MEDIAPOLIS THEME PARK
Il presidente del Consiglio provinciale, Sergio Vallero, ha aperto la seduta alle 10, salutando tutti gli intervenuti. Ha ricordato che il Consiglio aperto è da considerarsi come punto di arrivo di una lunga fase istruttoria, durata circa un anno, nel corso della quale sono stati sentiti i pareri di tutti i soggetti concorrenti al progetto, sia favorevoli, sia contrari. Ha comunicato che nella mattinata si sarebbero stati svolti gli interventi delle parti interessate mentre i consiglieri avrebbero potuto esprimersi nel pomeriggio.
Mediapolis S.p.A.
Per la società proponente ha preso la parola l'Amministratore delegato, arch. Sergio Porcellini che ha illustrato il progetto.
L'operazione Mediapolis consiste nel lancio di un polo di intrattenimento e commerciale di nuova concezione (tecnicamente un “Mixed-Use Development” ovvero uno sviluppo immobiliare che si compone di vari e diversi elementi tra loro integrati e sinergici). Il complesso avrà sede in un'area di 500.000 mq. localizzata in posizione baricentrica rispetto a Torino e Milano sulle grandi arterie di comunicazione del Nord-ovest d'Italia (Autostrade A4-A5), affacciata per un fronte di 1 km. sull'asse autostradale in corrispondenza dell'uscita di un casello (Albiano d'Ivrea). Un Parco a Tema di primario livello nazionale, un motore in grado di generare visibilità e capacità di attrazione su un bacino di 4 milioni di persone nell'ora di percorrenza, 12 milioni nelle due ore e 20 milioni nelle 3 ore, con una previsione di circa 12 milioni di visitatori/anno, dei quali 1,6 milioni di ingressi paganti al Parco.
Il modello si completa con una serie di altre funzioni commerciali (centro commerciale, servizi, cinema, teatri, ristoranti, alberghi) inserite in un contesto architettonico e paesaggistico di grande suggestione.
La Città della Comunicazione, l'insieme degli elementi che compongono il progetto, il loro dimensionamento e la logica del loro inserimento in un unico complesso urbanistico fortemente integrato, sono il risultato di due anni di investimenti in ricerca e sviluppo di prodotto. Il “prototipo” che Mediapolis ha messo a punto costituisce un mix evoluto e dinamico di offerta di svago e divertimento che prende spunto da alcune delle esperienze più interessanti e di successo nel settore a livello mondiale. Il progetto verrà progressivamente implementato e lanciato sul mercato a partire dalla primavera del 2007.
Gli interventi istituzionali
Hanno, quindi, preso la parola i sindaci di Albiano, Gildo Marcelli, di Ivrea, Fiorenzo Grijuela, di Caravino, Clara Pasquale e di Settimo Rottaro, Francesco Comotto.
Dai loro interventi è stato possibile comprendere due posizioni rispetto al progetto: una, favorevole, soprattutto come opportunità di creazione di posti di lavoro e di attrazione territoriale, l'altra, decisamente contraria, preoccupata per la tutela dell'ambiente e della pregevole posizione naturalistica del sito prescelto.
In particolare, mentre il sindaco di Albiano ha espresso piena adesione all'iniziativa, seguito dal sindaco di Ivrea, qui in rappresentanza dei comuni del Patto territoriale, più sfumata è apparsa la posizione del sindaco di Caravino, appartenente alla Comunità collinare intorno al Lago mentre decisamente critico è stato l'intervento del sindaco di Settimo Rottaro.
Associazioni ambientaliste
Sono intervenuti l'architetto Maria Teresa Roli, presidente interregionale di "Italia Nostra" e Nevio Perna di Legambiente. Entrambi hanno espresso le loro perplessità sul progetto che verrebbe inserito nello scenario naturalistico tra il lago di Viverone e la Serra d'Ivrea.
Organizzazioni sindacali
A rappresentare le tre organizzazioni sindacali è stato Gianfranco Moia della CGIL del Canavese che ha tracciato un excursus storico sull'occupazione e, con alcune puntualizzazioni, quali, ad esempio il monitoraggio del cantiere e degli insediamenti, ha espresso un parere positivo.
Unioni industriali
E' intervenuto il presidente dell'Associazione Industriali del Canavese, Giovanni Battista Giudici il quale ha ritenuto che il progetto Mediapolis Theme Park possa essere un'utile iniziativa per valorizzare il Canavese.
SEDUTA DEL 22 SETTEMBRE 2006
I lavori sono stati ripresi alle 14 ed ha preso, per prima, la parola l'assessore Giuseppina De Santis la quale ha illustrato tutto l'iter del progetto, iniziato alla metà degli anni '90, da sempre ritenuto strategico per il rilancio del Canavese.
Il dibattito
Giuseppe Cerchio (Forza Italia)
Ha valutato come il progetto sia stato studiato nei minimi particolari, tenendo in considerazione tutte le osservazioni avanzate dalle istituzioni, e che, di conseguenza, è da considerarsi valido e sicuro. Inoltre ha valutato positivamente la ricaduta occupazionale, turistica e di valorizzazione del territorio, spesso dimenticato. Ha auspicato una mozione unitaria in proposito.
Roberto Tentoni (Alleanza Nazionale)
Ha rilevato come il progetto attuale, rispetto a quello presentato “ab origine” , sia completamente cambiato, con una maggiore attenzione nei confronti del territorio, con una riduzione volumetrica sia in superficie, sia in altezza, per avere un minore impatto ambientale. Il complesso turistico e ricettivo di quella porzione del territorio provinciale potrà essere sicuramente un modo nuovo per dare l'avvio allo sviluppo del Canavese.
Luigi Sergio Ricca (Sdi)
Ha svolto un intervento che ha saputo coniugare il passato ed il presente del Canavese, soprattutto in chiave occupazionale. Convinto assertore dell'iniziativa ha affermato che la scelta compiuta dal territorio non è avvenuta a cuor leggero o senza un dettagliato e partecipato processo di verifica. Infatti sia i Comuni, la Provincia, la Regione, le parti sociali hanno svolto la loro parte in un continuo processo di adattamento del progetto alle osservazioni e sollecitazioni che sono giunte da più parti e, più di un tavolo di concertazione ha, alla fine, definito una soluzione progettuale che potrà ancora essere migliorata dalla V.I.A. (Valutazione Impatto Ambientale) sul progetto definitivo.
Vilmo Chiarotto (Democratici di Sinistra)
Ha espresso la propria posizione, favorevole al progetto che è stato esaminato in tutti gli aspetti, condiviso dal Ministero per i Beni ambientali e architettonici. Le correzioni avvenute devono essere ascritte all'azione propositiva delle associazioni ambientaliste. Ha ritenuto il progetto favorevole al territorio, certamente non risolutivo, ma in grado di dare una notevole spinta in avanti.
Favorevoli all'iniziativa, per le motivazioni evidenziate già in altri precedenti interventi, si sono espressi Aldo Buratto (Margherita), Fabrizio Bertot (Alleanza Nazionale), Arturo Calligaro (Lega Nord) e Franco Maria Botta (Udc).
Giovanna Tangolo (Rifondazione Comunista)
Ha rilevato le criticità del progetto che non è così chiaro in tutte le parti, tranne l'ambito strettamente commerciale, con la proliferazione di megastore. Inoltre, ha evidenziato il rischio ambientale poiché il territorio canavesano in quel punto è particolarmente fragile e può essere edificabile solo con strutture pubbliche non costruibili da un'altra parte, come ha evidenziato la Commissione regionale. Infine, ha rilevato che a fronte di un progetto così dispendioso, sono previsti soltanto 148 posti di lavoro a tempo indeterminato.
Gianna De Masi (Verdi per la pace)
Ha ritenuto che il progetto non sia la risposta ai problemi occupazionali e, in caso, si tratterà, comunque, di occupazione di bassa qualifica e di tipo precario. Ha anche sottolineato che la presenza dell'ennesimo centro commerciale non sarà sicuramente una fonte di sviluppo in una zona dove già ve ne sono altri. Inoltre ha sottolineato come la concentrazione di un ipotetico consistente pubblico porterà nella zona solo inquinamento, aumento di spazzatura e di traffico. Ha considerato il progetto un modello di sviluppo estraneo al territorio che non ha nulla a che spartire con la storia del Canavese. Ha chiesto un'ulteriore fase di riflessione.
Mario Corsato (Comunisti italiani)
Il ragionamento del capogruppo del Pdci è partito dalla presunzione di attrarre su Mediapolis almeno 6 milioni di visitatori all'anno e si è domandato: “A chi vengono sottratti?”. Inoltre, ha rilevato che il centro commerciale catalizzerà certamente il pubblico sottraendolo ad altre realtà (i negozi al dettaglio delle cittadine circostanti, ad esempio) che andranno in sofferenza. Infine, ha affermato che il progetto non viene accettato con euforia dal territorio, come da alcuni è stato dichiarato nel Consiglio aperto del mattino ed ha concluso con una battuta: “Noi non crediamo che un parco a tema e un centro commerciale risolvano i problemi occupazionali.”
Le mozioni
Agli atti erano già state depositate due proposte di ordine del giorno: una, a firma di Luigi Sergio Ricca (Sdi) e Vilmo Chiarotto (Ds) nella quale si invitava il Consiglio provinciale a fare proprie le valutazioni della Giunta provinciale in merito al progetto Mediapolis; la seconda, invece, presentata da Alleanza Nazionale avente ome finalità l'accelerazione dei tempi per la realizzazione della struttura.
Entrambe sono state ritirate dai rispettivi presentatori perché, nel frattempo, si faceva strada un'altra proposta, questa volta a firma di Stefano Esposito (Ds), Luigi Sergio Ricca (Sdi), Piergiorgio Bertone (Margherita), Ugo Repetto (Moderati), Roberto Tentoni (An), Franco Maria Botta (Udc), Tommaso Vigna Lobbia (LegaNord Padania Piemont), Arturo Caligaro (Lega Nord Torino), Nadia Loiaconi (Forza Italia) nella quale, in tre punti, si esprimeva l'importanza della realizzazione in tempi certi, anche se subordinata alla positiva verifica di compatibilità ambientale dell'intervento proposto dalla società Mediapolis, intervento di maggior rilievo tra quelli finanziati all'interno del Patto Territoriale del Canavese, per le forti ricadute economiche e occupazionali. La mozione è stata illustrata dal primo firmatario, Stefano Esposito (Ds) il quale ha esordito ricordando come non si può pensare che chi è favorevole all'opera è un distruttore e chi è contrario è un salvatore: “Bisogna avere il coraggio di scommettere sul piano dello sviluppo”, ha concluso l'esponente diessino.
A loro volta, i gruppi di Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi per la pace hanno presentato una proposta di emendamento, in quattro punti, illustrata da Mario Corsato, alla mozione precedente.
A sostegno del progetto presentato da Mediapolis, con tutte le garanzie già illustrate da tutti gli interventi favorevoli e sottolineate con estrema chiarezza nella mozione, è intervenuto il presidente della Provincia Antonio Saitta il quale ha ribadito con convinzione come l'iniziativa sia il frutto di una verifica puntuale e durata alcuni anni da parte di Enti, istituzioni, parti sociali e con il parere favorevole della Soprintendenza, quindi, con tutte le garanzie necessarie. Ha ribadito altresì il ruolo che la Provincia di Torino ha voluto riservarsi facendosi carico di valutazioni di impatto ambientale che consentano il doveroso approfondimento sulle ricadute del progetto. In conclusione, il presidente Saitta ha chiesto alla maggioranza di centrosinistra un'espressione compatta di sostegno all'operato della Giunta provinciale.
Ne è scaturito un dibattito politico che ha visto protagonisti Sergio Vallero (Rc) intervenuto come consigliere, Mario Corsato (Com. it.) e lo stesso Saitta. E' seguita una sospensione per chiarimenti dalla quale è emerso un documento di fiducia, firmato dalla maggioranza, nei confronti delle scelte effettuate dalla Giunta provinciale.
Sono state anche posti in votazione gli emendamenti alla mozione che hanno ottenuto 7 voti a favore e 24 contrari e la mozione che ha avuto 24 voti a favore e 7 contrari.
Il presidente del Consiglio, Sergio Vallero ha concluso la seduta alle 21.55.
Nota: per il progetto Mediapolis Canavese, vedi anche almeno il primo articolo decrittivo comparso qui su Eddyburg, e il recente scambio di opinioni fra Giulia Maria Crespi Mozzoni e il Presidente della Provincia di Torino (f.b.)
A questo punto saranno abbandonati al loro destino anche i pesci e gli uccelli. Chi scruterà più d´ora in poi le picchiate e le planate dei rapaci notturni sullo Stretto? E chi sarà mai più disposto a seguire, come hanno fatto illustri biologi con tanta e ben remunerata passione, i «flussi migratori dei cetacei» fra Scilla e Cariddi? Signore e signori è tutto finito, la grande fabbrica dei sogni sta chiudendo. Trentacinque anni e sette mesi di desideri e di smanie sono destinati ad affogare in un baule pieno di planimetrie, disegni, mappe, tavole, progetti, grafici.
Sono 126 i chili di carte. Lì dentro c´è tutta la storia del Ponte. Era stata annunciata come la più colossale opera del secolo, avevano promesso 40 mila posti di lavoro, qualcuno garantiva perfino che ci saremmo passati sopra nel 2012 o giù di lì. Per fortuna, c´è ancora il vecchio caro ferry boat che solca le acque fra la Sicilia e la Calabria.
Di sicuro ci sarà rimasto male qualche ornitologo svizzero, che non avrà più laute consulenze pagate dai contribuenti italiani per le sue sofisticatissime radar investigazioni nel cielo di Reggio. E malissimo ci saranno rimasti soprattutto tanti imprenditori del Sud e del Nord, uomini d´affari di Catania, mafiosi agrigentini e palermitani, proprietari di cave e di terre, di impianti di calcestruzzo e macchine per il movimento terra. Puntavano tutto su quella striscia di ferro e cemento che li avrebbe fatti diventare ricchi o ancora più ricchi. E invece, invece la Sicilia rimane ancora per un po´ un´isola.
Il Ponte ha già fatto i suoi primi orfani. Sono dodici ragazzi, sei siciliani e sei calabresi. Erano stati ingaggiati qualche mese fa per fare la guardia a quei due Infopoint - uno a Messina, l´altro a Villa San Giovanni - che la "Società dello Stretto" aveva aperto a fine primavera per promuovere «la meravigliosa idea di unire finalmente l´Italia». Il 29 settembre scorso i dodici vigilantes sono stati congedati. Tra non molto chiuderanno anche gli Infopoint. Fra Messina e Reggio resteranno solo le tracce di quell´avventura mai cominciata. Alla Camera di Commercio. Al catasto. Nelle segrete stanze di alcuni consigli di amministrazione. Negli archivi di polizia.
Si erano preparati tutti. Le imprese che dovevano fare il Ponte e quelle altre che se la giocavano per accaparrarsi i sub appalti. Già una mezza dozzina di anni fa alcuni boss di Palermo e di Agrigento avevano spostato le loro attività sullo Stretto, intrecciato alleanze con imprese locali, trasferito camion e ruspe in massa. Dopo qualche mese erano cominciate anche le grandi manovre sulle aree, quelle dove sarebbero dovuti sorgere i piloni.
Rampolli di facoltose famiglie della borghesia messinese, boss della ‘ndrangheta, professori universitari, finanzieri sospetti, tutti insieme in un intrico di società e di sigle per mettere le mani sui terreni. Sono stati tutti «schedati» e inghiottiti da una Banca Dati. Dal 2002 al 2005 sono state monitorate 3827 imprese in Sicilia e 2526 in Calabria, fatte visure su altre 3750 società, controllati 2279 personaggi del movimento terra e 146 delle cave, 9 fogli di mappe catastali passati ai raggi x e 7 mila particelle esaminate. Una montagna di informazioni che da Messina e da Reggio sono state trasmesse, anno dopo anno, alla procura nazionale antimafia.
Ma la vicenda del Ponte era iniziata prima, molto prima che i boss di Palermo o quegli altri della Locride e della Piana di Gioia Tauro cominciassero ad allungare il collo verso lo Stretto. Era iniziata ufficialmente nella primavera del 1971, data di nascita di quella "Stretto di Messina spa" che ha sognato e fatto sognare mezza Italia. Sono loro gli orfanini più orfani del Ponte. In tre decenni e mezzo sono riusciti a spendere 150 milioni di euro. E solo di carte. I conti del 2005 raccontano di 10 milioni e 767 mila euro usciti dalle loro casse, un milione e 237 mila in più dell´anno precedente. Gran parte per «prestazioni professionali di terzi», per pubblicità, per viaggi e trasferte, 78 mila euro solo per fotocopie e 48 mila solo per riproduzioni di foto e filmati.
Gli orfani in carne ed ossa della "Stretto di Messina spa" sono in tutto 85, tredici dirigenti e settantadue impiegati. Hanno elargito quattrini anche per commissionare nel 2005 un´«indagine psico-socio-antropologica sulla percezione del Ponte presso le popolazioni residenti nell´area interessata alla costruzione». Una volta sponsorizzati dai vecchi ras democristiani, coccolati dai nuovi padroni della Sicilia, la "Stretto di Messina spa" negli ultimi mesi si è ritrovata al fianco tutta la destra. Il governatore della Sicilia Totò Cuffaro per primo. E poi quel Raffaele Lombardo del Movimento per l´Autonomia, che un mese fa ha trascinato a Roma 5 mila siciliani che volevano il Ponte. Li ha anche portati a Messina, proprio sullo banchine dello Stretto. A protestare contro il governo. A minacciare rivolte. A gridare: «Noi lo facciamo lo stesso, noi lo facciamo da soli». È partita così l´operazione Ponte-fai-da-te. E sono sempre gli orfani irriducibili che l´hanno architettata. È di appena qualche giorno fa l´ultima «invenzione» del governatore. Ha creato l´ennesimo «ufficio speciale» alla Regione Siciliana. È l´ufficio per il Ponte. Ha come obiettivo ricercare fondi per finanziarlo.
In parte Cuffaro vorrebbe prenderli da quelli europei del programma 2007/2013, e poi cerca partner. L´ufficio per il Ponte avrà 5 dipendenti e tre o quattro consulenti «di altissimo livello». E sarà guidato da Salvatore «Tuccio» D´Urso. È un fedelissimo di Totò, che di lui dice: «Tuccio è la persona giusta per questo incarico: è uomo di inventiva e di lotta». Burocrate della Regione, alle ultime elezioni siciliane era candidato nell´Udc, il partito di Cuffaro. Trombato, l´hanno trasformato in una testa di ariete fra Scilla e Cariddi. E´ l´ultima disperata mossa per quel sogno che non deve finire mai.
Una buona notizia: i ministri Rutelli e Padoa Schioppa hanno costituito una commissione interministeriale, presieduta dal presidente della Biennale Davide Croff, che promuova una concezione più moderna e ariosa delle relazioni fra economia e cultura in Italia. Certo, bisogna aspettare la fine dei lavori, e vedere se le proposte che ne emergeranno sapranno tradursi in provvedimenti concreti (per esempio per la detassazione delle erogazioni liberali).
Ma tentiamo subito qualche riflessione sul rapporto fra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale, che è oggi fonte di equivoci e mitologie. Secondo una concezione più "tradizionale", il patrimonio culturale è di competenza pubblica, e ogni intromissione del privato è una profanazione; altri propugnano l'idea più "moderna" (qualunque cosa ciò voglia dire) che lo Stato deve passare la mano ai privati. Il recente calo delle risorse pubbliche ha dato fiato a quest'ultima posizione, ma le dichiarazioni del ministro Rutelli indicano un'inversione di tendenza, in sintonia con quanto tempo fa ha scritto Prodi sul Corriere della Sera, impegnandosi a riportare il livello della spesa pubblica del settore ai livelli del 2001, per giungere presto all'1% del Pil. È il livello della Francia: l'Italia, con una concentrazione e capillarità di beni culturali assai maggiore, è sotto lo 0.50% del Pil.
Più Stato o più privato? Questa contrapposizione non è nei fatti né nella tradizione civile, culturale, istituzionale del nostro Paese, ma nasce dalla cronaca spicciola degli ultimi anni. Anni in cui si è registrato l'arretrare della macchina pubblica della tutela, un crescente conflitto di competenze fra Stato, regioni ed enti locali, il blocco di ogni turn over dei funzionari tecnico-scientifici. Questo decadimento ha innescato proposte di due segni diversi: per alcuni, basterebbe ridistribuire alle Regioni le funzioni di tutela per generare un miracoloso rilancio di ciò che oggi non funziona in mano allo Stato; per altri, la formula magica è invece "privatizzare". Idee improvvisate, che tuttavia attirano l'attenzione sulla centralità del patrimonio culturale e sulla necessità di precisarne gli attori e le forme di conservazione, di fruizione e di gestione.
La parola d'ordine di una sommaria privatizzazione si è diffusa sotto la spinta convergente di due fattori: la tendenza ad "alleggerire" la spesa pubblica e lo Stato, generatasi nell'era Thatcher-Reagan, e la coscienza delle dimensioni del nostro patrimonio culturale (diffuso in Italia con un'intensità e una capillarità senza pari), e dunque della difficoltà di reperire le risorse per conservarlo in modo appropriato. A ciò si è aggiunta un'immagine grossolana dei musei americani, attivi e dinamici perché privati: privatizzare i nostri musei sarebbe dunque la strada per generare d'incanto le risorse necessarie.
Ora, i musei americani non coprono mai più del l5-20 per cento delle spese di gestione con introiti diretti; hanno sostanziosi contributi pubblici (dell'ordine medio del 10-20 per cento); si alimentano soprattutto di donazioni private, rese possibili da una efficiente fiscalità di vantaggio per il contribuente. In altri termini, negli Stati Uniti lo Stato contribuisce doppiamente ai musei e alla ricerca: con una quota di contributi diretti, ma anche privandosi di enormi introiti fiscali onde incoraggiare le donazioni private. E così che i musei americani possono accantonare i propri assets e investirli, finalizzando gli utili a tutte le spese di gestione (80-85 per cento) che gli introiti diretti non bastano a coprire. Per esempio, il Getty Trust di Los Angeles ha assets investiti per circa otto miliardi di dollari, e introiti diretti pari al 10 per cento delle spese di gestione: il restante 90 per cento è coperto dagli utili. Per privatizzare secondo il modello americano gli Uffizi, trenta volte più grandi del Getty, occorrerebbe un capitale investito trenta volte maggiore. Il museo americano di cui in Italia si favoleggia, produttore del reddito necessario a sostentarne le spese di gestione, e un miraggio. Per un problema vero (dinamizzare i nostri musei e reperire nuove risorse) si è indicata una soluzione confusa e impraticabile.
Eppure questa falsa mitologia stenta a morire, come mostra un documento (distribuito in Consiglio dei ministri nel novembre 2005, governo Berlusconi) secondo cui «la gestione dei beni culturali dev'essere improntata a logiche imprenditoriali che producano reddito attraverso una impresa ad hoc, proprio perché (il reddito è) destinato a sostenere la conservazione e la fruizione. Lo sfruttamento del bene pubblico risponde alle logiche del mercato e collima, sua sponte, con le esigenze della fruizione e della conservazione, poiché il bene è esso stesso il fattore di produzione della impresa». Secondo questo credo iperliberista, il bene culturale esiste per essere sfruttato, e solo in quanto produce reddito potrà essere conservato e fruito dai cittadini. Anche se prontamente sconfessato non appena questo giornale lo rese noto, il documento va ricordato come sintomo di una forma mentis attardata in un aziendalismo di maniera, anche in un ambito che per sua natura lo rigetta.
Non meno aggressivi sono stati i tentativi di privatizzare il patrimonio culturale mettendolo in vendita. Si sa che in mano pubblica c'è una quantità notevolissima (dunque difficile da gestire) di patrimonio immobiliare e che il combinato disposto della legge di tutela del 1939 e del Codice Civile ha reso in principio «patrimonio culturale» ogni immobile con più di 50 anni di vita, con ciò accrescendo a dismisura la quantità (non la qualità) del patrimonio immobiliare pubblico. Rendere alienabile l'intero patrimonio pubblico (culturale o no) è inaccettabile: ma è proprio quello che tentò Tremonti con la sua "Patrimonio dello Stato SpA" (2002) e le cartolarizzazioni che ne seguirono. Secondo Giuseppe Guarino, che ha rilanciato il tema in due convegni romani (ottobre 2005 e giugno 2006), per ridurre il debito pubblico «è necessario immettere sul mercato i beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico, che sono giuridicamente inalienabili. Bisogna dunque fornirli di un reddito, e insieme abrogare, con atto avente forza di legge, il vincolo della inalienabilità».
Evidentemente Guarino, in un momento di distrazione, ha dimenticato l'art. 9 della Costituzione: bisognerà abrogare anche quello?
Altre distrazioni e dimenticanze serpeggiano in ogni dove: nell'editoriale del Giornale dell'arte di giugno, Sergio Romano propone un sistema di dismissioni di immobili pubblici, subordinato a rigorose condizioni di tutela, garantite da «un corpo ispettivo di cui il Ministero per il momento non sembra disporre». Non esistono dunque più, nella memoria di un editorialista di tanto prestigio, le Soprintendenze? Davvero molta è la confusione sotto il sole, se le élites di questo Paese sembrano dimenticare la Costituzione e le istituzioni. Ma non è forse lo stesso Stato ad aver dimenticato le Soprintendenze, se da anni non assume più personale tecnico-scientifico (tanto che l'età media degli addetti è oggi intorno ai 55 anni)?
Non si può discorrere del rapporto fra pubblico e privato se si parte dal presupposto dello smantellamento dello Stato, dei suoi principi e delle sue strutture.
L'intervento del privato può esser concepito in sussidio, e non in sostituzione o supplenza, delle pubbliche istituzioni. Benemeriti sono i contributi delle fondazioni bancarie, e tuttavia preoccupa che siano concentrati nelle regioni del Nord (intorno al 70 per cento), e quasi assenti in tutto il Sud (meno del 5 per cento).
Importantissimo sarebbe introdurre una vera fiscalità di vantaggio (stavolta sì, secondo il modello americano), ricordandosi che negli Stati Uniti il 73 per cento delle donazioni non proviene da "grandi donatori" (come le imprese), bensì dalle modeste donazioni di privati cittadini. Altre forme di intervento dei privati si possono certo sperimentare, senza dimenticare che quelli che da noi si chiamano "servizi aggiuntivi", a cominciare dalla didattica museale, in molti Paesi ( la Francia come l'America) sono considerati parte del corebusiness del museo, e perciò gestiti direttamente.
