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Sì ci vado, ci vado a Scampia, nessun problema, ci parlo con la gente. Il mio mestiere è scrivere, ma per scrivere bisogna saper ascoltare, guardare, capire.

E allora ci vengo, ci vengo anche il 13 Agosto con un calore che scioglie le pietre e raffiche di vento leggero che asciugano il sudore, in cerca di «sorprese» in cerca di «verità», in cerca di chi?, di cosa?

La dichiarazione di un sindaco che meriterebbe un premio almeno per la migliore gaffe estiva, mi regala questa possibilità di raccontare ancora il paradosso e la tristezza. Sono un privilegiato, io la racconto e loro la vivono. Non farei a cambio.

Casermoni ormai simbolo del degrado. Il sindaco che si lascia scappare la provocazione «io chi le ha progettate lo fucilerei... ». E il «repertorio» della periferia: spaccio, camorra, niente servizi. «Soluzione? Ci portassero tutti a Sorrento e poi ci buttate una bella bomba. Ma non si può fare, perché qua è bbuono per loro... ».

Le parole un po' avventate del primo cittadino che voleva fucilare un'architetto morto, per il «danno» fatto a Scampia, danno che ripetiamolo ancora, storicamente hanno fatto loro, i politici, isolando questa zona per sempre dalla civiltà e dalla città. Tali vicende in questo scampolo d'estate mi offrono dunque questa passeggiata di fuoco, riportano l'attenzione su Scampia e mi danno da lavorare e a Napoli chi sei sei il lavoro è prezioso.

Il salto è un vero viaggio astrale, un planare nell'impotenza dei fatti e nella battaglia estrema dello scrittore per non ripetersi su di un tema logoro, per non arrendersi alla retorica, per non lasciare perdere e cambiare mestiere. Ma non posso, come non può Salvatore L., l'unico povero cristo che parlerà con me, andarsene dalla «Vela» gialla, (per chi non lo sa ve ne sono di diversi «colori» ) e allora nemmeno io posso sottrarmi a questa sfida.

Tutta, tutt'Italia sa tutto di questo luogo infausto, sa della droga in ogni angolo, delle condizioni disumane di vita, del fatto che le vele sono alveari per uomini e della camorra che impera. Sa perfino della «resistenza» vera o presunta, della musica degli «A 67» e della micro farsa dei «ragazzi di Scampia» a Sanremo. Forse sa dell'Arci-Scampia, della associazione «Hurtado» e delle altre coraggiose associazioni di quartiere, sa che a Scampia si lotta e si vive e che ci abitano tante persone degne e non solo i camorristi. La gente le sa queste cose, e allora? Le «Vele» stanno ancora qua e ci resteranno a lungo pare, e allora? Allora cammino, cammino nel sole, senza cellulare, senza portafogli, senza orologio, e il perché lo potete immaginare, cammino e guardo e penso e mentre mi aggiro mi volto e vedo un giapponese, (o è un cinese?) con tanto di macchina fotografica a tracolla, zaino e probabilmente denaro, che saltella fuori dalla stazione metro di Piscinola e scende «giù» a Scampia, dove si prendono i bus per le «Vele».

Che diavolo ci fa qui? Si è perso? Lo avvicino? Lo avverto? Tiro un sospiro, per fortuna torna indietro. Ma chi ha ragione lui o io? Io! mi dico forte, e per sostenere la mia tesi pavida ma realista, penso al tema di Mario, 11 anni, di una scuola media di Secondigliano. Opera che ho letto in rete dal titolo: «Cosa faresti se fossi invisibile?». Svolgimento: «Essere invisibile è molto bello perché nessuno non ti vede in mezzo alla via e così posso rubbare i portafogli di tutte le persone in mezzo alla via. Poi vado in una gioielleria e mi rubbo tutti gli gioielli che c'erano nel magazzino di Napoli. Poi mi rubbo gli anelli di tutte le persone che stanno in mezzo alle vie. E poi vado a rubbare cioccolatini panini caramelle e gomme».

Bello Mario, bravo, 10, non avrei fatto di meglio, nessuno farebbe di meglio se fosse nato qui. Sono casi rari quelli dei reduci vittoriosi o degli impegnati nel sociale. Fa ridere il tema di Mario? Fa riflettere? Fa pensare? Fa dire ah? Oh? Guarda un po'? Marcello d'Orta ci volesse fare un altro libro? Mondadori ovviamente. Sì?

Fa piangere il tema di Mario? Non lo so. Qua il sudore diviene sangue, le lacrime riso, la verità un falso studiato. Cammino, cammino e penso che se vivessi qui non c'è la farei, se vivessi qui non so cosa farei, se vivessi qui odierei, rubare non mi basterebbe. Bravo Mario, crescerai Mario e mi capirai, ma per allora la vita nella «Vela» ti avrà stracciato mezz'anima, si può vivere con mezz'anima così come con mezzo cuore? Chissà, divago, scusate, sarà il caldo...

Passano due ragazzi in vespa, rallentano, so cosa pensano. Pensano se «mi sanno» «se appartengo a qualcheduno» e se sì, a chi? Proseguono, mi avranno scambiato per qualcun altro, ma è stata una svista a mio favore evidentemente. Una volta conoscevo uno che per otto giorni era dovuto stare nascosto come un topo perché somigliava a uno della «nuova famiglia» al tempo della grande guerra con i Cutoliani, altri tempi. Poi ammazzarono quello vero e lui riuscì a tornare alla luce del sole. Se fosse accaduto oggi lo avrebbero ammazzato lo stesso, solo per la somiglianza con «quella faccia di merda». Bei tempi quelli.

Cammino. Che cazzo di calore. Sono arrivato su delle lunghe e insensate autostrade di polvere e nulla che collegano internamente le vele rimaste in piedi. La notte sono gli autodromi di corse in moto e a cavallo, dicono, mai venuto a giocare qui ma c'è chi ne ha scritto e c'è che le corse le fa e chi ci gioca i soldi. Il cinese l'ha scampata comunque, certo che se la cercano...

Comunque, a Napoli la miseria è sempre stata inspirazione, diviene musica, libri, inchiesta, documentari, film, reportage giornalistici. Ci copriamo con la nostra immondizia e ne facciamo pubblico sfoggio. Già, questa è vera arte della sopravvivenza, siamo maestri, è noto, ma è anche serio? Che caldo. Dove vado? Non ci sono punti di riferimento, cerco di ricordare il lungo cammino all'inverso per ritornare alla stazione della metropolitana di Piscinola, a qualche chilometro. L'hanno chiamata stazione di Scampia, credono di poter prendere in giro la gente, la metro fino alle «Vele» non ci arriva, ma è già tanto così, fino a poco tempo fa non c'era nemmeno quella... Bassolino ha «investito» più soldi di Mecenate nella sua passione estrema per l'arte contemporanea e a Napoli ci ha fatto fare delle mostre alla stazione di Piscinola, o comunque le farà possiamo esserne certi, in questa stazione capolinea che sembra quella di una città svedese per eleganza e pure per pulizia. Con qualche soldo in più rifacevano il quartiere, ci mettevano qualche servizio, uno, due, le cose essenziali. La rabbia mi sale alla testa, di chi è la colpa? Dio sa se non lo fucilerei anche io...

Un ragazzo appena adolescente si rimira nello specchietto retrovisore del motorino, più in là, fermo al margine della carreggiata deserta. Si aggiusta i capelli impomatati, «sei bello?» ma sì, sei bello! Ma chi è stato? Chi è stato a farci questo? O è stato sempre così e lo abbiamo dimenticato? Sulla lunga dirittura da far west, da sfida all'«Ok Corral», in senso inverso mi si avvicina un uomo, mi sembra. Dove va? Qua non c'è niente, cosa fa? I casermoni in cemento sono ad almeno 500 metri. C'è l'ha con me? Forse è una visione, un miraggio in questo deserto.

All'improvviso mi ricordo del mio proposito di parlare con la gente, anche uno solo è la gente? Sì, anche io sono la gente. Allora lo fermo. «Lei abita qui?». Mi guarda con un sorriso pacato, con una certa compassione, si asciuga il sudore con un fazzoletto lindo e bianchissimo nel sole. «No, sono in vacanza» mi risponde tomo in un italiano senza alcuna inflessione dialettale. Scoppiamo a ridere insieme, tutti e due, nel mezzo del niente assoluto.

«Ma dove va?» protesto. «Io là» risponde indicandomi una indistinguibile fermata d'autobus a un centinaio di passi, «ma lei invece dove va ?». «'Cca nun ce sta niente» mi risponde d'acchito recuperando il dialetto per paura di non essere compreso, e allungando un braccio in gesto plateale verso il mostro di cemento, «solo 'e ccase» conclude. Le case, sì, le «Vele». Annuisco. «Io veramente volevo fare qualche domanda parlare con chi abita nelle vele». «Lei è scrittore, giurnalista?». Annuisco ancora, mi si è seccata la lingua, c'è troppa polvere sulla strada.

«Andiamo, vieni vieni, ti dico io». Ci incamminiamo verso la fermata fantasma e allora Salvatore inizia a parlare, ma la sua vita in Germania non è fondamentale per questa storia. Solo quando arriva un aeroplano la discussione si anima. «Lo vedi quell'aereo? A noi ci dovrebbero portare tutti come stiamo stiamo a Sorrento e poi cheti cheti ci buttate una bella bomba qua sopra e non se ne parla più. delle vele né niente e risparmiano pure, ma non si può fare e lo sai perché? Perché qua è buono per loro!».

Resto a bocca aperta mentre come un calesse fantasma un autobus arancione spunta lontano sullo stradone, in fondo. «Salvatore ma per chi è buono? A chi fa comodo?».

«A loro» risponde secco Salvatore e a chi se no? A mme?

«Ma a loro chi? Ai camorristi, al governo, agli amministratori, alla gente, a chi?»

«Ehhhh! A lloro! Ma come sei giornalista e nunn'o 'ssai ? 'Cca pe' lloro è bbuono!».

Salvatore sale su di un'autobus che non faccio nemmeno in tempo a capire dove possa mai andare e scompare con la sua diligenza. Io non salgo, resto. Guardo l'orologio ma l'ho lasciato a casa, mi voglio chiamare un taxi ma non ho il cellulare con me, ammesso che mi venga mai a prendere qui dove sono, ma dove sono? Vorrei un bar, un caffè, un litro d'acqua, una panchina, un albero. Sfrecciano due altri giovani in motorino. «Stai cercando a' rrobba?». Scuoto la testa. «E allora vattene va che cazzo vuo’?».

Annuisco di nuovo e stavolta parlo. «Aspetto il pulmann» faccio un ghigno. «Il prossimo».

Il ragazzo avrà forse quattordici anni, ma ha un viso duro, selvaggio. Sputa per terra guardandomi in faccia. Si asciuga. «È vire e fa ampresso va!».

Fare presto, già, è una parola adesso. Intanto oggi è 13 agosto 2006 alle “Vele”.

Domani ne abbiamo 14.

Arrivare a Saepinum di primavera, al tramonto, è stata per me una delle emozioni della vita. Colpite da una luce ancora vivida le mura ciclopiche di quella antica città romana riportata alla luce pochi decenni or sono sembravano anche più tenere e insieme più potenti. All’interno, la cavea del teatro si stagliava netta sormontata da casette medioevali che il restauro aveva, per fortuna, preservato. La visione dell’antica Saepinum, fondata dal console Nerazio Pansa sfruttando i denari riscossi dai pastori transumanti in cambio del ricovero entro le mura lungo il cammino da o verso il mare di Puglia, era stata improvvisa, quasi inattesa in mezzo ad una campagna verdeggiante. Che subito ci sembrò “antica” essa pure con le siepi fiorite, altrove invece sradicate, a separare i campi. In alto sulla collina spiccava il borgo medioevale di Sepino, aggraziato e severo. Dentro le mura romane, oltre al teatro (come non immaginarvi una commedia di Plauto o una tragedia greca?), la città appariva leggibilissima coi suoi colonnati lungo il cardo e il decumano, col Foro, la Curia, la Basilica, le mura perimetrali degli edifici principali, e poi gli impianti agro-industriali dell’epoca: il mattatoio, i frantoi delle olive, i depositi per l’olio, le lavanderie e le tintorie. Una vera e propria città, in origine sannitica, potenziata e arricchita però in epoca imperiale, nel cuore dell’odierno Molise, a pochissimi chilometri da Campobasso.

Allora Saepinum contava poche migliaia di visitatori all’anno. Ora è arrivata attorno ai centomila. Nel frattempo, terminati i restauri e manifestatasi una prima corrente di turisti, sono cominciate pure a fiorire le idee bislacche. Per esempio un bel parcheggio asfaltato per i pullman dei gitanti proprio sotto le mura. Poi un motel a poche decine di metri da questa intatta città della transumanza. “Una siepe di lauri e qualche staccionata sono però riusciti a metterla lungo le mura”, commenta critico Oreste Rutigliano, consigliere nazionale di “Italia Nostra”, il quale si batte da anni a favore di Saepinum. In compenso nel borgo medioevale di Sepino, sono state restaurate dall’architetto Pasquale Parenze una antica taverna con alloggio e una dimora di pregio. Buoni esempi che si sperano contagiosi.

Da qualche tempo però sono ben più gravi le minacce che si addensano su questo autentico gioiello dell’età romana, studiato e recuperato da Adriano La Regina quando era soprintendente in Abruzzo e Molise. Invece di tenersi caro questo antico patrimonio, si pensa di circondarlo di cose che potranno soltanto guastare il bel paesaggio che lo circonda.

La montagna e l’alta collina della verde Valle del Tammaro in cui è adagiata la bianca città di Saepinum è infatti minacciata da vicino dalla installazione di trenta pale per l’energia eolica, alte 120 metri l’una, su di un crinale ben visibile, per la lunghezza di 4 chilometri. Non basta, purtroppo. Nella stessa vallata, soltanto in parte protetta da vincolo paesaggistico, la Regione Molise progetta un aeroporto con tutte le pesanti infrastrutture che esso comporta. Lì dovrebbe poi scorrere un grande asse stradale che è palesemente il doppione di un altro già in via di completamento. Né manca un’area industriale da insediare sempre nei pressi.

Contro questo modello di sviluppo vecchio e pesante hanno preso posizione “Italia Nostra”, il Wwf e numerosi Comuni della zona. Un primo risultato è stato ottenuto: una moratoria per le pale di Saepinum fino a quando il Consiglio regionale non avrà approvato il piano energetico (250 torri eoliche in luogo delle 900 preventivate). Ma le forze politiche in Regione si equilibrano nel pro e contro, e quindi la vigilanza deve continuare.

“Con una mano la Regione incentiva agricoltura doc e turismo culturale”, dicono all’ufficio studi della Coldiretti a Roma, “con l’altra promuove attività in rotta di collisione con quei due settori fondamentali.”. “ Noi siamo contrari a questo dilagare dell’eolico nel paesaggio molisano e altrove”, afferma Stefano Masini della Coldiretti nazionale, “e favorevoli invece all’eolico e al solare diffuso, di fattoria”. Il direttore regionale dei Beni culturali, Ruggero Martines, ci sta provando ad estendere il vincolo paesistico a tutta la Valle del Tammaro e però incontra resistenze, anche nel viluppo di norme del Codice Urbani. Possibile che il paesaggio agrario, che si sposa benissimo col patrimonio dei centri storici e dell’archeologia, qui diffusa, debba essere soltanto considerato come territorio in attesa di speculazione edilizia o comunque di sfruttamento intensivo e improprio?

Caro Eddy, dalla tua ultima home page leggo un intervista di Gigi Marcucci a Campos Venuti. Va tutto più o meno bene. Diciamo che va tutto tanto più bene quanto sono lontani gli episodi di vita, non solo professionale, che Bubi rievoca.

Va poi molto male quando, come nell’ultima domanda, Campos ricorda la recente esperienza della sua consulenza al nuovo Prg di Roma. Per quanto riguarda il Piano in sé, eddyburg vi ha dedicato tante pagine e critiche autorevoli (prima fra tutte quella di Vezio De Lucia, che a sue spese ha ricostruito il folle sovradimensionamento del Piano), che non vale la pena di soffermarsi più di tanto, se non per ricordare due cose:

1. La stesura del Piano è durata 12 anni, tutto compreso (è un tempo inaccettabile per un urbanista che si rispetti). E’ una critica che ho già sollevato pubblicamente in presenza di Campos che si scandalizzò, insieme a Marcelloni, che guidava l’ufficio, e a Federico Oliva (braccio destro di Bubi). A Maurizio Marcelloni suggerirei di rileggere il libro che Laterza (o tempora, o mores!) gli ha pubblicato, per ripulirlo dalle numerose bugie che lo pervadono. A Federico Oliva, vecchio amico, consiglierei di ritornare ai tempi in cui era meno “moderno” e meno “berlusconiano”;

2. Campos ha coniato espressamente per Roma, credo, un fortunato slogan: “Pianificar facendo”. So di apparire un po’ troppo eccentrico rispetto ai tempi che corrono nella povera urbanistica italiana, ma mi è consentita una domanda? Un tempo, non lontano, “pianificar facendo” non era un reato?

Passiamo poi alla “cura del ferro”. Campos, riferendosi all’esperienza romana, letteralmente dichiara: “la soluzione che non sono riuscito a imporre a Bologna, quella che io chiamo “la cura del ferro”. Quando arrivai a Roma come consulente del Piano, questa fu la bandiera che Rutelli accettò di impugnare. Quasi mezzo secolo fa si diceva che l’automobile (…) doveva diventare un mezzo per tutti. Ora tornare indietro non è facile ma, come dimostra l’esperienza romana, non è nemmeno impossibile”. Mi trovo costretto a ricordare cose di cui sono stato testimone e protagonista (dal 1993 al 1997 sono stato consulente di Walter Tocci per i trasporti e ho presieduto la società pubblica che, in compartecipazione con i francesi di Ratp e Sncf , si è occupata delle metropolitane a Roma):

La “cura del ferro” è uno slogan di Walter Tocci. Tocci puntava, dietro la spinta forte di un gruppo di noi, a fare l’Assessore all’Urbanistica. Qualcuno lo stoppò, mettendo al suo posto un outsider, Domenico Cecchini, molto vicino e molto devoto al Sindaco. Di conseguenza, fra i due assessori vi era concorrenza e conflittualità. Il Piano che con Tocci mettemmo a punto (Agenda dei trasporti) approvato dal Consiglio comunale nel 1995, lo facemmo cercando di incontrarci il meno possibile con “gli uomini” di Cecchini (e di conseguenza anche con Campos). Nello stesso tempo, fin dal dicembre del 1993, cominciarono incontri serratissimi con Fs: in pochi mesi venne realizzata l’integrazione tariffaria estesa a tutto il Lazio e, a infrastruttura invariata, messo a punto un sistema di linee passanti, prima fra tutte la FM1 (Fara Sabina-Fiumicino). Questo ha consentito in pochi anni di passare da poco più di 50 mila, a oltre 200 mila passeggeri giorno sulle cosiddette ferrovie metropolitane (FM, appunto). Ma ancora oggi non esiste un collegamento diretto, che per altro sarebbe poco utile, fra Termini (stazione di testa) e Trastevere (che si trova sull’anello Ovest). Posso citare come segnale della distanza fra Bubi e la Cura del ferro la frase della richiamata intervista che recita: “Per andare da Termini a Trastevere, una volta si prendeva il taxi. Oggi lo si può fare in treno, in poco tempo” (sic!) ?

