Berlusconi e l’ombra lunga dell’abusivismo
di Sandro Roggio
Anni e anni vissuti nell'incredulità di un paese permeato dal berlusconismo. E chissà per quanto tempo resisterà l'onda lunga di un comportamento che è stato assunto, anche a sinistra, come esempio di modernità. Da anni assistiamo, con reazioni inadeguate, alla vicenda dei presunti abusi di Berlusconi nella sua proprietà in Sardegna, con il tira emolla della secretazione di tutto ciò che riguarda quell'area, i lavori svolti e in corso, permotivi di sicurezza che appaio risibili a qualsiasi persona di buon senso. Così nessuno ha potuto vedere le carte, custodite non si sa bene dove, per accertare se sia tutto in regola. Invece tutto è avvolto nella nebulosa dei si dice, cosa che dovrebbe preoccupare l'uomo di stato e scandalizzare l'opinione pubblica che, ci ricordano, spaccata ( anche tra quelli che reclamano legalità e quelli che pensano che si tratti di persecuzione).
L'ultimo atto di questa storia conferma lo stile dell'ex presidente. La realizzazione di un poggio artificiale che completa il quadro delle alterazioni (l'approdo blindato, l'anfiteatro, il finto nuraghe, il lago, i cactus) è quanto di più controindicato per un luogo immodificabile secondo la legge regionale. Un artificio che ha come obiettivo quello di consentire di vedere ilmare dall'alto (difficile per Berlusconi accettare che in prossimità delmare la sua vista sia talvolta preclusa). In altre epoche uomini potenti hanno realizzato artifici notevoli permeravigliare i sudditi. Ma erano altri tempi e la nozione di paesaggio - bene comune che non si può piegare ai capricci degli uomini ricchi, dovrebbe valere oggi soprattutto per i governanti.
Che la Regione voglia fare chiarezza è importante, e poco conta che i Forestali sardi siano per Berlusconi «ispettori della sinistra». Ma si diceva dell'onda del berlusconismo sprezzante delle regole. Che è arrivata a degradare il senso comune (in quanto a illeciti edilizi c'è una certa propensione). Così ad Alghero, porta del turismo a nord dell'isola, ecco una lottizzazione abusiva nei pressi di un parco naturale; a pochi metri dall'abitato, scoperta «per caso» da una pattuglia di vigili urbani. Tante case disposte su quote elevate per vedere ilmare, dicono con stupore le cronache.
Ma c'è già chi trova giustificazioni per questi reati che in altri paesi neppure si conoscono. Per questo, per provare a fermarla quell'onda che rischia di travolgere ogni cosa, bisogna valorizzare le notizie buone. Come la tassa sul lusso voluta da Soru. O come quella che riguarda la spiaggia di Is aruttas, un ambiente che il sindaco di Cabras, sempre in Sardegna, vuole preservare dall'impatto. Indicando le precauzioni: addirittura il tipo di scarpe ai 300 visitatori autorizzati giorno per giorno, per evitare di portare via poco a poco la sabbia quarzosa. Meglio scalzi, e con divieto di fumo, come si va nei luoghi di pregio e di tutti.
Regole - orrore per Berlusconi ! - che valgono per tutti, per figli di operai e figli di professionisti.
I lavori di Villa Certosa autorizzati dal sindaco
di Costantino Cossu,
Sei ulivi secolari importati dalla Spagna piantati sulla sommità di una collinetta a circondare una panchina dalla quale si domina tutto il Golfo di Marinella, uno dei luoghi più belli della Costa Smeralda. E’ l’ultimaimpresa di Silvio Berlusconi aVilla Certosa. L’ennesimo abuso edilizio?
No, secondo la polizia giudiziaria alla quale la procura della Repubblica di Tempioha affidato le indagini. Ieri sul tavolo del procuratore Valerio Ciccalò è arrivata una relazione dalla quale emergerebbe la conferma di quanto ha sostenuto fin dall’inizio l’avvocato del cavaliere, Niccolò Ghedini: gli ultimi lavori nella casa estiva di Berlusconi, a Porto Rotondo, sarebbero stati eseguiti dietro regolare autorizzazione.
Il corposo fascicolo contiene fotografie aeree, autorizzazioni, relazioni dei tecnici. Tra queste anche quella rilasciata dall’Ufficio tutela del paesaggio della Regione Sardegna il 12 luglio 2005, che parla di opere che s’inserisconoperfettamente nel contesto naturale, e quella rilasciata dall’ufficio tecnico del comune di Olbia il 18 gennaio di quest’anno, che autorizzava la sistemazione esterna con pavimento ingranito, e la realizzazione di una serra e una tettoia amovibile in legno. Per i tecnici incaricati dal magistrato il nuovo belvedere di Villa Certosa rientra nella sistemazione esterna della serra, e sarebbe un intervento di riqualificazione e recupero ambientale di un’area degradata. L’8 maggio i dirigenti del Servizio di vigilanza edilizia inviati dall’assessore regionale all’Urbanistica, alcuni ispettori del Corpo di vigilanza ambientale, i tecnici dell’ufficio antiabusi delcomunediOlbia, accompagnati da Ghedini, avevano fatto un sopralluogo all’interno della proprietà intestata dell’Idra Immobiliare, la società cui fanno capo tutte le case del Cavaliere. Ieri la consegna a Ciccalò delle conclusioni raggiunte.
Spetta ora al giudice decidere che fare. Le autorizzazioni sono dunque arrivate da due organi tecnici, uno del comune di Olbia, l’altro della Regione Sardegna. Nel primo caso la cosa non stupisce. Sindaco di Olbia è Settimio Nizzi, uno dei leader sardi di Forza Italia, intimo di Berlusconi (alle ultime elezioni comunali il Cavaliere è venuto a Olbia per fare i comizi insieme con Nizzi). E il comune di Olbianon ha mai vigilato davvero sugli innumerevoli abusi edilizi compiuti dall’ex presidente del Consiglio alla Certosa. Diverso è il discorso per l’autorizzazione rilasciata dall’Ufficio tutela del paesaggio della Regione il 12 luglio 2005. Gli assessori regionali all’Ambiente e all’Urbanistica ne sapevano niente?E ilpresidente Renato Soru ne era informato? La Regione ha mandato i propri ispettori a Villa Certosa, e ora si scopre che un’organo tecnico che dovrebbe essere controllato dalla giunta di centrosinistra aveva autorizzato tutto.
Berlusconi, comunque, continua a restare oggetto delle attenzioni dei magistrati di Tempio. Dopo circa due anni di indagini, quindici giorni fa la procura ha chiuso l’inchiesta sugli abusi edilizi alla Certosa. Nei prossimi giorni potrebbe arrivare il decreto di citazione a giudizio nei confronti dell’amministratore di Idra Immobiliare. Nel mirino della procura ci sono diversi lavori realizzati nella villa: l’anfiteatro, gli impianti sportivi, il giardino di ibiscus, alcune piscine e l’impianto di talassoterapia. Tutto costruito, secondo i magistrati, senza autorizzazioni. Per queste opere l’Idra Immobiliare ha presentato al comune di Olbia richiesta di condono, riconoscendo l’abuso.
VILLASIMIUS. Il nuovo acquedotto della Costa sudorientale non è più una certezza. L’assessorato regionale all’Ambiente ha detto che il mega progetto dovrà essere sottoposto alla Valtuazione d’impatto ambientale se il ministero dirà: "È un’opera autonoma rispetto alla diga di Monte Perdosu sul Flumendosa", come sostiene l’Eaf, che ha finanziato l’acquedotto.
"Si tratta - dice Stefano Deliperi, portavoce del gruppo di Intervento giuridico e degli Amici della Terra di un deciso stop ad un progetto che è sembrava ormai cosa fatta nel silenzio generale". Il progetto costerà sessanta milioni di euro ed è compreso nel primo programma di opere di interesse nazionale (la cosiddetta legge obiettivo) approvato dal Comitato per la programmazione economica. "Il complesso delle opere - sottolinea Stefano Deliperi - appare dal forte impatto ambientale sia durante l’esecuzione che una volta ultimato. Prevede, tra l’altro, alcuni grandi scavi in zone rocciose di grande importanza naturalistica, oppure la costruzione di condotte per settanta chilometri, e ancora dodici grandi serbatoio in calcestruzzo sulle altura lungo la costa tra Muravera e Villasimius in vicinanza del mare. Davvero troppo".
Le due associazioni ecologiste sostengono che parte delle opere ricadono all’interno di aree tutelate e nei siti di importanza comunitaria dei Sette Fratelli e della foce del Flumendosa Sa Praia. "L’acquedotto in progetto - dice Deliperi - non avrà una fonte idrica diretta, in quanto la diga di Monte Perdosu da cui l’acquedotto dovrebbe dipendere, non è stata ancora realizzata e nè finanziata. Quest’opera - conclude Deliperi - potrebbe pertanto non essere mai realizzata viste anche l’opposizione dei comuni del Gerrei e delle popolazioni interessate, e quindi l’acquedotto resterebbe di fatto senz’acqua". Per le due associazioni ecologiste, inoltre, la Regione fa bene a difendere il Flumendosa, che, a causa di troppi sbarramenti, porterebbe alla salinizzazione della falda. La costruzione della condotta potrebbe inoltre causare l’interruzione della circolazione sotterranea della falda e danni gravissimi ai pozzi che sono la fonte potabile del Sarrabus. Durante la crisi idrica che ha colpito la Sardegna alla fine degli anni ’90 e nei primi due anni del 2000, Muravera, San Vito, Villaputzu, Castiadas e loro località turistiche non hanno patito la siccità proprio grazie a quei pozzi oggi in pericolo. "Questo progetto - dice Stefano Deliperi - ha posto e continua a porre moltissimi interrogativi che soltanto il procedimento di valutazione di impatto ambientale potrebbe far considerare nelle dovute prospettive. Tutto dev’essere valutato attentamente, perché tutta la mega struttura potrebbe costare cara alla collettività sul piano ambientale ed economico- sociale". Il Via è stato richiesto anche dal senatore di Rifondazione Francesco Martone, con un’interrogazione al ministro dell’Ambiente presentata alla fine della scorsa legislatura, mentre gli ambientalisti hanno già ricorso alla Commissione Europea.
Nelle polemiche che hanno accompagnato il nuovo museo dell'Ara Pacis (la più scriteriata è quella del candidato a sindaco di Roma Gianni Alemanno, il quale vorrebbe spostare il nuovo edificio in periferia) ciò che rischia di restare nell'ombra è proprio l'altare decretato dal Senato di Roma nel 13 a.C. e inaugurato nel 9 in onore di Augusto. Finora l'attenzione è stata polarizzata dall'edificio di Richard Meier e dal suo impatto sulla piazza, ma poco ci si è chiesti se il museo abbia assolto la sua funzione primaria: cioè l'esposizione adeguata del monumento, in confronto alla precedente sistemazione. Siamo informati del fatto che la teca di Ballio Morpurgo era ormai inadeguata e quindi era necessario trovare una nuova soluzione per il monumento. Ci si chiede, una volta stabilito di rimuovere il vecchio edificio, perché mantenere l'altare nello stesso posto e non musealizzarlo altrove?
La decisione di ricomporre i frammenti dell'altare accanto al Mausoleo di Augusto era - e rimane - arbitraria, dato che essi furono ritrovati altrove, nelle fondazioni di un palazzo a fronte della chiesa di S. Lorenzo in Lucina. Tuttavia, decidendo di fare rimanere l'altare laddove era stata collocata nel 1938, sarebbe stato saggio prevedere un concorso architettonico - che fin da allora comprendesse tutta la piazza - invece di imporre il nome di Richard Meier. A ben guardare, dietro quella decisione sembra esserci un atto di provincialismo culturale che ha condotto a ritenere adeguato al compito un architetto all'apice della fama, dopo il completamento del gigantesco complesso espositivo del Getty Center. Se questo è stato il criterio, la committenza poteva investire anche altri, a partire da Frank Gehry, che avrebbe collocato una delle sue architettura decostruttiviste sulle rive del Tevere: in fondo meglio la provocazione che l'inadeguatezza. L'edificio di Meier non è sgradevole di per sé: il nitore delle pareti, i suoi angoli taglienti, la combinazione del travertino con il vetro sono il risultato di un disegno elegante e pulito, seppur con delle cadute di tono, come l'inserimento della parete in travertino scabro, sul lato del Lungotevere; sembra bugnato, ma il bugnato ha negli edifici una sua funzione visiva e strutturale, mentre qui sembra un vezzo, dunque stona. Ma le critiche maggiori riguardano il contesto e la funzionalità: la teca precedente era modesta e non invasiva, mentre l'edificio di Meier sembra una nave spaziale posatasi su una terra straniera, che fa violenza all'eleganza della Chiesa di San Rocco, frutto di un moderato intervento urbanistico di Valadier. Ma anche il dialogo con il resto della piazza, tutt'altro che ispirata alla moderazione, resta difficile da immaginare. All'interno la sensazione non muta: certo le vetrate sono ampie, e belle le vedute su entrambi i lati, tanto sui resti della tomba di Augusto quanto sul viale alberato del Lungotevere. Ma cosa ne ha guadagnato il monumento per cui questo ingombrante edificio è stato edificato? Francamente non molto.
Eliminate le pedane laterali, la processione del fregio superiore risulta meno visibile di un tempo e tutto l'altare appare come schiacciato sotto il peso di pesanti lacunari, collocato com'è al centro di una architettura che immiserisce l'oggetto esposto richiamando, piuttosto, l'attenzione su stesso. L'edificio non è ancora completo ma dubito che la fontana prevista cambierà di molto l'impatto urbanistico, né credo che tutte le facilities previste negli interni aiutino molto la fruizione del monumento. Ancora una volta - come succede nella maggior parte degli esempi di architettura museale - il contenitore prevale sul contenuto, e l'architetto dimentica che bisognerebbe partire dall'oggetto da esporre piuttosto che dal proprio ego. In definitiva, il problema del nuovo museo è un problema di contesto. A Tor Tre Teste, infatti, nella periferia est di Roma, Meier ha realizzato una bellissima chiesa, connotata da tre vele; l'edificio si inserisce in un luogo di non-architettura, dominato da una edilizia periferica priva di carattere, e contribuisce a riqualificarlo.
Piazza Augusto Imperatore è dotata di una stratificazione architettonica che avrebbe richiesto un intervento più rispettoso del suo polimorfism. Lasciando l'edificio di Meier mi sono girato più volte verso l'ingresso, cercando di comprendere che cosa mi ricordassero quelle superfici candide, quelle linee nette, quelle colonne (la citazione dozzinale, all'ingresso, dovrebbe richiamare lo gnomone dell'orologio augusteo), quel vetro del museo: e ciò che mi è venuto in mente è la razionalità dell'architettura di Le Corbusier, le ville californiane dipinte nei quadri di David Hockney, forse per tutto quel bianco, così estraneo ai colori di Roma.
