognesi, peraltro vigilati da uno stuolo di esperti e difficilitatori. Ma come abbiamo visto, la dialettica del Pd è autoreferenziale, al punto da inventarsi agguerritissime opposizioni, nei confronti delle quali ergersi a eroici e coraggiosi paladini.
Noi, per non assecondare quest’epica farlocca, i pomodori ce li siamo mangiati e abbiamo preferito scrivere quest’inchiesta in tre puntate. Per mettere un freno al verde fasullo, alla partecipazione bugiarda e alle immagini finte della nostra città.
Nel corso dell’inchiesta siamo stati accompagnati da versi di canzoni, utilizzati come titoletti dei diversi paragrafi.
Quelli della prima puntata sono questi:
Guarda la fotografia (La fotografia, di Enzo Jannacci, 1991)
Col trattore in tangenziale(Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, 2016)
I lupi e gli agnelli (Lupi e agnelli, di Fausto Amodei, 1965)
Chilometri da odiare (Autostrada, di P. Cassella e D. Baldan Bembo, 1981)
E si aggrappa al passante più vicino (She’s lost control dei Joy Division, 1979)
Scopri sempre che c’è un’alternativa (Un’alternativa di Irene Grandi, 2015)
Stasera pago io (di Domenico Modugno, 1962)
Luglio, agosto, settembre (nero) (degli Area, 1973)
La playlist della seconda puntata è questa:
Per vedere di nascosto l’effetto che fa (Vengo anch’io. No, tu no di Jannacci, Fo e Fiorentini, 1968)
Libertà è partecipazione (La libertà di Giorgio Gaber, 1972)
(Non) sarà un’avventura (Un’avventura di Battisti e Mogol, 1969)
Anagramma (quasi) perfetto di facilità (Ballando con una sconosciuta, di Francesco Guccini, 1990)
Viaggi e miraggi (di Francesco De Gregori, 1992)
L’ultima occasione (di Del Monaco, Fontana e Meccia. Incisa da Mina, 1965)
La colonna sonora di quest’ultima parte è:
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti) (Il mio canto libero, di Battisti e Mogol, 1972)
Nubi di ieri sul nostro domani odierno (di Elio e le Storie Tese, 1989)
Ci ho pensato su, non consumo più (Cicciottella di Lauzi, Caruso e Baudo. Incisa da Loretta Goggi, 1979)
Vestita di verde (Verde, dei Diaframma, 1990)
Ci vuole l’albero (Ci vuole un fiore di Bacalov, Endrigo e Rodari, 1974)
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria (Ma è un canto brasileiro di Battisti e Mogol, 1973)
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina (Il motore del 2000 di Dalla e Roversi, 1976)
Articoli di Eleonora Martini, Manuela Perrone, Marco Travaglio, Alessandro Trocino, Andrea Arzilli, Corrado Augias, Paolo Graziano e Massimo Almagisti da il manifesto
, il Sole 24 ore,
Il Fatto Quotidiano, Corriere della sera
, La Repubblica,
18 dicembre 2016 (c.m.c.)
il manifesto
VIRGINIA RAGGICOMMISSARIATA,
IL MINI DIRETTORIO RIPRENDE
IL CONTROLLO ROMA.
di Eleonora Martini
«Dopo la terza riunione fiume, la sindaca accetta il diktat di Grillo e dei big del Movimento: via il raggio magico per salvare la giunta. Si dimettono il vicesindaco Daniele Frongia e il capo della segreteria politica Salvatore Romeo. La pace è fatta. In serata il comico genovese riconosce Virginia sindaca del M5S»
Non c’è il notaio ma anche così la sensazione di déjà-vu è forte. Alla terza riunione fiume in due giorni con i consiglieri di quella che stava per diventare la sua ex maggioranza, per tentare di salvare capra e cavoli Virgina Raggi capitola ad una sorta di commissariamento.
La sindaca di Roma cede all’aut-aut dell’inviperito Beppe Grillo che ieri ha lasciato all’alba la Capitale senza incontrarla, e accetta il diktat del disciolto mini direttorio romano che si riprende così il controllo sulla giunta pentastellata: fare fuori il capo della segreteria politica Salvatore Romeo che insieme a Raffaele Marra, arrestato per corruzione, aveva in mano le chiavi della macchina capitolina, e declassare ad assessore il vicesindaco Daniele Frongia, sulla cui amicizia Marra aveva fatto perno per ottenere la completa fiducia della prima cittadina.
A sera, una nota del Campidoglio formalizza le dimissioni: «Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. A breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati». Trasferimenti in vista potrebbero esserci anche per Renato Marra, fratello di Raffaele, appena promosso a capo della direzione turismo.
La pace è fatta. Sugellata anche da Beppe Grillo in persona che subito dopo pubblica sul blog: «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle».
Per tutto il pomeriggio di ieri però i 29 consiglieri e la sindaca si sono asserragliati a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana, per trovare una exit strategy al pantano romano che rischia di inficiare le magnifiche sorti e progressive nazionali. Tutt’altro che una serena riunione di maggioranza, una vera e propria resa dei conti. Virginia Raggi ha preso più volte in considerazione l’ipotesi di «autosospendersi» dal M5S, almeno finché non fosse chiaro che su di lei non pende alcuna ipotesi di reato.
Un termine – autosospensione – giuridicamente vuoto ma che avrebbe sortito l’effetto di dare un segnale immediato di discontinuità, come preteso da Grillo, e contemporaneamente prendere tempo, come caldeggiato da Davide Casaleggio. Un modo per evitare il ritiro del simbolo d’imperio, invocato ormai a gran voce dall’ala ortodossa grillina ma osteggiato dal presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e dal capogruppo Paolo Ferrara. Senza simbolo del M5S la giunta non avrebbe avuto infatti lunga vita, e il ritorno alle urne sarebbe stato inevitabile. Con l’autosospensione invece la consiliatura avrebbe potuto continuare, potendo contare sull’appoggio esterno dei grillini.
Una soluzione a dir poco artificiosa, degna dei migliori strateghi politici. Ma sembrava l’unica possibile. «Non mi sento più parte del M5S, non mi ci riconosco più», avrebbe detto più volte la sindaca (parole poi smentite dal Campidoglio ma senza grande convinzione) ai componenti di quel suo “raggio magico” che ora ha accettato di sacrificare.
Grillo non ha lasciato margini di dubbio: «Romeo si deve levare dal c…», avrebbe ordinato al telefono durante il tragitto in treno da Roma a Genova (evidentemente non era solo sul vagone). E Frongia va ridimensionato. I rumors parlano di un avvicendamento con l’assessore alle partecipate Massimo Colomban, l’imprenditore veneto che Casaleggio Jr aveva voluto in giunta poco più di due mesi fa. L’incubo del comico genovese è che si concretizzi quel rischio ipotizzato da ben «cinque avvocati», come avrebbe puntualizzato al telefono.
Ma a parte l’eco delle parole di Grillo, trapela ben poco dalla blindatissima riunione di Palazzo Valentini. Il silenzio è totale perfino sui social. Roberto Fico annulla «L’intervista» da Maria Latella, i consiglieri escono alla spicciolata e rispettano la consegna del silenzio. Solo poche parole pronunciate da De Vito dopo la riunione con le quali il presidente dell’assemblea capitolina non smentisce la tentazione di Raggi di lasciare il M5S.
Il dèjà-vu è, appunto, forte. Appena un paio di giorni fa Paolo Ferrara aveva assicurato che quel che era successo con il Pd non si sarebbe potuto ripetere con «una comunità di fratelli impegnati per il bene» di Roma. Ieri sera a Otto e mezzo l’ex marziano dem Ignazio Marino, lo ha contraddetto: «Un anno fa un sindaco veniva tolto tramite notai e oggi un comico di successo commissaria il sindaco di Roma. Ma allora perché i cittadini dovrebbero andare a votare?».
il Sole 24 ore
RAGGI CEDE AGRILLO:
FUORI FRONGIA E ROMEO
di Manuela Perrone
«Accantonate per ora le ipotesi di autosospensione o rimozione del marchio - Il leader: errori ma avanti»
Alla fine della seconda giornata più difficile per il M5S prevale la soluzione “minima”, quella prudente e attendista suggerita da Davide Casaleggio per salvare la giunta capitolina dopo l’arresto di Raffaele Marra: via quel che resta del “raggio magico”, Daniele Frongia e Salvatore Romeo, che ieri sera hanno rinunciato all’incarico rispettivamente di vicesindaco e di capo segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi. «Barra dritta e avanti tutta», scrive Beppe Grillo sul blog in serata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento Cinque Stelle. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo».
Resta in canna, per ora, l’altro colpo ipotizzato ieri, silenziato da un bagno di realpolitik: la richiesta a Raggi di autosospendersi. Come invocano gli ortodossi del M5S che chiedono un taglio netto con la giunta capitolina prima che sia tardi. Qualcuno si lascia sfuggire quel che tanti pensano: «Un avviso di garanzia a Raggi sarebbe un toccasana».
L’allusione è all’inchiesta della procura di Roma sulle nomine, tra cui quella di Romeo, che potrebbe vedere la sindaca indagata per abuso d’ufficio. A quel punto – è la tesi – nessun compromesso sarebbe più possibile. «Invece così ci lasciano a bagno, con il rischio di farci morire». Ma dal blog il “capo politico” Grillo sembra prepararsi anche a questa evenienza, quando scrive: «A breve definiremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi, comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia. Nessuno pensi di poterci fermare così».
La tregua raggiunta ieri sera è arrivata al termine di due riunioni di maggioranza, l’ultima delle quali durata quasi cinque ore, che si è tenuta a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana. Grillo era partito all’alba per Genova, concludendo infuriato e deluso la trasferta romana peggiore di sempre. All’Hotel Forum aveva incontrato alcuni tra i parlamentari e i consiglieri, tra cui le deputate Roberta Lombardi e Carla Ruocco, da sempre le più critiche con la giunta Raggi. Ruocco ribadisce secca: «Sono fiera di essere sempre dalla parte delle persone perbene. E dalla parte delle persone perbene resto».
La proposta di togliere il simbolo a Raggi (che aveva sondato senza successo l’ipotesi di proseguire senza marchio) non è passata. Secondo indiscrezioni, la sindaca avrebbe comunque tentato di resistere, chiedendo il supporto dei consiglieri e cercando sponde a destra, tra i banchi di Fratelli d’Italia. Quella destra che – attacca il Pd – rappresenta il vero terreno di coltura della sua giunta, l’area grigia (con il supporto dello studio legale Sammarco, da cui Raggi proviene) che detta le sue scelte.
Il clima tra i Cinque Stelle è vitreo. I cosiddetti “pragmatici” si sono eclissati: nessuna notizia del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che pure è sfilato davanti a Grillo senza quasi proferire parola, raccontano. «È lui il responsabile di tutto questo», mormorano in tanti. Sparito anche Alessandro Di Battista, che fino all’ultimo aveva provato a sostenere Raggi, tra i principali sponsor della linea “oneri e onori” sposata dopo la bufera di settembre (la raffica di dimissioni e la notizia dell’ex assessora all’Ambiente Paola Muraro indagata).
Il presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico, che incarna l’anima movimentista delle origini e ha definito «gravissimo» quel che è successo a Roma, disdice la partecipazione a “L’intervista” di Maria Latella in tv. L’impressione è quella di un Movimento vicino a sgretolarsi. Che naviga a vista, quasi paralizzato.
Scosso da divisioni su divisioni: una sorta di tutti contro tutti. Ortodossi versus pragmatici, appunto. Ma anche consiglieri comunali contro parlamentari. E consiglieri più severi contro quelli più morbidi, convinti che siano i deputati e le loro iniziali interferenze i principali responsabili della deriva della giunta. Con la sindaca che ha resistito fino all’ultimo, chiusa in una sorta di bunker emotivo e politico, difendendo ostinatamente i suoi fino all’ultimo, Frongia in particolare.
Che mantiene le deleghe alle Attività giovanili e allo Sport. Sarà sacrificato anche Renato Marra, il fratello di Raffaele, l’ex vicecomandante dei vigili urbani promosso a inizio novembre a capo della direzione Turismo del comune, con la firma del fratello e la difesa accorata della sindaca in una lettera all’Anac.
Raggi ha annunciato anche l’altra condizione imposta da Grillo: l’avvio di una due diligence su tutti gli atti firmati fin qui da Raffaele Marra. Sia quando era vice capo di gabinetto sia quando, dal 7 settembre scorso è stato trasferito alla guida del dipartimento Personale (casella cruciale, il Campidoglio conta 23mila dipendenti). Altra fatica che sottrae tempo alle vere emergenze della capitale.
il Fatto quotidiano online
SALA DI RIANIMAZIONE
di Marco Travaglio
Giorgio Bocca lo chiamava “il Paese di Sottosopra”, ma era un eufemismo. Questo è un manicomio, però gestito non dagli psichiatri, ma dai matti. A Milano c’è un sindaco indagato per falso materiale e falso ideologico sul principale appalto del principale grande evento degli ultimi anni: l’Expo 2015. Il sindaco si “autosospende” e si fa sostituire dal vicesindaco, inventandosi un istituto giuridico che non esiste in natura e nell’ordinamento, giustificato con un “impedimento temporaneo” anch’esso inventato visto che le indagini non gli impediscono di esercitare le sue funzioni.
Una penosa manfrina per fare pressioni sulla Procura generale che ha osato riesumare l’inchiesta sepolta dalla Procura ordinaria e riaperta dal gip. E tutti, compreso Salvini, implorano Sala di restare al suo posto perché “Milano dev’essere governata”. Intanto a Roma viene arrestato il capo del Personale del Comune per fatti estranei e precedenti all’attuale amministrazione (una casa comprata nel 2013 con soldi del costruttore Scarpellini) e tutti chiedono le dimissioni della sindaca Raggi che l’aveva nominato senza sapere – né poter sapere – nulla di quel fatto, scoperto dalla Procura di Roma con intercettazioni e indagini patrimoniali.
Evidentemente “Roma non dev’essere governata”, o almeno non da lei. Tra i più feroci censori della sindaca ci sono alcuni dei suoi compagni (si fa per dire) di movimento, riuniti in permanenza per processarla in contumacia (la presenza dell’“imputata” non è prevista), che pretendono, in alternativa o in accumulo: la testa della Raggi, quella del vicesindaco Frongia, quella del suo capo-segreteria Romeo.
I quali non sono accusati né indagati di nulla e non si sa bene di che debbano rispondere, a parte dell’essersi fidati di un dirigente mai inquisito né sospettato di corruzione fino all’altroieri. Infatti nessuno li convoca per ascoltare la loro versione dei fatti, né propone nomi formidabili al posto loro. Poi c’è chi approfitta del disastro romano per regolare i conti con Di Maio, invidiatissimo perché risulta il più autorevole parlamentare M5S, e non per investitura divina, ma per la più impietosa delle selezioni naturali: quella darwiniana.
L’espressione “caos Raggi”, rubrica fissa sui giornaloni e sui tg Rai, Mediaset e Sky, riassume all’ingrosso e a senso unico un groviglio di responsabilità: la drammatica difficoltà e la terribile impreparazione manifestata dalla Raggi e dall’intero M5S nel trovare una classe dirigente all’altezza per governare un Comune allo sfascio; e il totale inquinamento della burocrazia capitolina, dove il più pulito ha la rogna.
Non avendo una squadra all’altezza sia per l’inadeguatezza sua e del M5S, sia per la scarsa collaborazione della “società civile”, la sindaca ha formato una giunta di esterni al M5S, cercando di valorizzare alcuni pezzi di establishment per orientarsi in un palazzo infetto dalle fondamenta con 23mila tra dipendenti e dirigenti (tra cui moltissimi indagati).
L’operazione è miseramente fallita, nonostante precauzioni più stringenti di quelle adottate da qualunque altro sindaco: la richiesta, a chiunque si candidasse a una nomina, non solo della fedina penale immacolata, ma addirittura del certificato di nessuna indagine a carico; e il vaglio di Cantone sulle nomine dello staff. Fu per questo che si scoprì che la nomina della Raineri a capo di gabinetto era illegittima; che l’assessora Muraro era sotto inchiesta per reati ambientali; che il Pg della Corte dei Conti De Dominicis, neoassessore al Bilancio, era pure lui inquisito. Su Marra invece nulla risultava, né sotto il profilo penale né sotto quello amministrativo, salvo la questione tutta politica di aver collaborato con giunte precedenti, come il 99% dei funzionari e dei dirigenti comunali, non soggetti allo spoils system.
Quando un altro sindaco-marziano, Luigi De Magistris, si insediò nel 2011 in un altro Comune disastrato, quello di Napoli, nominò 12 assessori e poi ne cambiò 11 in cinque anni (totale 23), prima di trovare la quadra e la stabilità. Lo stesso Sala è stato costretto ad avvicendare vari collaboratori indagati o non idonei. Questi sono i fatti, nudi e crudi. Anziché invocare la testa di questo e quello, capi e capetti dei 5Stelle farebbero bene a ragionare con loro, di testa, e non con le viscere. Partendo dall’unica bussola che dovrebbe orientarli: le aspettative dei romani che sei mesi fa hanno chiesto loro di governare la Capitale. Se la Raggi fosse stata beccata a commettere reati o a tenere condotte indecenti, andrebbe sfiduciata. Ma non è questo il caso. Quindi governi, se ne è capace. Poi verrà giudicata per quello che avrà fatto.
Certo, è bizzarro che il caso Marra provochi discussioni infinite e appassionate in un movimento che passa per autoritario e verticistico, mentre il caso Sala non suscita il minimo stormir di fronda in un partito che si fa chiamare “democratico”, si vanta di discutere liberamente di tutto e un anno fa sfiduciò davanti al notaio il sindaco Marino per uno scandalo infinitamente meno grave.
Nessuno pensa che Sala debba dimettersi perché è iscritto nel registro degli indagati (anche se il suo partito, per lo stesso motivo, ha chiesto per mesi le dimissioni della Muraro): se ne riparlerà a fine indagine. Ma se, tra le 12 o 18 correnti del Pd, per non parlare della stampa, non si leva una voce su un sindaco probabilmente ineleggibile e sospettato di aver falsificato atti e truccato appalti, mentre sono tutti impegnati a chiedere le dimissioni della Raggi, qualche riflessione sulla diversità del M5S andrà fatta. I 5Stelle si impegnano allo spasimo per regalare agli altri il comodo slogan “siete uguali a noi”. Ma gli altri ce la mettono tutta per dimostrare che i 5Stelle sono diversi.
Corriere della sera
VIA IFEDELISSIMI.
E GRILLO SALVA RAGGI
di Alessandro Trocino
«Roma, si dimettono Frongia e Romeo. Ipotesi sospensione della sindaca in caso di avviso di garanzia»
Grillo dà la linea: «Roma va avanti con Virginia Raggi. Da oggi si cambia marcia». Via il vicesindaco Frongia e Romeo, capo della segreteria. A Milano appello a Sala per restare.
Ha provato a resistere fino all’ultimo, nel bunker di Palazzo Valentini, mentre al Campidoglio andava in scena Suburra . Nel senso che, per quelle bizzarre coincidenze della storia, proprio lì si era stabilito il set della serie tv sul malaffare capitolino. Alla sette di sera, dopo cinque ore di trattative esterne con i vertici M5S e interne con i consiglieri comunali, Virginia Raggi china la testa, accettando i diktat del Movimento. Per salvare se stessa e la sua giunta da un tramonto inevitabile. Da lontano sorridono (ma non troppo) Beppe Grillo e soprattutto Davide Casaleggio, vero ispiratore di una soluzione non traumatica, preoccupatissimo di una rottura.
Il post mai pubblicato
Molte ore prima, alla mezzanotte di venerdì, la sindaca si barrica in Campidoglio, con i consiglieri riuniti al capezzale della giunta, come nel famoso videoselfie. Quasi una veglia funebre, per una partita data quasi per persa. Perché dall’Hotel Forum giunge la notizia di una mannaia imminente: un post, già pronto, impaginato e firmato, con la revoca del simbolo. Ma il tasto «pubblica» non sarà mai premuto. Perché a quell’ora c’è il primo dei tanti colpi di scena: vanno online i giornali del mattino.
Grillo e Casaleggio cercano la giudiziaria e tirano un sospiro di sollievo: non ci sono intercettazioni compromettenti con la Raggi. Così, si va al piano B, suggerito tra gli altri da Paola Taverna, ma non condiviso dagli ortodossi come Roberta Lombardi, Roberto Fico e Nicola Morra: un diktat, prendere o lasciare, con la rimozione da vicesindaco di Daniele Frongia, la cacciata e il ridimensionamento di Salvatore Romeo e di Renato Marra. Ma anche l’affiancamento di un pool di avvocati per verificare gli atti degli ultimi mesi e un cambio radicale dell’assetto della Comunicazione, anche e soprattutto dopo il tetro videoselfie notturno.
Lo scontro su Frongia
La sindaca, alle due di notte, verifica la tenuta di un’eventuale maggioranza senza il simbolo. Verifica compiuta: «Ragazzi, non ce la facciamo». La notte si consuma nell’incertezza. Grillo riparte per Genova all’alba, dopo ore di telefonate con Casaleggio, stremato. La Raggi si sveglia presto. La notte pare abbia portato consiglio. Fa arrivare al quartier generale M5S il suo via libera. Con una condizione: «Ok, ma prima devo vedere i consiglieri». Si rifà un post e lo si mette in attesa.
Ma ecco un nuovo colpo di scena. La Raggi alza il telefono e richiama, con lo stesso tono che ha avuto in questi giorni, definito dalla controparte «algido»: «Ho cambiato idea, Frongia non si tocca». Dall’altra parte trasecolano. Speravano di aver vinto la sua resistenza, ma Virginia sembra non mollare mai. L’avviso di garanzia per la sindaca, però, è in arrivo e dato per certo, con la possibilità che le si chieda di autosospendersi. Il vicesindaco, a quel punto, ne assumerà le funzioni. Ma i vertici M5S vogliono un proprio uomo. E chi meglio di Massimo Colomban, uomo della Casaleggio associati, già imposto alle Partecipate? Lui, di fatto, diventerà il «sindaco ombra».
La seduta fiume
Raggi alle due del pomeriggio convoca i consiglieri di maggioranza a Palazzo Valentini, sede della Provincia. Fa melina, chiede ai consiglieri di votare, prende tempo. Continuano i contatti con l’esterno. I vertici M5S le fanno arrivare messaggi come: «Se non mandi via Frongia, vai a casa». Con tanto di penale da 180 mila euro, come prevede il contratto firmato all’atto dell’insediamento con la Casaleggio. Su piazza Venezia si addensano ombre cupe. Un’agenzia batte una frase della Raggi: «Non mi riconosco più nel Movimento». La smentita arriva subito. Ma intanto passa una Smart con una scritta che sembra premonitrice: «Ciao Roma».
L’epilogo
Raggi cede su Frongia: «Va bene, non sarà più vicesindaco, ma deve restare in giunta». E così il fedelissimo collaboratore, nonché amico di Marra, resterà in giunta: come assessore allo Sport, stessa materia destinata a Luca Lotti, braccio destro di Renzi, nel governo Gentiloni. Ma la battaglia non è finita. Perché Raggi prova a resistere anche su Colomban. Lei vuole Andrea Mazzillo, attuale assessore al Bilancio. Per sparigliare le carte, chiede che siano i consiglieri a votare per decidere. Grillo si infuria. Alle 18, il presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito esce da una porta laterale. È irritato: sperava di diventare vicesindaco. E come lui Paolo Ferrara, altro «lombardiano» (nel senso di Roberta Lombardi).
A De Vito non sono piaciute le parole della Raggi. Che si scusa con i consiglieri — «ho fatto degli errori» — ma attacca Carla Raineri. Colomban, salvo contrordine dell’ultima ora, è il predestinato. Il post Il «raggio magico» è decimato, le ultime resistenze vinte. Manca solo il timbro finale. Poco dopo le 20, Virginia Raggi abbandona Palazzo Valentini con un sorriso forzato. Alle 21.45, per la prima volta da giorni, Raggi e il Movimento parlano all’unisono. Il blog titola: «Barra a dritta e avanti tutta». Seguono 16 righe a firma Beppe Grillo e 10 a firma Virginia Raggi. Nelle prime le bacchettate: «Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo». Nelle seconde, l’annuncio della resa, mascherata da «cambiamento». Da domani, la Raggi non sarà più sola. Andrà avanti, scortata e controllata a vista
Corriere della sera
LA RESA DI RAGGI.«SI VA AVANTI CON LEI»
di Andrea Arzilli
Fuori il vicesindaco Daniele Frongia e il capo della segreteria politica Salvatore Romeo, rimosso dalla direzione Turismo Renato Marra, fratello di Raffaele arrestato venerdì mattina: «Via il Raggio magico o via il simbolo», insomma. È l’ultimatum del M5S che la sindaca Raggi ha deciso di raccogliere alla fine di un’altra giornata di trattative serrate. «Al termine delle ultime due riunioni di maggioranza, e dopo un confronto con il garante Beppe Grillo — il post esce in contemporanea sul blog del leader e sulla pagina Facebook di Raggi —, abbiamo stabilito di dare un segno di cambiamento.
Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. Al contempo a breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati».
Una resa dei conti, nel corso di un’altra lunghissima assemblea di maggioranza tenutasi stavolta a Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana, perché in Campidoglio gli stanzoni erano occupati dalle troupe di una fiction.
Una riunione dalla quale la sindaca è uscita di fatto commissariata dopo aver comunque tentato di tenere duro sui suoi uomini di fiducia: ha insistito per avere come vice Andrea Mazzillo, l’assessore al Bilancio, ma il posto di Frongia alla fine dovrebbe prenderlo l’assessore alla Partecipate Massimo Colomban, uomo vicino a Casaleggio.
