loader
menu
© 2025 Eddyburg

La porta di accesso è rimasta la stessa ma, all’interno, l’alloggio di 72 mq è ora diviso in due, uno di 34 e l’altro di 35 mq, ognuno con cucina e bagno. Siamo a Monteverde in una palazzina costruita intorno agli anni ’60, quando la zona era ancora periferia e dove Pasolini vi ambientò l’inizio di Ragazzi di Vita. Lui 34 anni e lei 33, entrambi lavoratori precari e con il desiderio di mettere su casa. I genitori di lui sfrattati dalla loro casa in seguito alle cartolarizzazioni: il padre con la pensione sociale e la madre in attesa di riceverla. Un mutuo di durata trentennale che costa 1.100 euro al mese, come un affitto che, se a pagarlo sono due famiglie, sembra essere la soluzione ideale per avere una casa. A Roma torna la coabitazione, torna perché era già consuetudine negli anni ’60, quando le case mancavano. Oggi però le case ci sono: tra il 2001 e il 2005 le abitazioni in più rispetto al numero delle famiglie sono passate da 199 mila a 249 mila. Tornano dunque le coabitazioni per una ragione diversa: l’insostenibile pesantezza del canone di affitto. Una storia come molte altre di frazionamento di un appartamento che fa luce su un vasto fenomeno di contrazione dello spazio fisico domestico. Ma anche una storia emblematica dell’arte di arrangiarsi per assicurarsi il diritto a restare nella città, a non essere espulsi lontano, in provincia.

Il Macao è il quartiere compreso tra la stazione Termini e il Castro Pretorio; costruito dopo l’Unità d’Italia come zona residenziale è composto da villini e da edifici a blocco con alloggi anche di ampie dimensioni. La linea B della metropolitana e la vicinanza con la stazione Termini lo rendono facilmente accessibile. E’ qui che nel 2003 un giovane imprenditore (29 anni) proveniente da una città del Sud compra, da una famiglia, un alloggio di 170 mq. L’idea era di farci un piccolo residence per i turisti e i pellegrini. L’alloggio fu suddiviso in 5 monolocali (4 di 22 mq e 1 di 25 mq) e in un bilocale (56 mq). Ogni monolocale è arredato, non c’è la cucina ma una piastra elettrica e c’è il frigorifero, il letto è sul soppalco. Gli spazi comuni sono ridotti al minimo: il corridoio è dotato di una postazione internet.

La clientela di turisti che si fermavano per pochi giorni (3-7 giorni) venne sostituita ben presto da utenti sempre temporanei ma che restavano per un periodo di tempo più lungo. I contratti sono quelli transitori della durata di tre mesi e i clienti sono dipendenti di società, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, turisti, liberi professionisti, studenti. La domanda in crescita è quella dei lavoratori autonomi in trasferta, dei piccoli imprenditori e dirigenti di società. Al momento dell’indagine risultavano occupati tre monolocali su cinque, rispettivamente da: un ristoratore che risiede fuori Roma e che usa il monolocale soprattutto nei fine settimana; da una coppia di giovani, lui studente e lei lavoratrice di origine irlandese; da una signora russa, una cliente fissa che ogni due-tre mesi occupa il monolocale per circa un mese. I costi di gestione sono ridotti al minimo, un factotum di origine rumena è a disposizione degli inquilini. Il canone di ogni monolocale è di 900 euro al mese a cui si aggiungono le spese per internet, riscaldamento, ecc… circa 60-80 euro: in totale si arriva a poco meno di 1.000 euro al mese.