Bene. Il Vicariato ha fatto conoscere il proprio disappunto per l’immagine pubblicitaria, lesiva del sentimento religioso, applicata alla facciata della chiesa di S. Pantaleo. La protesta riguarda il contenuto della raffigurazione, intesa a promuovere il film tratto dal "Codice da Vinci" di Dan Brown, ma tradisce anche qualche insofferenza nei confronti dell’uso che uffici statali dei beni culturali e del ministero degli interni fanno sempre più frequentemente del prospetto monumentale di edifici di culto. Questi, infatti, sono spesso nascosti oltre il tempo necessario con ponteggi installati per operazioni di manutenzione in modo da consentire la permanenza di teloni pubblicitari per mesi o per anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di lavori di manutenzione i quali comportano lavaggi ed altre operazioni che si possono eseguire in pochi giorni con bracci mobili. Nel caso di S. Pantaleo il Vicariato ha chiesto e otterrà la rimozione della pubblicità sconveniente.
Dispiace di dover constatare che gli uffici preposti alla tutela del patrimonio storico e artistico non solo siano ormai del tutto inerti nei confronti di un fenomeno sempre più aggressivo, come quello della pubblicità che fa scempio del paesaggio urbano e oscura monumenti di interesse pubblico e di rinomanza internazionale, ma siano essi stessi a favorirne la diffusione.
Si può anzi dire che non vi è più freno ad ogni forma di mercificazione del nostro patrimonio artistico. Sono incredibili i comportamenti permissivi di alcune soprintendenze e della direzione generale regionale a proposito dell’uso indebito del chiostro del Bramante o della loggia quattrocentesca di Palazzo Venezia, ceduti a pagamento per festini aziendali. La legge attuale, che in questo caso ha pienamente recepito la norma del 1939 attribuisce a quegli uffici il potere di impedire che i beni culturali siano "adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico". Nessuno fa rispettare queste leggi? Nessuno governa questa materia con il controllo sull’operato degli uffici?
E ora, qualcuno faccia levare quella orrenda installazione pubblicitaria che da mesi nasconde l’obelisco e guasta la piazza del Popolo; qualcuno impedisca che la piazza di S. Giovanni in Laterano subisca la stessa miserevole sorte.
Uscito giorni fa su queste pagine, l'articolo di Paolo Brogi sul «Chiostro del Bramante ridotto a stand» ha suscitato una replica della società che lo ha in locazione. Il dibattito verte sull'ingombro e l'intrusività della struttura ideata per ospitare serate di gala ed eventi a pagamento: un'ampia piattaforma in legno, varie colonnine metalliche, una copertura in cellophane e un groviglio di faretti e fili elettrici. Rivendicando il merito di aver restituito l'edificio cinquecentesco (di fatto inaccessibile da tempo) alla cittadinanza, l'azienda ribadisce che la tensostruttura autoportante viene usata solo per brevi allestimenti. Brogi ribatte invece che l'installazione resta per troppo tempo in loco, e nota che i tavoli del bar (situato nel loggiato e aperto anche da chi non frequenti le mostre del Chiostro) occupano a lungo l'intera balaustrata, anche se ora sono stati rimossi.
Perché accanirsi su tali dettagli? È presto detto: dietro questioni tecniche si nasconde uno fra i temi centrali della Capitale, relativo al contrasto fra la tutela di un manufatto storico e il suo impiego. Secondo una tesi espressa da Cassiodoro e ripresa da Alberti, Roma sarebbe abitata da due distinti popoli, più o meno equivalenti: il primo composto da uomini, il secondo da statue. Questo per dire quanto le vestigia dell'antichità condividano intimamente il nostro destino, in una sorta di vita parallela. Ma cosa fare di tanti smaglianti e insieme ingombranti tesori del passato?
Durante la Prima Repubblica, quella ricchezza venne bellamente ignorata. Mentre all'estero i musei producevano reddito, qui molti monumenti erano chiusi o affidati a pochi sorveglianti. Ci volle la legge Ronchey per ammodernare un sistema decrepito, così come servì l'avvento delle tv private per cogliere le potenzialità pubblicitarie occultate dai paesaggi dell'«Intervallo». Per certi versi, si trattò di una mutazione contemporanea. Le inutili sale polverose si riempirono di redditizi bookshop e caffetterie, mentre gli spazi morti fra una trasmissione e l'altra diventarono il motore dell'universo mediatico (e, per inciso, politico). Ma torniamo ai Beni culturali. Nel delicato rapporto fra conservazione e guadagno, l'unica soluzione risiederà nell'oculatezza dello sfruttamento, badando a che il privato non danneggi il patrimonio affidatogli. Con qualche regola, un po' più precisa, sarebbe tutto più semplice.
Camminando lungo la strada che taglia la vita
Piccolo viaggio a piedi nel paesaggio italiano dell’autrice di "Dei bambini non si sa niente". Da la Repubblica del 23 aprile 2006
Qualche anno fa, una notte ho fatto un sogno, ho sognato una carta della provincia di Bologna, una cartina gigantesca, grande come un lenzuolo dispiegato, e io ci stavo seduta come si sta sopra un tappeto, c’era disegnata la linea rossa della Strada Provinciale 3, ribattezzata Trasversale di Pianura. È una strada che taglia in due, in senso orizzontale, un breve tratto di Emilia Romagna, doveva essere la via di collegamento tra Modena e Ravenna. In realtà, la Trasversale di Pianura propriamente detta è lunga cinquantadue chilometri e un po’ di metri: parte da San Giovanni in Persiceto e arriva a Medicina. Da un lato e dall’altro si innesta su altre due provinciali, in mezzo c’è il casello Interporto della Tangenziale che vomita, e risucchia, camion e automobili a getto continuo.
Quando ero una bambina, qui non c’era niente. La strada era fatta di polvere e sassi. Attorno, c’erano solo i campi e qualche casa colonica lontana, un’idea di mattoni, il fumo di un camino dritto nella luce della sera. Adesso, questi cinquantadue chilometri di asfalto ogni giorno si caricano addosso tonnellate di piastrelle, salami, cemento, liquidi altamente infiammabili, pendolari, stracchini, polli, maiali, rotoli di stoffa. E ancora. Ancora. Ancora. Nel sogno, puntavo il dito contro quella linea rossa, la seguivo facendo scorrere il polpastrello sulla carta e ripetevo ad alta voce i nomi dei paesi e delle località che toccava - il Postrino, Forcelli, Sala Bolognese, Colombarola, Pietroburgo (Pietroburgo?!), Funo, Bagnarola, Budrio, l’Olmo - ed ero felice, provavo una sensazione quasi elettrica, perché quel luogo io lo possedevo, lo conoscevo a memoria, lo avevo attraversato centinaia di volte, fin da quando ero una bambina: era di più che una strada, di più che un posto qualsiasi, era una geografia dell’anima, quel luogo ero io.
Dopo quel sogno, una mattina ho deciso: uscire di casa, chiudermi la porta alle spalle e dimenticare di possedere un qualunque mezzo di trasporto, niente automobile, niente moto, niente scooter, niente bicicletta, solo le gambe: gambe, colonna vertebrale, piedi, questa meravigliosa possibilità di muovermi nello spazio senza l’ausilio di nient’altro che questo, il mio corpo. E così sono cominciati i pellegrinaggi e la strada del sogno, e quella che ricordavo, si sono combinate e infine sovrapposte, dando vita a un’altra strada, quella reale. Giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, ho raccolto indizi, catalogato i cambiamenti.
La domanda con la quale ho cominciato questo viaggio di pignola perlustrazione è la domanda apparentemente più banale di tutte: cos’è una strada? Una domanda talmente ovvia che anche un bambino delle elementari potrebbe rispondere senza la minima esitazione: una strada - come peraltro recita il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli - è «un’opera intesa a consentire, o a facilitare il transito in corrispondenza di una via di accesso o di comunicazione» / una strada è anche «un cammino, un itinerario». Una strada dunque è un passaggio. E a cosa serve? Per l’appunto a passarci, a transitarci, serve a collegare i posti, a spostarsi da un luogo all’altro, a mettere in comunicazione luoghi distanti, serve perché le persone possano muoversi con meno difficoltà nello spazio. E qui è arrivato il mio primo spaesamento. Un ciclista o un pedone che si mettano in viaggio su questa strada, lo fanno a proprio rischio e pericolo, come un gatto, una lepre, una formica o un riccio che decidano di attraversare la strada perché gli gira di attraversarla: questo muoversi con meno difficoltà infatti è ormai vero solo per i camion.
Durante le mie rischiose passeggiate incrocio i miei impavidi compagni di sventura: due filippine, una più giovane e una più vecchia, che ogni sera tornano a casa a piedi dopo la loro giornata di lavoro dal centro di Budrio verso le campagne, calpestando la linea bianca sul margine del fosso, qualche rara vecchietta in bici con il fazzoletto in testa e le sporte della spesa appese ai manubri, i ragazzini che tornano a casa dopo il pomeriggio in parrocchia, o al campo da calcio (pochissimi, questi ultimi). E i camion che passano a centotrenta all’ora ci fanno barcollare e tremare tutti quanti come figure ritagliate nella carta velina. Ci guardiamo negli occhi smarriti, e pensiamo la stessa cosa io credo, e cioè che una strada serve perché gli esseri umani si spostino da un luogo all’altro, che sia per lavoro, per necessità, o semplicemente per fare una passeggiata, e che dovrebbe essere evidente, naturale, ovvio, che una strada, ogni strada, fosse pensata perché ciascuno possa servirsene nel modo in cui desidera, o è costretto, a servirsene: se ho una macchina vado in macchina, se ho solo i piedi vado a piedi.
Invece ormai è come se un essere umano in movimento non potesse essere pensato altro che col culo piantato dentro un ammasso di ferro a motore. Punto. Per andare a camminare ci sono i percorsi pedonali, i percorsi trekking, come se appunto camminare fosse diventata una cosa assolutamente assurda per l’uomo contemporaneo, un’attività perduta nella notte dei tempi e dunque esotica e affascinante e vendibile come un "weekend in vigna" passato a pigiare l’uva nei tini. Riscopri un ritmo umano: vieni un weekend a camminare. E no che non ci vengo. Voglio camminare qui, a casa mia, e non posso farlo, voglio andare dal cartolaio a piedi, perché deve essere una sfida? Io abito in una strada sterrata che si chiama via Albareda (che in dialetto vuol dire alberata) e questa strada si immette direttamente sulla SP3, se non voglio uscire in macchina, o se non possiedo la macchina, lo faccio a mio rischio e pericolo.
Quando sopra una strada ci cammini ti viene naturale guardarti attorno, voltare la testa da una parte e dall’altra e vedere cosa c’è attorno a quella strada, qual è il paesaggio che attraversa e che tu stai attraversando. Cosa ci passa sopra? Merci di ogni tipo, organiche e inorganiche, gli scarti, i rifiuti, il tempo. Dunque puoi osservare, come scriveva Lawrence Durrell, «le lente concrezioni del tempo sul luogo». E così, camminando ho visto le case coloniche abbandonate, successivamente ristrutturate secondo moderni criteri di leziosità che poco hanno a che fare con l’originaria, spartana e un po’ rozza linearità, e portate a nuova vita, spesso dipinte in colori fosforescenti (forse perché i camion riescano a vederne la sagoma anche di notte, quando sfrecciano a centotrenta all’ora e fanno tremare i muri insieme ai proprietari e ai loro letti?). Ho visto i cantieri abbandonati: quante storie dietro quegli spazi «laconici» - come li definirebbe Gianni Celati - devastati, immobili, pencolanti, abbozzati. Cosa è successo? Perché se ne restano lì così, in quell’indeterminazione, per mesi, anni, fino a trasformarsi in un’ovvietà del paesaggio che piano piano la natura ricopre e mangia, riprendendo possesso di ciò che era suo fin dal principio? Ho visto i campi superstiti di barbabietola da zucchero, di mais e sorgo e patate. Qualche vivaio. I distributori di benzina. E poi la gente, sigillata nell’aria condizionata sulle automobili in corsa.
Negli ultimi due anni, il tracciato della SP3 è stato modificato e spostato al di fuori del centro urbano di Budrio - col suo corredo di espropri, battaglie, compromessi, ritardi - e per un lungo periodo, i lavori per le rotonde che ora connettono i due tronchi della SP3 circumnavigando il paese, sono apparsi in mezzo alla campagna come misteriosi cerchi nel grano. Immense aree circolari depilate e cementate senza nessun raggio che si dipartisse verso l’esterno a indicare una qualsiasi direzione verso il mondo, una funzionalità, e io le andavo a guardare in bicicletta, e insieme a me c’erano gli omarelli del paese, sporti sulle buche a guardare le frecce delle rotatorie con gli occhi sbarrati e il cervello confuso, tutti lì a cercare di immaginare come si sarebbe evoluta la questione.
Le strade, per capirle, andrebbero sempre anche viste dall’alto, anche se poi viste dall’alto fanno venire le vertigini, perché quando guardi le carte satellitari ti rendi conto che il mondo è diventato un reticolato di strade, che all’asfalto non c’è scampo, che questa smania di collegare tutto a tutto ci ha rinchiusi dentro una griglia quadrettata da battaglia navale che se da una parte rende il mondo una comoda ottimista spianata di asfalto attraversabile in lungo e il largo, in realtà lo riempie pure di confini, di reti, di limiti invalicabili, di barriere. Un mondo a misura di ruote e motori, non di piedi e corpi umani.
Un giorno, durante una delle mie perlustrazioni, sul muro di cemento di una fabbrica ho letto una scritta che diceva così: «CORRI CHE TI PASSA». Sono rimasta a fissarla per un po’, domandandomi chi l’avesse mai scritta, e cosa avesse nella testa uno che scriveva una cosa simile ai bordi di una strada del genere, se ci aveva davvero provato, lui, il bombolettatore misterioso, a correre sulla Sp3. Forse, una volta davvero su questa strada ci si poteva correre, doveva essere una strada che attraversava uno spazio tutto diverso: chilometri e chilometri di terra piatta e verde, in certi punti coperta di boschi e faggeti, e poi di campi ordinati, amorevolmente curati. Una terra viva. Adesso, le fabbriche abbandonate punteggiano la pianura con le loro ciminiere spente, le recinzioni di filo spinato corrose di ruggine, smangiate, in attesa di essere smantellate per far spazio a nuovi insediamenti industriali. Le fabbriche in attività che sputano lingue di fumo nel cielo. E lungo la strada, da una parte e dall’altra, insegne di trattorie per camionisti, cartelloni pubblicitari che reclamizzano ghiaia, lattonerie, vivai. Il fumo fetente dei gas di scarico che a bolle si diffonde in mezzo al paesaggio piatto, si disfa sulla superficie dei campi, contro le pareti delle case coloniche.
Sotto i miei occhi, oggi, c’è la strada. L’asfalto crepato e ruvido. Pieno di buchi, crateri, fenditure, mozziconi di sigaretta, preservativi, merde di cane rinsecchite, gatti spiaccicati, piume d’uccello, lattine accartocciate, frammenti di copertoni esplosi, chiodi, bulloni, pezzi di ferro arrugginito, carcasse di animali ormai irriconoscibili. Niente idea di progresso, collegamenti rapidi e sicuri, è una strada mortale, che attraversa piccoli centri - paesi grandi, medi, minuscoli, frazioni - e li deturpa, li soffoca, li ammutolisce. Con la lenta agonia dell’asfalto che si corrode sotto milioni di pneumatici, agonia di falene schiantate contro i parabrezza, di nutrie spappolate, civette, incidenti mortali. E io sono di nuovo qui, parte di questo movimento incessante, questa concrezione di tempo e storie e movimenti su un nastro d’asfalto, a cercare di immaginare come era il mondo prima, prima dell’ottimismo degli asfaltatori. Adesso, ci sono dei periodi che tutti questi chilometri di strada si popolano di striscioni rabbiosi e lenzuola graffitate appese ai muri degli edifici, che sventolano fuori dalle finestre come bandiere di guerra: via il traffico pesante dalla Trasversale. Siamo stanchi di respirare veleno. Stop ai camion. Siamo noi, che cerchiamo di riprenderci ciò che dovrebbe essere nostro: le strade, i passaggi, le vie di collegamento e transito, lo spazio e i luoghi e il tempo.