In più, sarà varato un codice etico per gli eletti e un pool di legali 5 Stelle vigilerà sugli atti dell’amministrazione per azzerare il rischio di un nuovo caso nomine. A cominciare dalla prima in programma: Grillo ha chiesto di assegnare già domani la delega all’Ambiente che era di Paola Muraro. Ieri Raggi, sulla quale pende anche la grana Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica in bilico, ha perfino cercato l’appoggio esterno della destra di FdI per andare avanti da sola. O almeno per provarci, visto che sulla sindaca pende sempre il rischio di finire indagata per le nomine fatte nei sei mesi di governo, quella di Salvatore Romeo in primis.
Beppe Grillo, in ogni caso, ha chiarito che la spina non è stata staccata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle — scrive il leader M5S sul blog —. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo. Da oggi si cambia marcia. Bisogna riparare agli errori fatti per fugare ogni dubbio. Governare Roma è più difficile di governare il Paese. Lo sapevamo e non intendiamo sottrarci a questo compito assegnatoci dal popolo. Combatteremo con le unghie e con i denti perché Roma cambi, ma in un ambiente così corrotto e marcio dobbiamo aspettarci di tutto. Mettiamo la barra a dritta e avanti tutta».
La Repubblica
BASSO IMPERO
di Corrado Augias
«La crisi dell’ultimo decennio è l’emblema della grande debolezza di una città vittima della sua eterna vocazione plebea. Con problemi che si ripresentano sempre uguale»
Che Virginia Raggi avrebbe fallito era un po’ scritto nei suoi precedenti ambigui e inadeguati, nelle voci unanimi che descrivevano una donna alle prese con un incarico superiore alle sue forze, probabilmente alle forze di chiunque, così spaventoso da dare inaspettata verosimiglianza alla celebre frase della senatrice Taverna prima delle elezioni: c’è un complotto per farci vincere.
Sembrava una battuta paradossale, alla Crozza, come minimo una gaffe. Tutti risero. Invece, nel suo candore popolaresco, la senatrice aveva visto giusto; non era un paradosso ma una profezia. Non il complotto naturalmente, ma l’estrema difficoltà della prova certamente sì.
Gli aspetti politici, amministrativi e tecnici in questi giorni sono stati esaminati di sopra e di sotto. Io stesso ho fatto notare l’improvvida decisione della sindaca di mettere alla porta, appena nominata, Raffaele Clemente, capo della polizia municipale chiamato da Ignazio Marino, che stava cercando di mettere ordine in un settore lasciato agli appetiti famelici di consorterie, bande, “famiglie”.
Qualcuno, oggi possiamo perfino sospettare chi, consigliò l’inesperta Virginia, di liberarsi subito di quel rompiscatole che voleva ricondurre i tavolini all’aperto dei ristoranti nei limiti della concessione comunale, far ruotare gli incarichi e le funzioni dei vigili per limitare i ripetuti episodi di corruzione, dare una disciplina alle decine di venditori abusivi che assediano romani e turisti: caldarroste, aste per i selfie, fazzoletti di carta, orologi finti, mostruosi pupazzi di plastica, ombrelli.
In una giornata di pioggia ho comperato anch’io un ombrellino per 5 euro. Ho chiesto al ragazzo che me lo vendeva: arriverà fino a stasera? Con simpatico candore, mi ha risposto: non lo so. O forse ha detto non credo, ricordo solo un sorriso bellissimo e l’evidente divertimento di dirmi la verità dopo aver intascato quella modesta somma.
Credo di sapere perché Virginia s’è circondata di personaggi discutibili, perché ha fatto nomine disdicevoli, forse illegittime, smarrendosi nei meandri del Campidoglio sotto il peso dell’eredità lasciata dalla pessima giunta Alemanno che l’ha preceduta. Virginia Raggi ha cominciato a lavorare nello studio Sammarco che fa parte della galassia di Cesare Previti.
Si racconta che quando Previti entrava nel suo circolo canottieri, i soci più giovani lo salutavano festosi alzando il braccio nel saluto romano, gridando in coro: Ave Caesar! Oggi le possiamo quasi considerare ingenuità romantiche, goliardia, se paragonate alle ingiurie urlate in coro nelle piazze a piena gola che il Movimento ha poi introdotto come metodo politico, se possiamo chiamarlo così; cose di tale gravità nessuno le avrebbe mai immaginate ma — il che è ancora peggio — nessuno ormai ci bada più. Virginia è maturata tra quelle persone e nell’ambiente neofascista romano, quindi non bisogna troppo stupirsi se da uomini di quello stesso ambiente s’è fatta suggerire le nomine, se le persone più responsabili che ha chiamato sono velocemente fuggite appena capito che aria tirava.
Non è la prima volta che a Roma succedono cose molto gravi anche se l’attuale amministrazione dei Cinque Stelle vi ha aggiunto il connotato inedito di un sindaco (una sindaca) vincolata da un contratto con una società privata che stabilisce in pratica i limiti della sua azione; questo francamente non s’era mai visto.
Chi ha la mia età ricorda invece benissimo certe amministrazioni democristiane di mezzo secolo fa e più, prone al volere dei costruttori e delle maggiori società immobiliari, gli scempi impuniti, gli anni che ci vollero per trasferire una raffineria di petrolio che con l’estendersi dell’abitato era finita con i suoi fumi pestilenziali in mezzo alle case, gli abusi in luoghi come l’Appia Antica che dovunque nel mondo sarebbero stati ritenuti sacri — oltre che una cospicua fonte di reddito per la collettività.
Di fronte a quel passato le amministrazioni Rutelli e Veltroni sono state tra le rare parentesi dove pareva che il sindaco avesse voglia di occuparsi dei problemi cittadini e non di quelli della sua giunta. Anche prima c’erano stati sindaci di alta qualità: Petroselli o Argan, prima ancora (molto prima) Ernesto Nathan, insomma s’era visto più volte che non era impossibile dare a Roma un’amministrazione all’altezza di una capitale europea.
Ignazio Marino ha cercato di intonarsi a quei precedenti, è scivolato sulla sua inesperienza, sulla sottovalutazione di problemi gravi, sull’ostinata presunzione di fare da solo scegliendo i candidati alle cariche su Internet per liberarsi dal soffocante abbraccio dei partiti. Il risultato sono state alcune nomine stonate di cui la città ancora paga le conseguenze.
Se volessimo inquadrare l’entusiastica elezione e il desolante apprendistato di Virginia nella più ampia vicenda della città, potremmo richiamare la costante vocazione plebea di Roma, i suoi eterni problemi con le immondizie testimoniati dalle targhe marmoree murate qua e là. Non dipende certo da una caratteristica genetica degli abitanti, ma dal fatto che a quello per secoli la popolazione è stata ridotta. Per troppo tempo a Roma non è esistita una borghesia consapevole, il “popolo romano” era fatto di nobili legati al trono pontificio chiusi nelle loro fastose dimore e di una plebe largamente analfabeta, riottosa, la stessa alla quale l’immenso poeta Giuseppe Gioacchino Belli ha eretto un monumento con i suoi 2.279 sonetti. Bellissimi da leggere, durissimi da vivere.
il manifesto
ROMA, LA CRISI DI CRESCITA
DEL MOVIMENTO 5 STELLE
di Paolo Graziano e Massimo Almagisti
Prima le dimissioni dell’assessora all’ambiente in seguito a un avviso di garanzia, poi l’arresto del capo del personale: la giunta capitolina a 5 stelle fa parlare per i suoi problemi e non per l’iniziativa amministrativa. Considerata la situazione della capitale, molte delle difficoltà incontrate dalla nuova amministrazione erano prevedibili; tuttavia colpiscono l’intensità e la durata di una impasse politica e amministrativa con pochi precedenti nella storia recente delle città italiane. Ad esempio, ripercorrendo l’insediamento delle prime giunte leghiste a metà anni ’90, molte città di varie dimensioni (Varese, Milano, Pavia, Treviso) si sono trovate guidate da sindaci che non avevano alcuna significativa esperienza di governo. Eppure, quella «rivoluzione elettorale» non diede vita alle difficoltà di cui si legge in questi mesi.
Si potrebbe dire in modo semplicistico che Virginia Raggi si è rivelata fino ad ora una guida meno abile e fortunata del sindaco pentastellato di Torino, Chiara Appendino, e quindi che si tratti solo di una questione di leadership. La leadership indubbiamente ha un certo peso, ma non possiamo isolarla dal contesto. Questo significa fare riferimento alle dinamiche evolutive di una formazione di così recente origine e soprattutto ai processi di acquisizione della cultura di governo da parte del Movimento 5 Stelle, in particolare in una città così problematica (e ambita) come Roma, dove si gioca una partita dagli evidenti riflessi nazionali. La cultura di governo non si inventa, e a tal riguardo altre amministrazioni pentastellate hanno mostrato la difficoltà di passare dalla protesta alla proposta. A Parma, Federico Pizzarotti ha impiegato non poco a comprendere come prendersi cura della città, con risultati – a detta di molti – non disprezzabili. Ma dopo una fase prolungata di conflitto con il vertice nazionale oggi è fuori dal Movimento. A Livorno, Filippo Nogarin, dopo oltre due anni di governo, non è ancora riuscito a lasciare il segno. Si Roma abbiamo detto. I diversi profili professionali di Appenddino e Raggi (più manageriale il primo, più legal-burocratico il secondo) e la connessa capacità individuale di governo spiegano solo in parte la diversa capacità di gestire la sfida dell’amministrazione. Tuttavia, il problema non è solo la capitale: la difficoltà di trasformare slogan efficaci in scelte adatte al governo di una città è una sfida classica per nuovi soggetti politici che sono chiamati a gestire il proprio successo elettorale. Senza una preparazione al governo non si riesce a creare un governo.
Il Movimento 5 Stelle ha il merito di aver tematizzato questioni in grado di attrarre vaste porzioni di opinione pubblica, anche dal lato progressista: riguardanti, ad esempio, la partecipazione dei cittadini, il reddito di cittadinanza e le questioni dell’ecologia e delle fonti di energia rinnovabile. Tuttavia, a livello locale – a differenza di altri soggetti politici esteri che di recente hanno vinto elezioni municipali di città importanti, come Podemos in Spagna – i pentastellati non sembrano brillare per capacità di fare proposte politiche articolate. Tutta colpa dei cittadini, le cui proposte presenti sulla piattaforma Rousseau sono inadeguate? Tutt’altro: il maggiore coinvolgimento dei cittadini – seppur con modalità discutibili – è un elemento di novità del Movimento da guardare con molto favore. Si tratta di un percorso da valorizzare, poiché comporta una concezione della partecipazione che non si esaurisce nel momento elettorale. Il problema risiede piuttosto nella scelta fatta finora dal movimento di non trasformarsi in partito, ossia riguarda il delicato momento in cui una neoformazione politica deve adottare una cultura partitica di governo che si sostanzia nella costruzione di una classe dirigente nuova e competente e nell’aggregazione strutturata della domanda politica emergente. Concorrendo alle elezioni e quindi accettando i fondamenti della democrazia rappresentativa, il Movimento non può continuare a far finta che una competente dirigenza «partitica» non sia necessaria. Le primarie come strumento di selezione del personale politico costituiscono già una sfida per i partiti strutturati; nel caso di una neoformazione quale il M5S possono innescare dinamiche distruttive.
D’innanzi ai recenti accadimenti romani sarà molto interessante analizzare come il Movimento stesso deciderà di rispondere, in particolare per quanto riguarda la selezione del proprio personale politico, se manterrà gli strumenti finora utilizzati oppure se deciderà di introdurre alcune modifiche. Inoltre, sarà importante seguire come si combineranno le modalità di partecipazione on-line e off-line del Movimento, al fine di aggregare in modo efficace e realmente partecipativo la domanda politica. Servono luoghi di discussione e di confronto, dove è bene che il dissenso emerga e non venga bollato come boicottaggio e sanzionato con l’espulsione dei dissidenti come è già avvenuto in alcuni contesti locali. Gli eventi romani inducono ora il M5S a confrontarsi con queste sfide, ma è bene ricordare che non sono questioni che riguardano solo i pentastellati. Come selezionare la classe dirigente e garantire la sua onestà e la sua competenza è una questione cruciale – e irrisolta – della politica italiana dei nostri anni e, come tale, chiama in causa tutti i partiti.

«Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nel fuoco della Geenna». La Repubblica online, blog "articolo 9", 16 dicembre 2016 (c.m.c.)
Esattamente sei mesi fa, il 14 giugno scorso, ho spiegato su questo blog perché non potevo accettare la proposta di entrare nella giunta di Virginia Raggi come assessore alla Cultura, e perché l’avrei votata al ballottaggio se fossi stato un cittadino romano.
Allora, tra l’altro, scrivevo: «Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione. Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova. Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci».
Ebbene, a distanza di sei mesi quelle promesse, quelle possibilità, quelle aperture si chiudono nel peggiore dei modi. Personalmente ero già rimasto interdetto dalla fiducia continuamente rinnovata alla Muraro contro ogni ragionevolezza, e poi dalla palese insopportazione per il rigore di Paolo Berdini, ben deciso a far rispettare il piano regolatore e dunque a non far affogare il futuro stadio nel cemento e nella corruzione.
L’arresto clamoroso di Raffaele Marra è il drammatico epilogo di un crescendo di inadeguatezza, superficialità, arroganza. E peggio ancora dell’arresto, è come ora si cerchi di minimizzarlo e addirittura di rimuoverlo.
È il momento di ricordare a Virginia Raggi che i valori fondamentali per cui una parte rilevante dei cittadini italiani continua a guardare al Movimento Cinque Stelle sono la totale trasparenza; la discontinuità radicale con il sistema di poteri che annulla la politica vera; l’onestà; la fedeltà al mandato dei cittadini e la dichiarata volontà di perseguire solo l’interesse generale. Ebbene, cosa rimane di tutto questo quando addirittura le manette certificano che siamo tornati al peggio della gestione Alemanno?
E non si dica che Marra era un qualunque dipendente del Comune: perché l’effetto di questa versione da impuniti è lo stesso che provocò chi farfugliò di email non lette, o (per cambiare partito) lo stesso che ora provoca chi prima promette di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum, e ora cerca di fare il puparo dietro le quinte. Tutto: ma non provate anche a prenderci in giro.
Ora siamo al momento della verità: o il Movimento 5 stelle dimostra agli italiani di saper tener fede alle proprie promesse, e cioè di essere in grado di rispondere ai propri principi e di mantenere il proprio patto con gli elettori, o la sua sorte è segnata. E sarebbe una notizia terribile per la democrazia italiana, che ha bisogno di un Movimento 5 Stelle davvero trasparente come avrebbe bisogno di un Partito Democratico davvero di sinistra.
Ci vuole coraggio: se fosse l’unica strada possibile, anche il coraggio di dichiarare chiusa l’esperienza di questa giunta, chiedere scusa solennemente e impegnarsi a selezionare in modo efficace la propria classe dirigente. «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nel fuoco della Geenna». Un linguaggio radicale, certo: ma non era questo il linguaggio del Movimento?
, 16 dicembre 2016. eddyburg aderisce e invita ad ampliare la diffusione
APPELLO IN DIFESA DI CHI DIFENDE LA BELLEZZA
Quanto costa difendere la bellezza?
La Bellezza non ha prezzo ma proteggerla costa fatica e impegno. Per una volta non vi parliamo della tenacia e della dedizione con cui tanti si battono per rendere più belle le proprie comunità, vogliamo invece parlarvi del prezzo che si è talvolta costretti a pagare per difendere le ragioni della tutela dell’ambiente, della salvaguardia del paesaggio e della salute dei cittadini, cioè per fare tutto quello che, con il sostegno dei propri soci, di altre associazioni e di tanti altri cittadini, fa da sempre Legambiente Sicilia, da Lampedusa a Ragusa, dalle Isole Eolie a Siracusa.
Quanto costa oggi difendere la Bellezza a Siracusa? La risposta è: costa 18.000 euro. A tanto ammonta la condanna alle spese legali inflitta a Legambiente Sicilia per avere difeso le Mura Dionigiane e il Castello Eurialo dalla costruzione di un centro commerciale e le casse del Comune (e quindi di tutti i siracusani) da un risarcimento senza precedenti.
Dopo essere intervenuta nelle diverse sedi giudiziarie per contrastare la realizzazione del centro commerciale che sfigura le grandi vestigia della fortificazione greca, Legambiente Sicilia in una delle sue numerose iniziative per evitare questa aggressione alle risorse della città, ha impugnato dinanzi alla Corte di Cassazione la sentenza con la quale il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (C.G.A.R.S.) aveva condannato il Comune a pagare il risarcimento del danno in favore della società Open Land per avere in un primo momento negato l’autorizzazione a realizzare un centro commerciale sulla Balza di Epipoli, a due passi da una delle aree più delicate del patrimonio monumentale archeologico siciliano.
Legambiente si è caricata la responsabilità civile di contrastare, a fianco del Comune, un enorme esborso di risorse pubbliche per il danno che il Comune avrebbe causato all’Open Land per avere inizialmente rigettato un’istanza di concessione edilizia che, come ha riconosciuto il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (C.G.A.R.S.), “non avrebbe potuto in alcun modo essere accolta difettando in radice i presupposti urbanistici per il suo legittimo rilascio” (Sentenza n. 605/13 del 20.06.13) ma che in seguito è stata rilasciata per silenzio - assenso. Nelle diverse fasi del processo, il contributo degli esperti e degli avvocati di Legambiente è stato decisivo per fare ridimensionare le pretese risarcitorie della società (quasi 35 milioni euro) per oltre sedici milioni.
Respingendo il ricorso la Cassazione, con una decisione che lascia sconcertati e che non ha precedenti nei confronti di associazioni di volontariato, ha condannato Legambiente Sicilia al pagamento delle spese processuali per l’importo di 12.000 euro oltre accessori (di qui i 18.000 euro), dei quali il gruppo che pretende il risarcimento milionario ha subito intimato il pagamento.
Siamo al summum jus summa injuria: la concessione edilizia per la costruzione di un enorme centro commerciale pur in contrasto con il piano regolatore ed i vincoli archeologici rilasciata in virtù di un silenzio - assenso formatosi per circostanze ancora da chiarire.
Senza contare che è ancora pendente sempre dinanzi al giudice amministrativo un altro contenzioso in cui Legambiente è costituita a difesa dello stesso importantissimo sito archeologico dalla possibile costruzione di un complesso edilizio (70 ville!), nel quale è stata avanzata nei confronti della Regione Siciliana una richiesta di risarcimento di oltre 200 milioni di euro per avere negato la Soprintendenza il rilascio del nulla-osta.
In tutti questi anni Legambiente Sicilia, con il supporto del suo Centro di Azione Giuridica (avvocati ed esperti che prestano il loro lavoro in favore dell’associazione) è stata in prima linea nel denunciare le illegalità ambientali e nel difendere il territorio e la salute dei cittadini da opere inutili e dannose. Ricordiamo solo alcune delle battaglie vinte nel corso del tempo anche grazie alle iniziative in sede giudiziaria di Legambiente:
- Piano regionale dei Rifiuti del governo Cuffaro: annullato grazie a un ricorso alla Corte di Giustizia Europea. Prevedeva quattro mega inceneritori in Sicilia (uno ad Augusta per bruciare 280.000 ton/anno di spazzatura);
- difesa delle Riserve naturali storiche di Sicilia: Vendicari (Noto), Zingaro (Trapani), Stagnone di Trapani, Irminio (Ragusa), Timpa (Acireale);
- contrasto al Ponte sullo Stretto di Messina, con decine di ricorsi ed un impegno nelle sedi giudiziarie di Catania, Reggio Calabria e Roma;
- sospensione dei lavori di costruzione del M.U.O.S., l’impianto militare di comunicazione satellitare da realizzare dentro la sughereta di Niscemi;
- limitazione della Caccia in Sicilia: con una serie di ricorsi Legambiente è riuscita a fare riconoscere la previsione della procedura di valutazione di incidenza ambientale nelle aree di importanza naturalistica (SIC e ZPS);
- difesa con successo (sino alla Corte Costituzionale) del Piano Paesaggistico delle Isole Eolie;
-difesa dei Piani Paesaggistici di Siracusa e di Ragusa, a tutela dell’ambiente e del paesaggio degli Iblei;
- riconoscimento della legittimazione ad agire in giudizio da parte di associazioni o comitati locali, che proteggono l’ambiente, la salute e la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio.
Chiunque è in grado di capire che per un’associazione di volontariato l’esborso di 18.000 euro è un onere gravosissimo: rischia di metterla in ginocchio, di comprometterne le attività correnti e ipotecarne il futuro, scoraggiando le concrete efficaci azioni di tutela che preoccupano chi opera contro il Bel Paese. Questa condanna, che riteniamo ingiusta e sproporzionata, rischia di impedire a Legambiente Sicilia di sostenere le mille battaglie in cui sono impegnati su tutto il territorio regionale i propri circoli, per primi quelli di Siracusa, Priolo Gargallo, Augusta e Melilli Ragusa, Modica, Messina, Capo d’Orlando, Caltanissetta, Enna, Agrigento, Trapani, Palermo che insieme a associazioni e comitati operano in territori da decenni minacciati dall’inquinamento industriale, dal malgoverno e dalla svendita del territorio e dei beni culturali.
Per questo, vi chiediamo di sostenere la raccolta fondi in favore di Legambiente Sicilia “Diciottomila Azioni per la Salvezza della Bellezza”. Con la sottoscrizione di azioni di 1 euro ciascuna sul conto corrente con il seguente Codice Iban: IT56B0200804610000102308987), si potrà aiutare Legambiente Sicilia a estinguere il debito di 18.000 euro per la condanna subita e con essa tutte quelle associazioni, comitati, gruppi di cittadini impegnati nella coraggiosa battaglia per i beni comuni.
Quanto più vasta sarà la partecipazione all’iniziativa tanto più forte diremo ai Distruttori di Bellezza e ai Ladri di Futuro che non possono agire indisturbati. Servirà a ricordargli che non intendiamo in alcun modo abbandonare il campo, rinunciare all’azione in tutte le sedi politiche e giudiziarie che per le Associazioni Ambientaliste e le ‘formazioni sociali” richiamate dall’Art. 2 della Costituzione, rappresenta un mezzo irrinunciabile per affermare gli interessi primari della collettività, della Salute (art.32 della Costituzione), della Cultura e del Paesaggio (art.9 della Costituzione) e per i cittadini una garanzia democratica fondamentale.
Dobbiamo far sentire la voce del Paese della speranza nel cambiamento, delle coscienze per i beni comuni aggrediti e minacciati, lottare per una giustizia di garanzia in un mondo che vogliamo continuare a cambiare.
«Dobbiamo ricucire ciò che è lacerato, rendere immaginabile la giustizia in un mondo evidentemente così ingiusto» (Albert Camus)
Patrizia Maiorca
Beatrice Basile ex Soprintendente ai BB AA CC di Siracusa
Sebastiano Tusa Soprintendente del Mare Palermo – archeologo
«Roma. La questione dello stadio della Capitale e il M5S che non scioglie l’ambiguità per un’operazione urbanistica in continuità con il passato e con gli interessi dei costruttori». il manifesto, 14 dicembre 2016 (c.m.c.)
Provate ad immaginare (se ci riuscite) che la città di Parigi scivoli all’88° posto della graduatoria delle città francesi per la qualità della vita. Impossibile. Parigi è la Francia e la Francia è Parigi, così che, per definizione, Parigi non può che essere la migliore tra tutte le città francesi. In Italia, invece, nessuno grida allo scandalo e tanto meno si prendono provvedimenti, se la Capitale diventa addirittura l’esempio nazionale del degrado in termini di trasporti, smaltimento dei rifiuti, qualità della vita.
Roma è stata anche in passato città di corruzione, di malaffare. Espressioni come «Roma ladrona», «Capitale infetta», sono state usate dai leghisti per rivendicare una loro presunta purezza e onestà padana, ma nessuno, al di là della loro strumentalizzazione politica, le ha mai considerate fuori posto o, come si dice a Roma, «campate per aria». Albergano indisturbate e mai smentite dai fatti, nell’immaginazione popolare degli italiani.
Molte persone di provata fede di sinistra, nelle ultime votazioni che hanno visto contrapposti i due candidati sindaci: Giachetti (Pd) e Raggi (M5S), hanno votato, con più o meno reticenza e convinzione, per quest’ultima. Sulle ragioni di questa disaffezione nei riguardi della sinistra ufficiale (confermata e, direi, sancita definitivamente dal recente referendum) si potrebbe discutere a lungo, ma non è questo l’argomento del giorno dell’agenda politica.
A spingere per questa sofferta decisione (di votare Raggi), fu anche la scelta, da parte del M5S, di candidare come assessore all’urbanistica Paolo Berdini. Molti furono indotti a ritenere che tale scelta rappresentasse un segnale di netta discontinuità col passato; che finalmente si sarebbe recisa quella complicità storica tra amministrazione e costruttori e immobiliaristi, quelli, insomma, che, a Roma, hanno sempre avuto la meglio rispetto alla tutela dell’interesse pubblico e collettivo.
A Paolo Berdini, in passato, non erano certo mancate occasioni per manifestare pubblicamente la sua opposizione a tentativi di speculazione; le sue denunce sul malaffare che ruota intorno al mattone erano regolarmente pubblicate sui quotidiani e, in particolare, sul manifesto. Egli stesso era diventato il simbolo di un’urbanistica romana decisa a rivendicare l’affermazione dell’interesse pubblico su quello privatistico, sugli affari. E siccome il nome di Berdini fu uno dei primi (se non il primo) ad essere fatto dalla neosindaca Raggi per la sua squadra di governo, tutto faceva supporre che si stava preparando una fase nuova nella tribolata storia dell’urbanistica romana.
In primis era la questione della candidatura di Roma alle Olimpiadi (e fin qui la Raggi, seppure con qualche tentennamento iniziale, ha tenuto), ma poi, ancora più importante, era la questione scandalosa del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle, voluta dal sig. James Pallotta, con al seguito tre grattacieli, uffici, una catena di centri commerciali, residenze e quant’altro sufficiente a ritenere che lì, a Tor di Valle, lo stadio fosse solo la foglia di fico con cui far nascere una nuova città in barba a qualsiasi criterio urbanistico e, dietro la quale, si nascondevano giganteschi interessi economici. «Obbrobrio», se ricordo bene, fu l’espressione usata da Berdini per definire quell’infausta ipotesi urbanistica.