L'inversione di rotta che il nuovo governo sembra voler segnare su questo fronte lascia sperare una più matura riflessione sulla distribuzione dei ruoli sia all'interno del fronte pubblico (superando i conflitti di competenza fra Stato e regioni conseguenti al nuovo, infelice Titolo V della Costituzione), sia nell'equilibrio fra pubblico e privato. La più grande ricchezza dell'Italia è l'ineguagliabile continuum tra tessuto urbano e musei, fra case e monumenti, fra città e campagna, fra ambiente e paesaggio. La vera "redditività" di questo patrimonio non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme. Quello che sapremo fare in questo campo è un banco di prova essenziale per il nostro futuro. Stimolare la creatività dei cittadini di oggi e di domani con la presenza e la memoria del passato, alimentare la consapevolezza dei valori storici, civici e simbolici che permeano il nostro patrimonio culturale vuoi dire accrescere la nostra capacità di rinnovarci affrontando le sfide del futuro.
È dunque necessario ridisegnare il ruolo del pubblico e del privato, redistribuendone i ruoli nel rispetto dell'art. 9 della Costituzione, perché la capacità propositiva e progettuale dei privati possa affiancarsi alla professionalità delle strutture pubbliche della tutela (da rinnovarsi mediante l'iniezione di nuovo personale, di giovane età e di alta qualificazione).
Più Stato o più privato? La risposta è una sola: potrà esserci più privato solo se ci sarà più Stato.
È forse giunto davvero il tempo di stringere un grande patto nazionale per la tutela, che includa Stato, Regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e da quelle dei cittadini.
I problemi del presente, le soluzioni del futuro. Per la prima volta istituzioni e cittadini si sono confrontate sull’articolato «nodo» aeroporto. L’occasione è stata offerta dall’assemblea pubblica promossa dalla Provincia per discutere dell’iter della Vas, acronimo di «Valutazione ambientale strategica» dell’area che circonda lo scalo di Montichiari. Al «Tartaglia» di Brescia rappresentanti delle associazioni di cittadini e i sindaci dei paesi coinvolti direttamente o indirettamente dal «D’Annunzio» hanno ascoltato le relazioni dei tre assessori provinciali responsabili del progetto: Mauro Parolini si è occupato di Viabilità, Valerio Prignachi di trasporto e Aristide Peli che ha curato il riassetto territoriale.
La Vas coinvolge a vario titolo Montichiari, Ghedi, Castenedolo e Montirone ed ha una dimensione di 49 chilometri quadrati. Programmare uno sviluppo armonico della zona oltre che a tutelare la vivibilità delle aree urbane rappresenta la condizione essenziale per accedere ai fondi dell’Unione Europea. L’efficacia del Via è direttamente proporzionale alla precisione con cui vengono fissati gli obiettivi strategici in materia ambientale. urbanistica, economici e sociali. «Questi indici devono essere compilati con la vostra collaborazione - ha spiegato Peli rivolgendosi alle associazioni ambientaliste ed agli amministratori comunali presenti -: senza il rispetto dei parametri della Vas non si va da nessuna parte». Alcune associazioni presenti hanno fatto sentire la loro voce e gli argomenti sollevati sono piuttosto allarmanti.
L’area sottoposta al Vas riguarda l’aeroporto ma influisce inevitabilmente sullo sviluppo della Fascia d’oro snodo di sviluppo economico provinciale. «Le attuali rotte minano la vivibilità di troppi cittadini - ha ribadito Sergio Perini presidente di Cambiarotta, associazione di Carpenedolo -: e la situazione è destinata a peggiorare da gennaio quando inizieranno i voli notturni per le Poste Italiane. Nessuno ci ha mai contattati e noi siamo contrari ad uno sviluppo insostenibile. Ne abbiamo avuto la prova nel ’99 quando ci passavano sulla testa centinaia di voli al giorno. Non vogliamo più rivivere quella situazione».
Preoccupata anche Legambiente che per bocca di Pietro Garbarino ha proposto di «rinunciare all’Alta capacità. Abbiamo già la linea per Parma che possiamo sviluppare». Il pericolo di contaminazione delle falde è stato invece paventato dagli ambientalisti di Montirone che hanno rimarcato: «Siamo il Comune più massacrato da questo piano incredibile di sviluppo. Non solo ci tolgono terreni, ci inquinano l’aria, ci tolgono il respiro, ci impediscono di costruire e ci assediano con i rumori. Rischiamo anche la distruzione delle nostre falde acquifere che si trovano a bassa profondità, se non erro a 25-30 metri ed anche meno. Che futuro daremo ai nostri figli?».
Sul tavolo sono finiti anche i problemi legati a cave e discariche. Oltretutto nell’area interessata dalla Vas non esiste ancora nessuna centralina per il rilevamento dei dati d’inquinamento.
Sul piede di guerra anche gli agricoltori che per bocca di Alberto Giovanardi della Coldiretti hanno chiesto a gran voce un «immediato programma di rimborso per le potenzialità agricole e di allevamento che ogni giorno vanno perse in un’area tra le più sviluppate, per stalle e raccolto, dell’intera provincia. Non deve accadere la fuga dalle campagne».
Il tempo intanto incalza. I sindaci dell’area si ritroveranno con la Provincia il 16 ottobre, ed entro fine novembre i primi dati della Vas dovranno essere pronti per l’Unione Europea.
Postilla
Apparentemente tutto sembrerebbe filare relativamente liscio e “istituzionale”, pur con le gravi preoccupazioni espresse da molti, in questa prima esperienza di Valutazione Ambientale Strategica. Salvo che strategica non lo è affatto, visto che tanto per cominciare il Piano d’Area è del tutto sottodimensionato rispetto ai problemi effettivamente sollevati da questo HUB. Un complesso aeroportuale che, sotto sotto, da un lato si affianca con poderose dimensioni a Malpensa (e sappiamo quanti e quali effetti ha avuto in pochi lustri lo sviluppo dell’Hub varesino), dall’altro calamita una serie di interessi e spinte molto più ampia: a partire dal sistema dell’alta capacità ferroviaria, che qui il rappresentante di Legambiente sembra mettere in discussione. Ma non per colpa sua il giornalista, e conseguentemente il dibattito e la percezione, continua a volare bassissimo. Perché la stampa nazionale tace? Perché, come osservava Maria Pia Guermandi, sappiamo tutto delle casalinghe della Valsusa contro il tunnel ferroviario, ma questa assemblea bresciana sembra parlare di un progetto di nuovi giardini pubblici, anziché di un enorme magnete di traffico e aspettative? Che la giunta regionale lombarda (e la cultura che la sostiene, non solo a destra) dopo aver avocato a sé i piani d’area, voglia anche farlo per il dibattito relativo? (f.b.)
vedi anche HUB? BURP!(con PDF illustrato scaricabile)
La provincia di Catania decide di stanziare un milione, distogliendo la somma da altre utilizzazioni, per acquisire quote di una futura società costituita per la costruzione del Ponte sullo Stretto. Quasi in un ideale dialogo, il sindaco di Venezia, Cacciari, lamenta che il Ponte di Messina sottrae risorse preziose al programma d'interventi pubblici nel Nordest, dal Mose al passante di Mestre. Detto con brutalità, ci troviamo di fronte a due tentativi ben studiati di conquistare spazio nella comunicazione. Con obiettivi opposti. Da un lato c'è l'affermazione di un improbabile sicilianismo «fai da te» in grado di eccitare velleitari conati autonomisti, facendo dimenticare le emergenze quotidiane di una regione come la Sicilia, che giorno per giorno vede accrescere i suoi divari rispetto ai parametri europei. E dall’altro lato il vellicamento di una mai sopita passione "per la «questione settentrionale», alibi fortunato per tutti coloro che esitano nell'affrontare la simmetrica (ma le cose stanno davvero così?) questione meridionale.
Possiamo provare per qualche mese in Sicilia a dimenticare il Ponte e a concentrarsi su criticità più immediate? Non sarà facile. Il Ponte sullo Stretto è infatti al quarto ciclo di attenzione dal dopoguerra a oggi. Alla prima fase che vide il fiorire di fantasie progettuali ne seguì una seconda di attesa, nella quale l'ipotesi Ponte, che allora contava su un numero notevole di estimatori, bloccava di fatto scelte fondamentali per lo sviluppo dei trasporti in Sicilia. C'è stata poi, relativamente breve, ma intensa, la stagione del progetto, inaugurata da una precisa volontà politica sostanzialmente bipartisan, verdi e sinistra radicale a parte, che non trovava però, salvo nobili e disinteressate eccezioni, alcuna eco ideologica né sul piano regionale né su quello locale. Stagione esauritasi quando Prodi si presentò alle elezioni (e vinse) con un programma che teneva conto dei risultati di un ampio dibattito che attestavano una carenza di consenso nei riguardi dell'opera e precise istanze, invece per infrastrutture di maggior urgenza. Val la pena sottolineare che nel corso di quel dibattito, elevatosi di tono alla vigilia delle regionali in Calabria e delle amministrative per Messina, si contarono sulle dita di una mano le voci del centrodestra dissonanti con un corale rifiuto espresso dalla cosiddetta società civile e dai partiti di centrosinistra.
Ed eccoci al quarto ciclo: il Ponte come bandiera di un movimento che ripesca modelli di colpevolizzazione nei confronti dello Stato e pretese riparazioniste a fronte di ripetuti, torti e vessazioni. Con lo stesso ragionamento ci si potrebbe lamentare dell'assenza di una normale velocità nella rete ferroviaria, della mancata chiusura dell'anello autostradale, dell'inesistenza di un sistema aeroportuale non limitato a due poli e dell'insufficienza dei porti isolani. Invece è sul Ponte che appare più facile suscitare orgoglio e desiderio di vendetta. Ad Agrigento una popolazione si solleva al pensiero che la possibile costruzione di un aeroporto distrugga paesaggio e tradizioni. La stessa popolazione probabilmente voterebbe compatta per il sì in un referendum pro o contro il Ponte, indifferente al fatto che in questo caso vengano messi a rischio altri paesaggi e tradizioni. Il famoso complesso del Nimby (not in my back-yard).
Assistiamo dunque a un fiorire di iniziative che non producono alcunché sul piano concreto ma tengono accesa la passione. Perché solo un milione, verrebbe da chiedere all'amministrazione provinciale di Catania, da destinare al Ponte? Stanziate un miliardo. Trovate, e non sarà difficile un'entrata virtuale per non compromettere equilibri di bilancio e il gioco è fatto: si ritorna alla fase del ciclo del «ponte in cartolina», una struttura cioè fatta di parole che però si sovrappone per chiasso mediatico, annullandole, ad altre problematicità addirittura emergenziali.
Getta benzina sul fuoco l'incauta e scorretta dichiarazione di Cacciari, ignaro (ma come è possibile?) che la finanziaria 2007, salvo sorprese, ha di fatto — piaccia o meno, sia giusto o sbagliato — cancellato il Ponte. Anche lui evidentemente ha bisogno di evocare modelli riparazionisti. E menomale che il famoso federalismo fiscale, al momento, è solo tema di convegni sussieguosi e soporiferi.
A Roma accadono cose strane: ci sono realtà di cui nessuno parla (il disagio sociale esploso al Trullo, per esempio) e presenze meramente virtuali (la «Nuvola» di Fuksas, altro esempio) di cui si continua a parlare quasi esistessero davvero. Il Museo dell'arte contemporanea (Maxxi): citato di continuo, è però solo un cantiere in grave ritardo sui tempi. Ora rischia perfino di chiudere per mancanza di soldi, nonostante gli impegni del ministro Rutelli. Che però promette: «Io lo salverò».
La Finanziaria ha ridimensionato, quasi cancellandolo, ogni impegno di spesa per dare al Paese un adeguato Museo del contemporaneo, finora inesistente. Cinghia stretta, niente da fare. Eppure solo due settimane fa il ministro dei Beni culturali aveva trionfalmente annunciato i finanziamenti necessari per fissare al dicembre del 2008 la consegna alla città dell'opera di via Guido Reni, al Flaminio, arditamente progettata dalla famosa architetto Zana Hadid. Rutelli aveva anche indicato i ratei di una somma che avrebbe raggiunto i 70 milioni necessari a completare il Museo.
In sostanza, il governo ha concesso al Maxxi solo 5 milioni per ciascuno dei prossimi tre anni: appena un po’ di più di quelli utili a tenere il grande cantiere aperto ma fermo. «Il ministro competente, Di Pietro - chiarisce Rutelli - non è riuscito a trovare i soldi per il museo. È un fatto negativo, certo, ma è così. Il finanziamento tocca alle Opere pubbliche, non ai Beni culturali ma io tengo molto al Maxxi al quale ho già assicurato 7 milioni. I 15 previsti - continua Rutelli- li metterà il mio dicastero, pur non essendo quello a cui spetta l'investimento». Lo scorso anno, nel corso di una visita al cantiere-matusalemme (sta cominciando ad avere l'età di un anziano) il predecessore di Rutelli. Buttiglione disse cose analoghe indicando nel collega Lunardi il solo responsabile della realizzazione dell'opera.
«Fin d'ora mi sto impegnando a cercare i soldi per finire il Maxxi entro il 2008. È un impegno - assicura il ministro dei Beni culturali - che intendo assolutamente mantenere». Pio Baldi, direttore generale del Dipartimento per le arti contemporanee, si dice «molto dispiaciuto» del «buco» della Finanziaria. «Al Maxxi Roma e la cultura del Paese tengono molto. Non resta che confidare nell'impegno di Rutelli. Speriamo che vada a buon fine».
Altra musica da Claudio Cerasi, che con la società Navarra costruisce il museo: «Le notizie della Finanziaria ci annichiliscono. Siamo già esposti per 15 milioni, non possiamo continuare a lavorare senza essere pagati. Cinquemilioni l'anno sono ridicoli. Finiremo per chiudere il cantiere».
Maxxi e Nuvola, basta: o li facciamo o non parliamone più.
Giulia Maria Mozzoni Crespi, “Caro presidente, su Mediapolis sbagli”, lettera aperta al presidente del consiglio Provinciale di Torino Antonio Saitta, La Stampa, 4 ottobre 2006
Gentile Presidente, ci spiace che si sia creato questo difficile passaggio nella vita dell'Ente da lei presieduto. Tutto ciò avrebbe potuto essere evitato se più per tempo, a cominciare dagli Stati Generali del Canavese, si fosse dato spazio istituzionale ad un nostro intervento e si fossero affrontate le tante obiezioni che con serietà e rispetto abbiamo da anni presentato.
E' vero, come è stato ribadito, che il comportamento della Provincia nello sviluppo dell'iter autorizzativo è sempre stato legittimo e corretto, ma è proprio questa «continuità » che costituisce in qualche modo la causa del contrasto e del dissenso.
Quando il progetto Mediapolis è stato incluso nel Patto Territoriale è prevalsa l'impazienza di presentare delle alternative di sviluppo, la suggestione dei posti di lavoro, la prospettiva di convogliare fondi sul territorio, e in questo scenario tutte le istituzioni e le forze politiche si sono schierate a favore. Gli unici a dissentire da subito siamo stati noi, dapprima con la contestazione del sito soprattutto per incompatibilità idrogeologica, poi con argomenti più articolati e complessi: il saldo occupazionale, il beneficio collettivo degli investimenti pubblici, la trasparenza sui capitali privati, le garanzie economiche, etc.
Intanto, riguardo a Mediapolis aumentava l'incertezza: sui contenuti di progetto, da città della comunicazione a Rockland, da Tivoli a Futuroscope (l’ultima novità); sulla valutazione dell'impegno finanziario pubblico e privato; sull'adeguatezza del capitale; sulle modalità esecutive, compreso il project financing, ecc. Unica costante, la rilevante presenza di uno o più Centri Commerciali con un bacino di utenza sostanzialmente locale.
Non c'è quindi da sorprendersi che qualcuno abbia colto l'insufficienza delle analisi sin qui correttezza formale delle decisioni, abbia considerata opportuna una più approfondita e documentata valutazione sugli interrogativi da noi sollevati che, lo ribadiamo ancora una volta, non è mai stata fornita.
Quanto al citato modello di Futuroscope in Francia, si badi che quella realizzazione del 1985 è stata ripetutamente in perdita, che ha richiesto e richiede costanti e rilevantissimi investimenti pubblici (288 milioni) e che vive grazie ad una società mista a prevalente capitale pubblico, sulla convenienza della quale ci si incomincia a porre domande.
Non ci sembra responsabile, oggi, confermare le decisioni prese con la tautologica affermazione che di decisioni si tratta: ci sembra invece che riconoscere il cambiamento degli scenari e la possibilità di alcuni errori di stima, debba far parte delle prerogative e dei doveri del governare. Ci auguriamo quindi che questa consapevolezza presieda a tutto l'iter della Valutazione di Impatto Ambientale perché, almeno sotto quel profilo, non ci siano né dubbi né rischi ignorati. Noi siamo infatti convinti che proprio l'area di Albiano, tra le altre possibili in Canavese e nella Provincia di Torino, presenti caratteristiche seriamente incompatibili con l'insediamento di Mediapolis e vorremmo almeno evitare che, prevalendo la logica delle decisioni già prese, si comprometta seriamente un equilibrio vitale per un'area così di pregio, il cui valore ambientale e perciò economico è una ricchezza di noi tutti
La Stampa, 5 Ottobre 2006
Antonio Saitta, Gentile signora Crespi,
La ringrazio per aver riconosciuto alla Provincia sul progetto Mediapolis la continuità di un comportamento legittimo e corretto nello sviluppo dell'iter autorizzativo; non ci siamo però limitati a questo.
L'azione dell'ente presieduto prima da Mercedes Bresso e dal 2004 da me è stata fondamentale per modificare come Lei sa il progetto iniziale, riducendone l'impatto ambientale (ricordo a solo titolo di esempio le osservazioni della Provincia alla variante del Piano regolatore del Comune di Albiano).
Il progetto Mediapolis è nato nel 1997, quasi dieci anni fa, ma in questo lungo periodo di approfondimenti e di dibattiti il pressoché unanime consenso da parte di amministrazioni locali, forze politiche bipartisan, forze sociali ed economiche non si è certo esaurito. Così come non si è mai esaurita la serietà delle Istituzioni nel procedere con attenzione e scrupolo: in particolare voglio ricordare al Fai e alle altre associazioni ambientaliste che la Provincia di Torino ha scelto di mantenere in capo ai suoi uffici la delicata e determinante procedura tecnica di VIA, l'impatto ambientale, perché riteniamo indispensabile procedere a queste valutazioni tecniche assumendoci la responsabilità delle verifiche prima, delle scelte poi.
Le confermo che le procedure di impatto ambientale saranno svolte dagli uffici preposti con tutta la doverosa trasparenza, serietà professionale e onestà intellettuale che mi auguro Lei continui a riconoscerci.
Con la stessa serietà e professionalità i nostri tecnici si comporteranno all'interno della Conferenza dei Servizi, che la Regione Piemonte convocherà quale sede idonea per quantificare in modo definitivo le opere infrastrutturali necessarie.
Il Suo appello affinché chi governa sappia poter riconoscere errori di valutazione mi trova assolutamente concorde, ma voglio sottolineare che chi amministra un territorio deve saper fare sintesi in situazioni delicate, con il coraggio di scelte anche impopolari: preferisco comunque percorrere la strada difficile del confronto che attira critiche, piuttosto che essere accusato al termine del mio mandato di essere stato spettatore impassibile della crisi di un territorio importante come il Canavese.
* Presidente della Provincia
Nota: per qualche particolare in più sul discutibile e discusso insediamento nelle basse della Dora ad Albiano di Ivrea (TO) qui anche una breve descrizione del progetto di Mediapolis e altri aggiornamenti sugli sviluppi dell'operazione (f.b.)
Si sta portando a termine la soluzione finale di quelle che erano le più splendide coste del Mediterraneo, grazie a un radicato analfabetismo urbanistico che va sostituendo spietatamente alla crosta terrestre la crosta della speculazione edilizia. Il quadro è impressionante. Negli strumenti per così dire urbanistici dei 64 comuni costieri della Sardegna è prevista la costruzione di ben settanta milioni di metri cubi di edilizia cosiddetta turistica (un terzo già costruita) con la prospettiva che i 1600 chilometri di litorali sardi verranno privatizzati, inquinati, cancellati e sommersi sotto un ininterrotto tavoliere di cemento, a esclusivo arbitrio delle società immobiliari, capace di ospitare (per i nove decimi in seconde case, già ne sono state costruite settantamila) oltre un milione e mezzo di persone, praticamente raddoppiando l’attuale popolazione dell’isola. L’ultimo colpo all’integrità delle coste sarde è stato inferto mercoledì scorso dal Consiglio comunale di Olbia, che a poche ore dal suo scioglimento in vista delle prossime elezioni amministrative, ha ceduto (con l'opposizione dei comunisti) all’arroganza del consorzio Costa Smeralda Aga Khan: approvando un piano che prevede in dieci anni la costruzione di seicentomila metri cubi di ville, alberghi, campi di golf, approdi turistici, eccetera. Il primo intervento sarà la costruzione di 157 mila metri cubi nella zona intatta di Razza di Juncu a pochi passi dal mare. Il che non potrebbe avvenire se si applicasse la legge sull’uso e la tutela del territorio che la Regione sarda ha tre mesi fa approvato, superando gli ostacoli insensatamente frapposti sul suo cammino dal governo. È una legge che giustamente pone un vincolo di inedificabilità graduata e temporanea su una fascia di 500 metri e di due chilometri dal mare, in attesa che vengano approvati i piani paesistici. Una legge che in questo caso è stata aggirata con una scappatoia predisposta fin dal 1983 da un protocollo fra Regione e consorzio, col quale la zona in questione è stata classificata come zona di espansione residenziale, mentre è completamente deserta e distante decine di chilometri dal centro abitato. Dunque appena fatta la legge è stata violata e volta in burletta. E quel mucchio di metri cubi viene ad aggiungersi a tutto quanto è già stato costruito a Olbia (che si badi è senza piano regolatore) occupando le aree costiere tramite singole licenze, di fatto lottizzazioni, quindi in buona parte illegali. MA SE l’Aga Khan attacca il fronte nord del comune di Olbia un altro potentato sferra un rovinoso attacco a Sud. È l'Edilnord di Silvio Berlusconi, che ha da gran tempo acquistato 500 ettari sui quali intende costruire villaggi marini e villaggi collinari, ville, residence, alberghi, porticciolo eccetera, per 570 mila metri cubi, per 5-6 mila persone, facendo tra l'altro sparire magnifiche zone umide che da sempre i naturalisti considerano biotopi intoccabili. Per aggirare la legge si troveranno altre scappatoie, si ricorrerà alla facoltà di deroga prevista dall'articolo 12 comma 3 della legge, che il sindaco può accordare previo nulla osta della giunta regionale. E si sa che in Italia, nel governo del territorio le deroghe diventano la regola. Per il momento tuttavia il progetto Berlusconi sembra segnare il passo, si vede che ha meno carte da giocare dell'Aga Khan: tornerà alla carica con la nuova amministrazione che uscirà dalle prossime elezioni. Ma intanto, scrive Roberto Badas responsabile regionale dell’istituto nazionale di urbanistica, si va formando un regime parallelo a quello della legge, che approfitta delle maglie lasciate aperte dalla legge stessa (così capita a Gonnesa nella Sardegna sud-occidentale, a Chia al sud, a Tortoli sulla costa orientale eccetera). In sostanza anziché l’urbanistica di iniziativa pubblica viene praticata, come nel resto d’Italia, l'urbanistica contrattata, tipica della deregulation che ci affligge da anni. E urbanistica contrattata (il caso più clamoroso di tutti è stato il progetto Fiat-Fondiaria di Firenze poi felicemente mandato a monte) significa rinuncia al controllo pubblico delle trasformazioni territoriali, significa assegnare il ruolo decisionale agli operatori privati, aumentare la discrezionalità degli amministratori e dei partiti a discapito dei consigli comunali, relegando il piano regolatore in posizione marginale e ininfluente. Con la conseguenza in Sardegna di dare il via ad uno sviluppo edilizio distorto e con effetti economici negativi: il prezzo di case e terreni che aumenta assai più del tasso di inflazione, un'edilizia turistica fatta quasi tutta di seconde case che offrono posti di lavoro dieci volte inferiori a quelli offerti dagli alberghi, dipendenza dall’esterno per i materiali da costruzione e per il fabbisogno alimentare, e via dicendo. Infine un fatto inquietante successo da poco: negli anni scorsi per iniziativa di un assessore coraggioso era stato istituito un servizio di vigilanza in materia edilizia, e si era riusciti a demolire 380 mila metri cubi tra case villette insediamenti precari abusivi eccetera, recuperando una settantina di chilometri di litorale. Ora la giunta di pentapartito, anziché premiarlo, ha allontanato da quel servizio il funzionario responsabile.
Si può ben dire che dalle elezioni regionali sarde di oggi dipende la sorte di quanto resta delle più splendide coste del Mediterraneo. Oltre ai 26 milioni di metri cubi già costruiti negli ultimi decenni, ce ne sono altri 50 previsti dagli strumenti urbanistici dei 68 Comuni costieri che - se non si interverrà con decisione - cementificheranno spietatamente i litorali, fino a formare una specie di città lineare lunga 1.560 chilometri. E' una prospettiva funesta: per sventarla, il Consiglio regionale sardo (maggioranza: Pci, sardisti, Psi, Pri, Psdi) aveva approvato il 5 aprile una legge urbanistica che prescriveva l'inedificabilità delle coste per due anni (per una profondità di 500 metri e in alcuni casi di 2 mila), in attesa dell' approvazione dei piani territoriali paesistici. Era una legge oltremodo ragionevole, che però il Consiglio dei ministri il 6 maggio ha pensato bene di bocciare con motivazioni assurde e rinviare al mittente, dando prova, come ha detto il presidente dell' Istituto nazionale di urbanistica, di proterva insipienza. Per parare il colpo, il 31 maggio la giunta regionale ha deliberato, in base alla legge Galasso, l' inedificabilità delle coste per 300 metri dalla battigia per sei mesi, in attesa di rielaborare la legge bocciata. È una soluzione interlocutoria (sono valide le opere già iniziate e, previa verifica, le concessioni che abbiano avuto il nullaosta della soprintendenza) che tuttavia blocca temporaneamente la cementificazione selvaggia. Vengono così rimesse in discussione le pretese abnormi di innumerevoli società immobiliari e quelle del consorzio Costa Smeralda e del progetto Costa Turchese di Berlusconi a Olbia, per milioni di metri cubi: e la Regione sarda impartisce una lezione al resto d' Italia, se appena consideriamo che oltre un terzo dei 7.500 chilometri di litorali italiani sono ormai da considerarsi perduti perché trasformati in sudici e congestionati agglomerati semi-urbani. E se mai avremo un nuovo governo bisognerà far di tutto perché esso prescriva per legge l’inedificabilità permanente anche mediante esproprio delle coste: come fanno da tempo la Francia per il litorale Languedoc-Roussillon e la Gran Bretagna che con l'operazione Nettuno ha espropriato centinaia di chilometri per tramandarli intatti alle generazioni future. La tutela dei valori paesistici e naturali è stata definita dalla Corte costituzionale un interesse primario, prioritario su ogni altro interesse, compresi quelli economici: ed è apprezzabile che il segretario di un grande partito, Achille Occhetto, abbia insistito su questo tema centrale della politica italiana fino a poco tempo fa considerato impopolare. Dunque lo sviluppo costiero della Sardegna dovrà in avvenire seguire criteri tutti diversi da quelli che finora l'hanno devastata. È urgente una drastica revisione degli sgangherati programmi edilizi dei Comuni, riportando in onore una politica di pianificazione che subordini severamente ogni eventuale sviluppo alla salvaguardia di territorio, paesaggio, natura, beni culturali: senza naturalmente dimenticare di intervenire contro quanto è stato costruito abusivamente (alcune centinaia di migliaia di metri cubi fuorilegge sono stati demoliti negli ultimi anni). La battaglia sarà dura: già una parte dei Comuni in una pubblica dichiarazione si sono rivoltati contro ogni norma intesa a contenere l'urbanizzazione indiscriminata. Tra tutti spicca il sindaco democristiano di Bosa, che smania perché le sue coste ancora intatte scompaiano sotto 250 mila metri cubi di cemento, in nome naturalmente dell' autonomia comunale. Un'autonomia rivendicata per fare il male anziché il bene della collettività.