Quattro trentenni, laureati, tre ragazzi e una ragazza. In quattro si suddividono un quadrilocale di circa 120 mq nella zona a Sud Ovest di Roma. Un profilo caratterizzato da flessibilità lavorativa, dalla disponibilità alla mobilità (alcuni di loro hanno cambiato già più volte città e lavoro), e da un’alta qualificazione. Uno di loro lavora per una multinazionale di cosmetici. Non si conoscevano prima di coabitare. Niente contratto, ognuno paga la sua quota di affitto, 350 euro a camera, direttamente e in contanti al proprietario e risponde solo per se stesso. L’incidenza del canone di affitto sui redditi varia da circa il 15% del reddito più alto a circa il 30% di quello più basso. In totale, il proprietario percepisce un canone di 1.400 euro al mese. L’organizzazione della convivenza prevede l’assunzione delle spese comuni (la signora delle pulizie quattro ore a settimana) che ammontano a circa 400 euro al mese, ma anche la ricerca di una maggiore integrazione: ad esempio, il rito di fare la spesa e di svolgere la cena insieme, quando è possibile.

Ricerca di integrazione che si proietta anche alla scala più ampia, quella della città e che incrocia il desiderio di vivere, di partecipare, di essere nella città. Non solo quindi coabitazione di necessità.

Le storie riportate costituiscono solo una parte di una indagine svolta presso il Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre dal titolo “Itinerari dell’abitare a Roma”. Il quadro che emerge lungo questi itinerari è che nel corpo della città si stanno affermando forme che testimoniano del mutamento sostanziale cui è soggetto il sentimento dell’abitare. Mutamenti che hanno a che fare con il bisogno (la necessità) di “condividere” i costi per renderli sostenibili e quindi con la costruzione di forme di associazione; con la crescente mobilità delle persone e quindi con la temporaneità e, infine, con la riduzione dello spazio domestico.

Nuove forme di associazione. L’abitare si accompagna a forme di associazione con altri individui. Abitare, affermare il diritto alla città, vuol dire incontrare gli altri, condividere con loro non solo lo spazio, ma allargare questa condivisione alla possibilità di costruire una rete sociale che allontani il rischio della solitudine e della perdita di senso dell’abitare. In alcuni casi lo stare insieme si limita ai valori di buon vicinato, ma frequenti sono i casi nei quali questo “essere con” nasce e allo stesso tempo coltiva valori che combinano la dimensione individuale e la costruzione di piccole e concettualmente non molto elaborate forme di comunità. L’incontro, in qualche misura artificiale, porta alla costruzione intenzionale di un rapporto con gli altri che comporta anche l’attivazione di forme di coinvolgimento emotivo di identificazione e di condivisione di un comune fine morale.

La temporaneità. La crescente mobilità delle persone cambia il sentimento dell’abitare, intanto per il fattore tempo (la durata) ma ancora di più per la “voglia” di abitare. Le città sono attraversate da flussi di individui che hanno intrapreso un viaggio alla ricerca di nuovi stimoli, di nuovi e differenti modi di vita. Sono i nomadi urbani ai quali le città dovranno costruire nuovi porti per trasformare in opportunità il loro perdersi. Non si tratta dei turisti con i loro riti di massa ma ci riferiamo alla popolazione dei fluttuanti, alcuni per necessità molti per scelta, tutti comunque alla ricerca di una possibile svolta nella loro esistenza. Rappresentano un capitale di energia e di innovazione vitale per le città. Sono espressione di quella mobilitazione universale nella quale sembra destinata ad evolversi ormai la condizione del cittadino.

Questa popolazione esprime valori differenti come, ad esempio, l’uso del bene casa e non più la sua proprietà.

All’abitare temporaneo si accompagna anche la costruzione (immateriale) del sentimento dell’abitare. E’ la ricerca di una familiarità. Alla città spetta il compito di costruire i luoghi per la formazione di questo sentimento. Il carattere nomade con cui abitiamo la contemporaneità della città ci precipita in una condizione di disagio per l’assenza di quelle forme connaturate all’abitare e che sono normalmente esperite nel luogo in cui si nasce e si vive. Da questa assenza, percepita in un altrove, nasce il desiderio, la voglia che ci porta ad una ricerca ostinata dell’abitare.

I luoghi per abitare sono allora identificati con quelli dove si può consumare la città, riconoscerne e viverne le diverse identità. La vita è nella città, è per la strada: si vuole mantenere la vicinanza con i luoghi della scoperta e delle possibilità. Il rapporto dell’abitante con la città cambia, diventa un rapporto del tipo consumatore-città. La città diviene erogatrice di beni (servizi) da consumare: non la curo, la uso e mi aspetto che sia efficiente, vivibile e facile da usare.