Ora i vertici del M5S, in odore di elezioni anticipate non esitano a ritenere che quello stadio e quella sciagurata avventura s’ha da fare. Forse vogliono accattivarsi le simpatie (soltanto?) dei grandi costruttori che ruotano intorno all’operazione, tanto da far dire alla stessa deputata M5S, Roberta Lombardi che «il sospetto che Mafia Capitale, con i suoi interessi milionari nel dipartimento che fa capo a Berdini, alberghi ancora in Campidoglio, anche con la giunta Raggi».
Fatto è che sono circolate (somministrate ad arte proprio nel vecchio stile democristiano di affermazioni e altrettanto immediate smentite) voci sulla sostituzione di un assessore cui non è mai stata data neppure la possibilità di iniziare il proprio lavoro.
C’è da dire ancora, questa volta nella direzione del Pd che già gongola per il tradimento dei 5S nei confronti del popolo romano, che Giachetti (in sede di campagna elettorale) neppure ci aveva provato a contrastare quell’infausto progetto dello Stadio e che, con il Pd al Campidoglio, neppure staremmo a scrivere queste cose perché gli accordi erano già conclusi.
E così, per tornare alle ragioni esposte all’inizio, Roma continuerà a scivolare nella graduatoria delle città italiane. Crotone già teme di venire scalzata dal suo primato di ultima città italiana.
«Il “confronto pubblico” non è quindi importante di per sé, ma come lubrificante politico, utile a sbloccare l’Italia e garantire che i progetti si facciano, senza troppe rotture di scatole. Lo “strumento di democrazia” del sindaco è uno strumento privatizzato per una democrazia esternalizzata». Internazionale online, 10 dicembre 2016 (p.d.)
Pubblichiamo la seconda puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui).
Per vedere di nascosto l’effetto che fa
Il ponte di mattoni rossi sulla via Emilia, a cavallo del fiume Reno, ha ottenuto fama letteraria con il nome di Pontelungo. Nelle pagine di Riccardo Bacchelli lo attraversano prima il diavolo, con addosso un cappello a cilindro gibus, di quelli tenuti in forma da molle nascoste, e poi l’anarchico Bakunin. Oggi è piuttosto malandato, ha un marciapiede transennato e attende da tre anni lavori urgenti che lo mettano in sicurezza. Superato il ponte si svolta a destra, verso l’aeroporto di Bologna, e lungo la strada s’incontra La Birra, un quadrilatero di case stretto tra la ferrovia, il fiume e la tangenziale; nella frazione c’è la scuola elementare, e accanto alla scuola, la palestra. Sul pavimento in gomma, con le linee dei campi da basket e pallavolo, ci sono per l’occasione dieci tavoli rotondi. A uno di questi è seduta la signora, accanto a lei il suo deambulatore. È venuta fin qui e ha atteso paziente l’inizio dei “tavoli di discussione” per poter dire quello che la inquieta. Però, quando viene il suo momento, anche noi, che le sediamo vicini, non capiamo quel che dice, perché ogni tavolo discute in contemporanea, contendendo agli altri lo spazio acustico della palestra, dove l’altissimo soffitto fa di ogni brusio un frastuono. Cogliamo giusto qualche parola, “la mia casa… esproprio… mila euro”, e questo basta a lasciarci intravedere il dramma. La signora perderà la casa, nel luogo dei suoi ricordi ci sarà uno svincolo nuovo di zecca, e teme che i soldi dell’indennizzo “a prezzo di mercato” non bastino per una sistemazione altrettanto dignitosa.
Per fortuna ogni tavolo ha un facilitatore o una facilitatrice, anche il nostro. La facilitatrice incita la signora a parlare a voce più alta, come ogni santo scolastico giorno fanno le insegnanti nell’edificio accanto con i bambini troppo timidi. Poi, con la stessa pazienza di una brava maestra, aiuta la signora a chiarire il proprio pensiero, compitando con lei parole e concetti – “il prezzo di mercato significa la valutazione del mercato nel momento in cui l’esproprio viene fatto” – e suggerendole di dare al suo tormento una forma propositiva – “tuttavia, possiamo fare una domanda che riguardi specificatamente il criterio con il quale viene determinato il valore dell’immobile”. L’importante, per la facilitatrice, è arrivare a “formulare una domanda” a cui le autorità e “gli esperti” risponderanno. La signora deve essere propositiva affinché il “giro di tavolo” possa proseguire. Dopo di lei intervengono due donne. Parlano con l’esperienza di chi abita vicino alla tangenziale da decenni, non con il lessico affinato da chilometriche riunioni di “antagonisti”. Esprimono, in altri termini, il proverbiale concetto “chi semina strade, raccoglie traffico”. Ma alla facilitatrice non va bene, bisogna…“provare a tradurre questa preoccupazione in una domanda”. Le signore ci cascano e accettano di chiedere informazioni dettagliate sulle… barriere acustiche.
Questa è la “facilitazione”, ovvero la messa in campo (da basket) del “confronto pubblico” sul Passante di Bologna, il processo partecipativo che il sindaco Merola considera uno “strumento di democrazia”. Uno strumento che le amministrazioni usano sempre più spesso, negli ultimi tempi, con risultati molto deludenti. Tra le critiche più diffuse, c’è quella di voler allestire un dibattito di facciata, per poi farsene scudo contro ogni contestazione successiva. “Siamo stati aperti e disponibili, vi abbiamo ascoltato, abbiamo risposto, che altro volete?”.
Libertà è partecipazione
Nel campo delle grandi opere, il precedente che tutti citano, l’esperimento apripista, è il débat public “alla francese”, istituito nel 1994 dopo le violente proteste delle popolazioni locali contro l’alta velocità Marsiglia-Lione. Da allora, tutte le grandi infrastrutture passano al vaglio di un’apposita commissione nazionale, che decide se avviare il confronto. “Ma nel momento in cui lo decide”, spiega Iolanda Romano, esperta di processi decisionali inclusivi, “il confronto diventa obbligatorio e, sottolineo, aperto a tutti. Nel débat public, e questo è importantissimo, non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera. E deve svolgersi in una fase anticipata rispetto al progetto definitivo”.
Il primato italiano per una “legge sulla partecipazione” spetta invece alla regione Toscana, che ha approvato la propria nel 2007. Secondo i commentatori più entusiasti, si trattava della prima legge al mondo che mirasse a promuovere il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche in generale e non solo su tematiche specifiche. Eppure, tanta inedita promozione non ha funzionato granché. Il “dibattito pubblico” non si è svolto neppure per la grande opera più controversa, l’ipotesi di sotto-attraversamento Tav di Firenze. La legge stessa prevedeva una valutazione dei propri risultati a cinque anni dall’entrata in vigore. E il risultato della valutazione è che è stata riscritta. Il nuovo testo prevede che il dibattito pubblico non sia più solo un diritto, ma anche un dovere, per i progetti di maggiore impatto. Tuttavia, a fronte di questo “dovere di ascoltare”, non c’è nessun dovere di recepire, nessun rapporto vincolante tra le conclusioni del confronto e i progetti definitivi. Il promotore dell’opera deve rispondere alle critiche e motivare le sue scelte, ma fatto questo può tirar dritto. Così i cittadini, dopo mesi di confronto, si portano a casa la convinzione che partecipare sia una perdita di tempo.
Non va meglio con un’altra legge regionale, quella dell’Emilia-Romagna, introdotta nel 2010. Qui il dibattito pubblico non è obbligatorio, anzi, per ricevere sostegno e finanziamenti, un progetto di partecipazione deve rispondere a requisiti, modalità e criteri fissati dalla giunta regionale. Inoltre, l’ente locale coinvolto deve dare il proprio assenso. Altrimenti, nisba. Quindi, se i cittadini di Roccafritta vogliono avviare un dibattito pubblico sulla nuova fondovalle, devono progettarlo in modo che piaccia alla regione e al loro comune. Così, i dibattiti sgraditi alle autorità locali hanno ben poche possibilità di ricevere un sostegno. Ma se per caso lo ottengono, niente paura: anche in questo caso, le conclusioni del processo partecipativo non sono vincolanti per nessuno.
Questo è il quadro nelle due regioni considerate all’avanguardia per la promozione dei processi partecipativi e di dibattito pubblico. Ma il panorama è ancora più sconfortante se ci spostiamo in ambito nazionale. Nel marzo 2015 è stato presentato un disegno di legge sul débat public, il cui primo firmatario è il senatore Stefano Esposito. L’esigenza che muove i promotori è quella di “colmare il gap infrastrutturale che […] affligge il nostro Paese” e di “superare lo stallo decisionale che affligge la nostra economia”. Una delle cause di questo ritardo sarebbero i cittadini, che si oppongono ai progetti “in quanto percepiti come frutto di decisioni ‘calate dall’alto’ nonostante siano state assunte da rappresentanze democraticamente elette”. “Si tratta di chiudere un’epoca”, continua Esposito, “per aprirne un’altra, attraverso la presa d’atto che il modello […] delle procedure autorizzative previste dalla normativa vigente […], è divenuto, da solo, insufficiente a dare garanzie sulla fattibilità concreta di un progetto”. Il “confronto pubblico” non è quindi importante di per sé, ma come lubrificante politico, utile a sbloccare l’Italia e garantire che i progetti si facciano, senza troppe rotture di scatole.
Mentre il disegno di legge Esposito è all’esame del senato, il parlamento italiano deve occuparsi di tre direttive europee, che obbligano a rivedere le leggi sui lavori pubblici. Il nuovo codice degli appalti entra in vigore il 19 aprile 2016 e tra i cambiamenti che introduce c’è proprio la “consultazione pubblica”. L’articolo 22 la rende obbligatoria per “le grandi opere infrastrutturali e di architettura, di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio”. Un decreto dovrà poi stabilire come individuare tali opere, in base al tipo e alla dimensione, e con quali modalità svolgere il dibattito che le riguarda. Tutti i progetti avviati dopo l’entrata in vigore del codice dovranno sottostare alle nuove regole. Per non sbagliare, il Passante di Bologna viene approvato proprio quattro giorni prima, il 15 aprile, mentre il ministero delle infrastrutture avrà un anno di tempo per emanare il decreto con tutti i dettagli. Tra questi “dettagli” c’è la questione di chi debba condurre la consultazione. Esposito, nella sua proposta, immagina un “soggetto pubblico indipendente” che agisca “in modo assolutamente imparziale”, ma come garantire questa indipendenza e imparzialità è uno degli aspetti più delicati da definire. In Francia, la commissione nazionale per il dibattito pubblico è composta da 25 persone, tra le quali una indicata dalla corte dei conti, sei elette localmente, due scelte dai sindacati, due dalle associazioni di consumatori, due da quelle ambientaliste. La legge toscana sulla partecipazione ha istituito un’autorità, chiamata a svolgere una funzione simile. Sono tre componenti, designati dal consiglio regionale. Considerando che la regione è spesso tra i proponenti delle opere che si vanno a discutere, l’imparzialità di quest’organismo risulta quantomeno dubbia. Nel dibattito sul Passante di Bologna, un “soggetto pubblico indipendente” che gestisse il confronto non si è nemmeno visto, ma l’organizzazione degli incontri è stata affidata a una società privata, individuata con un meccanismo che non è affatto garanzia d’indipendenza. Vediamo perché.
(Non) sarà un’avventura
L’articolo 3 bis dell’accordo per la realizzazione del Passante di Bologna, assegna ad Autostrade per l’Italia il compito di individuare “specifiche professionalità con comprovata esperienza” al fine di attivare un confronto pubblico. Esso “consisterà nella presentazione al territorio […] delle soluzioni progettuali individuate nel Progetto preliminare, attraverso illustrazioni pubbliche e attività di coinvolgimento dei cittadini […] favorendo la proposizione di idee che consentano di raccogliere i vari contributi premiando le migliori soluzioni. Ciò al fine di individuare, […] i possibili miglioramenti da apportare al progetto per favorire un migliore inserimento nel tessuto urbano dell’opera e per ottimizzare l’utilizzo delle risorse”. Torna, ineludibile, l’aria di scuola elementare che si respira nella palestra della Birra. Il confronto pubblico diventa un’attività di coinvolgimento – “Bambini, oggi facciamo un collage!” – attraverso illustrazioni pubbliche – “fermi con quelle forbici: vi faccio vedere come si ritaglia” –, che favoriscano la proposizione di idee premiando le migliori soluzioni: “Siete tutti bravissimi, però faremo una mostra speciale dei lavori dei più bravi dei bravissimi”. Ma i migliori collage non devono andare fuori tema, e possono riguardare solo l’inserimento dell’opera nel tessuto urbano e un più generico “utilizzo delle risorse”. D’altra parte, il “Progetto preliminare”, cioè il punto di partenza del dibattito, è completo fino nei dettagli: dalle rotatorie e gli svincoli da costruire alle canalette di raccolta dell’acqua.
Nel sito del Confronto pubblico, la traduzione in lingua corrente dell’articolo 3 bis lo interpreta ancora più al ribasso. Si tratta, semplicemente, di “presentare con un linguaggio chiaro anche ai non addetti ai lavori il progetto del Passante” e di “ascoltare i cittadini per raccogliere proposte su come migliorare gli interventi di inserimento ambientale, paesaggistico e di protezione acustica”. Un po’ poco per definire il processo partecipativo “una grande occasione per entrare nel merito di un grande progetto”, secondo le parole del sindaco Merola. Pochissimo rispetto al modello proposto da Iolanda Romano, quello in cui “non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera. E [che] deve svolgersi in una fase anticipata rispetto al progetto definitivo”. Eppure è proprio Avventura Urbana, di cui Romano è fondatrice e presidente fino al febbraio 2016, ad assumere l’incarico di gestire la consultazione bolognese.
Scrive Franco La Cecla, in Contro l’urbanistica (Einaudi, 2015): “Avventura Urbana è […] una agenzia che si occupa professionalmente di organizzare processi partecipativi. Tutto questo è molto bello, ma la mia impressione è che abbia poco scalfito l’urbanistica in quanto tale e sia diventata molto presto un’attività a parte. Come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto e utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori. È il grande campo dell’animazione sociale […] il vastissimo campo del filtro sociale tra utenti sempre meno abituati a far valere direttamente i propri diritti e pianificatori che non vogliono direttamente essere implicati. Serve ad attutire i conflitti, certamente, una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale”.
Nel caso bolognese, come abbiamo visto, è Autostrade che ha incaricato Avventura Urbana. L’accordo dice che la scelta deve avvenire “di concerto con le parti”, cioè con i firmatari pubblici (governo, regione, comune…), ma non è affatto chiaro chi debba pagare le “specifiche professionalità con comprovata esperienza”. Le questioni di soldi, in tutta questa vicenda, sono appena sfiorate, noblesse oblige. Sulle pagine di Avventura Urbana srl, tra i clienti dell’azienda, ci sono Autostrade e la sua controllata Spea, che progetta il Passante, ma non gli altri soggetti. C’è, è vero, la regione Emilia-Romagna, ma probabilmente solo per i servizi formativi forniti da Avventura Urbana dal 2009 al 2011. Inoltre il sito del confronto pubblico, passantedibologna.it risulta registrato dall’azienda che cura la presenza in rete di Autostrade. È quindi evidente che la titolarità del Confronto pubblico va ricondotta ad Autostrade, ed è più che ragionevole supporre che sia Autostrade a pagare Avventura Urbana. Lo “strumento di democrazia” del sindaco è dunque uno strumento privatizzato per una democrazia esternalizzata. Così Autostrade, che ha interesse a realizzare l’opera per avere più veicoli ai caselli bolognesi, paga un altro soggetto privato per gestire la partecipazione e “farsi fare le domande” dai cittadini, domande che però devono essere solo su aspetti marginali.
Anagramma (quasi) perfetto di facilità
Come questo si realizzi sul playground del “Confronto pubblico” è presto detto, basta tornare al tavolo di discussione nella palestra della Birra. Tocca a Valeria, più giovane di età e di residenza nel quartiere rispetto a chi l’ha preceduta. Parla delle minacce alla salute, della partecipazione-farsa, degli impegni su rumore e inquinamento che non sono affatto impegnativi per Autostrade, e poi: “Non cambia nulla se ce lo becchiamo noi l’inquinamento o quelli del Passante nord o sud, il problema è di tutti!”. E ancora: “Invece di fare il compitino delle domande da preparare dobbiamo parlarne tra noi, poi si vedrà se ci interessa fare delle domande agli esperti!”. La facilitatrice cerca di interromperla più volte con la scusa di chiedere chiarimenti, ma Valeria la ferma: “Lei mi chiede mi chiede, ma mi lasci la mia libertà di esporre quello che voglio!”. Due minuti dopo, quando l’addetta ci prova di nuovo, Valeria l’accusa di “non facilitare un bel niente, ma anzi di essere un ostacolo alla comunicazione”. In quel momento, ci si compone in testa il neologismo che descrive quell’infelice ruolo professionale: difficilitatrice. Ostacolare la partecipazione, scongiurare l’emergere di conflitti, indurre gli oppositori a marginalizzarsi da soli: questo il compito dei difficilitatori, parola perfetta proprio perché difficile anche da pronunciare. Il momento si fa meravigliosamente caotico quando la difficilitatrice cerca di trasformare le considerazioni di Valeria in una domanda – “potremmo chiedere se esiste un organo terzo che verifica il rispetto degli impegni in merito a…” –, ma all’improvviso si materializza al tavolo una sua collega dai gradi più alti, reduce di altre impegnative avventure urbane, che si impone e ricomincia a parlare di barriere antirumore. Così viene definitivamente scongiurata l’irruzione della realtà in una discussione fondata su un presupposto immaginario, cioè che “fare le domande” abbia un qualche senso. Valeria si alza e se ne va, sconfitta e irritata per la farsa.
Intorno a noi gli altri nove tavoli: il divide, siedi, et impera. I potenziali oppositori sono messi nell’impossibilità tecnica di diventare massa critica: possono scegliere di costituire un Aventino in un tavolo tutto loro, per essere marginalizzati collettivamente, oppure diluirsi su più tavoli, per essere marginalizzati individualmente. Il report dell’incontro ci informa che tutto è andato secondo i programmi: “Le persone presenti all’incontro sono 147, la discussione si è svolta correttamente ed è stata rispettata la struttura prevista. Tutti i gruppi di discussione hanno condiviso almeno un quesito che è stato sottoposto da un portavoce di ogni gruppo ai tecnici di Autostrade per l’Italia e agli amministratori presenti. […] Nel corso della serata è stato possibile rispondere a tutti i quesiti presentati dai partecipanti”. In conclusione, l’assessora Priolo ringrazia chi ha prestato la propria opera per la riuscita dell’incontro. Sono, dice, venti facilitatori di Avventura Urbana e venti membri dello staff di Autostrade, più “i massimi dirigenti” della società di Benetton e, naturalmente, gli amministratori. Proviamo a fare due conti. Un totale di 45-50 professionisti si è occupato di 147 cittadini: il rapporto è di circa un addetto ogni tre partecipanti. Con grande dispiego di mezzi, la difficilitazione è riuscita. Gli ostacoli alla partecipazione hanno funzionato perfettamente – “è stata rispettata la struttura prevista” – e hanno posto le premesse per futuri Confronti pubblici ancor più intimi.
Successi di questo tipo devono essere premiati. Le revolving doors tra gli esperti “di processi decisionali inclusivi” e le stanze dove si prendono davvero le decisioni sono pronte a girare. Come già nel gennaio scorso, quando Iolanda Romano è stata nominata commissario governativo “per la realizzazione dell’intervento relativo al Terzo Valico dei Giovi”, la Tav Milano-Genova. Da quello scranno, rinnegando il proprio modello – “non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera”–, Romano promuove confronti pubblici per le compensazioni di un’opera già iniziata. Processi partecipativi a numero chiuso, con meccanismi di iscrizione e verifica quasi polizieschi – “l’iscrizione sarà effettiva solo dopo una conferma telefonica da parte della segreteria”; messe in scena di cui i No Tav denunciano modalità e contenuto. Con una tempistica imbarazzante, poi, l’evento si terrà tre giorni dopo gli arresti di presidente e vice di Cociv, il consorzio incaricato di realizzare l’infrastruttura.
Viaggi e miraggi
Autostrade per l’Italia ha prodotto anche il dossier di partenza del dibattito pubblico, che dovrebbe contenere le informazioni sul progetto utili ai cittadini per discutere nel merito delle diverse scelte. Sono in tutto 44 pagine a colori, più sei appendici di approfondimento: Traffico, Atmosfera, Acustica, Espropri, Cantierizzazione e Opere di adduzione. Sul sito sono poi comparsi – ma solo a dibattito iniziato – ulteriori materiali tecnici, come tavole e planimetrie, rivolti più che altro agli esperti e ai consulenti dei comitati e delle associazioni coinvolte. Il tema più caldo e discusso è quello del traffico e degli inquinamenti che ne derivano, ma farsi un’idea chiara non è per niente facile, e il dossier non aiuta.
Anzitutto, c’è un problema che viene dal passato. L’allargamento in sede dell’A14/Tangenziale fu bocciato nello studio di fattibilità del 2004 (vedi 1ª puntata), con precise motivazioni trasportistiche e sanitarie. Dodici anni dopo è diventato la soluzione ideale per il nodo di Bologna. Va bene “cambiare verso”, va bene “imparare dagli errori”, ma come si spiega un tale ribaltone? Il dossier dovrebbe quantomeno tener conto di quel precedente e far capire ai cittadini perché ieri no e oggi invece sì, fortissimamente sì. Invece snocciola i suoi dati come se niente fosse e il lettore si domanda: perché dovrei fidarmi di questo nuovo studio e buttare alle ortiche il precedente? Delle due, l’una: o nel frattempo è cambiato qualcosa di fondamentale, oppure una delle analisi è clamorosamente toppata. Anzi, potrebbero anche essere sbagliate entrambe: non sarà che queste previsioni del traffico, pur con tutti i loro numeri e formule, sono meno attendibili di un oroscopo? Lo studio del 2004 presentava una proiezione fino al 2011. La crescita della domanda di trasporto era stimata intorno all’1,5 per cento annuo. Oggi sappiamo che nel 2011 il traffico del nodo bolognese è tornato ai livelli dei primi anni duemila. Quindi è questa contrazione il Grande Cambiamento che ha cambiato tutto? Nessuno aveva previsto la crisi economica globale, con la conseguente diminuzione di mezzi sulle strade, così che un progetto sbagliato nel 2004 è diventato giusto nel 2016? A studiarsi le carte, non pare questo il motivo, perché anche il dossier di Autostrade parte dall’incrollabile certezza che il traffico aumenterà, tornando ai livelli registrati prima del 2008, annus horribilis del motore a scoppio e dell’economia italiana. La sfera di cristallo dice +6,7 per cento nel 2025 e +10,1 per cento per il 2035. Il calcolo non si basa sulla Smorfia, bensì sull’andamento demografico Istat e sulle stime del prodotto interno lordo nazionale. Ma basta scrivere “Istat rivede stime pil” su un motore di ricerca, per scoprire che l’istituto di statistica ritocca ogni anno le sue previsioni. Il dato, insomma, non è di quelli scolpiti nel granito.
Non è dunque la fede nel traffico a differenziare i due studi. E allora perché uno ha bocciato il Passante e l’altro invece lo promuove? I tecnici del 2004 scrivevano che “il potenziamento in sede è l’unica ipotesi che produce un incremento [dei chilometri percorsi sulla rete] anche rispetto allo scenario tendenziale”. In sostanza, temevano che l’allargamento dell’A14/Tangenziale avrebbe portato i veicoli a percorrere più chilometri sulle strade di Bologna. Questo dato, espresso in “veicoli per chilometro”, ha uno stretto legame con l’inquinamento, perché più chilometri percorrono auto e camion e più aumentano le emissioni. Oggi, invece, il dossier di Autostrade sostiene che il Passante di Bologna porterà a una grande riduzione delle percorrenze sulla rete (meno 46 milioni di veicoli per chilometro in un anno), dal momento che la viabilità urbana si decongestionerà, non dovendo più sopportare le auto di chi evitava la tangenziale intasata. A prescindere da chi dei due abbia ragione, è interessante notare la differenza nel modo di esprimere i dati. Lo studio del 2004 sostiene che l’allargamento in sede comporterà un aumento del 7 per cento dei “veicoli per chilometro” – cioè delle percorrenze sulle strade – mentre il dossier giura che diminuiranno di 46 milioni in un anno. A parte il fatto che la rete stradale considerata non è la stessa, è significativo che il dossier di Autostrade si giochi il numerone (46 milioni! Urca!) e non fornisca una percentuale (che faccia capire quanto valgono quei milioni rispetto al totale). Per dare un’idea, basta pensare che nelle strade bolognesi studiate nel 2004, i veicoli per chilometro di un giorno medio erano 10.798.653. Quindi il numerone – 46 milioni di veicoli per chilometro in un anno – equivale a quattro giorni di traffico. Quattro giorni in un anno, equivale a una riduzione dell’1,1 per cento. Non va molto meglio per l’altro numerone proposto dal dossier, due milioni di ore di viaggio risparmiate ogni anno. “Ridiamo tempo di vita ai cittadini!”, hanno titolato i giornali citando il sindaco. Però, aspetta: quei due milioni di ore saranno risparmiati in un anno da tutti i veicoli che battono il nastro A14/Tangenziale, considerati insieme appassionatamente. E quanti saranno questi veicoli? Il dossier prevede che i mezzi, sul Passante di Bologna, arriveranno a 180mila al giorno nel 2025, cioè 65,7 milioni in un anno. Dividiamo il numerone, due milioni di ore, per tutte queste auto, camion e vetture ed ecco che la montagna partorisce un topolino: un minuto e quarantotto secondi di risparmio medio per ogni veicolo.