Antonio Cederna per quarantacinque anni si è occupato dell’urbanistica romana e ne ha seguito, giorno per giorno, le vicende. Ma la sua azione non fu solo, come molti sono indotti a credere, di accusa, di critica e di disapprovazione. Egli fu anche propositivo e operativo, fino a impegnarsi nella costruzione di una diversa idea di Roma. Francesco Erbani, nella prefazione alla nuova edizione a I vandali in casa (Laterza, pp. 279, euro 18,00), conferma la propensione di Cederna per l’urbanistica, e scrive che si sbaglierebbe a ridurre il suo atteggiamento alla sola “componente conservativa”. E nella postfazione, non a caso titolata “L’Italia possibile di Antonio Cederna”, ricorda la “storia moderna dell’Appia Antica”, che parte dal decreto di approvazione del piano regolatore di Roma, del 1965, a firma di Giacomo Mancini, ministro socialista ai Lavori pubblici (non operavano ancora le regioni), decreto con il quale furono destinati a parco pubblico i duemila e cinquecento ettari di territorio a cavallo della regina viarum.
Fu una vittoria alla quale Cederna contribuì in modo decisivo con i suoi articoli sul Mondo (molti sono raccolti nel libro su I vandali). «Viste nei tempi lunghi le battaglie di Cederna hanno prodotto risultati inimmaginabili cinquant’anni fa», commenta Erbani. Ancor più percepibile è l’impegno urbanistico di Cederna a proposito del progetto Fori, il gran parco storico-archeologico che lui immagina di realizzare con l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, che dal Colosseo giunge a piazza Venezia, e di farne la prosecuzione intra moenia dell’Appia Antica. In forza della sua attitudine a disegnare concretamente il futuro di Roma, Erbani consacra Cederna “urbanista ad honorem”. Ma, a differenza dell’Appia Antica, come vediamo qui di seguito, il progetto Fori, non è andato a buon fine. Sono assolutamente d’accordo, lo ripeto, con il riconoscimento di Cederna urbanista, e il tema merita di essere approfondito.
L’idea che aveva di Roma la illustrò più volte, ma il testo nel quale è sviluppata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand'era deputato indipendente del Pci. La relazione alla proposta di legge raccoglie alcune delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna, una vera e propria lezione di urbanistica che dovrebbe essere utilizzata nelle scuole e nell'università. Cederna propose, tra l’altro, due operazioni fondamentali. In primo luogo, il trasferimento dei ministeri dal centro della città nelle aree della prima periferia, il cosiddetto Sistema direzionale orientale. Lo Sdo, inventato per primo da Luigi Piccinato, per tutto il dopoguerra, è stato l’idea forza dell’urbanistica romana; fu al centro di infinite discussioni, soprattutto nell’ambito della sinistra; era considerato il presupposto e la condizione per la costruzione della città moderna e per la salvezza della città antica.
La seconda operazione che propone Cederna nel suo disegno di legge, è il parco storico-archeologico dell'area centrale, dei Fori e dell'Appia Antica. L’obiettivo essenziale che Cederna intendeva perseguire per i Fori era – non lo dimentichiamo – “l'eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere” e “l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.
Che ne è oggi del disegno e della strategia per Roma di Antonio Cederna? A parte l’istituzione del parco regionale dell’Appia Antica, che peraltro ha sempre operato stentatamente, il resto è rimasto sulla carta. Dei due obiettivi del suo disegno di legge, lo Sdo è stato silenziosamente cancellato. Non sono riuscito a capire che cosa lo ha sostituito. Anche il progetto Fori, che pure raccolse vastissime ed entusiastiche adesioni in Italia e all’estero, è stato cancellato e contraffatto.
In effetti, il progetto Fori cominciò a essere accantonato il 7 ottobre 1981, quando morì improvvisamente Luigi Petroselli che, con Adriano La Regina eAntonio Cederna, era stato protagonista del progetto Fori. Lo capì subito Cederna che, a pochi giorni dalla morte, scrisse su “Rinascita” dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito l’importanza della storia nella costruzione del futuro di Roma; che non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.
Nella postfazione a I vandali, Erbani scrive che, a poco a poco, “il grande parco che avrebbe immesso verde e archeologia fin nel cuore di Roma, strutturando la città su ritmi diversi da quelli dettati dalla rendita immobiliare e dalle macchine, viene lasciato cadere. È prima sistemato nell’orizzonte lontano delle utopie, […] poi fatto completamente sparire dall’orizzonte della città”.
Ma la pietra tombale sul progetto Fori è stata posta nel 2001 con il decreto ministeriale di vincolo monumentale proprio sulla via dei Fori e dintorni, fino alle terme di Caracalla, congelando la situazione attuale. La relazione storico-artistica che giustifica il vincolo rappresenta un radicale cambiamento rispetto al progetto concepito da La Regina, Cederna, Petroselli, Insolera, Benevolo e tanti altri. La sistemazione patrocinata da Benito Mussolini non è più contestata, diventa anzi “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto”.
Il contrasto con il pensiero di Cederna è assoluto. In Mussolini urbanista (colgo l’occasione per segnalare il ritorno anche di questo libro, grazie alla nuova edizione della Corte del Fontego, con interventi di Adriano La Regina eMauro Baioni) si legge che “i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che le guide turistiche trascurano di segnalare”.
Viceversa, nella relazione ministeriale, alla soluzione fascista si riconosce il merito di aver conseguito una compiuta immagine urbana di Roma Capitale. “Quella visione d’insieme, che aveva caratterizzato le capitali moderne nell’Otto e Novecento, ma che non era emersa dai modesti piani regolatori del 1873 e del 1883, limitati a un adeguamento della struttura viaria ai bisogni primari di uso della città, né dal Piano del Sanjust del 1909, più interessato agli aspetti dello sviluppo funzionale che non a quelli rappresentativi, e nemmeno dal Piano del 1931, che raccoglie maldestramente idee precedenti senza dar loro un’unità d’immagini, di forme, di contenuti, ebbene quella visione d’insieme si viene realizzando […] proprio nel corso degli anni Trenta, quando via dei Fori Imperiali (con anche la simmetrica via del Mare) diviene l’elemento centrale di un sistema complesso, che si snoda da nord (oltre il Flaminio) al sud (oltre l’Eur, fino al mare)”.
Infine, la relazione che giustifica il vincolo rinnega il progetto Fori. Il gran parco urbano che avrebbe dovuto estendersi, lungo l’Appia Antica, dai Castelli Romani al Campidoglio, formando la struttura principale dell’area metropolitana e, insieme allo Sdo, il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma: tutto ciò è ignorato nelle motivazioni del vincolo, che contesta la valenza generale del disegno proposto da Cederna, riducendolo a un insieme di singoli interventi puntuali, svincolati da ogni problematica urbanistica, con l’unico obiettivo di eliminare la via dei Fori Imperiali, “senza porsi il problema della sua storia, della sua funzione urbanistica, della sua immagine consolidata”.
Leonardo Benevolo – cui si deve, nel 1971, la prima formulazione del progetto che prevedeva l’eliminazione dello stradone – è stato fra i pochi che non ha ceduto alla sirena del revisionismo, e così ha commentato sul Corriere della Sera il decreto di vincolo: “è diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”.
Concludo con due sole rapidissime considerazioni. In primo luogo, si deve riconoscere che ha vinto il revisionismo. Anche in urbanistica. L’immagine di Roma moderna è insomma quella definita negli anni Trenta, quella di Benito Mussolini. È “il fascismo perenne” di cui scriveva Cederna. L’Italia repubblicana non ha dato nessun contributo a definire la sua capitale. Sta scritto in un decreto della repubblica che non ha suscitato proteste né indignazioni, che io sappia.
In secondo luogo, abbiamo verificato che l’idea di Cederna (e di Petroselli, La Regina, Insolera, eccetera) è “sparita dall’orizzonte della città”. È ovviamente fuori discussione che si possa cambiare idea, e che l’amministrazione capitolina e quella dei Beni culturali abbiano il diritto di confermare l’impianto urbano degli anni Trenta. Nessuno può pretendere il rispetto di un progetto alternativo, non più condiviso. Non di questo si discute. Mi sembra invece che non si possa non discutere del modo in cui è avvenuto e sta avvenendo il ribaltamento del fronte, senza aver mai formalmente dichiarato che il progetto Fori è stato archiviato. Si continua invece a evocarlo, solo che con quel medesimo nome si indicano oggi soluzioni ben diverse da quella sostenuta da Cederna.
Ripetiamo allora che Antonio Cederna, di Via dei Fori voleva cancellare la memoria. Ha scritto cose feroci contro la via dei Fori (“operazione antistorica, antiurbanistica, antisociale, antiarcheologica per eccellenza”). Viceversa, che succede? Succede che ci capita di leggere sul Corriere della Sera, sulle stesse pagine sulle quali Cederna aveva iniziato la sua battaglia per il progetto Fori nientemeno che, “l’antico sogno di Antonio Cederna” sta per realizzarsi. E come? Grazie a un progetto di attraversamento della via dei Fori, senza nemmeno interrompere il traffico, senza “nessuna demonizzazione del traffico, come si conviene a una metropoli”.
Questo sarebbe il sogno di Antonio Cederna? Che devo dire? Dovremmo essere sopraffatti dalla costernazione.
Però, proprio da Cederna abbiamo imparato che non bisogna arrendersi, ma continuare con ostinazione a sostenere le idee che ci sembrano giuste. “Questa è una città dove può succedere di tutto”, diceva Tonino. Anche che, nonostante il vincolo, anzi, proprio per contrastare quel vincolo, e il revisionismo delle sue motivazioni, si rimetta nuovamente in discussione la via dei Fori Imperiali.
Corriere della sera
Soru compra le coste sarde: a Berlusconi le chiedo gratis
di Alberto Pinna
CAGLIARI — A Tom Barrack, proprietario della Costa Smeralda, lo ha già chiesto, con garbo: «Saremmo felici di accettare in donazione i terreni fra Cala di Volpe e Portisco». Renato Soru sentirà anche Silvio Berlusconi; spera di convincerlo a regalare Costa Turchese alla Regione. Di argomenti ne ha soprattutto uno; sui 2600 ettari a Razza di Juncu in Costa Smeralda e sui 450 della famiglia Berlusconi a sud di Olbia, dopo l'approvazione del piano paesaggistico regionale, non si può più costruire nulla. «Con i terreni dei privati e con quelli regionali e comunali — spiega il governatore della Sardegna — vorremmo far nascere un grande parco costiero pubblico, disponibile per sempre ad usi civici».
La Sardegna ha 1800 chilometri di litorali, la Regione possiede più di 20 mila ettari, direttamente o attraverso società controllate, oltre all'isola dell'Asinara. I Comuni ne hanno più di 60 mila, il solo Baunei (costa est, cala Luna, Sisine, Mariolu, Goloritzè) 20 mila. Barrack e Berlusconi sono gli imprenditori più noti, ma Soru si appella a tutti i proprietari e li invita a cedere gratuitamente i terreni alla Conservatoria delle coste, istituita nel 2005 per acquisire i siti di maggior pregio naturalistico, sull'esempio di quanto in Gran Bretagna fa il National Trust e in Francia il Conservatoire du Littoral.
E se Barrack, Berlusconi e gli altri proprietari rispondessero no alla donazione? Soru ha una proposta: la Regione è pronta ad acquistare pagando 2 euro e 22 centesimi al metro quadro, cioè al prezzo previsto per i terreni agricoli. E per i siti di particolare pregio anche a far scattare l'esproprio motivato — e sarebbe un caso con nessuno o pochissimi precedenti — da pubblica utilità per tutela ambientale. C'è chi ha già fatto i conti: i Berlusconi incasserebbero quasi 10 milioni di euro, Barrack e i suoi soci più di 55 milioni. Briciole in rapporto a quanto a suo tempo hanno speso per acquisto dei terreni, progettazioni e, soprattutto, alle attese di ricavi e utili. Fra gli altri imprenditori a rischio "donazione", acquisto o esproprio ci sono anche operatori sardi: Sergio Zuncheddu (costa sud est), le famiglie Molinas (Porto Rotondo e Marinella), Tamponi (Golfo Aranci e isola di Molara) e gruppi internazionali come la Palau Golf spa che avrebbe dovuto realizzare su 300 ettari di fronte all'isola di Caprera un grande campo di golf, alberghi e residenze.
Il centrodestra innalza barricate: i terreni costieri sui quali non si può costruire saranno facile preda di speculatori internazionali; potranno acquistarli per pochi euro e, passata la "tempesta Soru", aspettare che si modifichi il piano paesaggistico. «Inaudito, si vuole fare della Regione un'agenzia immobiliare — protesta Pier Giorgio Massidda, coordinatore di Forza Italia — e si torna agli espropri proletari». Settimo Nizzi, sindaco di Olbia, medico e amico di Berlusconi rincara: «È pura follia. E poi, dia l'esempio: perché non regala la sua villa sul mare e i suoi terreni alla Conservatoria delle coste?».
Renato Soru non si scompone: «Se i terreni sono quelli di Scivu (Sardegna sud ovest,
ndr), li ho acquistati ben prima di entrare in politica e comunque sono pronto a donarli alla Conservatoria. Quanto alle risorse, i soldi verranno dalla tassa su seconde case, imbarcazioni e aerei. Sì, la cosiddetta e tanto contestata tassa sul lusso: incasseremo più di 200 milioni di euro l'anno; e ne bastano 300 per comprare tutte le coste scampate al cemento».
La Nuova Sardegna
Il custode dei gioielli costieri. Troppi nemici, la Conservatoria non è ancora decollata
di Piero Mannironi
CAGLIARI. La filosofia che la ispira è simile a quella del Conservatoire du littoral francese e del National Trust inglese. E cioé, in estrema sintesi, un intelligente equilibrio nella gestione delle coste tra tutela e sfruttamento dolce dell’ambiente. La Conservatoria del litorale della Sardegna è uscita dal limbo delle buone intenzioni e ha cominciato a muovere i primi, incerti, passi. Ma la sua gestazione è stata finora lunga e difficile, anche perché sono state molte le resistenze politiche, anche in senso alla maggioranza, che hanno rallentato il cammino verso un’agenzia pensata soprattutto sul modello francese.
Nata ufficialmente il 9 marzo 2005 con una delibera della giunta regionale, la Conservatoria ha come obiettivo la gestione dei “gioielli” delle coste sarde. Attualmente vive in una sorta di animazione sospesa, tra due delibere della giunta (una che la istituisce e l’altra che definisce la fase di studio e organizzazione) e una legge per farla camminare che non è ancora nata. Insomma, per ora è come una costola amministrativa della giunta regionale, senza un’anima giuridica autonoma.
E che la Conservatoria abbia molti nemici lo si è visto la scorsa primavera, durante la discussione sul maxicollegato alla legge finanziaria. L’agenzia è stata infatti prima anemizzata in Commissione come disponibilità di risorse, approdando così in Consiglio solo come un’entità che ha a disposizione appena 500 mila euro per «studi e ricerche sulla valorizzazione delle coste».
Non è difficile intuire che dietro scetticismi e ostacoli politici si muovano ambienti imprenditoriali e finanziari che temono un ulteriore indebolimento di progetti speculativi fondati sul mattone. Una volta diventata adulta e messa a regime, infatti, la Conservatoria delle coste non solo avrà il compito di gestire i siti costieri di maggiore pregio ambientale che entreranno nel patrimonio regionale, ma anche il potere di acquisire terreni e immobili considerati degni di tutela.
Eppure l’esperienza francese, alla quale la giunta Soru si è ispirata, ha dimostrato che il modello può funzionare. Non solo, ma che il modello può essere perfino condiviso e difeso dalla gente e dalle amministrazioni locali. L’esempio più clamoroso è quello della vicina Corsica, dove il Conservatoire du littoral controlla ormai direttamente il 20% delle coste e, al termine di un programma di interventi in corso, arriverà addirittura a gestire il 40% dei litorali dell’Isola di Bellezza. Alla radice di questo consenso diffuso dei comuni, c’è il coinvolgimento diretto nella gestione del patrimonio. Forniscono infatti personale, ma anche progetti di sviluppo turistico sostenibile.
Il Conservatoire du littoral francese è un istituto pubblico sotto la tutela del ministro dell’Ecologia. Creato nel 1975, ha il compito statutario di garantire la «protezione definitiva di spazi naturali e paesaggisticamente rilevanti sulle coste marittime e lacustri», sulle foci dei fiumi e sui rioni periferici delle aree metropolitane rivierasche.
Al primo gennaio, il Conservatoire du littoral assicurava in Francia la protezione di 70.100 ettari di terreno, divisi su trecento siti. Il tutto per uno sviluppo costiero di oltre 800 chilometri. Alla fine del 2005 il ministro dell’Ecologia francese ha concesso un aumento del budget annuale dell’istituto, passato così da 30 a 38 milioni di euro. Il 75% di queste risorse è destinata all’acquisizione di aree e alla loro sistemazione.
Colpisce l’eseguità del personale del Conservatoire du littoral, ma, di contro colpisce anche la sua spaventosa efficienza. In tutto, tra la sede centrale di Parigi e le delegazioni regionali, si arriva a malappena a un centinaio di funzionari. Ma questa piccola équipe è, come dicono i francesi, «particulièrement performante». Solo alcune cifre per capire meglio: ogni anno questo minuscolo gruppo riesce a portare nel patrimonio del Conservatoire dai 2mila ai 3mila ettari, riuscendo a negoziare e a sottoscrivere un atto di acquisizione al giorno. Esiste poi un sistema di monitoraggio continuo, che viene affidato a 150 “guardie del litorale”, assunte tra le comunità locali. Ci sono infine circa 300 impiegati che curano l’amministrazione e i contratti.
Il sistema di tutela ambientale del Conservatoire si integra perfettamente con la Loi littoral. Una legge che, negli ultimi anni, alcuni autorevoli esponenti della maggioranza di destra stanno cercando di modificare (senza riuscirci) per allargare le maglie dei divieti. I cardini di questa norma sono: il divieto assoluto e inderogabile di costruire, in una fascia di rispetto di cento metri dalla battigia e la continuità urbanistica. Che cos’è questa continuità? Semplicemente questo: è possibile costruire sulla costa solo in aree contigue ai centri abitati esistenti.
Mentre la Conservatoria in Sardegna stenta a compiere i primi passi, l’idea della giunta Soru è invece guardata con grande attenzione da organismi internazionali come l’Unep (il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite). Tanto che, insieme al piano paesistico, il modello della Conservatoria è stato inserito nel Blue Plan, il dossier del Map (Piano d’azione per il Mediterraneo) dell’Unep.
Per il maltese Paul Mifsud, coordinatore del dossier, la Sardegna sta insomma diventando un modello da imitare in tutta l’area mediterranea, considerata ad altissimo rischio ambientale. Se infatti il trend non sarà invertito, entro il 2025 oltre il 50% dell coste mediterranee sarà cementificato.
“…Accumulazione capitalista da espropriazione è espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti. Tradizionalmente ci sono stati diritti che erano proprietà comune e uno dei modi in cui vengono espropriati questi diritti è attraverso la privatizzazione…” (David Harvey)
La legge sul governo del territorio della Regione Toscana (LR1/2005) afferma nel primo articolo al Capo I principi generali, che lo svolgimento delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio e “l’utilizzazione delle risorse territoriali ed ambientali deve avvenire garantendo la salvaguardia e il mantenimento dei beni comuni e l’uguaglianza di diritti all’uso e al godimento dei beni comuni, nel rispetto delle esigenze legate alla migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future”.
Viene quindi da chiedersi come pensa la Regione Toscana di garantire salvaguardia, mantenimento, uguaglianza all’uso e godimento dei beni comuni, in un regime di proprietà privata che da sempre ostacola ogni forma di pianificazione territoriale e urbana, che non sia succube della logica immobiliare, e limita la fruizione della maggior parte dei cittadini. Ma qui vogliamo trattare non del tema di rendere collettivo quello che è privato ma di fermare chi vuole privatizzare quello che è bene comune.
Infatti la proprietà privata dei suoli, da sempre grosso limite alla libertà (dei non immobiliaristi) nella fruizione del territorio, è stata attutita dal fatto che le amministrazione pubbliche ai vari livelli hanno ereditato dalla storia e talvolta hanno contribuito a mantenere un patrimonio pubblico di immobili sia nella aree urbane che nelle aree agricole forestali. Queste ultime molto cospicue in Toscana.
Ora avviene che la Giunta Regionale con la Decisione n.3 del 29/5/2006 “LR 27/12/2004 n.77 Demanio e Patrimonio Regione Toscana. Adozione schema di deliberazione della Giunta Regionale recante approvazione degli elenchi di cui all’articolo 20 della LR 77/2004 per l’invio preventivo al Consiglio Regionale previsto dalla LR 77/2004” abbia proposto una delibera che contiene un elenco di numerosi immobili da alienare con allarmanti motivazioni:“beni allegato D che si intende alienare in quanto non più necessari alle esigenze organizzative dell’ente, né strumentali ai fini dell’attività, né capaci di produrre conveniente reddito”. Che solo ciò che produce reddito abbia valore costituisce una affermazione di una gravità inaudita, che presuppone uno scadimento culturale e sociale che non verrà mai abbastanza denunciato. Da rilevare che non è la prima volta che la Regione agisce in questo modo e altre vendite simili sono già avvenute negli anni passati.
Si tratta di due elenchi. Il primo contiene ben 52 beni localizzati in tutte le province, molti dei quali sono alloggi. Fra di essi anche quelli dove si trova la “sede delle Regione Toscana da trasferire, di via Gustavo Modena 13/1 R”. Trasferimento previsto probabilmente in relazione al grosso affare Ligresti Fondiaria a Castello, in cui la Regione è riuscita a farsi fare un prezzo delle aree aumentato in base alla valorizzazione dovuta alla propria scelta di localizzazione dei propri uffici in un’area con gravi problemi idro –geo-morfologici, detto in modo più semplice è un’area esondabile e soggetta a subsidenza (vi ricordate i lavori al vicino aeroporto Vespucci di questa estate?). Una cosa è certa, anche senza ricorrere a dietrologia, appare chiaro e incontrovertibile che gli interessi collettivi non li sanno fare. Vista la carenza di abitazioni con prezzi “calmierati” perché non utilizzarle per questo? Spesso derivano da donazioni di persone che erano convinte di dare i propri beni perché fossero a beneficio di tutti e non perché finissero nel buco senza fondo di una privatizzazione di tutto quanto è pubblico.
Ma c’è anche il secondo elenco, l’allegato D paf (patrimonio agricolo forestale) e qui si tratta dell’alienazione di centinaia di appezzamenti agricoli, la gran parte dei quali appartenenti al demanio civico inalienabili, in quanto da sempre beni collettivi, aree che devono continuare ad esistere al di fuori dalla devastante e ignorante logica di “produrre reddito”. Anche per la loro importanza strutturale e funzionale dal punto di vista delle relazioni ecologiche, della biodiversità, della tutela delle acque, dei boschi, del suolo. Non tutte le attività producono reddito. Anzi, alcune come quelle culturali o ambientali vengono sminuite e distrutte dal reddito.
Ogni risorsa collettiva (bene comune) va conservata, protetta, consentendo gli usi che ne garantiscono la riproduzione e impedendo quelli che le distruggerebbero. Niente va venduto e privatizzato.
Se la proprietà pubblica ha garantito che nessuno realizzasse i soliti interventi distruttivi e degradanti ed escludenti, cosa capiterà se questi immobili (terre ed edifici)verranno venduti? Ci diranno che i proprietari hanno il diritto di costruire sempre e comunque? Quanti degli immobili a Firenze e in altre parti del territorio toscano rischiano di diventare l’ennesimo albergo? Quante colline e pianure ancora dovranno essere devastate da inutili e scadenti (ma molto redditizie) lottizzazioni? Quante aree agricole saranno ancora trasformate in campi da golf? Quante coste in porticcioli turistici o sedi di pericolosi e incoerenti impianti di rigassificazione offshore? Anche le coste e il mare che sono area demaniale rischiano la privatizzazione. Sarebbe questa l’eccellenza di cui parla la Regione? Il governo del territorio, deve garantire e incrementare il mantenimento dei beni comuni non come astrazione ma come concreta realtà. Sono aree necessarie anche ai fini della manutenzione del territorio, dei suoli e del sistema insediativo, della conservazione dinamica degli ecosistemi naturali e seminaturali, della tutela e dell’ incremento della biodiversità.
Come afferma Fabrizio Bertini del “Coordinamento dei comitati tosco liguri per la difesa dell’ambiente”: “Il regime della proprietà privata e i processi di espropriazione delle proprietà collettive, dei diritti di uso civico, dei beni in proprietà delle comunità locali, hanno avviato e accompagnato il passaggio – quasi sempre violento - da forme di produzione con al centro le esigenze primarie delle popolazioni insediate a forme di produzione con al centro le logiche del mercato e il profitto della classe dei proprietari privati. Questo è ciò che è sempre accaduto nella storia del capitalismo: dalle prime forme di accumulazione originaria alla attuale globalizzazione neoliberista”.