Come ricordavo, passai ad occuparmi di metropolitane. Da una posizione molto autorevole: venni nominato presidente della società Sta/Sdt sistemi di trasporto Spa. 50% Comune di Roma, 50% Systra, la società di ingegneria dei trasporti più importante al mondo, a sua volta al 50% di proprietà di Ratp (metropolitana di Parigi) e al 50% di Sncf (le ferrovie francesi). Raggiungemmo ottime performance. Con pochi uomini (e donne) mettemmo a punto un programma e dei progetti per la linea C che già nel 1996 erano in conferenza dei servizi. Presentammo i nostri risultati in un convegno pubblico nell’ottobre del 1997, a pochi giorni dalla campagna elettorale. Fu un successo. Campos venne a complimentarsi con me. Cecchini bolliva dalla rabbia. Purtroppo io sapevo già che non sarebbe finita bene. Da qualche mese eravamo sotto tiro. Non piacevamo agli imprenditori romani che temevano le gare e, forse, i francesi (ma sbagliavano, i francesi erano in cabina di regia per motivi di prestigio e non avrebbero potuto partecipare alle gare). E io non piacevo all’establishment: non accettavo raccomandazioni. Subito dopo le elezioni fu deciso di chiudere la società con i francesi e di chiudere con me. Il mio capo-progetto della Linea C, Jerome de la Menardière, definito dai giornali romani (una volta tanto un’esagerazione ben riposta) “il mago delle metropolitane”, arriverà dopo qualche tempo a Torino. E’ lui la mente tecnica della metropolitana a guida automatica (la prima in Italia) entrata in servizio prima delle Olimpiadi invernali e realizzata a tempo di record. La Sdt viene liquidata con 31 dipendenti. La nuova sezione ingegneria di Sta spa, dopo pochi, mesi vede decuplicati gli organici. Ma, a dieci anni da allora, nessuno ha ancora visto un centimetro di nuove metropolitane. E per quello che capisco io, anche i nostri nipoti dovranno aspettare. Nonostante la stampa romana continui a scrivere da anni lo stesso articolo sulla B1 e sulla C che stanno lì lì per arrivare.

Il furbissimo Rutelli, dopo la cacciata fatta da Tocci, mi richiama in servizio: vuole che sia l’esperto di trasporti del Commissariato di Governo per il Giubileo, coordinato da Guido Bertolaso. Ritorno a occuparmi di Fs e del Nodo di Roma. Dal nuovo volto di Termini, alla strada che costeggiando i binari di Tiburtina, dovrebbe poi proseguire nella cosiddetta tangenziale ferroviaria, liberando dal traffico intenso e permanente gli abitanti di Circonvallazione Tiburtina, dalla rifunzionalizzazione della Stazione Ostiense a interventi diffusi per migliorare i servizi del nodo (nuove fermate, Capannelle, Fidene, eccetera, eliminazioni di passaggi a livello sulle linee per i Castelli, interventi di scavalco a Ostiense, quarto binario da S. Pietro a Trastevere, eccetera). Ma, soprattutto, la nuova FM3, Roma-Viterbo. L’unica opera davvero significativa sul nodo Fs realizzata a Roma nel dopoguerra: cento chilometri di elettrificazione (la linea era gestita con locomotori diesel), 23 chilometri di raddoppio, di cui quattro in area urbana e in sotterranea, 13 nuove stazioni e fermate con scale mobili e ascensori). Un miracolo, realizzato in tre anni. Me ne prendo il merito, insieme al povero Antonio Pacelli, prematuramente scomparso la scorsa estate. Una delle menti più lucide e fattive incontrate in Fs. Abbiamo trovato più reperti archeologici che ostacoli tecnici. Ma, come racconta il libro che narra dell’intera vicenda, curato con Maristella Casciato,(Roma-Viterbo: da linea suburbana a ferrovia metropolitana, Edizioni Union Printing, Roma 2000), tutto è stato fatto con una stretta collaborazione sia con la sovrintendenza archeologica di Roma che con quella dell’Etruria Meridionale. La ricetta, semplicissima: noi rispettavamo il loro lavoro e loro il nostro. Io ed Antonio abbiamo passato intense e straordinarie giornate sui numerosi cantieri archeologici. Nel libro citato, sono loro archeologi a raccontare, compreso un entusiasta Adriano La Regina. In quel periodo sul Nodo di Roma (facevo parte, insieme a Silvio Rizzotti e Pasquale Esposito, due icone dell’ingegneria Fs, di un Comitato di coordinamento delle opere sul Nodo) si investivano 500 miliardi di lire all’anno. Poi, rapidamente, con i nuovi consulenti (Mario Di Carlo, allora assessore comunale alla mobilità, Legambientino e Rutelliano di ferro, non volle rinnovarmi l’incarico) gli investimenti sono precipitati, fino quasi ad azzerarsi. Oggi il Nodo è fermo. Una delle opere più importanti, il quarto binario da S: Pietro a Trastevere, non è ancora terminata.

Quindi, e in conclusione, al contrario di quanto dice Campos,”l’esperienza romana” di cura del ferro è ben poca cosa: ferma l’evoluzione del Nodo Fs, ferme nella sostanza le metropolitane (ci si avvia a realizzare record a contrario già noti alla città: 25 anni per fare quattro miseri e brutti chilometri di linea A). E, con la copertura del “pianificar facendo”, qualche altro milione di metri cubi è stato realizzato ben distante da qualsiasi linea su ferro. Vorrà dire che, come faccio da anni, continuerò ad andare in Vespa, sempre più in compagnia (attualmente a Roma circolano 700 mila mezzi su due ruote. Non so se il Sindaco si rende conto che se costoro usassero la macchina la città si paralizzerebbe). Ad maiora.

Ti ringrazio della tua testimonianza, che illumina una pagina di storia ancora viva.

Parco. Dall’antico francese parc; dal latino medievale parricus, a sua volta derivante dall’equivalente germanico dell’Anglo-Sassone pearroc. 1. nella legge inglese, area delimitata di terreni per volontà reale destinata alla caccia e a questo scopo ripopolata e conservata. 2. superficie di terreno che contiene laghi, prati, boschi, circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato. 3. area di proprietà pubblica, in particolare a) interna o adiacente a una città, di solito attrezzata di percorsi, aree da gioco ecc. per la ricreazione pubblica; b) spazio aperto nella città con panchine, alberi, ecc.; c) grande area caratterizzata da scenari naturali e tutelata per l’uso pubblico dal governo statale. 4. grande spazio circondato da montagne e foreste. 5. spazio destinato al deposito temporaneo di veicoli.

No, perché i dizionari servono sempre nel caso di dubbio. Uno ascolta, che so, un dibattito alla televisione e sente distintamente un signore che dichiara appassionato alle folle telespettative “Non voglio fare una città satellite, ma un corridoio verde attrezzato per collegare il parco di Monza ai quartieri san Rocco e san Donato. Smettiamola con il "dagli al cementificatore". Chi conosce Milano 2 e Milano 3 sa che sono parchi”.


Allora va a vedere, magari su un vocabolarione da cultura internazionale, di quelli che stanno spesso sugli scaffali dei veri managers, legge quelle cose lì, e capisce: bastava dirlo prima, no? Perché noi non siamo mica tutti managers internazionali, con gli orizzonti ampi a cogliere il vero senso delle cose, e i trecentottantamila metri cubi più strade vialetti e parcheggi e siepi e rotatorie ci parevano un’altra cosa. Non un parco, ma invece del parco. Il parco, pareva a noi, c’è già: si chiama area della Cascinazza per via della cascina che ci sta in mezzo, e in effetti a vederlo non è un vero parco come lo insegnano ai bambini, anche sui vocabolari. Mancano le panchine, la fontana coi pesci rossi, il laghetto. Ci sono invece campi di granturco e un po’ di sterpaglie, e qualche filare di pioppi lungo il fiume, oltre altri campi arati. In milanese c’è un temine dialettale che chiama “ parco agricolo” certi posti col granturco, le sterpaglie, i fossi coi pioppi … ma qui è troppo piccolo: c’è una strada a quattro corsie a poche centinaia di metri, e dalle altre parti spuntano rigogliosi i tetti di condomini e altro scatolame più difficilmente identificabile.


Al centro dell’area Cascinazza, quella che nelle cartine stradali si chiama via Antonio Rosmini, e per chi ci passa un tracciato sterrato che divide la zona in due ambienti distinti, dopo aver costeggiato gli edifici della cascina: è il Cardine della centuriazione romana. Ce la racconta tra l’altro nei particolari, questa cosa della centuriazione romana nell’agro milanese, un documento dal titolo La vera storia della Cascinazza – Luglio 2006. Documento non firmato in quanto tale, ma che si scarica in PDF dal sito forzaitaliabrianza.com, sito non esattamente ricchissimo e che contiene nell’ordine: a) una bandiera di Forza Italia; b) la scritta linkata Scarica il file PDF Area Cascinazza.

Ma quel documento interessa queste note soprattutto per un aspetto: il parco. Anche lì, fra legioni romane che tracciano centuriazioni nell’agro gallico cisalpino di Mediolanum, e presunte legioni di urbanisti monzesi che in un secolo a quanto pare sono riuscite soltanto a combinare pasticci, rispunta il toccasana per grandi e piccini del parco:

“Il disegno urbanistico proposto si fonda su quattro scelte principali:

- la costituzione del Parco fluviale del Lambro;

- la realizzazione di un grande Parco Attrezzato;

- la definizione di un nuovo bordo edificato;

- la nuova centralità urbana affidata alla Cascina Cascinazza”.


Poco importa, che quel “bordo edificato” si rapporti al quartiere esistente come un raddoppio in termini area urbanizzata, e un incremento assai superiore in termini di cubatura. Poco importa, ancora che a una cascina, tuttora al centro di una piccola porzione di campagna padana residua, venga appioppata inopinatamente una “nuova centralità urbana”. Qui si deve fare il parco (come già fatto a Milano 2 e Milano 3, no?), costi quel che costi.

Dev’essere una tendenza di area, di area politica intendo, questa cosa della transustanziazione del parco. Ci aveva pensato l’ineffabile Gabriele Albertini, qualche tempo fa, a chiamare Central Park una vagonata di grattacieli griffati con qualche alberello negli interstizi. Però forse non si trattava di una sparata personale (non vorrei accusare ingiustamente Albertini di avere delle idee) ma di una precisa filosofia politica, elaborata nelle rarefatte atmosfere intellettuali di Arcore.

Proseguendo di poco nella lettura del documento sulla Cascinazza, questa ipotesi si rafforza:

Si noti … come sia possibile paragonare nel disegno urbano, la Cascina alla Villa Reale a nord, nel senso che la posizione ne fa la naturale porta di accesso al Parco e la struttura di attività di servizio allo stesso”.

Una sparata incredibile, tutta giocata sul medesimo motivo da cui nasce tutta la questione: il cuneo verde di uscita a sud dal centro storico del Lambro, che corrisponde a quello di ingresso a nord. Sopra, ad aprire le vedute dell’ampiamente progettato Parco, c’è la Villa Reale, monumento solitario ed eccezionale. Sotto, come banalmente ovvio trattandosi di campi coltivati, da qualche parte c’è una cascina, “naturale porta d’accesso” a un bel niente. Nel progetto di Monza Due, la cascina come spesso accade da queste parti ai vecchi edifici rurali assorbiti dall’urbanizzazione, è destinata a qualche tipo di servizio (basta farsi un giro nei comuni della zona per vedere decine di casi simili).

Ma, il parco, che fine ha fatto il parco? C’è, niente paura. In edizione tascabile, comodo e maneggevole. Un po’ come Cesare che zompava oltre il Rubiconde, il brianzolo del futuro dovrà scavalcare l’antico Cardine di centuriazione (che sta a metà dell’area, vedere la mappa) per entrare nella zona che retorica televisiva a parte possiamo chiamare “parco”, ovvero le sponde del fiume e i campi circostanti, fino alla brusca interruzione del nodo autostradale e delle tangenziali, nell’angolo sud-ovest.


E pure, curiosamente, anche parlando delle bellezze di questa fila di condomini a corte, strade cul-de-sac con rotatoria di inversione, l’accento torna sempre e comunque sul “parco”, su qualche grande idea di zona verde attorno al fiume serpeggiante … ecco!

Lo dicevo sin dall’inizio, che noi comuni mortali non dobbiamo mai fidarci di quello che ci appare buon senso. Ma che buon senso non è affatto: solo superstizione, viziata dall’odio spontaneo del “figlio dell’operaio” per il figlio di qualcos’altro. Pensare che era lì, scritto nero su bianco sulle immortali pagine del Webster Unabridged Dictionary citato all’inizio. In particolare, la definizione numero 2, che dice:

“superficie di terreno che contiene laghi, prati, boschi, circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato”.

Usciamo dai nostri orizzonti angusti, e come insegnava anche il grande Daniel Burnham: “Think big. Make no little plans. They have no magic to stir humanity's blood”. Ed era quasi ovvio che i nostri moderni e cosmopoliti managers avessero idee grandi, a scala metropolitana e regionale, che i poveri monzesi privi di fede azzurra non sanno cogliere. Il parco “ circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato”, ce l’abbiamo sempre avuto davanti agli occhi: la grande dimora sono addirittura due grandi dimore. A presidiare le due rive del Lambro, Villa San Martino a Arcore sulla sponda est, e la più appartata e collinare residenza di Macherio su quella ovest. È da lì che tutto nasce, e si snoda poi fra casupole di villici e giardini di delizie, stalle operose e l’antico Parco Reale con la sua Villa, ex possedimento di ex potenti (le cose cambiano, ogni tanto, eh?). Segue il parco della Cascinazza col segno urbanistico di “nuova centralità” accostata all’antica Centuriazione, e poi giù lungo le acque limpide fino al Parco di Milano Due, e oltre ancora agli spazi tutti da qualificare del Parco Agricolo Sud.

Ecco, cosa non volevamo capire.

E a ben vedere, per quanto mi riguarda, continuo a considerare l’ennesima sparata televisiva, diretta a un esiguo pubblico di gonzi. Una versione prime-time delle solite urla notturne a colpi di “immerso nel verde”. E a furia di immergerci roba, tutto il verde che ci resterà saranno quelle orrende cravatte e fazzoletti da tasca dei leghisti.

Nota: qui, per chi non l'avese ancora fatto, un giro attorno all'area della Cascinazza; qui l'articolo di Repubblica che riferisce del dibattito televisivo dove P. Berlusconi esprime la sua filosofia del parco; di seguito, scaricabile il citato PDF di Forza Italia Brianza. Da notare la copertina, che esplicita orgogliosa tutti i 380.000 metri cubi virtualmente già edificati nel cuneo verde meridionale: si riconoscono le "corti" quadrate e la griglia stradale ; al "dossier" di Forza Italia, dopo qualche giorno dalla stesura di questao articolo, ha risposto puntualmente un altro dossier del centrosinistra, che allego di seguito (f.b.).

Lacquanonebagnata

Lacquanonebagnata

Le novità introdotte nel metodo della pianificazione dei trasporti avviata a Napoli a partire dal 1994 sono sostanzialmente due. La prima è che la mobilità, i trasporti e l’urbanistica hanno fatto parte di un unico processo di pianificazione. La seconda è che si è elaborato un piano di sistema, e non un elenco di opere tra esse separate e scoordinate, che ha disegnato le reti del trasporto collettivo e individuale utilizzando al meglio tutte le infrastrutture su ferro esistenti ed eliminando alcuni assi stradali invadenti.

Il primo atto di indirizzo sulle politiche del territorio, approvato dall’Amministrazione comunale alla fine del 1994, ha esposto con grande chiarezza le motivazioni e la necessità del connubio dell’urbanistica con la mobilità e i trasporti per ottenere una pianificazione credibile, in linea con le esigenze della città sostenibile auspicata dalla comunità europea nell’ultimo decennio. E’, infatti, un compito preciso della pianificazione e della progettazione urbana comprendere come il sistema delle reti infrastrutturali si relazioni con il territorio attraversato nei suoi punti nodali di connessione o nei suoi rapporti continui lineari, trasformando il territorio stesso in modo casuale o inducendo trasformazioni programmate per la riqualificazione urbana.

Senza un serio strumento di pianificazione integrata tra i trasporti e urbanistica, inoltre, non sarebbe stato possibile programmare le priorità di intervento nel campo delle infrastrutture per il trasporto su ferro e su gomma. Gli investimenti per le opere infrastrutturali richiedono finanziamenti molto consistenti, i meccanismi legislativi per poter accedere a tali finanziamenti sono molto complessi e lunghi temporalmente. Di conseguenza, senza programmazione non sarebbe stato possibile far convergere tutti i possibili finanziamenti regionali, nazionali ed europei sulle opere infrastrutturali ritenute assolutamente necessarie per liberare la città dalla morsa del traffico automobilistico. Tra queste, i completamenti delle linee metropolitane 1 e 6, la chiusura dell’anello della linea metropolitana 1 e la stazione d’interscambio Cilea tra la Circumflegrea e la linea metropolitana 1.

Il Piano comunale dei trasporti e il Piano della rete stradale primaria hanno accompagnato l’azione urbanistica condotta attraverso le varianti al Piano regolatore generale per perseguire l’obiettivo di trasferire molti spostamenti dal traffico privato a quello collettivo e di alleggerire il centro storico dalla circolazione e dalla sosta di ingombranti vetture per restituirlo in gran parte ai pedoni. Insieme, urbanistica e trasporti, hanno proposto di decentrare funzioni importanti e pregiate dal centro verso la periferia e di potenziare e di riqualificare le infrastrutture ferroviarie e stradali per realizzare un sistema di trasporto pubblico a rete, intermodale e interconnesso. Insieme, ancora, hanno proposto e stanno sperimentando di utilizzare le reti infrastrutturali del trasporto come strumenti di organizzazione del territorio intorno alle stazioni, ai nodi dell’interconnessione e ai luoghi dello spazio fisico da essi intercettati.

La costruzione della rete è fondata sulla valorizzazione di una delle più ricche dotazioni di linee su ferro della penisola. Linee abbastanza rispettose della complessa orografia del territorio e che spesso attraversano territori di grande bellezza, ma che non riescono a definire una rete per la loro limitata capacità di interconnessione e per l’assenza di intermodalità. La valorizzazione di questo patrimonio infrastrutturale così prezioso il Piano propone che avvenga attraverso il recupero di tratte ferroviarie liberate dal traffico di lunga percorrenza, la realizzazione di piccole bretelle, il rilancio di vecchie linee con l’innesto di nuove stazioni, la connessione di linee su ferro oggi separate tra loro e di linee ferroviarie con gli assi stradali mediante la formazione di nodi d’interscambio. Il vero valore aggiunto è dato dai piccoli interventi ad alta connettività di rete, dai numerosi nodi d’interscambio ferroviario e modale che consentono itinerari flessibili, e dalla predisposizione alla promiscuità di esercizio delle ferrovie esistenti o in costruzione. Il piano ha coinvolto tutto il territorio cittadino, unificando centro e periferia, da sempre separati più che avvicinati dalle numerose infrastrutture che sovrastano, senza alcuna utilità trasportistica e con danno urbanistico e socio-economico, parti consistenti della città.

L’accessibilità. L’elemento strategico della politica territoriale integrata trasporti e urbanistica che si è portata avanti con il piano comunale dei trasporti, con il Piano della rete stradale primaria e con le Varianti al piano regolatore generale, per conseguire l’obiettivo della riqualificazione urbana, è l’accessibilità ai diversi luoghi e alle svariate attività pubbliche e private della città e non la mobilità fine a se stessa. E l’accessibilità si costruisce attraverso la diversità dei modi di spostamento e la ricchezza delle connessioni tra le diverse modalità di trasporto. Ma non solo, si costruisce anche con la qualità delle relazioni di tipo funzionale, morfologico e percettivo con il contesto territoriale in cui si collocano le stazioni e i nodi d’interscambio della rete infrastrutturale. Solo così si rende attraente l’uso alternativo del trasporto pubblico. Più diffusa è la serie di stazioni e di nodi d’interscambio, più è possibile l’accesso ai posti più lontani in tempi ragionevoli, senza costi eccessivi e senza troppa fatica. E in questo modo si può affrontare anche il problema cruciale del rapporto fra gli abitanti e i luoghi. Estendere il numero dei punti di accesso, costituiti dalle stazioni e dai nodi, alla rete del trasporto collettivo in tutta la città equivale a creare nuove occasioni di centralità, e individuare i luoghi dove trasferire le funzioni pregiate che possono avvicinare coloro che abitano lontano dal centro alle immagini più cariche di storia della città, riunificando la identità urbana molto spesso dimenticata per la distanza.