Da questi dati sul traffico – poco affidabili, discordi tra loro e presentati in maniera oscura – discende la maggior parte delle considerazioni sullo smog, il rumore e la salute dei cittadini, delle quali ci occuperemo nella prossima puntata. Qui vogliamo solo ricordare che lo studio di fattibilità del 2004 aveva bocciato il potenziamento in sede perché avrebbe prodotto “in particolare per alcuni inquinanti, quantità di emissioni superiori”. Ovvero: +11,4 per cento di ossidi di azoto e +4,6 per cento di anidride carbonica. Inoltre, avrebbe comportato “circa il 20 per cento in più di popolazione esposta a valori di rumore superiori ai 55dB(A)”. Per Autostrade, invece, il Passante di Bologna sarà tutta salute. Ma i suoi vantaggi non finiscono qui.
L’ultima occasione
“Con questo accordo”, ha dichiarato Irene Priolo, “abbiamo portato a casa mitigazioni ambientali e opere stradali che i cittadini aspettano da 30 anni”. Opere architettoniche, paesaggistiche e di ricucitura urbana che sono il fiore all’occhiello di tutto il progetto, ma che erano in gran parte previste dal piano strutturale comunale per la “città della tangenziale”. Opere dovute che si trasformano in “gentili omaggi”. Una metamorfosi molto diffusa, nel sistema delle grandi opere. Tra le “compensazioni” si inseriscono anche lavori che erano già in programma, necessari per il territorio. In questo modo l’opera diventa l’Occasione unica e imperdibile per esaudire quelle antiche promesse, e chi la ostacola è un mestatore che vuol privare tutti di un bel regalo. Infine, l’ultimo vantaggio del Passante di Bologna propinato alla cittadinanza è il minore consumo di suolo rispetto al Passante nord. Dato innegabile, ma relativo. Rispetto a una bastonata in testa, meglio un ceffone. E se dopo il ceffone ti offrono cinque cioccolatini? Il male passa più in fretta, no? Con una logica simile, il sito del Confronto pubblico proclama che le “aree a verde” previste dal progetto saranno “superiori a cinque volte l’occupazione di nuovo suolo”. Detto così, uno si immagina che a ogni ettaro di terreno asfaltato ne corrisponderanno cinque di nuovi parchi, giardini e fasce boscate. Invece, studiando meglio le carte, si scopre che tra queste “aree a verde” sono calcolati anche parchi già esistenti, dove si pianterà qualche nuovo albero, e pure le “aree intercluse”, cioè gli spazi completamente circondati da uno svincolo. Di nuovo, invece di favorire il dibattito, sembra che i suoi promotori siano più interessati a confezionare slogan accattivanti e numeri da ufficio stampa.
Dodici anni fa, quando il comitato per l’Alternativa propose il potenziamento in sede dell’A14/Tangenziale, sembrava si trattasse di un intervento a “impatto zero”, senza consumo di suolo. Lo studio di fattibilità degli enti locali dichiarò quel risultato impossibile da raggiungere, evidenziando la necessità di espropriare 54 ettari di terreno. Oggi Autostrade sostiene di potercela fare con 20 ettari, più altri 20 “temporanei” e la demolizione di quattro fabbricati residenziali, due rurali, due magazzini artigianali e un deposito. L’equivalente di 31 campi da calcio finirà sotto asfalto e guardrail, mentre altri 31 saranno occupati temporaneamente, e chissà come saranno ridotti dopo. In Italia, più del 5o per cento del territorio cementificato è coperto da infrastrutture di trasporto. Edifici e capannoni si “limitano” al 30 per cento. Forse in un futuro radioso si potranno allargare le strade senza mangiare terreno, e le auto emetteranno effluvi di ragù, ma per il momento non sembra possibile conciliare il motto “meno consumo di suolo” con il ritornello “servono più infrastrutture”.
Nell’ultima puntata della nostra inchiesta metteremo le scarpe nel fango, lungo i margini della tangenziale, per confrontare le promesse da confronto pubblico, con quel che davvero si vede, si tocca e si respira oltre i guardrail e le barriere antirumore.
Nella Roma dei palazzinari divenuti famelici pescicani, delle nuvole di sprechi pubblici per affari privati, dell'abbandono della manutenzione del verde e del trionfo dell'affare immobiliare sulla tutela chiunque, con un po' di potere minaccia di voler cambiare strada, e magari comincia a farlo, è da abbattere. I mass media ne saranno l'utile strumento.Un appello di un manipolo di associazioni. salviamoilpaesaggio.roma, 10 dicembre 2016
SSOLIDARIETÀ ALL'ASSESSORE
SOTTO ATTACCO MEDIATICO
Comitati, Associazioni, Reti, Movimenti, Forum e cittadini qui sottoscritti sono convinti che se lo stadio di James Pallotta si deve costruire, questo debba essere fatto nel rispetto della legalità, senza accessori in contrasto col Piano Regolatore di Roma, in un’area libera da vincoli, sicura dal punto di vista idrogeologico e, soprattutto, con modalità rispondenti al pubblico interesse.
Crediamo fermamente che la mano pubblica debba riappropriarsi della Città, marcando con forza la discontinuità con le giunte precedenti attraverso una moratoria sul consumo di suolo, come ormai sostenuto da un’amplissima componente della popolazione, da movimenti ambientalisti, dal mondo scientifico e della cultura.
Ricordiamo che l’assessore Berdini ha promosso, sostenuto e redatto rigorose leggi contro il consumo di suolo insieme ai movimenti e come, in questi decenni, abbia sempre lavorato per un’urbanistica al servizio degli abitanti delle città, non solo di Roma, “(…) conducendo battaglie contro la cementificazione e a favore della rigenerazione urbana, con un occhio particolarmente attento ai destini delle periferie cittadine e caldeggiando piccoli ma significativi interventi in serie piuttosto che opere inutilmente sfarzose.” *
Per quanto riguarda i Media, auspichiamo un deciso cambio di rotta circa il modo di servire al pubblico notizie che si basano più sull’emozione dei lettori che sulla veridicità dei fatti creando vere e proprie post-verità (termine coniato dalla Oxford University che ben si addice a quanto propinato da decine di testate).
All’assessore Berdini va quindi il nostro massimo sostegno, consapevoli di come stia lavorando senza sosta per la Giunta e per i cittadini, per dare a Roma quello che in trent’anni non si è riuscito a realizzare e per ripristinare quanto è stato compromesso.
Una città più a misura di persona, dalla periferia al centro.
Salviamo il Paesaggio Roma e Lazio
Coordinamento Agro Romano Bene Comune
Comitato No Corridoio Roma Latina
Salviamo Tor di Valle dal Cemento
Dolce Spiaggia
Comitato FuoriPista
Italia Nostra Litorale Romano
Respiro Verde Legalberi
Emergenza Cultura
Stop I-60
Comitato Pisana Estensi
Gruppo Territorio e Ambiente ( GTA) IX° Municipio
Salute Ambiente Eur
Ciampino Bene Comune
Comitato Piccolomini
Italia Nostra Castelli Romani
Difendiamo Tor di Valle
C.A.L.M.A. Coord. Ass.ni del Lazio per una Mobilità Alternativa
Brigate Verdi
Comitato Roma12 per i Beni Comuni
Comitato Aspettare Stanca
Cooperativa Agricola Coraggio
Paolo Maddalena
Vittorio Emiliani
Vezio De Lucia
Tomaso Montanari
Rosanna Oliva
Fulco Pratesi
«La città catalana rilancia la scommessa su un modello di urbanistica partecipata, definendo macro-isolati a vocazione prevalentemente pedonale». ilgiornaledell'Architettura, 4 dicembre 2016 (m.c.g.)
BARCELLONA. Se c’è una cosa che non manca alla città catalana, è la capacità di mettersi in gioco. La Giunta guidata dalla sindaca Ada Colau mantiene le promesse lanciate in campagna elettorale: “Urbanistica a vocazione sociale”, uno degli slogan del programma del partito Barcelona en Comú, si traduce nella ferma decisione d’investire in attenzione concreta ai residenti, soprattutto nei quartieri meno agiati, ed abbandonare le opere faraoniche od il primato dell’investitore privato e del turista come referente del business cittadino.
Tra le “ossessioni” dell’attuale sindaco, oltre alle pari opportunità per gli abitanti e le case popolari, c’è quella di limitare la presenza del traffico su gomma, che al momento occupa il 60% dello spazio pubblico, e ridurre così del 30% le emissioni di anidride carbonica. Così, il Comune ha deciso di prendere in mano un progetto promosso da amministrazioni precedenti e riguardante niente meno che il ripensamento dell’idea di città, con il pedone come protagonista.
L’idea dei macro-isolati non è nuova a Barcellona: il primo fu istituito nel 1993 vicino alla Chiesa di Santa Maria del Mar, nel quartiere del Born, a cui seguirono altri due a Gràcia nel 2005; ma il primo progetto risale al 1987 ed è ascrivibile a Salvador Rueda, attuale direttore dell’Agenzia di ecologia urbana della città. La sindaca Colau ne ha fatto una priorità, ha stanziato 10 milioni e la prima Superilla è già stata inauguarata nel quartiere Poblenou.
Secondo la definizione che ne dà il Comune, il Programma Superilles “Riempiamo di vita le strade” (2016) è un progetto di città rivolto al miglioramento della vita delle persone. Tutto ruota intorno alla messa a punto di un modulo in grado di configurare nuovi spazi di convivenza, secondo un modello organizzativo del tessuto urbano pensato in primis per i residenti. Un’opportunità per favorire la mobilità sostenibile, la produttività, il verde e la biodiversità, così come gli spazi di sosta per il pedone. L’idea consiste nel definire il perimetro d’un insieme d’isolati che deve assorbire la maggior parte del traffico privato e pubblico, mentre l’interno viene destinato ad uso esclusivo di residenti, pedoni e biciclette.
In pratica, l’attuale Superilla è un modo differente di distribuire la mobilità, studiato ad hoc per la trama urbana definita nell’Ottocento da Ildefonso Cerdà: in un ambito formato da nove isolati, il traffico veicolare viene deviato in modo da evitare il transito all’interno della zona vedendosi obbligato a tornare verso le strade perimetrali del macro-isolato. Al suo interno le auto circolano a 10 km all’ora su un’unica corsia, con l’obiettivo di ridurne al minimo i passaggi. Vengono eliminati i parcheggi negli incroci e così si liberano circa 2.000 mq che restano ad uso praticamente esclusivo dei pedoni. Anche le strade interne alle Superilles si trasformano in luoghi più accessibili al pedone, oltre che meno rumorosi, più verdi e gradevoli, in linea con la vocazione della città mediterranea.
Josep Maria Montaner, regidor del distretto di Sant Martì [a Barcellona ciascuno dei dieci quartieri in cui è suddivisa la città ha una sorta di “sottosindaco” che fa a sua volta riferimento alla sindaca Colau; nda], dove a settembre è stata inaugurata la prima Superilla, è tra i ferventi sostenitori del progetto: l’obiettivo è coinvolgere il 58% delle strade e aumentare di 380 ettari gli spazi verdi del quartiere. Secondo Montaner, il macro-isolato del Poblenou è da intendersi come un esperimento, come banco di prova per verificarne il funzionamento ed eventuali criticità, con un investimento tutto sommato modesto (55.000 euro).
La consigliera per l’urbanistica della Municipalità, Janet Sanz, ha affermato in diverse occasioni che questi cambiamenti saranno realizzati gradualmente mediante azioni di tipo reversibile, con l’imprescindibile partecipazione dei residenti, secondo un’idea di “democrazia aperta” imprescindibile per questa giunta: l’uso dei nuovi spazi deve essere deciso in collaborazione con i residenti, attraverso diverse modalità di confronto.
Coraggiosa e trasparente, da parte del Comune, è la scelta di rendere noti, in un documento pubblicato lo scorso ottobre, i risultati delle considerazioni espresse dai vari collettivi coinvolti nella consultazione popolare in seguito all’inaugurazione della Superilla del Poblenou. Decine di proposte e critiche raccolte in occasione della giornata aperta di valutazione del progetto, dei dibattiti cittadini tenutosi sul posto, delle riunioni dell’Amministrazione con enti, imprese, scuole con sede nel quartiere, oltre a quelle raccolte in un’apposita cassetta.
Anche circa 200 studenti delle Scuole di Architettura cittadine sono stati coinvolti per redigere proposte. I dati raccolti sono ora al vaglio dell’Amministrazione, che è disposta a modificare il modello iniziale laddove risultasse meno soddisfacente del previsto ma che assicura che questa Superilla è solo la prima di una lunga serie.
«La fede nel buon governo locale, erede della leggendaria pianificazione riformista degli anni sessanta, si è trasformata nel culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento». Internazionale online, 7 dicembre 2016 (p.d.)
wumingfoundation.com, 3 dicembre 2016
IL «PASSANTE DI #BOLOGNA»:
UNA DISAVVENTURA URBANA
di Wu Ming e Wolf Bukowski
Da alcuni mesi facciamo inchiesta su una grande opera inutile e imposta: il cosiddetto «Passante di Bologna». Il caso è molto interessante e ha rilevanza nazionale, per diversi motivi.
Le ipotesi per risolvere i problemi di traffico del nodo bolognese si rincorrono ormai da vent’anni. Nel 2005 ha iniziato a consolidarsi quella del cosiddetto «Passante Nord», una bretella autostradale che doveva tagliare la campagna a Nord della città, collegando Anzola Emilia (A1), Altedo (svincolo A13) e San Lazzaro (Uscita A14). Quel progetto, già finanziato, è stato respinto l’anno scorso, grazie all’azione di un comitato e dei sindaci dei comuni interessati. Ma il comitato ha scelto di «non dire soltanto no» e ha proposto una “brillante” alternativa: l’allargamento di una corsia per senso di marcia dell’infrastruttura congiunta autostrada/tangenziale, che già ammorba la periferia bolognese. E così, un comitato che all’inizio contestava la ratio stessa del progetto, ha finito per scaricare il barile sui cittadini di un altro territorio.
Il comune di Bologna ha approvato e sottoscritto il nuovo progetto a fine luglio. Dai primi di settembre è partita una fase di consultazione dei cittadini, che si è conclusa a metà ottobre dopo aver messo in mostra tutte le più bieche strategie per svuotare di senso un percorso partecipativo, a partire dall’esclusione a priori dell’«opzione zero». Ovvero: la cittadinanza è stata chiamata a esprimersi su una decisione già presa.
Abbiamo partecipato ad alcuni degli incontri, abbiamo preso appunti e nelle settimane seguenti abbiamo approfondito, fino a farci un’idea molto precisa delle tattiche di evaporazione del conflitto, del ruolo dei «facilitatori» e delle loro agenzie, dello svuotamento di ogni pratica partecipativa.
La finta partecipazione, ovviamente, è soltanto uno dei problemi. Il progetto è un luna park di interventi compensativi implausibili, parchi in luoghi improbabili, piste ciclabili fantasma, sottopassaggi spacciati per «le nuove porte della città». Ma l’irrazionalità di questo progetto, che peggiorerà la vita dei cittadini e gioverà solo ad Autostrade e alle lobby dell’edilizia e dell’asfalto, non si può comprendere appieno senza il racconto di come ci si è arrivati. Sullo sfondo – o meglio: a far da cornice al tutto – la fine della programmazione territoriale «all’emiliana», l’amore cieco del Pci/Pds/Ds/Pd per il cemento, i precedenti di altre opere inutili in salsa bolognese (abortite, in costruzione o già realizzate per poi essere sconfessate): Civis, People Mover, Centro Agro Alimentare, FiCO, Stazione AV…
Abbiamo proposto a Internazionale un’inchiesta in tre puntate. La prima è da poco on line, illustrata dalle foto di Michele Lapini. Buona lettura.
Eddyburg pubblicherà le successive puntate appena saranno rese disponibili.
Internazionale, 3 dicembre 2016
IL PASSANTE DI BOLOGNA:
UNA DISAVVENTURA URBANA
di Wu Ming e Wolf Bukowski
1a puntata
Al centro dell’inquadratura campeggia uno svincolo autostradale, di quelli che in gergo si chiamano a quadrifoglio completo. Tutt’intorno, a volo d’uccello, si stendono boschi, prati, un fiume e un’anonima cittadina, resa ancor più irriconoscibile dall’effetto di sfocatura ai margini dell’immagine. Il paesaggio è un’esplosione di verde, per lo più abeti, appena interrotti da larici e faggi in veste autunnale. Sopra uno spicchio di foresta, si staglia un simbolo bianco. Archi di circonferenza che ricordano onde radio, come nel logo del wi-fi, ma potrebbe anche essere un orecchio stilizzato, o la curva di una strada a quattro corsie. Subito accanto, una scritta in corsivo recita: “Confronto pubblico”. E una riga sotto, in grassetto, “Passante di Bologna”.
Già alla prima occhiata, avvertiamo che qualcosa non torna, come di fronte a un quadro di Magritte. Chi mai le ha viste, tante conifere, nella campagna intorno alle due torri? Stregati dall’enigma, perlustriamo la rete in cerca di autostrade, foreste, svincoli, alberi e verde. Traduciamo le parole chiave in inglese, francese, tedesco. Passiamo al setaccio i risultati e una fotografia s’impone sulle altre. Autobahnkreuz Oberpfälzer Wald. La prospettiva non è la stessa, ma molti elementi corrispondono. Troviamo altre immagini, mappe digitali, e un laghetto artificiale perfettamente rotondo ci conferma che abbiamo fatto centro. Lo scatto ritrae la foresta dell’Alto Palatinato, in corrispondenza dell’incrocio tra due autostrade, la A6 e la A93. Il paese sullo sfondo non è Casalecchio di Reno e nemmeno San Lazzaro di Savena, bensì Wernberg, Baviera.
Inquieti, ci domandiamo per quale motivo il sito ufficiale per il confronto pubblico sul Passante di Bologna sia illustrato con l’immagine di uno svincolo tedesco. Considerando che per quattordici anni si è favoleggiato di aggirare Bologna con una nuova autostrada, e si è discusso di quanto a nord costruirla rispetto alla città, si potrebbe pensare che il “confronto pubblico” riguardi la proposta di farle attraversare l’Alto Palatinato, ma la regione tedesca sembra davvero troppo a nord. E poi quell’autostrada – il cosiddetto Passante nord – appartiene ormai al passato. Il 22 luglio scorso Virginio Merola, sindaco metropolitano da poco rieletto, ha presentato un progetto alternativo. Non più colate di cemento sulla campagna bolognese! Non più consumo di suolo! Ecco a voi il “potenziamento in sede del sistema autostradale e tangenziale”. Battezzato con il nome di Passante di Bologna, altrimenti detto Passante di mezzo. Ovvero l’aggiunta di quattro corsie alla mezzaluna d’asfalto che da cinquant’anni taglia la periferia della città. Il borgomastro, nel suo discorso, ha speso parole suggestive: “rigenerazione urbana”, “svincoli [che diventano] nuove porte della città”, “ridare ai nostri cittadini tempo di vita”, “cantieri [che] hanno bisogno di un’anima”, “dimostrare al resto del Paese che può contare su Bologna”. Ma soprattutto, ha magnificato “uno strumento di democrazia che affrontiamo per la prima volta”: il confronto pubblico.
Stregati da una simile occasione, ci siamo subito diretti alla piazza virtuale del dibattito, il sito passantedibologna.it, dove trovare tutti gli strumenti per “costruire insieme, nella massima trasparenza, la migliore soluzione per la città”. Ci siamo imbattuti così, per la prima volta, nell’immagine sfocata e traditora dell’Autobahnkreuz Operpfälzer Wald. Quattro mesi più tardi, osservandola con più attenzione, ci rendiamo conto che quell’istantanea della foresta palatina, con le due scritte bianche che l’attraversano, non racchiude una sola bugia, ma addirittura tre, nella nobile tradizione di Simon Pietro. Anzitutto, mente dal punto di vista descrittivo, perché quello non è il Passante di Bologna. Poi mente in senso evocativo, perché le parole “confronto pubblico” suggeriscono una realtà molto lontana dai dodici incontri che sono stati promossi in città. Infine mente anche sul piano metaforico, perché nessun passante, snodo o svincolo “di Bologna” potrà mai essere verde e boscoso come quell’incrocio di autostrade tedesche.
Smascherare queste tre bugie è l’obiettivo della nostra indagine: nella prima puntata, cercheremo di illustrare cos’è davvero il Passante di Bologna; nella seconda, racconteremo gli incontri del “confronto pubblico”, ai quali abbiamo partecipato, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”; nella terza, osserveremo in che modo il progetto di allargamento di autostrada e tangenziale sia stato verniciato di un verde che non è verde, finto come un bosco d’abeti nel bel mezzo della pianura padana. Sono tre piccole storie locali, eppure siamo convinti che sia utile conoscerle anche fuori dei confini della città, e non solo perché il nodo autostradale di Bologna è uno dei più nevralgici della penisola.
L’Emilia-Romagna, negli ultimi vent’anni, ha ispirato molti cautionary tales, racconti ammonitori su cosa succede al territorio quando i cittadini non si preoccupano delle sue trasformazioni. L’alta velocità Bologna-Firenze, la variante di valico, il viadotto modenese della linea alta velocità Bologna-Milano, sono esempi ormai noti in tutt’Italia tra coloro che si battono per la tutela del paesaggio. Lo stesso può dirsi per alcuni disastri urbanistici, come il cantiere dell’ex mercato Ortofrutticolo di Bologna o la cementificazione selvaggia e ‘ndranghetista nelle province di Parma e Reggio Emilia. La fede nel buon governo locale, erede della leggendaria pianificazione riformista degli anni sessanta, si è trasformata nel culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento. Autostrade, megastazioni e ferrovie veloci sono sempre benedette dal clero laico degli amministratori e accettate senza tanti disturbi dalla maggioranza del popolo.
Proprio il Passante nord sembrerebbe la prima, grande infrazione della liturgia. L’opera è stata contestata dai cittadini e poi respinta dopo tredici anni di manifestazioni e migliaia di firme. Solo che non si è trattato di una bocciatura. L’infrastruttura è stata respinta più in là, dalla campagna bolognese alla periferia cittadina, e con essa si sono trasferiti anche il danno e la beffa, scaricati soprattutto sui residenti di cinque quartieri. Non una vittoria degli eretici, quindi, ma sostanza per un nuovo racconto ammonitore, che aiuti a non ripetere altrove gli errori fatti da queste parti. In fondo, come disse il poeta Miguel Torga, l’universale è il locale senza i muri.
Col trattore in tangenziale
Martedì 11 luglio 1967, a pagina 4 di l’Unità, un articolo firmato da Luciano Vandelli celebrava “l’ultima domenica d’estate in cui Bologna ha dovuto filtrare attraverso i suoi congestionati itinerari cittadini le diaspore motorizzate che convogliano fiumi di automobili verso la riviera adriatica”. Alle 22 del giorno successivo sarebbe entrata in funzione la tangenziale, “un raccordo ancora unico nel suo genere in Italia”, con la caratteristica di “affiancare ai percorsi autostradali del traffico di transito, due nastri complanari, che collegano la viabilità ordinaria”. L’autore del pezzo non mancava di lodare “la felicissima intuizione che più di dieci anni fa fece vincolare dal sindaco Dozza una fascia di centodieci metri di larghezza, lungo quello che oggi è il tracciato della tangenziale nord”.
La lungimiranza di Dozza in quell’occasione è ormai un attributo del suo santino ma, per comprenderla davvero, bisogna aggiungere almeno due dettagli. Primo, che la tangenziale complanare fu il risultato di un baratto. In cambio di quella, la società Autostrade (allora di proprietà statale) ottenne di costruire l’A14 a tre chilometri da piazza Maggiore, a ridosso della prima periferia, con il vantaggio di un tragitto più breve.
Secondo, che solo quattro anni prima, nel 1963, il vecchio sindaco partigiano aveva celebrato il funerale dell’ultimo tram. Sotto la sua guida, Bologna smantellò 16 linee su rotaia, una rete capillare, elettrica e sostenibile di 75 chilometri e 155 mezzi. La sua previdenza non si spingeva oltre i confini di una certa idea di progresso, secondo la quale il futuro doveva battere al ritmo del motore a scoppio. Da allora, il capoluogo emiliano non ha mai brillato per le idee innovative sulla mobilità, se si esclude una minuscola isola pedonale, in anticipo sui tempi italiani (1968), e la breve stagione degli autobus gratuiti nelle ore di punta (1973-76).
Oggi la città è famosa per il Civis, un filobus a guida ottica, acquistato, mai usato e infine ripudiato perché insicuro, dopo anni di lavori per adattare le strade al suo passaggio. Nel 2013, mentre i 49 esemplari del superfilobus marcivano in un parcheggio di periferia, veniva inaugurata la stazione bolognese dell’alta velocità, progetto vincitore di un concorso internazionale bandito da Rete Ferroviaria Italiana. Tre anni dopo, la stessa Rfi considera l’enorme astronave sotterranea “un esempio critico”, perché “a fronte di grandissimi spazi necessari, la frequentazione dei passeggeri è molto bassa”. Per non parlare del People mover, la navetta per l’aeroporto, tutta su monorotaia soprelevata nuova di zecca, quando un collegamento analogo si poteva ottenere aggiungendo pochi binari alle linee ferroviarie già esistenti. Prima ancora dell’inaugurazione dei cantieri, il People mover si è guadagnato le prime pagine dei giornali con un processo per turbativa d’asta e abuso d’ufficio nell’appalto al Consorzio Cooperative Costruzioni, mentre due mesi dopo l’inizio dei lavori la procura ha aperto un altro fascicolo per favoreggiamento e abuso d’ufficio. Ma Civis, Astro-stazione e People mover non erano ancora all’orizzonte quando cominciò a farsi strada l’idea di un ritocco alla tangenziale.
Nell’autunno del 1985, Italia Nostra promosse il convegno nazionale “La strada sbagliata. Nuova politica dei trasporti”. L’iniziativa coinvolgeva tre sindaci “dissidenti” e due eroi della pianificazione riformista, Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Nell’affollato cinema di Sasso Marconi, gli intervenuti contestavano la regione Emilia-Romagna per aver approvato il “progetto irragionevole” di un raddoppio appenninico dell’Autosole, quello che allora si chiamava “camionabile” e che oggi conosciamo come variante di valico. Le accuse rivolte ai sostenitori della nuova autostrada erano principalmente due. Quella di insistere su un modello di mobilità basato sulla gomma e quella di voler ottenere, in cambio del via libera alla camionabile, “il raddoppio della tangenziale bolognese”. Anche la loro preveggenza andrebbe ricordata: trent’anni dopo, mille capriole dopo, appena inaugurata la variante si è arrivati proprio al risultato previsto. Il potenziamento in sede del sistema autostradale tangenziale.