Proprio in questi ultimi giorni che hanno preceduto l’approvazione delle controdeduzioni al nuovo piano regolatore, l’urbanistica romana ha raggiunto uno straordinario record: il consiglio comunale ha infatti votato uno dei più vergognosi regali alla speculazione immobiliare che sia mai stato concretizzato nel panorama italiano. Autore di questo ennesimo scandalo è l’assessore Claudio Minelli, un passato da sindacalista Cgil che nella giunta Veltroni svolge il compito di raccordo con i grandi poteri. Il suo assessorato è appunto denominato ai “grandi progetti”.
La deliberazione comunale di cui parliamo approva un precedente atto della giunta municipale romana, il n. 85 del 2005, finalizzato a un “programma di interventi per la realizzazione della nuova sede del Municipio XX e di un complesso di residenze in via Flaminia nuova nonché di un incremento di volumetria residenziale nel piano di lottizzazione convenzionata Acqua acetosa-Ostiense”. La vicenda è questa. Lungo la via Flaminia c’è un gruppo di vecchi capannoni produttivi abbandonati da decenni. Sono di proprietà di Bonifici, un nome molto noto nella capitale poiché oltre ad essere uno dei più grandi costruttori è anche il proprietario del Tempo, quotidiano aprioristicamente schierato con la destra più estrema che spesso da spazio a voci apertamente forcaiole.
Il quadro è quello che abbiamo più volte evidenziato su queste pagine: a Roma l’urbanistica pubblica non esiste più, sostituita da un oscuro sistema di sotterranee contrattazioni con la proprietà immobiliare. Così Bonifici propone al comune di Roma di realizzare la sede del Municipio su una parte dell’area dove ricadono i capannoni. Ovviamente in cambio pretende un diluvio di cemento. Se è soltanto attraverso la rendita fondiaria che si possono realizzare servizi pubblici, i proprietari sono autorizzati ad avere in mano il destino delle città.
Utilizzando la legge per il Giubileo del 2000, la proprietà aveva ottenuto la possibilità di realizzare un albergo al posto dei capannoni abbandonati. L’albergo non è mai stato realizzato e quella legge affermava esplicitamente che le procedure straordinarie sarebbero decadute alla conclusione del Giubileo. Siamo nel 2006 e la proprietari fanno il furbesco tentativo di vantare ancora quell’ipotetica cubatura e tentano di trasformare i 105.440 metri cubi ottenuti nel 1999 in più remunerative residenze. Quella concessione era scaduta ma il comune non batte ciglio e accetta la contrattazione. E qui avviene un altro passaggio vergognoso.
Afferma infatti la deliberazione di Giunta che “a seguito delle verifiche preliminari di compatibilità urbanistico ambientale è emersa la necessità che comunque la volumetria che poteva essere realizzata sull’intera area andava ridotta e l’area opportunamente indagata sotto il profilo di presumibili preesistenze archeologiche quali il tracciato dell’antiva via Flaminia, di possibili resti di murature antiche e di un altro tracciato viario”. Un modo contorto per dire che la Soprintendenza archeologica aveva più volte segnalato che l’area è interessata dal tracciato della via Flaminia, già visibile ad appena poche centinaia di metri di distanza.
L’area non permette dunque la realizzazione delle cubature previste. In un paese civile le cubature sarebbero state tagliate, in coerenza con le esigenze di tutela. A Roma no. Non si può fermare l’economia ed umiliare la speculazione edilizia. Ecco pronta la ricetta: la parte eccedente delle cubature che non si possono realizzare vengono trasferite su un altro terreno del gruppo Bonifiaci, localizzate all’Eur e attualmente destinate a verde privato! Così ventimila metri cubi, oltre la nuova sede del municipio, verranno realizzati al Flaminio. La parte più rilevante, 75.000 metri cubi, andranno in un altro quadrante urbano.
Riepiloghiamo. Una concessione ormai scaduta viene arbitrariamente recuperata in aperta violazione della legge. La gigantesca cubatura che essa prevede non può essere realizzata poiché il sito è interessato da rilevanti preesistenze archeologiche. La parte eccedente di quella cubatura viene così compensata su altri terreni oggi inedificabili, ubicati nell’altro capo della città. Il trionfo della proprietà fondiaria.
Potrà sembrare incredibile, ma non è ancora tutto. Pur se ridotte, infatti, le cubature da realizzare sulla via Flaminia devono prevedere per legge la cessione delle aree per servizi pubblici. Afferma ancora la deliberazione comunale che quelle aree non sono sufficienti a fornire lo standard urbanistico. Ecco allora che si consente alla proprietà di ridurre la quantità di standard e di localizzarla su un altro terreno limitrofo ma non contiguo all’area edificabile. Questo terreno per il verde di quartiere e per i servizi è localizzato al di là di una ferrovia esistente ed è oggi destinato a uso industriale!
I lettori di Carta ricorderanno che uno dei punti più scandalosi della famigerata legge Lupi era relativo proprio all’abolizione dell’obbligatorietà della dotazione minima dei servizi e la sostituzione con l’ambiguo concetto della “prestazionale di qualità”. Roma, vera avanguardia dell’urbanistica liberista, ha dato concreta dimostrazione dell’oscuro concetto di qualità dei servizi: si mettono in misura ridotta al di là di una ferrovia. Ma c’è sempre il lieto fine. E’ lo stesso Bonifici che si propone di realizzare il sovrappasso sulla linea ferrata: i palazzinari hanno un cuore, mica sono selvaggi. E’ ovvio che per realizzare questo ponte pedonale si dovranno spendere soldi e dunque si devono aumentare le cubature da realizzare. Roma ha inventato la creazione perpetua della rendita.
Poco meno di 10.500 metri quadri di aree trasformate e in trasformazione, 6.350 metri quadri di verde e servizi, oltre 10 miliardi di investimenti in opere di trasformazione urbanistica.
Ieri il sindaco, Gabriele Albertini, ha snocciolato i numeri della rivoluzione urbanistica che sta cambiando la faccia di Milano. La serie di dati non finisce qui: secondo il rapporto «Abitare Milano» curato da Angela Airoldi e Lanfranco Senn per il Certet, centro di economia regionale dei trasporti e del turismo dell'università Bocconi, gli interventi urbanistici voluti dall'amministrazione hanno creato 13 miliardi di euro di valore aggiunto e 23 miliardi di euro di fatturato. Consistenti anche i risvolti sul fronte del lavoro. In tutto 265 mila gli occupati coinvolti, di cui il 50 per cento nel settore costruzioni, 15 per cento nei servizi alle imprese, 13 per cento nel settore alberghiero e commerciale.
«In questo enorme processo di riqualificazione ci siamo avvalsi del lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», ha detto Albertini. Anche a questo si deve, secondo il sindaco, l'elevato costo delle abitazioni a Milano: «L'affitto di un appartamento nel deserto del Sahara ha un valore minore rispetto ad uno in Central Park». L'assessore all'Urbanistica, Gianni Verga, ha rivendicato l'aumento del verde cittadino: «Parafrasando Celentano: dove c'era il cemento oggi c'è un prato».
Verga ha anche incitato il prossimo sindaco a proseguire sulla strada intrapresa da questa amministrazione. «In nove anni abbiamo fatto più che in qualunque altro periodo storico», ha rivendicato l'assessore. A meno di colpi di scena di fine mandato, il prossimo sindaco erediterà l'attuazione del piano per la costruzione di 20 mila alloggi a prezzi e canoni moderati o sociali nelle aree comunali in passato destinate a servizi.
I bandi di gara per i privati che vorranno partecipare all'impresa dovranno sintetizzare un delicato equilibrio. Da una parte l'esigenza di alloggi a prezzi sostenibili. Dall'altra l'economicità dell'iniziativa per imprese e cooperative coinvolte.
Un commento di Lodo Meneghetti
Potrei commentare questa rassegna dettata in stile berlusconiano con una bibliografia dei miei interventi in eddyburg relativi a Milano. Qualcuno ricorderà i testi “milanesi” fra quelli che diedero luogo al libretto Parole in rete (aprile 2005, presentato nel sito), o i più recenti compresi nelle Opinioni. Altro che “Milano è più bella”! Città tradita, rovinata, disastrata grazie all’opera, in concerto o in baraonda, di amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, commercianti. Beh, potreste spendere un quarto d’ora e leggere, degli ultimi, Perché no un parcheggio dentro il Duomo (giugno 05), Avere non avere casa a Milano (marzo 06), È l’auto il nemico numero uno della città (gennaio 06). Comunque fa ridere, se non rabbia, veder elencare numeri su numeri e auto-imbrodarsi di lodi, sindaco Albertini e assessore Verga, quando chi è davvero cittadino di Milano, cioè ci vive da sempre o da decenni, non fa altro che rimpiangere la città civilmente funzionante, affabile, anche bella nonostante le botte – in ogni senso – subite a cominciar dalla ricostruzione post-bellica. E poi nei numeri dichiarati ci dev’essere uno sbaglio oppure non sanno qual che dicono: mi riferisco alla prima riga del messaggio: 10.500 mq di aree sono solo un ettaro (sui 18.100 del territorio comunale), 6.350 di verde e servizi, sei decimi di ettaro. Stiamo sul loro terreno: chi sarebbero “gli occupati coinvolti”? Milano si è spopolata, salvo una certa fresca ripresa demografica dovuta a immigrati extra-comunitari. I cacciati dalla città, proprio a causa del mercato delle abitazioni liberista ossia perverso, rappresentano i forzati del pendolarismo. Ogni mattina entrano dai confini comunali 800.000 automobili, la ferrovia Nord, le linee statali, gli autobus interurbani scaricano centinaia di migliaia di commuter, li ricaricano alla sera. La città oggi tutta terziaria, finanziaria e commerciale, li considera pura merce. E non funziona, è schizofrenica, ce n’è una “del giorno” di due milioni e mezzo di abitanti e una “della notte” che è la metà.
Siamo all’arroganza, quasi all’insulto: capito l’Albertini? Giusti gli affitti alle stelle. Se volete stare a Milano dovete essere ricchi, io vi do i grattacieli dei nuovi Brunelleschi e Bernini: che sarebbero in primis il terzetto Hadid-Isozaki-Lebeskind al servizio del gruppo d’imprese Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarollos Residentiales: il Central Park consisterebbe nel residuo di verde disperso sull’area ex Fiera dopo la realizzazione, appunto, dei tre mostruosi grattacieli previsti dagli architetti insieme a un circondarello di altri alti edifici, il tutto contestato senza tregua dai residenti prossimi. Intanto la giunta, invece di assegnare gli alloggi pubblici risistemati nelle case di proprietà comunale in zone pregiate, vuole venderli per ogni intero blocco-edificio a speculatori immobiliare e, semmai, realizzare, come dove quando non si sa, alloggi “popolari” nelle periferie più marginali. E peggio se cancellando le aree desinate ai servizi sociali.
“In nove anni abbiamo fatto…”. Sì, hanno abbattuto alberi e scavato enormi parcheggi sotterranei in piazze e viali anche centralissimi, sottraendo bellezza agli abitanti e invitando le auto a rimpiazzarla, hanno concesso migliaia e migliaia di spaventevoli interventi per il presunto ricupero dei sottotetti in ogni tipo di case, anche in bei palazzi dell’eclettismo, del Novecento, del Liberty, spesso effettivi sopralzi di un piano con nuovi tetti cuspidali. La nostra linea del cielo, patrimonio dei cittadini resistiti ancora volenterosamente propensi a girare la città guardando col naso all’aria l’altrettanto resistita architettura, è persa. Quanto alla vocazione degli amministratori ad occuparsi del traffico all’incontrario, vale a dire nulla fare per restituirci un po’ della vita perduta a causa del traffico privato in sé e del conseguente colossale inquinamento dell’aria, non ho più parole; a furia di protestare la gola è seccata, le corde vocali sono gonfie.
Lodo Meneghetti, Milano, 21 aprile 2006
Il Chiostro del Bramante? Invaso da una struttura che ospita serate di gala ed eventi. Col celebre pavimento rinascimentale coperto da una pedana di legno e l'invaso tra i portici chiuso con un ponteggio. Un capolavoro nascosto dalle tovaglie. Prima opera del Bramante a Roma, eretta tra il 1500 e il 1504. Spazio per esposizioni, è stato man mano modificato e destinato sempre più a serate di gala.
Il chiostro più affascinante della Roma rinascimentale non c'è più. Al suo posto una creazione posticcia che viene utilizzata per ospitare eventi, cene di gala e concerti musicali. Doveva essere qualcosa di provvisorio e mobile, ormai ha preso il posto dell'opera d'arte ideata tra il 1500 e il 1504 da Donato Bramante a Roma, la sua prima opera in città. Un gioiello, come il successivo Tempietto a San Pietro in Montorio eretto quattro anni dopo.
Com'è possibile che nel silenzio generale il chiostro del Bramante sia stato ridotto nel modo in cui si presenta oggi ai visitatori ignari? Quale sovrintendenza permette tutto ciò? Partiamo dal pavimento. Mirabile nella sua struttura a diagonali di marmo bianco incrociate al centro esatto, secondo un disegno perfetto che si inquadra nel superbo portico sovrastato da un loggiato superiore, giace ora sotto una penosa piattaforma in legno. Va avanti così da tempo, minaccia di diventare una soluzione permanente. La bigliettaia delle mostre ospitate dal chiostro (in corso c'è quella di Aristide Sartorio) avverte premurosa: «La struttura è provvisoria, certo qui spesso ci sono gala serali e poi tra poco la serie di concerti...».
Cose di questa Italia. L'invaso pregevole del chiostro che guardava al cielo aperto e da un angolo del quale si poteva ammirare il magnifico campanile con la cuspide a maioliche dell'adiacente Santa Maria dell'Anima si presenta oggi oscurato da un involucro a tronco piramidale, basato su colonnine metalliche e un tetto strutturato sugli stessi materiali, dall'aria decisamente stabile come qualcosa che ormai è lì e intende restarci. Unica consolazione, al posto delle tegole, un velo di cellophane che fa passare la luce. Sul sito internet la società che gestisce, in partnership dice con Comune e Regione Lazio, mette a disposizione il chiostro per gala e cose affini in pratica tutti i giorni, sabato escluso, a partire dalle 19,30. «Disponibile», si legge. Basta pagare.
Scomparso e illeggibile è poi il lungo fregio che corre lungo tutto il perimetro interno del Chiostro tra il portico e il loggiato superiore. Occultato dal ponteggio. Non si legge il fregio, ma in aggiunta si possono ammirare invece tutta una serie di faretti e di ingombranti matasse di fili elettrici appoggiati sullo spiovente ad ardesie che copre il fregio. È così che appare il chiostro dal loggiato superiore, dove oltre a vedere i fili elettrici si ammirano anche i tavolini mobili della caffetteria appoggiati alla balaustra del loggiato, tra i pilastri con lesene a fascio alternati a colonne di ritmo doppio.