La Giunta Regionale Toscana, su proposta dell’assessore Bertolucci, (PCdI) ha approvato tutto il piano di vendita il 4 settembre con Delibera (DGR n.612 del 4/9/2006) “considerato che è decorso il termine ... e non sono state presentate osservazioni o proposte da parte del Consiglio Regionale " ai sensi della legge regionale 77/2004. Infatti questa legge prevede che "La proposta di deliberazione di cui al comma 1 è preventivamente inviata al Consiglio regionale. Nel termine di sessanta giorni dal ricevimento, il Consiglio regionale trasmette alla Giunta eventuali osservazioni e proposte".
Quindi, nonostante le sollecitazioni ricevute, nessuno in Consiglio regionale si è opposto (almeno per il momento) a questa ennesima alienazione di patrimonio pubblico.
Marvi Maggio (dell'International Network for Urban Research and Action)
Nella sfortunata ipotesi che non si riuscisse a costruire l'auditorium, sarebbe un danno per tutta l'Italia e la Campania. La magica Ravello sopravviverebbe, ma avrebbe perso un'occasione per essere all'altezza della sua storia e puntare su un futuro ancora migliore».
Parole di un ambientalista doc, Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente della commissione Ambiente della Camera. Realacci, ex presidente nazionale di Legambiente, è tra i firmatari del documento a sostegno dell'auditorium, e componente del Consiglio generale di indirizzo della Fondazione Ravello.
Sarà strano per un ambientalista trovarsi dall'altra parte della barricata? Lei a favore dell'auditorium, contro il Comune e un gruppo di intellettuali e ambientalisti.
«L'auditorium progettato da Oscar Niemeyer, stiamo parlando di uno dei più importanti architetti viventi - non è la stessa cosa del mostro del Fuenti o di Punta Perotti, contro i quali io e tanti altri ci siamo battuti per decenni. L'auditorium è un'opera delicata, un gioiello che si integra con il gioiello ambientale che è Ravello. Un progetto che ha la massima attenzione alla particolarità del territorio».
Allora, perché s'è scatenata tanta contrarietà?
«Essere ambientalisti non vuol dire essere contro tutta l'opera dell'uomo e pensare che nulla deve cambiare. L'Italia non sarebbe quella che è se nei secoli passati l'enorme fatica dell'uomo non avesse messo mano a Venezia o ai tanti borghi che ci sono nei parchi italiani, che sono un tesoro proprio perché hanno consentito alla natura e alle realizzazioni dell'uomo di convivere senza turbare gli equilibri che noi dobbiamo tutelare. Anche Ravello non sarebbe quel che è se l'uomo non si fosse integrato con la bellezza di Villa Cimbrone o Villa Rufolo. Certe opposizioni all'auditorium agitano problemi validi in altre sedi, infondati e con strumentalizzazioni retoriche assurde nel caso di Ravello».
È di queste ore il ricorso da parte del Comune contro il commissariamento. Lei perché dice opposizioni infondate se anche la nuova amministrazione è contraria?
«Non entro negli aspetti formali e giudiziari, non so che possibilità ha il ricorso del Comune di essere accolto dal Tribunale amministrativo regionale. Mi riferisco piuttosto alle opposizioni di chi lo fa nel nome di un ambientalismo che tale non è. Devo dire che in questi mesi ho più volte avuto occasione di constatare che tra chi contesta c'è chi non sa neppure dove viene realizzata l'opera, dimentica che si tratta di una struttura alta appena undici metri. C'è chi ignora che quella stessa area sarebbe stata destinata a parcheggio, pensate un po' che alternativa. Ricordo un dibattito radiofonico, il mio interlocutore dall'altra parte diceva che l'auditorium danneggiava la Penisola sorrentina mentre siamo sulla Costiera amalfitana. Insomma, è molto più facile impedire che le cose si facciano piuttosto che farle e controllare che si facciano senza toccare gli equilibri ambientali».
E lei è più che convinto che a Ravello si debba fare nonostante le opposizioni?
«È il peggiore di tutti l'ambientalismo che ritiene tutto immutabile e che la natura non possa essere in alcun modo toccata. Penso a Ravello e ricordo le tante polemiche sull'auditorium di Roma, gli attacchi che dovette subire l'allora sindaco Francesco Rutelli, anche se poi a inaugurarlo fu Walter Veltroni. Mi chiedo quanti, di quelli che si opposero, oggi avrebbero il coraggio di fare la stessa cosa alla luce della riuscita dell'opera sia dal punto di vista dell'architettura di qualità che di gestione. Insomma, dobbiamo combattere gli scempi, non si possono fare assurde battaglie contro i progetti che puntano al bello».
e dovesse prevalere la volontà di chi è contrario?
«Mi auguro proprio di no. Già si rischia di perdere le risorse disponibili per quest'opera particolare e importante per il futuro di Ravello. Io ricordo sempre le parole di Niemeyer, me le sono scritte e le porto con me: ciò che conta non è l'architettura, ma la vita, gli amici e questo mondo ingiusto che dobbiamo cambiare».
Postilla
Apprendiamo che ci sono legislatori per i quali la legittimità è un argomento così marginale da non essere neppure citato.
Un'ala sul mare è solitaria. Ondeggia come pallido rottame. E le sue penne, senza più legame, sparse tremano ad ogni soffio d'aria. … Chi la raccoglierà? Chi con più forte lega saprà rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo?[1]
Niente meglio delle parole, più “alate” che mai, del Vate per antonomasia, per introdurre questa dolente nota (un intero spartito, direi) di vicende padane. Niente di meglio: sia perché idealmente il poeta dall’alto del suo Vittoriale scruta l’immensa pianura dal Chiese al Mella; sia perché a Gabriele D’Annunzio è dedicato l’attuale aeroporto di Montichiari, una ventina di chilometri a sud di Brescia, nell’angolo fra la SS 236 Goitese e la trasversale di media pianura verso Orzinuovi-Crema-Pavia. Una pista, qualche edificio di servizio, una strada che ci passa davanti, e a ovest oltre una larga striscia di campagna altre piste e altri edifici, stavolta verniciati a chiazze marrone-mimetico: l’aeroporto militare di Ghedi. Spazi che sono saliti agli altari della cronaca solo occasionalmente, ad esempio quando un altro più moderno esperto parole alate, il sublime romanziere Aldo Busi, si è speso a favore dell’uso civile (prima del 2000 era militare) e modernizzazione dello scalo di Montichiari. Ma come ben sa chiunque si occupa di territorio, la calma più appare piatta più è foriera di rapidi sommovimenti. O, per usare le parole del Vate, di chi vuole “ con più forte lega … rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo”. E figuriamoci quanto è salda la lega, quando ha pure la “L” maiuscola!
Del resto il ricongiungimento da queste parti è fatto quasi naturale e spontaneo. Lo osservava già alla fine degli anni ’60 l’ingegner Matteo Maternini, come la striscia più o meno continua di pianura immediatamente a sud degli sbocchi di valle alpini, con la sua forte e consolidata urbanizzazione e infrastrutturazione, presentasse caratteristiche di potenziale nucleo portante, corridoio di mobilità, in tutto e per tutto assimilabile all’allora emergente modello megalopolitano “ Bos-Wash”. E la pianura a sud di Brescia, è contigua a quella a sud di Bergamo, e prima di quella a sud di Verona … beh, avete indovinato: ai giorni nostri questa cosa si chiama istituzionalmente Corridoio Europeo 5.
Contemporaneamente alle ricerche del professor Maternini, e a quanto pare ignorandone in buona o mala fede il portato, si sviluppavano studi e opere per la conversione di altro aeroporto militare a civile, e successivamente a Hub internazionale. E anche qui avete ovviamente indovinato: sull’alta pianura varesina, parallelamente al corso dell’azzurro Ticino, iniziavano a rombare sulle teste dei residenti i primi Caravelle e DC8 di Malpensa. Il problema era duplice. Da un lato i nuclei abitati in relativa crescita che circondavano l’area di sviluppo dello scalo e delle reti di accesso. Dall’altro la nuova coscienza ambientalista e di partecipazione che faceva nascere (accidenti a loro!) proprio attorno alle piste una delle più interessanti esperienze di parco naturale regionale in area ad alta urbanizzazione d’Europa. Insomma una bella rogna per “ ritentare il folle volo”. Senza contare che, nella prospettiva di una integrazione dei sistemi aeroportuali col resto delle grandi reti di trasporto, Malpensa si colloca decisamente fuori da qualunque stiracchiamento del corridoio padano. E concludo questo lungo preludio con una bella e lunga citazione:
“ Significative sono le risultanze di (quasi) recenti studi che individuerebbero il futuro padano del trasporto aereo intercontinentale in Montichiari, presso Brescia. È questa una imponente infrastruttura militare da poco dismessa, integrabile con quella adiacente di Ghedi, in fase di dismissione. Le aree disponibili sono enormi. Pure enormi sono le aree adiacenti libere da costruzioni, da sempre salvaguardate dal vincolo militare. La localizzazione nel baricentro del corridoio padano (e proprio su una direttrice dell’alta velocità ferroviaria) è ottimale. Qui potrebbe, insomma, essere localizzato quanto in futuro necessario nell’area padana e non ulteriormente localizzabile in Malpensa. O addirittura: anche quanto già è (e sarà) in Malpensa, ma con inconvenienti, potrà proficuamente trovar miglior posto qui. Ma questa è un’altra storia.”[2]
Già, un’altra storia.
Una storia che vede improvvisamente incrociarsi qui, tra i campi a mezza strada fra le Prealpi e le basse di pianura fa le anse dei corsi d’acqua, tutti i flussi di interessi che prendono via via il nome di alta capacità ferroviaria, corridoi e opere autostradali varie (Bre.Be.Mi; Ti-Bre; Cremona Mantova) più cose “locali” che vanno dalla connessa stazione ferroviaria Montichiari (intermedia fra Lisbona e Kiev, no?), ad altri collegamenti metropolitani e ferroviari minori, al completamento della “Corda Molle” provinciale 19 (il bypass metropolitano meridionale di Brescia), agli insediamenti della logistica, dei servizi aeroportuali diretti e di quelli che il mitico “mercato” si trascina appresso. Ovvero commercio, intrattenimento (a partire dal nuovo complesso dello stadio bresciano), servizi vari. E questo per fermarsi solo al nucleo centrale aeroportuale e linee di alimentazione e deflusso principali. Ci sarebbero poi gli effetti indotti, ma per ora lasciamo perdere.
Per capire le dimensioni e la potenza di questo magnete insediativo, basta riassumere brevemente l’idea di scalo: prima potenziare e riorganizzare quello esistente, poi realizzare una seconda pista parallela, poi su tempi più lunghi (ma si tratta di lustri, non di secoli) gestire la dismissione pianificata dello scalo militare di Ghedi e procedere a un riuso anche di quelle piste. Previsione a tempi medi di potenzialità passeggeri, attorno ai 10 milioni l’anno. Su quelli lunghi anche 20 milioni.
Non si tratta di speculazioni teoriche. I convegni coi sociofagi che urlano da un palco l’ineluttabilità dello sviluppo locale a colpi di metri cubi e strisce d’asfalto li hanno già fatti e archiviati. Lo Schema di Piano d’Area per l’Aeroporto Gabriele D’Annunzio di Montichiari è pubblicato da qualche settimana, e racconta esattamente queste cose.
Scorrendolo, il Piano d’Area (che come estensione diretta riguarda un piccolo spicchio di pianura padana comprendente tre ancor più piccoli comuni), in particolare si scoprono gli “scenari”, il grande respiro territoriale che ci sballotterà da una parte all’altra nel futuro prossimo e sino all’ineluttabile serena vecchiaia.
C’è il breve termine, ovvero i prossimi cinque anni che dovrebbero vedere completato il bypass metropolitano della Corda Molle, raccordata alla “direttissima Brescia-Milano”. Se queste sono considerate opere completate, la pianura secondo il documento dovrebbe anche essere già solcata dalle terre smosse dei cantieri della Cremona-Mantova, e “ la cosiddetta TIBRE che collegherà Parma con Nogarole Rocca”.
Nel medio termine, dei dieci anni, già sfreccia nelle ex campagne, verso il pedecollina di Castenedolo, la Lisbona-Kiev, con la sua bella stazione che “ caratterizzerà lo scalo di Montichiari rendendolo complementare a quello di Malpensa”. Col nuovo treno siamo a mezz’ora da Milano e a un’ora da Venezia. I passeggeri sono dieci milioni l’anno (nel 2005 ne ha gestiti 400.000), ma per fortuna si può comodamente “ effettuare il check-in di accesso all’aeroporto anche presso la stazione AC/AV”. Nel frattempo è anche cresciuta moltissimo, in termini di merci movimentate e di dimensione dei servizi a terra e insediamenti complementari, l’attività logistica.
Infine, nel lungo termine (solo del primo ciclo di sviluppo, neh?), fino a vent’anni, costruzione della seconda pista e assunzione del ruolo di potenziale “ secondo Hub regionale” sino a incorporare il modernizzato e demilitarizzato aeroporto di Ghedi. Il tutto in “collegamento ferroviario metropolitano con il sistema urbano di Brescia” [3], il che implicitamente significa, pur con tutte le cautele e corridoi di rispetto del caso, una sostanziale saldatura almeno fra la linea della trasversale di pianura e il pedemonte metropolitano, in un unico sistema ad urbanizzazione compatta. Cosa che suonerebbe superficialmente gioiosa per chi si oppone da sempre alla proliferazione dello sprawl padano, ma che ad un solo sguardo appena più ravvicinato appare inquietante, almeno rispetto allo scenario attuale.
Concludo questa brevissima rassegna dei cicli di sviluppo dell’aeroporto e del suo contesto osservando marginalmente che tutto si svolge sull’arco di vent’anni: circa la metà dell’intero arco di crescita (e devastazione locale) che ha portato Malpensa dallo stadio di pista appena demilitarizzata immersa nei boschi di fianco al Ticino, a quello che più o meno conosciamo tutti, e che continua tuttora a trasformarsi, ad esempio col nuovo raccordo di tipo autostradale da decine di chilometri (e relativi svincoli, bretelle, varianti …) verso le tangenziali di Milano, la A4 e la Padana Superiore, o con la crescita qui e là di grumi di scatoloni che inalberano il vessillo di Malpensa seguito o preceduto da specifiche varie, tipo “polo fieristico”, “nucleo direzionale” “parco qualcos’altro” ecc. Un futuro che evidentemente molti friggono dalla voglia di veder replicato nella pianura bresciana.
Forse i promotori di tutto questo popò di materiali e flussi, che siano legaioli, berluschi, riformisti o riformati, non si sono mai fatti un giro ad esempio nell’alta pianura vercellese o biellese. A vedere come è facile, con molto meno (“solo” la linea AV/AC e adeguamenti di contorno) letteralmente ribaltare un paesaggio e un assetto territoriale. O forse sì, ci sono stati e gli piace moltissimo quella collana di scatoloni sparsi, svincoli degni di un fumetto alla Flash Gordon per collegare due estremità di strada poderale sui lati opposti del corridoio, perversi appetiti locali scatenati, come l’idea di “Autodromo Nazionale di Buronzo” (sic). È certo comunque che qui sulle sponde del Chiese, appena a sud del famoso quartiere nazionalpopolare di San Polo a Brescia, tutti si aspettano sfracelli dal punto di vista della crescita economica, con la creazione di decine e decine di migliaia di posti di lavoro, naturalmente con relativa creazione di spazi e contenitori. Significativo il titolo di un articolo sulla stampa locale all’epoca della prima discussione del Piano d’Area all’inizio di quest’anno: “Nella Fascia d’Oro il nuovo Eldorado della Lombardia”.[4]
Fascia d’Oro è tra l’altro il nome dell’attuale zona industriale a cavallo della Statale 236 Goitese, una striscia continua di corsie complanari larga parecchie decine di metri, e che si sviluppa quasi senza soluzione di continuità dai margini orientali del sistema autostradale-tangenziale di Brescia, fino all’ingresso dell’abitato e alla Fiera di Montichiari. Naturalmente il paesaggio lunare (consiglio di percorrerlo a piedi o in bicicletta in un pomeriggio di agosto, magari ascoltandosi in cuffia Paris Texas di Ry Cooder) si completa con gli scatoloni precompressi, le trasversali a cul-de-sac, e infine i mucchi di ghiaia delle cave, che qui abbondano. Magari un Eldorado per chi ci investe, sicuramente non per chi sta tutto il giorno da quelle parti, e che appare potenzialmente peggiore, forse perché più “pianificato”, del suo omologo un centinaio di chilometri più a ovest: la superstrada 336 Autolaghi-Malpensa. E se dobbiamo dar retta alle aspettative degli sviluppisti locali, certamente qui dobbiamo aspettarci qualcosa che sarà “ Altro che Malpensa!”. [5]
E se è vero che proprio il Piano d’Area ha come scopo fondamentale il coordinamento degli interventi e scelte ai fini di un miglior assetto del territorio, quando si arriva alle prospettive di sviluppo economico le indicazioni sembrano orientate soprattutto a tutelare l’ambito dell’Hub, e soltanto quello [6], anche nella prospettiva (come più di uno lascia intendere almeno sulla stampa) di un “sorpasso” dello scalo di Montichiari rispetto a Malpensa, ridimensionata sui tempi lunghi al ruolo di “ Virtual Hub” [7].
Virtualità naturalmente relativa, che secondo gli esegeti dell’Eldorado si declina soprattutto a colpi di concretissimi movimenti terra, pose cementizie, catramose colate. E lascerei perdere per il momento le preoccupazioni di “medio termine” per il prolungarsi del serpentone modello Fascia d’Oro giù per la 236 Goitese fino a saldarsi alla zona industriale di Mantova; o di traverso in direzione della 235 Orzinuovi-Lombardia Occidentale, dove già iniziano ad affollarsi – ignorati altezzosamente dalla Relazione del Piano – tutti i segni dello sviluppo commercial-industriale a nastro. Per non parlare delle futuribili Bre.Be.Mi. e correlato bypass Corda Molle …
Lasciando perdere appunto anche tutto questo, si può restare anche soltanto a scavare un po’ il futuro della piana lì sotto la collina di Castenedolo, praticamente appena sbucati dal budello del centro storico ed ex tracciato della statale per Mantova. Tanto per cominciare, c’è la stazione AV/AC con annessi e connessi, per scendere, sgranchirsi le gambe e fare pipì nella lunga traversata Lisbona-Kiev, se proprio non si vuole prendere l’aereo. Poi come ha spiegato l’assessore leghista Aristide Peli « Nell’area dell’aeroporto sono compatibili delle attività commerciali. Gli oneri di urbanizzazione che saranno versati non dovranno necessariamente ricadere nel Comune che ospiterà le attività commerciali, ma dovranno andare a beneficio dell’intera area. È una delle novità più importanti, una sperimentazione a livello regionale» [8].
Messi così tutti d’accordo sulla distribuzione degli “onori”, si può procedere all’elenco degli oneri, che ad esempio comportano l’insediamento da qualche parte e coordinato con quello stradale, ferroviario, aeroportuale, del nuovo “Stadio di Brescia”. Virgolette di rigore, perché come ormai tutto quanto anche il pallone deve avere la sua bella appendice (e che appendice) turistica, commerciale, di accoglienza, a partire dal nome: Stadium Global Center; e dalla “location”, che come ci spiegano nel sito dello studio global consulting responsabile, è per filo e per segno identica a quella aeroportuale i quanto ad inserimento nella rete infrastrutturale, da quella locale in su [9].
I numeri: lo stadio, fatalmente “uno degli impianti da gioco più moderni d'Europa” può ospitare 25-30.000 persone, e 5.500 posti auto; per lo shopping e servizi vari “un edificio con una pianta di 70.000mq articolato su due piani”, con ad esempio 12.000 mq di ipermercato, una multisala e dei misteriosi “bar tematici”; l’albergo si riassume in 12.000 mq, 200 camere, 500 posti auto, e non è finita; c’è pure un’area direzionale con un complesso su circa 35.000 mq, 5.000 (!) posti auto, e “uffici intelligenti collegati con la banda larga”. Intelligenza e banda larga che evidentemente non servono allo scopo principale, di tenere a distanza almeno qualcuna delle auto previste. E se vi pare già troppo, “ vi sono altre idee nel cassetto. Ad esempio una facoltà universitaria destinata al Food & Beverage e un eventuale centro servizi per l'intermodalità logistica” [10].
E mi fermo per ora a questa fantomatica facoltà universitaria Food & Beverage, che da sola farebbe esclamare, a proposito di tutta l’operazione Montichiari: Hub? Burp! Del resto in linea con la scorpacciata di metri quadri e cubi di cui sommariamente fatto cenno nei paragrafi precedenti.
Resta una modesta domanda: e Malpensa? Quella desolazione di erbacce, scatoloni e cantieri eterni a cui è stata ridotta una fetta considerevole di Parco Ticino, serviva e servirà davvero a qualcosa?
Mah!
Se non altro, sarà servita a mettere in guardia preventivamente contro il manifesto destino della crescita coatta, a colpi di inestricabili tabelle, dietro cui stanno sempre ben nascosti i committenti.
Alla prossima puntata. Altro che That’s all Folks!
Una postilla di Maria Pia Guermandi
Alla prima lettura di questo intervento, la sensazione immediata è stata di sconcerto. Stiamo parlando di un'opera che con annessi e connessi (reti ferroviarie e metropolitane, insediamenti logistici, ecc.) è destinata a cambiare il volto di una bella fetta della Padania centro orientale in tempi tutto sommato accelerati e non ne sappiamo quasi nulla. Conosciamo persino i gusti alimentari di ogni valligiano che in Val di Susa ha preso parte alla lotta dei NO TAV e di quello che sta per succedere nel triangolo Bergamo - Brescia - Verona siamo tenuti all'oscuro. Soprattutto oscure appaiono le ragioni strutturali che presiedono ad una scelta che appare in netta controtendenza con l'affannoso sciupio di risorse - economiche - logistiche - politiche - rovesciato sull'Hub di Malpensa, considerato fino a ieri operazione di prima necessità. Poi ho letto gli articoli su Vema, la futuribile città ideale ed ecco chiarito il mistero: con perfetta prevenzione stanno già costruendo le infrastrutture per la città del futuro: quando si dice avere l'occhio avanti...(m.p.g.)
(dopo le note bibliografiche, un PDF scaricabile di questo articolo con qualche illustrazione; è disponibile anche una Galleria di foto dell'area attorno agli aeroporti)
[1] Gabriele D’Annunzio, L’Ala sul Mare (Alcyone), strofa prima e terza.
[2] Roberto Busi, Giovanna Fossa, “Il piano d'area di Malpensa. Nodo hub tra parco e conurbazione”, Area Vasta, n. 6-7 2003
[3] Informazioni e citazioni da: Provincia di Brescia, Settore Assetto Territoriale, Parchi, V.I.A, Schema di Piano d’Area dell’Aeroporto G. D’Annunzio di Montichiari, in adempimento della delega funzionale dalla Regione Lombardia alla Provincia di Brescia, 2006, Relazione, 3. Quadro Progettuale, pp. 65-67
[4] Articolo firmato Zana, pubblicato dal Giornale di Brescia il 10 gennaio 2006, sottotitolo: “Dalla vocazione agricola allo sviluppo commerciale”. Dove si sottolinea tra l’altro entusiasticamente che “ Parliamo di un’area preziosa come il platino, stabilito che essa ruota attorno ad un aeroporto destinato a diventare un hub da 10 milioni di passeggeri, immaginando la possibilità di una seconda pista di decollo, a tempi medi e lunghi, una volta recuperata una parte del patrimonio delle piste di Ghedi. Un’area di assoluto valore socio-economico, attraversata dall’Alta Velocità della Lione-Kiev, Corridoio 5, con stazione a Castenedolo, dalla corda molle, come è definita la strada provinciale 19, da Concesio a Castenedolo con entrata nel casello di Brescia Est, prevedendo gli innesti Brebemi e autostrada Valtrompia.
Un punto, cioè, in cui tutto convergerà e da cui tutto si sgancerà. Un’area, la cui fortuna viene determinata da quel capolavoro di piattezza, che è storicamente la brughiera, ieri secca e desolata, oggi appetita da mille finanze”.
[5] È la conclusione, a suo modo ragionevole e documentata, di un lungo intervento del dicembre 2005 sul noto bloghttp://skyscrapercity.com L’articolo, presumibilmente ripreso da un comunicato della Provincia, elenca in sommario: Importante passo avanti per il raccordo autostradale tra il casello di Ospitaletto (A4), quello nuovo di Poncarale (A21) e l’aeroporto di Montichiari; Corda Molle, ok del Cipe al progetto definitivo; Un’opera da 296 milioni di euro strategica per la viabilità bresciana.
[6] “La prospettiva della speculazione immobiliare induce a sottolineare un secondo aspetto, che la Pubblica Amministrazione deve adeguatamente considerare nel suo sforzo di salvaguardare l’integrità del sedime. Si dovrebbe, infatti, rafforzare il più possibile l’efficacia degli strumenti urbanistici attualmente in vigore”. Provincia di Brescia, cit., Relazione sull’impatto socio-economico dell’insediamento aeroportuale di Montichiari sul sistema produttivo provinciale; La salvaguardia del sedime nella sua dimensione più ampia possibile, p. 197
[7] Per il ruolo di Montichiari come “Virtual Hub” di Malpensa, è stato osservato tra l’altro che “Brescia Montichiari airport has a high developing potential. Due to the vicinity to Ghedi airport, it could develop into a hub with two parallel, 3 km apart, 3 km long runways, thanks to the low population density in the area … a future Montichiari-Ghedi airport could manage major airlines intercontinental traffic. The high speed rail link between Milano and Verona could widen the area serviced”. Renato Picardi, “The Virtual Hub”, Economic Research Center, Round Table 126: Airports and Multimodal Interchange Nodes, 2003 (PDF), p. 29; sulla complementarità Montichiari/ Malpensa, ancora, si ritiene “indispensabile definire una oculata strategia di medio-lungo periodo (2010) … attraverso una lungimirante scelta di sviluppo di un hub secondario con funzioni complementari a Malpensa, oggi esclusivamente individuabile nell’aeroporto di Montichiari che detiene caratteristiche tecniche ed ambientali-territoriali uniche per l’intera Lombardia”, Roberto Zucchetti, Sintesi dello Studio sul Sistema Aeroportuale Lombardo, sulla Rete degli Aeroporti Minori e sui Servizi di Elitrasporto, IReR, Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia, Milano, maggio 2001, p. 8.
[8] Massimo Tedeschi, “Montichiari, avanti … il piano”, Bresciaoggi, 14 gennaio 2006.