Variante di valico e “allargamento dell’A14 – Terza corsia tangenziale di Bologna” si tenevano a braccetto anche nella convenzione del 1997, quella con cui lo stato si preparava a far cassa vendendo la società Autostrade alla famiglia Benetton. Ed è proprio con la nuova concessionaria che gli enti locali si impegnano, all’inizio del 2002, per ampliare l’A14 con una terza corsia. Poi però cambiano idea e nell’agosto dello stesso anno, firmano l’accordo con il ministro Lunardi che dà il via alla progettazione del Passante nord, cioè la nuova bretella autostradale a nord del capoluogo, pensata per mandare in pensione proprio quel tratto di A14 che un attimo prima volevano allargare. L’apertura del Passante, infatti, andrebbe di pari passo con la banalizzazione della vecchia autostrada, cioè il suo declassamento a strada ordinaria, senza pedaggio, così che le otto corsie dell’autostrada/tangenziale sarebbero tutte dedicate al trasporto urbano, roba da far invidia a Los Angeles.
Il progetto è abbastanza megalomane da far proseliti e si guadagna un posto tra le “scelte fondamentali” della provincia, mentre i sindaci dei comuni attraversati espongono in un documento le loro condizioni. A quel punto, la fondazione Carisbo (gruppo Sanpaolo) promuove uno “studio di fattibilità per la riorganizzazione infrastrutturale del nodo autostradale tangenziale di Bologna”. Lo studio mette a confronto il Passante nord con “altri tre scenari alternativi”: il Passante sud, ovvero un tunnel sotto i colli della città; la banalizzazione secca, cioè l’apertura, senza pedaggio, dell’autostrada/tangenziale, e infine la sola realizzazione delle opere già previste (variante di valico, tre nuovi caselli autostradali, completamento di alcune arterie provinciali).
Scenari “alternativi” per modo di dire, visto che nascono tutti dalla stessa premessa, quella che il traffico si riduce se aumenta la capacità della rete stradale. Eppure, la tesi contraria è ormai talmente riconosciuta da essersi guadagnata tre nomi diversi. I matematici lo chiamano paradosso di Braess, i trasportologi congettura di Lewis-Mogridge e gli economisti paradosso di Downs-Thomson. Non solo l’aggiunta di strade può aggravare la congestione e aumentare i tempi di percorrenza, ma danneggia anche il trasporto pubblico, che si ritrova ad avere meno utenti, quindi meno risorse, quindi un servizio più scadente, fino a raggiungere un equilibrio negativo dove tutti rallentano e il trasporto privato non è più veloce di quello pubblico. Lo studio di fattibilità è completato nel maggio 2003 e già alla prima occhiata non brilla per imparzialità. Su diciotto capitoli, dieci sono dedicati al Passante nord e solo quattro al confronto tra le varie ipotesi. La valutazione, come spesso accade, sembra cucita su misura per rivestire decisioni già prese.
I lupi e gli agnelli
Contro quel documento, insorgono i cittadini dell’hinterland bolognese, che d’improvviso vedono precipitare su campi e cortili un “muraglione” di quasi quattro metri di altezza, lungo 42 chilometri, accompagnato dal solito corteo di capannoni, centri commerciali e condomini. Raccolgono cinquemila firme per scongiurare l’assalto, si riuniscono, studiano e in meno di un anno presentano l’Alternativa. Allargare l’autostrada, allargare la tangenziale, ma senza consumo di suolo e potenziando il trasporto su ferro. Tutto in un’unica, magica mossa. Le scarpate del sistema complanare sarebbero colmate per sostenere le quattro nuove corsie e dentro il terrapieno così ottenuto si scaverebbero due gallerie, una per lato, dove stendere i binari di una metropolitana.
Tanto sforzo produce un primo risultato. La provincia istituisce un comitato tecnico-scientifico per integrare lo studio di fattibilità e valutare l’Alternativa. Gli oppositori della nuova autostrada potranno indicare due tecnoscienziati su dieci. I Gruppi spontanei contro il passante nord rimandano l’invito al mittente, giudicandolo “un’apertura solo apparente”. E hanno ragione, ma non si rendono conto che il terreno per piazzare la trappola l’hanno predisposto loro, chiedendo di vagliare una controproposta. Come insegna Fedro, se il lupo e l’agnello si trovano a bere allo stesso rivo, l’agnello deve scappare o preparare una difesa, perché se accetta di discutere col lupo dei suoi diritti di predatore, quello prima o poi troverà una buona ragione per divorarlo.
Al posto del comitato tecnico-scientifico, i Gruppi spontanei invocano un “concorso internazionale di idee”, il classico rimedio contro tutti i mali, ispirato alla favola liberista che “il mercato premia i migliori”. Quindi, dato un problema, se faccio competere tutte le soluzioni possibili, alla fine sceglierò quella ideale. In realtà, sarà anzitutto la formulazione del problema a selezionare le risposte. Poi ci saranno decine di soluzioni equivalenti, con pro e contro, e ci si ritroverà da capo a non saper scegliere, perché prima di dire “vinca il migliore” bisognerebbe aver capito che cosa si intende con quel termine. Una decisione politica che non può ridursi a un confronto di numeri e perizie.
I tecnoscienziati, invece, fanno i loro calcoli a tempo di record. A novembre 2004, lo studio di fattibilità aggiornato e approfondito finisce sulla scrivania del ministro Lunardi. Nell’addendum, i tecnoscienziati promuovono il Passante nord – con il solo voto contrario di Maria Rosa Vittadini – e bocciano senz’appello il “potenziamento in sede”, esprimendo “seri dubbi sull’opportunità di indurre ulteriori profonde e durature sofferenze alle attuali gravi condizioni di vivibilità e di qualità dell’ambiente, riscontrabili nella fascia a ridosso del nastro tangenziale/autostradale. Particolarmente convincenti e decisive, a questo proposito, risultano le considerazioni svolte nel capitolo dedicato all’analisi della qualità dell’aria e del rumore, che avvertono di quali ulteriori danni la proposta del potenziamento in sede porterebbe allo stato attuale dell’atmosfera e del clima acustico nella prossimità del nastro”. Un giudizio negativo che suona sorprendente, se si pensa che il “potenziamento in sede” oggi si chiama “Passante di Bologna”, ed è il progetto decantato dal sindaco Merola come “un’idea di città che punta a rafforzare fortemente la nostra qualità urbana complessiva”.
Chilometri da odiare
Archiviato lo studio di fattibilità, si passa alla fase operativa. Bisogna sviluppare un progetto e trovare i soldi per realizzarlo. Il governo pensa a un finanziamento pubblico/privato ormai tipico del settore infrastrutture. È lo schema Bot (Built – Operate – Transfer). Il privato paga una parte dell’opera, la costruisce e poi recupera l’investimento riscuotendo il pedaggio fino all’anno X. A quel punto, sazio e satollo, si fa da parte e l’autostrada diventa gratuita. Peccato che lo schema funzioni solo in teoria, mentre nella pratica – chissà perché – l’abolizione della tariffa non arriva mai, e l’infrastruttura si trasforma, per il gestore, in una rendita garantita.
Le prime a farsi avanti per il Passante nord, sono l’italiana Pizzarotti e la francese Eiffage, accoppiate per l’occasione. Ma i tempi si allungano, qualcosa s’inceppa, e ci vogliono due anni prima che il ministro Di Pietro bolli il progetto come “irricevibile sul piano tecnico e giuridico”. “Ognuno tira la giacca dalla propria parte”, si lamenta il ministro. E allora sai che si fa? Altro che Pizzarotti-Eiffage! Questa nuova autostrada è una priorità nazionale, se la deve accollare l’Anas con un finanziamento pubblico, i soldi ci sono, si fa un apposito emendamento nella prossima finanziaria. Che problema c’è? C’è che l’apposito emendamento non passa in commissione bilancio, suscitando il “rammarico” del premier Romano Prodi. Negli stessi giorni – siamo a novembre 2007 – con le classiche “indiscrezioni” a mezzo stampa si comincia a nominare, sottovoce, il deus ex machina che può sbloccare la situazione. Autostrade per l’Italia (in sigla, Aspi).
“Autostrade? Bell’idea, ma mica gli possiamo dare il Passante così, senza gara d’appalto. L’Unione europea ci scortica vivi”. “Dipende. Se la chiamiamo ‘nuova autostrada’ ci vuole un bando pubblico. Se la chiamiamo ‘variante’, possiamo farne a meno. È come se Autostrade pigliasse l’A14 e la spostasse più a nord”. “Geniale! Così il Passante rientrerebbe tra gli investimenti già previsti sul nodo bolognese. Sarebbe tra gli obblighi della convenzione del 1997. Lo pagherebbero tutto loro!”. L’idea geniale deve però fare i conti con alcuni guastafeste, che oggi qualcuno chiamerebbe “gufi”, mentre Di Pietro li accusa di voler difendere bruchi, rospi e passerotti. Legambiente denuncia il governo italiano alla Commissione europea, sostenendo che l’affidamento diretto ad Autostrade viola le regole sugli appalti. Rifondazione comunista e Verdi minacciano di raccogliere le firme per un referendum contro il Passante, mentre i Comitati di cittadini rinforzano la protesta contro il “muraglione”.
Passano altri due anni, cade il governo Prodi. Di Pietro se ne va dal ministero delle infrastrutture e arriva Altero Matteoli. Intanto a Bologna la vita continua. A vent’anni dall’ultimo piano urbanistico generale, viene adottato, a luglio 2008, il nuovo Piano strutturale comunale. “Bologna si fa in sette” è il pay off del nuovo documento, e vi si descrive una città formata da sette città. Una di queste è la “città della tangenziale”, ovvero “la sequenza di insediamenti che, addossati alla grande barriera, ne soffrono tutti gli inconvenienti”. La lungimirante “fascia vincolata” del sindaco Dozza negli anni si è riempita di case, palazzi, interi quartieri, con la sola eccezione di qualche “cuneo agricolo”. Così, per “recuperare l’abitabilità” della zona, il piano confida molto nella “scelta di realizzare un Passante autostradale a nord, che comporterà il ‘declassamento’ a sola tangenziale del tratto autostradale bolognese, con una riduzione del traffico e del suo carico inquinante”.
Aggrappandosi al Passante più vicino
Che il “declassamento” immaginato dal comune possa portare davvero a un “recupero di abitabilità” non è affatto scontato. Se un’infrastruttura contamina per decenni la vita di un quartiere, non è addomesticando il mostro che si guarisce l’infezione. Tuttavia, i cittadini della tangenziale sono invitati a immaginarsi un futuro con meno auto e meno inquinamento sotto le finestre di casa, oltre alla promessa di mitigazioni ambientali, inserimenti paesaggistici, ricuciture, corridoi e spine verdi, attraversamenti ciclo-pedonali, tutela, riqualificazione, potenziamento degli spazi di uso pubblico.
Il Passante nord intanto è ancora ben lungi dall’essere approvato, ma in comune tirano dritto come se lo fosse, sperando che si materializzi a furia di nominarlo. Finalmente, a ottobre 2009, nuntio vobis magnum gaudium: l’Unione europea ha detto sì. O forse no. ‘Spetta ‘n attimo. Qua dice che il passante di 42 chilometri non gli va bene. Una roba così lunga, come fai a chiamarla variante? Bisogna scorciarlo, bisogna stare più a sud. Seee, più a sud! Se passiamo più a sud tocca convincere soquanti altri sindaci, diventa La storia infinita… Il risultato è che altri due anni – quasi fosse una scadenza rituale – se ne vanno per discutere se l’Unione europea ha dato il via libera al Passante nord o al Passantino-più-corto-più-a-sud, interrogandosi su quale sarebbe, nel caso, il tracciato di questo Passantino.
Nel novembre 2011, Anas e Autostrade rompono gli indugi e firmano l’accordo per la realizzazione del Passante. Costo previsto: un miliardo e quattrocento milioni. Il tracciato? Non è dato saperlo, ma pare ormai certo che si tratterà della versione ridotta. Il sindaco di Castelmaggiore, incupito, dichiara che il Passantino “rischia di diventare la nostra Val di Susa”. Ma la battaglia evocata dalle sue parole non è tanto sul territorio del suo comune, quanto all’interno del suo partito, il Partito democratico, tra sindaci e provincia, tra consiglieri e consiglieri, tra pezzi contrapposti dello stesso blocco di potere. Un indizio evidente della guerra intestina è la nuvola di polvere che si alza a confondere la vista: non ci sono più progetti chiari, intenzioni riconoscibili, studi di fattibilità sbilanciati ma quantomeno consultabili.
Autostrade per l’Italia, nell’estate 2012, consegna agli enti locali un’ipotesi di tracciato, ma il documento non viene divulgato. Trapela giusto a spizzichi e bocconi, una tabella qui, un parere là, qualche frase tra virgolette. Come quella che definisce il Passante nord “un progetto che sembra discendere da scelte di carattere urbanistico, piuttosto che rappresentare un’efficace alternativa all’uso dell’esistente sistema autostradale”. E ancora: i “modesti benefici trasportistici” e i “consistenti impatti territoriali e ambientali” portano alla “conseguente scarsa sostenibilità dell’analisi costi benefici, evidente” per il Passante nord nella sua versione originale, e “molto probabile” anche per il Passantino. Uno dice: a ‘sto punto non lo faranno di sicuro, ‘sto maccherone di Passante nord. E invece, nonostante una seconda denuncia di Legambiente all’Unione europea, il 29 luglio 2014 si va tutti quanti dal ministro Lupi a firmare l’accordo per la progettazione del Nuovo-passantino-non-troppo-a-nord. Maurizio Lupi, però, rassegna le dimissioni prima di vedere uno straccio di progetto e il suo successore, Graziano Delrio, chiede tempo, per valutare bene – dice – quali grandi opere siano davvero necessarie al paese. Alla fine, senza troppe fanfare, il Passante passa. Autostrade fa i compiti delle vacanze, consegna tutte le carte, ma il 4 dicembre 2015 arriva lo stop definitivo: “Dopo consultazione dei sindaci, le parti convengono di non dar seguito all’opera prevista”.
Evviva. La campagna bolognese è salva. Si evita di costruire un’autostrada dannosa, inutile e imposta. Ora magari si valuteranno altre soluzioni, per risolvere il problema delle code in tangenziale. Magari si aspetterà di vedere come se la cava il Servizio ferroviario metropolitano, che doveva andare a regime nel 2005 e invece lo sarà – forse – solo nel 2017. Magari… Magari un corno. Per la prima volta in tutta questa storia, si decide in fretta, si bruciano i tempi, non si rispettano i due anni della liturgia consolidata. Il 15 aprile 2016 c’è già un nuovo accordo da sottoscrivere. Le firme sono quelle del ministro Delrio, del sindaco Merola, del presidente della regione Stefano Bonaccini e di Irene Priolo, delegata ai trasporti per la Città metropolitana (ex provincia), nonché sindaca di Calderara di Reno, oppositrice del Passante nord sul suo territorio. Nella nuova giunta bolognese che si insedierà di lì a due mesi, sarà assessora alla mobilità, pur rimanendo sindaca di Calderara. Sull’ultima riga utile del documento, non previsto dall’intestazione e nemmeno dagli appositi spazi per le firme, c’è un sesto autografo – largo allo Sbloccatutto! – : il presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi. Il titolo è: “Accordo per il potenziamento in sede del sistema autostradale/tangenziale nodo di Bologna”.
Sui motivi di un’intesa tanto rapida, si possono formulare solo ipotesi. Certo, la scadenza delle elezioni amministrative ha il suo peso. Il 5 giugno si vota in molti comuni della Città metropolitana. Ma c’è anche un’altra data – poco nota ai più – che i firmatari conoscono di certo. Il 19 aprile 2016, sotto la pressione di tre direttive europee, entrerà in vigore il decreto legislativo numero 50 del 2016, meglio noto come Nuovo codice degli appalti, destinato a riordinare la normativa in materia di contratti, bandi e concessioni nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali. Sai mai che a firmare cinque giorni dopo non ci si vada a inguaiare con qualche nuova disposizione, come per esempio l’articolo 22, sulla trasparenza e il dibattito pubblico. Quindi via, di corsa, prima si firma, poi si vota, poi si nomina la giunta e infine a luglio, con le valigie in mano e l’afa che addormenta la città, si presenta in comune il nuovo progetto. Merola dichiara: “Abbiamo bisogno di amministratori che sappiano imparare dagli errori e abbiano l’umiltà di dirlo”. Un errore durato dodici anni?
Chissà cosa ne pensano quelli del Comitato per l’Alternativa al passante autostradale nord di Bologna. Sulle prime, com’è giusto, festeggiano. “Questa è una storia che nasce già/ben quattordici anni fa” – comincia la zirudella composta per l’occasione, ma “il quindici aprile di quest’anno/pare finito l’infinito inganno”. Sul loro sito, scrivono che “il potenziamento in sede è […] la proposta avanzata dal Comitato fin dal 2004”. In seguito correggono il tiro, sottolineando che “l’allargamento di cui si sta discutendo oggi non è la nostra proposta e rischia di disattendere le ragioni che l’avevano ispirata”. Autostrade per l’Italia, infatti, aggiungerà le quattro nuove carreggiate consumando 20 ettari di suolo (ma guarda un po’!), e le scarpate dell’infrastruttura non diventeranno gallerie ferroviarie. Né ha immaginato l’avveniristica “opzione 2”, una specie di strada-condominio, formata da due tunnel sovrapposti, suddivisi per tipi di traffico (auto, treni, bici), in parte adibiti a parcheggi e ricoperti all’esterno con pannelli fotovoltaici. Queste ultime osservazioni si possono leggere nel “documento finale” di 149 pagine, pubblicato in ottobre, come “testimonianza dell’impegno di un comitato ‘sui generis’”. Sui generis? E che vuol dire? Ogni comitato di questo tipo ha le sue peculiarità. Cambiano i territori, cambiano le battaglie, le imposizioni e le opere. Non c’è nemmeno bisogno di precisarlo. Per quale motivo, invece, questo comitato si sente in dovere di enfatizzare la sua differenza? È venuto il momento di conoscerlo meglio.
Scopri sempre che c’è un’alternativa
Cominciamo dal nome, che non è un dettaglio. A leggere con attenzione i volantini si scopre che il Comitato contro il passante nord non è mai stato un “Comitato contro il passante nord”. Quando debutta, nel 2003, ha il nome plurale di “Coordinamento dei gruppi spontanei contro il passante nord”. In poco tempo aggiunge: “(e proponenti soluzione Alternativa in sede)”. Più che una ragione sociale, un film di Lina Wertmüller: 14 parole più le parentesi. Dal 2005 si stabilizza in “Comitato per l’Alternativa al passante autostradale nord di Bologna”. Qual è il motivo di questa irrequietezza identitaria? Forse lo stesso che lo spinge a definirsi “Comitato sui generis”. Il Comitato è “per l’Alternativa” perché cerca un modo alternativo di praticare il culto di Asfalto, Mattone, Tondino e Cemento, senza mettere in discussione il dogma che per ridurre il traffico sia necessario fare più strade. Ed è “sui generis”, e quindi atipico, perché si differenzia dagli oppositori di infrastrutture per antonomasia, i No Tav: “Per noi il no e basta non esiste: noi portiamo avanti una proposta alternativa sul Passante, quindi noi prendiamo atto che c’è questo movimento [in Val di Susa] non abbiamo però parentele con questo tipo di atteggiamento e, diciamo, questo modo di comportarsi”.
Il Comitato “sui generis” mette tra i suoi princìpi la critica a un “modello di sviluppo superato”. Eppure, tanto quel modello quanto la loro Alternativa si basano sul culto della mobilità privata e del trasporto su gomma, senza metterlo davvero in discussione. Quest’incoerenza rimane sottotraccia fino al 2016, quando l’Alternativa viene fatta propria dalle istituzioni. Allora il Comitato dimentica di essere “sui generis” e si mette a combattere contro gli oppositori dell’allargamento in sede, che si sono dati il nome di No passante di mezzo, e sono soprattutto quei “cittadini della tangenziale” blanditi dal comune pochi anni prima. A quel punto, la critica al “modello di sviluppo”, già prima puramente formale, viene dismessa: “Non è corretto […] gridare all’improvvisazione […] né invocare una visione generale dei problemi. […]. È significativo che ancor oggi i comitati dei residenti non abbiano indicato la loro preferenza tra le ‘tante soluzioni’ a cui fanno spesso riferimento nei loro interventi senza mai elencarle esplicitamente. Diciamo la verità: il nopassantedimezzo in pratica nasconde un torniamoalpassantenord, e senza badare troppo per il sottile, visti gli interventi che vengono applauditi a scena aperta […] sommessamente suggeriamo a questi signori ed ai loro esperti di informarsi meglio, con meno faziosità negli slogan, nell’esposizione e nell’uso dei dati ed essere capaci anche di ascoltare, in un sereno confronto […]”.
A distanza di pochi anni e chilometri, il Comitato “sui generis” ha dimenticato cosa significa vedersi piombare addosso ettari d’asfalto e non riconosce la propria immagine nello specchio delle vittime del nuovo patto tra Pd e Autostrade. Così, elegge i propri pari – i No passante di mezzo – a principali nemici. Li invita a indicare la loro preferenza, tra le tante soluzioni possibili, e ciò significa, visto il pulpito, a trovare qualcuno su cui gettare addosso l’infrastruttura. Ed è qui che esce il peggio di questa storia bolognese. Perché le nuove vittime stanno al gioco, si oppongono all’opera lì da loro, cercando di scaricarla su un altro territorio. Certo, non tutti: abbiamo sentito di persona chi, parlando a nome del No passante di mezzo, lo fa senza cedere a questa tentazione. Ma nel complesso la visita al loro sito, passantedimezzonograzie.it, è sconfortante, ed è piena di “soluzioni alternative”. La più gettonata è quella del Passante sud – il buco sotto le colline bolognesi già perforate da variante di valico e alta velocità ferroviaria. Tra i tecnici che la sostengono sulle loro pagine (“i nostri esperti”) spicca un negazionista del riscaldamento climatico, nemico dei “talebani dell’ambientalismo”, che coglie l’occasione per un’invettiva contro i No Tav: “Occorre serietà, equilibrio, elasticità mentale, e non si addice neppure la posizione di chi dice solo e sempre no a qualsiasi intervento […]. In un paese montuoso e sismico e di ineguagliata qualità paesaggistica come la nostra Italia […] la mobilità […] va sviluppata nel sottosuolo. […]. Questo orientamento è già stato positivamente attuato anche nel Bolognese con l’Alta Velocità […], e con la Variante di Valico […] opere necessarie, osteggiate e ritardate a lungo dai soliti negazionisti puri che ne avevano pronosticato anche l’impopolarità, come si ostinano ancora oggi a fare i valsusini”. La sintonia tra i comitati “nemici” è, su questo punto, perfetta. La postura è identica, ed è quella che predispone al lancio dell’infrastruttura contro qualcun altro. Più indifeso è, meglio è. Non a caso, i No Tav della val di Susa attirano odio e strali da entrambi, perché dimostrano che è possibile e necessario sottrarsi a questa pratica.
Stasera pago io
Uno degli insegnamenti che si possono trarre da questa triste vicenda bolognese è che lo scaricabarile tra territori, una volta partito, infetta la discussione in maniera irrimediabile. Diventa così molto più difficile confrontarsi sui vantaggi e gli svantaggi di un’opera: traffico, inquinamento, rumore, consumo di suolo e paesaggio. Nelle prossime due puntate della nostra inchiesta, vi racconteremo quanto sia stato fuorviante il “confronto pubblico” su questi temi.
Ora, invece, vogliamo affrontare un altro elemento. Anche questo comporta vantaggi e svantaggi, ma come spesso accade, è stato messo in ombra dalle altre questioni. Il denaro. Nicholas Hildyard, nel suo ultimo libro su infrastrutture e finanza, Licensed larceny (Manchester University Press, 2016), sostiene che nessuna discussione sull’impatto ambientale di una grande opera è davvero efficace se non si capisce in che misura genera profitti e a vantaggio di chi. Strappare qualche chilometro in più di barriera antirumore è una vittoria di Pirro, se rende accettabile un’autostrada che per molti decenni succhierà ricchezza pubblica per trasformarla in ricchezza privata. Quindi occorre chiedersi: chi lo paga, il Passante di Bologna? Chi ci guadagna?