Riduzione dello spazio domestico. Per affermare il diritto alla città e per mantenere la prossimità con i luoghi centrali si riduce lo spazio domestico. Negli aspetti più materiali queste forme dell’abitare attivano processi di coabitazione, di partizione e di parcellizzazione dell’immobile. E’ così che la città è attraversata da un processo di espansione che riguarda il capitale fisico esistente. La città sembra così destinata a vivere una fase di contrazione. Con essa si è soliti indicare fenomeni di riduzione, di ridimensionamento, ma la contrazione è invece una dinamica che comporta sempre un plus, un di più. La contrazione non è in opposizione alla crescita è solo una stagione diversa nell’evoluzione della città e rappresenta una nuova chance.

Nella comprensione di questi mutamenti e di questi nuovi caratteri, Roma si gioca la sua scommessa di futuro. Le città non sono fatte solo di case ciò nonostante la disattenzione sull’abitare, l’assenza di un pensiero e di una strategia su questo aspetto, oggi può risultare fatale per la stessa possibilità di tenere insieme la città, di assicurargli coesione sociale e prospettiva di sviluppo economico reale e diffuso. A Roma, purtroppo, i dati e la realtà testimoniano di questo rischio.

Nel primo semestre del 2005, nel Lazio, sono stati eseguiti 1.753 sfratti (+4,7% rispetto allo stesso periodo del 2004); di questi, 1.523 riguardano il comune di Roma, con un incremento del 7,9%. Tra le motivazioni, gli sfratti per morosità rappresentano il 60%. A Roma, dove il mercato immobiliare si colloca ai vertici per intensità di crescita, l’effetto di schiacciamento verso il basso delle fasce sociali cosiddette medie ha una incidenza più alta di quanto avviene a livello nazionale. Nel 2004 per una famiglia del centro di Roma con un reddito pari a 30 mila €/anno l’incidenza del rapporto canone/reddito era il 70%, il 46% per una famiglia che vive in semiperiferia e il 37% per una che vive in periferia. Per un reddito di 15 mila €/anno (il caso ad esempio di una famiglia monoreddito, o di giovani con lavori precari,…) l’incidenza diventa proibitiva anche per sostenere l’affitto di un’abitazione, fosse anche in estrema periferia.

Negli ultimi anni il tasso medio annuo che misura l’incremento delle nuove abitazioni a Roma è stato dell’1,4%, a Milano dello 0,7%, a Torino dello 0,6%, a Napoli dell’1% e a Palermo dello 0,5%. Cresce il numero delle case e cresce il disagio abitativo. Un paradosso? Questi dati confermano i timori di quanti avvertivano che la crescita, anche consistente, delle nuove costruzioni non avrebbe contribuito a ridurre il disagio abitativo (su questo si veda l’articolo sul mensile di Carta del maggio scorso).

L’Agenzia del territorio ha pubblicato il grafico “la piramide dei valori immobiliari” di Roma e della provincia dal quale risulta che i valori degli immobili nelle aree del centro storico sono 8 volte quelle del comune della provincia che ha i prezzi più bassi (Rocca Canterano) e sono 5 volte più alti di quelli delle zone periferiche prossime al grande raccordo anulare. La piramide ha in realtà la forma di una colonna con un fusto stretto e ben slanciato, coincidente con le aree del centro storico, e con una base molto ampia coincidente con i quartieri dentro e fuori dal grande raccordo. Una rappresentazione che chiarisce come a poter salire sul fusto della colonna è ormai solo una elitè di ultra milionari. Si tratta di un mercato offerto agli scambi economici alla scala globale e dal quale i residenti sono per lo più esclusi, quando non espulsi.