[9] Le informazioni sul progetto Stadium Global Center, salvo indicazione diversa, sono desunte dal sito della B. Consulting http://www.bconsulting.it
[10] Alessandro Cheula, “Castenedolo: Un Centro di terza generazione: lo Stadium Global Center”, articolo comparso nel gennaio 2006 sui siti http://www.europaconcorsi.com e http://skyscrapercity.com
RAVELLO e non solo. Sotto la guida del presidente della quarta commissione, Pasquale Sommese della Margherita, il Consiglio regionale piazza di fatto un altolà alla giunta sulla intera questione urbanistica. La commissione consiliare, riunita ieri, ha infatti approvato all´unanimità la proposta di presentare una mozione in Consiglio, già nella seduta del 13 settembre, per discutere dei contratti di programma e delle conferenze dei servizi che procedono in deroga ai piani urbanistici territoriali. La proposta è stata avanzata da An, ma è stata fatta subito propria dallo stesso Sommese, che da tempo lancia l´allarme sul fatto che molti progetti e finanziamenti - dai porti agli insediamenti turistici e produttivi nell´area della Tess - rischiano il blocco, con conseguente perdita dei fondi europei, per la mancata conformità ai Put.
È la stessa casistica della polemica sull´auditorium di Ravello, da cui infatti è nata l´intera questione. «Il caso-Ravello – spiega Sommese – è solo la punta di un iceberg rispetto ai tanti progetti, anche di grande rilevanza sociale e occupazionale, che ricadono in aree vincolate sul piano paesaggistico-ambientale». La mossa di ieri punta a convincere la giunta a venire in aula per ridisegnare gli strumenti urbanistici, piuttosto che puntare a procedure che li scavalchino. Richiesta condivisa da molti gruppi. Non solo An, che si schiera anche col sindaco diessino di Ravello, Paolo Imperato, contro la Regione che gli ha mandato un commissario ad acta per l´auditorium, vicenda sulla quale Salvatore Gagliano proporrà una interrogazione nel "question time" del 13 prossimo. Anche Gerardo Rosania (Prc) critica il commissariamento di Ravello. Fausto Corace dello Sdi chiede che il tema vada in Consiglio. Intanto il Consiglio generale d´indirizzo della Fondazione Ravello ha confermato Domenico De Masi alla guida dell´ente, mentre sono stati nominati nel Cda Ciro Castaldo (Provincia di Salerno), Lauro Mariani (Fondazione Monte dei Paschi di Siena) e Mario Rusciano (Regione). Mancano tuttavia i rappresentanti del Comune.
(r.f.)
Postilla
Non vorremmo proprio che il programma fosse quello di modificare i presenti atti di pianificazione (il Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentino-Amalfitana) per consentire di rendere legittimi progetti in contrasto con la tutela, certo perfettibile, garantita da quello strumento! Ma le scarne informazioni della nota qui riportata lasciano temere che la direzione di marcia sia proprio quella. Troppe volte abbiamo visto e vediamo, soprattutto nel Mezzogiorno (ma non solo qui) addurre la “grande rilevanza sociale e occupazionale” adoperati come grimaldelli (anzi, come piedi di porco) per scardinare la grande risorsa del mezzogiorno (e dell’Italia), costituita dalle residue qualità del suo territorio.
Se fosse come temiamo, se l’intenzione fosse quella di allentare i “vincoli” sul territorio, allora si dovrebbe ricordare, tra l’altro, che gran parte della penisola campana è qualificata Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, e che questa qualifica – che a suo tempo fu ottenuta con qualche difficoltà e qualche limitazione - può essere persa.
Sulla querelle del sì del ministro Rutelli al trasferimento del «Cristo morto» di Mantegna dalla Pinacoteca di Brera alla mostra di Mantova organizzata da Vittorio Sgarbi, pubblichiamo la lettera aperta a «un ministro, a un assessore e ai loro variopinti cortei» firmata dai funzionari storici dell'arte della Pinacoteca. La lista aggiornata delle adesioni si può consultare su www.patrimoniosos.it.
Il Cristo Morto di Mantegna andrà a Mantova. E non per una autonoma decisione - discutibile ma legittima - di un ministro intimidito, o irritato, dall'onda montante di polemiche sempre più roboanti, ma a seguito di un teatrino vergognoso che lascia sul terreno, oltre che la dignità di tante persone, alcuni fondamentali principi non solo della tutela ma della cultura. Perciò noi, «i funzionari che mentono al loro ministro» (Sgarbi, Corsera 27 agosto), che abbiamo condiviso con la direttrice della Pinacoteca le ragioni del no al prestito, che siamo stati i grandi assenti in questo coro di interviste dove i più variegati esperti hanno espresso giudizi incisivi ma non sempre informati dobbiamo spiegare il perché di una posizione che continuiamo a ritenere corretta.
Naturalmente, per non deludere le aspettative, iniziamo con un argomento squisitamente da burocrati.
L'articolo 48 della legge che siamo chiamati a far rispettare (ma, evidentemente, non siamo tenuti a rispettare noi stessi e meno che mai vi paiono tenuti gli assessori comunali, o i presidenti di comitati...) riguarda mostre ed esposizioni e al comma 3 recita «L'autorizzazione è rilasciata tenendo conto delle esigenze di conservazione dei beni (cosa ben diversa dallo stato di conservazione) e, per quelli appartenenti allo Stato, anche delle esigenze di fruizione pubblica...». Un soprintendente dunque si esprime sui prestiti tenendo conto di entrambi questi due elementi. Ciò è avvenuto per il Cristo Morto nel novembre 2005. Spiace che i nostri interlocutori non abbiano il tempo per leggere con attenzione la corrispondenza: nella lettera allora inviata in risposta alla richiesta del comitato organizzatore è contenuto un fermo diniego che non poggia sullo stato di conservazione del dipinto tanto dibattuto sui giornali. La tela forse non sta «da Dio», come sostiene il nostro assessore, ma non ha problemi immediati di conservazione. Altrimenti non sarebbe esposta nelle sale di Brera o sarebbe stata restaurata, come quasi tutti gli altri dipinti presenti nel museo. Ma è un'opera estremamente delicata e come tale è stata definita nella lettera. Si tratta di una tempera a colla, tecnica per la quale Mantegna utilizzava tele molto sottili, prive di preparazione, sulle quali stendeva una impalpabile pellicola pittorica non protetta da una vernice finale. Tale tecnica ne detta insieme le caratteristiche estetiche (colori polverosi, intonazione cupa..) e la delicatezza strutturale, che si concretizza nella tendenza del colore a sfarinarsi ed a cadere. Qualsiasi restauro ambisse a risolvere tale problema finirebbe probabilmente per alterare le caratteristiche materiali dell'opera. E perciò anche il suo aspetto.
Mantegna amò e utilizzò molto tale tecnica ma, oltre al Cristo Morto, solo altre quattro tele sono passate attraverso cinque secoli senza subire restauri snaturanti: la sua è dunque una delicatezza e una unicità che vanno preservate perché fanno parte integrante dello statuto specialissimo delle opere d'arte che non sono pura immagine, ma documenti storici in sé, con la loro consistenza fisica e i loro materiali. Siamo perciò certi che nessun tecnico responsabile, storico dell'arte o restauratore che sia - e tutte le valutazioni effettuate sul dipinto lo confermano - potrà negare i rischi connessi a questa specifica tecnica. E se li tacerà o li ignorerà si renderà colpevole del vecchio, obsoleto peccato di omissione, che sarà vecchio e obsoleto ma peccato resta. Nessun medico sensato autorizza un novantenne, seppure in buona salute a salire sull'Himalaya. E nessuna compagnia di volo accetta a bordo donne all'ottavo mese di gravidanza. Perché ci sono dei rischi. Noi ci riteniamo controllori di volo responsabili.
La stessa lettera però puntava su di un altro, decisivo argomento, e cioè l'importanza dell'opera per il museo. Non solo per le aspettative del pubblico, interessato a un numero ristretto di capolavori tra i quali si conta anche il Cristo Morto, ma anche per il ruolo che quest'opera gioca in una sala che dà conto della dialettica tra Mantegna e Bellini. Un museo è strumento complesso di conoscenza, dal quale non si possono togliere indiscriminatamente dei pezzi senza produrre vuoti di senso o salti di ragionamento. In altre parole senza danneggiarlo come strumento di cultura.
Il teatrino messo in piedi in questa occasione, la perizia che dice la verità, la decisione mutata sono però atti gravissimi anche per questioni di ordine generale, che vanno oltre il caso specifico del Cristo Morto. Pensiamo ad esempio al prevalere delle logiche «culturali» della mostra (ci sono rimaste nel cuore le motivazioni addotte dall'assessore che invocava il dipinto in quanto «icona pop che richiama centinaia di migliaia di visitatori») sul museo, ridotto a puro serbatoio per aumentare un circuito di affari che finisce naturalmente per penalizzarlo. Brera potrà anche avere un pubblico potenziale di 15 milioni di visitatori, ma difficilmente supererà i 250mila attuali se le sue opere più amate andranno costantemente in tournée a tutto vantaggio economico degli organizzatori di mostre.
Pensiamo anche al primato che si attribuisce, spesso in modo puramente strumentale, a un tecnicismo asettico, fondato solo sul dato «oggettivo» della relazione tecnica, che solleva il funzionario, o il politico di turno dal dovere, soprattutto etico, di una scelta ragionata sul futuro dei beni che gli sono affidati. Ma non basta. In questi giorni si è screditato senza appello e senza prove l'operato di un ufficio e di conseguenza di tutti gli uffici preposti alla tutela, che questa normativa sono chiamati ad applicare nei confronti di interlocutori meno potenti, e si è compiuto così un ulteriore passo avanti nel sistematico svuotamento di senso dei soprintendenti e delle soprintendenze, messe sotto tutela nelle decisioni con risonanza mediatica, salvo essere poi mandate sole in trincea nella faticosa gestione del quotidiano. In questo stesso senso va l'annunciata decisione di istituire una commissione di esperti per decidere sui prestiti, che per ora assomiglia a un doppione di qualcosa che esiste già, il Comitato tecnico scientifico composto da soprintendenti ed esperti esterni e interni, chiamato a decidere anche sui prestiti importanti. In specifico, paradossalmente, sul caso opposto del soprintendente scriteriato che presta con leggerezza i capolavori del museo a lui affidato. Ma ci chiediamo, e lo chiediamo ai nostri interlocutori, di fare con schiettezza i conti del dare e dell'avere, e di quanto la «pubblica utilità» sia stata accresciuta da quanto avvenuto.
Sandrina Bandiera, Raffaella Bentivoglio, Matteo Ceriana, Simonetta Coppa Emanuela Daffra, Cecilia Ghibaudi, Letizia Lodi, Valentina Maderna, Isabella Marelli, Amalia Pacia, Ede Palmieri, Cristina Quattrini, Paola Strada, Sandra Sicoli, Andrea Carini, Sara Scatragli - Soprintendenza per il Patrimonio storico Artistico ed Etnoantropologico, Pinacoteca di Brera.
Di Antonio Cederna – uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, che fu archeologo e critico d'arte, poi soprattutto straordinario giornalista e ancora consigliere comunale di Roma e parlamentare – mi pare importante, su queste pagine, ricordare soprattutto l’impegno a favore del progetto Fori, la più affascinante idea per l’urbanistica romana dopo l’unità d’Italia. Il suo contributo non fu solo di metodo, di critica o di informazione. Cederna fu anche concretamente operativo. L'immagine che aveva della Roma del terzo millennio, l'ha descritta più volte, ma il testo nel quale quell'immagine è sviluppata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand'era deputato indipendente del Pci. La relazione alla proposta di legge è una delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna. Cederna riprende un’impostazione del piano regolatore del 1962, un piano per molti versi indifendibile, fondato però su una spettacolare idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna. Lì dovevano trasferirsi i ministeri e le altre attività terziarie, liberando il centro dalle oltraggiose condizioni di congestione e d’inquinamento in cui viveva (e continua a vivere). L’operazione volta alla formazione di un nuovo centro cittadino assunse il nome di Sdo (Sistema direzionale orientale) ed è stata a lungo oggetto di studi e di proposte.
Per lo Sdo Cederna propose la soluzione che fu definita “a saldo zero”: i ministeri spostati dalle aree centrali e trasferiti non dovevano essere sostituiti da altre funzioni con un analogo carico urbanistico. Si dovevano invece formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e ampie zone pedonali, con la valorizzazione delle aree archeologiche. “Basti pensare – scrisse Cederna – allo sgraziato salto di quota che separa la Via Cernaia dal piano degli scavi delle terme di Diocleziano, frutto della sommaria sistemazione della zona dopo l'edificazione del ministero delle Finanze". L’operazione Sdo diventava in tal modo una parte del progetto Fori. Che non era solo un’operazione di archeologia urbana. L’archeologia era il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma, e in questo senso era complementare allo Sdo. Il progetto, inizialmente elaborato dal soprintendente Adriano La Regina, prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. Allora, Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana.
Il progetto per il ripristino dei Fori e dell’area archeologica centrale fu sostenuto dal sindaco Luigi Petroselli con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti. Anzi, “il grigio funzionario di partito” venuto dalla gavetta di Viterbo diventò, insieme a Cederna, il protagonista del progetto Fori. L’idea della storia collocata al centro della città, sotto forma di vertice intra moenia del parco dell’Appia Antica – una grande pausa, dal Campidoglio ai Castelli Romani in una conurbazione senza fine e senza qualità – raccolse vasti e qualificati consensi. Favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Con determinazione e rapidità inusitate, Petroselli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto provvedendo all’eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e all’unione del Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò allora la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio.
E’ forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea, ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli (è passato un quarto di secolo e dobbiamo commemorare anche lui). Dopo tre lustri di abbandono, furono ripresi gli scavi ai lati della via dei Fori ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma la chiusura definitiva della strada alle automobili è stata continuamente rinviata. Eppure non è vero che l’eliminazione della via dei Fori determinerebbe insostenibili problemi di traffico. E’ vero il contrario. La chiusura, a Napoli, di piazza del Plebiscito – esperienza che fu pensata assumendo a modello proprio il progetto Fori – dimostra che risoluti interventi di pedonalizzazione riducono nettamente il traffico cittadino.
Che ne è oggi del disegno e della strategia per Roma di Antonio Cederna e Luigi Petroselli? Devo dire con dolore che quel disegno e quella strategia sono stati abbandonati. Non è questa l'occasione per analizzare le politiche territoriali del comune di Roma e della regione Lazio. Devo però osservare, in primo luogo, che lo Sdo, per molti decenni idea forza dell'urbanistica romana, è stato silenziosamente cancellato. Era sicuramente un’ipotesi superata dall’enorme e in larga misura abusiva crescita di Roma in tutte le direzioni, ma andava proposta e discussa un’altra idea generale per il futuro della capitale. Che invece non c’è stata.
In secondo luogo, il progetto Fori e l'area archeologica centrale. Non è più all'ordine del giorno l'eliminazione della via dei Fori Imperiali, che è stata addirittura proibita da un inverosimile vincolo di tutela sullo stradone fascista. Non c'è più l'incompatibilità del traffico con la salute dei monumenti. Non c'è più, insomma, il progetto epocale di Cederna e Petroselli per cambiare la forma e il futuro di Roma. Quando morì Luigi Petroselli, Cederna fu il primo a capire che con lui era morto anche il progetto Fori, e scrisse su Rinascita dello "scandalo" di Petroselli. Lo scandalo di un sindaco comunista che voleva mettere la storia e la cultura al posto dell'asfalto e delle automobili.
Antonio Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Corte del Fontego editore, Venezia 2006, 290 p.,23 €. Qui:
Mauro Baioni, Postfazione in formato .pdf
"Mussolini urbanista" è una condanna senza appello dell’urbanistica romana durante il regime fascista, ma sbaglieremmo se pensassimo che è soltanto questo. Nonostante l’accuratezza della ricerca e l’ampiezza della documentazione storica1, chi volesse leggere quest’opera come una ricostruzione delle vicende di quell’epoca si troverebbe a disagio. Ad una prima lettura
“il libro di Antonio Cederna può apparire così pregno di faziosità, unilaterale nella sua più completa condanna dell’operato del periodo fascista, da dare in parte anche fastidio, [...] una vera epopea alla rovescia della stupidità e dell’incultura di quel periodo”2.
Se invece inquadriamo il libro nell’opera più complessiva di Cederna comprendiamo perché abbia deciso di utilizzare la stessa prosa secca e pungente dei suoi articoli, ricorrendo all’ironia e al sarcasmo come in un vero e proprio pamphlet3. Non è il racconto del passato fine a se stesso ad interessare l’autore. Piuttosto, il «suggestivo pantagruelico felliniano quadro che ha tracciato del periodo fascista» è funzionale «alla denuncia che quella stessa incultura è ancora tra noi, pronta a farsi valere, se non siamo vigili nel riconoscerla e nel ricacciarla»4.
1. Roma prima e dopo il ventennio
Per comprendere le ragioni dei giudizi perentori espressi da Cederna, è utile ampliare lo sguardo fino a riconsiderare le vicende urbanistiche della capitale italiana, prima e dopo il periodo trattato. Gli episodi testimoniati costituiscono il tassello centrale di un processo di radicale trasformazione, che in poco più di cent’anni ha mutato profondamente le dimensioni e il volto di Roma5.
Già prima del fascismo, il centro storico aveva subìto numerose alterazioni: diradamenti, apertura di strade, inserimento di nuove costruzioni e, soprattutto, lottizzazione di numerosi parchi e giardini che, posti a corona del centro antico, si frapponevano tra questo e le mura aureliane e, più in là, si protendevano verso la campagna6. Sotto questo aspetto, il regime di Mussolini non cambia le cose, se non per il fatto che permette «di realizzare in maniera più macroscopica quelle che erano le stesse aspirazioni urbanistiche» dell’epoca precedente7. «La continuità è nei fatti»8 anche nei confronti del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando la città cresce a dismisura – in modo repentino, sregolato e privo di qualità – e alle manomissioni del patrimonio storico e archeologico operate nel cuore della capitale si sommano le distruzioni di complessi archeologici, edifici e manufatti antichi posti nelle aree di espansione9.
La rinuncia a pianificare lo sviluppo della città è una costante che accomuna le vicende dell’urbanistica romana del Novecento. Anche quando – faticosamente – si perviene all’adozione di un piano regolatore, esso «funziona anzitutto come sanatoria di irregolarità precedenti e si propone di omogeneizzare una serie di elementi eterogenei, prodotti nel periodo precedente»10. Quanto agli effetti dei piani, questi sono di fatto vanificati dal patto scellerato tra speculazione fondiaria e azione amministrativa: si moltiplicano le lottizzazioni intensive, si tollerano gli insediamenti abusivi e l’iniziativa pubblica – comunque minoritaria – viene ostacolata da difficoltà burocratiche, tecniche o finanziarie. Roma cresce perciò in tutte le direzioni, priva di un disegno compiuto, così come delle più elementari dotazioni di infrastrutture, verde e servizi.
“Si è calcolato che tra il ‘45 e il ‘60 mentre la popolazione di Roma aumentava di ottocentomila abitanti, ogni nuovo romano ha avuto in appannaggio 0,04 metri quadrati di verde, qualcosa come mezzo foglio di carta protocollo”11.
È questa la «Roma sbagliata» contro la quale si batte tenacemente Cederna12.
2. Per una diversa cultura urbanistica
Essendo questo il contesto, possiamo sostenere che Mussolini urbanista sia soprattutto una condanna senza appello della mancanza di cultura urbanistica imperante nel nostro paese. Le vicende della capitale nel ventennio non sono dunque altro che lo specchio, deformato e ingigantito dall’importanza della città e dalle aberrazioni, tragiche o grottesche, indotte dal fascismo, di ciò che è avvenuto e avverrà per molto altro tempo, in molte altre città d’Italia.
Attraverso i suoi scritti, Cederna si batte innanzitutto per affermare una diversa cultura urbanistica, nella quale la difesa del patrimonio storico e ambientale, della storia e della bellezza, siano poste a fondamento della costruzione del presente e del futuro, affidando alla pianificazione il compito di «impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità»13. L’introduzione a I vandali in casa, scritta nel 1955, costituisce una sorta di manifesto del suo pensiero. Questi i titoli di alcuni paragrafi: «Le vili ragioni della distruzione dei centri storici», «Perché la cultura moderna ci impone di conservare l’antico», «Centri storici e pianificazione urbanistica, contro la macchia d’olio della speculazione», «Come combattere i distruttori d’Italia». La decisa opposizione ad ogni ulteriore alterazione dei centri storici, accompagnata dalla spiegazione delle ragioni culturali che motivano questo rifiuto, costituisce pertanto la premessa di un ragionamento volto al presente e al futuro.
“La questione della salvaguardia dei centri storici e delle bellezze naturali rientra così nel piano regolatore, diventa finalmente un fatto urbanistico. [...] La salvaguardia effettiva di quei valori che stanno a cuore a tutte le persone civili ... è frutto di coscienza civica, dipende dalla pianificazione, cioè da una politica urbanistica a largo respiro, che sappia prevedere, programmare, controllare e coordinare tutti i fenomeni, tra loro interdipendenti, delle trasformazioni del nostro territorio. Non si salva Venezia se non si stabiliscono le premesse del suo sviluppo economico sulla terraferma, non si salva il centro di Roma se non si sviluppa economicamente Roma verso i Colli, evitando di accerchiarla bestialmente come si fa da anni con cinture compatte di cemento e di asfalto. [...] Possiamo ben dire che la salvaguardia dell’antico e realizzazione del nuovo sono le due operazioni fondamentali di ogni pianificazione moderna e illuminata, e che l’una dipende strettamente dall’altra”14.
Ulteriori passaggi del pensiero di Cederna meritano di essere sottolineati. In seguito alla «soluzione di continuità» che si è determinata con la rivoluzione industriale, «attribuire le complesse funzioni della vita di oggi a tessuti urbani nati per soddisfare esigenze di vita del tutto diverse» costituisce «un’assurda pretesa», come testimoniano gli esiti negativi degli innumerevoli esempi di inserimento, diradamento, ambientamento. Semmai sarebbe opportuno agire in senso contrario, adattando le forme di intervento «al progresso della cultura»15, allo stesso modo in cui si deve rinunciare alla «crescita illimitata», basata su un indiscriminato e dissennato sfruttamento delle risorse naturali, in favore di un nuovo paradigma di sviluppo16. In ogni caso, la salvaguardia dell’antico richiede una concezione urbanistica della conservazione, assente negli interventi dell’epoca fascista così come in quelli del dopoguerra. «L’attività di conservazione si è esercitata in modo selettivo, frammentario, settoriale, rapsodico, limitandosi ai monumenti maggiori, alle “cose” e agli oggetti di “particolare” interesse»17. Una siffatta impostazione “antologica e gerarchica”18 conduce necessariamente a selezionare le parti da proteggere, isolandole e cristallizzandole, da quelle su cui intervenire pesantemente, per ragioni igieniche, estetiche, funzionali, di prestigio, attraverso uno stillicidio di interventi grandi e piccoli che si sommano l’uno all’altro. Viceversa il centro storico, considerato come organismo unitario e come parte integrante della città, deve essere oggetto di un’accorta pianificazione urbanistica che sappia determinare quali funzioni sono compatibili con il tessuto antico e quali debbano essere collocate nelle parti di nuovo impianto, da progettare con la medesima attenzione19.
3. La questione dell’impegno civile
L’altro fondamentale aspetto dell’attività e del pensiero di Cederna è l’impegno civile. La superficiale attenzione e, talvolta, l’idiosincrasia verso la pianificazione e le sue regole, il perverso intreccio di interessi tra amministratori e speculatori immobiliari sono accettati passivamente o di buon grado da larghi strati della cultura, accademica e professionale, nella sostanziale indifferenza della stampa. Per Cederna, tutto ciò è particolarmente intollerabile.
“Da tempo immemorabile i vandali trionfano anche per il silenzio delle persone ragionevoli, per l’assenza di una forte posizione moralistica: in attesa di tempi migliori, è bene servirsi dei mezzi a disposizione, quali la incessante campagna di stampa, la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro. Simulatori ed ipocriti i vandali tengono molto alla propria privata rispettabilità: giova schernirli e trattarli per quello che sono, malintenzionati cialtroni. Abituati a intimidire e corrompere, si trovano sconcertati di fronte all’inflessibile denuncia: la loro potenza è fatta di viltà altrui. Abituati a violare, impuniti, la legge e a spacciare per “esigenze tecniche” la loro avidità, non sanno che fare contro chi svela pubblicamente i loro raggiri: può capitare che perdano la testa e passino a vie legali, nelle quali, allibiti, si rompono le corna. Sostenuti da una complicata rete di omertà, lo scandalo li può intimorire, scompigliare i loro piani, far rientrare i loro capricci. Occorre sfondare il sipario di complice riservatezza in cui operano, dilatare le loro colpe sul piano più ampio possibile, ridicolizzarli, screditarli, perseguitarli, processarli nelle intenzioni, mettendo in evidenza la sostanziale matta bestialità che li muove. Denuncia, protesta, polemica, scandalo, persecuzione metodica e intollerante: in un Paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”20.
Bersaglio prediletto di Cederna è l’indifferenza, l’ignavia e la sostanziale accondiscendenza con la quale troppi esponenti della cultura, della borghesia e del ceto politico assistono alla trasformazione del paesaggio e dell’ambiente e alla realizzazione di periferie tanto squallide quanto invivibili. Ecco perché si scaglia con particolare veemenza contro archeologi, architetti, storici dell’arte che risultano troppo accomodanti con gli amministratori e i potenti di turno. Ed è in questa prospettiva che meglio si comprendono le ragioni e – soprattutto – lo stile di Mussolini urbanista. Sebbene i fatti narrati risalgano ad un’epoca precedente, il legame con quanto avviene nel presente è troppo stretto per utilizzare una prosa distaccata, come confermeranno le vicende relative all’area dei Fori Imperiali.
I Fori e l’urbanistica di Roma alla fine degli anni Settanta
1. L’urbanistica del ventennio torna d’attualità
Mussolini urbanista viene pubblicato in un momento particolare per Roma, nel quale storie passate, cronache del momento e destini della città si intrecciano nuovamente21. Luogo di incontro è il Foro Romano, la cui sistemazione impressa in epoca fascista con la costruzione della via dei Fori Imperiali22 è direttamente chiamata in causa allorché, il 21 dicembre del 1978, i giornali riprendono un appello del soprintendente ai beni archeologici, Adriano La Regina, riguardante le «gravissime condizioni» in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale.
L’incipit dell’appello è memorabile:
“Una serie di accurati rilievi e controlli sui monumenti del centro di Roma hanno dimostrato che, senza ombra di dubbio, nel giro di pochi decenni, perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana”23.