L'introduzione dei tavolini, tempo fa, sembrava un insulto veniale. Invece era solo un avvertimento. Oggi infatti il bar che era nato come struttura al servizio dell'esposizione museale è diventato un servizio autonomo, un bar pregiato alla pari degli altri della zona conosciuta a Roma come «triangolo delle bevute» e che ha nel vicino Bar della Pace un locale cult. Per frequentare il bar non è necessario visitare mostre, vi si accede liberamente dicendolo alla biglietteria. A quel punto, c'è da meravigliarsi se il chiostro ne ha seguito la sorte come stand?
Era un chiostro, spiegano le guide, di «mirabili proporzioni e inalterato in ogni sua parte». «Opera di affascinante, raffinata ed elevata qualità formale» aggiunge su Internet la società di gestione. Costruito quando l'adiacente chiesa non era ancora il capolavoro di Pietro da Cortona (eseguito a metà '600) ma solo la chiesa riedificata da Baccio Pontelli nel 1482, Sant'Andrea de Aquariziis, non sapeva però di essere nel Terzo Millennio destinato a stand, in partnership con le istituzioni cittadine.
Gli insediamenti per le vacanze che stanno in contesti naturali, una volta splendidi, sono più o meno fastidiosi a vedersi: dipende dai punti di vista. Il complesso del Bagaglino in terra sarda, Comune di Stintino per l'esattezza, si offre con un'immagine particolarmente insolente, ma contribuisce il punto di vista sfavorevole che lo espone tutto insieme alla vista. E c'è di peggio in altri lidi dove per circostanze favorevoli l'edificato appare con minore evidenza.
Ma in Sardegna non ci sono ecomostri segnalati dalle attente ricerche.
Chi si aspetta di incontrare l'ecomostro abusivo (come il Fuenti in Campania o i grattacieli di Punta Perotti in Puglia) non lo troverà facilmente in Sardegna, almeno con le sembianze ostentate di masse volumetriche emergenti concentrate in un punto. La notevole estensione del perimetro costiero ha favorito per lungo tempo la dissimulazione dell'impatto. Ma ci sono e in grande quantità tanti piccoli mostri nascosti, tutti o quasi realizzati nel rispetto della legge, che godono di una certa indulgenza.
Eppure se si guarda con attenzione si vede il danno grave di tante microlesioni diffuse nel paesaggio e scarsamente percepite. Sequele di piccoli graziosi edifici che sovrastano in lungo e in largo le originarie morfologie e cancellano le testimonianze preziose dell'antica frequentazione umana. Chi ha visto una trentina di anni fa i luoghi dove stanno oggi agglomerati marini noti, stenterà a ritrovare i riferimenti naturali rimasti per tanti anni nella memoria geografica: quei luoghi sono riconoscibili per qualche residuo indizio.
La distanza dal mare è sempre decisiva per la caratterizzazione del danno. I villaggi di più vecchia formazione si riconoscono perché confinano direttamente con la spiaggia o la scogliera (e nei depliant dei venditori questo requisito è stato sempre abilmente enfatizzato).
I complessi più recenti sono più arretrati, ma si proiettano come e quanto possono verso l'acqua. Otre le graziose casette, ci sono le estensioni delle verande e le piscine e i pontili e le barche e una miriade di attrezzi per la balneazione per cui la linea di battigia si confonde in un coacervo semantico che conserva ben poco di naturale. Quando i complessi edilizi si attestano sul fronte più avanzato verso il mare, costituiscono non solo un impedimento alla vista dell'acqua (del limite suggestivo tra terra e mare), ma impediscono l'accesso a spiagge o alla scogliere alle quali l'accesso dovrebbe essere garantito per legge.
Le sbarre si trovano spesso a impedire di arrivare a spiagge, talvolta per via di autorizzazioni comunali rilasciate per ragioni di ordine pubblico e sicurezza per villeggianti altolocati, più spesso si tratta di prevaricazioni che nonostante le proteste restano impunite e si ripresentano ogni estate aumentando di numero. Ma in Sardegna, tranquilli, non ci sono gli ecomostri.
Si susseguono comunicati ministeriali rassicuranti sulle sorti di Palazzo Altemps, il gioiello architettonico che nella parte pubblica ospita una sezione del Museo nazionale romano. Lo Stato starebbe per acquistare la porzione dell'edificio adibita ad uffici privati, appartenente ad un consorzio di cooperative presieduto da Maurizio Gardini, la Confcooper. Questa ha ora venduto la quota di sua proprietà per oltre 27 milioni euro, e lo Stato può esercitare il diritto di prelazione, subentrando nella posizione degli acquirenti, per destinare l'intero compendio al museo.
Vi sono aspettative in tal senso da parte della cittadinanza e del mondo della cultura, di cui con ripetuti appelli si è fatto interprete anche il sindaco Veltroni.
La situazione non è tuttavia così rosea come viene presentata. Vi sono seri motivi di preoccupazione per la posizione assunta negli ultimi mesi da alcuni uffici centrali e periferici del Ministero per i beni culturali, i quali si stanno comportando come se fossero inclini a favorire in ogni modo l'intento di privati acquirenti a scapito del pubblico interesse.
Le trattative sulla compravendita, di cui fin dallo scorso autunno trapelarono notizie con dovizia di particolari (offerte di maggiore entità, scelta dell'acquirente, stipula del compromesso, versamento di caparra, ecc), erano infatti ben note ai dirigenti ministeriali. Essi mostrarono però di non prestarvi alcuna attenzione fin quando, il 22 novembre, questo giornale segnalò che si stava perdendo l'occasione attesa da ben ventiquattro anni. Solamente a seguito di questo intervento vi sono state timide ammissioni di interesse pubblico alla prelazione, attenuate peraltro da inattendibili riserve, e senza alcuna considerazione delle indicazioni fornite per allontanare pretestuose perplessità, come quelle relative alla difficoltà di reperire ifondi necessari. Si era infatti indicata, su Repubblica, la possibilità che istituti di credito sostenessero la spesa per conto dello Stato alla condizione di poter usufruire dell'immobile così acquisito per il tempo necessario al recupero dell'investimento con il relativo utile.
Ciò nonostante la Soprintendenza ai beni architettonici di Romahafatto trascorrere inutilmente giorni preziosi dal momento in cui le è pervenuto l'atto di compravendita, ossia da quando decorre il termine dei due mesi disponibili per notificare agli interessati la prelazione. Si sa bene che si tratta di un procedimento alquanto complesso, il quale richiede ineccepibilità formale, pena l'invalidità.
Già nel 1982, allorché lo Stato acquisì per prelazione l'intero compendio monumentale di Palazzo Altemps, venduto dalla Santa Sede ad un gruppo di cooperative, il decreto ministeriale fu parzialmente invalidato per un presunto e mai dimostrato vizio di notifica che fece perdere allo Stato un quarto dell'immobile, quella stessa parte che ora viene alienata dalla Confcooper. In effetti si trattò allora di una manovra affaristica ordita nel modo più spregiudicato con il sostegno ministeriale, che sarebbe possibile descrivere in ogni suo dettaglio, anche se quella ordinaria storia di favoritismi della prima repubblica interessa ormai poco. La vicenda sembra tuttavia riproporsi adesso con medesime modalità tecnico-legali e con identici espedienti burocratici pari-menti intesi ad eludere l'applicazione della legge.
Siamo infatti ormai agli sgoccioli del tempo disponibile e nessun provvedimento è stato ancora adottato. È avvenuto solamente che la Direzione generale dei beni architettonici, di cui sono ben noti e documentati gli orientamenti nella tutela del pubblico interesse, ha avocato a sé la competenza del procedimento senza produrre ulteriori effetti.
Per essere sicuri del risultato, alpiù tardi intorno al3 di maggio l'atto di prelazione dovrebbe essere notificato alle otto società acquirenti, amministrate tutte dalla stessa persona ma aventi sede in otto diverse località di Napoli, Vico Equense e Porto Santo Stefano. E ben difficile che ciò possa avvenire, considerato che la notifica tramite l'ufficiale giudiziario richiede tempi non brevi e comporta il rischio di essere indirizzata erroneamente. In un periodo denso di festività non sarà facile notificare l'atto senza ombra di vizio formale presso sedi sociali non dei tutto evidenti; proprio questo era stato l'ingegnoso espediente architettato nel 1982 per inficiare la validità della notifica.
Non è pertanto azzardato formulare la previsione che il Ministero dimostrerà di aver voluto esercitare il diritto di prelazione, ma che vizi formali indipendenti dalla sua volontà condurranno alla parziale invalidità dell'atto, guarda caso proprio per ciò che concerne le parti più pregiate dell 'edificio. Si potrà quindi dare sostanziale attuazione al disegno concepito dai privati acquirenti. Questa è però un'altra storia, che si vedrà.
Le parti meno ambite del palazzo, che entreranno nella proprietà dello Stato, dovrebbero servire per sanare i misfatti compiuti con la vergognosa distruzione del museo geologico, dando a questo una sede a danno del Museo nazionale romano; ma anche questa è una storia di cui non si parlerà mai abbastanza.
Il marciapiede di Largo Labia, ultimo solco d´aratro della metropoli, finisce improvvisamente nel fango. Dietro la rete comincia la terra di nessuno, affacciata sugli spazi della campagna romana. E quelle trincee fresche di scavo, apparentemente così banali e provvisorie, rimarcano, per la storia e per la cronaca, il confine tra presente e futuro. Il passato è da qualche parte, alle nostre spalle, con le appendici della borgata. Roma non si vede; ma non deve essere troppo distante, come testimonia la fila degli autobus - 92, 36, 235, 90 Express - che sosta nel piazzale tra una corsa e l´altra. Da questo colle gli abitanti dell´antica Fidene controllavano la riva sinistra del Tevere, sopra la confluenza dell´Aniene. Tremila anni dopo siamo a un tiro di capolinea dalla stazione Termini. Ma la vista può ancora spaziare lontano, fino agli orizzonti di Valmelaina e del Tufello. Tutti quei mucchi di argilla smossa sembrano però annunciare l´arrivo di qualche grossa novità, già iscritta nei destini dell´Urbe. Una volta da quest´altura, per vaticinare il futuro, si interrogava il volo degli uccelli. Al giorno d´oggi basta consultare il foglio 11 del nuovo piano regolatore.
Dunque, ecco lì davanti, tutta distesa, una bella fetta di quella che in gergo politico urbanistico si chiama la «Centralità Bufalotta»: due milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Uno dei capitoli fondamentali di un piano regolatore che si appresta a ridisegnare i profili dell´intera cinta extra urbana: un ciambellone di cemento, arrotolato sul Grande raccordo, tutto attorno a quell´anello d´asfalto chiamato a svolgere - dentro o fuori - quella che un tempo era stata la funzione delle mura cittadine. Negli ultimi anni il settanta per cento delle nuove abitazioni (e Roma, con il record dei prezzi, detiene anche quello della città italiana dove si è costruito di più) sono state realizzate all´esterno del Gra. E tutti i nuovi insediamenti previsti dal piano regolatore sorgeranno al di fuori del raccordo anulare. Con una sola eccezione: la Bufalotta. Un intervento di peso (anche progettuale, stando alle firme degli architetti) che avrà molti riflessi, diretti e indiretti, sull´area che gravita tra Flaminia e Tiburtina.
Le centralità sono fatte così. Le puoi prendere da destra, o da sinistra; ma gli approcci, per quanto divergenti, finiscono alla stessa conclusione. Anche alla Bufalotta, dunque, si può arrivare da strade opposte. Ci si può tuffare, senza preamboli, dal Grande raccordo, immergendosi in fondo a quello che fino a ieri era solo un anonimo svincolo cieco e oggi è già un nuovo punto cardinale, segnalato dai vessilli gialli e blu dell´Ikea. Accanto al santuario dell´arredamento svedese, ormai meta consolidata di lunghe processioni, ferve un enorme cantiere. Si realizzano, in dimensioni adeguate alla mole delle escavatrici, una catena di nuovi templi merceologici, un intero Pantheon mega, super, iper, ultra. Visione agli antipodi, eppure simile, a quella che si incontra arrivando lungo il classico itinerario delle mappe ottocentesche: via della Bufalotta, «tenuta posta otto miglia distante da Roma, fuori di Porta Pia, al fine di una strada campestre». Un frammentario susseguirsi di casette e condomini, orti e carrozzerie imbudellate, tra un campo coltivato e un monnezzaro, nelle dimensioni proprie di una ex strada campestre. Si arrivi da dove si arrivi, però - si passi per l´edilizia economica popolare, la residenziale, l´abusiva - alla fine ci si ritroverà comunque davanti alle diverse facce della stessa espansione; una necessità connaturata alla stessa fisiologia del Moloch che ingoia ettari e risputa metri quadri.
La metamorfosi di un territorio è anche una metamorfosi linguistica. E la questione non si limita alla toponomastica degli stradari, alle inaugurazioni delle vie dedicate al cantante o all´attore, ai viadotti spartiti, un pezzo a testa, tra Gronchi, Saragat e Pertini. Nonostante una certa propensione per i biglietti da visita in inglese (Building, Holliday, Mister, Dream) i costruttori, gli immobiliaristi, tutti quelli che vendono case non disdegnano l´italiano, purché suoni in un certo modo. Vedi i comprensori, i residence, le sfilze di palazzi venuti ad occupare le vigne e i poggi fino a ieri evocati da indicazioni caserecce, ispirate a storie di malaffare, o radicate nella botanica della gramigna e della cicoria. Ti guardi attorno. E scopri che ormai è tutto un fiorire di magnolie e orchidee. Se gratti dietro la superficie dei cartelloni del «Vendesi» e «Affittasi» ritrovi comunque, ben mimetizzate, le denominazioni originali dei fondi: la Vignaccia, il Cannettaccio, l´Ortaccio... Vecchia geografia agro romanesca. In effetti non suona: come reclamizzi un condominio costruito su un fondo che si chiamava Gallinaro? Meglio i Colli fioriti, i Bei poggi e la marana assurta a Candida fonte.
La capanna dell´età del ferro è stata ricostruita col suo tetto di paglia là dove l´avevano ritrovata, nel giardinetto di un condominio che da via Quarrata si affaccia, speculare a Largo Labia, su un altro orizzonte di grattacieli dispiegati come un arco dentale. Acquedotti ed elettrodotti. Nessun´altra città riesce ad assemblare con altrettanta indifferenza epoche tanto diverse. Una volta da Fidene passava il confine che divideva i latini dagli etruschi; e da quassù si controllavano i traffici - sale, pecorino, vasellame - che andavano verso la Sabina o la Campania. Oggi i punti di riferimento si chiamano A1, A 24, Gra, Fs... la ferrovia, che ha tagliato il colle e le borgate lasciando da una parte Fidene e dall´altra Villa Spada, sorelle siamesi separate in casa da un ponticello a senso unico alternato. Nel panorama prossimo venturo bisogna adesso inserire qualche centro commerciale, un po´ di edilizia residenziale di livello medio alto, alcune strutture direzionali (la Rai, ad esempio, che si troverebbe non lontano da Saxa rubra). A conti fatti un terzo dei 129 mila ettari dell´agro fidenate sarà edificato; gli altri due terzi, il futuro parco delle Sabine, rimarranno verdi. La mappa dice così. Ma come fai a immaginare, orizzontali e verticali, vuoti e pieni, la centralità Bufalotta senza collegarla alla galassia delle cubature che le gravitano attorno?