Le stazioni e i nodi d’interscambio. La rete su ferro disegnata dal Piano comunale dei trasportiincontra il territorio cittadino in 96 punti con altrettante stazioni. Di queste stazioni, 18 sono nodi d’interscambio e collegano le diverse linee ferroviarie trasformate in 8 linee metropolitane. E 16 parcheggi, localizzati in prossimità delle stazioni più lontane dal centro, interconnettono la rete su ferro con la rete primaria stradale.

Non c’è dubbio che rispetto alla situazione attuale, nella quale le 12 linee su ferro hanno 45 stazioni e solo 5 punti d’interconnessione, il Piano comunale dei trasporti ha finalmente fatto diventare rete un insieme di linee ferroviarie e di assi stradali sconnessi, portando il sistema dei trasporti nella modernità. Ma la sola valorizzazione funzionale trasportistica, che deriva dalla interconnessione tra i vari modi di trasporto e tra flussi di traffico di diversa natura, non basta per indurre processi di riqualificazione urbana negli ambiti territoriali attraversati dalla rete. E’ la valorizzazione del livello di accessibilità alle stazioni e ai nodi d’interscambio, garantito dalla intermodalità, che può far decidere di intervenire con la pianificazione urbanistica nei luoghi dell’interconnessione per definire funzioni, localizzazioni e nuove qualità insediative. Come vantaggio di ritorno, la riqualificazione urbana intorno ai luoghi delle stazioni e dei nodi potenzia la qualità del sistema trasportistico reticolare. In tal modo, gli aspetti tecnici e specialistici della rete e il contesto fisico in cui i suoi punti nodali emergono contribuiscono a far diventare tali nodi i luoghi privilegiati e prioritari per la trasformazione e la riqualificazione urbana, e per la ricerca dei più opportuni strumenti di pianificazione in grado di confrontarsi con essi.

La Variante al piano regolatore generale di Napoli, coerentemente con l’indirizzo politico sulla pianificazione integrata fra trasporti e urbanistica di cui si è prima detto, assume al suo interno il Piano comunale dei trasporti e il Piano della rete stradale primaria. Inoltre introduce nella normativa due articoli specifici sulle stazioni e sui nodi d’interscambio. Le norme regolano la possibilità d’interventi che garantiscano la massima accessibilità dei territori serviti, la riqualificazione dell’edilizia e della viabilità ricadente nel loro ambito e la introduzione di nuove funzioni e di nuovi servizi che siano d’impulso per localizzazioni di attività economiche finalizzate alla valorizzazione dei luoghi dell’interconnessione.

La riqualificazione urbana. La variante al piano regolatore generale è un piano di riqualificazione in quanto esclude l’espansione, tutela e valorizza il sistema delle aree verdi, salvaguarda l’identità culturale del centro storico, regola le trasformazioni delle aree industriali dismesse e accoglie la riorganizzazione del sistema dei trasporti centrata su una forte rete su ferro, su una riequilibrata rete stradale e sulle connessioni tra esse.

Il sistema della mobilità assunto nella pianificazione urbanistica si trasforma in una infrastruttura fondamentale per la riqualificazione dei nuclei storici e dell’espansione recente della periferia, per la valorizzazione dei nuovi parchi territoriali, per il restauro del centro storico e per l’armatura dei nuovi insediamenti nelle aree di trasformazione urbana.

Una strettissima relazione tra urbanistica e trasporti si osserva nelle proposte per il centro storico dove, per le parti più complesse del tessuto, quali le aree archeologiche e delle murazioni, si propone una configurazione a sistema continuo di aree ad altissima valenza monumentale che si giova della strategia della mobilità su ferro per facilitare la percorrenza dell’intero tessuto storico cittadino. In sostanza, il recupero e la rivitalizzazione delle parti più problematiche del centro storico, dove le esigenze di tutela e di conservazione degli edifici e dell’impianto insediativo apparentemente sembrano contrastare le spinte di valorizzazione del tessuto economico-sociale, si affidano alle soluzioni sistemiche della rete e a quelle puntuali delle stazioni e dei nodi individuate dal piano dei trasporti. Infatti, dal punto di vista operativo, si esplicita con chiarezza che ogni piano esecutivo del centro storico deve tenere conto delle previsioni derivanti dai progetti dei nodi urbani di accesso.

La sequenza delle aree monumentali da recuperare è formata dalla piazza Mercato e dal quartiere degli orefici che si collegano con i tratti sud e nord delle murazioni che si snodano da piazza Garibaldi. Seguono l’Acropoli e l’antico largo delle Pigne e i percorsi per i teatri dell’impianto greco-romano fino al complesso di S. Lorenzo, luoghi che trovano un ulteriore accesso da piazza Dante. La sequenza si chiude con i due musei Nazionale e di Capodimonte. “Così i piani urbanistici esecutivi destinati a rivitalizzare la lunga linea delle mura si inseriscono del tutto in un percorso possibile da piazza Mercato a Capodimonte, attraverso la connessione della rete metropolitana su ferro e della linea dei due musei, passando per il recupero e la valorizzazione della collina dei Miracoli e della Specola; i piani urbanistici esecutivi delle aree archeologiche si strutturano in una maglia centrale servita in testa dalle stazioni e dai nodi previsti” (cfr. Variante al Prg di Napoli).

Le stazioni delle linea 1 della metropolitana. Fulcro del piano comunale dei trasporti è la linea metropolitana 1, circolare, con 25 stazioni, di cui 8 formano altrettanti nodi d’interscambio con stazioni di altre linee su ferro e 4 formano nodi d’interscambio modale con le strade della rete primaria attraverso adeguati parcheggi. La linea originariamente era denominata collinare, in quanto connette l’altopiano a nord della città attraverso la collina del Vomero con il centro storico e con l’inizio della pianura paludosa del Sebeto corrispondente all’area della stazione centrale. Con il piano dei trasporti si è deciso di chiudere ad anello la linea metropolitana e la ferrovia Alifana proveniente da Aversa, congiungendo la stazione Garibaldi alla prima stazione Piscinola a nord, mediante l’esercizio promiscuo dell’Alifana, adeguando al tal fine le previsioni del progetto di ristrutturazione della ferrovia concessa. In tal modo la linea metropolitana 1 connetterà la periferia nord della città con il quartiere Vomero, con il centro storico, con la stazione centrale, dove si attesterà la linea dell’alta velocità, e con l’aeroporto. Con un solo interscambio sarà possibile raggiungere la zona occidentale o la zona orientale.

Dal punto di vista costruttivo, la linea è tutta in galleria profonda . Solo la tratta finale verso nord, per circa 4 chilometri, è in viadotto e attraversa il vallone S.Rocco, uno dei luoghi più suggestivi dal punto di vista paesaggistico del sistema orografico napoletano.

Il progetto originario della linea metropolitana prevedeva un percorso da piazza Garibaldi ai Colli Aminei, nei pressi della zona ospedaliera cittadina. La linea era interamente in galleria e le 15 stazioni erano tutte di tipo profondo, a eccezione dell’ultima, che arrivava in superficie. La progettazione delle stazioni fu affidata dalla società Metropolitana milanese a gruppi di professionisti napoletani, ingegneri e architetti, con il compito di provvedere alla definizione degli spazi interni dal mezzanino alle uscite, delle finiture e degli impianti del piano banchina e degli altri livelli. Successivamente fu previsto il prolungamento della linea da Colli Aminei a Piscinola-Scampia per poter localizzare il deposito e le officine per la manutenzione dei treni. Le tre stazioni su viadotto furono progettate dalla Metropolitana milanese e dai tecnici comunali. Infine, nell’ultimo periodo l’Amministrazione comunale, quale concedente dell’opera, ha richiesto alla società concessionaria di affidare ad architetti altamente qualificati la progettazione delle uscite e delle sistemazioni esterne delle stazioni che attraversano il centro storico e alcune delle sue piazze più significative.

Ci sono tre aspetti della progettazione delle stazioni della linea metropolitana 1 che è utile evidenziare.

Il primo riguarda la localizzazione e l’inserimento urbanistico delle stazioni in relazione alle diverse parti della città attraversate dalla linea. Le stazioni a servizio della città storica e della città consolidata fino all’immediato dopoguerra sono ben localizzate in quanto ubicate nelle piazze del tessuto edificato, mentre quelle a servizio della città di espansione, dalle speculazioni degli anni ’50 e ’60, agli abusi edilizi degli anni ’70 e ’80 e agli interventi di edilizia residenziale pubblica della periferia, sono di difficile accessibilità, in quanto localizzate in punti lontani dalle residenze e dai servizi e non immediatamente identificabili dalla viabilità principale. Queste ultime stazioni, servendo parti di città che possono essere definite veri e propri non luoghi urbani, non incrementano mediante la loro ubicazione la fruibilità della rete trasportistica e non diventano quell’elemento attrattivo capace di restituire a un luogo una immediata riconoscibilità e identità.

Il secondo aspetto, strettamente connesso al primo, riguarda la qualità architettonica delle stazioni che si differenziano secondo la tipologia costruttiva della linea in galleria o su viadotto. Gli spazi che definiscono le stazioni profonde, sia dal punto di vista compositivo quanto da quello formale, sono stati risolti con soluzioni tradizionali e omogenee, non attribuendo a questi luoghi del movimento una vera e propria dignità architettonica. Gli spazi di banchina e di collegamento con il mezzanino sono determinati esclusivamente dalle esigenze strutturali, impiantistiche e della sicurezza, mentre gli spazi dei mezzanini si differenziano in funzione delle esigenze determinatesi in fase di costruzione in relazione all’inserimento delle macchine di scavo e di estrazione dei terreni. Le uscite generalmente sono costituite da scale protette da una recinzione in muratura. Sostanzialmente , si vestono con finiture più o meno gradevoli e durevoli le superfici degli spazi determinati esclusivamente da esigenze costruttive e tecnologiche. Le stazioni su viadotto sono costituite prevalentemente dalle pensiline protettive delle banchine di attesa dei treni e dagli edifici di connessione del viadotto con la strada.

L’ultimo aspetto riguarda il mutato atteggiamento nel tempo sul tema della progettazione delle stazioni della metropolitana da parte delle committenza. Come si è già accennato l’impostazione progettuale originaria, risalente agli anni ’70, è stata di tipo ingegneristico. Di fatto, di fronte agli alti costi di costruzione di una linea metropolitana, il progetto delle stazioni doveva rispondere a una esigenza, peraltro largamente condivisa culturalmente, di contenimento dei costi. Solo recentemente, a seguito della messa in esercizio della prima tratta e della contemporanea costruzione della seconda, la città ha cominciato a porsi delle domande su quale sarebbe stato l’impatto delle stazioni della metropolitana sulle piazze di grande valore storico e urbanistico, quali piazza Dante, piazza Cavour, piazza Municipio, piazza della Borsa, eccetera. Viene messo in crisi il modello standardizzato delle stazioni connotate secondo criteri tipologici propri della funzione di circolazione e caratterizzate da qualità formali indifferenti all’identità della città esterna. L’estraneità e l’anonimitàevidenti delle stazioni nei confronti dei luoghi di gran carattere come piazza Cavour e piazza Dante hanno indotto la committenza a cambiare rotta rispetto al considerare la stazione principalmente come elemento tecnico che assicura l’accesso e il passaggio verso l’esterno. Si è così deciso di assegnare alle stazioni anche la valenza di luogo in cui si compie il processo di connessione con il tessuto urbano che la linea incontra, e conseguentemente di avvalersi di architetti che si fossero già cimentati con tali tematiche.

La stazioni nel centro storico. La revisione dei progetti delle stazioni di Salvator Rosa, Materdei, Museo e Dante, affidata all’atelier Mendini e a Gae Aulenti, è stata avviata a realizzazionequasi ultimata. La concezione di stazione appartenente all’infrastruttura e rispondente unicamente a criteri tecnico-costruttivi e funzionali legati al transito, unifica i caratteri formali, decorativi e di segnaletica proposti dai progetti originari. Le banchine, i corridoi e le scale di collegamento, i mezzanini, le finiture, le scritte sono uguali in tutte e quattro le stazioni. Solo per Salvator Rosa l’uscita è costituita da un edificio, mentre negli altri tre casi gli accessi sono banalmente ubicati sui marciapiedi delle piazze di riferimento.

I nuovi progetti, quindi, non intervengono sugli spazi fisici interni già definiti nelle strutture e nella organizzazione funzionale, ma sovvertono la concezione che nega la specificità delle singole stazioni della linea. Le finiture, le decorazioni e le scritte si differenziano in tutti gli spazi interni: le banchine, i collegamenti e i mezzanini. Si introducono opere degli artisti napoletani contemporanei nelle due stazioni di Salvator Rosa e Materdei, si riempiono con sculture e calchi offerti dal Museo archeologico i collegamenti e gli atri della stazione omonima e si espongono i ritrovamenti degli scavi effettuati in situ negli spazi interni della stazione Dante. Finalmente gli utenti non avranno bisogno di uscire dalla Metropolitana per identificare la diversità dei luoghi urbani che la linea attraversa.

La forte inversione di tendenza che i quattro progetti rappresentano è nel rapporto delle stazioni con l’esterno e nella riqualificazione degli spazi urbani circostanti. Le uscite sono degli edifici che si misurano con il tessuto urbano con le emergenze monumentali che incontrano nel caso di Salvator Rosa e di Museo, mentre emergono come sculture nel semplice spazio della piazzetta di Materdei e nella spettacolare piazza Dante. Molto differenti sono i contesti urbani circostanti le stazioni e quindi le soluzioni progettuali per la loro riqualificazione, anche se tutte affrontano il tema della riorganizzazione dell’accessibilità pedonale.

L’intervento di Salvator Rosa riunifica lo spazio esterno costituito da frammenti di aree assolutamente disomogenei che difficilmente avrebbero potuto essere riqualificati in assenza dello stimolo prodotto dalla metropolitana. Si passa da porzioni del bellissimo giardino di villa Maio a ruderi di edilizia moderna e di infrastrutture di epoca romana abbandonati, a interstizi di collegamenti tra gli alti edifici della speculazione degli anni sessanta. Il progetto urbano connette tutto lo spazio circostante la stazione, creando un’area attrezzata per il gioco dei bambini e per passeggiare nel verde, inoltre riqualifica tutti i passaggi di collegamento tra la parte bassa e la parte alta del quartiere e realizza anche una scala mobile per superare un consistente salto di quota, e in tal modo aumenta il raggio di influenza annettendo tutta l’utenza della piazza Leonardo.

A Materdei, il quartiere circostante la stazione è un ordinato insediamento dei primi del '900 fortemente integrato con il tortuoso tessuto storico di cui fa parte. Il progetto riqualifica e pedonalizza la viabilità di connessione con delicati interventi di arredo urbano per sottrarre soprattutto alla sosta gli spazi viari che vengono destinati all’accessibilità pedonale.

Infine, gli interventi di riqualificazione e di riunificazione attraverso la linea metropolitana sotterranea delle due piazze storiche Cavour e Dante, oggi così diverse ma originariamente uguali nella loro connotazione di larghi fuori le mura della città greco romana e di impluvi naturali per le acque che scendevano dalla collina di Capodimonte e dalle attuali via Tarsia e il Cavone. Della evoluzione storica e urbanistica delle due piazze, di cui ci informano Villari, Buccaro e Di Mauro, il progetto urbano tiene conto ribadendo la estraneità della piazza Cavour dalla città greco romana e dall’acropoli attraverso la strada per la percorrenza primaria delle automobili, e valorizzando l’appartenenza di essa al borgo dei Vergini attraverso la viabilità locale che sale verso la collina di Capodimonte. Viceversa l’annessione alla città operata nel '700 da Vanvitelli viene confermata dall’intervento di Gae Aulenti che elimina la viabilità parallela all’esedra vanvitelliana e crea un unico spazio pavimentato come capolinea pedonale dei percorsi da e verso le aree monumentali, del commercio e degli affari del centro storico.

Con questi primi progetti urbani si può affermare che sono iniziati gli interventi per il recupero e il restauro del centro storico in linea con le proposte del piano urbanistico approvato dalla Giunta comunale e in discussione in Consiglio. La mobilità sta determinando le priorità d’intervento nel tessuto urbano, in quanto solo dotando il centro cittadino di un serio e forte sistema di trasporto pubblico è possibile liberare dalla morsa automobilistica le piazze, le strade, gli slarghi e i giardini dell’impianto storico e restituire all’originario splendore i luoghi pubblici connettivi e gli edifici e i monumenti che su di essi si affacciano.

Ravello, dietrofront sull’Auditorium senza la variante l’opera non si farà

di Maria Rosaria Sannino

Cambio di rotta sull’Auditorium di Oscar Niemeyer, a Ravello: senza la variante al Piano urbanistico territoriale, l’opera già finanziata con fondi europei per 20 milioni di euro non si farà. Nonostante sia già costata alle casse comunali, tra progettazione e parte degli espropri, quasi 500 mila euro. Lo ha deciso la maggioranza consiliare del Comune guidata dal neo sindaco Paolo Imperato ravvisando «l’illegittimità nell’intero iter» seguito dalla passata amministrazione. «L’opera è in contrasto con il Put – dichiara il sindaco – e non possiamo agire in modo contrario alla legge, mettendo a repentaglio le casse comunali». La vicenda si arricchisce anche di un retroscena: una delibera di giunta regionale del 30 dicembre 2004, aveva riconosciuto l’incompatibilità dell’opera rispetto al Put e "girato" al Consiglio l’approvazione della relativa variante. «Elemento non tenuto in considerazione dalla precedente amministrazione – afferma il sindaco – anzi sottaciuto anche all’ufficio tecnico. Se si dovessero perdere i finanziamenti, le responsabilità vanno ricondotte alla gestione Amalfitano».

Sta di fatto che così si ritorna al punto di partenza, dopo più di tre anni di battaglie a colpi di carte bollate tra Italia Nostra, fortemente contraria all’opera, i proprietari del terreno dove doveva sorgere l’opera del "padre" di Brasilia, e l’allora amministrazione guidata da Secondo Amalfitano, ora capo dell’opposizione. Un parere dell’urbanista Guido D’Angelo rafforza poi le tesi dell’attuale amministrazione, spiegate durante un acceso dibattito in consiglio comunale: l’opera non è compatibile con il Put, perché un Auditorium non è assimilabile ad un’attrezzatura di quartiere. D’accordo anche Italia Nostra: «Non possiamo che ritenerci soddisfatti del riconoscimento da parte della nuova amministrazione dell’illegittimità dell’opera – afferma Lella Di Leo, presidente dell’associazione ambientalista – una volta ripristinate le regole, siamo pronti a qualsiasi discussione». Intanto se il progetto non sarà cantierabile entro il prossimo 31 dicembre, l’opera non sarà finanziata dai fondi Por. A meno che non si provveda ad una proroga della scadenza.

L’ira dell’assessore Di Lello "Ora revocheremo le risorse"

di Ottavio Lucarelli

Questa volta lo schiaffo alla Regione arriva da un piccolo Comune, Ravello, il gioiello incastonato nella Costiera dove il nuovo sindaco Paolo Imperato, eletto due mesi fa con un vantaggio di appena quattordici voti alla testa di una coalizione civica a maggioranza di centrosinistra, ha impresso una svolta che boccia tutto il lavoro svolto da anni in via Santa Lucia per realizzare l’Auditorium da 400 posti al coperto disegnato dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer. Uno schiaffo alla Regione, ma altre due sberle le hanno prese il sindaco uscente Secondo Amalfitano (Margherita), oggi capo dell’opposizione in consiglio comunale, e il sociologo Domenico De Masi, presidente della "Fondazione Ravello".

Uno schiaffo. E la Regione reagisce con l’assessore Marco Di Lello che la vicenda l’ha seguita fin dai primi passi quando aveva la delega all’urbanistica: «A Ravello c’è da poche settimane una nuova amministrazione comunale che ha condotto tutta la campagna elettorale parlando solo contro il progetto dell’Auditorium. Hanno vinto e io ho detto loro il mio pensiero. La Campania non può permettersi il lusso di perdere 18 milioni di euro di fondi europei. Se il Comune davvero ha deciso vuol dire che noi sposteremo rapidamente quei soldi su un altro progetto. Revocheremo la risorse per l’Auditorium ma Ravello, sia chiaro, avrà perso una grande occasione per diventare una meta turistica di alto livello dodici mesi l’anno».