La corrosione dei marmi antichi è la conseguenza diretta dell’inquinamento dell’aria dovuto alle industrie, al riscaldamento delle abitazioni e ai gas di scarico delle automobili. Per capire come si era giunti ad una tale situazione, occorre ricordare che le sistemazioni dell’epoca fascista avevano mutato radicalmente l’assetto dell’intera città. Via dei Fori Imperiali era divenuta nel secondo dopoguerra l’apice di una consistente direttrice d’espansione e l’area dei fori, da periferica qual’era nel 1870, si era venuta a trovare al centro di un nuovo grande quadrante urbano, sempre più soffocato dal traffico e perciò inquinato. Negli anni in questione si calcola che oltre 50.000 veicoli, lo stesso numero di automobili che oggi interessa l’autostrada del Sole nel tratto fra Bologna e Firenze, percorrano quotidianamente via dei Fori Imperiali, aggirando il Colosseo, ridotto a gigantesco spartitraffico24.
“Via del Mare e via dell’Impero [oggi via dei Fori Imperiali, ndr]... due strade che hanno rovesciato tutto il traffico dei quartieri meridionali di Roma, dai colli e dal mare, su piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo e quindi sul corso Umberto (cioè su una strada tracciata venti secoli prima), congestionando tutto il centro di Roma fino alle inverosimili parossistiche condizioni attuali di completa paralisi della circolazione”25.
L’allarme del soprintendente è raccolto immediatamente da Cederna, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera».
“Stiamo dunque pagando, come era da aspettarsi, la nostra lunga incuria e la nostra tenace indifferenza per la conservazione del patrimonio storico-artistico e per i problemi dell’ambiente in generale”26.
Il rammarico per ciò che è accaduto prelude, come d’abitudine, ad un’indicazione sul diverso indirizzo che deve essere impresso alle politiche urbanistiche, nazionali e locali.
“È un problema che coinvolge tutta la politica nazionale, stato regioni comuni, purché ci si renda conto che la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico può essere garantita solo da un governo del territorio, dell’ambiente che sia finalmente nell’interesse pubblico”27.
Nel concludere l’appello, il soprintendente è altrettanto esplicito: la conservazione dell’area archeologica non richiede una semplice opera di salvaguardia, bensì una più complessa modifica dell’assetto urbano.
“Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città”28.
Torna così d’attualità la proposta, nata nel secolo precedente, di costituire un grande parco archeologico che comprenda l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo e si protenda verso la campagna romana, lungo il tracciato della via Appia29.
Il grande cuneo Campidoglio-Fori-Appia Antica taglia in due l’intero settore sud della città e costituisce una vera e propria pausa di silenziosa e immutata bellezza nella sterminata e caotica periferia costruita negli anni Cinquanta e Sessanta. È il cosiddetto progetto Fori: non una specifica proposta di piano, bensì un complesso di idee, studi e proposte progettuali presentate a cavallo tra il 1979 e il 1985 riguardanti l’area archeologica centrale di Roma compresa tra il Campidoglio e il Colosseo e le sue connessioni con la sistemazione più generale della città.
Rispetto all’originaria ideazione, il «parco archeologico più grande e più importante del mondo»30 acquista necessariamente un significato più ampio: elemento di attrazione per turisti e visitatori da tutto il mondo, museo di se stesso, possibile luogo di incontro per i romani, area verde di incommensurabile valore per una città priva delle dotazioni minime, elemento unificante il centro storico, la periferia e la campagna circostante.
Gli interventi principali riguardano:
“- lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e quindi l’esplorazione archeologica per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano, ampliando il centro storico e arricchendo Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città;
- il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane [...];
- la creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra-moenia del parco archeologico centrale”.31
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali32 e di parte delle strade circostanti il Colosseo mette in discussione l’assetto viario a scala urbana, sollecitando un deciso decentramento delle funzioni attrattrici di traffico, dal centro storico verso il settore est della città, in un’area appositamente dedicata dal piano regolatore33. La portata del problema e i termini della sfida travalicano di gran lunga l’archeologia e la conservazione dei beni culturali e richiedono un ripensamento complessivo e una forte azione di governo della città.
Alla guida del governo cittadino, per la prima volta nel dopoguerra, c’è un’amministrazione di sinistra, guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte. Argan, e ancor più il suo successore Luigi Petroselli, funzionario del partito comunista, percepiscono la possibilità di mutare il volto della capitale attraverso il progetto Fori. Roma si può affrancare dalla sua immagine degradata, al centro come in periferia, per proporsi al mondo ed essere vissuta dai propri cittadini in modo completamente diverso, realizzando così una sintesi tra la sua connotazione popolare e il rango di metropoli internazionale cui essa aspira. Nei giudizi di alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, si coglie l’ampio respiro delle proposte.
Così si esprime Antonio Cederna:
“Col grande parco da piazza Venezia all’Appia antica, la cultura, l’archeologia diventano determinanti per l’immagine di Roma: l’urbanistica moderna riscopre la funzione strategica dei vuoti, degli spazi liberi dell’ambiente paesistico”34.
Così l’urbanista Italo Insolera:
“Il progetto Fori propone una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’antico non vi è più inteso come “monumento” né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare”35.
Così il soprintendente Adriano La Regina:
“Il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già... e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. [...] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”36.
Così l’assessore alla cultura Renato Nicolini:
“Tutto al contrario di quello che credono i superficiali e i dogmatici, la difesa attiva del patrimonio storico e dell’identità culturale di una città, può coincidere con la sua affermazione come metropoli. [...] Questo è, secondo me, il senso vero del progetto Fori, almeno nella forma che aveva assunto per la giunta Petroselli. Al centro di Roma, proprio a rendere evidente la trasformazione della città, da città burocratico-industriale in qualcosa d’altro, città di servizi, metropoli postindustriale, non ci debbono più essere i ministeri, ma il grande parco archeologico che partendo dall’Appia Antica arriva fino al Campidoglio”37.
Il sindaco Luigi Petroselli, il principale protagonista della vicenda per Cederna, Insolera e De Lucia, è colui che più di tutti coglie l’importanza della posta in gioco e comprende «la ricerca e la possibilità di conquista e di riconquista di una nuova identità cittadina e insieme [...] di unificazione della città intorno a nuovi valori»38.
2. Dalla discussione all’abbandono della proposta
Per quanto ampia, l’adesione di urbanisti, archeologici, storici dell’arte, architetti e altri uomini di cultura non si rivela tuttavia sufficiente per costruire il necessario consenso attorno alla proposta39.
Mentre il degrado dei monumenti aveva acceso lo sdegno di tutti e favorito un altrettanto unanime consenso sulla necessità di intervenire urgentemente, né il progetto di sistemazione dell’area archeologica, né tanto meno l’idea di trasformazione della città ad esso legata vengono compresi appieno e condivisi. Al contrario, un lungo e acceso dibattito accompagna l’elaborazione dei progetti.
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali, perno dell’operazione, diventa ben presto il punto attorno al quale si coagula il dissenso. Nonostante il successo della chiusura domenicale al traffico, avvenuta per la prima volta il 1° febbraio 1981, il dibattito sul destino della strada aperta da Mussolini prende una piega indesiderata: la demolizione è ritenuta un provvedimento troppo radicale, inessenziale al recupero dei monumenti e foriero di conseguenze indesiderabili sul traffico e sulla vita quotidiana della città40. A nulla valgono le considerazioni dei due sindaci, né l’opinione di Giulio Carlo Argan, che aveva coniato l’espressione «o i monumenti o le automobili», né quella di Petroselli, che si era domandato retoricamente:
“si devono accettare i livelli e le condizioni del traffico e della circolazione come dati immutabili ai quali piegare la vita dei cittadini, o piuttosto la vita dei cittadini si deve organizzare finalizzando le condizioni e i livelli del traffico ... ad un nuovo rapporto tra sviluppo e progresso civile che costituisce il terreno privilegiato della sfida sulla modernità di Roma?”41
Comincia ad insinuarsi l’idea che la rimozione della strada nasconda una sorta di rivalsa o di accanimento nei confronti di quanto realizzato sotto il fascismo42. Il quotidiano «Il Tempo» lancia una campagna di forte opposizione, dando risalto alle polemiche sollevate da alcuni studiosi che si richiamano al Gruppo dei Romanisti43.
“La chiusura della ex via dell’Impero e la restituzione del tracciato degli antichi Fori fu, ne convengo, soltanto l’indizio di un organico disegno urbanistico: era senza dubbio opportuno, per alleggerire la congestione del centro, chiudere quello che Cederna chiama, giustamente, un tronco di autostrada nel cuore di Roma, com’era senza dubbio opportuno ridare ai Fori l’antica spazialità mutilata. Ma Petroselli, che ideò l’operazione, vi annetteva un senso politico: cancellare un macroscopico segno della retorica fascista che con quella via destinata alle parate militari s’immaginava di ricalcare la via dei trionfi imperiali. Che la progettata chiusura di quello scenario di maccheronica romanità implicasse un’idea politica si rese conto l’amministrazione pentapartita, che s’affrettò a bloccarla e a restituire quel condotto stradale al fasto delle parate militari. Un brutto, ma eloquente, segno”44.
Non sorprende, dunque, che il governo centrale neghi ogni sostegno economico a proposte che eccedano la mera conservazione dei monumenti45.
Non è solo la diatriba ideologica ad alimentare il dissenso. Altrettanto decisivi sono il mancato appoggio del mondo della cultura e il sostanziale disinteresse della politica nazionale. L’acme del dibattito si raggiunge nei primi mesi del 1981, in concomitanza con alcune iniziative di grande significato prese dall’amministrazione comunale che fanno presagire un’accelerazione degli eventi in favore della costituzione del parco e della rimozione di via dei Fori imperiali: nel dicembre del 1980 si dà inizio allo smantellamento di via della Consolazione e si approva la chiusura parziale di piazza del Colosseo; nel febbraio, come detto, comincia la chiusura domenicale di via dei Fori Imperiali. Diversi archeologi, storici dell’arte, architetti e giornalisti esprimono le proprie perplessità46. Bruno Zevi e Paolo Portoghesi contestano l’idea di città sottesa al progetto Fori. Mario Manieri Elia, Vittorio de Feo, e Carlo Aymonino chiedono più tempo per discutere le priorità e i contenuti delle proposte: «Nessuno deve montare in cattedra: un’idea di città, oggi, la si può costruire tutti insieme e in un tempo non breve»47. Anche nel mondo politico le proposte non trovano la necessaria sponda: come ricordato, il governo nazionale è contrario e lo stesso partito comunista, che pure guida l’amministrazione comunale, guarda con «sostanziale disinteresse» al dibattito sulla questione dei Fori48. L’improvvisa morte di Petroselli, nell’ottobre 1981, costituisce lo spartiacque per l’avvenire del grande progetto urbanistico legato alla sistemazione dell’area archeologica e l’inizio del suo abbandono.
La nuova amministrazione guidata da Ugo Vetere si muove inizialmente in sostanziale continuità con la giunta precedente, ma gradualmente si fa strada l’idea che sia preferibile ricondurre il progetto Fori nell’alveo strettamente conservativo assicurando, grazie ai finanziamenti statali, gli interventi di manutenzione del patrimonio archeologico e rimandando tutte le altre operazioni ad un tempo successivo che non verrà mai. Le proposte della Soprintendenza e del Comune divergono progressivamente: il percorso congiunto si conclude con il Progetto per la valorizzazione dell’area dei Fori imperiali e dei Mercati Traianei, elaborato nell’ambito del Coordinamento settore archeologico, presentato pubblicamente dal sindaco Ugo Vetere il 12 gennaio 198349.
La Soprintendenza prosegue lo sviluppo dell’idea iniziale. Incarica un gruppo di esperti coordinati da Leonardo Benevolo di elaborare una proposta definitiva. Benevolo si avvale della collaborazione dei funzionari della Soprintendenza, coordinati da
Francesco Scoppola, nonché di progettisti di eccezionale valore: lo studio Gregotti per la parte più strettamente architettonica, Guglielmo Zambrini per la parte trasportistica, Ippolito Pizzetti per il verde. Cederna e Insolera sono esplicitamente ringraziati da Benevolo per la «lunga consuetudine di lavoro comune». Contestualmente Italia Nostra promuove la redazione di una proposta di Piano per il Parco dell’Appia Antica, curata da Vittoria Calzolari. Le due proposte vengono presentate al pubblico ma rimangono prive del necessario sostegno amministrativo e urbanistico: per la loro realizzazione infatti devono essere finanziati e coordinati interventi statali e comunali, raccordando tra loro politiche dei trasporti e pianificazione urbanistica50.
L’amministrazione comunale, impegnata su un numero impressionante di fronti (lavori pubblici, periferie abusive, case popolari, completamento della metropolitana), prende tempo.
Si consolida la posizione di quanti negano che la trasformazione dell’area archeologica centrale sia l’indispensabile premessa per una riqualificazione complessiva della città. L’assessore al centro storico Aymonino ritiene che la «complessità culturale e le difficoltà di gestione» del «più importante problema di scienza urbana che si sia presentato in Italia dal dopoguerra» rendono indispensabile un tempo lungo51. Piero e Roberto Della Seta sottolineano il sostanziale ripensamento:
“Il progetto Fori abbandona i binari di una incisiva iniziativa politica, che lo aveva caratterizzato all’inizio, per acquietarsi in una stanca attività burocratica, in cui man mano si smarrisce”.52
A conti fatti, la lentezza con cui si procede si rivela esiziale.
Il Comune sceglie la strada di un concorso internazionale di idee, ma la giunta cade prima che sia indetto il concorso e, alle elezioni, viene sconfitta53.
3. Gli sviluppi successivi
Nei vent’anni che ci separano dagli avvenimenti sopra ricordati, nessun amministratore ripropone il progetto Fori al centro della politica urbanistica comunale. Non lo fanno i sindaci delle giunte a guida democristiana (Signorello, Giubilo) e socialista (Carraro), né quelli di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni, attualmente in carica). Con il passare del tempo si consolida la convinzione che «l’utopia di una renovatio urbis»54 basata sul progetto Fori sia destinata a rimanere tale, per le troppe resistenze che essa incontra e per l’impegno, economico e amministrativo, che essa richiede. Non è un caso isolato: a Roma come in tutto il resto d’Italia, con rare eccezioni, si registra il
“progressivo appannarsi di ogni «progetto per la città»: inteso questo non come disegno redatto a tavolino o sommatoria di singoli progetti, ma come idea generale capace di assommare le singole volontà e mobilitare al meglio le varie spinte particolaristiche, come insieme di norme comportamentali fissate per assicurare un migliore uso dell’aggregato urbano e sole capaci di dare contenuto al concetto stesso di convivenza”55.
Liberata dall’abbraccio “fatale” con la trasformazione urbanistica immaginata nel progetto Fori, la sistemazione dell’area archeologica prosegue il suo corso, seppure con grande lentezza.
I finanziamenti sono assai modesti e i tempi di realizzazione non seguono la tabella di marcia prevista. Nel 1988 il programma iniziale viene finanziato nuovamente ma, come lamenta Cederna, le risorse sono ridotte56. Vengono avviati i primi sondaggi archeologici nel Foro di Nerva che preludono al successivo scavo, iniziatosi nel 1995, con il quale si dà concretamente avvio al progetto per la realizzazione del Parco archeologico dei Fori Imperiali, inserito nell’ambito del Piano per il Giubileo del 2000, e proseguito con gli scavi dei fori di Traiano e di Cesare. Si interviene anche per migliorare la fruizione pubblica dell’area, altro elemento qualificante delle proposte nate alla fine degli anni Settanta. Sono presi alcuni provvedimenti significativi, in particolare dalla giunta Veltroni, le cui iniziative possiedono una certa continuità con il programma dell’«Estate romana» ideato da Renato Nicolini57. L’apertura gratuita della via Sacra, avvenuta nel 1997, che permette tuttora una magnifica promenade dall’Arco di Tito al Campidoglio, può essere vista come il primo passo per restituire al Foro quella funzione urbana ipotizzata vent’anni prima dal soprintendente
La Regina58.
“È stato il modo di restituire al Foro una funzione veramente urbana. Questo è un modello di ampliamento di cui tenere conto per l’assetto futuro, mettendo a tacere chi vuole sempre e comunque mercificare tutto”.
È in questa prospettiva che la Soprintendenza ripresenta, nel 2005, una nuova proposta di sistemazione, affidata all’architetto Massimiliano Fuksas. Diversamente dal passato, non si prevede l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, tuttora presente e utilizzata dalle auto, sebbene crescano di anno in anno le limitazioni alla circolazione a causa dell’inquinamento atmosferico59. Come aveva ipotizzato anche Cederna, gli scavi sono potuti proseguire per anni senza creare alcun problema, e questo ragionevole compromesso avrebbe lasciato aperta ogni soluzione, se il Ministero per i beni e le attività culturali, il 20 dicembre 2001, non avesse apposto un vincolo di tutela all’insieme delle sistemazioni viarie operate durante il fascismo tra piazza Venezia e le mura aureliane, riconoscendovi un valore culturale. Quali ragioni hanno portato a conferire al simbolo della «maccheronica romanità» un valore storico, al pari di molte altre realizzazioni della prima metà del Novecento che certamente lo possiedono, considerandolo come un elemento intangibile da restaurare e curare con attenzione? Certamente hanno avuto un peso coloro che riconoscono un valore all’insieme delle opere realizzate nel ventennio, giudicate il tentativo di conferire a Roma «il volto di una capitale»: capitale laica per Giorgio Ciucci, politica, morale e culturale (sic!) per Vittorio Vidotto60. Un’importanza non secondaria deve essere anche attribuita al fatto che, sebbene nata come «macabra scenografia», via dei Fori Imperiali si è trasformata nel dopoguerra in un importante teatro di manifestazioni pacifiche e democratiche61. Probabilmente, più di ogni altra cosa, ha prevalso un certo spirito di conciliazione con il passato, lasciando in secondo piano le considerazioni urbanistiche, una volta di più incomprese o ritenute inessenziali62.
La conclusione di questa vicenda lascia un velo di amarezza. La politica e la cultura non hanno compreso il messaggio contenuto in Mussolini urbanista. È stato abbandonato progressivamente, senza nemmeno un esplicito rifiuto, il progetto che più di ogni altro poteva trasformare il volto della capitale attraverso la pianificazione urbanistica in modo esemplare per il resto della nazione. Tuttavia, se è vero che «non c’è futuro senza memoria del passato» e «nulla di peggio dell’assuefazione agli errori commessi», i moniti e i ragionamenti, i sarcasmi e le proposte di Cederna continuano ad essere un riferimento, tanto attuale quanto indispensabile.
NOTE
1 Mussolini urbanista è costantemente incluso fra i testi di riferimento per lo studio della storia dell’urbanistica romana nel periodo fascista, anche da parte di autori in disaccordo con le opinioni di Cederna. L’importanza delle illustrazioni a corredo del libro è stata sottolineata da Italo Insolera, curatore di Roma fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce. Con alcuni scritti di A. Cederna, Editori riuniti, Roma 2001. Nella pubblicazione di Insolera sono contenuti alcuni estratti di Mussolini urbanista corredati dalle fotografie recentemente messe a disposizione dall’Istituto Luce.
2 L. Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi in margine al libro di A. Cederna, Mussolini urbanista, «Bollettino di Italia Nostra», 195-196 (1981), p. 21. Le tesi esposte in Mussolini urbanista e, più in generale, i giudizi espressi da Cederna sull’urbanistica romana durante il fascismo sono stati criticati molto duramente. All’autore si rimproverano un eccessivo schematismo e un antifascismo “manicheo”. Cfr. in particolare M. Manieri Elia, Roma Capitale: strategie urbane e uso delle memorie, in A. Caracciolo, Le Regioni dall’Unità d’Italia a oggi: Il Lazio, Einaudi, Torino 1991 e V. Vidotto, La Capitale del fascismo, in Roma capitale, a cura di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2002.
3 Nello Ajello descrive così la prosa di Cederna in Via degli obelischi, uno dei primi articoli scritti sul «Mondo»: «Quello che uscì dalla sua penna era un intervento critico. Ma era soprattutto un’invettiva. Accorata. Sdegnata. Furente. [...] Gli anatemi del giovane archeologo toccavano nervi scoperti dell’intellighenzia italiana. Agivano su una minoranza, ma in profondità. Comunicavano sdegno. Creavano allarme nei colpevoli». Cfr. Hanno scritto di lui, in Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna, 1921-1996, Roma 1999 (Ministero per i beni e le attività culturali, Centro di documentazione Antonio Cederna), p. 41.
4 Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi,p. 22.
5 Secondo il censimento della popolazione, Roma nel 1871 ha poco più di 240.000 abitanti. Cento anni dopo gli abitanti sono oltre 2.700.000. La superficie urbanizzata subisce un incremento ancora più consistente: l’area compresa entro le mura aureliane è di circa 1.500 ettari, molti dei quali nel 1870 erano liberi da costruzioni; oggi la superficie urbanizzata è di circa 40.000 ettari, venticinque volte più estesa. Per i dati al 1870 cfr. P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma. Uso e abuso del territorio nei cento anni della capitale, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 15-19. I dati sull’espansione edilizia tra il 1951 e il 1981 sono stati raccolti in una ricerca condotta da Filippo Ciccone e Vezio De Lucia i cui esiti fondamentali sono riportati in F. Ciccone, Il sabato mattina, se non piove, «Urbanistica informazioni», 78 (1984). I dati sulla superficie e popolazione attuale, messi a confronto con le previsioni del nuovo piano regolatore sono contenuti in C’è troppo consumo di suolo nel nuovo piano regolatore di Roma, 17 settembre 2002 (Comitato per la bellezza, Associazione culturale Polis e Wwf); cfr. anche V. De Lucia, Il nuovo piano regolatore di Roma e la dissipazione del paesaggio romano, «Meridiana», 47-48 (2003), p. 289.
6 Tra gli scritti di Cederna dedicati alle trasformazioni del periodo post-unitario, cfr. in particolare A. Cederna, Prefazione in R. Lanciani, L’antica Roma, Laterza, Roma-Bari 1981 (or. Ancient Rome in the light of recent discoveries, 1888), p. ix-xxxviii. Sulla distruzione delle ville che circondavano il centro antico cfr. A. Cederna, È sempre emergenza per le ville storiche, «Bollettino di Italia nostra», 265 (1989), p. 26-27; A. Cederna, Roma la capitale del Duemila, «Bollettino di Italia nostra», 322 (1995), p. 21. Lo stesso argomento è ripreso dall’autore in molti articoli dedicati alla cronica carenza di verde pubblico a Roma e ai tentativi di lottizzazione edificatoria perpetrati fino agli anni ’60: cfr. La capitale d’Italia in A. Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton, Roma 1991, p. 285-346.
7 Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi, p. 22.
8 Così scrive Cederna nell’introduzione a Mussolini urbanista. Piero e Roberto Della Seta leggono nel secondo dopoguerra una degenerazione rispetto all’epoca precedente, venendo a mancare ogni politica di controllo della rendita fondiaria e della speculazione edilizia e, conseguentemente, ogni proposta sullo sviluppo della città. Cfr. P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma e V. De Lucia, Se questa è una città, Donzelli, Roma 2005, p. 6.
9 Una parte consistente delle nuove costruzioni è realizzata in modo illegittimo: tra il ’62 e il ’76 sono stati lottizzati, in aree destinate a verde o all’agricoltura, ben 12.000 ettari di terreno. Negli insediamenti abusivi vivono tra le 500.000 e le 700.000 persone. Nel denunciare in consiglio comunale la gravità di queste trasformazioni, il consigliere del partito comunista Aldo Natoli parla di un nuovo “sacco di Roma” (A. Natoli, Il sacco di Roma, Roma, Tipografia Lugli, 1954). L’espressione sarà utilizzata successivamente da molti e, in un’occasione ufficiale, perfino dal sindaco Argan, nell’indirizzo di saluto al pontefice rivolto in occasione della visita di quest’ultimo al Campidoglio il 3 gennaio 1977: «La condizione è sventuratamente tale che s’è parlato e si parla, anche fuori dall’Italia, del terzo sacco di Roma; non più perpetrato da torme di Lanzichenecchi, ma da mercanti avidi e senza scrupoli, non nella momentanea furia di un saccheggio, ma nel metodico e pervicace sfruttamento del suolo urbano». P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 165.
10 L. Benevolo, Città in discussione. Venezia e Roma, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 149.
11 A. Cederna, L’erba di Roma, 1972, ora in Brandelli d’Italia, p. 342.
12 Come fondatore e attivista di Italia Nostra e come giornalista, Cederna ha dedicato un impegno specifico per contrastare il distorto sviluppo urbanistico di Roma. Alle cronache del periodo 1957-1965 è dedicato in particolare Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965, in cui sono raccolti gli articoli di Cederna pubblicati sul «Mondo», divisi per argomento (piano regolatore, centro storico, verde pubblico, Appia Antica) e ordinati cronologicamente. Il libro si apre con una raccolta di 31 fotografie della periferia romana costruita in quegli anni, assai eloquenti per comprendere la portata e le conseguenze della speculazione edilizia. Anche le altre pubblicazioni di Cederna (I Vandali in casa, Bari, Laterza, 1956, ora 2006, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975, Brandelli d’Italia) contengono una sezione dedicata agli articoli scritti in relazione alle vicende della capitale. Un’ulteriore raccolta di scritti su Roma è contenuta nel Cd-rom allegato a Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna. Particolarmente vicine alle posizioni di Cederna, e costantemente citate nei suoi scritti, sono le ricostruzioni delle vicende urbanistiche della capitale effettuate da Leonardo Benevolo (in part. Roma da ieri a domani, Roma-Bari, Laterza, 1971) e Italo Insolera (in part. Roma moderna, Torino, Einaudi, 1993). L’espressione «Roma sbagliata» è contenuta nel titolo di un ciclo di seminari, promosso da Italia Nostra, sulle condizioni di degrado della città nei primi anni settanta. Cfr. Roma sbagliata: le conseguenze sul centro storico, Roma, Bulzoni Editore, Roma 1976 (Italia Nostra).
13 Cederna, Prefazione, a I vandali in casa ora in Brandelli d’Italia, p. 44-45.
14 Cederna, Mirabilia Urbis, p. 457. Sullo stesso argomento cfr. A. Cederna,
M. Manieri Elia, Orientamenti critici sulla salvaguardia dei centri storici, «Urbanistica», 32 (1960), A. Cederna, Salvaguardia dei centri storici e sviluppo urbanistico, «Casabella» 250 (1961) riportato anche in Cederna, Mirabilia Urbis, p. 451 e seg.; A. Cederna, I centri storici nella città contemporanea in Italia Nostra 1955-1995. Quarant’anni dalla fondazione. I centri storici nella città contemporanea. Atti del conve-gno , Roma 1995.