Il diritto alla città è uno di quei diritti non negoziabili, ma oggi a Roma questo è un diritto negato a molti. Per riaffermare il diritto alla città è necessario sperimentare politiche abitative coraggiose ed innovative. In altre parole, costruita la città degli eventi, occorre ridefinire la città dell’abitare con l’obiettivo di aumentare la coesione sociale e di contribuire all’economia reale della città.

E’ questa la sfida per la città di Roma.

(La ricerca “Itinerari dell’abitare a Roma” è stata condotta da: Sandra Annunziata, Walter Barberis, Alessandro Calabrò, Alessandro Coppola, Claudia Gatti, Clara Musacchio, Sofia Sebastianelli; il coordinamento della ricerca è di Giovanni Caudo)

L’economia romana cresce a ritmi maggiori di quella nazionale. E’ un dato oggettivo, ci sono i numeri concreti delle statistiche, non servono dimostrazioni. Affermare che in questi ultimi anni le condizioni di vita urbana sono notevolmente peggiorate è invece una tesi, e richiede una doverosa dimostrazione. La faremo partendo dai tre più evidenti segnali della crisi urbana: il blocco quotidiano del traffico automobilistico, lo stato della periferia e il degrado del centro storico.

I veicoli dei romani sono quasi due milioni e 400 mila. A questi bisogna aggiungere 600.000 tra motorini e moto di grossa cilindrata. Ogni abitante dispone di un’automobile; uno su quattro di uno scooter. Cifre impressionanti che non hanno uguali in ogni altra città italiana o del mondo. Roma ha infatti 893 auto per ogni 1000 abitanti a fronte di una media italiana di 724. Il confronto con l’Europa è disastroso. Il massimo numero di automobili è raggiunto da Madrid, 464 ogni mille abitanti. Vienna ne ha 363. Stoccolma 297.

Serve l’automobile perchè l’espansione urbana ha raggiunto nell’ultimo decennio una dimensione gigantesca. Lo studio redatto dallo stesso comune di Roma (Assessorato alle politiche di attuazione degli strumenti urbanistici, Dipartimento IX, Carta dell’uso del suolo, Roma 2004) misura l’estensione dell’urbanizzazione a cavallo dell’anno 2000 in46.000 ettari. L’estensione della città è di 129.000 ettari. Sottraendo dunque l’urbanizzato, restano inedificati 83.000 ettari. Se togliamo anche le previsioni del nuovo piano regolatore 2003-2006, e cioè 70 milioni di metri cubi di cemento pari ad un consumo di suolo di almeno 15.000 ettari, gli spazi agricoli si riducono a 68.000 ettari, il 52% del territorio. Aumenta la dissipazione del territorio e gli spostamenti tra residenza e lavoro.

Nelle relazioni del nuovo piano regolatore si continua invece ad affermare che “88.000 ettari di territorio romano sono sottratti all’urbanizzazione e mantenuti per sempre all’attività agricola”. Non è vero, ventimila ettari sono già stati urbanizzati o lo saranno in tempi brevissimi. Sono stati occupati dalla grande espulsione di abitanti di questi anni. Nel periodo compreso tra i censimenti del 1991 e il 2001, hanno abbandonato Roma circa 178 mila persone, una città come Modena. Con l’attuale indice medio di persone per famiglia (2,42), fanno quasi 80 mila famiglie.

Nel 2001 i quartieri dentro l’anello ferroviario hanno una popolazione residente inferiore a quella del 1951. Il fenomeno inedito è che anche nella periferia interna al Grande raccordo anulare è in atto un forte decremento di abitanti: nell’area compresa tra l’anello ferroviario e la grande arteria stradale è scesa di circa 70 mila abitanti. Tutta la periferia esterna all’anello aumenta invece la propria popolazione di circa 133 mila abitanti, una percentuale superiore al 15%. I romani sono stati spinti oltre il Grande raccordo anulare e fuori dei confini comunali. Dell’insieme degli abitanti che hanno lasciato Roma, infatti, 117 mila si sono trasferiti nei comuni dell’area metropolitana.