Castel Giubileo, Cinquina, Nuovo Salario, Serpentara uno, Serpentara due.... Case, ville, palazzi, inframmezzati da realtà agricole anche notevoli, come la Cesarina e la Marcigliana. Certo una cosa è guardare la carta... un´altra osservare un panorama dall´alto... un´altra ancora calarsi nella realtà. Per perdersi nella schizofrenia di una segnaletica che ora ti sbatte verso un quadrifoglio senza svincoli, ora ti costringe nelle spire di una borgata assurta al rango di quartiere, ora ti ignora, affidandoti alla tradizione orale: «Avanti, fino alla rotonda con al centro la statua di un tizio... un santo, un cardinale, boh... si riconosce perché è proprio bianca bianca... l´hanno appena ripulita, ché l´avevano tutta dipinta di giallo e rosso». Avanti, fino a calarsi in quei riquadri grigi che, stando allo stradario, non hanno strade. Canneti, calcinacci, sentieri selvaggi battuti da carovane di camion inzaccherati. Gru e greggi, ruspe e randagi. L´ultima, provvisoria frontiera tra l´oggi e il domani. E il capo di un filo che avvolge la città, perché due milioni di metri cubi sembrano tanti, ma, a chiudere il cerchio, stando alle mappe del nuovo piano regolatore, ne mancano più o meno un´altra sessantina.
Paradosso dei paradossi. L'energia pulita e rinnovabile dell'eolico, anziché generare una forza alternativa in grado di sostituire la pesante dipendenza dagli idrocarburi, scatena un'inedita emergenza ambientale. Accade negli ultimi anni in maniera imponente in Sardegna: su 368 proposte presentate in campo nazionale, per una potenza complessiva di 13.300 megawatt, tra il luglio 2001 e l'aprile 2003, ben 88 istanze, per un totale di 3.765 Mw e 2.814 aereogeneratori, sono pervenute nella sola isola sarda. La più alta concentrazione in Italia.
Questo stato di cose trova una giustificazione grazie all'accesso a cospicui fondi pubblici, soprattutto comunitari, ma anche all'obbligo, per i produttori, di ottenere almeno il 2% (i cosiddetti certificati verdi) da energie rinnovabili, secondo un decreto del 1999. Così va da sé che i produttori di energia da fonti rinnovabili, oltre a vendere energia al gestore della rete, vendono anche i cosiddetti certificati verdi ai produttori di energia elettrica da fonti convenzionali, schiacciati anch'essi, ma svantaggiati, dall'obbligo imposto dalla normativa. Un ulteriore profitto. Ed eccoli i soggetti imprenditoriali sbarcati in Sardegna per fare affari con il vento: fra i principali l'Erga, del gruppo Enel, la Fri.El. (operativa fra le sedi di Bolzano e Pordenone), la Gamesa (Spagna), la Sun Wind (Germania), la Sun Tec Italia, la Enerprog (Sassari) e la Ivpc 4 (Avellino). Le imprese opzionano in regime di esclusiva i terreni, li affittano per un periodo generalmente di 25 anni (canoni medi di 1.549 euro per megawatt prodotto), contrattano con i comuni i benefici economici (in media l'1,6 % del fatturato al netto di Iva, liquidabile soltanto ad impianto avviato) attraverso la stipula di contratti capestro che permettono a queste società di abbandonare l'impianto, qualora «perdesse i presupposti tecnici ed economici tali da consentire uno sfruttamento economico». Oggi una legge regionale, detta salvacoste, prevede però che i cantieri eolici siano bloccati, almeno dove l'ambiente non è stato ancora compromesso. Malgrado questo blocco nella provincia di Oristano tra i comuni di Siamanna, Villaurbana e Mogorella, sulle cime del Monte Grighine, da alcune settimane sono iniziati i lavori per la costruzione di un parco eolico da parte della società danese Greentech Energy System. L'impianto sarà costruito inoltre in un'area sulla quale, essendo stata interessata nel 1999 da un incendio, secondo la legge 353/2000, non può sorgere alcun edificio o struttura. Nonostante tutto, i lavori continuano, tanto che l'assessore all'Ambiente della regione Sardegna, Antonio Dessì ha presentato alla procura della Repubblica di Oristano una denuncia nei confronti della società danese. Intanto la società danese si difende affermando di aver superato le valutazioni d'impatto ambientale.
Ma a difendere questa sciagurata scelta ci pensa anche la politica locale. Il sindaco di Villaurbana, Antonello Garau, si infuria nei confronti del provvedimento di blocco. L'amministrazione comunale di Siamanna si dissocia dalla posizione presa dal proprio sindaco, Roberta Ida Muscas, che aveva chiesto all'avvio dei lavori il rispetto della legge vigente, e la costringe alle dimissioni. Il comune di Mogorella firma una petizione popolare (230 firme su 350 abitanti) e quattro consiglieri comunali chiedono al sindaco Mauro Piras la convocazione di un'assemblea civica per il ritiro della concessione data a suo tempo alla società danese. La settimana scorsa intanto, proprio a Siamanna, il presidente della regione Renato Soru, nel tentativo di riaprire il dialogo e trovare un accordo, ha presentato i Piani integrati di sviluppo per i quali la regione investirà circa 850 milioni di euro.
Ma il caso della centrale del Grighine non è isolato: sono tuttora in corso i lavori per la costruzione della centrale eolica della Fri.El. di Bolzano nelle campagne fra Nulvi e Tergu (Sassari), in un'area interessata da vincolo paesaggistico. E non si possono dimenticare i penosi esempi del passato: nell'impianto dell'Enel nella Nurra (Porto Torres) crollò, nel dicembre 2001, l'ultimo aereogeneratore presente, mentre la centrale Enel del Monte Arci è entrata finalmente in esercizio nel 2000, dopo anni di lavori, ed è già stata giudicata obsoleta.
In Italia il movimento moderno si è sviluppato per frammenti: edifici singoli o tutt'al più quartieri residenziali o zone industriali, dotati comunque di confini ben precisi. Soltanto a Ivrea - esempio unico in Europa - ci troviamo di fronte a un vero esempio di «città moderna» fatta di residenze, fabbriche, servizi per la comunità. Per circa trent'anni Ivrea ha rappresentato un luogo privilegiato per la sperimentazione in ambito architettonico, urbanistico e culturale, grazie alle innovazioni introdotte fra il 1933 e il 1960 da Adriano Olivetti nella impresa fondata nel 1908 dal padre Camillo, eclettico ingegnere e inventore, che alla fine del XIX secolo aveva soggiornato per qualche tempo a Londra e negli Stati Uniti e che negli stessi anni aveva aderito al partito socialista.
La scelta della trasparenza
Affermando che «la fabbrica è per l'uomo e non l'uomo per la fabbrica», fu proprio Adriano Olivetti a introdurre un modo radicalmente nuovo di abitare lo spazio del lavoro. Fondamentale, per questa trasformazione del concetto di modello industriale, non fu solo il viaggio che il giovane Adriano - nato nel 1901 - effettuò negli Usa nel '25 e nel corso del quale visitò decine di fabbriche fra le più avanzate del tempo (fra cui gli stabilimenti Ford), ma anche, o soprattutto, la sua attenzione verso i nuovi linguaggi espressi dall'architettura razionalista. La vicinanza d'età e l'affinità intellettuale con gli architetti milanesi Luigi Figini e Gino Pollini convinsero Olivetti ad affidare loro l'ampliamento dello stabilimento in mattoni rossi costruito dal padre Camillo a fine Ottocento. Nacque così il primo edificio modernista con la facciata libera in vetro che si raccordava alla struttura esistente con un passaggio sopraelevato. Una scelta, quella della trasparenza, che va letta (non solo architettonicamente) per il significato che essa ha assunto nel tempo, come principio etico nei confronti del lavoro svolto all'interno della fabbrica e visibile dalla strada: una forma di democrazia - e, appunto, di trasparenza - nell'agire quotidiano della Olivetti.
L'aspetto etico sarà la base su cui verrà fondata la «comunità» di Adriano, all'interno della quale l'attenzione verso la qualità comprende tutti gli ambiti, dall'organizzazione del lavoro al progetto degli spazi industriali, dall'abitare ai servizi sociali. Allo stesso modo, anche l'inserimento delle architetture nel loro contesto, rivela - a Ivrea come a Pozzuoli - l'attenzione e il rispetto di Olivetti per il paesaggio. «Gli ambienti in cui si viveva e si lavorava erano immersi nella luce naturale, e la progettazione avveniva soltanto dopo indagini molto approfondite - studi che investivano da un lato l'aspetto geologico e ambientale, in modo da costruire su terreni salubri, dall'altro il profilo sociologico, tenendo conto delle esigenze pratiche delle persone che avrebbero dovuto abitare quel luogo» ricorda Laura Olivetti, figlia di Adriano e presidente della fondazione che porta il nome del padre e che si è data l'obiettivo di riflettere, attraverso mostre e convegni, sulle problematiche della società contemporanea.
Grande merito va dunque riconosciuto a tutti quei progettisti che, attraverso le loro opere, seppero contribuire alla costruzione di un paesaggio fatto di architetture moderne, innovative sia nella tecnologia costruttiva sia nel linguaggio architettonico adottato. Fu grazie soprattutto al loro lavoro che si rese possibile la realizzazione del sogno di Olivetti di una città a misura d'uomo. E ancora oggi l'attualità del progetto olivettiano trova riscontro nella sua visione strategica e lungimirante della città, il cui esito è un modello sociale equo, dove il ruolo dell'architettura condiziona positivamente il vivere quotidiano.
Razionalismo mediterraneo
Se Figini e Pollini - autori fra gli anni Trenta e i Cinquanta delle nuove officine e dei successivi ampliamenti ma anche delle residenze per operai e impiegati e di tutti i servizi sociali - furono gli architetti prediletti da Adriano, molti altri progettisti vennero coinvolti con il passare degli anni nella trasformazione di Ivrea in una città compiutamente «moderna»: da Fiocchi, Bernasconi e Nizzoli, che nel 1955 progettarono il Palazzo Uffici 1, a Ignazio Gardella, che nel 1958 realizzò la mensa dai chiari richiami linguistici wrightiani, da Ludovico Quaroni, che lavorò nel quartiere di Canton Vesco sul tema della scuola confrontandosi, negli stessi anni (1955-62), con l'asilo di Ridolfi e Frankl, a Eduardo Vittoria, che fu uno dei progettisti più attivi e firmò, insieme a Marco Zanuso, i quattro fabbricati dello stabilimento di Scarmagno (1968) e realizzò anche il Centro Studi ed Esperienze Olivetti a Ivrea. E ancora, Cappai & Mainardis realizzarono l'hotel La Serra a forma di gigantesca macchina da scrivere pop, mentre Gino Valle fu il progettista di Palazzo Uffici 2 e della Mensa a Burolo. Nel golfo di Napoli, la fabbrica Olivetti di Pozzuoli venne invece costruita su progetto di Luigi Cosenza e divenne una delle espressioni più originali di una certa idea di razionalismo inserito in una dimensione mediterranea.
Il progetto di città moderna infatti non riguardava solo Ivrea, ma si estendeva agli stabilimenti realizzati altrove, e dunque anche delle sedi e dei centri di ricerca all'estero, progettati in Sudamerica da Marco Zanuso, in Giappone da Kenzo Tange, in Pennsylvania da Louis Kahn, in Inghilterra da James Stirling. O ancora dei negozi realizzati per commercializzare le produzioni delle macchine per scrivere e dei calcolatori elettronici: da quello firmato da Carlo Scarpa a Venezia nel 1958 (e divenuto oggi, nell'indifferenza generale, un negozio per turisti), alla Hispano-Olivetti dei Bbpr nel 1964 a Barcellona, dagli uffici Olivetti progettati da Egon Eiermann a Francoforte nel 1972 agli showroom parigini progettati da Albini e Helg (1958) e da Gae Aulenti (1967). Nel complesso, uno straordinario esempio di mecenatismo «rinascimental-contemporaneo» che ha individuato nella rivoluzione della modernità una possibile chiave di sviluppo economico e sociale per la comunità, basata sul concetto di condivisione del sapere.
Questa lunga premessa è necessaria per comprendere come è nato il mito di Ivrea e l'importanza stessa della città di Adriano Olivetti a cui la rivista internazionale di architettura e urbanistica Parametro, che recentemente ha festeggiato i trentacinque anni, ha dedicato l'ultimo numero monografico curato da Patrizia Bonifazio e da Enrico Giacopelli. Dai contributi che compongono la rivista, emergono tuttavia anche i nodi irrisolti del fenomeno Ivrea, e innanzitutto la vastità del patrimonio immobiliare esistente che comprende non solo gli edifici industriali delle vecchie e nuove officine Ico di Figini e Pollini o il Centro studi esperienze di Eduardo Vittoria, ma anche lo stabilimento di Scarmagno di Marco Zanuso o la mensa a Burolo di Gino Valle.
Il riconoscimento della eccezionale qualità architettonica della Ivrea moderna non appare purtroppo scontato da parte delle proprietà che si sono susseguite dagli anni Novanta a oggi, unendo il destino di Olivetti prima a De Benedetti, poi al gruppo Telecom (Colaninno) e infine a Pirelli Real Estate. Oltre tutto, a rendere più complessa la situazione, il problema delle destinazioni d'uso delle ex officine si è protratto per decenni e ancora oggi si assiste a un profondo mutamento nella distribuzione delle funzioni: laddove si producevano macchine per scrivere ora vi è il call center di Vodafone e l'università di Torino, mentre il centro ricerche Olivetti di Eduardo Vittoria - occupato dall'Interaction Design Institute voluto da Colaninno come centro di ricerche interattive tra information technology e design - attualmente è vuoto.
In questo modo anche gli sforzi dell'amministrazione comunale rischiano di rimanere vani, nonostante sia stato realizzato - su proposta di un gruppo di progettazione di cui hanno fatto parte Bonifazio e Giacopelli, e con il contributo economico dell'Unione Europea - il Maam (Museo a cielo aperto dell'architettura moderna).
Un museo a cielo aperto
Primo importante risultato dell'iniziativa è stato un lavoro di schedatura delle oltre duecento architetture (186 case di abitazione, otto edifici industriali, sei edifici per uffici, tre edifici per servizi sociali, tre scuole, due edifici religiosi, un residence e un edificio multifunzionale) su cui si articola la «Olivetti city» di Ivrea, un catalogo aggiornato che fornisce informazioni su ciascun edificio e sul suo stato di conservazione all'epoca del censimento. Inaugurato al pubblico nel 2001, il Maam offre oggi ai suoi visitatori un itinerario scandito attraverso stazioni tematiche di sosta in prossimità degli edifici realizzati dai maestri dell'architettura italiana del Novecento, allo scopo di preservare la memoria storica della cultura industriale di un territorio, il Canavese, che per mezzo secolo ha vissuto di una monoeconomia, alternando il lavoro in fabbrica a quello tradizionale nei campi.