L’idea che va per la maggiore, a proposito dei costi progettuali della nuova opera, è condensata nello slogan “paga Autostrade”. Ma è davvero così? Possibile che una società per azioni “paghi e basta”? Autostrade per l’Italia gestisce quasi tremila chilometri di strade a pagamento. La sua fonte di reddito sono i pedaggi, la sua prospettiva economica è data dalla durata delle concessioni che le consentono di incassarli. Vediamo, in quattro passaggi successivi, come sono stati fissati entrambi i parametri.
a) Nel 1997, quando la società Autostrade è ancora di proprietà pubblica all’87 per cento, la concessione viene prorogata di vent’anni, “in cambio” di opere come la variante di valico e il “potenziamento del nodo bolognese”. Ciò significa che Autostrade incasserà i pedaggi fino al 2038 e non più “solo” fino al 2018. Inoltre, nella formula con cui si calcola l’importo da richiedere al casello è incorporato un provvidenziale fattore X. “È difficile pensare ad altri casi in cui sia possibile per uno stato dispensare regali tanto generosi, senza che l’opinione pubblica nemmeno se ne accorga, come con la regolazione delle tariffe e l’estensione della durata delle concessioni autostradali”, scrive Giorgio Ragazzi autore di I Signori delle autostrade, (Il Mulino, 2008).
b) Tutta la generosità dimostrata nel 1997 è finalizzata a rendere appetibile la società Autostrade, che due anni dopo viene privatizzata. La quota di controllo di Autostrade passa in mano ai Benetton. Le tariffe remunerano abbondantemente una rete già in gran parte ammortizzata: comincia un travaso di ricchezza – da pubblica a privata – che durerà decenni.
c) Negli anni che seguono il fattore X fa il suo lavoro, che è principalmente quello di consentire aumenti del pedaggio a fronte di investimenti in nuove opere. Ma, “la pluralità delle formule concretamente operanti, la definizione poco precisa di alcune delle variabili considerate e le difficoltà riscontrate nel riesame dell’adeguatezza delle tariffe di base […] hanno creato una certa opacità regolamentare. […] Negli ultimi venti anni i ricavi delle concessionarie sono più che raddoppiati, passando da 2,5 miliardi di euro nel 1993 a oltre 6,5 miliardi nel 2012. Tale crescita è prevalentemente da attribuire alla dinamica delle tariffe unitarie, cresciute più della dinamica generale dei prezzi […]”, come spiega Paolo Sestito di Bankitalia ai deputati dell’8ª commissione, nel 2015.
d) Ad Autostrade per l’Italia non basta un fattore X di aumenti, per quanto generosi. Vuole rimettere in discussione la fine della concessione, e il governo Renzi (e Delrio) sembra essere d’accordo. Dall’inizio del 2016 si parla a più riprese di un’ulteriore proroga della scadenza, dal 2038 al 2045. Sulle prime, il mercanteggiamento ruotava attorno alla costruzione della “gronda di Genova” e del Passante nord. Ora, in luogo del secondo, il governo potrebbe accontentarsi del Passante di Bologna, che ad Aspi costerà la metà.
E poi, il colpo finale. Chi entra o esce dai quattro caselli del nodo bolognese è gravato da un sovrapedaggio di circa 50 centesimi (la tariffa per 6,9 chilometri, un quarto dello sviluppo dell’attuale tangenziale). Il balzello serve a pagare Aspi per la manutenzione della tangenziale e a evitare che sia usata dai mezzi in transito come alternativa gratuita all’A14. Sono però esentati gli automobilisti che percorrono le autostrade entro un raggio di 40 chilometri dal capoluogo. Insomma: chi si muove per piccoli spostamenti e pendolarismo. L’accordo di aprile 2016 stabilisce invece che, dopo il completamento del nuovo Passante, il sovrapedaggio sarà applicato “senza alcuna deroga”, e sarà calcolato in modo differenziato casello per casello. Quindi qualcuno spenderà un euro in più al giorno, per altri l’aumento sarà maggiore. E per la concessionaria? Su 40 milioni di transiti all’anno dai caselli bolognesi, quanti sono i pendolari? E a quanto ammontano i costi di manutenzione della tangenziale?
Luglio, Agosto, Settembre (nero)
I profitti crescenti e i costi ridotti di Aspi, probabilmente determinanti nell’abbandono del Passante nord, non hanno avuto spazio nel dibattito. Le semplici domande su quanto incassi Benetton ai caselli bolognesi non hanno trovato risposta nel “confronto pubblico”, dove invece risuonava la falsa e consolatoria certezza del “paga Autostrade”. Nessun incontro specifico è stato dedicato a questo tema, nei due mesi di ascolto e partecipazione.
Due mesi? Ma non avevano detto quattro? In effetti sì. In tutti gli interventi, in tutti i materiali e in tutte le propagande del comune, si parla sempre di “quattro mesi di confronto pubblico”: Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre. Ma il progetto preliminare, come abbiamo visto, è stato presentato il 22 luglio, a mese già finito. Agosto, Passante mio non ti conosco. Il primo incontro al quartiere San Donnino è datato 7 settembre. L’ultimo, con la presentazione dei “suggerimenti per migliorare l’Opera”, è del 7 novembre. Due mesi esatti. Del resto, non c’era da aspettarsi molto di più, da un percorso di partecipazione illustrato con una foto fasulla. I bolognesi hanno risposto con scarso entusiasmo. Chi per pigrizia, chi per disillusione, chi fiutando l’ipocrisia degli interlocutori.
Noi siamo andati a vedere il bluff. Appuntamento alla prossima puntata.
«Campidoglio a 5 Stelle. Raggi avverte il suo assessore all’Urbanistica, contrario al progetto della As Roma. Con un falso scoop delle agenzie di stampa, la prima cittadina pone l’aut aut all’urbanista». il manifesto, 7 dicembre 2016 (c.m.c.)
Un avvertimento. Lanciato tramite agenzia di stampa, con uno stile apparentemente in contraddizione col principio grillino della trasparenza ma poi non così inusuale nell’era pentastellata della Capitale. «Paolo Berdini potrebbe presto lasciare la giunta Raggi»: il lancio dell’Adnkronos è lapidario e non usa condizionali.
La decisione di fare fuori il più indipendente e a sinistra degli assessori, quello all’Urbanistica, «sarebbe stata presaa [sic]– riporta il take di agenzia – nel corso di una riunione» tenuta lunedì sera «alla quale ha partecipato la sindaca Virginia Raggi e i suoi più stretti collaboratori». Ma, appunto, è solo un avvertimento. La prima cittadina e il suo cerchio magico vogliono mettere alle strette Berdini e costringerlo a fare un passo indietro sui suoi no al progetto dello stadio della As Roma.
L’urbanista infatti – che peraltro fu tra i primi ad essere chiamato in giunta da Raggi proprio per la sua lunga e riconosciuta esperienza e, a differenza degli altri assessori, non venne sottoposto a imbarazzanti esami da commissioni grilline – aveva da subito sollevato obiezioni sul progetto della società sportiva. Berdini è contrario soprattutto a violare il Piano regolatore di Tor di Valle per costruire, oltre allo stadio, anche tre «Torri» da 650 mila metri cubi di cemento che coronerebbero il sogno di James Pallotta.
Da tempo Berdini aveva fatto notare che quel progetto conteneva anche vere e proprie trappole per l’amministrazione capitolina, come ad esempio un «impianto di pompaggio gigantesco da 3 milioni di euro contro i rischi di un’eventuale esondazione del Tevere», la cui gestione rimarrebbe poi al Comune. Ma il patron della Roma deve aver usato argomenti molto convincenti quando, a settembre scorso, ha incontrato la sindaca e il suo vice Daniele Frongia. Non a caso, il tycoon di Boston uscì dal Campidoglio «ottimista». E la stessa Raggi, che da allora ha preso in mano il dossier, definì «positivo» l’incontro.
L’ordine di Grillo però era di congelare tutto fino al referendum, per evitare di compromettere la campagna. Tanto che Raggi ha annullato l’ultima riunione sullo stadio che avrebbe dovuto tenersi venerdì scorso, con Berdini e con il numero due della Roma, Baldissoni. E ha chiesto all’avvocatura del Comune di studiare le conseguenze legali di un’eventuale modifica del progetto.
«Che c’è malcontento è risaputo», ammette il consigliere 5S Angelo Diario, a capo della commissione Sport. D’altronde il meno irreggimentato degli assessori è stato anche il primo ad opporsi alle «Olimpiadi del mattone», invitando però Raggi a cogliere l’occasione per contrattare con il governo Renzi il finanziamento di un «Patto per Roma», al quale Berdini continua ovviamente a lavorare.
E ora, passato il referendum, arriva l’avvertimento. La velina trasmessa alle agenzie spiega che ci sarebbe anche «il via libera della maggioranza» per il ritiro delle deleghe. In realtà questa volta i dardi avvelenati partono da Palazzo Senatorio, non dall’Aula Giulio Cesare: «Ieri c’è stata una riunione di maggioranza e non si è parlato dell’assessore Berdini che è un membro di questa giunta. Ci sono almeno 29 persone che vi hanno partecipato e possono confermarlo», dichiara il capogruppo M5S Paolo Ferrara che bolla il resto come «chiacchiere da vecchia politica».
Ma mentre nel corso della giornata i rumors capitolini danno già per scontata l’ennesima «epurazione» o «rimpasto di giunta, a seconda dei punti di vista, dalla giunta nessuna comunicazione ufficiale. E sarebbe stata necessaria, questa volta. L’unica smentita dal Campidoglio invece viene fatta trapelare – anonima – su un’altra agenzia, Omniroma: Berdini «è regolarmente al lavoro sul dossier stadio della Roma». E, intercettato dai cronisti, l’assessore al Bilancio Andrea Mazzillo nega: «Di strappi non so nulla. Non mi risulta nulla di questo».
Le polemiche però ci sono da tempo, veicolate da social blog e testate on line vicine al movimento. Qui, qualche settimana fa, si ventilava lo scioglimento imminente del «Tavolo di coordinamento dell’Urbanistica», a causa delle dimissioni in blocco dei membri «in rivolta» contro Paolo Berdini, accusato di aver rifiutato di seguire il modello pentastellato di lavorare «come attuatore delle politiche di indirizzo che sarebbero dovute venire dalla commissione urbanistica».
L’argomento stadio e «Torri dell’Eur» – con annessa mediazione con i «palazzinari» romani – è però poco spendibile nel movimento grillino. E così spuntano fuori anche le polemiche sulla metro C e sugli sfratti agli inquilini dei «Piani di Zona». A Longoni, dove ci sono alcuni di questi immobili inizialmente destinati ad affitti agevolati, l’Unione sindacale di base oggi organizza un presidio. Nel comunicato di convocazione l’Usb se la prende anche con l’assessore all’Urbanistica che «aveva assunto l’impegno alla revoca delle convenzioni». Ed esalta il ruolo della deputata 5S Roberta Lombardi, che oggi sarà presente per continuare la sua difesa di una famiglia di sfrattati.
Paolo Burgio intervista Giancarlo Consonni, che con numerosi colleghi urbanisti, architetti ed ecologisti ha firmato l’appello al Comune per protestare contro gil modo in cui si procede a decidere la trasformazione degli scali FS a Milano. z3xmi.it online, 6 dicembre 2016
1.Professor Consonni cosa l’ha spinta a sottoscrivere questo appello?
Si sono travisati gli impegni assunti nella delibera del Consiglio Comunale che prevedeva un concorso pubblico: la procedura scelta esautora l’amministrazione pubblica e i cittadini dal governo del territorio e dei destini della città. Si sta ripetendo quello che è accaduto negli ultimi trent’anni per interventi di rilevanza cruciale in cui il progetto è stato redatto su incarico dell’operatore immobiliare proprietario delle aree (da Bicocca, che ha fatto da apripista, alle altre grandi aree dismesse: Innocenti, Om, Porta Vittoria, Montedison-Rogoredo, fino a Porta Nuova e Citylife). Il bilancio è sotto gli occhi di tutti: seguendo questa prassi, si sono via via perse straordinarie occasioni per migliorare la qualità urbana.
In tutti questi casi il Comune non ha mai espresso una linea strategica, un’idea di città. Emerge un limite culturale di fondo, oltre che politico (le due cose sono strettamente collegate).
La storia si ripete ora con una mistificazione in più. Se nel caso di CityLife il problema era che l’ente Fiera doveva trovare le risorse per il trasferimento a Rho-Pero, qui FS-Sistemi Urbani maschera la politica immobiliarista con l’esigenza di dover reperire risorse per un nuovo passante ferroviario o altri interventi sulla rete regionale dei trasporti su ferro. Non vi è dubbio che occorra rivedere la politica del trasporto pubblico in Lombardia con particolare attenzione agli spostamenti pendolari; ma che, per conseguire dei miglioramenti su questo fronte, si debbano reperire risorse dalla speculazione immobiliare su aree sostanzialmente pubbliche, è un modo di procedere assurdo.
2. In Italia da tempo assistiamo a continue deroghe delle norme che impongono di bandire concorsi pubblici, una pratica che non trova spazio in Francia, in Germania e in altri paesi europei. Così facendo si nega in effetti un principio di democrazia e di trasparenza. Ne conviene?
Certamente. Fare un concorso pubblico vuol dire redigere un bando; operazione che comporta non solo la definizione degli indici di edificabilità, certo importanti, ma soprattutto la messa a fuoco degli obiettivi strategici: tutte scelte che non possono essere delegate al proprietario delle aree e agli investitori. Il bando serve a definire le finalità sociali della trasformazione. Sul terreno degli obiettivi strategici si registra una grave lacuna nelle politiche del Comune di Milano, come della gran parte dei comuni italiani, del tutto impreparati e disattenti sulla questione del rilancio della qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni. Qui è il punto. La democrazia non si misura solo sui modi di formazione delle decisioni ma sugli esiti delle trasformazioni: nel loro rispondere o meno alla necessità di assicurare le migliori condizioni materiali della convivenza civile. Un terreno, questo, su cui l’Italia, che pure è stata maestra nell’arte di costruire città, mostra da tempo una grave carenza a confronto con l’Europa più avanzata.
Nel Bel Paese le politiche di governo del territorio manifestano il totale disinteresse circa le ricadute degli interventi urbanistici sul medio-lungo periodo. Dall’agenda politica sono completamente uscite questioni relative ai modi dell’abitare e ai modi di strutturarsi delle relazioni. Una carenza vistosa che ha radici profonde in un analfabetismo diffuso sul tema del fare città. Si spiegano così trasformazioni urbanistiche e architettoniche che nulla hanno a che vedere con modalità inscrivibili nelle politiche di Rinascimento urbano perseguite altrove (penso in particolare a Barcellona). Basta una visita a CityLife: due grattacieli (un terzo previsto non è stato realizzato) in un deserto di relazioni, una spianata pavimentata su cui si affacciano anche due raggruppamenti insediativi di residenze di lusso, nei quali è incamerato la parte preponderante del verde pubblico previsto per l’intero intervento. Si respira un’aria da gated communities che non va certo in direzione della convivenza civile.
A cavallo del 1900 Edmondo De Amicis ci ha restituito una Torino in cui, in certe zone della città borghese, artigiani, operai e impiegati convivevano nella stessa casa, o nello stesso isolato, con i più abbienti (un principio che valeva anche per Milano e le altre città italiane). Oggi si va decisamente in direzione opposta: si assiste al dilagare di forme esasperate di segregazione sociale, favorite da zonizzazioni selettive e da tipologie insediative concepite secondo logiche sempre più esclusive. Gli ultimi sviluppi sono all’insegna di un ritrarsi delle residenze dei più facoltosi in nuovi ‘castelli’, edifici alti su palafitte con i piani terra non più abitati. In altri termini per questi ceti si predispongono modalità abitative ossessionate dal problema della sicurezza, diffidenti e difese dalle relazioni con l’intorno. Si fa avanti un vivere asserragliato in torri in cui sembrano riaffacciarsi le città puntaspilli del Medioevo. Che cos’altro è il celebratissimo “bosco verticale”? Un caso, questo, nient’affatto isolato. Già prima, Renzo Piano per le aree ex Falck a Sesto San Giovanni ha proposto una sequela di grattacieli su pilotis alti 15 metri e i primi tre piani non abitati, in mezzo a un verde genericamente definito. Un modo di abitare egoistico, che è l’opposto della città. La città è condivisione, nella tutela e nel rispetto reciproco.
Negli ex scali ferroviari si deve dare spazio al verde? D’accordo, ma è sul come che va portata l’attenzione. Se il verde (anche qui imprecisato) ha come prezzo un bordo di grattacieli di residenze di lusso – tanti “boschi verticali” come suggerisce un rendering recentemente ‘regalato’ da Stefano Boeri al «Corriere della Sera»– è già delineato uno scenario preoccupante. Da cancro antiurbano.
Stiamo mimando in modo ridicolo Central Park e i suoi grattacieli in una città come Milano che non ha questi principi nella sua logica costitutiva e nella quale, per fortuna, le relazioni socializzanti sono ancora un fatto primario. Del resto, solo nel continuo connettere presenze e ritrovare punti di convivenza civile si può pensare di salvaguardare processi in cui la cura della democrazia e la costruzione della città vanno di pari passo.
Ci sono poi le quantità e su questo si sta mistificando. Sergio Brenna ha fatto dei calcoli precisi: non ha senso partire dall'ipotesi del verde al 50% con indici volumetrici elevati: poiché nell’insieme del progetto devono rientrare le dotazioni di servizi e spazi verdi, non si può pensare che ci siano logiche compensative per cui il verde e i servizi di interesse generale si possano realizzare altrove: devono essere contestuali. Lo dico per esperienza: se si va oltre l’indice di 0,50 mq su mq (superficie lorda di pavimento su superficie fondiaria), non si potrà mai far tornare i conti: si dovrà forzare il gioco con le tipologie edilizie (vedi il rendering di cui sopra) e una dotazione inadeguata di servizi urbani e territoriali.
3. Spesso si giustificano queste scelte con le esigenze economiche, occorre recuperare risorse sfruttando i processi di riconversione di aree pubbliche perché i soldi non ci sono e dobbiamo contenere il debito pubblico. È questa una vera soluzione?
È una questione centrale. Il Comune, per quello che si è visto negli ultimi decenni, mira unicamente a incamerare oneri di urbanizzazione. Risorse che, dopo la riforma Bassanini, possono venire utilizzate per coprire qualsiasi spesa o buco di bilancio, quando invece, come era nella legge originaria, dovrebbero servire a realizzare i servizi complementari che rendono l’abitato equilibrato. Mentre dimostra disinteresse sulla questione centrale del fare città, l’amministrazione comunale ambrosiana punta a favorire qualsiasi realizzazione purché il flusso degli oneri di urbanizzazione, destinati ormai per il 30-40 % alla spesa corrente, non si interrompa.
In altri termini, vendiamo il futuro per far fronte ai bisogni quotidiani (compresi il mantenimento di una macchina burocratica farraginosa).
L’assenza di visione strategica, e di pratiche conseguenti, mette evidenza in cosa consista l’attuale crisi della democrazia:. Non si può monetizzare la perdita di qualità degli aggregati insediativi e accettare l’aumento di segregazione urbana pur di assecondare operatori immobiliari che, per conseguire il massimo sul piano della rendita, si rivolgono a una sola fascia di mercato, con prezzi ormai superiori ai 10.000 euro/mq.
Il verde, poi – ce lo insegnano le migliori esperienze europee (Parigi, Barcellona ecc.) –, svolge pienamente il suo ruolo se è abitato, se è frequentato intensamente dalla collettività. Perché questo accada, si deve predisporre un’offerta oculata di opportunità. Il parco urbano non può essere un generico spazio rinaturalizzato: deve essere frequentato, presidiato in modi d’uso in cui la contemplazione degli elementi naturali e la cultura devono andare di pari passo.
«Non ci si deve sorprendere, che di questi tempi di neoliberismo, si trovi sempre chi è disposto a sostenere candidamente che chi solleva il problema del consumo di suolo sia un "nemico della libertà"». Casa della cultura, Milano, online, 2 dicembre 2016 (c.m.c.)
Le vicende urbanistiche che Firenze ha vissuto negli ultimi anni sono illuminanti riguardo ai tempi che viviamo, ma anche abbastanza dense e intricate da indurre a rinunciare al tentativo di offrirne una sintesi nello spazio di un articolo. Anche per questo è prezioso il libro curato da Ilaria Agostini, Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista (Aión Edizioni, 2016), nel quale una serie di interventi lucidissimi ricostruiscono e discutono gli scenari più rilevanti in cui si sono svolte queste vicende.
Due, comunque, sono i casi cui maggiormente il lettore è chiamato a rivolgere la sua attenzione: il primo (sul quale si soffermano soprattutto la stessa Agostini e Antonio Fiorentino) è quello di un'alluvione cementizia nell'area di Castello, proposta negli anni con insistenza e diverse variazioni sul tema; il secondo (cui dedicano i loro approfondimenti Alberto Ziparo e Tiziano Cardosi) è quello del progetto di sottoattraversamento della città mediante un tracciato di circa sette chilometri di ferrovia ad alta velocità, le cui origini risalgono a più di vent'anni fa e che oggi è ancora in fase di incerta realizzazione.
Il libro non offre semplicemente una ricostruzione precisa, oltre che radicalmente critica, di questi casi e degli approcci al territorio di cui essi sono espressioni paradigmatiche; il volume propone questa stessa ricostruzione come frutto e testimonianza di un'esperienza esemplare di cittadinanza attiva: quella del gruppo perUnaltracittà che dal 2004 al 2014 ha promosso e sostenuto, da un lato, la puntuale contestazione di questi approcci e, dall'altro, l'elaborazione di prospettive alternative, facendo leva soprattutto - ma non solo - sulla sua rappresentanza in Consiglio comunale.
I contributi di Ornella De Zordo (consigliera comunale lungo tutto il decennio), Maurizio Da Re e Cristiano Lucchi sono particolarmente interessanti in proposito, come lo sono quelli di Giorgio Pizziolo e Roberto Budini Gattai sulle possibilità di rovesciare le politiche urbanistiche dominanti rimettendo nelle mani dei cittadini le risorse storiche, paesaggistiche ed ecosistemiche di Firenze, prima che sia troppo tardi. Altrettanto degni di lettura sono, inoltre, gli scritti di Maurizio De Zordo e Daniele Vannetiello sulla città pubblica in svendita e sull'erosione della democrazia urbana, cui perUnaltracittà ha opposto costantemente resistenza.
I vari approfondimenti proposti nel volume fanno emergere, in particolare, il ruolo da comprimario nelle decisioni riguardanti l'assetto della città che il grande capitale immobiliare assume di fatto nel 2005, quando Salvatore Ligresti, a nome di Fondiaria SAI, celebra pubblicamente con il sindaco Domenici e l'assessore all'urbanistica Biagi la firma della convenzione del piano particolareggiato per l'area di Castello, dei cui suoli la Sai all'epoca è proprietaria. Il piano - oggi stravolto dal compresente progetto per il nuovo aeroporto previsto al di fuori di ogni atto di pianificazione regionale - rimane solo sulla carta a causa sia delle iniziative di contestazione di perUnaltracittà e di altri movimenti cittadini, sia dell'intervento della magistratura sulla presunta disponibilità alla corruzione di almeno alcuni dei protagonisti della vicenda.
Il libro aiuta a comprendere che fatti come questo, in realtà, non sono riducibili a espressioni, semplicemente più smaccate di altre, della complicità fra amministratori e costruttori, che - pur in forme meno ostentate - non è mai stata assente dalle cronache del nostro paese; il libro sollecita soprattutto a rendersi conto che fatti come questo sono il frutto maturo di un mutamento "strutturale" delle pratiche urbanistiche, verificatosi ormai da alcuni decenni - in Italia e altrove - sotto il segno del neoliberismo.
Da questo punto di vista, che gli amministratori pubblici si concedano comportamenti censurabili sul piano giudiziario è meno rilevante del fatto che ai soggetti economici privati sia ormai riconosciuta la facoltà di determinare apertamente le strategie urbanistiche dei governi locali; tutto questo viene loro concesso nella misura in cui essi sono considerati i soli soggetti in grado di attivare e attrarre risorse per la modificazione radicale del territorio urbano, ritenuta ormai perennemente necessaria per "modernizzarlo", "riqualificarlo" o "rigenerarlo".
Il fatto stesso che amministratori di una città come Firenze, eredi di una tradizione tutt'altro che liberista, assumano come pacifica la condivisione delle loro scelte con la grande imprenditoria privata, è solo la prova più eloquente di questo mutamento profondo: alla sua radice sta la rinuncia sostanziale - da parte dei ceti politici di sinistra, non meno che di quelli di destra - a privilegiare le esigenze pubbliche e comuni delle città rispetto agli interessi privati o, addirittura, l'identificazione fra la promozione attiva di questi interessi e il beneficio presunto che essa produrrebbe prima o poi a vantaggio di tutti.
Si tratta dell'applicazione - approssimativa quanto si vuole, ma ormai decisamente "strategica" - dell'idea che la libera iniziativa economica debba avere la possibilità di esprimere le sue miracolose capacità di produrre sviluppo e benessere anche mediante l'adattamento dell'uso del territorio alle sue esigenze. Il che dovrebbe essere immediatamente smentito dal fatto che il territorio è una risorsa finita e non riproducibile. Ma questa evidenza è talmente abbagliante che spesso - per così dire - fa perdere la vista proprio a chi dovrebbe farsene carico a nome di tutti.
Gli autori del libro mostrano che di questa tendenza ormai dominante, a Firenze si sono date e si danno anche declinazioni più astute di quelle praticate nell'era Domenici, conclusasi nel 2009. È questo il caso della successiva gestione amministrativa guidata da Matteo Renzi il quale - dopo il suo insediamento da sindaco - proclama di voler inaugurare una fase radicalmente diversa facendo proprio persino lo slogan dei "volumi zero" e proponendo una nuova pianificazione in sostituzione di quella cui il suo predecessore aveva dovuto soprassedere; al tempo stesso egli mantiene nelle sue mani l'assessorato all'urbanistica e, più o meno tacitamente, assume come un dato acquisito le volumetrie previste nelle pianificazioni precedenti - comprese quelle gigantesche dell'area di Castello - e altre si dispone a concederne con lo strumento delle varianti.
Egli evita l'esibizione pubblica del ruolo da protagonisti riconosciuto agli interessi di proprietari e costruttori nelle scelte urbanistiche, ma di fatto manda - per così dire - "a regime" il netto privilegiamento di questi interessi soprattutto mediante tre linee strategiche: la prima è la conferma - come si è detto - delle massicce volumetrie già previste in passato; la seconda è la rinuncia sostanziale alla tutela del territorio e del paesaggio, derivante - per esempio - dalla previsione nelle zone collinari di ogni sorta di attrezzature, infrastrutture, servizi pubblici o privati e, più in generale, di una grande varietà di tangenziali, passanti, circonvallazioni ipogee e di superficie, parcheggi interrati, sottopassi, sovrappassi e così via; la terza, infine, è l'assunzione della dismissione di edifici comunali, caserme, tribunali, uffici postali e industrie come occasione di liberazione e di trasformazione in senso edificatorio di molte delle rispettive aree, che esclude qualunque programma organico di recupero: la vendita, o la svendita, del patrimonio pubblico ne consegue come esito naturale; il che accade - per esempio - con la cessione del Teatro Comunale, destinato probabilmente ad essere trasformato in complesso residenziale, o con le strategie di marketing immobiliare che il successore di Renzi promuoverà coniando l'apposito slogan: "Florence city of the opprtunities".