Ogni giorno gli abitanti della periferia urbana e metropolitana cercano di raggiungere i posti di lavoro localizzati nel centro della città. Migliaia di veicoli incolonnati la mattina. Migliaia di veicoli incolonnati la sera, nelle ore del ritorno. Dalle due alle tre ore al giorno per spostarsi. Uno spettacolo sempre uguale e sempre più inaccettabile. Per coloro che sono condannati a quella vita e per coloro che ne sopportano le conseguenze in termini di inquinamento. Non è un oscuro destino ad aver condannato quelle persone a recarsi nel centro di Roma ogni giorno. E’ la rinuncia a decentrare i luoghi di lavoro verso aree più esterne, servite da trasporto pubblico su ferro. Il record del numero dei veicoli romani nasce da qui, e se cercate all’interno degli elaborati del nuovo piano regolatore, non troverete nessuna delle impressionanti cifre che abbiamo riportato, né alcuna ipotesi credibile di decentramento delle attività dello Stato che soffocano il centro storico.

Come se il problema non esistesse. Forse perchè la città continua ad attrarre turisti, attività lavorative, alberghi, residenze per studenti universitari, un numero crescente di immigrati dai paesi poveri. Perde popolazione ma richiama nuove attività. Non presenta segni di declino e dal punto di vista strettamente economico attraversa una fase di grande dinamismo. Diventa sempre più invivibile, ma più ricca. Sta diventando un luogo per il consumo voluttuario di massa.

Ance e Nomisma affermano che le abitazioni hanno raddoppiato il loro valore nel giro degli ultimi otto anni. Nei centri storici l’aumento è stato molto più elevato. Nello stesso periodo gli affitti sono lievitati del 150%. A Roma ci sono 10.000 famiglie in stato di disagio abitativo o sotto sfratto. La popolazione sparisce perchè non può pagare i prezzi delle abitazioni. Il nuovo piano regolatore prevede la realizzazione di 70 milioni di metri cubi di edifici: togliendo la parte destinata alle attività terziarie e produttive, resta una quantità di case in grado di ospitare circa 400.000 abitanti. La contraddizione è palese: quasi 200 mila sono stati costretti ad allontanarsi da Roma perché non ce la fanno a sostenere i prezzi degli immobili, e si prevede di costruire una quantità enorme di abitazioni private, dello stesso valore di mercato di quelle abbandonate.

Una quantità così elevata di cubatura non trova dunque giustificazione nei reali fabbisogni della città. Risponde esclusivamente ad alcuni segmenti di mercato (quelli di medio e alto valore) ed è un inaspettato regalo alla proprietà fondiaria. In tempi non sospetti (2003), un attento osservatore delle questioni economiche nazionali, Dario Di Vico, dopo aver sottolineato l’emersione sulla scena romana del fenomeno dei nuovi “immobiliaristi”, lanciava sul Corriere della Sera un quesito di fondo:“E allora chi per il ruolo che ricopre deve ragionare in termini di bene pubblico (e quindi di investimenti nella ricerca e nuovi posti di lavoro) la domanda deve porsela: se l’economia romana torna ad essere trainata dal mattone –per di più fattosi banca- siamo proprio sicuri che sia un segnale positivo? Non sarà il caso di essere più guardinghi?”.

Quali sono le caratteristiche della crescita economica romana? Nello studio Roma e la sua struttura produttiva presentato dall’assessore capitolino all’economia Marco Causi, si legge che nel settore commerciale e del turismo si è verificata in dieci anni una crescita di occupazione di 70 mila unità. E’ positivo che l’economia vada a gonfie vele. Ma, oltre a dover richiamare le condizioni di precarietà che caratterizzano quei settori, dobbiamo anche interrogarci sulle conseguenze sulla città.