Nel 2004 è stato adottato il nuovo Piano regolatore generale di Ivrea che individua nella trasformazione della città esistente l'obiettivo primario, ma che soprattutto - e per la prima volta in Italia - propone una «Carta della qualità» negli interventi che pone sullo stesso livello di importanza gli edifici storici della città antica (di origine romana) e quelli realizzati nell'ultimo secolo. All'interno di questo quadro, il Piano individua tre tipologie qualitative: la qualità del contesto che considera la forma degli isolati urbani, la qualità dell'architettura, attraverso aspetti formali e funzionali dei singoli edifici, e infine la qualità dell'ambiente paesistico in cui le architetture sono collocate. Il concetto di qualità si lega così non a definizioni astratte e individuali ma a un forte legame con il territorio in cui la catalogazione del patrimonio immobiliare realizzata dal Maam ha fornito indicazioni utili per la definizione stessa della Carta. È in questo contesto normativo che si inserisce il problema del restauro delle architetture moderne di Ivrea, soggette spesso - come si è detto - a un cambio radicale di funzioni, ma anche a una serie di manomissioni e stravolgimenti architettonici legati all'azione di una pluralità di committenze con esigenze e obiettivi non più omogenei: ne sono esempi, fra l'altro, l'inserimento della facoltà di Scienze della Comunicazione nelle Nuove Officine Ico o la destinazione a spazi polifunzionali per la città delle Officine H.
«Il caso di Ivrea - osserva su Parametro Enrico Giacopelli - sembra infatti dimostrare che nel restauro degli edifici industriali moderni non è concretamente possibile occuparsi solo della "materia", in quanto è sempre in gioco un uso nuovo che impone le sue regole. Dimostra però anche la necessità di salvaguardare l'idea, facendo governare il processo dal principio di "fedeltà al progetto originale" che, con tutta la sua ambiguità, è forse l'unico criterio utile per valutare la correttezza di un intervento di restauro anche di un edificio moderno. Un aspetto determinante nella salvaguardia dell'idea originale è certamente costituito da una corretta scelta della nuova destinazione d'uso».
Ridisegnare il futuro della città
Questo tuttavia può avvenire solo se Pirelli Re comprende che la città di Olivetti non rappresenta semplicemente il 2 per cento del suo portfolio immobiliare ma è in grado di diventare - attraverso una rilettura del progetto culturale di Adriano Olivetti - una risorsa da cui attingere per concepire un nuovo modo di fare impresa. Da parte sua, l'amministrazione comunale della città dovrebbe ridisegnare il futuro di Ivrea proprio a partire dal patrimonio architettonico moderno, concepito come antesignano e prototipo dell'idea di sviluppo sostenibile. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario fare rete con città che nel mondo presentino caratteristiche analoghe, progettando e programmando una serie di azioni capaci di coinvolgere il territorio, in termini culturali e imprenditoriali. Di queste iniziative, il primo passo potrebbe essere l'avvio (come pare si stia già facendo, sia pure con lentezza italica) di una pratica per far entrare Ivrea e le sue architetture nella lista Unesco del patrimonio mondiale dell'umanità.
«Il progetto di Massimiliano Fuksas è utile alla discussione e potrebbe anche essere realizzato. Il riassetto dei Fori deve partire, e quello di Massimiliano è un tassello importante». Recenti parole del sindaco Walter Veltroni, utili da ricordare mentre il Comune comincia a parlare del concorso internazionale per un nuovo assetto del «Cam», sigla che burocraticamente indica nel Piano regolatore il Centro archeologico e monumentale. La vicenda dei Fori ripropone l'antico sogno di Antonio Cederna. Non solo per un'utopia ma perché stavolta i cantieri del Metro C tra il Colosseo e piazza Venezia imporranno delle scelte. Il progetto Fuksas (sollecitato dall'allora soprintendente archeologico Adriano La Regina, regalato dall'architetto all'amministrazione) propone una convivenza tra strada e scavi, quindi nessuna demonizzazione del traffico «come si conviene a una metropoli». Discorso affascinante. E sarebbe un errore metterlo da parte.
Carlo Aymonino, Paolo Marconi e Paolo Portoghesi hanno sollecitato un concorso internazionale per evitare di ripetere l'errore di aver affidato a Richard Meier, senza concorso, una risistemazione dell'Ara Pacis, che secondo molti urbanisti mostrerà presto i suoi molti limiti. A cominciare, sia detto per inciso, dal progettato obelisco in cemento armato. Roma abbonda di materiale archeologico non esposto, e la scelta diventa incomprensibile: sarebbe come creare una parete artificiale tra le meraviglie delle Dolomiti. Ma torniamo ai Fori. Come dimostra il recente e felice piazzale coperto realizzato proprio da Aymonino nei Musei Capitolini per proteggere l'autentico Marco Aurelio non tutti i progetti «ad hoc» realizzati senza concorso, sono ingombranti e «pesanti» come quelli di Meier. Lo sapeva La Regina. Lo sa bene il sindaco Veltroni. Sarebbe dunque un grossolano sbaglio buttare il bambino (una proposta innovativa e stimolante, quella per i Fori) per colpa dell'acqua sporca (l'immenso monumento di Meier sul lungotevere). Fuksas firma progetti in mezzo mondo ma la sua «nuvola» all'Eur, dopo sei anni, deve ancora tramutarsi in spazi concreti. E lui stesso, per coerenza, sembra pronto a rinunciare a un altro progetto per chiamata diretta, quello sul lungomare di Ostia. Per farla breve. Sarebbe un peccato veder realizzato il progetto dei Fori in un'altra città. I concorsi sono la strada maestra. Ma come dimostra la felice soluzione trovata per Marco Aurelio, non tutte le chiamate dirette vengono per nuocere.
Postilla: Il progetto Fori è nato, più di un quarto di secolo fa, per eliminare la via dei Fori imperiali, per porre il tessuto archeologico ad essa sottostante al centro dell’immagine di Roma, per allontanare definitivamente il traffico dagli antichi monumenti. Il progetto era stato ideato dal soprintendente archeologico Adriano La Regina, fatto proprio con entusiasmo dal sindaco Luigi Petroselli, sostenuto con caparbia determinazione da Antonio Cederna, condiviso da centinaia di intellettuali di tutto il mondo. Solo fascisti e post fascisti erano nettamente contrari. Il 7 ottobre 1981 morì Petroselli. Con lui morì il progetto Fori, come comprese subito Antonio Cederna. Dopo di lui, veli di ipocrisia, di opportunismo, di prudenza hanno avvolto lentamente e poi snaturato l’idea originaria. Il sindaco Rutelli dichiarò con franchezza che la via dei Fori strada era e strada doveva restare. Per non correre rischi è stato posto anche un vincolo monumentale su tutta l’area, rendendo di fatto impossibile ogni modifica. Adesso si cerca di apparentare il traffico all’archeologia. Molti hanno cambiato idea. Succede. Ma che tutto ciò riproponga l’antico sogno di Antonio Cederna è una bestemmia (Vezio De Lucia).
Sul progetto Fuksas, l'opinione di Maria Pia Guermandi del 23 maggio 2005
I direttori dei maggiori musei italiani e i massimi esperti del settore si sono riuniti a Palermo una settimana fa— questo giornale ne ha fornito ampi resoconti — per discutere di conservazione dei beni culturali italiani. Il convegno organizzato dalla Fondazione Banco di Sicilia e da Campodivolo ha subito messo in evidenza un ampio divario Nord-Sud anche sul piano museale. A fronte dei positivi bilanci illustrati dai direttori dei musei di Torino, Milano, Trieste, Roma, quelli siciliani hanno evidenziato uno stato di profonda crisi.
Una crisi tale da far pensare a una Italia che in materia di musei sembra proseguire con due marce. A Milano, a Torino, a Trieste, come hanno riferito i loro direttori sottolineando anche il crescente successo di pubblico, i progetti di ampliamento non trovano sosta, con sale espositive che si vanno espandendo di nuovi acquisti esposti con raffinatezza e tecnologie all'avanguardia. In Sicilia invece, sono sempre i direttori dei musei che illustrano la situazione, non si riescono a organizzare eventi culturali nemmeno per gli artisti di casa nostra. Pensiamo per esempio alla mostra su Antonello da Messina, al momento nelle Scuderie del Quirinale a Roma, che fa registrare attorno alle 2500 visite giornaliere.
I musei siciliani, questa è l'opinione comune, vengono scartati in partenza dal grande circuito culturale nazionale perché privi dei requisiti minimi di sicurezza e tecnici invece largamente presenti al Nord. Alla Sicilia non rimane allora che assumere il ruolo di «esportatrice d'arte» mentre i siciliani vedono che i propri capolavori vengono prestati a gallerie più prestigiose e organizzate. Nell'agenda dei prestiti, dopo la «emigrazione» (pur osteggiata dei mazaresi) del Satiro danzante verso il Giappone per l'Expo e dopo la traversata verso gli Stati Uniti del Ritratto d'ignoto di Antonello da Messina dal Mandralisca di Cefalù per la mostra organizzata al Metropolitan Museum di New York, c'è il quadro dell'Annunziata dall'Abatellis al Quirinale, mentre un prossimo capolavoro a lasciare l'Isola potrebbe essere un Caravaggio.
Ciò significa che mentre l'arte siciliana sarà sempre possibile ammirarla grazie ad alcuni direttori scambisti d'opere d'arte, per un siciliano che per moti vi di studio o che per interessi artistici avesse voglia di ammirare i Macchiaioli toscani o le armature medievali del Poldi Pezzoli di Milano, o un Canova, o meglio ancora un Raffaello o un quadro di Leonardo, per fermarsi solo all'arte italiana, non gli rimane altro da fare che attraversare, ponte o non ponte, lo Stretto siculo-calabro e attraverso l'autostrada del sole raggiungere i vari Palazzo Grassi o le varie Biennali e triennali sparsi sulla penisola. Ma la colpa di questa situazione museale siciliana arretrata sembra imputabile anche ad altri motivi. Il direttore del museo regionale di Messina, Gioacchino Barbera, pur lodando i risultati dei colleghi dell'arco alpino culturale che da Genova giunge a Trieste passando per Torino e Milano, ha puntato il dito sul modo di scegliere i funzionari dei musei dell'Isola. «In una Sicilia autonoma in materia di beni culturali - ha detto Barbera - la legge che regola la dirigenza ha di fatto eliminato la qualifica tecnica al dirigente museale. In questo modo i fun-zionari sono scelti al di fuori dei curriculum dello storico dell'arte. A prendere il timone di musei e soprintendenze siciliane sono architetti, laureati in diverse discipline, ex direttori di altri enti con esperienze che nulla hanno a che fare con l'arte». È una denuncia pesantissima.
Altro dato dolente, l'endemica staticità dei musei siciliani rispetto a quelli più dinamici della penisola. Mentre il polo museografico romano oltre alle Scuderie del Quirinale ha in cantiere la realizzazione di un Palazzo delle esposizioni, di una Casa del cinema, di una Casa del jazz e di un teatro nel Lido di Ostia, l'ultimo spazio museale «contemporaneo» palermitano risale al Palazzo Abatellis. Il museo progettato negli anni Cinquanta dall'architetto Carlo Scarpa. Un intervento che fino a oggi conta numerosi tentativi di imitazione tutti falliti, come Palazzo Riso, il museo Botta, il Guggenheim.
Intervista di Anna Pacilli
L’abnorme consumo di suolo è uno dei punti più negativi e ingiustificati del nuovo Piano regolatore generale [Prg] di Roma, ma nessun dato o numero è stato fornito in proposito, nonostante la gran mole di documentazione che ne ha accompagnato tutta la preparazione. Lo ricorda l’urbanista Vezio De Lucia, che i calcoli ha deciso di farli da solo già nel 2003 per documentare le effettive dimensioni dell’espansione prevista dal nuovo Piano.
«Con il nuovo Prg, la città di Roma si ingrandisce di 15 mila ettari, con un incremento di circa il 40 per cento rispetto alla superficie già urbanizzata. Un dato impressionante se si considera che l’intero comune di Napoli occupa una superficie di circa 11 mila ettari» dice De Lucia, che accetta di commentare il nuovo Prg della capitale licenziato il 22 marzo dal consiglio comunale. A De Lucia non piace per niente questo Piano, come non gli va giù l’accordo praticamente unanime che, alla fine, ha portato alla sua approvazione e poi lo ha incoronato. Con anche il manifesto, sottolinea con amarezza, a cantare nel coro di giubilo dei media.
Che cosa non va nell’esperienza urbanistica romana?
Diciamo innanzitutto che questo Piano regolatore è una sorta di registrazione di cose già fatte e successe nel corso degli ultimi dieci anni e la stima che lo dà attuato al 70 per cento probabilmente è per difetto. Basta ricordare che per il Giubileo del 2000, è stato calcolato, sono stati autorizzati 40 milioni di metri cubi di nuove edificazioni. E il consumo di suolo è stato un argomento tabù, che infinite volte si è tentato di portare anche nelle sedi istituzionali. Molto diverse sono invece le esperienze in Europa in materia di crescita urbanistica e di riduzione, o addirittura arresto, del consumo di territorio. In Germania, per esempio, un indirizzo governativo dell’epoca di Kohl è noto con lo slogan «30 ettari al giorno» a indicare il limite di consumo di suolo consentito complessivamente nel paese. Facendo i calcoli, vuol dire che ogni cittadino tedesco ha, diciamo così, una dotazione di suolo agricolo da consumare di 1,3 metri quadrati l’anno. Mi sono divertito a fare i conti con il nuovo Piano della capitale, che invece «autorizza» ogni romano a consumare 6 metri quadrati.
Eppure, Roma è da sempre considerata un laboratorio.
Dal dopoguerra Roma è stata un positivo laboratorio dell’urbanistica. Gli standard urbanistici, introdotti nel ’68 nella normativa nazionale, erano in qualche modo già stati anticipati nel Piano regolatore di Roma del 1962. Oggi, purtroppo, Roma è un laboratorio che anticipa soluzioni non positive, per usare un eufemismo. Per esempio, nella filosofia del nuovo Piano continuano a essere sottintese manovre di perequazioni e compensazioni, come mette chiaramente in evidenza Paolo Berdini nel testo pubblicato sul sito di Edoardo Salzano www.eddyburg.it .
Qual è lo stato di salute della pianificazione?
L’Italia è spaccata in due. Ci sono regioni come Toscana, Marche, Umbria e Emilia Romagna dove tutti i comuni sono dotati di strumenti urbanistici che si rinnovano con notevole frequenza. Dal Lazio in giù, l’urbanistica sparisce; si salva forse un po’ la Basilicata e speriamo si salvi la Puglia con la nuova amministrazione. I dati sul Lazio sono sconfortanti. Su 378 comuni, 89 sono ancora senza Piano regolatore a 64 anni dalla legge urbanistica. Altri 135 hanno Piani vecchi di almeno venti anni, che equivale a dire che non li hanno perché sicuramente massacrati da varianti, modifiche... Forse si tratta soprattutto di piccoli comuni. Ma, ad aggravare la situazione, ci sono i dati regionali sugli accordi di programma, in crescita continua: erano 31 nel 2001, almeno 100 nel 2005. Stiamo parlando di atti che servono a derogare dagli strumenti urbanistici.
La «controriforma» dell’urbanistica della proposta di legge Lupi, rimasta al palo in questa legislatura, è solo rimandata alla prossima?