Una battaglia durata quattro anni, ma è attorno alla Fondazione che ruota la storia infinita dell’Auditorium impossibile. Creata nel giugno 2002 da Antonio Bassolino, Secondo Amalfitano, Alfonso Andria (a quei tempi, presidente della Provincia di Salerno) e Monte dei Paschi di Siena, la Fondazione guidata da De Masi ha tra gli scopi la tutela in termini culturali ed economici dei beni di interesse artistico e storico e la promozione di iniziative culturali, scientifiche e artistiche. Questo sulla carta. In realtà la Fondazione era nata per gestire l’Auditorium e tutto ciò che gira attorno al Festival di Ravello. Obiettivi ora dimezzati, al punto che si parla di un possibile distacco di De Masi.

Sconfitto un intero cartello, ma la vera sberla l’ha presa la Regione perché la decisione del Comune di Ravello sconfessa tutta la linea portata avanti per anni in via Santa Lucia, dal viaggio in Brasile a casa di Niemeyer alla battaglia davanti a Tar (persa) e Consiglio di Stato (vinta). E lo schiaffo arriva non solo da un’amministrazione di centrosinistra ma anche da un vicesindaco diessino, Salvatore Di Martino, che le idee sulla vicenda le ha molto chiare: «La campagna elettorale dei mesi scorsi si è giocata a Ravello tutta sull’Auditorium. Da un lato c’era la linea di Bassolino e del sindaco uscente Amalfitano. Dall’altro la nostra idea che ha vinto democraticamente nelle urne. La nostra posizione in campagna elettorale è stata netta e gli elettori ci hanno detto di andare avanti perché quell’opera sarebbe fuorilegge, alla pari di un palazzo abusivo. Un’opera incompatibile con il Piano urbanistico territoriale e questo la Regione, che per superare l’ostacolo l’ha classificata come attrezzatura di quartiere, lo sapeva. In queste condizioni non si può procedere nel realizzare qualcosa che un magistrato riterrebbe illegale. E il progetto di Niemeyer, in ogni caso, male si inserisce nel contesto di Ravello».

Un Auditorium incompatibile. Una bocciatura secca. D’altra parte già tre anni fa, in un documento, Italia Nostra aveva dichiarato che l’intervento era in contrasto con il Piano urbanistico territoriale del 1987, il cosiddetto piano della penisola sorrentino-amalfitana. Attorno ad Italia Nostra si era formato un ampio cartello di intellettuali e professionisti tra cui Alda Croce, Vittorio Emiliani, Piero Craveri, Vezio De Lucia, Carlo Ripa di Meana. Poi la battaglia si era spostata nei tribunali amministrativi. E qui il Tar, il 9 agosto del 2004, aveva accolto il ricorso contro l’opera di Niemeyer. Primo round agli ambientalisti con il sindaco Amalfitano che minacciava, senza formalizzarle, le dimissioni.

Il Tar boccia, gli ambientalisti esultano, ma la Regione insiste. «Si va davanti al Consiglio di Stato - annunciava l’assessore all’urbanistica, il socialista Marco Di Lello - perché la decisione politica è stata presa e l’Auditorium si farà». E infatti, un po’ a sorpresa, il 16 febbraio 2005 il Consiglio di Stato ribalta la sentenza del Tar di Salerno. «Vince Ravello», è l’urlo di De Masi. Tre i motivi che il Consiglio di Stato sottolinea: «Inammissibilità del ricorso di Italia Nostra, conformità del progetto al piano territoriale e classificazione dell’Auditorium tra le urbanizzazioni secondarie nonostante si stia discutendo di un colosso da quattrocento posti al coperto. Il braccio di ferro sembra finito. I diciotto milioni di euro sono pronti, partono le procedure di appalto. Poi arrivano le elezioni e nelle urne, quasi un referendum, i cittadini eleggono il sindaco anti-Auditorium.

Un'intera cartella di eddyburg dedicata all'auditorium di Ravello

Il dossier di questo numero presenta una selezione di interventi svolti all’interno di un seminario proposto dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ( IBC) nel dicembre del 2005 a prosecuzione di un percorso di analisi sul Codice dei beni culturali e del paesaggio iniziato con il convegno del maggio 2004 . Mentre in quella prima occasione l’attenzione era posta soprattutto sul rapporto centro/periferia, ovvero Stato/Regioni, così come configurato da questo nuovo strumento, in questa seconda manifestazione si voleva proporre una sorta di monitoraggio sull’evoluzione legislativa del Codice da un lato, mentre l’altro obiettivo era quello di illustrare le sperimentazioni che alcune regioni, unitamente alle diverse direzioni del Ministero, avevano intrapreso, in applicazione del Codice stesso, in oltre un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore.

All’epoca di questo secondo momento di riflessione era in dirittura finale la fase di revisione del Codice prevista dal suo carattere di legge-delega. Revisione che, lungi dal limitarsi a qualche chiarificazione o limatura terminologica, ha scatenato – soprattutto per la parte terza del Codice, quella dedicata al paesaggio, interessata da più ampi e incisivi emendamenti – una contrapposizione netta fra Ministero e Regioni nel loro insieme, che hanno respinto, nel metodo e nel merito, lo schema proposto (e ormai approvato) per quanto riguarda i beni paesaggistici.

In estrema sintesi, per quanto riguarda i beni culturali le modifiche, in questo caso discusse e condivise con la Conferenza unificata delle Regioni, hanno decretato, per esempio, il definitivo superamento del tanto discusso meccanismo del silenzio-assenso per quanto riguarda la verifica dell’interesse culturale e quindi dell’alienazione dei beni del patrimonio culturale. Importanti precisazioni e integrazioni sono state inoltre introdotte per quanto riguarda le norme dedicate alla conservazione e alla figura del restauratore e la sua formazione professionale. Interventi correttivi riguardano anche le alienazioni dei beni culturali e l’esercizio del diritto di prelazione; ancor più accentuata, infine, risulta l’attività di valorizzazione dei beni culturali tramite forme di gestione diretta e indiretta.

Più consistenti, nel merito, appaiono le modifiche alla parte terza: i beni paesaggistici. Fra le novità di maggiore rilievo si segnala il tentativo di razionalizzare il sistema sanzionatorio e il procedimento di vincolo, precisandone i termini. Viene poi reintrodotto, in via transitoria, il carattere vincolante del parere della Soprintendenza, ma soprattutto si cerca di individuare per le Regioni un indirizzo generale per orientare l’eventuale delega dell’esercizio della funzione autorizzatoria paesaggistica verso specifici livelli, individuati di preferenza nelle Province.

Purtroppo queste ultime nuove disposizioni correttive e integrative, come detto, non nascono in un’ottica di condivisione Stato-Regioni e questa genesi pare prefigurare una nuova stagione di conflitti e contenziosi sulla determinazione delle rispettive attribuzioni in ambito paesaggistico: da parte della Conferenza unificata delle Regioni è stato lamentato, nel metodo, il mancato coinvolgimento nel procedimento di adeguamento e, nel merito, il tentativo di riappropriazione, da parte degli organi centrali dello Stato, di competenze precedentemente delegate all’ambito regionale.

Negli interventi qui riportati l’insieme di tali provvedimenti, per quanto riguarda da un lato i beni culturali e dall’altro il paesaggio, è illustrato con ampiezza e rappresentatività delle posizioni in campo e ci sembra che i testi proposti, pur nel tecnicismo del lessico giuridico che talvolta li caratterizza, presentino un quadro molto circostanziato, e a tratti appassionato, degli elementi di miglioramento, degli spazi ancora aperti alla discussione, quando non di aperta contrapposizione.

Fin dalle prime fasi di elaborazione il Codice ha avuto il merito di sollevare un ampio dibattito sulla situazione del nostro patrimonio culturale: tale discussione ha accompagnato il Codice – e le disposizioni legislative “limitrofe”, quali quelle di riordino del Ministero, o di ambito “tangenziale”, come il decreto di delega ambientale – fino a tempi recentissimi e ha visto il contrapporsi di posizioni tecnicamente, ma più spesso politicamente, in conflitto. Da un lato il Codice è stato interpretato come una minaccia per l’integrità del nostro patrimonio e, nel suo complesso, una diminutio dei meccanismi della tutela così come ereditati dalla mitica legislazione del 1939 o dal decreto Galasso, mentre d’altro lato è stato presentato come una pietra miliare, una sorta di rifondazione della legislazione in materia, con ampi spazi di innovazione e di ammodernamento. Una visione più realistica si colloca probabilmente a metà strada, soprattutto dopo le ultime revisioni.

Abbandonati, anche per opera dell’intensa attività di vigilanza scientifico-mediatica di un drappello di note personalità del settore, gli aspetti più discutibili, quali quelli del meccanismo del silenzio-assenso o dell’archeocondono, il Codice rappresenta, nella versione attuale, un discreto punto di mediazione fra esigenze diverse: prima fra tutte quella della conciliazione nella diversificazione di funzioni fra Stato e Regioni imposta dalle modifiche al Titolo V della Costituzione, vero motore dell’azione legislativa. Ancora, sembra di poter affermare che i principi e gli strumenti della tutela nel loro complesso non ne escono granché indeboliti, ma il Codice si pone in una logica di continuità sostanziale con il Testo unico del 1999, che costituiva a sua volta l’ultima riscrittura di una delle legislazioni più evolute in materia di beni culturali. Apprezzabili, anche se non completamente risolti, appaiono i tentativi definitori dell’insieme del patrimonio e delle funzioni che su di esso si esercitano, così come innovativa, anche se più accennata che coerentemente perseguita, la ricongiunzione di beni culturali e paesaggio come elementi inscindibili di un unico irriproducibile patrimonio comune.

Il lavoro da fare è ancora molto: sia perché la frattura istituzionale creata in quest’ultima fase non potrà non essere ricomposta il prima possibile, sia perché, come già era stato sottolineato da più parti, in molti ambiti il Codice si limita a indicare delle linee d’azione senza proporre strumenti attuativi, demandati a una fase successiva. Una fase che per molti versi si presenta, adesso, alquanto delicata, e per affrontare la quale l’IBC non mancherà di proporre i propri strumenti di analisi.

In realtà, come per ogni strumento legislativo, l’efficacia del Codice deriva e soprattutto deriverà innanzitutto dal contesto istituzionale in cui sarà calato e dalla dotazione di risorse non solo economiche sulle quali potrà contare per operare. A seguito di recenti disposizioni legislative il termine per l’introduzione di emendamenti alle leggi delega è stato portato a 4 anni: ancora 2 anni di verifiche ci attendono, quanto mai opportuni per “digerire” l’insieme delle novità e per dare avvio, a livello di Stato-Regioni, a quelle sperimentazioni e azioni programmatiche che ancora mancano per saggiare l’operatività di questo strumento e la sua reale efficacia in termini di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio e i due decreti legislativi con le integrazioni e correzioni sono consultabili sul sito del Ministero dei beni e delle attività culturali, nella sezione Normativa-Norme statali).

Nel quadro dell’articolatissima iniziativa che si svolge a Carpi (MO) sulle Città Ideali è prevista fra l’altro per settembre una conferenza dal significativo titolo Land art, architettura-infrastruttura, paesaggio. Risposte alla città diffusa.

Di quali risposte si tratti, esattamente, sarà la conferenza a fornire i particolari. Ma una buona idea la può dare questo breve estratto dalla presentazione:

Lungo le arterie principali di comunicazione si snoda ormai, specie in pianura, un edificato rado, disordinato ma continuo, fatto di capannoni, magazzini, parcheggi, frammisti a case; può diventare tutto questo occasione di qualità?

Le “discipline del territorio” sono proprio indisciplinate. Pare l’unica spiegazione possibile (salvo la malafede, che si vorrebbe escludere a priori) per il ripetersi nei titoli di iniziative più o meno articolate, più o meno orientate, del tema “città diffusa” affrontato con strumenti sproporzionati, per non dire risibili.

Sarà per colpa di certa sociofagia dilagante, che teorizza a prezzi di saldo la Città Infinita, autorizzando a piazzare dentro questo iperuranio Enduring City tutto e il contrario di tutto?

Sia come sia, continua a lasciare perplessi che, a quasi mezzo secolo dalle prime teorizzazioni mature di Jean Gottmann sulle megalopoli, e altrettanto se non più di discussioni multidisciplinari sullo sprawl urbano, ciclicamente spuntino anime candide che si pongono domande sul tono di quella riportata sopra.



Quale qualità si può perseguire, tentando di rifare il trucco a Scatolonia? Una qualità che si declina al massimo attraverso gli interventi sulle architetture, la composizione del paesaggio, la qualità dell’ambiente costruito nel suo insieme. Niente di male, in sé: meglio il meglio del peggio, no?

Invece verrebbe proprio da dire no, niente affatto: c’è una questione ambientale e sociale molto seria legata al tema dello sprawl, che questo genere di approcci tende esattamente a nascondere, dietro la cortina fumogena della “occasione di qualità”. Nel caso migliore. In quello peggiore, implicitamente, a distinguere l’insediamento diffuso degenere da quello “di qualità”, magari perché composto secondo gli stilemi del teorico di turno.

E non si tratta solo di questione italiana, anche se il nostro contesto è particolarmente delicato a causa delle stratificazioni storiche anche di immensa portata (si pensi alla Postumia romana) ormai travolte dallo sprawl nel silenzio più generale. Anche in altri paesi spesso articolazioni della cultura che fa riferimento all’ambientalismo e all'urbanistica in senso lato si scontrano con altre articolazioni, stavolta legate all’approccio progettuale del new urbanism. Ma, anche qui, è raro trovare proposte che perlomeno formalmente non facciano riferimento alle questioni della densità, del recupero, dei nuclei centrali metropolitani alternativi al greenfield development.

Parafrasando l’opinione del giornalista esperto divulgatore di temi territoriali Anthony Flint, e del suo ultimo lavoro, This Land (Johns Hopkins UP, 2006), non esiste new urbanism che sia davvero tale, senza smart growth.

Più terra-terra, senza una valida pianificazione urbanistica, intesa come processo costante in evoluzione, monitoraggio, governo (e anche stimolo) della crescita secondo criteri ambientali sostenibili e socialmente condivisi, non saranno certo i magnifici rendering acquerellati degli studi di architettura e landscape, a rendere meno perniciosa la proliferazione delle superfici asfaltate superflue, dei volumi edificati “produttivi” destinati a non produrre assolutamente nulla, salvo i propri metri cubi.

E per capire quanto la questione non sia affatto teorica, basta farsi una passeggiata nemmeno troppo attenta proprio nei distretti territoriali che producendo ricchezza attirano anche intelligenze, progettualità, ambizioni. Che riguardo a qualunque uso non folle dello spazio e delle risorse, brillano per la loro assenza: le intelligenze, le progettualità, le ambizioni.

A meno di non voler chiamare tali il design delle insegne al neon, la redazione burocratica di “norme tecniche” avulse da qualunque riflessione (e applicate con il medesimo criterio), l’arredo a verde di qualche striscia a dividere un ettaro di asfalto dall’altro. Insomma: può diventare tutto questo occasione di qualità?

Prima di rispondere, può essere utile verificare, magari senza muoversi, lo stato attuale di un distretto produttivo fra i più dinamici del paese: la “città lineare del mobile” nella bassa veronese.

Vedere per credere. E poi magari riproporsi quella domanda sulla “qualità”.

Arredo Urbano Diffuso

Poniamo che per via di un cavillo giuridico un gruppo di energumeni inviperiti vi venisse a prelevare nella notte, poniamo, per lapidarvi sulla pubblica strada. E magistratura e polizia ad assistere al lieto evento, impossibilitati a intervenire per via del cavillo di cui sopra, spuntato per forza o per caso dalla notte dei tempi. Assurdo, no?

Beh: la lottizzazione dell’area (molto) nota come “Cascinazza” a Monza assomiglia piuttosto da vicino a qualcosa del genere. Con l’aggravante, pure (molto) nota, dell’insistenza dei succitati energumeni nel ripescare e riproporre forzosamente vari, veri e presunti cavilli. Ma su questi aspetti si sono già profusi questo sito e altri mezzi di comunicazione. Quella che vorrei provare a proporre, spero a rafforzare la posizione pro-parco, è una questione di merito: cos’è questo poligono irregolare di spazio aperto, green-wedge di campagna padana fra il centro storico e la barriera autostradale e delle tangenziali?

La risposta, che spero possa emergere e/o rafforzarsi, è: uno spazio unico, di valore non solo comunale, in un contesto metropolitano dove per trovare cose che gli assomigliano bisogna spostarsi di parecchio, verso la green-belt del Parco Sud (dove, guarda caso, da anni gli stessi esegeti del metro cubo “ci provano”). Altro che, come ha osservato pubblicamente l’assessore regionale, accanimento sulla famiglia Berlusconi. L’accanimento è quello sul buon senso. Del resto anche il piano vigente di Luigi Piccinato, che a quei 380.000 metri cubi di palazzine, coi loro vialetti, cul-de-sac alla brianzola ecc. conferirebbe legalità formale, recita alla relazione:

“Realizzare a sud, lungo il Lambro, un nuovo grande parco pubblico, onde spaziare i due settori con la stessa funzione esercitata a nord dal Parco Reale”.

E ancora:

“Il piano afferma la necessità di disporre un nuovo spazio verde di parchi e di attrezzature sportive, impostato sulle due rive del Lambro che, con il corrispondente Parco Reale a nord, completa un sistema a verde a due grandi cunei che verrà a spaziare tutto l’organismo urbano. Il parco del Lambro potrà nel futuro piano intercomunale, trovare il suo completamento fino a Milano, costituendo un sistema verde regionale fino a Monza ed oltre, fino alle soglie della Brianza”.

Bastano queste poche battute a chiarire quale sia il ruolo di quel cuneo verde, “sistema regionale”, con un valore che gli anni, con la saturazione dell’edificato e la quasi distruzione di ogni possibilità di rete continua hanno aumentato esponenzialmente. E si capisce anche, indirettamente, il senso anche originariamente forzoso di quella fascia edificata sul lato orientale, a strizzare il cuneo verde alle sole sponde del fiume: una città da 300.000 abitanti, in una regione metropolitana che si presumeva in crescita più ordinata, per nuclei compatti e sistemi di spazi aperti. Non certo lo sprawl di capannoni, bretelle e cinture che ora fa da “cornice” a quella residua testimonianza di pianura padana.

Ed è soprattutto questo, che il breve, prosaico percorso attorno alla Cascinazza, vorrebbe mostrare: costruire qui, nel terzo millennio, è davvero come lapidare adulteri sulla pubblica piazza.

Qui la Galleria pubblica. Non sono foto magnifiche (come ad esempio quelle, molto suggestive, del sito cascinazza.info) ma servono soprattutto a dare un’idea di cosa ancora “non è” quello spazio. Cliccando sulle immagini, si ingrandisce un po’, e si possono leggere le didascalie.

vai alla Galleria

Via libera, ieri, del consiglio regionale alle modifiche della legge urbanistica. Modifiche che consentiranno, tra l´altro, a Paolo Berlusconi di mettere a frutto dopo anni, a Monza, la lottizzazione dell´area della Cascinazza, 55 ettari di verde incontaminato attraversati dal Lambro. Un affare da almeno 250 milioni di euro. Accompagnato dall´occasione, per altri costruttori, di realizzare un milione e ottocentomila metri cubi di cemento in una delle zone più belle della Brianza. E c´è anche, per la Lega, la possibilità di imporre uno stop a nuove moschee in Lombardia, a cominciare da quella di viale Jenner sulla quale dovrà decidere ora il sindaco Letizia Moratti.