La prospettiva aperta, o riaperta, da Renzi dunque è quella di una città in eterna crescita edilizia che potrà continuare ad espandersi anche mediante il sistema della cosiddetta "perequazione urbanistica" che riconosce ai privati il "diritto" di edificare altrove, nel caso in cui tale "diritto" sia loro negato all'interno del territorio già urbanizzato per qualche fondata ragione.
Non a caso, lo stesso Renzi - una volta divenuto "sindaco d'Italia" - non esiterà ad impugnare la nuova legge per il governo del territorio della Toscana, che Anna Marson - assessore regionale indisponibile ad assecondare le strategie dominanti a Firenze - riesce a fare approvare nel 2014. In quella legge, infatti, l'idea di limite all'espansione dello spazio urbanizzato campeggia come principio indigeribile per chi - come Renzi - riconosce a ipermercati e centri commerciali il diritto "ovvio" di occupare il territorio rurale residuo che abbraccia le città.
Naturalmente, alla luce di questo libro, non si deve credere che Firenze rappresenti un concentrato più denso di altri di questi problemi. La sua situazione è esemplare, ma non eccezionale, rispetto alla maggior parte delle città italiane e non solo. Non ci si deve sorprendere, perciò, che di questi tempi si trovi sempre chi è disposto a sostenere candidamente che chi solleva il problema del consumo di suolo sia un "nemico della libertà". Qualcosa del genere si è potuto leggere anche in un dotto intervento pubblicato di recente su questo sito.
Purtroppo, però, la questione della libertà è talmente importante e complessa riguardo ai destini del territorio e dello spazio urbano da non poter essere ridotta alla semplice facoltà, di chi si trovi a disporne, di usare proprietà immobiliari e capacità edilizie a proprio piacimento. Molte altre sono le libertà che andrebbero apprezzate al giorno d'oggi in proposito: per esempio quella di praticare la cittadinanza provando spudoratamente a dire la verità sulla città come bene comune.
Che non si tratti di una bestemmia è ciò che il libro curato da Ilaria Agostini ci aiuta a capire.
Mentre si procede a tappe forzate verso la legittimazionedella più grande variante in deroga nella storia dell’urbanistica milanese, una lucida riflessione critica sulla perdurante latitanzadell’amministrazione locale che non fa quello che le compete. Arcipelago Milano, 29 novembre 2016 (m.c.g.)
Chi viene dafuori, se vuol capire bene dove è arrivato, deve affidarsi alla saggezza deipopoli: i proverbi. Chi viene a Milano ne ha a disposizione moltissimi ma duesono fondamentali: “Var pussee un andàche cent andemm” e “Ofelè, fa el to mestè”, Arcipelago Milano,29novembre 2016.
“Varpussee un andà che cent andemm” – meglio andare che dirsi andiamo – è ilritratto dei milanesi sempre di corsa, spicci nelle loro decisioni. È questo ilmotto dell’attuale Giunta a proposito degli scali? O l’ansia di tener fede a unimpegno elettorale? Non lo so ma questa volta farei volentieri a meno di quelproverbio perché tutta questa fretta sugli scali è decisamente inspiegabile,salvo che Fs Sistemi Urbani non abbia avuto ordine dalla capogruppo diconsolidare un valore immobiliare che oggi non c’è fin tanto che l’accordo diprogramma non sarà sottoscritto dalle tre parti: Fs, Comune di Milano, RegioneLombardia. Fino a quel momento le aree non valgono nulla.
Vorreiricordare che l’approvazione di un accordo di programma comporta, a norma delcomma 6 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000, la dichiarazione di pubblicautilità, indifferibilità ed urgenza delle opere e che questi trerequisiti sono inscindibili. Vorrei sbagliarmi ma almeno l’indifferibilità el’urgenza non li vedo proprio, sopratutto nell’attuale situazione del mercatoedilizio e per le ragioni ben illustrate dalla ricerca condotta nel 2015 dalPolitecnico di Milano: «E infine i vincoli e le opportunità rintracciabili neiprofili amministrativi, dovendosi ancora precisare se l’attuazione degliinterventi opererà in variante o meno alla pianificazione vigente e quali sianole condizioni di fattibilità procedurale di eventuali “usi temporanei”. Lalunga prospettiva temporale della trasformazione, infine, che va ben oltrel’arco decennale di cogenza dello strumento pianificatorio – conformativo,suggerisce l’adozione di una strategia di “manutenzione continua e programmata”la cui gestione sia affidata a un qualificato Collegio di Vigilanza» (Bazzani).(1)
Vorrei anchericordare che gli accordi di programma costituiscono anche deroga allostrumento urbanistico in vigore e dunque un’eventuale adozione perpetua ilmalcostume, anche milanese, di procedere nella gestione urbanistica della cittàper varianti continue, rinviando sempre un’operazione complessiva di ridisegnourbano: quest’atteggiamento rispecchia forse l’inesistenza della cosiddetta“visione”, l’araba fenice della politica milanese. Spero che il tutto non siaqui
“Ofelè fael to mestè”. Questo proverbio invece fa proprio al caso nostro: bellosarebbe se ognuno facesse il proprio mestiere a cominciare da Ferrovie delloStato e non si impancasse a essere il pensatoio dell’urbanistica milanese.L’operazione Dagli scali, la nuova città è francamente imbarazzante perMilano perché mescola ruoli che dovrebbero essere ben distinti: che cosa vuoldire che FS Sistemi Urbani «promuove un processo partecipato, inclusivo ecollaborativo, di rigenerazione urbana sostenibile delle aree ferroviariedismesse nella città di Milano.»? In nome di chi? In sostituzione di unruolo che dovrebbe essere proprio dell’amministrazione comunale e dei suoiorganismi? Nell’interesse di chi? Suo evidentemente.
«Grazieal coinvolgimento di cinque team multidisciplinari [?] - otto architetti e unsociologo – guidati da architetti di fama internazionale, il processo siconclude con la presentazione di cinque scenari di sviluppo urbano». Eccoquel che vuol fare Fs Sistemi urbani. Il tutto con leggerezza vien classificatonella categoria “contributo alla discussione”. Io lachiamerei indebita pressione su un’amministrazione locale da parte dello Statonell’interesse di una sua Azienda, schierando in campo professionisti dirilievo per utilizzare la loro autorevolezza, o il ruolo giocato negliorganismi di categoria, a sostegno dei propri interessi travestiti da bene perla città.
Il tipo dibene da parte delle Ferrovie dello Stato verso Milano lo sperimentano tutte lemattine i viaggiatori che partono e arrivano alla Centrale (Grandi Stazioni)nel labirinto dei percorsi commerciali.
Saper fareil proprio mestiere: il Comune quello del committente nei confronti del mondodi tutte le professioni e i saperi, anche i più innovativi, ben sapendo che uncommittente deve sapere prima di tutto quello che vuole e quello che mette adisposizione in termini di risorse, conoscenze e aspettative, il suo software:il software politico costituito da un’idea di città, dalla conoscenzadei suoi bisogni, dalla sensibilità dei suoi desideri, dalla percezione dellesue opportunità, dei suoi diritti e dal confronto tra questi quattro elementi ela disponibilità di mezzi che fanno scegliere tra bisogni che si possono omeno, tra desideri realizzabili e, per finire, quali siano le opportunità dacogliere e i diritti da tutelare ad ogni costo.
Aiprofessionisti la cura dell’hardware senza debordare dal progetto versoil piano politico. Ai consulenti l’affinamento degli strumenti e l’eventualeallestimento di scenari e relativi modelli di simulazione: politicamenteneutrali.
(1) Nota a valle del Seminario “Un progetto per gli scali ferroviari milanesi” tenutosi lunedì 20 aprile 2015, presso il Politecnico di Milano
«Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale». La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 novembre 2016 (c.m.c.)
In Italia le alluvioni autunnali sono tutto tranne che imprevedibili. Sono la norma: a causa del dissesto del territorio nazionale, e del mutamento climatico globale.
Si può fare qualcosa? Sì, si DEVE fare qualcosa. Si deve finalmente comprendere che l'unica Grande Opera Utile, l'unica opera di interesse strategico nazionale è la messa in sicurezza del territorio. Il che include anche la prevenzione antisismica. Oltre al dovere di fare la propria parte in un'accelerazione del superamento dell'uso dei combustibili fossili, prima causa del riscaldamento globale e della tropicalizzazione del nostro clima, monsoni inclusi.
Per fare tutto questo non ci sarebbe bisogno di cambiare la Costituzione: basterebbe cambiare la classe politica.
E invece cosa fa questa classe politica? Cambia la Costituzione scrivendo che l'interesse strategico del Paese sta nella «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale», (articolo 117 come riscritto dalla riforma a firma Renzi, sulla quale voteremo il 4 dicembre).
Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale.
Roberto Saviano ha scritto in Gomorra: «La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana». Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui «sviluppo» era uguale a «cemento». In cui per «fare» era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.
Non è dunque un caso se il Presidente del Consiglio ha aperto la campagna del Sì annunciando la costruzione del Ponte sullo Stretto di fronte ad una platea di imprenditori del cemento. È questo il vero interesse che guida la politica, come si apprese ai tempi dello Sblocca Italia e delle relative dimissioni dei ministri Lupi e Guidi. In altri termini: la Questione Ambientale è una parte della Questione Morale.
Lo capì perfettamente Enrico Berlinguer, che parlando al Comitato Centrale del Partito Comunista del 4 giugno 1974 disse che bisognava porre fine «al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere».
Se piove non si può dire «governo ladro». Ma se la pioggia fa i danni che fa oggi, invece si può dire. Si deve dire.
Una testimonianza dell'ex sindaco di Sesto Fiorentino. Storie individuali e storie collettive legate tra loro per più di un secolo. Spezzato questo filo, entrano in gioco i soliti noti: real estate, cordate, banche. Presidiare questa vicenda è importante per tutti, non solo per gli abitanti e i lavoratori di Sesto Fiorentino. (m.b.)
Ginori annunciati 87 esuberi.Qualcuno l’aveva detto, anche in campagna elettorale, che il problema non era il Museo ma il rischio di far diventare museo fabbrica e lavoratori.Ma era più facile fare interrogazioni su una cosa naif che impegnarsi in operazioni difficili quali rendite immobiliari, piani industriali, appetiti fondiari, destinazioni urbanistiche, in sintesi interessi economici complessi. Tralascio le foto in posa con gli amministratori della fabbrica.
Riepiloghiamo:le aree della Ginori sono l’ultimo grande e pregiato spazio edilizio nelle aree urbane della Firenze Nord Ovest. Interessano imprenditori immobiliari dal 2004, data di nascita della Ginori Real Estate e del conferimento a questa dei terreni. La società, da tempo in liquidazione, era ed è proprietà di due soggetti: Ginori 1735 e Trigono, entrambi possiedono il 50% della proprietà. L’amministratore delegato della stessa era l’ex proprietario di Btp Riccardo Fusi.Per anni, dal 2004 al 2013, si sono succedute cordate, quasi sempre sotto sotto orientate alla valorizzazione immobiliare delle aree.
Il Comune, allora (ero Sindaco) , fece due cose:
- cancellò qualsiasi previsione di edificazione sull’area (prevista dal piano strutturale del 2004);
- dichiarò pubblicamente una disponibilità a ragione, con un’unica proprietà (industriale ed immobiliare) e con un piano industriale di rilancio, anche un’eventuale messa a reddito di una porzione delle aree in questione, con l’obiettivo di tenere la Ginori a Sesto (anche in un’altra area) e di rilanciare la produzione manifatturiera di qualità.
Quando la Ginori fu messa in liquidazione ci fu chi sostenne che per fare quel prodotto, nel mercato attuale fossero sufficienti molti meno dipendenti (150-160). A questo tutti ci opponemmo tant'è che l’offerta irrevocabile di Gucci all'asta fallimentare del 2013 prevedeva il mantenimento dell’occupazione al livello 230 con l’impiego delle eccedenze in attività collaterali del gruppo.In questi anni la nuova proprietà non ha risolto né il nodo dei terreni, né quello del rilancio del prodotto che, seppur rinnovato nel design non ha aggredito in nessun modo i mercati mondiali del lusso e del tabellare.
Andava e va guardata la luna e non il dito. Del Museo parleremo a tempo debito, per fortuna c’è un vincolo apposto dal Ministero dei beni culturali in accordo con il Comune che impedisce qualsiasi speculazione e spostamento dell’edificio e del patrimonio. Ora è della carne viva dei lavoratori che dobbiamo occuparci.Va attivato immediatamente il tavolo nazionale per trovare un accordo sui prezzi dei terreni e liquidare per sempre gli appetiti fondiari e va respinto un piano industriale che non preveda investimenti e rilancio anche ricordando che Gucci comprò per un tozzo di pane (appena 13 milioni di €) la fabbrica.La formula, benchè alla crisi aziendale si sia sommata quella mondiale, è sempre quella
- La Ginori deve stare a Sesto Fiorentino;
- La produzione deve rimanere manifatturiera;
- L’occupazione deve essere la più alta e qualificata possibile.
Forza ragazzi siamo sempre con voi!!!Ps Qualcuno ha visto gli industriali toscani? O saranno, come al solito, dietro ad aeroporti e poli espositivi?
«Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa». il manifesto
, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
In Valnerina è rimasto sotto la macerie anche l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica.
Non si riesce a trovare, almeno nella storia postunitaria, un disastro paragonabile: dopo il 24 agosto non siamo riusciti non dico a puntellare le chiese – e nessuno oggi può dire cosa sarebbe successo se fosse stato fatto –, ma nemmeno ad asportarne le opere mobili: pale d’altare (spesso straordinariamente importanti), sculture, oreficerie, arredi. Mentre il ministro Dario Franceschini farneticava di ‘caschi blu della cultura’, non succedeva assolutamente nulla.
E dopo la terribile scossa del 30 ottobre, ancora nulla: fino a che i sindaci non hanno invocato a gran voce il diritto di fare da soli. È quel che il commissario Vasco Errani ha concesso: tornando indietro di oltre un secolo, è passata l’idea che non ci sia bisogno di tecnici per gestire le emergenze del patrimonio culturale. Come far operare al sindaco un ferito grave, perché l’ambulanza, da giorni, non arriva.
E così oggi ammiriamo le ruspe sui cumuli degli affreschi, e vediamo che sono i carabinieri (peraltro eroici, come sempre) a portar via le opere mutile dalle chiese in rovina. Così: adagiandole sui prati bagnati, senza fare una fotografia, senza mezzi speciali, senza alcun protocollo. Così, come se fossimo non l’Italia – patria della più avanzata tutela del patrimonio –, ma l’ultimo fra i più barbari dei paesi.
Ma com’è possibile che siamo arrivati a questo punto di non ritorno?
È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. […] Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto».
Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze cosiddette ‘olistiche’, la disarticolazione degli archivi delle vecchie soprintendenze, il rimescolamento deliberato di un personale che oggi si trova a tutelare un territorio che gli è ignoto, il dirottamento di tutti i fondi sui «grandi attrattori turistici», lo sbilanciamento estremo verso la valorizzazione (con il tentativo di introdurre in Costituzione anche il concetto di ‘promozione’, affidandolo alle Regioni), la sottoposizione ai prefetti, il mancato turn over (i 500 che prenderanno servizio nel 2017 non basteranno neanche a rimpiazzare l’ultima ondata di pensionamenti, e in Umbria c’è oggi un solo archeologo!). Tutto questo, unito all’atavica carenza di fondi e di personale, ha condotto al disastro che è sotto gli occhi di tutti.
Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa. Ma in questo caso c’è stato un imprevisto: il terremoto, che ha svelato troppo presto che il sistema della tutela, semplicemente, non esiste più. Passata l’emergenza, d’altra parte, si farà leva anche su questo tragico tornante: e si dirà che se i sindaci sono stati capaci di gestire l’emergenza, allora potranno a maggior ragione governare la tutela ordinaria. E così finalmente si potranno chiudere le soprintendenze.
La testa di Sandro Bondi rotolò per un danno infinitamente meno grave di quello ora provocato dalle scelte scellerate di Dario Franceschini: ma quest’ultimo gode di una vastissima indulgenza mediatica, dovuta al fatto che, controllando ancora i gruppi parlamentari del Pd, viene considerato una riserva strategica per il dopo 4 dicembre, comunque vada. Dovremmo, tuttavia, ricordarci, con Voltaire, che «i particolari e i congegni della politica cadono nell'oblio, ma le buone leggi, le istituzioni e i monumenti prodotti dalle scienze e dalle arti sempre sussistono».
Ebbene, se vogliamo che il nostro patrimonio culturale abbia qualche speranza di sussitere ancora, è vitale e urgente cambiare ministro, e cambiare politica. Anche su questo si vota, il 4 dicembre.

Il Fatto Quotidiano online, 23 novembre 2016 (p.d.)
Ci sono 4.764.900 euro che il Gabinetto del ministro ha stanziato per le “Attività volte a garantire il conseguimento delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo”. Poco di più di 36,2 milioni di euro vanno ai lavori pubblici, quasi 12,3 milioni di euro per la tutela dei beni archeologici e poco più di 175mila euro per la sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura. Le cifre sono quelle del bilancio del Mibact per il 2016. Appena approvato dal Consiglio superiore dei beni culturali. A poco più di un mese e mezzo dal nuovo anno.
“Il bilancio della cultura, tornato nel 2016 per la prima volta dopo otto anni sopra i due miliardi di euro, è il cuore e l’anima della manovra economica del Governo. La fine della lunga stagione dei tagli é segnalata dalla crescita del 27% delle risorse del Mibact, con nuovi fondi per la tutela del patrimonio e i grandi progetti culturali. La programmazione del fondo per la tutela ha assegnato 300 milioni di euro a interventi di restauro e messa in sicurezza dei musei nel triennio 2016-2018”. Il resoconto di “Due anni di Franceschini” pubblicato sul portale del Mibact nel febbraio 2016 riempie il cuore. “La stagione dei tagli è finita”, ha dichiarato a settembre il Ministro in visita in Sicilia. Eppure a leggere le cifre del bilancio 2016 qualche dubbio resta.
La salvaguardia del patrimonio storico-archeologico colpito dal sisma è tema d’attualità. Modalità, tempi e risorse impegnate sono sotto la lente d’ingrandimento. Tra i numeri del Segretariato Generale ecco la cifra “Per il coordinamento e monitoraggio ai fini della sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura”. Per il 2016 disponibili 175.020 euro. Cifra che peraltro si prevede di assottigliare a 162.275 nel 2017 fino a 160.744 nel 2018.
Non va meglio analizzando i dati della Direzione Generale archeologia belle arti e paesaggio. Per la “Attività di tutela paesaggistica sul territorio nazionale” previsti 28.849.395 euro. Tanto in confronto alle “Attività in materia di tutela dei beni archeologici”, capitolo per il quale ci sono 12.276.383 euro. Molto meno rispetto ai 36.182.135 euro a disposizione della “Tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio”. Cifre che vanno suddivise per le diverse Soprintendenze del territorio nazionale. Comprese quelle, ad esempio, della Campania e del Lazio, nelle quali si concentrano un numero tutt’altro che modesto di aree archeologiche e di immobili di riconosciuto interesse. Naturalmente é contemplata anche la “Attività di tutela nel territorio di competenza in materia di concessioni di scavo”, per cui sono stati predisposti 4.409.961 euro.
Un capitolo a parte meritano i lavori pubblici. Per l’archeologia ci sono 7.595.018 euro, disponibili per una vasta gamma di interventi. Passando agli stanziamenti regionali, per il Lazio 2.431.500, per la Campania addirittura di meno, 607.500 euro. Seicentosettemilaecinquecento euro per l’anfiteatro romano di Nola, il Museo e la Villa romana di Sala Consilina, i siti archeologici del territorio casertano, le aree archeologiche e Palazzo Reale di Napoli, oltre all’anfiteatro romano di Avella. Tutto il resto escluso da finanziamenti! In coda l’Abruzzo, con 94.854 euro.
Passando al settore Belle arti, figurano 13.207.234 euro. Qui il Piemonte ha avuto 2.320.000 euro ma, ad esempio, la Toscana delle Ville medicee 1.144.275 euro. L’Umbria e le Marche, regioni dal patrimonio storico-artistico più che cospicuo, rispettivamente, 250.000 e 257.000 euro.
Per il settore Poli museali non autonomi, stanziati 6.477.953 euro. Per gli Istituti a disposizione 1.483.279 euro. Gli archivi beneficeranno di 4.870.331 euro. Infine, per le biblioteche ci sono 2.656.311 euro.
Così nel complesso risulta che lo stanziamento dei lavori pubblici per il 2016 ammonta a 36.290.126 euro, mentre la richiesta, presente nella programmazione provvisoria, era di 80.040.898 euro. Insomma per l’anno in corso per i lavori pubblici si registra un divario di 43.750.771 euro. Non uno scarto esiguo, considerando che le richieste delle diverse Soprintendenze già sono “al ribasso”.
Nel 2015 la somma complessiva era stata di 35.287.163 euro, nel 2014 di 41.537.783 euro, nel 2013, di 47.777.663 euro. Numeri che tradotti in percentuale significano circa un 3% in più per l’anno in corso rispetto al precedente, ma circa un 13% in meno rispetto al 2014 e oltre il 24% in meno nei confronti del 2013.
Mancano ancora numeri importanti, quelli relativi ai 20 musei autonomi. Ma da quel che si può apprezzare, nonostante il leggerissimo incremento delle risorse, sembra non possa dirsi realmente invertito il trend degli ultimi anni. “Le pietre di cui sono fatti i Beni culturali ci ricordano le fatiche e la sapienza che sono servite per realizzarle. Abbiamo il dovere di tutelarle” ha detto Franceschini il 31 luglio 2015 all’Expo di Milano, di fronte alle delegazioni dei ministri della Cultura di tutto il mondo. Sarà molto difficile rispettare l’impegno con le risorse a disposizione.
«Roma. Divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente,mentre i cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile; Serve una grande coalizione culturale per salvarla dal degrado». La Repubblica, 23 novembre 2016 (c.m.c.)
Roma, per antonomasia la “Città Eterna”, rischia oggi di disfarsi sotto la spinta di fenomeni diversi ma convergenti: il traffico, la sporcizia, la crisi dei trasporti, l’inadeguatezza dei servizi, la mancanza di un chiaro indirizzo pubblico. Affrontarli tutti insieme sarebbe probabilmente più giusto, ma ci farebbe correre il rischio della genericità e dell’approssimazione. Preferisco fermarmi su quello che rischia, anche se forse non del tutto a ragione, di apparire il più evidente di tutti: il degrado del decoro urbano, l’aggressione commerciale ai suoi aspetti monumentali più straordinari, la dissoluzione e lo spopolamento dei vecchi quartieri storici.
In questo senso non basta parlare semplicemente di degrado. È, invece, come se Roma fosse letteralmente divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente. Non c’è più né limite né freno all’invasione (le altre “città d’arte” italiane, per esempio Venezia e Firenze, condividono in pieno questo destino).
Locali per la refezione e il dissetamento, per il commercio e lo svago, fioriscono dappertutto; le strade e le piazze, anche le più famose, sono invase da tavolini, sedioline, fioriere, sbarramenti cementizi abusivi di ogni genere; al di fuori dei negozi di oggetti religiosi o di gadget, l’esposizione delle merci annulla ogni possibile idea di “decoro urbano”. I vecchi cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile.
Questo è ormai del tutto evidente e riconosciuto. Quello che invece meriterebbe che cominciassimo a dire e sottolineare, è che non c’è risposta. Non c’è risposta pubblica, non c’è risposta istituzionale, non c’è risposta politica. Non c’è, per dirla con un termine un po’ logorato dall’uso, strategia: solo chiacchiere a vuoto. Faccio l’esempio che di questi tempi risulta ai miei occhi più clamoroso, e che, come capita, mi sta di più sotto gli occhi: ma che, contemporaneamente, presenta anche un’evidenza generale addirittura solare. Quello dell’apertura di un locale fast food, precisamente un McDonald’s, nella zona di Borgo e di San Pietro.
Si tratta di un locale gigantesco (538 metri quadri), destinato a rimanere aperto dall’inizio del giorno fino a notte fonda, nel cuore del rione Borgo, vicinissimo al Vaticano e a San Pietro. Per dare, a chi non ne ha esperienza alcuna, consistenza visiva alle mie affermazioni, ho percorso lento pede le distanze che lo separano da alcuni luoghi eminenti della cristianità. Solo settantadue dei miei passi separano il fast food dalla porta di Sant’Anna, il valico più consistente e prestigioso che attraverso le Mura Vaticane immette nella Città Santa. Sull’altro versante, il locale dà direttamente su piazza della Città Leonina, e quindi a venti passi dal leggendario Passetto di Borgo: e, appena un poco più avanti, a cinquanta dal colonnato di San Pietro (sì, quello del Bernini).
È nel pieno centro del rione Borgo: è destinato a snaturarlo definitivamente nella sua prestigiosa identità storica, oltre che a mandare in rovina i numerosi ristoratori tradizionali della zona, spesso presenti lì da decenni. I locali sono affittati a McDonald’s dall’Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica presieduta dal cardinale Domenico Calcagno.
Ci sono state anche in questo caso lamentazioni e proteste. Ma anche in questo caso nessuna risposta. Il I Municipio, che ha concesso la licenza, tace e sta a guardare. Il Comune dichiara che la responsabilità è del I Municipio. Il Ministro dei Beni Culturali, Franceschini, spiega che la cosa non lo riguarda. Tace perfino l’Unesco, sotto la cui giurisdizione cade tutto il centro storico di Roma. Ma soprattutto non c’è un politico, un uomo o una donna delle istituzioni, insomma, uno o una che sta lì perché eletto o eletta da noi, che apra la bocca per dire: sì, avete ragione; no, non avete ragione; avete ragione solo in parte, vediamo ora cosa si può fare.
L’unico luogo istituzionale dove s’è avvertito un fremito è stato il Vaticano. L’ha documentato efficacemente questo giornale, presentando affiancate le interviste al cardinale Elio Sgreccia e al cardinale Calcagno, presidente dell’Apsa.