15 Citazioni tratte da Cederna, Manieri Elia, Orientamenti critici sulla salvaguardia dei centri storici, p. 69-71.
16 Cederna può essere annoverato, a buon diritto, anche tra i precursori dell’ambientalismo italiano ed è stato tra coloro che per primi hanno capito la necessità di integrare politiche urbanistiche e ambientali. Cfr. in particolare A. Cederna, Prefazione, a Guida della Natura d’Italia, a cura di G. Farneti, F. Pratesi, F. Tassi, Mondadori, Milano 1971 e G. Berlinguer, G. Sacco, A. Cederna, F. Pistolese, L’ecologia alla conferenza di Stoccolma, «Politica ed economia» 4 (1972) e A. Cederna, Presentazione in E. Tiezzi, P. degli Espinosa, I limiti dell’energia, Garzanti, Milano 1987. Cfr. anche la prefazione alla seconda edizione del libro di V. De Lucia, Se questa è una città, che Cederna conclude spiegando perché «è necessario che la sinistra impari a fare i conti ecologici».
17 A. Cederna, Una cultura indifferente al nostro passato, «Corriere della Sera», 28 giugno 1975, ora in In nome del Bel paese.Scritti di Antonio Cederna sull’Emilia Romagna (1954-1991), a cura di G. Gallerani, C. Tovoli, Bologna 1998 (Istituto per i beni artistici, culturali e naturali dell’Emilia Romagna), p. 71.
18 Ibidem.
19 Sebbene sia ricordato soprattutto per le sue battaglie in difesa del patrimonio storico e naturale, Cederna ha dedicato uguale impegno a promuovere l’affermazione della pianificazione urbanistica, illustrando realizzazioni straniere e, più raramente, italiane da portare ad esempio (cfr. «L’Europa», selezione di articoli riguardanti città europee in Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna), occupandosi a più riprese come giornalista, come parlamentare della legislazione urbanistica e come “urbanista operativo”. Secondo De Lucia, le proposte per lo sviluppo di Roma contenute nella relazione alla proposta di legge per Roma capitale, presentata nell’aprile del 1989, costituiscono «una vera e propria lezione di urbanistica moderna» (V. De Lucia, Cederna, Petroselli, il progetto dei Fori, «Carta qui», 4, 2006).
20 Cederna, Prefazione, a I vandali in casa, ora in Brandelli d’Italia, p. 56.
21 Il principale testo di riferimento per la comprensione delle vicende accadute tra il 1978 e il 1983 e delle cronache relative al dibattito allora suscitato è I. Insolera, F. Perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, Laterza, Roma-Bari, 1983. Gli avvenimenti sono sintetizzati con grande efficacia anche in De Lucia,
Se questa è una città, p. 121-127. Il punto di vista dell’amministrazione comunale e le iniziative assunte tra il 1983 e il 1985 sono descritti in R. Panella, Roma Città e Foro. Questioni di progettazione del centro archeologico monumentale della capitale, Officina Edizioni, Roma 1989 e in C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, Laterza, Roma-Bari 1990. Una riflessione di segno opposto a quello di Cederna, Insolera e De Lucia, è formulata in Manieri Elia, Roma capitale: strategie urbane e uso delle memorie.
22 Originariamente via dell’Impero. Le vicende relative alla sistemazione di piazza Venezia e delle aree attorno al Campidoglio sono descritte nel capitolo terzo di Mussolini urbanista. Alla costruzione di via dell’Impero è dedicato il capitolo quinto.
23 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 212. L’agenzia trova un’ampia eco sui giornali di allora: ne parlano il 21 dicembre stesso il «Corriere della Sera» (I monumenti di Roma vanno a pezzi, articolo di Cederna) e «Paese Sera» (La lebbra del marmo uccide i monumenti); il 23 dicembre, «La Stampa» (Fra vent’anni avremo solo le foto dei preziosi monumenti dell’antica Roma); il 31 dicembre, «L’Unità» (Lo smog cancella il passato e ipoteca il futuro). Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 213 e seg. «Ritengo che molti di noi serbino il ricordo persino delle parole che aprono il comunicato» (Manieri Elia, Roma capitale, p. 551).
24 A. La Regina, Roma: continuità dell’antico, in Roma, continuità dell’antico. I fori imperiali nel progetto della città. Electa, Milano 1981, p. 11.
25 Cederna, Mirabilia urbis, p. 455.
26 Cederna, I monumenti di Roma vanno a pezzi.
27 Ibidem.
28 Insolera, Perego, Archeologia e città,p. 212.
29 Gli scavi dell’area archeologica centrale, promossi da Pio vii agli inizi dell’Ottocento, proseguiti sotto l’amministrazione napoleonica e, dopo il 1871, dal governo italiano, avevano portato ad ipotizzare una passeggiata archeologica intorno alle rovine romane e ad un grande parco, esteso dal Campidoglio alla via Appia. Scrive Insolera: «Non se ne farà nulla, ma l’idea era posta, e durerà per sempre». (Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xviii). Cederna ricostruisce le vicende relative alle sistemazioni di fine Ottocento nella relazione alla proposta di legge n. 3858, 26 aprile 1989, «Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica», riportata in Il parco archeologico più grande e più importante del mondo, «Bollettino di Italia Nostra», 265 (1989), p. 21 e nel Cd-rom allegato a Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna. Ricostruzioni storiche del periodo postunitario sono contenute anche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 1-30 e in
La Regina, Roma: Continuità dell’antico, p. 54-94. Cfr. anche L. Barroero, A. Conti, A. M. Racheli, M. Serlo, Via dei Fori Imperiali.La zona archeologica di Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale, Marsilio, Venezia 1983.
30 Cfr. nota precedente. L’area della zona monumentale individuata nel 1887 è di 227 ha; il comprensorio dell’Appia Antica interessa oltre 2500 ha.
31 Cederna, Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.
32 L’eliminazione di via dei Fori Imperiali consentirebbe di ampliare l’area di scavo archeologico, poiché sotto il suo sedime (la carreggiata è larga più di venti metri, che in alcuni punti diventano cento con le sistemazioni a verde ad essa circostanti) sono collocati parte dei fori di Traiano, Augusto e Nerva, ricostituendo l’unitarietà dell’area archeologica, tuttora tagliata in due dall’asse stradale. L’ipotesi di soppressione è avanzata pubblicamente da La Regina nell’aprile del 1979. Nel luglio successivo il sindaco Argan conia, in una lettera aperta all’Ordine degli ingegneri, lo slogan “o i monumenti o le automobili”. Pochi giorni dopo, La Regina precisa la proposta mediante un’agenzia di stampa e raccoglie l’immediata adesione, pubblicamente espressa, del sindaco e degli assessori della giunta comunale Calzolari e Nicolini. Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 219 e 233-35.
33 Si tratta del comprensorio noto come Sistema direzionale orientale (SDO). «Trasferendo nello SDO alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali, a cominciare dai ministeri, si alleggerisce il centro, si pone un argine alla sua terziarizzazione selvaggia e si possono recuperare immobili alla residenza» (A. Cederna, Tra critica e proposta, «Bollettino di Italia Nostra», 265, 1989, p. 5). Occorre dire che è avvenuto l’esatto contrario di quello che ipotizzava Cederna: il progetto SDO è stato abbandonato, i ministeri non sono stati decentrati, il centro storico ha perso drammaticamente popolazione.
34 Cederna, Tra critica e proposta, p. 7.
35 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xvii.
36 La Regina, Roma: continuità dell’antico, p. 14. Per il soprintendente è essenziale conferire ai Fori la loro originaria funzione di luogo di incontro, eliminando la separazione tra area archeologica e città e restituendo tali spazi all’uso dei cittadini.
37 R. Nicolini, Introduzione a C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, p. 7.
38 Seconda conferenza cittadina sui problemi urbanistici, Roma 1982 (Comune di Roma), p. 217, riportato in De Lucia, Se questa è una città, p. 122. Cederna, commemorando Petroselli su «Rinascita» del 16 ottobre 1981, parlerà dello “scandalo” prodotto dalla determinazione del sindaco nel sostenere il progetto Fori e nell’avviare le prime iniziative concrete.
#39 Sul «Corriere della Sera» del 14 marzo 1981 è pubblicato un appello sottoscritto da 240 studiosi, italiani e stranieri. Il testo integrale e le firme sono riportate in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 341. Cfr. anche De Lucia, Se questa è una città, p. 124.
40 Le voci del dissenso sono raccolte in particolare dal quotidiano «Il Tempo». Timori relativi alle ripercussioni della chiusura della via dei Fori Imperiali sul traffico ricorrono anche negli interventi degli storici dell’arte, tra i quali Federico Zeri che interviene con alcuni articoli su «La Stampa»nel febbraio del 1981.
41 L. Petroselli, [Presentazione], in Roma: continuità dell’antico, p. 9.
42 Bruno Palma su «Il Tempo»dell’11 agosto 1979 apre la polemica domandandosi retoricamente se l’idea della soppressione della strada si debba a cultura urbanistica o a «rabbia politica».
43 Il Gruppo dei Romanisti è un movimento culturale fondato negli anni ’20, al quale sono appartenuti alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, come Ojetti, Muñoz e Giovannoni. Nel febbraio del 1981 viene pubblicato da «Il Tempo» un appello dei Romanisti contro la rimozione della via dei Fori Imperiali, giudicata una «gravissima perdita difficilmente giustificabile», con Cederna è guerra di penna. Cfr. in particolare l’articolo di Cederna pubblicato sul «Corriere della sera» del 6 febbraio 1981 e le successive repliche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 324-332.
44 G. C. Argan, Prefazione, a P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 11.
45 Il governo si era dichiarato disponibile a finanziare gli scavi: nel gennaio 1979, poco tempo dopo l’appello del soprintendente, era stata istituita una Commissione nazionale di studio, presieduta dallo storico dell’arte Cesare Gnudi (1910-1981). Conclusi i lavori della commissione, con un parere determinato sull’urgenza di provvedere alle opere di riparo dei monumenti, ma decisamente vago sui provvedimenti urbanistici, nel maggio del 1980 era stato assegnato per decreto un finanziamento straordinario di 180 miliardi di lire per attuare gli interventi ritenuti indispensabili e urgenti dalla commissione, convertito l’anno successivo nella Legge 23 marzo 1981, n. 92 «Provvedimenti urgenti per la protezione del patrimonio archeologico della città di Roma». Nei due anni intercorsi tra la nomina della commissione e l’approvazione della legge era montata la polemica contro la demolizione di via dei Fori Imperiali, cosicché mentre il precedente ministro, Biasini, aveva avuto un atteggiamento possibilista, sia pure tra mille tentennamenti, il nuovo ministro, Vernola, aveva preso subito posizione contro la rimozione.
46 Agli inizi del 1981 il «Messaggero», il «Corriere della Sera» e l’«Unità» pubblicano il resoconto di una serie di tavole rotonde, nelle quali i principali esponenti della cultura accademica esprimono la loro opinione. Parallelamente vengono organizzati incontri pubblici di dibattito a palazzo Braschi (3 marzo 1981) e alla Casa della cultura (6 febbraio e 28 maggio). Dal 26 al 29 marzo si tiene la Seconda conferenza urbanistica cittadina, promossa dall’amministrazione comunale.
47 Retrospettivamente Manieri Elia assume una posizione nettamente contraria alle proposte urbanistiche, giudicando «arbitrario e incoerente» lo slittamento di prospettiva dal programma di restauri alla «proposta di una sterminata operazione di trasformazione urbana» (Roma capitale, p. 554).
48 V. De Lucia, Peccato capitale, Edizioni Il Manifesto, Roma 1993, p. 20.
49 I lineamenti della proposta sono descritti in Tutto il progetto Fori, «Bollettino di Italia Nostra», 219 (1983), p. 49-63, con scritti – tra gli altri – di La Regina, Aymonino, Insolera, Quilici, Rossi Doria. L’intervento del sindaco è pubblicato in Piano per il Parco dell’Appia Antica, Roma 1984 (Italia Nostra, sezione di Roma).
50 I primi studi e orientamenti programmatici della Soprintendenza sono presentati al pubblico in due mostre nella Curia al Foro Romano nel 1981 e nel 1985. Cfr. rispettivamente Roma: continuità dell’antico e Forma. La città antica e il suo avvenire, Catalogo della Mostra itinerante, 1985-1987, De Luca, Roma 1985. Cfr. L. Benevolo, Roma, studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale, De Luca, Roma 1985. Sulla proposta di Piano per l’Appia Antica cfr. il Piano per il Parco dell’Appia Antica. Successivamente la Soprintendenza commissiona uno sviluppo del progetto relativo all’area dei Fori con approfondimenti relativi sia alla fattibilità economica, sia alle iniziative di inquadramento (assetto della viabilità, formazione del nuovo PRG, decentramento dei ministeri) che richiedono il coordinamento di altri soggetti pubblici. Cfr. L. Benevolo, F. Scoppola, Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, De Luca, Roma 1989 con scritti, tra gli altri, di De Lucia (Le esigenze di Roma capitale) e Cederna (Distruzione e ripristino della Velia).
51 C. Aymonino, Un tema grandissimo di scienza urbana, «l’Unità», 8 marzo 1981, ripreso in Archeologia e disegno urbano, «Casabella» 482 (1982). Aymonino ritiene con ciò di superare «una semplicistica vendetta dell’urbanistica radicale». Anche per Manieri Elia occorre «evitare gli estremismi» e «resistere alle tentanti semplificazioni e ai roboanti schematismi». Le difficoltà operative sono sottolineate da Raffaele Panella: «i grandissimi risultati conseguiti praticamente a costo zero con i pochi ma incisivi interventi di ricongiunzione del Foro al Campidoglio e al Colosseo, ... le iniziative dell’Estate romana e la chiusura domenicale di via dei Fori non potevano ripetersi ed estendersi senza compiere un salto di scala. Anzitutto in termini di investimenti». Cfr. R. Panella, Roma città e Foro, p. 49.
52 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 259.
53 Gli atti propedeutici al concorso sono formalizzati in una serie di delibere della giunta comunale (8 maggio 1984 e 27 dicembre 1984) e del consiglio comunale (10 luglio 1984). Cfr. R. Panella, Roma Città e Foro, p. 382-385.
54 Così definita da La Regina in Roma: continuità dell’antico, p. 13.
55 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 265. L’abbandono progressivo della pianificazione generale in favore di una serie di singoli interventi di trasformazione urbana, dettati dalle opportunità del momento senza curarsi del loro inquadramento complessivo, costituisce la mutazione più evidente dell’urbanistica italiana degli ultimi venti anni. Cederna, assieme a Edoardo Salzano e Vezio De Lucia, può essere a buon diritto annoverato tra i pochi che hanno giudicato negativamente e avversato la crescente deregulation. Sulle conseguenze nella capitale, cfr. P. Berdini, Il Giubileo senza città, Editori riuniti, Roma 2000 e, per un punto di vista opposto, M. Marcelloni, Pensare la città contemporanea: il nuovo piano regolatore di Roma, Laterza, Roma-Bari 2003. Sul dibattito nazionale, cfr. gli scritti degli autori citati in eddyburg.it.
56 Cederna sottolinea la differenza tra i fondi destinati nel decennio precedente al restauro dei monumenti romani e quelli spesi per la costruzione di autostrade, 24 contro 18.000 miliardi di lire. A. Cederna, Il parco archeologico più grande e importante del mondo, in «Bollettino di Italia Nostra», 265 (aprile-maggio 1989), p. 21.
57 Il 25 agosto 1977 il cinema si accende nella basilica di Massenzio dando inizio all’Estate romana, programma di spettacoli estivi all’aperto che si è svolto ininterrottamente dal 1977 al 1985, in una serie di luoghi significativi della città, nel centro e nella periferia.
58 Le proposte sono presentate in una mostra al Colosseo che si è tenuta dal luglio 2004 al gennaio 2005. Cfr. Forma: la città moderna e il suo passato, a cura di A. La Regina, M. Fuksas, D. O. Mandrelli, Electa, Milano 2004.
59 Fuksas immagina la strada come «un nastro sostenuto da ponti sotterranei» ipotizzando l’estensione della sua pedonalizzazione per «almeno sei mesi l’anno». Cfr. F. Giuliani, Ponti sotteranei, passerelle e l’antica Roma torna a vivere, «La Repubblica», 30 giugno 2004. Va ricordato che con l’amministrazione Rutelli sono riprese anche le domeniche pedonali.
60 Cfr. G. Ciucci, Relazione storica sugli interventi architettonici e urbani a via dei Fori Imperiali, allegata come parte integrante del provvedimento di vincolo ai sensi dell’art. 2 del Dlgs 29 ottobre 1999, n. 490 apposto con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali; Vidotto, La capitale del fascismo, p. 405-406.
61 Questa tesi è sostenuta ad esempio da Manieri Elia.
62 Un perfetto esempio di travisamento è contenuto nella citata relazione di G. Ciucci che motiva il provvedimento di vincolo monumentale. Ciucci sostiene che «l’avvio della questione Fori Imperiali nel 1982 ha come obiettivo finale l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, senza porsi il problema della sua storia, della sua funzione urbanistica, della sua immagine consolidata: l’interesse è concentrato solo nello scavo archeologico» [corsivi nostri].
“Uno studio attento delle situazioni particolari porta a decidere dove, come, con quali norme e caratteristiche la città debba estendersi, e quindi all’imposizione di uno sviluppo in una direzione predominante: affinché il centro di gravità (cioè l’insieme dei pesi umani, edilizi e degli interventi economici) non torni più a gravare sul nucleo antico, ma gradatamente continui a spostarsi nel senso della massima espansione della città. Occorre dunque, se vogliamo ridare una dimensione sopportabile alle nostre città, rompere definitivamente l’indiscriminato ingrandimento a macchia d’olio, sui sono sottoposte dalla peggior specie di vandali, latifondisti e trafficanti e monopolizzatori di suolo urbano, che tirano furiosamente la città sui loro terreni, strategicamente disposti intorno a essa e tendono a urbanizzare abusivamente le aree agricole”.
La prefazione ai “Vandali in casa” scritta da Cederna nel 1956 -anno in cui l’Espresso con l’articolo di Manlio Cancogni lancia lo slogan “Capitale corrotta, nazione infetta”- è una grande lezione di metodo, ancora attualissima. E, a proposito di attualità, iniziamo da una piccola nota di colore, i puristi del politicamente corretto oggi così in voga, tradurrebbero il tagliente termine di trafficante di suolo urbano con immobiliaristi, e cioè un più neutro attributo a coloro che fino a poco tempo fa venivano chiamati con il loro vero nome: speculatori.
Ma torniamo alla lezione. Afferma Cederna che è con l’urbanistica che si salvano le città dalla speculazione. E’ con l’urbanistica che si può tentare di dare una prospettiva di riscatto alle periferie urbane. Ma, appunto, è un’urbanistica mirata, apertamente schierata, affatto condiscendente con le tendenze del mercato.
Il rifiuto netto quanto motivato dello sviluppo urbano a macchia d’olio serve a Cederna trent’anni dopo per definire le linee del progetto di legge per “Roma capitale” che elaborò nel 1989 quando era stato eletto alla Camera dei Deputati come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano. Dei pochi fondamentali elementi di cui era composta la sua proposta di legge, uno era particolarmente connesso con la negazione della macchia d’olio. La riproposizione del Sistema direzionale orientale in chiave di riqualificazione della immensa periferia romana. Nato proprio negli anni in cui Cederna scrive la prefazione citata in apertura, quel progetto doveva servire per fornire forma e dignità allo sviluppo urbano della capitale. Serviva insomma ad evitare ciò che aveva paventato poco più avanti.
“Proseguendo lungo le direzioni dei giochi di parole mussoliniani, la città continua a espandersi senza regole né misura, caoticamente verso il sud, stringendo sempre più l’Appia nella sua morsa: vengono attuati nuovi attraversamenti, si addensano nuove borgate, la città dilaga senza soluzione di continuità, come un’infezione. Scompare il distacco tra città e colli, tutto diventa un’ininterrotta serie di sciatti, lerci sobborghi: una nuova immensa escrescenza si propaga a sud, con tutti i suoi deleteri effetti sulla città, conferma dell’anarchica espansione a macchia d’olio, scomparsa di tutte le zone verdi sotto un’unica colata cementizia, congestione e minaccia di distruzione del centro storico, sconfitta di ogni razionale pianificazione”.
E sul Mondo del 22 novembre 1955 afferma ancora:
“Roma, dopo essersi faticosamente mossa verso est negli ultimi decenni, torna ora a spostarsi verso il mare nostrum, come un granchio azzoppato. E’ facile immaginare che tutta la Cristoforo Colombo verrà trasformata in un corridoio murato, che tutta la campagna tra Roma e il mare andrà a farsi benedire. D’altra parte, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario, Roma si salderà ai Colli e quindi anche quella campagna se ne va”.
Quelle previsioni si sono purtroppo avverate. Ma alla fine degli anni ’80, al tempo della proposta di legge per Roma capitale, le aree che dovevano ospitare lo Sdo erano ancora vuote, mentre intorno abusivamente e legalmente era sorta la più brutta periferia romana. Il nuovo sistema direzionale doveva dunque servire per ridare dignità a quei tessuti senza qualità. E ospitare i Ministeri, così da vuotare il centro storico da pesi urbanistici insostenibili.
Nel decennio che ci separa dalla sua scomparsa, quella stessa sinistra che Cederna aveva contribuito a fare autorevole e rispettata, ha disegnato un nuovo piano regolatore della città che cancella d’un colpo la grande lezione sulla macchia d’olio e l’obiettivo strategico dello svuotamento del centro storico dalle funzioni dello Stato.
“La relazione centripeta finora dominante svolta dall’area centrale costituita dal centro storico e dalla sua cintura viene affrontata nel nuovo piano attraverso il modello policentrico delle nuove centralità in rete. Ciò significa un nuovo ruolo per l’area centrale: appare difficile immaginare un suo svuotamento delle funzioni forti né tale ipotesi sarebbe auspicabile (l’area centrale come museo)” (Relazione del Nuovo piano regolatore di Roma adottato dal Consiglio comunale il 19-20 marzo 2003, pagina 16).
Il “modello policentrico delle nuove centralità in rete” è infatti sapientemente distribuito a raggiera intorno al centro antico. La macchia d’olio trionfa in un’acritica indifferenza. E il centro storico rimane definitivamente condannato a sopportare funzioni che lo soffocano.
La furbesca agitazione del fantasma “dell’area centrale come museo” serve solo da banale alibi per non vedere quanto sta avvenendo. Il grande incremento del turismo di massa sta sottoponendo il centro ad un inarrestabile svuotamento di residenti (ne restano ormai soltanto 100.000 all’interno delle mura aureliane) e alla riduzione di interi quartieri antichi a baracconi adatti al turismo mordi e fuggi (sempre all’interno della cerchia delle mura sono oltre 50.000 i posti letto in strutture alberghiere). Altro che museo.
L’urbanistica che credeva nella supremazia della visione pubblica sugli interessi privati. Che tentava di immaginare un futuro migliore per i quartieri e i suoi abitanti. L’urbanistica insomma che piaceva ad Antonio Cederna non c’è più, sostituita da una cortina fumogena di slogan che hanno tentato di nascondere la totale capitolazione verso la proprietà fondiaria. Una sola cosa è forse mutata. Al posto dei “pallidi scherani della speculazione”, come amava dire Cederna, sono comparsi “i furbetti del quartierino”. Ma Roma continua ad essere nelle mani di “latifondisti e trafficanti e monopolizzatori di suolo urbano”.
Di mattina presto da vent’anni Antonio Paolucci attraversa piazza Signoria sulla sua bicicletta. Scende, incatena il due-ruote e da una porticina dirimpetto a Palazzo Vecchio sale nel suo ufficio con finestra sul retro degli Uffizi.
Antonio Paolucci è uno storico dell’arte con la politica nel sangue e uno dei personaggi più in vista del patrimonio artistico italiano. Allievo di Longhi e di Arcangeli, riminese benché Firenze, dove è arrivato come giovane funzionario nel 1969 e dove è soprintendente dei musei cittadini dall’ 88, lo consideri «suo», è un uomo sia diplomatico che a volte brusco. Ha guidato Venezia, Verona, Mantova, il fiorentino Opificio delle pietre dure, è stato ministro dei beni culturali (unico tecnico salito su quella poltrona) nel governo Dini dal gennaio del ’95 al maggio del ’96. Il 29 settembre compie 67 anni, il giorno dopo andrà in pensione lasciando la carica di direttore regionale e, a Cristina Acidini, quella di soprintendente del polo museale. Paolucci avrebbe preferito restare. Il sindaco Domenici ha promesso che lo assolderà in un incarico impegnativo, forse assessore alla cultura.
Dalla sua giovinezza ad oggi il modo di percepire il patrimonio artistico italiano è cambiato molto.
«Quando sono entrato a 29 anni in soprintendenza si battevano le lettere su macchina da scrivere Olivetti con carta copiativa interfoliata. Ricordo che noi funzionari scioperammo chiudendo i musei per 15 giorni e, immagini un po’, i giornali non ne parlarono. Andavo in bici alla Nazione a portare i foglietti della protesta sindacale supplicando che me li pubblicassero. Oggi se gli Uffizi chiudono mezza giornata ne parlano da Tokyo a New York».
Non è cambiata solo la percezione dell’arte: più volte lei ha stigmatizzato che il capoluogo toscano punti tutto sui musei e il turismo. E il discorso investe in forma ancora più drammatica Venezia.
«In 35-40 anni Firenze è diventata una «one company town», vive di solo un’industria, i musei, come Detroit viveva di auto. A Venezia il processo è arrivato conclusioni più radicali. È un fenomeno negativo: una città vera è plurale, ha industrie, artigiani, finanzieri, operai...».
Nel ’75, anzi a fine ’74, è nato il Ministero per i Beni Culturali.
«Quando sono entrato, la direzione generale delle belle arti dipendeva dal Ministero della Pubblica Istruzione. Quando nacque il ministero con Spadolini lo salutammo tutti con gioia. Oggi però non so se sia giusta questa cesura tra istruzione, scuola e università, e beni culturali: ha tagliato le gomene dalla scuola e questo, con altre ragioni, ha indirizzato i beni culturali verso il tempo libero, lo spettacolo, il turismo».
E lei non lo apprezza.
«No. Nessuno pensa agli Uffizi o al Louvre come a una biblioteca di figure, tutti li collegano al divertimento, allo spettacolo. Lei può dire alla sua fidanzata di venire in Galleria e poi cenare fuori ma non ce la vedo proprio a invitarla a leggere le novelle di Cervantes in biblioteca. Però guardare il Barocci o Caravaggio è difficile come leggere Cervantes. Anzi, è più difficile».