«Una vergogna e una legge ad hoc che svilisce le funzioni del consiglio regionale» - ha protestato dopo il voto, compatta, l´Unione con il diessino Marco Cipriano. «Finalmente regole chiare per tutti» - ha replicato l´assessore regionale leghista all´Urbanistica, Davide Boni, che sulle moschee ha aggiunto: «Ora non sarà più possibile prendere un garage e trasformarlo in un luogo di culto come in viale Jenner». Non sono bastati gli 868 emendamenti del centrosinistra, due manifestazioni, una "notte bianca", l´appello di numerosi urbanisti di fama e nemmeno la presentazione in extremis, mercoledì, del nuovo piano territoriale di Monza. Con 42 voti a favore e 29 contrari, ma ben 7 franchi tiratori nella Casa delle libertà, l´aula ha pronunciato il suo verdetto. Con la riduzione da cinque anni a tre delle cosiddette salvaguardie (ossia gli anni di validità dei piani regolatori) il comune di Monza, nonostante abbia pronto il nuovo piano, rischia di dover continuare ad applicare quello del 1971, più permissivo. Nel frattempo, la Ist.Ed.In, Istituto per l´edilizia industrializzata di Paolo Berlusconi, potrà chiedere di costruire nei quasi 400mila metri di sua proprietà, un´area finora protetta.

Immediata la protesta del sindaco di Monza, Michele Faglia: «La Lombardia non poteva fare una figura peggiore. Il presidente Formigoni, che si propone sempre come progressista e paladino della sussidiarietà, è stato succube di interessi immobiliari di parte. Non ci arrenderemo». Si dice «esterrefatto» il consigliere regionale monzese dell´Ulivo Pippo Civati.

Sul piede di guerra anche i Verdi e Rifondazione comunista. «Perfino sette franchi tiratori della Cdl non hanno voluto votare la legge pro Berlusconi» dicono i verdi Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro. «È una legge scandalo che fa vergognare anche parte della maggioranza» sottolineano anche Mario Agostinelli e Luciano Muhlbauer di Rifondazione.

Secca la replica del relatore del provvedimento, il leghista Giulio De Capitani: «Sono solo modifiche tecniche per rendere più facile l´applicazione della legge». Il capogruppo di An in Regione, Roberto Alboni, respinge che i franchi tiratori siano tra i suoi: «Basse speculazioni di chi vuole solo gettare benzina sul fuoco». Accuse pesanti proprio nel giorno in cui, con l´elezione di Ettore Albertoni alla guida del consiglio regionale, è sembrato che il dialogo tra gli opposti schieramenti sulla riforma dello statuto potesse ripartire. «Entro luglio la commissione, in un anno la riforma» sono state le prime parole del neo presidente. «E senza preclusioni sulla guida della commissione a un esponente del centrosinistra» ha aggiunto il governatore Formigoni. Un´apertura comunque definita «interessante» dai capigruppo dei Ds, Giuseppe Benigni, e Guido Galperti della Margherita.

Comunicato stampa dal gruppo DS in Regione Lombardia

È una legge sbagliata, l’ennesima modifica, e non certo l’ultima, alla legge urbanistica approvata solo l’anno scorso. Siamo l’unico Paese al modo in cui un problema che attiene alla libertà di culto, com’è l’apertura di luoghi di preghiera, viene regolata con una legge urbanistica, e questa è già un anomalia notevole. Ma i problemi veri, nascosti dall’articolo antimoschee, riguardano la città di Monza e i piani d’area. Con questa legge ad hoc, infatti, si vuole impedire a un comune di tutelare il proprio territorio, solo perché su una specifica area, quella della Cascinazza, c’è un chiaro interesse di Paolo Berlusconi. Con i piani d’area, invece, si vuole dare mano libera alla Giunta di ridisegnare il territorio in alcuni punti strategici, come le zone degli aeroporti della Malpensa e di Montichiari e come la Valtellina, senza che sia stato ancora approvato il piano territoriale regionale, di cui non c’è ancora nemmeno una bozza.

Una legge sbagliata, ancora più stonata oggi, giorno in cui il Consiglio elegge il nuovo presidente, che ha richiamato l’Aula al dialogo per meglio esercitare le sue alte funzioni. La realtà è che questo Consiglio viene svilito dall’approvazione di una legge ad hoc, primo provvedimento dopo mesi di sostanziale inazione.

Marco Cipriano, vicepresidente del Consiglio regionale

Milano, 6 luglio 2006

Negli ultimi 50 anni Palermo ha triplicato la superficie costruita. Nel 1955 la città urbanizzata copriva 2.228 ettari, nel 2002 è cresciuta fino a 6.163 e, da allora, un centinaio di ettari di asfalto e cemento si è ancora aggiunto. Le aree verdi coprono ormai meno dell5percentodellapianu-ra che ospita la città. La mitica Conca d'oro è ridotta a pochi brandelli. Gli studiosi di ecologia rabbrividiscono al vedere le mappe dell'espansione urbana e a leggere gli indici che ne definiscono la sostenibilità ambientale. Chiusa dal mare e da un circuito di monti, Palermo ha largamente superato ili-miti della sua impronta ecologica, sembra—lo dicono i dati scientifici — prossima al collasso. Oltre ai dati parlano i fatti. La periferia urbana — quella che in Europa chiamano «paesaggio supermarket» per il contenere, l'uno accanto all'altro ma in un ben ordinato disegno urbanistico, abitazioni, aree agricole, piccole industrie, centri commerciali, parchi — è ridotta a «paesaggio discarica», dove gli usi e gli abusi più disparati, nel caos e nel degrado, si contendono il poco spazio ancora disponibile. Poi, improvvisamente, una discarica abusiva p rende fuoco e una nube tossica si espande nera sulla città e nei nostri polmoni. Carica di diossina (annuncio di quella quotidiana somministrazione che ci attende con l'inceneritore di rifiuti di Bellolampò) si miscela con le polveri sottili e gas inquinanti che quasi quotidianamente superano la soglia prevista dalla legge, incuranti di ridicole misure di contenimento come le targhe alterne due pomeriggi la settimana, che nessun esperto di inquinamento atmosferico potrebbe mai considerare efficaci. I boschi sulle montagne della città bruciano; il vandalismo e la speculazione le innesca e le temperature torride partecipano all'espandersi degli incendi.

I cambiamenti climatici in atto ci dicono che andrà sempre peggio, le temperature saliranno, gli incendi saranno sempre più probabili, l'aria che respiriamo sempre peggiore. L'incremento dell' effetto serra porterà con se anche l'intensificarsi dei fenomeni temporaleschi di lunga e intensa durata. Le pendici delle montagne povere di boschi, ma ricche di villini e di strade, non assorbono più l'acqua piovana che a velocità si dirige verso la città: questo inverno, l'alluvione del Papireto ha ricordato le disastrose inondazioni degli anni Trenta, quando una città che allora potevamo definire normale in termini ambientali patì disastrosamente un evento piovoso eccezionale. Figuriamoci cosa succederebbe ora al ripetersi di piogge altrettanto intense.

Il quadro è desolante. Le ragioni per cui tutto questo avviene chiare e inconfutabili. Dice una legge della fisica che là dove si trasforma energia, e le città sono i luoghi dove per unità di superficie questo avviene in maggiore misura, si producono inevitabilmente scorie, inquinamento. Le sole aree che svolgono azione positiva sono quelle verdi, animate dall'energia solare pulita: una città dovrebbe quindi mantenere al suo interno e al suo intorno grandi aree verdi che depurino l'aria, assorbano le acque in eccesso, raffreschino le temperature. Palermo per la sua posizione geografica, chiusa all'interno di una conca, dovrebbe tenere particolarmente care per la salute sua e dei suoi abitanti le residue aree verdi, veri polmoni di una città che soffoca. Quasi nessuno, al di là di teoriche posizioni di principio, sembra piuttosto preoccuparsene e progressivamente il cemento avanza. È degli ultimi giorni il parere positivo dell'assemblea comunale alla creazione di due nuovi centri commerciali dalle parti di Borgo Nuovo che si aggiungono a quelli minacciati o promessi nella piana dei Colli, nei pressi dello Zen, o alle porte della città a Maredolce, a Ciaculli e verso Villabate. Si discute anche di un nuovo stadio che sostituisca il "Renzo Barbera", al posto del velodromo o alla Bandita dove ora ci sono gli orti.

Uno splendido esempio di spreco delle risorse in un crescendo di ipermercati, parcheggi, discoteche, che prefigura una città di frenetici consumatori, in perpetuo e incosciente divertimento. Si vorrebbe mitigare il loro impatto, senza timore di incorrere in ridicolo anche considerando la meno che mediocre qualità delle ultime realizzazione di nuovi parchi e giardini, con aree a verde ornamentale in sostituzione degli antichi giardini di agrumi. Viene in mente il famoso capo indiano che ammoniva: «Quando anche l'ultimo albero sarà tagliato ci accorgeremo allora che i soldi non si mangiano."

Palermo, con i suoi amministratori sostenuti, quando fa comodo, anche da gran parte delle opposizioni, sembra non avere idea, se non ai convegni o nei programmi elettorali, dei rischi che corre, incurante di una politica "alta" che da Bruxelles, da Roma, qualche volta anche da Palazzo dei Normanni, proclama la necessità di salvaguardare le residue aree verdi e prefigura politiche (come la prossima programmazione europea 2007-2013) volte a difendere le residue aree periurbane non edificate.

Attorno alla cinquecentesca torre, oltre Borgo Nuovo, sopravvivono alcuni ettari di oliveti secolari, impianti di agrumi, frutteti e orti in parte ancora coltivati, in un contesto di degrado avanzato ma ancora facilmente rimediabile. Una area che i consiglieri che hanno votato a favore con ogni probabilità non hanno mai visitato ma che le politiche europee indicano come ottimale per la creazione di un parco agricolo: spazio dove l'agricoltura è incentivata, l'agricoltore ripagato per il suo ruolo di manutentore dell'ambiente e del paesaggio, il consumatore garantito nella qualità e nei prezzi da una "filiera corta", dal produttore al consumatore. Politiche che hanno radici nella vecchia esperienza del Parco agri colo di Ciaculli, cancellato dal Prg e nato da un progetto Life della UE e che fece vincere, nel 1995, a Palermo l'imprevedibile premio di "città sostenibile". Politiche che hanno avuto successo nelle periferie di Londra, Parigi, Milano e che ora si espandono ad altre città europee che non hanno la qualità paesaggistica, la storia prestigiosa, il valore simbolico nell'immaginario europeo della Conca d'oro. Su questi spazi non ancora urbanizzati, Palermo, che su essi ha fondato tremila anni di storia, dovrebbe fondare anche il suo futuro, considerandole intoccabili dal cemento:per ragioni di pura sopravvivenza, per le opportunità economiche che ne deriverebbero, per il mantenimento della sua identità culturale. Così, oggi, evidentemente non è: si combatte il verde residuo fino all'ultimo albero di mandarino in una visione cieca ed egoista dello sviluppo, incuranti del futuro della città e dei suoi prossimi abitanti. Chi se ne frega avranno pensato i consiglieri comunali: «noi non ci saremo», come cantavano "I Corvi" negli anni Sessanta.

Chi è Giuseppe Barbera, secondo Francesco Erbani


CREMONA - Peggio della grande secca di tre anni fa. Il Po sembra quasi un rigagnolo, le bettoline e le grandi barche non riescono più a passare, e i campi intorno sono riarsi. Anche le zanzare sono più cattive. La vecchia asta millimetrata dell´idrometro che scende dal ponte che va in città, segna meno 7 metri e 60. La magra, in questa siccità anticipata a causa delle scarse piogge e delle temperature più alte della media stagionale, sta toccando di nuovo picchi storici. «Il record del 23 luglio del 2003, - 7,72, l´abbiamo già superato: - 7,77 il 9 giugno di quest´anno» spiega Luigi Maccabelli dell´Agenzia per il Po, memoria storica del fiume che da quarant´anni ne spia ogni movimento.

Sulle rive del grande fiume in agonia è cominciata una dura battaglia per la sopravvivenza tra i contadini e i padroni dell´energia. Tutti vogliono l´acqua che non c´è, tutti ne hanno bisogno, tutti la vorrebbero prima di tutto per loro. Gli agricoltori dicono che è colpa del mancato rilascio di acqua da parte dei bacini alpini. «Vengono mantenuti chiusi dalle società che ne hanno la concessione per la produzione di elettricità - accusa Coldiretti - e in questo modo impediscono che l´acqua giunga a valle sottraendola ai cittadini, all´ambiente e all´agricoltura».

Replicano i gestori: «E se vuotiamo ora i bacini, cosa faremo per l´agricoltura e per gli eventuali picchi di richiesta di elettricità a luglio? Tutte le esigenze sono importanti, irrigazione, elettricità, turismo. Ci vuole un tavolo dove pesarle e poi decidere». Ci proveranno oggi, a Parma, tutte le parti interessate, chiamate dal segretario dell´Autorità di Bacino, Michele Presbitero, ad una «cabina di regia» sul Po che il presidente dell´associazione per le bonifiche Massimo Gargano vorrebbe rendere permanente «per non agire sempre sotto la pressione dell´emergenza».

Infatti è già allarme rosso. Quasi ovunque lungo l´asta del Po si registrano «livelli inferiori a quelli del 2003», dice l´Autorità di bacino: 4 metri sotto Casalmaggiore, 5 a Castelmassa, 7 a Cremona e Pontelagoscuro, 8 a Canonica d´Adda. Sono in crisi anche i suoi affluenti, come il Ticino, l´Adda, la Dora Baltea, e i laghi di Como, Iseo e Maggiore. Cinque regioni, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, stanno mettendo a rischio l´irrigazione delle colture in un periodo determinante per la loro crescita. La Coldiretti del Piemonte, che chiede lo «stato di calamità», lamenta già 120 milioni di euro di danni all´agricoltura, sostenendo che il raccolto del mais «è compromesso per il 40%», mentre quella veneta, che aspetta ancora gli indennizzi del 2003, denuncia un calo del 30% del reddito di 3000 aziende agricole del Padovano.

Foto di F. Bottini

Sono a rischio un terzo dei raccolti delle produzioni più tipiche del nord, come riso, cereali, mais, soia, barbabietole, ma anche pomodori, specie in Emilia, e molte colture foraggiere nel Sassarese, in Sardegna. Secondo la Cia, la confederazione agricoltori che mette in guardia su «possibili riflessi sui prezzi»,ricordando che la magra di tre anni fa causò all´agricoltura una perdita secca di 5 miliardi di euro, per il momento a soffrire maggiormente della siccità sono le risaie delle province di Pavia, Novara e Vercelli. Ma ci sono problemi anche in montagna, come in Valsesia, dove a causa della carenza d´acqua manca l´erba sui pascoli alpini. La magra del Po sta inoltre causando forti danni alle colture in Polesine per la risalita del «cuneo salino», che porta nel fiume l´acqua del mare Adriatico, rendendola inservibile sia per i campi che per uso potabile.

Ma le conseguenze di questa secca anticipata rischiano di essere ancora peggiori. Infatti non rischia solo l´agricoltura, perché l´acqua comincia a mancare anche per le centrali, e se manca l´acqua mancherà l´elettricità. «Stiamo perdendo più di un milione e mezzo di chilowattora al giorno - afferma Sergio Adami, responsabile degli impianti idroelettrici dell´Enel per il nord - tanto che nella nostra centrale idroelettrica di Isola Serafini sul Po e anche in quella termoelettrica di La Casella, vicino a Piacenza, abbiamo dovuto costruire un ‘pennello´ per poter andare a pescare l´acqua con le pompe». Enel si dice comunque pronta a «fornire alle Regioni la massima collaborazione». Con la Lombardia è già in atto una cooperazione che prevede la fornitura dell´acqua affluente e un parziale svasamento dei bacini. Ma ancor di più, dicono, potranno fare i grandi laghi. Una giornata di prelievo dal lago di Como equivale, secondo l´Enel, alla quantità d´acqua immagazzinata in un bacino idroelettrico.

Il seguente comunicato è stato distribuito sabato 10 giugno 2006 durante la manifestazione pubblica sul caso di "scavalcamento" regionale dell'autonomia locale per favorire interessi particolari (leggi: Paolo Berlusconi). E' rivolto ai cittadini di Monza, ma il caso di questa speculazione forse merita un'attenzione generale. Chi non conoscesse ancora il caso può far riferimento sia al Dossier relativo predisposto dall'Ulivo, sia agli articoli raccolti su Eddyburg (f.b.)

COMUNE DI MONZA – COMUNICAZIONE AI CITTADINI

Martedi 13 giugno il Consiglio Regionale potrebbe decidere di condizionare pesantemente il futuro della nostra città.

Per la terza volta la Regione Lombardia, attraverso una legge apposita, tenterà di bloccare l 'autonomia di Monza su questioni di carattere urbanistico.

COME? Inserendo una norma che, solo per la città di Monza, riduce il periodo di salvaguardia delle aree non ancora edificate e ripristina cosl il vecchio Piano regolatore di 31 anni fa, che prevedeva una città di 310.000 abitanti!

PERCHÈ? È del tutto evidente che questa Legge Regionale è funzionale ad alcuni interessi economici e immobiliari.

L 'esempio più eclatante è quello della Cascinazza, area sulla quale il privato potrebbe chiedere di realizzare l' equivalente di 60 nuovi palazzi .

COSA SI PUÒ FARE? Chiedere al Consiglio comunale di approvare SUBITO il Piano di Governo del Territorio, con un atto di responsabilità e .di orgoglio monzese. Bisogna continuare a difendere i veri interessi, quelli pubblici, cioè quelli della città intera.

Esprimere la protesta dei monzesi al Presidente della Regione Roberto Formigoni inviando questo messaggio: "Monza ha diritto di scegliere il proprio futuro: salviamo il nostro verde! No alla modifica dell 'art.36 comma 4 della L.R. 12/2005!" all'indirizzo via Fabio Filzi 22, Milano, o via mail a roberto_formigoni@regione.lombardia. it

Titolo originale: Road plans put Stonehenge status at risk – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Stonehenge rischia di essere spogliata del suo rango di patrimonio dell’umanità, a causa di alcune proposte di “secondo livello” del governo per facilitare la congestione da traffico verso il monumento, ha annunciato ieri il National Trust.

Sarah Staniforth, direttore dei complessi storici per il trust, ha affermato che il comitato nazionale dell’Unesco, che amministra i siti patrimonio mondiale, ha esaminato il caso, e che Stonehenge potrebbe essere tolto dall’elenco a causa di cattiva gestione del traffico. L’ammonimento del trust arriva mentre gli uffici responsabili stanno decidendo come rimediare alla congestione sulla A303, che passa davanti alle antiche pietre.

Le possibilità prese in considerazione comprendono una galleria di 2,1 km, oppure una deviazione della strada ai margini dei 2.200 ettari del sito. Il trust, proprietario di gran parte dei terreni attorno a Stonehenge, non approva nessuno dei due progetti.

Sir William Proby, presidente del trust, afferma in una lettera aperta al ministro dei trasporti Stephen Ladyman: “Se il governo non è in grado di realizzare una soluzione accettabile di lungo termine per Stonehenge allora sarebbe meglio non pensare affatto a lungo termine. Non dobbiamo legare le mani alle generazioni future”. Ha poi dichiarato che la minaccia per Stonehenge è “grave, urgente, imminente”.

Il problema non è la conservazione delle pietre, ma la tutela e il ripristino dell’area circostante, che si ritiene nasconda tesori archeologici ancora non scoperti. “Non possiamo restare a guardare, consentendo che una soluzione di basso profilo danneggi per sempre uno dei paesaggi più importanti del mondo”.

Fiona Reynolds, direttore generale del trust, ha affermato che una soluzione temporanea, di allargamento della strada su entrambi i lati ma lasciando la A303 come tracciato principale, renderebbe poi finanziariamente e politicamente difficile realizzare una galleria adeguata allo scopo. “Sarebbe come puntare un fucile a due canne contro il sito di importanza mondiale”. Il progetto alternative proposto richiede una riduzione del traffico di attraversamento.

Il Department for Transport che non prenderà una decisione sulla soluzione prescelta fino alla presentazione del rapporto del gruppo di orientamento, prevista per l’estate. Anche lo International Council on Monuments and Sites (Icomos-UK) e il Council for British Archaeology hanno chiesto al governo di ripensarci.