L’archiviazione della Lupi, vero cavallo di Troia della rendita immobiliare, è stata una grande soddisfazione. Né vanno trascurati alcuni segnali: quest’estate Prodi, a differenza della sinistra, mi pare abbia avuto una posizione chiara verso i cosiddetti immobiliaristi, distinguendo fra rendita e profitti. Sempre Prodi ha sostenuto che bisogna rimettere mano alla questione urbanistica, cosa confermata nel programma dell’Unione che propone un fatto inedito per la cultura italiana, il contenimento dell’espansione urbana. Spunti che inducono all’ottimismo. D’altronde, siamo obbligati a essere ottimisti alla vigilia delle elezioni.
Design, mobili, arredi stanno raccontando al mondo la creatività di Milano. È un peccato, però, che la medaglia presenti un rovescio. La mattina è un supplizio raggiungere il polo di Rho-Pero. Come accaduto per manifestazioni precedenti, code e intasamenti rendono impraticabili le strade intorno, fanno salire la tensione di operatori economici e abitanti, trasformano un fiore all'occhiello quale la nuova Fiera in oggetto di disagi e di invettive. È incredibile come Milano non riesca più a far quadrare politicamente ciò che il buon senso sarebbe stato sufficiente a rendere lapalissiano: le realizzazioni vanno coordinate. Per cui se si decide di portare fuori dalla città un'impresa delle dimensioni e delle capacità di richiamo della Fiera occorre ripensare e pianificare l'intera area. Altrimenti, se con una mano si attrae e con l'altra l'opera non viene resa gestibile si producono danni difficili da calcolare eppure reali. Qualche giorno fa su «Il Sole-24 Ore» Aldo Bonomi riferiva di una viaggio in Cina insieme a un gruppo di operatori proprio del mobile e mostrava le meraviglie che quel Paese sta facendo in termini di servizi espositivi. La risposta di Milano è la congestione di un pezzo di città e di hinterland? Agli imprenditori va bene di reggere la concorrenza con l'Asia in queste condizioni?
È difficile accettare che Milano non abbia un piano territoriale metropolitano, non riesca ad elaborare una idea di città pensata su un arco di dieci- vent'anni e secondo una visione strategica che riconosca e assegni funzioni, definisca servizi collettivi, disegni e organizzi il soddisfacimento dei bisogni, faciliti la distribuzione del lavoro, crei le occasioni perché la gente sia contenta e orgogliosa di stare qui, vivere bene, accogliere persone e risorse economiche così da farsi volano di progresso e di sviluppo solidale. Non c'è molto da inventare: basta rendersi moderni interpreti di una tradizione millenaria che ha reso grande la città ogni volta in cui ha avuto coscienza del suo ruolo «di mezzo» (Mediolanum, appunto) e non s'è chiusa, persa in interessi di parte, nella autoreferenzialità di specifici comparti, nell'egoismo individuale o di gruppo. È una sfida culturale che ci attende. Con interventi in singoli settori, opere anche apprezzabili ma non coordinate, risposte a sollecitazioni corporative non si va lontano. Una mentalità progettuale invece ci può far sperare e restituire fiducia, soprattutto ai giovani. Occorre smentire don Abbondio e i suoi eredi: uno il coraggio se lo può dare. E rischiare. Milano se lo aspetta, ne ha diritto.
La Nuova Fiera di Miano Polo Esterno in una Galleria di immagini nella prima apertura al pubblico della primavera 2005
ROMA - Il campo della cultura è rimasto molto oscurato nella campagna elettorale tutta gridata di queste settimane. É stato un argomento quasi assente nei dibattiti e nei «faccia a faccia» ma anche negli stessi programmi elettorali. Cosa naturale per la destra, molto meno ovvia per la sinistra. La parte riguardante la cultura del programma dell'Unione, preparata da un gruppo ristretto attorno alla responsabile ds Vittoria Franco, dedica un paio di pagine allo spettacolo dal vivo e poche di più ai beni culturali.
Questo nonostante negli ultimi anni la situazione si sia molto deteriorata, e la vera politica culturale l'abbia fatta Tremonti con i suoi tagli e le sue proposte di svendita del patrimonio culturale ai privati, piuttosto che i ministri Urbani e Buttiglione, che si sono limitati alle nomine amichevoli.
L'esempio di questi giorni della svendita di parte di palazzo Altemps a Roma (destinato a completare la sede del Museo nazionale romano), mostra ancora una volta quanto sia pericolosa la legge del silenzio/assenso introdotta dai «nuovi» regolamenti del settore.
L'unica voce politica che abbia elaborato un progetto riguardate questo campo, resta a pochi giorni dal voto quella di Giovanna Melandri, che è stata ministro dei beni culturali nel governo D'Alema, non senza molte critiche all'epoca. Poche settimane fa, mentre conduceva una campagna elettorale intensa e capillare, discutendo con gli autori cinematografici, dall .Anac a Ring, ma anche con il sindacato ferrovieri di Ostiense e con Patti Smith, ha pubblicato un libro, Cultura paesaggio turismo (Gremese, 10 euro, con prefazione di Romano Prodi), dove delinea un progetto inusuale e «scientifico» per la sinistra: puntare sul turismo come industria principale del sistema Italia, ma legandolo e «incastrandolo» al patrimonio artistico, anzi sottomettendolo alle sue regole ed esigenze.
Un progetto che nasce dal «senso di colpa » per la sua precedente esperienza di governo, o per avanzare di nuovo la sua candidatura a quel ministero, oggi molto appetito? Né l'uno né l'altro. Penso che rispetto agli anni in cui sono stata ministro, bisogna ricordare alcune cose del campo culturale nel suo insieme, patrimonio e produzione: ci sono state difficoltà economiche di bilancio complessivo, e la situazione si è complicata con i cambiamenti del titolo V della costituzione circa i rapporti tra stato centrale e enti periferici, che hanno fatto impantanare le leggi sulla musica e sul teatro (e sono convinta che noi sinistra avremmo dovuto essere difensori di una maggiore funzione centrale dello stato, anche se fra noi c'era chi avrebbe voluto direttamente cancellarlo, il ministero dei beni culturali). In quel contesto, io penso di aver ottenuto il più ricco Fondo per lo spettacolo della storia della repubblica. Rimango scontenta di non esser riuscita a fare le riforme strutturali sui meccanismi di erogazione di quei fondi, devo dire anche per colpa di certe resistenze «corporative» presenti nel mondo della cultura. Quanto poi al patrimonio culturale, mi sento perfino orgogliosa di quanto abbiamo fatto.
É da questo orgoglio che nasce l'idea di trasformare il patrimonio culturale in un investimento? Se si condivide l'idea che lo sviluppo del nostro paese si debba qualificare soprattutto attorno all'investimento su queste risorse (è chiaro che non mi limito allo spettacolo, c'è anche il patrimonio artistico e ambientale, e anche l'audiovisivo e il paesaggio.), questo settore diviene il terreno di un «new deal», parte di un progetto di crescita e riqualificazione che va al di là delle competenze di un singolo ministro, ma che riguarda tutto il paese e tutti coloro che lo amministrano: dall'ambiente alle comunicazioni, dalle infrastrutture all'economia. É un pezzo importante della risposta che il paese deve dare alla sua ricerca di quale sarà il suo posto nel mondo.
Quando però si parla di «trasformazione» in industria turistica, si tocca un campo minato dal rischio degli appalti, e quindi in prospettiva delle tangenti o peggio. Cominciamo col premettere che in Italia il turismo non è governato, offre servizi di livello medio-basso contro prezzi assai elevati rispetto alla media europea, è uno dei settori dove più forte è la percentuale di lavoro nero e di precariato, in cambio di margini di profitto altissimo per pochi rispetto ai servizi offerti ai cittadini. Che per di più concentra tutto il suo impegno in una stagione molto breve mentre da noi le attività potrebbero essere molto più estese nel tempo. Non casualmente abbiamo perso in quattro anni quattro milioni di turisti (mi piacerebbe chiamarli viaggiatori, piuttosto che turisti): quattro milioni di persone che tra il 2001 e il 2006 se ne sono andati in Spagna o in Croazia piuttosto che da noi. E su questi argomento la sinistra dovrebbe essere un po' meno «schizzinosa», fare meno «spallucce ». Ho una sorta di allergia alla concezione molto diffusa rispetto ai beni culturali, di pura conservazione e preservazione, quasi di sottrazione del loro godimento, a favore di pochi per paura delle fatidiche «masse». É una concezione elitaria che ho trovato molto radicata e diffusa al ministero, e anche tra gli intellettuali di sinistra che mi hanno fatto le bucce. Mi hanno rimproverato di aprire i musei anche il sabato sera, mentre io ho fatto anche la delibera per poter far entrare nei musei le carrozzine. Ci sono nodi antichi da sciogliere: siamo legati al passato in quanto la stessa sinistra si duole perché non abbiamo più fabbriche dove lavorino gli operai, ma non gradisce affatto la prospettiva che facciamo i camerieri o i giardinieri.
Era un dibattito che qualche decennio fa aveva altre ragioni di essere, oggi è quasi banale notare che nella globalizzazione avanzata e nel carattere immateriale dei processi di sviluppo, queste sono le risorse che abbiamo, e con cui fare i conti. Certo un processo del genere è difficile da progettare, evidentemente, tra i condoni, le sanatorie, il silenzio/ assenso per la vendita del patrimonio, il Fus quasi dimezzato. Se si desertificano i valori che possono costituire la qualità di quello sviluppo, poi non ci si può costruire una politica sopra. Ristabilendo regole e precauzioni, si può pensare a processi finanziari limpidi, e a anche a premunirci contro un turismo che minacciasse di usurare i beni che promuove. É una sfida che vale la pena raccogliere, avendo lungo tutta la filiera l'ossessione della qualità. E non mi riferisco agli alberghi a cinque stelle,ma agli ostelli della giovent ù, ai campeggi, all'impatto ambientale delle infrastrutture, e al problema connesso della mobilità. Sono consapevole di aver toccato solo di sfuggita tanti temi, altrimenti ci sarebbe voluto un saggio chilometrico.
L'idea di fondo è che bisogna costruire un sistema, e anche senza scomodare Roosevelt, c'è proprio bisogno di un «new deal». L'Italia attraversa una crisi e un declino non dissimili da quelli dell'America degli anni venti, un declino economico, sociale e perfino morale.
Proviamo a restringere il campo allo spettacolo: il cinema è fermo, il teatro allo sbando (almeno quello istituzionale), la musica taglia produzioni. A quanto bisogna riportare la percentuale di ricchezza per la cultura? Quali potrebbero essere le cose immediate da fare subito da parte di un governo di centrosinistra, chiunque siaministro. Per lo spettacolo ci sono tre priorità. La prima è riportare il livello del Fus a quello del 2001, il suo punto più alto, di cui resto orgogliosa, e che non mi fu affatto facile ottenere, pure da persone di valore come Visco. Per il cinema, bisogna subito impostare la riforma, basata su una quota di trasferimento pubblico, perché l'intervento pubblico nel cinema è ancora necessario, come nel teatro, nella musica o nelle biblioteche. I tre pilastri dovrebbero essere il trasferimento diretto, destinato principalmente a opere prime (e forse anche seconde), cortometraggi e documentari. Bisogna promuovere una palestra possibile per nuovi talenti. Per decidere tutto questo, senza cadere nell'arbitrio, non si sfugge a commissioni autorevoli e indipendenti che decidano. Il parlamento può al massimo valutare lo spessore scientifico dei loro componenti.
Poi c'è tutto da costruire un meccanismo che il cinema faccia crescere, che non è quello scelto da Urbani che indeboliva i deboli e arricchiva i ricchi. Si deve ricorrere al tax shelter, un meccanismo di favore fiscale a tutti i produttori e a tutta l'industria del cinema, e poi la creazione di un fondo che possa essere alimentato non solo dal bilancio dello stato, ma legato a tutta la filiera della produzione culturale. Che vuol dire prelievo sulla pubblicità, sui biglietti, e anche un prelievo, magari anche bassissimo, sul costo delle telefonate da cellulari. L'ho scritto nel mio libro, e già ha sollevato discussioni. Ma noi ci dobbiamo necessariamente inventare un modo per redistribuire le risorse. Del resto, già oggi ma molto di più in prospettiva, i grandi gestori stanno unificando il circuito della comunicazione, magari propugnando i film sul display del cellulare o dando le agenzie per sms.
Non sarebbe ingiusto che cominciassero a raccogliere fondi per questo circuito cui essi stessi sono interessati, senza lasciare tutto in balìa del puro mercato. L'alternativa, più pericolosa, è che gli stessi gestori diventino produttori di «contenuti».
Il nuovo piano regolatore di Roma è stato approvato definitivamente con buona pace di tutti. Anche di coloro che si sono opposti radicalmente ai suoi contenuti. I numerosi comitati che in quest’ultimo periodo hanno combattuto contro questo strumento sbagliato e ingiustificato, hanno infatti cercato di proporre un altro Piano, non la cancellazione di ogni regola. Ora le regole ci sono. Mi auguro che consentano di chiudere per sempre la fase delle deroghe che hanno arricchito pochi soliti noti e aggravato il funzionamento della città. Gli estensori del Piano assicurano che Roma sarà migliore di quella attuale. è allora importante ricordare, senza alcun preconcetto, gli errori di impostazione che ne compromettono in radice proprio la possibilità di rendere la città migliore. I piani urbanistici sono, infatti, utili se sanno interpretare e tentano di risolvere gli elementi di crisi dei sistemi urbani. E, nel caso di Roma, alcuni di questi nodi sono stati colpevolmente ignorati.
La prima e più grave omissione è, senza dubbio, l’assenza di un ragionamento sull’area metropolitana. A Roma non esiste da oltre un decennio nessun fenomeno urbano che non abbia origine negli squilibri tra Roma e il suo hinterland. L’intera provincia di Roma ha incrementato, nel decennio 1991-2001, la popolazione di circa 120.000 abitanti proveniente da Roma. Cittadini che non hanno potuto più permettersi di abitare nella capitale a causa di una rivalutazione immobiliare senza precedenti. Queste dinamiche indicano che sono in atto fenomeni spontanei di enorme intensità guidati dal mercato immobiliare. Basta ricordare l’andamento delle quotazioni delle abitazioni: Ance e Nomisma hanno stimato un aumento medio dei valori immobiliari su scala nazionale pari al 69 per cento nel periodo 1998-2005. A Roma la stima raggiunge il valore del 100 per cento di aumento, mentre nell’area romana è notevolmente più bassa. Era dunque facilmente prevedibile che i processi di valorizzazione urbana in atto nella capitale, non mitigati da politiche di creazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, avrebbero prodotto un fenomeno socialmente iniquo: la fascia meno protetta della popolazione si trasferisce in luoghi maggiormente accessibili dal punto di vista economico andando conseguentemente a ingrossare il numero dei pendolari che si recano quotidianamente a lavorare a Roma, sobbarcandosi interminabili ingorghi.
Di tutto questo, però, non c’è traccia nel nuovo Piano regolatore. Solo recentemente, in fase di controdeduzioni, è stata inserita in uno studio allegato la seguente frettolosa frase: «L’approfondita analisi delle dinamiche urbane dell’ultimo decennio consente di individuare alcuni elementi di novità rispetto al precedente scenario, e in particolare: [...] l’accelerazione dei flussi migratori verso i comuni della corona». Punto e basta.