Però oggi numerosi musei aprono anche il pomeriggio, un tempo non accadeva mai.
«Quando sono diventato soprintendente a Firenze nel marzo dell’88 l’unico museo aperto dopo le una erano gli Uffizi, la domenica nessuno. Adesso nel Polo fiorentino aprono tutti mattina e pomeriggio domenica compresa. Allora, se volevi comprare una cartolina al museo non ci riuscivi, oggi c’è anche troppo. È un mutamento radicale. Osservo anche un altro cambiamento, culturalmente tragico. Negli anni 30 agli Uffizi entravano 50 mila persone all’anno, oggi un milione e mezzo. Ebbene, c’erano più persone in quei 50mila che uscivano dalla Galleria avendo capito qualcosa rispetto alla cifra di oggi perché appartenevano a una élite sociale e culturale. Il popolo dei musei oggi è formato in grandissima maggioranza da gente che guarda solo la tv, non ha mai letto un libro e non saprebbe scrivere mezza cartella di riflessioni».
Supponiamo che quanto afferma sia giusto. Però lei fa, e bene, il divulgatore in tv, nei giornali, amplia il raggio d’azione dell’arte anche a chi magari non legge libri: il suo agire contraddice il suo discorso di élite.
«Non ho detto che deve esserci meno gente, non difendo la cultura di élite. La mia è una constatazione, ma qualcuno ha sbagliato se la gente esce ignorante. Ha fallito la scuola, abbiamo fallito noi che non diamo strumenti didattici, ha fallito la televisione che sfodera idiozie. Il dedicarmi alla divulgazione dimostra invece che credo nell’incivilimento culturale per il quale - ne sono convinto - il museo è il luogo adatto, ma mi dispiace che la gente lo attraversi come acqua che scivola sulla pietra».
È cambiato anche il modo di pensare ai beni culturali: oggi tutto , dal palazzo antico a Botticelli, viene visto anche con occhio «economico». C’è stato perfino chi voleva vendere...
«È un cambiamento ambivalente, positivo per certi aspetti, negativo per altri. È facile dire che il museo è motore di sviluppo, di occupazione ed economia, ed è in parte vero. La concessionaria che dal ’97 governa biglietti e bookshop nei 20 musei fiorentini ha creato 300 posti di lavoro e con 5milioni di visitatori l’anno introita 30 milioni di euro. Mettiamoci accanto Pompei, Roma, Venezia... Ma chi immagina mirabolanti profitti dai beni culturali sbaglia di grosso: hanno una fruttuosità sì immensa ma non monetizzabile né misurabile. La fruttuosità è che dietro ogni paio di scarpe, ogni bottiglia di vino e foulard venduto a Sidney come a Vancouver ci sono i cipressi della Val d’Orcia, Botticelli, Michelangelo. È l’artisticità il moltiplicatore del made in Italy. La moda è l’unico nostro primato rimasto nel mondo perché la qualità nasce dall’artisticità del Paese: si inventano certi colori perché li abbiamo assorbiti dalla mamma. Peccato che nessun politico faccia questa riflessione».
Anni fa lei scatenò polemiche dicendo che l’arte italiana finisce con Tiepolo. Eppure i futuristi, DeChirico, l’Arte povera e la Transavanguardia hanno avuto tutti una portata internazionale. Lei è lo storico dell’arte a cui sfugge il proprio tempo?
«Dissi che per tre secoli, tutto il ’500, il ’600 e il ’700, la lingua figurativa egemone nel mondo era quella italiana, la si parlava dalla Polonia al barocco nell’America Latina, dalla Francia a San Pietroburgo. Questa egemonia finisce con Tiepolo e con il Canova; i centri artistici sono diventati altri. È un’affermazione che ho pronunciato proprio perché sono uno storico dell’arte».
«Rivendicazioni» come quella del Comune di Firenze che, tempo fa, voleva il David di Michelangelo rivelano una sensibilità localistica per gestire l’arte statale. Lei si è sempre opposto: perché?
«Credo nell’articolo 9 della Costituzione che dice “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. Con Repubblica intendo tutti gli italiani a cui stanno a cuore le chiese rupestri della Calabria come gli ulivi nella Val d’Orcia. Dopo 40 anni sono sempre più convinto che la tutela è tanto più efficace quanto più è lontana e indifferente al luogo. Un sindaco deve avere voti: come fa a dire di no a una richiesta di permesso per aprire una pizzeria accanto a una chiesa? Un governatore della Regione è meno pressato, un ministro che deve star dietro a ottomila Comuni è indifferente al problema di quel singolo cittadino. E si parli di Italie, non di Italia: l’Emilia Romagna è molto diversa dalle Puglie. Bisogna mantenere la nazionalità della tutela condividendo la valorizzazione con Regioni e Comuni».
Cosa rifarebbe e cosa no?
«Rifarei tutto con entusiasmo. Due sono le cose di cui vado più orgoglioso: il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi dopo il terremoto, di cui ero commissario, e l’acquisizione alla città di Firenze dell’eredità dell’antiquario Bardini, con il parco e un insieme di opere d’arte; un risultato raggiunto perché ero ministro. Non mi viene in mente nulla che non rifarei».
Quali urgenze ha l’arte oggi in Italia?
«Il ministero è un gerontocomio, non si fanno concorsi, va rinsanguato. Se un’azienda non ha 30enni e 40enni nello staff uscirà dal mercato. Noi non siamo un’azienda ma il principio resta valido, è a quell’età che si hanno entusiasmo, creatività, si propongono novità».
Dal ’90 al ’95 fu consigliere comunale a Firenze per la Democrazia cristiana. Rivendica o contesta il primato della politica nel gestire la cosa pubblica?
«Se è per questo ho partecipato anche alla lista dell’Asinello di Rutelli alle europee. Ritengo importante far politica perché il tecnico puro è portato - in buona fede - a ragionare solo secondo il suo mestiere. Invece se fai politica capisci la straordinaria concreta realtà degli uomini e delle donne. Quello che gli antipolitici chiamano arruffianamento è la vita, anche nel nostro mestiere devi comprendere le ragioni degli altri. A volte un eccesso di tutela da manuale può far danni: se proibisci di aprire un gabinetto in una casa medioevale il proprietario o la lascia degradare o ne fa uno abusivo. Non deve esistere il tecnicismo puro. D’altronde la società civile quando ha sostituito la politica non ha brillato».
La proposta di riunificazione dell’area del Colle Oppio segnalata da La Repubblica si presta in primo luogo a una breve considerazione preliminare. Il progetto proviene da una delle numerose idee della Soprintendenza archeologica romana tenacemente perseguite nel corso di questi anni. Lesignore e i signori NO, come vengono generalmente apostrofati dal mondo politico e dell’informazione gli archeologi quando tentano di tutelare i beni loro affidati, dimostrano ancora una volta di avere una chiara idea su quale debba essere il futuro del centro storico. Rappresentano un prezioso giacimento di idee e progetti per lo sviluppo culturale di Roma.
Il nodo vero rimane quello della concreta attuazione dei progetti. Ed è la stessa Repubblica a indicare due macigni che graverebbero sul cammino della proposta. Il primo di carattere economico; il secondo di natura funzionale.
Nel primo caso si afferma che mancano i soldi per l’attuazione del progetto. La giustificazione ha un parziale fondamento. Le Soprintentendenze e tutto il Ministero dei Beni culturali sono stati falcidiati dalle politiche di bilancio del governo Berlusconi. Solo pochi mesi fa è stata addirittura chiusa la Domus Aurea per gravi problemi di staticità. Mancano i soldi per la manutenzione ordinaria, figuriamoci per una nuova campagna di scavi. Ma nel caso del Colle Oppio il progetto potrebbe esser attuato per fasi successive, iniziando dalla chiusura al traffico automobilistico dei 700 metri di via del Colle Oppio. Con tale chiusura si potrebbe intanto avere un altro grande parco a disposizione dei cittadini: gli scavi sistematici potrebbero essere programmati su un ragionevole arco di tempo.
Ma l’ostacolo vero è il secondo. Si vuol far credere che la chiusura del breve tratto stradale provocherebbe chissà quali ripercussioni sul traffico urbano mentre invece la maglia urbana circostante è in grado di assicurare il funzionamento viario. Se la mancata chiusura di via dei Fori imperiali è stata giustificata con l’impossibilità di alternative nei collegamenti centro storico-quartieri orientali, in questo caso la giustificazione non tiene. Il collegamento tra centro storico ed Esquilino ha già oggi la possibilità di sfruttare la rete stradale limitrofa. Eppoi sul tratto stradale da chiudere non transita nessuna linea di trasporto pubblico
Evidentemente chiudere la via del Colle Oppio non rientra nei programmi dell’amministrazione comunale così come è tristemente tramontata l’idea di chiudere via dei Fori imperiali. Manca il coraggio di pensare ad una città diversa, che faccia della sua area archeologica centrale liberata dal traffico il principale elemento qualitativo. Manca insomma l’idea di un centro storico che non sia soffocato dal traffico e in cui i gas di scarico delle automobili non debbano continuare a danneggiare i monumenti. Basta accontentarsi dell’effetto annuncio mediatico.
Un progetto di riqualificazione dell´intera area del Colle Oppio che prevede ulteriori scavi nell´immenso patrimonio di palazzi sepolti insieme alla Domus Aurea e, in superficie, il recupero dell´integrità delle Terme di Traiano. Per questo dovrà essere interamente cambiata la viabilità all´interno del parco: sparirà l´attuale via del monte Oppio che taglia a metà le Terme, che verrà sostituita da percorsi alternativi lungo l´attuale tracciato viario che circonda il Colle. Tutta questa materia entrerà, a settembre, nella conferenza dei servizi di Roma Capitale. Spesa prevista: dagli 80 ai 100 milioni di euro.
«È un progetto messo a punto alcuni anni fa», spiega il sovraintendente ai Beni Culturali di Roma Eugenio La Rocca, «quando il ministro Rutelli era sindaco di Roma. Allora un gruppo di lavoro composto con le diverse sovraintendenze, il sindaco, le università, architetti e archeologi riesaminò la situazione del Colle Oppio. A parte il degrado del parco, c´è infatti un problema di tipo archeologico. Il progetto di riassetto delle Terme di Traiano fatto dall´architetto Antonio Munoz negli anni ‘30 ha spaccato in due parti una delle opere più pregevoli dell´antichità: queste terme sono dell´architettto Apollodoro Damasceno, il più grande tra tutti gli architetti che operarono a Roma. Noi, attualmente, ne vediamo solo alcune esedre e qualche pezzo in mezzo alle aiuole: non è possibile per il visitatore coglierne la bellezza come di un unico monumento». Tanto più che la strada che le taglia in due è diventato, come nota La Rocca, «solo un parcheggio di pullman: una cosa assolutamente intollerabile».
Il progetto che ora sta arrivando in dirittura d´arrivo, però, non si limita alla superficie del colle. «Le Terme di Traiano sono state realizzate su un´enorme piattaforma che Apollodoro realizzò con i resti della Domus Auera e di molti altri edifici. Gli scavi che stiamo effettuando stanno portando alla luce tesori straordinari. Sappiamo che là sotto ci sono saloni enormi, ricchi di affreschi e di mosaici. È scavando lì che abbiamo trovato l´eccezionale dipinto della città perfetta, oppure il mosaico con i pampini e l´uva. È un´area ricchissima che va portata alla luce interamente».
Farlo però non sarà facile. Non solo per lo spostamento della strada - «Andranno esaminati percorsi alternativi sulle strade limitrofe» - ma per il costo dell´intera opera. «La questione dei tempi», dice La Rocca, «è legata a quella dei finanziamenti. Per un intervento di questo tipo ci vuole un finanziamento straordinario, che può essere elargito solo attraverso una legge dello stato. Stiamo parlando di una cifra dagli 80 ai 100 milioni di euro. Per questo se ne dovrà parlare nella conferenza dei servizi per Roma Capitale».
Non è facile spiegare a chi non c'è stato il senso di un luogo così vicino e così lontano, non solo geograficamente, dall'isola madre. L' accesso all' Asinara è stato negato per oltre un secolo, perciò il ricordo collettivo (e il racconto) è discontinuo; e nonostante le popolazioni locali la tengano da sempre nello sfondo hanno un'idea vaga della sua forma complessa. Doppia, come appariva ai topografi ottocenteschi che segnalavano, tra due alture, la pianura che collega i due mari: quello di fuori scostante e quello interno che consente facilmente l'approdo.
Qui si sono si sono incontrati pastori e pescatori, corallari venuti da lontano e soldati, guardiani di torri e di fari che hanno intrecciato le loro storie, nonostante l'isolamento e le battaglie cruente che si svolgevano senza preavviso nel mare attorno.
Storie interrotte, all'improvviso, quando l'isola, nel 1885, è stata acquisita al demanio per impiantarvi un carcere e una stazione sanitaria. Un atto che ha segnato in modo perentorio la sua vicenda, che ha deciso la sua fisionomia. Per conoscere l'Asinara - da una decina d'anni Parco nazionale - bisogna saperla la sua storia e tornarci, non solo d'estate perché ogni volta si scoprono aspetti inosservati. Il trionfo dell'euforbia a primavera, le capre che sbucano imponenti, le berte maggiori che volano oscillanti, il colore dei fondali che cambia all'improvviso.
Scenari unici e integri, nonostante la presenza di uomini che non l'hanno curata, per quanto i racconti di prigionieri e guardie rivelino un sentimento di attrazione per questo luogo.
Il Parco: con tante questioni aperte. Che a differenza di altri parchi è accessibile con difficoltà. Ed è interamente di proprietà pubblica. Moltissimi gli edifici, alcuni di pregevole fattura, che avrebbero bisogno di interventi. Poi gli animali da accudire e quelli in eccedenza. Le esigenze della tutela, che i pochi e bravi tecnici del Parco curano con passione.
Quindi i costi e le risorse inadeguate per i parchi (abbondanti per le grandi opere). L'insoddisfazione di chi vorrebbe di più. Gli incitamenti di chi vorrebbe metterla in produzione l'Asinara e l'idea - rieccola - di affidare le volumetrie ai privati che saprebbero come fare, ci mancherebbe. E che ovviamente dovrebbero fare i conti con il mercato. Il grande villaggio turistico - superesclusivo - quindi. Una risposta sbagliata. Perché si tratterebbe di un'altra rottura con la sua storia, il contrario dell'idea di parco, che è dentro un orizzonte temporale lungo, un investimento per le generazioni future a cui si devono subordinare le aspettative immediate della politica. La omologazione pure parziale ai riti della vacanza balneare, sarebbe un danno incalcolabile. Occorre conservarla con ostinazione questa differenza. Tanto più se si adocchiano le coste dirimpettaie di Stintino, cancellate dalla speculazione edilizia. O quelle più in là, sciaguratamente segnate dalla centrale a carbone, dalle fabbriche dimesse della ex Sir , dall'inquinamento.
Manuela Cartosio, Bersani in campo: a Rimini per benedire l’asse del nord, il manifesto, 15 agosto 2006
Domenica prossima decolla il meeting Niellino di Rimini. Cosa ci va a fare Bersani a parlare di don Giussani?, si è chiesto un offeso Antonio Socci. Nessuno l’ha filato più di tanto. Il ministro diessino al meeting parlerà anche di un libro sulla figura del fondatore. Ma di certo non è solo per quello che l’hanno invitato. Pierluigi Bersani, tanto al governo che all’opposizione, è un abbonato fisso a Rimini. Da un pezzo intrattiene ottimi rapporti con la Compagnia delle Opere.
C’è certamente lo zampino di Bersani nello smarcamento della Cdo dal centrodestra, testato in alcune elezioni amministrative al Nord prima delle ultime politiche nazionali. Bersani, inoltre, si occupa di imprese e di economia.
Per la destra becera, è lo sponsor delle Coop rosse. Per la Cdo, invece, è un campione della «sussidiarietà».
Si intuisce il profilo di Bersani (oltre che di Enrico Letta) dietro l’operazione varata a fine luglio in Lombardia: Formigoni ha rilanciato il federalismo a doppia velocità e Ds e Margherita ben volentieri si sono accodati, spaccando l’Unione (i particolari li trovate riassunti nell’intervento di Pino Vanacore). Il federalismo «a richiesta» e «asimmetrico», che necessita di un accordo bipartisan, e i lavori in corso per scomporre e ricomporre i poli saranno i protagonisti al meeting di Rimini. L’intenzione dichiarata di Formigoni, che resta il politico di punta per i ciellini, è di raccogliere a Rimini ok ulivisti di rango nazionale al suo progetto. Che smentiscano lo stop venuto da Linda Lanzillotta, ministro degli affari regionali, all’accelerazione lombarda.
Sia Bersani che Letta nei giorni scorsi sono rimasti zitti. Scommettiamo che del federalismo alla lombarda parleranno a Rimini e non per bocciarlo. Non sarà «un inciucio», come lo definisce Rifondazione, ma qualcosa di grosso bolle in pentola.
Il governatore lombardo ha quasi snobbato lo stop della Lanzillotta, lasciando intuire d’avere in tasta il sì di qualche pezzo da novanta nel centro sinistra. «La nostra iniziativa ha spiazzato molti. Ma i tempi della pura conservazione sono finiti. É ora di uscire dalle proprie tane comode e calde. E di lasciarsi alle spalle il bipolarismo da guerra», ha dichiarato signorilmente Formigoni.
Più inviperite e scomposte le reazioni Di Ds e Dl lombardi allo stop della Lanzillotta. «E’ stata eletta in Lombardia, ma non capisce niente del Nord», ha detto Luciano Pizzetti, capogruppo della Quercia al Pirellone. «Sul federalismo vogliamo andare avanti, non accetteremo dilazioni da Roma», ha aggiunto, «per noi non esistono governi amici, ma solo quelli che fanno o non fanno le cose». Tanto i Ds che la Margherita hanno chiesto, dalle pagine locali di Repubblica, le dimissioni di Riccardo Sarfatti, portavoce dell’Unione al Pirellone. «Prende ordini da Roma e vota sempre contro». La seconda cosa è vera. Ma che altro dovrebbe fare il capo dell’opposizione se non votare contro Formigoni?
Pino Vanacore, Quell’abbraccio mortale a Formigoni, il manifesto 15 agosto 2006
L’ordine del giorno votato nel consiglio regionale lombardo dal centrodestra, da Ds e dalla Margherita, con la contrarietà delle altre forze di opposizione e l'astensione del coordinatore dell'Unione, non è stato un temporale estivo destinato a dissolversi in fretta.
L'atto è apparso subito grave e gratuitamente lesivo di un’unità che il giorno prima si era espressa nel voto contrario al documento di programmazione regionale. Non è stato un colpo di caldo, ma un’operazione pianificata nei giorni precedenti, condotta senza trasparenza e scontando a priori una rottura interna all'opposizione. Né si è trattato di un innocuo, non condivisibile, documento sulle priorità dell'assetto viario. Dietro il «federalismo autostradale» si nasconde l'ambizione di Roberto Formigoni di rilanciare la sua leadership, compromessa dalla breve parentesi romana e dalla sconfitta del referendum sulla devolution, bocciata anche nelle principali città lombarde, a partire da Milano.
Far leva sull'articolo 116 della Costituzione come «via ordinaria » per ottenere poteri speciali e risorse aggiuntive, per sostenere la sussidiarietà, è operazione non condivisibile,ma anche di rottura della solidarietà nazionale. Non si spiegherebbero altrimenti le reazioni dei presidenti della Calabria e della Campania che, in buona sostanza, hanno affermato che «poteri speciali in assenza di chiare regole fiscali, in grado di garantire la perequazione delle risorse a livello nazionale, sono peggio della devoluzione di Bossi».
Questo adagiarsi su Formigoni da parte di Ds e della Margherita è solo in parte spiegabile con i tentativi in atto di aprire orizzonti a esperienze di «larghe intese». C'è in Lombardia una crisi del modello di sviluppo e del modello sociale. Crisi denunciata, ad esempio, dalla Banca d'Italia nel rapporto sullo sviluppo delle regioni, ove si evidenzia che è il declino della Lombardia a trascinare quello dell'Italia e non viceversa.
Il punto è come si risponde a questa crisi. A destra e in una parte del centrosinistra si pensa di rispondere in termini meramente quantitativi. Da coloro che hanno votato a favore dell'ordine del giorno del 27 luglio viene denunciato il gap infrastrutturale rispetto ad altre regioni. La «Brebemi», opera viaria considerata dagli esperti inutile, diventa una necessità, ma non ci si cura dell'emergenza idrica, causata in parte dalla perdita degli acquedotti che supera il 50%. Non ci si cura della qualità dello sviluppo e dell'inclusione sociale. Nel Dpef regionale 2007-2009 non ricorre una sola volta la parola solidarietà, per non parlare del termine uguaglianza, sparito totalmente dal lessico del Pirellone.
In realtà, la Lombardia ha bisogno di una via dello sviluppo, puntando su investimenti pubblici capaci di generare una nuova specializzazione industriale, sostenibilità ambientale e inclusione sociale. Ma guardando ai dodici anni di governo Formigoni si deve constatare che la capacità di spesa della Regione non è aumentata: il disavanzo è cresciuto (oltre novemila miliardi di vecchie lire), è costato ai cittadini più tasse e più interessi passivi che sottraggono risorse agli investimenti. Contestualmente, i bilanci della Regione sono meno trasparenti, e meno nitidi sono i ruoli di società come Finlombarda, Lombardia Informatica o Infrastrutture Lombarde Spa: aumenta la vocazione ad operare al di fuori delle regole della pubblica amministrazione e della concorrenza (la Cgil lombarda ha avviato un ricorso alla Corte di Giustizia europea).
I cittadini lombardi sono oggi meno uniti e più insicuri, la percezione soggettiva della povertà (8% della popolazione) supera la povertà oggettiva (4,7%).Una sensazione di fragilità controversa, ma anche il risultato dell'indebolimento delle reti collettive: il fai da te non è alla portata di tutti e i poveri hanno meno occasioni di inclusione. La Lombardia ha un abbandono scolastico superiore alla media nazionale. Secondo i dati della campagna Sbilanciamoci!, la Lombardia si colloca al ventesimo posto, l'ultimo nella graduatoria nazionale, per la situazione ambientale, all'undicesimo per l'esercizio dei diritti, al nono per la partecipazione e le pari opportunità, e solo al settimo per la salute.
Segnalo un altro indizio della nuova stagione bipartisan al Pirellone. Nella discussione in aula sull'assestamento del bilancio 2006 non un solo emendamento del centrosinistra è stato accolto, né per gli anziani, né per il sostegno al reddito, né per il diritto allo studio. Ma, come per magia, il 28 luglio è stata presentata una legge per interventi contro la povertà che stanzia 210mila euro a favore del Banco Alimentare della Compagnia delle Opere. Accanto alle firme di Forza Italia, An, Lega e Udc ci cono quelle dei Ds e della Margherita.
Formigoni alle scorse regionali ha perso settecentomila voti, l'esito del referendum non gli consente trionfalismi. E'davvero sorprendente che, proprio quando crescono le condizioni permettere in discussione il vero laboratorio della destra in Italia, l'Ulivo lombardo puntelli il governatore. Sono puntelli che scardinano l'Unione in Regione e pesano persino sul governo Prodi. ( L’autore è di Unaltralombardia)
Nota: contemporaneamente conferma, se necessario, questo articolo dalle pagine milanesi di Repubblica (f.b.)
Andrea Montanari, Sangalli: bene il polo autostradale ma al Nord serve anche la Brebemi, la Repubblica, 15 agosto 2006
«Bene il patto sulle autostradale, ma ci vuole anche la Brebemi per evitare la rottura del Nord». Il presidente della Camera di Commercio e di Confcommercio Carlo Sangalli condivide la proposta di Regione e Provincia di coinvolgere anche il Comune sulle nuove opere: «Milano deve dimostrare come il buon governo diventi anche capacità del fare nelle infrastrutture».
Presidente Sangalli, le larghe intese possono partire dalle nuove autostrade?
«La proposta politica di Roberto Formigoni è molto interessante perché si occupa di cose concrete e cerca vaste intese».
E dunque?
«Quello di questi giorni mi è parso un confronto direi quasi post-ideologico. Il tema, secondo me, non è solo ciò che Milano chiede al governo, ma ciò che Milano può dare in più al Paese. A cominciare dall´innovazione».
In altre parole?
«Mi pare si sia chiarito anche il ruolo di chi controlla e di chi gestisce il sistema autostradale, quello delle istituzioni e dei concessionari. E se in futuro chi controllerà sarà più vicino ai cittadini sarà meglio per tutti e sarà un reale esercizio di sussidiarietà. Il tema delle risorse, però, resta. E su questo l´intervento del pubblico è decisivo».
Ma le casse pubbliche sono vuote.
«Come camere di commercio abbiamo proposto una strada aggiuntiva, quella del project financing, con l´investimento dei privati, a partire dalla Brebemi. Noi ci crediamo, come metodo e come priorità per il territorio».
Per il governo solo Pedemontana e Tem sono delle priorità.
«La Brebemi come la Pedemontana hanno un compito essenziale, quello di evitare la rottura del Nord. Con l´alta velocità, le nuove infrastrutture dell´aeroporto di Malpensa quelle della nuova Fiera si ragiona sempre più in termini di macroregione del nord-ovest. Ma per tutto il Paese è essenziale saldare il nord-ovest con il nord-est. Ed è proprio sulla parte centrale del Corridoio 5 che abbiamo le difficoltà maggiori e i rallentamenti più evidenti. E sono tutti nella nostra regione. Ecco perché la Brebemi non è un´infrastruttura locale, ma una priorità nazionale».
Come giudica i primi passi del tavolo Milano voluto dal governo Prodi?
«Un buon inizio. Qualcuno la chiamerebbe concertazione, io preferisco definirla una collaborazione necessaria, o meglio un matrimonio d´interesse. Da un lato, il governo ha interesse a proporsi a un Nord che non lo ha sostenuto, dall´altra Milano deve dimostrare la sua capacità del fare nelle infrastrutture».
Si spieghi meglio.
«I trasporti e l´accessibilità sono un tema di sviluppo, che interessa alle imprese, al territorio, alle istituzioni. Ma soprattutto un tema legato alla qualità della vita. E quindi politico. Direi addirittura di democrazia sostanziale tra i cittadini "privilegiati", che possono avere le autostrade, l´alta velocità ferroviaria, la compatibilità ambientale, servizi pubblici, e quelli che, invece, scontano costi aziendali aggiuntivi, restano imbottigliati per ore, si devono muovere solo con le proprie auto perché i servizi pubblici non sono all´altezza».