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Quando un articolo, un comma valgono milioni. Bella storia italiana, perché fuori gioco perunmomentoun fratello le leggi ad personam si compilano per l’altro: via Silvio, ecco Paolo, lontano dalla politica, fermo ai mattoni, primo amore del più grande in famiglia. Tanti mattoni, qualcosa come 388 mila metri cubi di mattoni e di cemento, tante belle case, una dietro l’altra, tra i prati verdi e umidi della Cascinazza, comune di Monza, appena a nord di Milano, accanto a Brugherio e aCologno, in mezza a una zona , in sostanza, tra le più densamente urbanizzate e popolate della Lombardia. Protagonisti oltre al “piccolo” Berlusconi, in fase di attesa, la grande Regione Lombardia con il suo presidente e senatore, Roberto Formigoni, l’assessore regionale all’urbanistica, Davide Boni, ultras leghista e sbandieratore della devolution, il comune di Monza, con il suo sindaco, Michele Faglia, sindaco di sinistra.

Ci starebbe anche Milano, ci starebbero soprattutto quelli che a Milano, nel centrodestra, in campagna elettorale, s’animarono per il progetto dell’anello verde e lo chiamarono “Gli occhi verdi di Milano”. Tranne uno, avrebbero dovuto precisare, l’occhio della Cascinazza, un trapezio di 750 mila metri quadri, che nessuno a Monza vorrebbe vedere costruito,ma che la lungimirante Regione Lombardia («Ci muoviamo nell’ottica del bene pubblico, del bene comune, da realizzare nel dialogo e nel confronto», commentò sereno il governatore lontano, rispondendo a una lettera del sindaco Faglia) vorrebbe veder edificato, senza badare alle pretese dei riottosi monzesi e neppure alla salute dei silenti milanesi.

I monzesi, pignoli, si erano dotati di tutti gli strumenti urbanistici necessari a proteggere la Cascinazza. Da tempo, A cominciare dal piano regolatore di un sindaco leghista, Che stabiliva vincoli definitivi. Poi confermati, varie volte, dagli strumenti urbanistici varati e adattati a legislazione vigente dall’amministrazione di centrosinistra. Ma alla Regione Lombardia hanno pensato che una legge lava l’altra ed ecco pronta la modifica che riduce gli anni di salvaguardia da cinque a tre, addirittura con valore retroattivo: il piano del 2002, dunque, non vale più dunque, le norme di salvaguardia dovrebbe decadere secondo i progetti del governatore Formigoni e dell’assessore (leghista) Boni non più dopo cinque anni, ma dopo a tre, sarebbero quindi (per retroattività) già scadute e quindi e tornerebbero d’attualità le misure del precedente piano regolatore, vecchio di oltre trent’anni, il piano Piccinato del 1971, che generosamente e in una logica di grande espansione consentiva di costruire appunto quasi quattrocentomila metri cubi su quell’area (e su altre per altri cinquecentomila metri quadri, quasi).

Come piacerebbe oggi a Paolino Berlusconi e come, appunto, la nuova legge gli consentirebbe, se venisse approvata, una nuova legge fatta per lui e per poche altre anime: perché la legge non solo è ad personam ma anche per due comuni soltanto, Monza, terza città della Lombardia, e Campione d’Italia (enclave del gioco d’azzardo ormai in territorio svizzero). Per amore della verità neppure la legge sarebbe sufficiente, perché l’area agricola supervincolata è anche area che soffre d’esondazioni, a fianco scorre il Lambro che potrebbe far danni ancora (come capitò tre anni fa). E quindi si disegna il Pai, piano di assetto idrogeologico, che delimita l’area della Cascinazza come fascia protetta, di salvaguardia e di esondazione.Quindi non edificabile.

Ma ecco la soluzione, sedendo ancora a Palazzo Chigi il fratello maggiore, Silvio Berlusconi: si inventa una “grande opera” il canale scolmatore, una sorta di by pass che dovrebbe partire in prossimità della secentesca Villa Mirabello, nel Parco di Monza, attraversare il nord monzese, traversare strade e aiuole, rientrare nel Lambro più a sud. salvare la Cascinazza e quindi anche la possibilià di edificarvi quello che si vuole. Danni ambientali: pazienza. Costi: pochi euro. Cioè: 168.294.491 euro. Quasi centosettanta milioni euro. Quasi trecentoquarantamiliardi delle vecchie lire. Il canale ovviamente andrà a futura memoria.

Per la legge l’appuntamento è domani in consiglio regionale. «Provvedimento tecnico», modifica di poco conto, sostiene il centrodestra della Regione, che dimostra tanta attenzione per i metri cubi di Berlusconi Paolo e nessuna per Monza, che aveva deciso in altro senso, e nessuna per chi vive tra Milano e la sua provincia, a prova perenne di inquinamento. Il polmone verde della Cascinazza evidentemente non interessa a Roberto Formigoni, così sollecito nel proclamare domeniche a piedi contro le polveri sottili e a mostrarsi lui stesso in bicicletta, per dare il buon esempio. Berlusconi Paolo aspetta. Intanto persino la magistratura gli ha dato torto. Paolo aveva citato il comune di Monza per danni, chiedendo un risarcimento di trecento milioni di euro (per non aver potuto costruire un milione e mezzo di metri cubi previsti da un convenzione del 1962 dal comune con la vecchia proprietà). Niente. Cassazione e Corte d’appello gli hanno dato torto. Paolo Berlusconi deve aspettare. Ancora. Ma la Regione di Formigoni può fare il miracolo.

Questo articolo è stato pubblicato ieri da «Il Domani di Bologna» Lo ripubblichiamo per gentile concessione.

A guardarla, oggi, giugno dell' anno 2006, e a camminarla, ad ascoltarla per la strada, per le strade, ove dà suoni infuriati e quasi costanti; insomma a viverla da cittadino ogni giorno, ogni ora del giorno e dell'anno, con le sue spesso drammatiche necessità vitali; oggi, ripeto, Bologna appare una città stravolta, perforata, bucata, scavata, martellata, intubata in ogni ambito, strade stradine stradone ponti cavalcavia, come sotto un bombardamento di confusione e di polvere. È anche, a volere dire tutto, costantemente impiastricciata in ogni dove: cassonetti, muri, colonne, serrande, vetrate, porte, sopra e sotto; scritture e segni grossi grevi che nulla hanno a che fare con le intemperanze lucidamente linguistiche di un tempo ormai dimenticato, perché allora erano spesso sospinte da una rabbiosa partecipazione d'amore, come se si scrivesse sul braccio o sulla spalla di una madre, non per maledirla o aggredirla ma per implorare alla fine di essere riconosciuti e abbracciati.

Questa città, unica finestra aperta sulla schiena d'Italia, è impietosamente spezzatacome ossa d'agnello fino dal medioevo, quando nelle strade scorreva il sangue e chi aveva il sopravvento abbatteva muri palazzi alberi torri della o delle famiglie nemiche e non aveva tregua se non quando arrivavano armigeri spietati da lontano i quali matavano i vinti; poi, volendo arrivare con un balzo rapido a toccare tempi più ravvicinati, appena acciuffata dai Savoia e incollata all'Italia, ha avuto abbattuto il cerchio delle mura (fra i più integri in Europa) e abbattute le torri (Bologna la turrita era chiamata) preservandone soltanto le ultime due, che adesso stanno lì incastrate nel pieno centro come due salami penzolanti in bottega; poi è stata maciullata nel corso della seconda guerra infernale; e, in seguito, sommersa da una alluvione cementizia, spesso per necessità, spesso per avidità, spesso per una sorta di delirio urbanistico, imperiale, da Bologna in Europa, Bologna nel mondo, quasi che potesse competere al centro con le grandi metropoli. Mentre è una città bella e solenne, appena un po' giocosa nonostante tutto; minuta e splendida ma troppe volte vilipesa dalla storia, dagli avvenimenti e dall'aridità degli uomini; perciò adesso va difesa, come è possibile, con le unghie e con i denti; va stretta al petto, tutelata in ogni modo e occasione come un animale infradiciato dalla pioggia e ritrovato dopo ricerche nel bosco. Con l'unico diritto di averla sempre partecipata in tanti anni di vita, si può esprimere la convinzione che la prima collina bolognese è l'ultimo baluardo ecologico, l'estrema trincea contro l'ingorgo respirativo, vitale per una città che è fra le più inquinate non solo d'Italia,ma d'Europa; che ha sessanta chilometri di portici, i quali, se da una parte rappresentano un vanitoso privilegio, da altra parte sono subdoli tutelatori di aria pestifera; con un traffico su ruote e sfugge a ogni realistico e rigido controllo, dato che non si riesce a renderlo compatibile neanche un po' con le strettoie delle sue vie principali.

Adesso poi, l'ho già accennato, ha più cantieri aperti di ogni altra città italiana. Cosa si può addossare ancora a questa intrepida ma conculcata Bologna?

Con la presunzione da parte dei poteri politici amministrativi, magari di farla più giovane, più agile, più scattante, sopra sotto ai lati, nello sprofondo delle sue viscere? Una frenesia che è data dalla contaminazione di questo tempo infuriato e spesso scriteriato nel suo scannamento delle cose e dal fatto che - non essendo più disponibili le idee forti e drammaticamente precise e individuabili di un tempo, alle quali collegare il carro dei pensieri o della vita - si tende a rivolgersi a processi, a programmi grandiosi di cui noi abbiamo avuto la torturante esemplificazione da ragazzini, quando si sventravano città e quartieri per la smanie imperiali dei padroni del vapore; per vederle dopo poco ridotte in polvere, in fumo, in cenere, in fuoco.

Bologna nel dopoguerra con un solo quinquennio di intermittenza, è sempre stata amministrata con rigore da una sinistra che era ammirata (lo ripeto) anche all'estero e una delle scelte di queste amministrazioni, nel corso di cinquant'anni, è stata la difesa intransigente della collina; lo ripeto: intransigente, della prima cerchia collinare. Non una difesa generica ma all'erta e mai indecisa; nonostante alitasse, sopra questo spazio aperto al cielo, il fiato - bollente - della speculazione; in agguato, per percepire anche solo i primi scricchiolii in tali propositi di difesa. Sbavando per la voglia, qua e altrove, di fronte a questi spazi di alberi, prati, silenzio e nuvole. Trentacinque anni fa il settimanale l'Europeo, bene attivo nelle battaglie socio-ecologiche, allegò ai fascicoli per dieci puntate degli inserti intitolati «Il Malpaese -Atlante dell' Italia distrutta». Il primo l'ho sotto gli occhi, era dedicato al Veneto: «Il saccheggio dei Colli Euganei». A sfogliarlo non possono non venire ancora i brividi nella schiena. Firmava Paolo Ojetti e iniziava: «Che questo fosse diventato il malpaese, il paese del malessere, del malcostume, del malgoverno, un paese malato di un male oscuro,sommadi tanti altri malanni, non lo si capì né il giorno dell'alluvione del Polesine, né il giorno del crollo della diga del Vajont, né quando l'onda dell'Arno cancellò i tesori d'arte conservati a Firenze. Lo si capì invece quando, improvvisamente, nel 1970, ci si accorse che, senza una vera ragione, senza che fosse capitata una catastrofe, senza insomma che la cattiva stella o altre diavolerie ci avessero messo lo zampino, le ruspe e le scavatrici ci stavano mangiando a grossi bocconi iColli Euganei. Se non si fossero mossi dei giovanotti del posto e la grande stampa, l'assalto ai colli si sarebbe fermato solo il giorno in cui al posto dei colli ci fosse rimasta una spianata grigio cenere. Ancora oggi si vedono le ferite profonde di quel delitto incompiuto. Le cime, torturate, tagliate al vivo come da grandi lame di coltello, testimoniano ancora l'ignobile saccheggio di queste colline, terra di conquista di molti cavatori e di pochi, insipienti e corrotti, detentori del potere. A ridosso di Arquà, Monselice, Este, Vò, sulle ferite di un tempo cresce ora una peluria verde, stentata e rara. Ma non è finita...».

Oggi, da noi qui a Bologna, si sente parlare con voce alta ma con toni d'agnello, con una sorta di leggerezza quasi svagata, di propositi sulla nostra prima collina.

Con il pretesto che è mal tenuta, che è poco e male usata, che Bologna merita una collina splendente di luci e fiori per la delizia deambulante dei cittadini; e promettono che non sarà sfregiata neanche da un graffio, o dal rumore di una foglia caduta, o dall'ala perduta da un uccello migrante; e a conferma, si allestirà un campo da golf di 18, no, di 36 buche desiderato da tempo dalla popolazione. Magari si aggiungerà un agriturismo, così che si potranno evitare i viaggi in Toscana, Umbria o in Sicilia e altrove, potendo caricare le valigie sull'autobus 30, che arriva in dieci minuti a destinazione, per un pronto contatto con la natura ritrovata. Forse si potrà aggiungere qua e là un baretto progettato da qualche importante architetto giapponese, di legno pregiato, per il sollievo delle coppiette sazie d'amore. Per il resto, si è letto, nessuno si permetterà di toccare sfiorare tagliare calpestare neanche un'erbetta (il colle della Guardia non può essere un esempio). Così è stato insinuato nello scalpitare dei primi progetti; da contrastare con uno scatto immediato prima che prendano il minimo abbrivio. Si può fare una seconda citazione, a conferma che in Italia la sostanza delle cose cambia poco, nonostante il passare non degli anni ma dei secoli; e nonostante la nostra mai esausta presunzione. Da «Il Marzocco » di Firenze n° 23, 7 Giugno 1903: «Per le porte di Bologna». «Un destino fatale gravita su Bologna in quest'alba di secolo. I Consigli municipali si susseguono anzi si mutano compiutamente; i partiti radicali succedono a' più moderati. E in grembo del Consiglio da tre anni non si ode che una voce: abbattiamo le mura! Come se la città non avesse altri e maggiori bisogni essenziali; ed ogni soluzione dipendesse dal dirompimento di una cerchia, che par saldata nel bronzo, che non toglie l'aria a nessuno, che allieta la passeggiata pei viali, che è destinata - sì, destinata - a sfidar altri secoli e a coronarsi di altre grandi memorie. Il destino fatale vuole anche che queste mura appartengono al Comune... ». Oggi vediamo dove sono finite le mura. E un Comune che non riesce a ristabilire ordine civile in piazza Verdi, in piazza Santo Stefano, in via del Pratello (non per ignoranza o per mal volere ma perché manca di mezzi e di persone e affronta il disagio come può, in un modo genericamente sussultorio, perché non si può fare altro, pensare altro, inventare altro che non sia la minutaglia della giornata, di volta in volta) come potrebbe garantire, in un contesto nazionale in generale così degradato, una gestione attenta e coordinata in uno spazi periferico tutto da inventare? Certo, con la collaborazione dei privati; socchiudendo la porta, che con un calcio verrà poi scardinata. È stato appena detto che la collina, questa collina va usata. Mi permetto di ricordare che da noi, in Italia, ogni uso si traduce prima o poi in un abuso; o in manomissione al servizio dei vari interessi; sicché penso sia meglio parare via, come mosche, ogni proposito nei riguardi di questa fascia di terra alberata non ancora deturpata; per secoli una delle difese degli ultimi benefizi ecologici di questa nostra città.

Si susseguono con ritmo incalzante i provvedimenti legislativi, d’iniziativa governativa o parlamentare, intesi a rimuovere dall’ordinamento italiano qualunque capacità di efficace difesa del patrimonio storico, artistico e del paesaggio. Norme consolidate da secoli nella nostra tradizione giuridica e fondate sul principio dell’interesse pubblico del bene culturale, indipendentemente dalla proprietà pubblica o privata, vengono attenuate o abrogate nel disinteresse generale. Tante volte, grazie ad esse, le soprintendenze erano state in grado di frenare interessi particolari e prevaricazioni politiche ai danni di opere d’arte, di monumenti e dell’ambiente.

Gli effetti della riforma del Ministero per i beni e le attività culturali, promossa silenziosamente dalla burocrazia ministeriale e sostenuta senza capacità di controllo dal precedente ministro Urbani, hanno provocato danni ormai irreversibili. L’abnorme incremento del numero dei dirigenti nell’apparato centrale ha comportato la soppressione di soprintendenze e la perdita di autonomia per musei ed istituti di rilevanza internazionale. Ciò al fine di lasciare invariata la spesa complessiva e consentire al tempo stesso di finanziare l’alta dirigenza ministeriale, mentre agli storici dell’arte, archeologi e architetti responsabili della conservazione di monumenti e opere d’arte di valore immenso sono riconosciuti livelli di carriera con stipendi irrisori.

Per di più, i ruoli tecnico-scientifici sono stati inquinati, con la complicità sindacale, da personale non sempre qualificato per assumere posizioni di altissima responsabilità culturale.

L’aggregazione dei beni culturali allo spettacolo e allo sport in un unico ministero si è rivelata deludente. Gli effetti positivi che si era sperato di trarne non si sono avuti. Non ne è scaturita una politica consapevole delle finalità di interesse pubblico che possano giustificare l’intervento dello Stato nei settori dello spettacolo e dello sport.

Si è abbandonata, nella politica dei beni culturali e del paesaggio, qualunque propensione verso la ricerca scientifica quale presupposto essenziale della tutela e di alta informazione sul risultato degli studi, sulle nuove frontiere della conoscenza storica, sulle opportunità di progresso civile offerte da una grande tradizione culturale, sui rischi a cui si va incontro perseverando nel dissennato sfruttamento delle risorse naturali e nella devastazione dei caratteri culturali del territorio.

Insomma non è stato possibile convincere lo Stato, come sosteneva Giulio Carlo Argan, che «la cultura è un affare di Stato, cemento dell’unità nazionale e bene comune».

I danni provocati e la confusione creata in questa materia nel giro di pochi anni sono tali da rendere improponibile il ripristino del precedente ordinamento, il quale era comunque inadeguato alle esigenze di un’amministrazione moderna ed efficiente.

Si osserverà, da parte di qualcuno, che un buon impulso al decadimento del sistema era stato dato dai precedenti governi di centrosinistra. Certamente. La sciocchezza e la saggezza non sono appannaggio esclusivo di alcuna parte politica. Il governo Berlusconi ha avuto però tutto il tempo di porvi rimedio, e in effetti ha attuato una riforma delle leggi di tutela e del ministero. Lo ha fatto però senza affrontare il minimo dibattito culturale e con il risultato di dissestare definitivamente l’intero settore.

Allora, cosa fare? Il problema di un’ampia riforma del settore si era posto già negli anni Sessanta, quando ben due commissioni parlamentari produssero indagini accurate, con il coinvolgimento di grandi personalità della cultura, e formularono proposte ragionevoli, mai attuate. Il dibattito rimase vivo anche nei decenni successivi. Un buon punto di partenza, per immaginare un nuovo ordinamento dei beni culturali, credo sia tuttora il disegno di legge che Giuseppe Chiarante presentò al Senato con Giulio Carlo Argan nel 1989. Ne restano validissimi i principi fondamentali, allora forse troppo lungimiranti, i quali prevedevano l’abolizione del Ministero e l’istituzione di un’amministrazione autonoma dei beni culturali fondata sull’autonomia delle soprintendenze e governata da un consiglio nazionale elettivo e ampiamente rappresentativo. I poteri d’indirizzo politico, di programmazione e di vigilanza si sarebbero dovuti attribuire al Ministro dell’università e della ricerca scientifica.

Una riforma basata su questi criteri sarebbe di grande efficacia e costerebbe ben poco, perché comporterebbe un fortissimo snellimento della burocrazia centrale e periferica, nonché un impiego più ragionevole delle competenze culturali disponibili in ambito nazionale. Consentirebbe infatti di raggiungere l’obiettivo di un’effettiva integrazione delle regioni, delle autonomie locali, dell’università e delle altre istituzioni scientifiche nel sistema della tutela.

Si potrà evitare lo scempio annunciato dei beni culturali autorizzato dalle norme in arrivo sulla "semplificazione amministrativa"? Dopo il Consiglio dei ministri di venerdì e le confuse dichiarazioni di membri del governo, nessuno sa ancora se queste norme si applicheranno o no ai beni culturali. Già sono escluse dall’ambito di applicazione altre materie (difesa, pubblica sicurezza, giustizia, salute): aggiungere alla lista i beni culturali è una soluzione ragionevole.