Uno scontro di tale portata fra eminenti personaggi della Chiesa, non si vedeva dai tempi del Concilio di Nicea (il primo, intendo, quello del 325 d.C.). Sgreccia vi rappresenta le posizioni trinitarie, ossia la “consustanziazione” del Figlio col Padre, che apre le porte a una visione autenticamente cristiana del mondo. I valori del cardinal Sgreccia possono essere talvolta discutibili, ma fuor di dubbio sono valori: «Non basta pensare solo agli affari e ignorare la natura finale delle attività che si vanno ad aggiungere al contesto. Ripeto, la megapanineria a Borgo Pio è un obbrobrio…».
Il cardinal Calcagno interpreta invece piuttosto la parte dell’ariano che, riducendo la natura divina solo al Padre, gli attribuisce un potere illimitato e indiscutibile. In questa chiave l’unica legge a dominare, dal punto di vista del potere, è quella vetero-capitalistica della domanda e dell’offerta, e cioè l’”affare”. Inequivocabili le sue affermazioni: «C’è stata una trattativa per l’affitto. Gli Uffici tecnici dell’Apsa hanno ritenuto congrua e giusta l’offerta dei dirigenti dell’azienda americana e l’accordo è stato stipulato. Non vedo lo scandalo».
Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che anche in questo caso dall’Empireo vaticano sia calato sulla vicenda il più impenetrabile dei silenzi. Dunque, non c’è nessuno neanche in Vaticano che possa autorevolmente decidere se, quando un “affare” può essere ragionevolmente definito un “obbrobrio”, è il caso di intervenire ad esaminare ed eventualmente correggere l’errore?
Torno, per concludere, alle considerazione di ordine generale. A Roma, la “Città Eterna”, “Caput Mundi”, ci sono migliaia di situazioni come questa. I poteri pubblici hanno dimostrato di volta in volta o impotenza o connivenza. Il Vaticano, quando è toccato a lui, non si è comportato molto diversamente. La politica non se n’è accorta, ma chi va ancora tra la gente comune può dire tranquillamente questo: si sta manifestando un’ondata crescente di scontentezza e di rabbia, che ormai va al di là della fenomenologia grillina, sempre più avvertita anch’essa come perfettamente istituzionalizzata e partecipe del potere (e cioè: «anche i grillini sono come tutti gli altri»).
Se le cose stanno così, Roma da sola non può farcela. Solo un’inedita (e inaudita) alleanza fra Enti locali, Stato e Regione potrebbe garantirle la forza necessaria per uscire dal gorgo in cui sta rapidamente sprofondando. E fra loro anche il Vaticano? Sì, anche il Vaticano. Per esempio, decidere insieme quando e come inondare la città di milioni di pellegrini. Ma il Vaticano è una potenza universale, come fa a mettersi d’accordo con il Comune di Roma e il Governo del paese per decidere e regolare avvenimenti del genere? Sì, il Vaticano è una potenza universale ma contemporaneamente è un Rione di Roma, un suo quartiere privilegiato, e condivide la vita e il destino della città.
La sua millenaria vicenda si è sempre basata su una duplicità operosa di tale natura. Per questo può essere inserito in una storica alleanza a favore di Roma: a patto, naturalmente, che ne rispetti le regole e gli interessi. Anche dei suoi cittadini, s’intende.
«Gli effetti dell' ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria». ArcipelagoMilano online,15 novembre 2016 (m.c.g.)
Per la serie delle cose fatte a metà, le Province sono state abolite ma non troppo. Con la “legge Delrio” se ne è eliminata l’elezione diretta e ridotti risorse e personale. Inalterata invece la permanenza di quelle nate per recente duplicazione con l’effetto di mantenerle in vita anche se piccole deboli e screditate.
In verità il governo Monti cercò invano di riaccorparle con decreto-legge, purtroppo col risultato non casuale di cadere proprio l’ultimo giorno utile per la relativa conversione. Vedi ora il caso della provincia di Lecco, presunta corresponsabile del disastro del ponte crollato sulla superstrada 36 Milano-Valtellina e interprete del più classico scaricabarile burocratico, ma pure vittima di un’ambiguità del sistema di governo locale e intermedio.
Intanto il ministro Delrio, che nel frattempo ha cambiato mansione, naturalmente apre un’inchiesta. Ma sarebbe opportuno che indagasse pure sul pasticcio istituzionale di cui è il principale responsabile in quanto ministro proto-renziano del governo Letta, forzato – sotto la minaccia “populista” dell’esito elettorale 2013 – ad abolirle perlomeno dalla imminente scheda elettorale 2014. Pasticcio peraltro destinato ad aggravarsi nel caso del Si alla modifica costituzionale del Titolo V tra province cancellate e “città metropolitane” fittizie mantenute.
Se dunque, sul punto del fatto, non si vede la differenza tra competenze residue delle ex-province cancellate dal ruolo costituzionale ed ex-province mantenute con l’escamotage di promuoverle nominalmente a “città metropolitane”, sul punto del diritto cambierebbe la natura della cittadinanza tra “provinciali” e “metropolitani” col paradosso che – a parità di elezione indiretta dei rispettivi Consigli – i primi possono comunque eleggere il proprio Presidente mente i secondi devono accettare il Sindaco del capoluogo “di diritto” metropolitano.
Paradossale dunque anche il combinato disposto tra eventuale nuovo Titolo V e legge 56/14 per quanto assai sottovalutato nella pur accesa e prolungata campagna referendaria, a differenza dell’altro “combinato” divenuto celebre grazie all’intreccio con la legge elettorale nazionale. Tuttavia gli effetti di tale presente e futura ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono ancora risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria.
Intanto il 26 ottobre si è tenuta la seduta inaugurale del nuovo Consiglio metropolitano milanese con la prolusione del sindaco Sala che, al netto di auguri auspici ringraziamenti e buoni sentimenti, ha fatto un fugace riferimento alla governance, ovvero il cuore della questione («dobbiamo chiederci se la costituzione lenta e complessa della nuova struttura amministrativa e di governo chiamata Città metropolitana di Milano abbia un senso»), con due enunciati che meritano qualche riflessione. Una: «i soggetti costitutivi la città metropolitana vanno connessi non annessi». L’altra: occorre evitare che «enti dotati di competenze generali si sovrappongano gerarchicamente come in una matrioska».
Il primo in senso orizzontale: «Milano è il cuore di un arcipelago» composto da città e comuni come «isole autonome e radicate» appunto da connettere. Interessante il riferimento al termine “arcipelago” che ha una doppia etimologia: mare principale e, trattandosi per antonomasia dell’Egeo, aggregato di isole. (Tra parentesi tale appropriata definizione consente a questa rivista di riversare settimanalmente opinioni e riflessioni, studi e proposte nel mare aperto di una variegata sinistra senza soffocare le eventuali idee e ragioni appunto “isolate”).
Il secondo in senso verticale: evitare la sovrapposizione di poteri paralleli che, se non regolati da una sano principio di sussidiarietà ascendente, genera conflitti di competenza, duplicazioni e sprechi, rimpalli di responsabilità come appunto ancora nel caso del disgraziato ponte crollato.
Su questi temi decisivi si è scritto ampiamente e ripetutamente su ArcipelagoMilano e si dovrà tornare con una discussione seria e critica se si vorrà evitare che il secondo mandato del Consiglio metropolitano ripeta la abulica esperienza del primo, contrassegnata dalla svogliata reggenza di Giuliano Pisapia, che ha relegato una potenziale forma di governo moderna ed europea nella condizione di sostanziale irrilevanza politica e istituzionale (al punto che l’attuale Sindaco si chieda se “abbia un senso”!).
Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente ... (segue)
Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente sia per rivolgimento della composizione sociale: gli operai residenti (e gli assimilati), ancora oltre il 40% degli attivi al censimento del 1971 (esisteva anche una massa di 430.000 addetti industriali - segno di una forte domanda verso l’esterno), man mano spariranno, come sparirà l’industria per pura abolizione o per delocalizzazione (i due fenomeni - il sociale e l’economico - non erano direttamente collegati, valse forse di più il disinteresse dei governi locali verso il bisogno di case popolari). I lavoratori milanesi imprimevano alla città un marchio di classe, a suo tempo un’antinomia alla borghesia produttrice, classe dominante che si avvierà ben presto a tradire se stessa abbandonando la produzione, dedicandosi invece ai giochi finanziari valutari e borsistici e alla speculazione fondiaria e edilizia.
Quando le Mani sporche, con l’avanzare degli anni Ottanta, dispiegheranno in pieno la loro potenza corruttiva nella politica, negli affari, nell’urbanistica, nell’edilizia e si approprieranno delle risorse milanesi, il fronte minoritario di difesa dei valori civili e urbani non potrà che arretrare su posizioni poco esposte al pericolo, com’era nelle seconde e terze linee di trincea nella Guerra mondiale. Così il craxismo, diserzione irreversibile dal socialismo riformatore, integrando a sé anche parti corrotte o corruttibili del Partito comunista, potette mescolare al latrocinio prima l’immagine poi una falsificata realtà di città redistributiva del benessere, gaudente, festaiola, all’usanza di un’epoca come di Ballo Excelsior.
Lo slogan «Amaro Ramazzotti Milano da bere» perdette l’amaro e il titolo. Rimase «Milano da bere», logotipo della nuova ditta craxiana che ci invitava ad ubriacarci. Intanto il salasso di popolazione continuava, la vecchia linfa del confronto-scontro fra produttori rinsecchiva, a bere la città era un ceto incorporeo emerso dalla crisi delle classi e man mano uniformatosi mediante l’adattamento ai batteri della corruzione. Stava ancora dietro l’orizzonte verso la Spagna una movida estesa e irruenta (cose di giovani…). Era la moda-donna, sfilate e modelle, atelier e saloni a creare occasioni e grilli d’esserci. Quando la festa toccherà il culmine sarà Mani pulite, ossia l’azione della Procura milanese a tentare di sgombrare la sporcizia. Ci riuscirà in una certa misura e fino a un certo momento, quando il «sistema» le scatenerà addosso una furiosa ritorsione: per insegnare che il nostro paese non avrebbe potuto liberarsi mai dei tumori che lo infettano da sempre. Lo si vedrà, a Milano, con l’avvento o l’espansione di altri tipi di criminalità (mafia e ‘ndrangheta) anche nella moderna allegrezza dell’Expo e dell’oggi.
Il periodo del passaggio alla stagione di apparenza primaverile con le amministrazioni di centrosinistra, dopo un intermezzo autunnale (1993-97) in cui la conquista della poltrona a sindaco (Marco Formentini) fu per la Lega Nord il distintivo svanito di una diversità di breve durata, avvenne attraverso berlusconiani governi di centrodestra. Furono questi, prima e principalmente col sindaco Gabriele Albertini (due tornate), poi con Letizia Brichetto Moratti (una sola, sufficiente a ottenere l’Esposizione in una risibile gara con Smirne) a stamburare la grandezza e la bellezza di nuove urbanistiche, nuove edilizie e architetture anche quando fossero l’inverso: mancanza di pianificazione (p. es. un grande quartiere alla Bicocca fuori di piani generali, sulle ceneri di una delle più importanti industrie milanesi) o clamorose violenze all’unità degli spazi e delle cortine architettoniche. Violenze del resto già abbozzate da assessori delle giunte di sinistra. Con questi cominciarono in sordina, con gli altri furono inarrestabili, con l’avvento del centrosinistra proseguirono:
1) il massacro di piazze, viali, giardini…, in ogni caso luoghi quasi sempre alberati, per realizzare garage sotterranei multipiano nel centro urbano. L’intensificazione poi, non solo abolirà centinaia di spazi pubblici, ma funzionerà da calamita attirando più automobili verso quel centro da cui si sarebbe voluto (dovuto) tenerle lontane mediante un pedaggio d’ingresso (sindaco Moratti, 2008 con l’Ecopass, confermato dal centrosinistra);
2) la concessione di migliaia di interventi «fuor di senno» per il «ricupero abitativo dei sottotetti» (anche quando finti) in ogni tipo di case, compresi, come in un’accelerazione accecata, fior di palazzi del neoclassicismo, dell’eclettismo, del Liberty, del Novecento; addirittura approdata, elusa qualsiasi attinenza con la normativa originaria, dapprima a un incredibile «ricupero di sottotetto» in costruzioni con la copertura piatta, dopo, sbracandosi i controllori della giustezza e bellezza di tanti posti da me creduti fissi nella storia urbana, a innaturali stridenti sopralzi spesso non di un solo piano. Che tuttavia non basteranno a soddisfare le aspettative di proprietari e impresari per più forti guadagni. Ci penserà una strana, demenziale provvidenza, non ricordo quando varata ma in voga col centrosinistra: il «ricupero in altezza delle superfici lorde di piano (slp)», di sotterranei, piani terra e via a elencare nel «basso» da proiettare in «alto», scontando l’aleatorietà dei calcoli dunque la certezza degli abusi nel passaggio dallo stato esistente a quello sviluppato in altezza per un numero variabile di piani.

Il 10 dicembre 2003 (tredici anni fa!) apparve in eddyburg, poi in una raccolta della Libreria Clup, Parole in rete, 2005, un primo articolo di cui basta citare il titolo, La distruzione della linea del cielo milanese, per comprendere quali effetti perversi avesse già provocato l’applicazione della «legge dei sottotetti». Stime davano per sicuri 4.500 casi nel 2002-2003 cui se ne dovevano aggiungere diverse migliaia precedenti o in via di attuazione. Durante gli anni successivi tale maniera di costruire la città si moltiplicò secondo una funzione pressoché esponenziale (e altri articoli non mancarono di contestarlo) fino a saldarsi con la nuova fase delle concessioni ingiustificate a sopralzare di x piani a prescindere dai sottotetti e, peggio, come introdotto sopra, ad applicare l’utilizzo spropositato e incontrollato delle slp: persino dieci e più piani inventati da preesistenza zero, se così posso esprimermi. L’immagine a fianco (fotografia di Sergio Brenna) rappresenta il «ricupero in altezza della slp sotterranea di precedenti officine» (dizione regolamentare). Sorprende (per modo di dire…) che nessuno, appartenente a qualunque grado amministrativo, regionale o comunale, e nemmeno gli ordini professionali abbiano mai preteso la secca cancellazione dell’anomalia.
La città sembrava non aver ancora esaurito la riserva di furore distruttivo dei suoi caratteri d’elezione. Eppure quell’incessante distorsione dell’operare a regola d’arte sarebbe bastato per giudicare perduta in buona parte la conservazione del patrimonio in case e palazzi ben definiti nella conformazione da terra a cielo e capaci nell’insieme di dar lezione di architettura urbana. Invece un altro fronte d’attacco si mise in moto col centrodestra del sindaco Albertini accompagnato da un assessore, ingegner Gianni Verga, proprio lui già promotore in veste di amministratore regionale della «legge dei sottotetti». Cominciava l’epoca delle «Nuove Milano», in aree svuotate da edifici non più utilizzati per scelta immotivata (ex Fiera, sostituita dal nuovo insediamento ai margini occidentali della città) o in vaste parti scomposte del territorio comunale prima oggetto di concorsi urbanistico-architettonici, poi gettate nel secchio di impari accordi del municipio con potenti immobiliaristi, non essendo disponibile il primo ad affermarsi come autore almeno di piani di indirizzo se non, come sarebbe stato d’obbligo, di piani particolareggiati di attuazione (viale della Liberazione (Varesine), Porta nuova, Isola, Garibaldi, Repubblica… et al.).
Nel verso di un allineamento del governo locale al più sregolato neoliberismo mondiale, sindaci, assessori, giornali e giornalisti embedded, architetti e urbanisti, quelli condizionati da relazioni professionali costrittive, ordini professionali: complici l’analfabetismo di numerosi cittadini (comprensibile) e di qualche associazione (inaccettabile), anche «un analfabetismo diffuso sui rapporti che intercorrono fra habitat e convivenza civile» (G. Consonni, Habitat e condizione umana, in Id., Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, Chieti 2016, p. 63), quei dotti si misero a cantare la bellezza di inediti insediamenti edilizi: soprattutto dell’avvento, finalmente anche qui (trascurando qualche precedente discordante), della «forma» grattacielo indice di internazionalismo e relativa «attrattività» (ah… ah…). Cruda forma, appunto, quanto più inusitata, in-architettonica, stravagante, mattacchiona, storpiata negatrice della nitida drittezza statica. Destinazione d’uso? Chissà, l’interno avrebbe potuto essere vuoto o pieno di m…. nessuno se lo sarebbe chiesto; non sarebbe cambiato nulla. L’essenziale oggigiorno risiede in un mercato futuribile in cui la rendita fondiaria-edilizia si riproduce anche negli oggetti abbandonati. Il modello? Nel Medioriente, qualsiasi Dubai dei sette emirati o città nuove saudite; nel mondo, qualsiasi Kuala Lumpur o Bangkok o Shanghai o Manila o Rio o Buffalo o Johannesburg…
Un’omologazione che dà ragione allo psicoterapeuta James Hillman, al cui pensiero critico ricorro non per la prima volta. Siamo inconsci della bellezza, siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi, sicché vince la bruttezza titanica, la nostra vera nemica che colpisce gli occhi, gli orecchi, altre parti del corpo. Le persone dotate di sensitività improntata al principio di selezione sono le sole che, provando profonda rabbia dinnanzi allo spettacolo dis-umano, riescono a captare gli echi del mondo che danno al nostro corpo e al nostro spirito informazioni su come essere, su cosa accettare e cosa detestare (cfr. Politica della bellezza, Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 64-67 ). Altro che giudizi, falsati da condizionamenti consci o inconsci, sulla base di «mi piace/non mi piace”, o “può piacere o non piacere” (famosa ex assessora all’urbanistica Ada Lucia De Cesaris), o «è bello ciò che piace» o, e basti, «è questione di gusti».
Le prime manifestazioni di arroganza verso i contestatori delle novità architettoniche (meglio dire, in diminuendo, edilizie) incentrate sull’erezione di grattacieli quanto più insensati per essere spettacolari e vantati dalle amministrazioni comunali quale segno di modernizzazione e primato, risalgono al Comune di centrodestra oltre dieci anni fa. Era appena all’inizio l’edificazione sull’area dell’ex Fiera campionaria, «enorme processo di riqualificazione» secondo il sindaco Albertini (intervista al Corriere della Sera, 20 aprile 2006), conosciuto per aver paragonato la guida di una grande città all’amministrazione di un condominio. Per la verità, ampliò i propri richiami culturali definendo i progettisti dei tre grattacieli, Hadid, Isozaki e Lebeskind, legati al gruppo di imprese aggiudicatario degli appalti, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», e l’asfittico verde, previsto in ritaglio fra i tre colossi circondati da densi e alti gruppi residenziali, «nostro Central Park»: come se non sapesse che il parco newyorkese misura quattro milioni di metri quadrati e l’intera nuda superficie dell’ex-Fiera 255.000 mq. Nella realizzazione lo spazio avrebbe potuto essere riorganizzato rispetto al progetto giacché il grattacielo di Lebeskind non sarebbe stato costruito subito. Al contrario…
«Siamo stati a City Life: vale il viaggio. Una landa desolata con tanto di cratere (in cui è stato sprofondato un campo da golf), due nuclei (gated communities camuffate) che catturano larga parte del verde residuo ecc. ecc. dove si dimostra come si possa fare cippirimerlo agli standard e mandare in soffitta il disegno urbano. Il tutto mentre gli osanna dei media non cessano: un vero fuoco di sbarramento», lettera di Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, 21 ottobre 2016.
Gli osanna traboccano da City Life agli altri luoghi della Nuova Milano (vedi sopra) tutti coinvolti in un trionfale e stupefacente disordine urbanistico procedente verso quell’esclusiva stravolta immanenza dei tipi-forme-grattacielo che ho descritto. Gli architetti internazionalisti propensi soprattutto a esaltare se stessi sono «naturalmente» estranei alla nozione di contesto, insegna della scuola di architettura milanese; non gl’importa niente del retaggio sentito vividamente dai cittadini più anziani, il carattere peculiare delle loro opere è l’indifferenza, garantito complice della bruttezza. Per parte loro i media sembrano impediti a percepire la realtà da qualche imperscrutabile intoppo interno, come un groppo nelle viscere umane.
Scrivono di meraviglie della falsa «piazza», qatarina al 100 per cento, intitolata a Gae Aulenti e offendono l’autentica bellezza delle piazze che l’Italia può ancora esibire. Decantano il risanamento del «fangoso» parco dei divertimenti nell’area delle ex-Varesine, ma non immaginano che percorrendo viale della Liberazione in auto (impossibile a piedi!) chi detiene un pizzico di discernimento resta tramortito dalla visione di una caos a doppia faccia, la disposizione a caso degli edifici e, di questi, gli spropositi, i pasticci «architettonici» (virgolette necessarie). Dicono di respiro internazionale alitante all’ombra dei più alti grattacieli e ignorano che ora a Milano respirano a grandi boccate mafie e ‘ndranghete penetrate con capitali ripuliti nella finanza, nel commercio, nei cantieri; e tengono a latere le notizie sulla corruzione ritrovata persino negli appalti e subappalti dell’Expo creduta illibata. Inneggiano all’aumento dei turisti e non vedono che il turismo, qui, è del tipo che Carla Ravaioli definiva «inquinante», all’opposto di una prospettiva sociale e culturale (Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005). Il campo di coltura è la vendita di abbigliamento (moda italiana d’altronde omogenea alla forma mondiale), con le concatenazioni richieste da soggiorni anche brevi (hotel, ristoranti-bar-pizzerie…).
La conoscenza dei monumenti e delle opere d’arte, al di là del confine di Piazza Duomo con la cattedrale, spetta solo a piccoli gruppi preparati. La Curia poi, è entrata in pieno con Santa Maria Nascente e dintorni nel circuito commerciale più retrivo, è penoso constatarlo ogni giorno: non solo perché l’ingresso alla chiesa si paghi ma per l’effettiva vendita delle solite cose desiderate dal consumatore conglobato, dentro un ampio negozio ligneo (dovrebbe imitare i barconi che trasportavano il marmo di Candoglia al piede della costruzione) appiccicato alla fiancata di sinistra.
Conclusione. «Fuoco di sbarramento» contro le critiche concentrate sulle Nuove Milano, giacché è su queste che gravita il trionfalismo del Comune e dei media: tuttavia qualche divergenza passa sulla stampa, per lo più enunciata da architetti indipendenti (p. es. Corriere della Sera 21 ottobre, idem 24 ottobre 2016). L’ultima risposta di chi non vuole cambiare idea è però una specie di offerta per un compromesso metaforico, basato sul gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Prima (si intende la città piatta, inerte, forse triste) vedevamo la metà vuota del bicchiere, c’era poco o niente di cui rallegrarsi, ora siamo invitati a vedere quella piena e c’è molto da festeggiare. È ritornata la «Milano da bere».
Un'anticipazione della renziana de-forma costituzionale. «L’affermazione del sindaco NO TAR, che denuncia l’insofferenza del potere politico amministrativo nei confronti della magistratura, si pone fuori da ogni cornice democratica». Perunaltracitta.org, 14 novembre 2016
Proprio poche ore prima che la sentenza di annullamento da parte del TAR dell’Autorizzazione Unica Ambientale (AUA) per l’inceneritore di Firenze fosse resa nota, il sindaco Dario Nardella invocava una «moratoria sui ricorsi al TAR» e il loro «congelamento».
L’affermazione di Nardella al Consiglio generale della Cisl si inquadra nella complessa vicenda della Piana fiorentina che vede l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze – fortemente voluto da Renzi e oggi fermo al Ministero per la VIA – interferire anche con la realizzazione dell’inceneritore a Sesto Fiorentino. I due progetti, che insistono su terreni contigui, sono incompatibili per almeno due motivi tecnici: l’altezza delle torridell’impianto di incenerimento prospicienti la pista, e il Bosco della Pianache parzialmente ricadrebbe nell’area interessata dalla costruzione del nuovo aeroporto. Proprio il bosco di 24.000 alberi costituiva l’opera di compensazione dell’inceneritore che (non attuata) ha determinato l’annullamento del procedimento. Su entrambi i progetti pendono ricorsi al tribunale amministrativo; in quello contro l’inceneritore, presentato da comitati ed altre sigle, si sono accodati anche i comuni di Sesto e di Campi Bisenzio.
L’affermazione del sindaco NO TAR, che denuncia l’insofferenza del potere politico amministrativo nei confronti della magistratura, si pone fuori da ogni cornice democratica. «Se la politica delega al TAR le decisioni dei cittadini, è finita», insiste Nardella, che pure dovrebbe sapere che i cittadini si rivolgono al potere giudiziario proprio perché impossibilitati a influire sulle decisioni nelle sedi appropriate, e perché la politica non fa proprie le loro ragioni. In un suo comunicato, la Rete dei comitati per la difesa del territorio incalza il sindaco: «i politici non solo non ascoltano i cittadini, ma neanche rispettano leggi, regole e procedure che dovrebbero, se applicate, tutelare la salute, la sicurezza e la qualità della vita della gente, come sta avvenendo nel caso dell’aeroporto di Firenze o dell’inceneritore di Case Passerini. Ci si aspettava dal sindaco Nardella un solenne impegno di ottemperare a quanto è prescritto dalla legge e la promessa che d’ora in poi la politica non si sarebbe sostituita alla tecnica nel prendere decisioni ad alto rischio per ambiente, paesaggio e benessere della popolazione. Viceversa ciò che Nardella chiede è che nessuno si opponga alle violazioni della legge».
Per ora, a Firenze, il catalogo è questo. Qualora poi entrasse in vigore la cosiddetta “riforma” della Costituzione, il riscritto titolo V rafforzerà in senso centralistico il governo del territorio e la pianificazione delle infrastrutture. Il nuovo assetto dell’articolo 117 ricanalizzerà la potestà legislativa su tali ambiti – oggi esercitata “in concorrenza” tra Stato e Regioni – verso lo Stato medesimo, signore e padrone che non ammetterà opposizione dai territori. Insomma, ancora un motivo, il prossimo 4 dicembre, per votare NO.