Ma vediamo cosa hanno prodotto le dinamiche territoriali dell’ultimo periodo. La popolazione della provincia di Roma è passata da circa 986.000 abitanti [esclusa Roma] del 1991 a 1.103.000 nel 2001, con un incremento medio dell’11,9 per cento. Se si guarda il dato generale più in dettaglio, si scopre che la prima corona dei comuni metropolitani cresce a livelli molto più intensi del dato generale. I comuni del litorale nord [Cerveteri, Ladispoli, ecc.] presentano un incremento del 16,6 per cento. I comuni del comprensorio del lago di Bracciano del 27 per cento. La conurbazione della via Flaminia [Sacrofano, Morlupo, ecc] del 22 per cento. I comuni della valle del Tevere del 15,6 per cento. Il litorale sud [Pomezia, Ardea, Anzio e Nettuno] del 18,1 per cento. Sono percentuali impressionanti, tipiche di periodi particolari, come è avvenuto a Roma nell’immediato dopoguerra. Del resto, se la crescita media della provincia è più contenuta, lo si deve soltanto al fatto che il comprensorio dei Castelli romani cresce a un ritmo più contenuto della media [8,2 per cento] per la funzione deterrente dell’esistenza del Parco regionale, e il comprensorio del Sublacente mantiene la popolazione senza incrementi.
E’ poi evidente da tempo che il funzionamento metropolitano di Roma coinvolge territori esterni alla stessa provincia. Le aree meridionali del viterbese [Sutri, Nepi, ecc], il basso reatino con Fara Sabina e i comuni limitrofi, il comprensorio di Aprilia e Cisterna in provincia di Latina, l’alta valle del Sacco nel frusinate, solo per citare i casi più macroscopici, funzionano ormai come pezzi dell’enorme periferia romana. In un raggio di 60-70 chilometri dalla capitale è evidente il fenomeno d’area metropolitana e del conseguente pendolarismo giornaliero.
Il nuovo Piano regolatore avrebbe dovuto, insomma, affrontare nelle mutate condizioni lo storico problema dell’urbanistica romana, quello del decentramento delle funzioni direzionali, così da alleggerire la domanda di accesso verso il centro della città. In realtà è stato fatto il contrario. Anche in questo caso, facciamo parlare i documenti. Nella relazione di Piano si afferma che «non è più attuale la questione dello spostamento delle sedi dell’amministrazione centrale dello stato». Un breve rigo che cancella trent’anni di dibattito culturale sui destini del centro storico. E che cancella anche ogni velleità di riequilibrio con le periferie urbane e con l’area metropolitana. Paradossalmente, poi, si è fatto anche di peggio. Le concrete politiche abitative aggravano ulteriormente gli squilibri spontanei. Il comune di Roma, nel tentativo di dare soluzione ai gravi disagi abitativi, ha infatti acquistato interi edifici nei comuni di Albano, Pomezia, Anzio e Aprilia allargando il concetto di periferia all’intera area metropolitana.
E, nel nuovo Piano, le conseguenze di questa gigantesca domanda di mobilità non sono state affatto indagate. Ricordiamo che uno dei precedenti assessori alla mobilità nonché vicesindaco della giunta Rutelli, Walter Tocci, ha affermato che allora fu realizzato il modello del traffico privato indotto dal nuovo Piano e verificata la sua compatibilità con la struttura urbana. I risultati avevano dimostrato che la città non reggeva l’impatto ed era previsto il blocco dell’intero sistema. Nei giorni precedenti l’approvazione del Piano è stato addirittura accettato un emendamento di Forza Italia che prevede un nuovo raccordo anulare ancora più esterno del Gra. E mentre si parla solo di future metropolitane, prepariamoci a sprofondare nel traffico.
Un sottile strato di cemento e mattoni, una ringhiera e delle panchine sono stati sufficienti a trasformare il robustissimo Pontile Nord di Bagnoli, da cui sono transitati milioni di tonnellate di materiale destinato all’Italsider, in una spettacolare passeggiata sospesa sul mare: quasi un chilometro di panorama puro, reso per la prima volta accessibile al pubblico a dicembre. Invece di correre parallelo alla costa, come le banchine dei porti, il pontile si proietta perpendicolarmente verso il centro del golfo di Pozzuoli, con una vista a 360° da Capri ai Camaldoli, da Capo Miseno a Nisida, fino agli edifici dell’ex industria siderurgica che si è scelto di conservare: le ciminiere, l’altoforno, la torre di spegnimento e l’acciaieria.
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L’intervento di Luigi Lopez, l’architetto del Comune di Napoli incaricato del progetto, è stato realizzato con tempi e fondi talmente esigui che la sproporzione tra la sua sobrietà e la qualità del risultato ha un che d’irreale. Paragonata all’ossessivo ricorso allo star-system dell’architettura da parte delle amministrazioni delle grandi città, questa scelta sembra quasi una provocazione.
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Ma l’elemento autenticamente rivoluzionario del pontile è l’assenza di attrezzature: è uno spazio completamente pubblico, senza bar, ristoranti, giochi o servizi, che offre soltanto la possibilità di camminare e guardare, e nonostante questo – o meglio proprio per questo – è pieno di gente. Di rado un luogo, soprattutto se urbano, mostra altrettanto chiaramente il legame di interdipendenza che si può instaurare tra queste due attività: chi va sul molo prova un’irresistibile impulso a passeggiare per godere del continuo cambiamento di quello scenario eccezionale, delle variazioni del punto di vista e della luce; ma è proprio la libertà di muoversi senza prestare attenzione alle vetrine, alla strada, agli ostacoli, a consentirgli di guardare il panorama.
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In assoluta controtendenza rispetto all’horror vacui che impone di stipare stazioni, moli, piazze e parchi di chioschi e tendoni, di recintare tutto, di rendere ogni vuoto funzionale al commercio, Napoli ha aperto questo spazio libero e gratuito agli abitanti di una delle città più congestionate d’Europa, e subito questi l’hanno riempito con i loro corpi, così come avevano popolato Piazza Dante. Ma uno spazio vuoto è un territorio di conquista, sempre esposto agli assalti di chi vuole in un modo o nell’altro metterlo a frutto, e il solo entusiasmo popolare non basta a difenderlo: un’idea così radicale di spazio pubblico ha bisogno, per non essere ridotta a un momento di felicità transitoria, di essere compresa nel suo significato culturale e politico.
A che punto è la questione di Palazzo Altemps? Un botta e risposta fra l’ex ministro Giovanna Melandri e il Ministero per le attività e i beni culturali riaccende la questione della vendita di una parte del prezioso immobile sul quale l'amministrazione dovrebbe esercitare il diritto di prelazione. «Vorrei chiedere al Ministro Buttiglione - dice la Melandri in una dichiarazione - se corrisponde al vero la notizia, che circola insistentemente da qualche ora, secondo la quale l Agenzia del Demanio avrebbe già deliberato da oltre quattro giorni lo stanziamento di circa 19 Milioni di Euro per l’ acquisto di Palazzo Altemps. Risulterebbe infatti - continua la Melandri - che lo scorso 31 Marzo l’Agenzia del Demanio avrebbe assunto tale deliberazione e dato questa notizia al Ministero dei Beni Culturali. E però ancora ieri il Ministro Buttiglione ha insistito nel dichiarare che "sta cercando le risorse per acquistare Palazzo Altemps"». «E vero? Non è vero? - chiede l’ex ministro - Buttiglione lo sa? Buttiglione lo sa ma non lo dice? Buttiglione non lo sa? Demanio e Beni Culturali si parlano tra loro?»
Risponde il portavoce del ministro Buttiglione, Walter Guarracino: «Il ministro ha detto che la cifra messa a disposizione dal Demanio non è sufficiente a coprire l’intero fabbisogno per l’acquisto di Palazzo Altemps. Il ministro ha rivolto in quella sede un appello al Demanio perchè compia un ulteriore sforzo, che si affianchi al lavoro che comunque il ministro sta facendo per valutare tutti gli elementi della vicenda».
Il turismo di massa minaccia le meraviglie del pianeta. A rischio sono Venezia, le antiche mura del Machu Picchu così come le nevi eterne del Kilimanjaro. Il settimanale Newsweek ha stilato una lista delle sette mete da salvare. Tra queste, la Grande muraglia cinese, la barriera corallina indonesiana e i templi di Luxor, saccheggiati dai viaggiatori “tombaroli”.
L´incubo prende forma quando sette milioni di turisti raggiungono in un anno le spiagge di Cancun. O quando un milione di persone visitano il tempio di Angkor, nascosto nell´impenetrabile foresta cambogiana. Minacciate dalle orde del turismo di massa, le meraviglie del pianeta sono in pericolo. Monumenti, vecchie pietre e fondali tropicali sono tutti a rischio, dicono gli esperti. Venezia, le Maldive, le imponenti mura di Machu Picchu così come le nevi eterne del Kilimanjaro potrebbero presto scomparire. E non solo per colpa dei soliti noti: guerre, sconvolgimenti climatici, sviluppo dissennato, inquinamento. Ma soprattutto, e questo è il paradosso, per via delle stesse persone che percorrono anche migliaia di chilometri per ammirare tanta bellezza.
Solitari o in gruppi organizzati, lo scorso anno i turisti hanno raggiunto una cifra da primato: 806 di milioni di viaggiatori hanno visitato città d´arte, scalato montagne, navigato per i mari del Sud. Troppi, specialmente quando scorrazzano con le snowmobile nel parco dello Yellowstone o gareggiano con il go-kart sulla Grande muraglia. Più dannosi ancora sono i turisti "tombaroli" che rubano preziosissimi reperti dai templi di Luxor o che saccheggiano i fondali sottomarini per riportare a casa una conchiglia o un rametto di corallo. È vero, la Cina è un continente: ma nel 2004 un miliardo e mezzo di cinesi hanno viaggiato in patria per motivi "turistici".
Il settimanale Newsweek ha appena stilato una lista delle sette meraviglie da salvare. Prima tra tutte, l´Iraq: non solo il museo archeologico di Bagdad o il santuario sciita di Askariya, bensì l´intero paese. Tra i siti più minacciati figura anche Venezia, che dalle sue origini sprofonda nella laguna su cui poggia alla media di un centimetro ogni cent´anni. Innumerevoli sono stati i tentativi di salvare la Serenissima. Ma si tratta sempre di interventi così costosi che, come sostiene il settimanale, la città da sola non potrà mai affrontare.
Sette o settanta che siano, questi siti possono essere salvati soltanto da un turismo "compatibile", cioè rispettoso, attento, partecipe. Dice Bonnie Burnham, presidente del Fondo mondiale per i monumenti: «Se non si fanno rispettare le regole, il turismo di massa distruggerà in pochi anni quello che fino a ieri ci sembrava destinato a durare in eterno».
La minaccia non risparmia gli angoli più remoti e disagiati del pianeta. Da qualche anno, l´Antartide è una delle mete più ambite del turista ecologico. E ricco, dal momento che i prezzi per un trekking nel Continente bianco partano da un minimo di 50.000 dollari. Pochi se si pensa che quest´opportunità potrebbe svanire nei prossimi trent´anni: secondo gli scienziati si stanno ritirando 212 dei 214 ghiacciai che circondano il Polo sud.
I ghiacci che si sciolgono e gli uragani, la minaccia di uno tsunami o di una grave pandemia virale sono le altre variabili che non può ignorare chi oggi decide si mettersi in viaggio per piacere. È un po´ come se la Terra cercasse di proteggersi con i soli mezzi di cui dispone. Eppure una cosa è certa: il numero dei turisti è destinato a crescere. In modo esponenziale.
Il tracciato adesso c'è. Dopo anni di polemiche e battaglie politiche, la commissione ministeriale per l'impatto ambientale ha promosso il tratto costiero della Livorno-Civitavecchia sponsorizzato dalla Regione Toscana ed ha bocciato l'ipotesi collinare sostenuta dal ministro Lunardi.
Habemus autostrada? Niente affatto. Perché se è vero che dopo 36 anni il «tracciato» è stato scelto, l'autostrada «Tirrenica» (cioè il prolungamento della A12 da Livorno a Civitavecchia), buco nero della viabilità europea, resta un'ipotesi lontana. E non solo per mancanza di finanziamenti (servono almeno 2,5 miliardi di euro), ma perché il sì al tracciato costiero non mitiga le proteste di ambientalisti e comitati, appoggiati da residenti, vip, agricoltori e viticoltori che da sempre si battono per l'ammodernamento della vecchia Aurelia e sono pronti a scendere in piazza.
Non mancano i sostenitori dell'autostrada, amministratori regionali, comunali e imprenditori locali, guidati da nomi illustri come Giuliano Amato, residenza ad Ansedonia. «È un vantaggio, la Tirrenica separerà il traffico locale da quello pesante. Bene il no al tracciato di Lunardi, ma attenzione a non deturpare le zone più belle della Maremma, come il Fontanile dei Caprai vicino a Capalbio».
L'effetto comitati, come per la Tav e i rigassificatori, scatterà dopo le elezioni. Una settimana di tregua, poi sarà battaglia, durissima e trasversale. Nel cartello del «no» all'autostrada non ci sono solo Verdi. Contrari sono il produttore televisivo Marco Bassetti, marito di Stefania Craxi, il fisico Gianni Mattioli, lo storico Nicola Caracciolo, imprenditori e agricoltori. Sostengono le ragioni del no pure i senatori diessini Franco Bassanini ed Esterino Montino, che hanno casa a Manciano e Orbetello.
«Anche se il guaio più grave lo ha fatto il ministro Lunardi, puntando al percorso collinare con viadotti e gallerie che avrebbero deturpato una delle parti più belle della Maremma — spiega Bassanini — sono contrario pure all'ipotesi dell'autostrada costiera. Basta la messa in sicurezza dell'Aurelia».
Non ha dubbi neppure Montino: «Il tratto dell'Aurelia tra Civitavecchia e Tarquinia diventerà a quattro corsie. Battiamoci perché i lavori proseguano sino a Grosseto. Senza nuovi tracciati». E Pancho Pardi (casa all'Argentario), il professore-contestatore (è un geografo), ribatte: «L'Aurelia ha bisogno di essere sistemata in due brevi tratti, a sud di Ansedonia e tra Tarquinia e Civitavecchia. Il resto sono soldi sprecati».
Vittorio Emiliani, domicilio a Capalbio, già direttore del Messaggero, è presidente di uno dei comitati (quello della Bellezza) che da anni combattono i progetti dei due tracciati. «Questo progetto, come quello di Lunardi, è grottesco, non c'è un euro disponibile, eppure si insiste per costruire un'autostrada che non serve a niente. Basterebbe mettere in sicurezza i tratti peggiori della vecchia Aurelia, tra Orbetello e Civitavecchia, non più di 22 chilometri. Si spenderebbe la metà e l'impatto ambientale sarebbe minimo».
L'architetto Valentino Podestà, maremmano d'adozione, è convinto che l'autostrada provocherebbe danni irreparabili. «Non è un problema di tracciato — dice —. Quello costiero voluto dalla Regione e approvato dalla commissione non è migliore del progetto collinare di Lunardi. Entrambi deturpano, distruggono aree di grande impatto ambientale, minacciano il Parco naturale dell'Uccellina, rischiano di abbattere per sempre casali e aziende agricole. Ci batteremo per salvare la Maremma dal cemento».