TANTO CHE - dopo l’allarme dell’opinione pubblica in seguito alla denuncia di questo giornale e di associazioni come il Fai e Italia Nostra - a proporla è stato lo stesso ministero dell’Economia. Fare il contrario vorrebbe dire, lo abbiamo ampiamente argomentato in queste pagine, la licenza di uccidere città, monumenti e paesaggi: a questo esito porterebbe infatti l’indiscriminata applicazione della "dichiarazione di inizio attività" (dia) ai beni culturali, con un meccanismo di silenzio-assenso che vanifica ogni azione di tutela. Palazzi storici potrebbero essere sventrati o abbattuti impunemente, collezioni e opere d’arte vendute senza alcun controllo. L’intero sistema della tutela ne uscirebbe devastato. Le soprintendenze, che annaspano in una perpetua mancanza di personale per l’annosa mancanza di assunzioni, non potrebbero neppur sognare di star dietro alla valanga di "dia" che si apprestano a invaderle.

Il presidente del Consiglio e il ministro della Funzione pubblica hanno dichiarato che i beni culturali saranno, appunto, esclusi dal provvedimento. Ma la situazione è tutt’altro che chiara: se due ministeri importantissimi per un tema come questo (Economia e Beni Culturali) hanno chiaramente optato per questa soluzione, non altrettanto chiara è la posizione della Funzione pubblica. Mentre il ministro Baccini si associa al presidente del Consiglio nel gettare acqua sul fuoco, il capo del suo ufficio legislativo, Vincenzo Nunziata, sembra deciso a insistere: a quel che pare, almeno per lui il meccanismo della "dia" deve prevalere sulla tutela. Ma con ciò non solo il Codice dei beni culturali, ma lo stesso art. 9 della Costituzione diventerebbe carta straccia. Per giunta, il provvedimento contiene anche una "semplificazione amministrativa" che comporterebbe la fine di ogni controllo doganale sui beni culturali, con ciò generando indiscriminate e massicce esportazioni; e perfino una norma sulla "accelerazione di opere strategiche" che in nome del pubblico interesse darebbe a un commissario straordinario il potere di prendere decisioni (per esempio, costruire un’autostrada su un sito archeologico) senza nemmeno consultare le soprintendenze.

Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della Sera del 5 marzo che, «se dovessimo prendere sul serio» una legge come questa «lo Stato avrebbe chiuso i suoi battenti». In questa generale débacle, è facile prevedere che il primo ad essere smantellato sarebbe quel glorioso pezzo di Stato che è il sistema della tutela, in cui l’Italia è stata ed è di modello al mondo intero. Ma con esso crollerebbero il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale, che sono la nostra storia e la nostra identità, ma anche il vero fattore di unicità dell’Italia, l’inimitabile "marchio di fabbrica" che attrae e incanta da secoli visitatori di tutto il mondo. Roma, Firenze, Napoli diventerebbero come la Maurilia delle Città invisibili di Italo Calvino: «Il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe cartoline che la rappresentano com’era prima (...) Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia divenuta metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia esser goduta adesso solo nelle vecchie cartoline (...) Essa ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Ma in realtà «le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città, che per caso si chiamava Maurilia come questa».

Riconosceremo, fra dieci anni, le nostre città? La nostra Italia? O dovremo guardarla con nostalgia in vecchie cartoline? Dipende solo da noi. Ma se questo invito alla barbarie travestito da "semplificazione amministrativa" dovesse passare calpestando la Costituzione, allora sarà meglio cominciare a far collezione di cartoline. Travolte, col favore di un’alluvione di "dia", da un’immensa colata di cemento, fra pochi anni le città invisibili non saranno l’invenzione narrativa di uno scrittore. Saranno le stesse città in cui oggi viviamo. O meglio ne porteranno il nome; ma ci appariranno irriconoscibili ed estranee.

Italia Nostra esprime grande rammarico per il fatto che il presidente Ciampi abbia firmato la legge delega per l’ambiente; è una legge sbagliata, che contiene una doppia sanatoria per abusi fatti in aree vincolate, con una delega al Governo troppo ampia, che va dalla gestione dei rifiuti alla tutela delle acque e dell’aria,la difesa del suolo, la gestione delle aree protette, le procedure di valutazione d’impatto ambientale (VIA) e ambientale strategica (VAS). Si tratta di questioni di importanza fondamentale che dovrebbero essere discusse in modo ampio e approfondito dal Parlamento. Contiene inoltre disposizioni riguardanti i rifiuti ferrosi, su cui l’Europa ha bacchettato l’Italia più volte. L’ultima è la sentenza della Corte di giustizia europea dell’11 novembre scorso, in cui è stata ribadita la non compatibilità della parte della legge delega che definisce i vari tipi di rifiuti con il diritto comunitario. Nel testo passato alla Camera, i rifiuti ferrosi non sono più considerati rifiuti industriali bensì “materia prima seconda”, con una netta diminuzione del livello di controllo.

Italia Nostra vigilerà sui lavori della commissione dei 24 saggi che devono essere nominati dal governo e ringrazia le migliaia di cittadini che hanno firmato sul sito e altrove

SI ERA capito che la Finanziaria di quest’anno passerà alla storia come il più selvaggio e determinato attacco al patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale del nostro Paese; ma sbaglia chi crede che abbiamo già toccato il fondo con la sequenza di provvedimenti come il condono edilizio e il silenzio-assenso. Con un nuovo colpo di mano, infatti, la legge sull’ambiente, già più che criticabile e più che criticata anche su queste pagine, si sta trasformando in una sanatoria senza confini e senza regole di qualsiasi abuso, di qualsiasi forma di distruzione del paesaggio.

Il testo della legge delega in materia ambientale (A.S. 1753 B) è stato presentato dal ministro dell’ambiente, Matteoli, di concerto con altri dieci ministri (Tremonti, Lunardi, Castelli, Moratti, Frattini, Buttiglione, Marzano, Alemanno, Stanca, La Loggia), ed è ora al Senato, in attesa della finale approvazione. Ma il testo tornato al Senato in seconda lettura è radicalmente diverso da quello originario: vi si è insediato infatti un perverso emendamento, presentato da parlamentari di maggioranza e votato alla Camera in presenza di esponenti del governo (fra cui il sottosegretario all’ambiente), che modifica radicalmente la portata della depenalizzazione degli illeciti penali in materia paesaggistica.

Che cosa è cambiato rispetto al testo approvato dal Senato in prima lettura? All’art. 32, la totale depenalizzazione era prevista solo "per i lavori compiuti in difformità dalla autorizzazione" rilasciata al richiedente, il che almeno ipotizzava che vi fosse stata una qualche richiesta di autorizzazione. Nella nuova versione, l’estinzione del reato è estesa anche ai "lavori compiuti in assenza di autorizzazione", cioè alle forme più bieche e becere di abusivismo. Non è tutto. Nella versione originaria del testo, si prevedeva almeno che l’estinzione del reato avvenisse solo a condizione che "le difformità non abbiano comportato aumenti delle superfici utili o dei volumi": questo comma, nella nuova versione emendata, è stato semplicemente soppresso, il che vuol dire che chi ha trasformato abusivamente un canile in un condominio di venti piani riscuote il plauso del legislatore. Infine: nella versione originaria l’estinzione del reato era subordinata al pagamento di una sanzione pecuniaria, mentre ora tale sanzione viene rinviata sine die, e solo "ove sia accertato il danno arrecato". In altri termini, con la nuova norma anche chi avesse costruito un grattacielo su una spiaggia senza nemmeno provare a chiedere l’autorizzazione non solo non ha più commesso alcun reato, ma nemmeno pagherà un centesimo di multa. Peccato che questa norma non sia arrivata in tempo a salvare le otto orripilanti torri del villaggio Coppola (Caserta), "la città degli abusi", appena demolite dopo decenni di battaglia civile, come ha raccontato Francesco Erbani nel suo L’Italia maltrattata: sembra fatta a misura per casi come quello.

Con questo emendamento, la possibilità di sanare piccoli abusi paesaggisticamente irrilevanti si trasforma in una generale depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio di qualsiasi forma e dimensione. Il paesaggio del Bel Paese diventa terra di nessuno, regalata agli abusivi, dei quali non c’è dubbio che, con una norma come questa, vincerà il peggiore, cioè chi ha meno scrupoli, il più violento nel distruggere il paesaggio per proprio tornaconto. Inutile e ingenuo sarebbe sperare che la valutazione di compatibilità delle opere abusive, delegata ai Comuni, sia un argine sufficiente: complicatezza delle procedure e le ovvie pressioni locali inducono al più grande pessimismo.

Infine, un’aggravante ulteriore: questo art. 32 della legge sull’ambiente interviene a modifica dell’art. 163 del testo unico sui beni culturali e ambientali (490/1999), e ciò a meno di un mese da quando il Consiglio dei ministri ha approvato il testo del Codice Urbani, che certo non contiene nulla di remotamente simile a una norma tanto incivile e devastante. Chiediamoci per un momento: cui prodest? L’art. 163 del testo unico ha lo scopo di scoraggiare, con multe e con sanzioni penali, le edificazioni abusive nelle aree vincolate: la nuova legge, se approvata, è destinata al contrario a sancire e incoraggiare l’abusivismo, senza nemmeno la scusa (sbandierata ai tempi del condono) di "far cassa", visto che in questo caso anche le sanzioni pecuniarie sfumano nel nulla. La conclusione è inevitabile: la nuova norma, che per lo Stato non comporta alcun vantaggio, nemmeno quello (assai dubbio) di raggranellare un po’ di soldi, è concepita e fatta nell’esclusivo interesse degli abusivi come quelli del villaggio Coppola, cioè di cittadini che si sono distinti per aver violato la legge, e che verranno in tal modo premiati.

Con questo emendamento, dunque, la legge sull’ambiente non solo calpesta tutte le norme vigenti, non solo delegittima preventivamente il codice Urbani, ma fa impallidire persino le recentissime norme sul condono edilizio, che prevedono sì la depenalizzazione degli illeciti contro il paesaggio, ma subordinando la concessione del condono a una valutazione favorevole di compatibilità espressa dalle Soprintendenze. Nel giro di poche settimane anche quella legge, che pure aveva destato le più gravi (e giuste) preoccupazioni dell’opinione pubblica, dev’esser parsa troppo soft agli estremisti dell’assalto all’ambiente. L’arrembaggio continua, senza regole e senza remore. Gli 11 ministri che hanno firmato il disegno di legge originario sono tutti d’accordo con questo emendamento? E gli altri ministri? E il presidente del Consiglio? E i senatori della Repubblica (maggioranza e opposizioni), alla cui responsabilità è ora affidata la prossima mossa? Dovere dei cittadini in questo triste frangente è ricordare al governo e al Senato l’articolo 9 della nostra Costituzione, secondo il quale "La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Lo rileggano, se l’hanno dimenticato, e fermino, finché siamo in tempo, questa norma scellerata.

Joseph Conrad la metteva esattamente così:

The tranquil waterway leading to the uttermost ends of the earth flowed sombre under an overcast sky – seemed to lead into the heart of an immense darkness.

E anche se il Po non è il Congo, ed è piuttosto difficile considerare Monselice – la nostra meta, quasi 400 km a est – come un posto che sta “agli estremi confini della terra”, si può comunque provare a sperimentare una sensazione del genere, partendo la mattina presto da Sassi, sulla sponda collinare del fiume a Torino. La strada Padana Inferiore risale rapidamente una valle con poche case sparse (poche considerato che siamo ancora in comune di Torino), poi taglia sotto il colle di Pino in tunnel, e scende rapidamente verso la pianura attraversando l’abitato di Chieri. Siamo in territorio aperto, con la padania spalancata davanti agli occhi nei primi rettifili tra le fasce verdi di prati e alberature ... ma è un’impressione sbagliata. Doppiamente sbagliata.


Perché tra qui, periferia orientale di Chieri, fascia esterna della conurbazione torinese, e “gli estremi confini della terra” acquattati là in fondo a Monselice, la padania è tutto fuorché spalancata, aperta, ariosa, libera. E non solo perché si devono attraversare posti come Alessandria, Voghera, Cremona o Legnago (senza offesa per gli altri), ma soprattutto per via delle scatole precompresse sparpagliate, via via più fitte di anno in anno, tra Alessandria e Voghera, tra Cremona e Legnago, e poi tra Castel San Giovanni e Sarmato, o Casteldario e Nogara. Insomma, dappertutto, sempre più vicine l’una all’altra, a soddisfare l’imperativo dello “sviluppo” produttivo, commerciale, di servizi vari, di sicuro doverosamente e solennemente deliberato dai vari sindaci di Sarmato, Piadena, Sanguinetto, eccetera.

Del resto, che altro potrebbero fare i sindaci, se non promuovere lo “sviluppo” locale, magari concentrando (o disperdendo) capannoni e scatole commerciali-espositive proprio su quello stradone? Stradone ben allacciato a qualche non lontano casello autostradale, che sembra messo lì apposta, (quasi) sempre lontano da piazze, sagrati, cortili della scuola, giardinetti.


Il fatto è, che quella strada scorre nell’ancora virtuosamente tenebroso cuore della padania, per lunghissimi tratti parallela e vicinissima al grande fiume, e il pur legittimo punto di vista dei singoli sindaci smette di essere tale se si salda a quello di tutti gli altri, così come si sta saldando via via la striscia continua degli scatoloni, rotatorie, insegne luminose, piazzali asfaltati, da Torino a Monselice. Sempre più simile all’altro, più noto, nastro trasportatore della Padana Superiore, che nessuna persona sana di mente si sognerebbe mai di considerare qualcosa di diverso da una immensa città lineare, e dove non c’è bisogno di evocare corridoi continentali Lisbona-Kiev per descrivere quello che salta agli occhi.

Il fatto è, che appunto ne abbiamo già una di città lineare continua, anzi due, se mettiamo nel conto anche l’asse Emilia. Che ce ne facciamo di un’altra? Vogliamo gestire il territorio e l’ambiente con la regola aurea del “non c’è il due senza il tre”? Pare proprio di si, a giudicare dal ritmo col quale nastri e nastrini cementizi spuntano dappertutto, e dappertutto doverosamente allineati lungo la Padana Inferiore, a saldare un centro abitato all’altro, con interruzioni sempre più brevi di prati, qualche ciuffo di alberi, campi coltivati a mais o cartelloni pubblicitari.

Certo, oltre le decisioni puntuali dei singoli comuni ci sarebbe la pianificazione provinciale, e qui in effetti leggendo relazioni, mappe, norme tecniche, si nota una certa attenzione, dalla periferia di Chieri alle pendici dei Colli Euganei, a contenere le esuberanze della biscia cementizia al neon. Ma se si confrontano, questi piani provinciali, messi in fila uno dopo l’altro come i territori che interessano, pare proprio che si rischi di ripetere la vecchia storia dei ciechi attorno all’elefante: uno tocca una gamba e giura che quello è un albero, un altro sbatte contro il fianco e ribatte macché, è una muraglia, eccetera. Insomma quello che emerge leggendo questi documenti della pianificazione provinciale sono a volte anche ottime intuizioni (a volte molto meno), ma che anche quando fotografano efficacemente il fenomeno, poi annaspano o si contraddicono in fase di proposta.


Succede così che nello stesso documento si legga in un capitolo descritta tutta la gravità della “conurbazione continua” (nell’Oltrepo pavese, da Voghera a Stradella), e poi si trovino magnificate le sorti di un futuro grande interporto, giusto in una delle poche aree libere rimaste. Oppure che si sviluppi una magnifica “macchina” scientifica di monitoraggio e decisioni, a contenere consumi di suolo agricolo e sprawl urbano da irrazionalità localizzativa (nella grande pianura cremonese e mantovana), salvo poi introdurre la stessa infrastruttura autostradale parallela alla Padana, che altrove ha già generato, appunto, consumi di suolo e sprawl.

Il tutto per tacere dei documenti che, salvo lodevoli richiami alla doverosa tutela di ambiente e spazi liberi, poi in realtà sono impostati tutti in una logica di crescita delle attività logistiche, produttive, commerciali, puntualmente concentrate sempre lì, nell’ex cuore verde della padania a cavallo dell’ex Statale n. 10 (da Tortona a Piadena anche ex Postumia Romana, per inciso).

Ma non è certo questa breve nota, la sede ideale per sviluppare un tema complesso come quello accennato, e per questo rinvio ai materiali utilizzati alla Scuola Estiva di Eddyburg, in corso di pubblicazione.

Resta solo l’ottimistica speranza che decisori e pianificatori sviluppisti, oltre a consultare sociomani e tuttologi televisivi (la cui idea di territorio sembra concentrata sugli immensi spazi interni della propria mente), provino magari a guardarsi attorno, durante gli spostamenti da un qualificato consesso all’altro. Magari potrebbe anche tornargli in mente quella battuta di Woody Allen letta tanti anni fa in treno: When you’re dead, it’s hard to find the light switch.

In altre parole, in padania e altrove, mille luci dello sviluppo e cuore di tenebra non sono armate contrapposte che si scrutano con odio dal rispettivo crinale. Possono convivere, purché dosate e governate.

Ne abbiamo parlato molto. Speriamo di continuare a parlarne, magari con qualche effetto in più sull'agire quotidiano.

Nota: oltre ai miei materiali per la Scuola Estiva di Eddyburg già citati, qui sul sito con riferimento diretto ad alcuni temi della Padana Inferiore, ci sono un paragrafo sul Centro Commerciale Montebello (nel testo su Borgarello), e soprattutto quello sull’autostrada ACME ; di qualche utilità generale anche il testo pubblicato a suo tempo da "il manifesto", sulla Città Ideale della Padania (f.b.)

Un affare da oltre un miliardo e mezzo di euro, di cui duecentocinquantamila solo per la lottizzazione del terreno della Cascinazza di proprietà di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier. Questa è la speculazione edilizia che rischia di abbattersi sulle ultime aree verdi di Monza, se passeranno le modifiche alla legge regionale urbanistica volute dall’assessore lombardo al Territorio, il leghista Davide Boni. È a rischio una delle parti più belle della Brianza.

Duro scontro ieri in consiglio regionale tra Unione e Casa delle Libertà sui 868 emendamenti del centrosinistra. Che denuncia: «È una marchetta per Berlusconi in cambio della legge sulle moschee». Replica dell’assessore del Carroccio: «È solo accanimento contro la sua famiglia. Gli emendamenti? Solo una perdita di tempo». Dopo un dibattito fiume, rinvio alla prossima settimana. Ma il sindaco di Monza Michele Faglia attacca il governatore Roberto Formigoni: «La Regione vuole favorire Paolo Berlusconi. È una legge vergognosa, la fermeremo».

In Regione scoppia il caso Monza

Un affare da oltre un miliardo e mezzo di euro. Non solo i duecentocinquantamila delle nuove case alla Cascinazza del progetto di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier. Questa è la speculazione edilizia che rischia di abbattersi sulle ultime aree verdi di Monza, la terza città lombarda per abitanti. Questo spiega l’interesse di molti gruppi immobiliari, che, a un anno dalle elezioni amministrative e a tre da quelle per la nuova provincia, vogliono spartirsi la torta. Poco meno di un milione e ottocentomila metri cubi di aree agricole, a ridosso da uno dei parchi più famosi d’Europa. In appartamenti, fanno cinquecentomila metri quadrati da vendere ad un prezzo tra i 2300 e i 5000 euro al metro quadro. I terreni più appetiti sono a sud ovest, nel quartiere di S. Albino, in zona San Fruttuoso-Torneamento, in viale delle Industrie, alla Cascinazza dove il piano di lottizzazione è di ben 388mila metri cubi. Un progetto che diventerebbe molto più facile con le modifiche alla legge sul territorio proposte dall’assessore regionale all’Urbanistica leghista Davide Boni.

A Monza, il rapporto tra superficie già edificata e verde, escluso il parco, la dice lunga: 4.768.900 metri quadrati contro 2.899.000. Ma la densità degli abitanti per chilometro quadrato è ancora più esplicita: 4827 abitanti rispetto ai 388 della Lombardia e i 192 di tutta Italia. Il vecchio piano Piccinato del 1971 prevedeva trecentomila abitanti. Oggi Monza, invece, ne ha solo 122.000. La superficie edificata è già il 75 per cento del totale. Da qui l’allarme del Comune. La legge urbanistica regionale, approvata sul finire della scorsa legislatura, bloccò sul nascere il nuovo piano regolatore più restrittivo. È già pronto il nuovo piano del governo del territorio, ma ora le norme della Regione rischiano di riazzerare tutto.

Ieri, la discussione in consiglio regionale è iniziata con un muro contro muro tra Unione e Casa delle libertà. Dopo un dibattito fiume tutto è stato rinviato a martedì. Il centrosinistra ha presentato 868 emendamenti, ma il centrodestra insiste. «Ora c’è una settimana per tentare di trovare un’intesa» ribadisce il centrosinistra. Secca la replica dell’assessore Davide Boni: «Il solo problema è l’accanimento contro la famiglia Berlusconi. Quegli emendamenti sono solo una perdita di tempo».

(a.m.)

Il sindaco Faglia contro il governatore "Legge vergognosa, la fermeremo"

di Andrea Montanari

Michele Faglia, sindaco di Monza, lei ha scritto il suo grido d’allarme al governatore Formigoni: le ha risposto?

«No. Formigoni sta viaggiando alto proprio perché non si vuole abbassare al confronto. Si è limitato a dire che la Regione deve tener conto dell’interesse di tutti. Le cose, però non stanno così».

Cioè?

«Il compito di fare i piani spetta ai Comuni. Io rivendico a pieno titolo che la terza città della Lombardia possa e debba pianificare il suo territorio secondo la volontà pubblica e privata. La Regione, invece, vuole andare contro il principio della sussidiarietà e contro gli stessi principi che ha affermato nella sua legge urbanistica».

Come reagirete?

«Userò qualsiasi strumento per evitare che questa macchia politica di cui si sta sporcando Formigoni abbia una ricaduta sul territorio della mia città».

Perché pensa che la Regione voglia favorire Paolo Berlusconi?

«Perché ne sono convinto. Dietro a questo provvedimento c’è una volontà punitiva nei confronti nella nostra amministrazione, che ha più volte fatto presente che non si poteva fare un intervento così sfacciato e vergognoso».

Sì, ma cosa c’entra Berlusconi?

«Ci sono dietro anche degli interessi privatistici, che con queste modifiche verrebbero facilitati».

Quali interessi?

«Quelli dei proprietari delle aree che, diventando edificabili senza più i limiti delle salvaguardia, acquisterebbero un valore di mercato molto più elevato».

Alla Cascinazza cosa può accadere?

«Che i proprietari che hanno già presentano un piano di lottizzazione pretenderanno di costruire su 388mila metri cubi sessanta condomini in un’area che oltretutto ha un vincolo paesaggistico idro-geologico».

Ma non è prevista la costruzione di un nuovo canale scolmatore?

«Non lo faranno mai. È sbagliato anche il progetto. E poi costerebbe 170 milioni di euro. Lo vedete, poi, un canale scolmatore a cielo aperto dentro a uno dei parchi più famosi d’Europa?».

Cosa accadrà nelle altre aree?

«Saremo sommersi di richieste di edificare su aree finora protette. Monza non può sopportare la saturazione delle poche aree ancora libere. Io sono stato eletto per difendere questa priorità».

In verità, l’assessore Boni l’accusa di non dire nulla su altri suoi progetti contestati, dai parcheggi alla sede della nuova Provincia.

«Sono squallidissimi argomenti, che dimostrano come Boni non sia informato. Il 93 per cento dei permessi per costruire che sono stati rilasciati riguardano esclusivamente ristrutturazioni o riqualificazioni di aree dismesse. Questo è il nostro programma».

Si spieghi meglio.

«Anche gli interventi per le nuove funzioni pubbliche interesseranno solo aree dismesse. Non abbiamo occupato volutamente un metro di aree libere. Perché Monza è ormai a un livello di urbanizzazione quasi pari al 90 per cento».

Perché Monza non ha ancora un piano regolatore?

«Ci sono stati tanti sindaci prima di me. In ogni caso, ora il piano è pronto a tempi record e la Regione rischia di nuovo di riazzerare tutto».

Vedi anche Eddyburg su Carta

Il processo di miglioramento delle condizioni di vivibilità della città di Roma fu, in primis, avviato dal Sindaco Petroselli (1979-81) che, primo tra tutti i precedenti sindaci, iniziò ad affrontare il tema delle periferie e proseguì con l’invenzione dell’Estate Romana voluta da Renato Nicolini. Processo, questo, ripreso e sviluppato dalle successive amministrazioni Rutelli e poi Veltroni. Una città fino ad allora provinciale legata all’immagine (voluta dalla DC) di capitale religiosa, oggetto di saccheggio edilizio e di dominio incontrastato della rendita fondiaria (vero ed unico motore dell’espansione della capitale fino ad allora), iniziò a diventare una metropoli moderna basata sullo sviluppo industriale e sul decentramento dei poteri. Pochi forse ricorderanno che prima dell’esperienza dell’estate romana la città era, di notte, un deserto sociale, inospitale e perfino pericoloso. Le due amministrazioni menzionate hanno avuto entrambi due grandi meriti che di seguito tenterò di illustrare e che oggi è necessario sottoporre al vaglio di una riflessione critica se si vuole procedere nella direzione della costruzione di una autentica modernità.

Il primo merito è quello di aver avviato la trasformazione di questa “vecchia città di provincia” in una metropoli moderna. Le scelte, le decisioni che hanno portato a questo sono note: iniziative culturali di livello internazionale, progetti e rifacimenti di strade e piazze di un centro storico fino ad allora troppo monumentale e museizzato (ma scarsamente accessibile ai più), tentativo di inclusione nella vita della città delle grandi periferie fino ad allora relegate a rango di dormitorio urbano, rottura della storica alleanza tra amministrazione e poteri legati alla rendita, autonomia dei rapporti con la Città del Vaticano. La successiva nascita dei Municipi ha conferito alle periferie la dignità di “città nella città” avviando esperienze anche significative di partecipazione diretta degli abitanti alle scelte urbanistiche e dell’abitare. Ci sono stati anche momenti di aspre critiche e di opposizione come, ad esempio, quelle alla celebrazione, a Roma, delle Olimpiadi, poi del Giubileo, sul sottopasso a Castel S. Angelo e, più di recente, quella legata alla prima ipotesi di Piano Regolatore sotto l’amministrazione Rutelli.

Il secondo merito è stato quello di aver tentato di sottrarre, soprattutto attraverso la redazione del Piano Regolatore, lo sviluppo edilizio dalle mani di poche famiglie di costruttori e di aver tentato di guidarne gli esiti (non senza qualche vistosa contraddizione) verso la realizzazione di spazi pubblici da restituire alla città e ai suoi abitanti. A questi due meriti va aggiunto quello della buona amministrazione e del buon governo. Cose queste, non da poco considerato che questa città era diventata famosa (come documenta Italo Insolera nei suoi libri sulla storia di Roma moderna) come “Capitale infetta” o “Roma ladrona”, comunque città del saccheggio edilizio e della rendita fondiaria; in una parola, la città degli immobiliaristi e dei palazzinari che, in tempi non troppo remoti, riuscivano a condizionare pesantemente le scelte e le decisioni delle amministrazioni elette.

Queste, seppure descritte in maniera forfettaria, le premesse alla base della nascita oggi di quel laboratorio ed esperimento politico-urbano cui è stato dato il nome di “modello romano”. Di questo si parla da tempo e da più parti come esempio di un’esperienza, e di una pratica politica la cui validità autorizzerebbe a esportarne e a diffonderne l’esperienza all’intero Paese. Forse è d’obbligo fare qualche riflessione anche perché il “modello romano”, per bocca dei suoi stessi sostenitori, si presta a differenti interpretazioni e contraddizioni.

La città moderna (che meglio sarebbe chiamare “contemporanea”) è al tempo stesso, per usare le espressioni di Marc Augé, città-mondo e mondo-città. Città mondo perché in essa si ritrovano tutte le contraddizioni sociali e i conflitti che attraversano il pianeta, primi fra gli altri, quelli connessi all’esclusione, alla povertà, all’ineguaglianza. Mondo-città perché l’intero pianeta tende ad essere progressivamente urbanizzato e già oggi quello urbano costituisce l’unico modello di vita. Tornando alla prima immagine (la città-mondo), la città contemporanea produce conflitti aspri e tutt’altro che facili da affrontare: immigrazioni, confronti etnici, esclusione, disoccupazione, marginalizzazione, paura, insicurezza, clandestinità, povertà. Affrontare questi temi significa affrontare la questione del futuro della città moderna e forse dell’intera comunità vivente. Deve essere essa città dell’accoglienza, dell’incontro, dell’essere-insieme-tra diversi (in-between), di una nuova civiltà multietnica e meticciata, luogo della convivenza pacifica, o…cosa? Non è una domanda scontata. Per esempio alcuni ritengono che anche le nostre città sono in competizione tra loro e che per sopravvivere occorre inseguire il treno del modernismo dilagante e i miti e riti del liberismo (marketing urbano, restyling, ecc.). Le città, insomma, sono in questa visione equiparate a vere e proprie merci da esporre nella vetrina-mondo.

Rispetto a queste visioni alternative occorrerebbe riflettere sulle azioni da intraprendere.

Inseguire la politica dei grandi eventi rischia, quando essa diventa “ossessiva”, di oscurare i conflitti latenti e di trasformare i cittadini in sudditi gaudenti che si muovono da una parte all’altra della città consumando quegli stessi eventi proprio come si consuma una pizza o una cena in un ristorante di Trastevere. Penso che le istituzioni e le amministrazioni urbane non dovrebbero limitarsi al solo buon governo (intendiamoci, obiettivo tutt’altro che trascurabile!); esse dovrebbero avere un ruolo attivo di agenti che responsabilizzano i cittadini; possedere, insomma, un’anima e una volontà educante. La governance (brutta parola) è proprio quella capacità di regolare le relazioni sociali producendo senso attraverso la progressiva estensione dello spazio pubblico. La partecipazione non è assemblearismo né un processo inconcludente né pura tecnica di costruzione del consenso o eliminazione del conflitto e neppure un’azione una tantum. Essa dovrebbe essere uno stile di governo, un metodo attraverso il quale correggere errori e produrre senso.

E’ stato vantato che la città di Roma produce un Pil in crescita assai più di quello nazionale. Ebbene forse bisognerebbe educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità. Se il successo di una città viene identificato esclusivamente con il suo Pil, allora continueremo a restare inchiodati all’ossessione della ragioneria contabile e a quella della compatibilità finanziaria.

Il plebiscitarismo e il cesarismo sono forme anomale e degenerative della moderne democrazie. Esse deresponsabilizzano i cittadini e ostacolano la costruzione di una cittadinanza attiva. Quest’ultima dovrebbe esercitare un ruolo di vigilanza continua dei partiti prospettando loro il rischio di ritiro della delega qualora i rappresentanti eletti smarrissero per strada le promesse fatte ai loro rappresentati. La cittadinanza attiva, a nostro avviso, non deve fare competizione ai partiti tradizionali né tanto meno proporsi di sostituirli. Sarebbe un errore grave, un cortocircuito del difficile rapporto, sempre instabile, tra rappresentanti e rappresentati. Non c’è bisogno di nuovi partiti, c’è invece bisogno di una cittadinanza vigile che sappia tenerli sulla corda e mantenga alto il livello del confronto e anche del conflitto (il conflitto è sempre salutare alla democrazia e non va confuso con l’aggressione o la ricerca di supremazia). L’eccesso di ecumenismo può essere anch’esso un filtro oscuratore della sofferenza di coloro che non hanno ascolto e voce per difendere i propri diritti, ma che non appartengono al popolo-che-partecipa. C’è sempre da tener presente il lato oscuro e contraddittorio della partecipazione, quello secondo il quale per ognuno che accede ai luoghi delle discussioni e delle scelte qualcun altro rimane escluso.

Sulla seconda questione che ha visto impegnata l’amministrazione Veltroni, ovvero quella del Piano Regolatore, non mi trattengo sia per ragioni di spazio, sia perché mi sembra una questione ancora aperta i cui esiti sono anche in parte legati alle iniziative locali dei Municipi che potrebbero mitigare e orientare le scelte capitoline attraverso un maggior coinvolgimento delle comunità locali.

In conclusione, prima di pensare ad esportare l’esperienza romana occorre aprire un dibattito che abbia un grande respiro.

Il meccanismo di partecipazione ampia che va (come ha osservato Sara Menafra, Il Manifesto del 25.06, p.3) da Mastella a Nunzio D’Erme non garantisce tout court, di per sé, che questo esperimento produca esiti necessariamente positivi per i motivi che sopra accennavo. L’eliminazione dei conflitti, il trasversalismo e il relativismo politico, visione secondo la quale ogni opinione vale quanto qualsiasi altra, in base a una distorta interpretazione della libertà di giudizio, sterilizza le passioni anziché costituire uno stimolo alla vigilanza e al confronto continuo. Può, insomma, addormentare le coscienze anziché renderle vigili. Resta, a mio avviso, invece aperta la questione di quale debba e come debba realizzarsi una convivenza tra diversi che apra la prospettiva di costruzione di una autentica modernità.

Postilla

Condivido gran parte dell’analisi di Enzo Scandurra, e la sua proposta: il suo invito a riflettere criticamente sul “modello romano” prima di imitarlo. Vorrei riprendere un punto del suo ragionamento e, a partire da questo, sottolineare una carenza del suo intervento: rilevare, e tentar di riempire, un silenzio che non comprendo.

Scandurra osserva, giustamente, che è un errore assumere il PIL come la misura del successo, e sostiene la necessità di “educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità”.

D’accordo, pienamente d’accordo. Ma vorrei osservare che il PIL di Roma è gonfio, rispetto a quello di altre regioni, anche perché esso è carico di due voci attive nella bilancia ragionieristica dell’economia data, che invece, nella bilancia degli interessi generali e dei “beni comuni”, rappresentano dei passivi. Due passivi sociali, culturali, ambientali e anche economici, già oggi pesantissimo l’uno, già minaccioso l’altro: mi riferisco alla quota del PIL derivante dal settore immobiliare e quella relativa al turismo. Di quest’ultimo bisognerebbe cominciare a preoccuparsi per “governarlo”, prima che sia troppo tardi: e una politica che si affidi alla sua generica espansione, come mi sembra quella auspicata da Veltroni, non sembra promettere se non nuvoloni di disagio e degrado. Ma a me interessa soprattutto l’altro passivo: quello rappresentato dal forte premio dato dal Comune alla valorizzazione delle proprietà immobiliari, e in particolare fondiarie, con il nuovo PRG.

Senza forzare troppo le cose si può dire che, nel PRG, il motore è la rendita immobiliare. Altrimenti non si spiegherebbe perché ulteriori 15mila ettari saranno sottratti all’Agro romano; perchè in tanti quartieri si documentano scambi simoniaci tra dotazioni pubbliche, cui si è rinunciato, e incrementi di cubature edificabili, con cui si è gratificata la proprietà immobiliare; perché si sia accreditata la tesi, perversa e menzognera, che il piano regolatore attribuisca “diritti edificatori” che devono comunque essere riconosciuti.

Se vogliamo discutere seriamente il “modello romano”, il PRG non possiamo proprio trascurarlo, caro Scandurra. E dobbiamo domandarci se siano effettivamente tramontati i tempi in cui il “dominio incontrastato della rendita fondiaria” era il “vero ed unico motore dell’espansione della capitale”, o se non prosegu, in forme certamente più colte di quelle praticate trent’anni fa, e più accattivanti (come testimonia il fatto che le critiche al PRG sono rientrate nel momento decisivo)

Malattia senile della storia dell'arte, il benculturalismo è un morbo che non perdona. Se attacca le vecchie care antichità e belle arti le trasfigura in quattro e quattr'otto in beni culturali, con conseguente metamorfosi in giacimenti culturali (detti anche petrolio d'italia), e finale metastasi in Patrimonio Spa (non senza qualche postumo di partiti della bellezza, lacrime di esteti e riunioni di dame).

Se penetra in una facoltà di Lettere, provoca l'irrefrenabile divorzio dell'arte dalla letteratura e dalla storia, generando il tipico delirium tremens per cui Omero, Virgilio, Shakespeare e Dante non sono “beni culturali, bensì roba da letterati (i quali, a loro volta, sono invitati a ignorare Fidia, Masaccio e Rembrandt), e qualche nozione di chimica degli arricci o di legislazione del Molise è molto più importante del Foro romano e di Tiziano.

Se affligge le accademie, suscita oscure lotte intestine fra storici dell'arte e archeologi, che si accusano a vicenda di improbabili protagonismi di cui nessun altro si accorge.

Se si insinua in un'aula di giurisprudenza, in un Consiglio di Stato, in una Costituzione, l'epidemia non solo intacca ogni più riposta piega del patrimonio culturale, ma lo spedisce senza tanti complimenti al lazzaretto, e invece di curarsene lo taglia a fette discettando di come la tutela nulla abbia a che vedere con la valorizzazione, per non dire della gestione e della fruizione, ciascuna delle quali ipostasi del male genera diluvi di libri (e il lazzaretto langue), per spiegare che cosa tocchi allo Stato, ai comuni, alle regioni, ai passanti, alle zie.

Se aggredisce assatanati assessori, ingenera i tristemente famosi, e contagiosi, secessionismi del cavolo, trascinando (per esempio) l'intera Sicilia fuori dell'orbita nazionale e vietando ai locali funzionari di trasferirsi oltre lo Stretto (con o senza ponte), e viceversa.

Se entra in un museo, perverte ipso facto la lingua: le ovvie librerie si trasformano per incanto in esotici bookshops, le cose che al Louvre o al Metropolitan sono ordinaria amministrazione del museo diventano servizi aggiuntivi, persino il giubileo del 2000, ampiamente concluso da Santa madre chiesa che già prepara il prossimo, ancora persevera nella perpetuazione dei'”giubilari', personale precario assunto allora e incollato in perpetuo alle - (miserevoli) retribuzioni e mansioni, in attesa dell'immancabile ope legis.

Se imperversa nel merchandising, annienta in un fiat il glorioso artigianato italico e produce caterve di repellenti ninnoli kìtsch (saranno servizi aggiuntivi, ma al pessimo gusto).

Se ammorba un ministero, produce immediata e immarcescibile moltiplicazione di poltrone, direzioni generali, consulenti a vuoto (e a perdere) e senatori di pura razza equina da far invidia a Caligola, allunga i corridoi e le anticamere dissanguando soprintendenze e musei, innalza l'età media degli addetti sospingendoli allegramente verso la depressione o la pensione senza sognarsi di sostituirli. E mentre i laureati in Beni Culturali ingrossano le liste dei disoccupati, la loro benemerita Facoltà ne genera altre.

Per ora Scienze del Turismo, ma sono in vista Teoria della Scampagnata, Epistemologia del Weekend, Gnoseologia del Picnic e altre scienze esatte, con relative classi di laurea, crediti, cattedre e dipartimenti.

Ma intanto, peggior fra tutti i mali, a ogni sussulto del morbo o crisi degenerativa, a ogni innalzarsi della febbre, a ogni sintomo di lebbra, peste bubbonica, mania autodistruttiva, emorragia di fondi e di personale, delirio omicida e/o suicida, si accompagna inevitabile, ineludibile, monotona la corale liturgia, capeggiata immancabilmente dai peggiori, degli inni al Bel Paese, al paesaggio inimitabile (nel frattempo sfasciato), ai supremi monumenti (mandati al diavolo in simultanea), agli eccelsi musei (per l'intanto in rotta), alle eccezionali mostre (al 90% dannose), agli egregi mecenati (per solito pretenziosi e restii), insomma alle magnifiche sorti e progressive dei parolai, dei cincischiatori, del parlarsi-addosso.

E vi s'impegnano non solo politici e corsivisti, ma anche folte schiere di personaggi in cerca d'autore, intellettuali di complemento, dottorandi, scolaresche, venerandi ecclesiastici intenti a vendere gli ultimi candelabri. Aiuto! Il patrimonio boccheggia, il benculturalismo impera.

Ministro Rutelli, cerchiamo un rimedio? Non ci vorrà una dose massiccia (anche per endovena) di articolo nove della Costituzione?

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