Nel 1987 c’erano in tutta l’Italia 40 centri commerciali con superficie superiore a cinquemila metri quadrati. Nel 2005 sono diventati 430 e occupano una superficie di 7 milioni di metri quadrati. Dalla metà degli anni ’90, anche Roma ha visto sorgere un elevato numero di grandi strutture commerciali dei colossi internazionali, Carrefour, Auchan, Coop, Lidl, Pam e altri gruppi minori. Nella distribuzione merceologica di settore hanno aperto sedi Ikea, Leroy Merlin, Castorama ed altri. Tutte le periferie romane sono state riempite fino alla saturazione di medi e grandi supermercati. L’attività ferve anche nell’area metropolitana. Sono stati poi aperti due grandi città del consumo, gli outlet di Castel Romano (McArturGlen) e Valmontone (Fashion district), nel quadrante sud orientale della città. Tra breve ne apriranno altri tre: a Civitavecchia (nord), Sant’Oreste (nord-est) Lunghezza (est). L’accerchiamento della città è compiuto.

Per ogni apertura di medie e grandi superfici di vendita scompaiono almeno 70 piccole botteghe. La struttura commerciale delle periferie -spesso l’unico elemento di relativa complessità di quei tessuti urbani- è sottoposta ad una concorrenza insostenibile ed è destinata in tempi brevi ad una drastica riduzione. Con le politiche di localizzazione delle grandi strutture commerciali si sta perdendo l’ultima occasione di recupero dell’immensa periferia romana.E anche i Programmi di recupero urbano stanno iniziando a dimostrare il loro vero volto: lottizzazioni residenziali e commercio. Le periferie non ne avranno benefici.

Ma il principale fattore della crescita economica della città è il turismo. Il numero di posti letto in alberghi a Roma ha raggiunto nel 2002 la cifra di 93 mila. Dell’intera offerta, quella nel centro storico è di circa 42 mila (44% del totale). Una parte consistente è localizzata a ridosso delle mura aureliane, nei quartieri di Prati e San Pietro (circa 5 mila posti letto) o nella zona delle vie Salaria e Nomentana e dei Parioli (oltre 8 mila posti letto).

Il grande richiamo rappresentato dalla celebrazione del Giubileo 2000, è stato il momento di svolta della ristrutturazione del settore. Oltre al consolidamento dei maggiori gruppi italiani e internazionali già presenti da decenni sul mercato romano (Jolly, Boscolo, Hilton), sono arrivati grandi catene internazionali. Marriott international gestisce l’ex hotel Flora in via Veneto e sta per aprire una nuova struttura di 2.000 posti letto lungo la direttrice Roma-Fiumicino. Anche la seconda catena europea, la Sol Melià, arriva nella capitale. E mentre si concentrano e si espandono i gruppi già presenti (Golden Tulip, Bass hotel e resort, Sifa hotel, Starwood, Choice hotels) sono annunciate le aperture di strutture delle catene statunitensi Hyatt e la Cedant.

Per comprendere le loro dimensioni d’impresa, si può citare il caso della Cedant che possiede 6.300 alberghi sparsi in tutto il mondo. La Choice (marchi Clarion, Confort e Quality) ha 4.200 alberghi per un totale di 400.000 stanze. Si tratta dunque di società il cui bilancio annuale supera la somma del Pil di molti paesi poveri.

La enorme offerta turistica già esistente nel centro antico è considerata ancora insufficiente. Sono attualmente in corso di realizzazione altre strutture ricettive. La prima riguarda la riutilizzazione di edifici a piazza Nicosia, alle spalle di piazza Navona. La seconda il progetto di ricostruzione di un edificio sulle propaggini occidentali del Gianicolo, a due passi dal Vaticano.

Sono iniziative private e –forse- non potevano essere evitate o indirizzate altrove. Stupisce invece l’atteggiamento della stessa amministrazione comunale che promuove l’insediamento di nuovi alberghi in centro. La storica sede del I municipio romano, ospitata in uno splendido palazzo rinascimentale a via Giulia, sta per chiudere i battenti. E’ stata venduta e al suo posto arriverà un nuovo albergo. Una parte del complesso comunale di via dei Cerchi al Circo Massimo, attualmente sede di alcuni uffici, verrà parzialmente venduta. Al suo posto si realizzerà un albergo. Le Ferrovie dello Stato, poi, stanno costruendo un albergo a ridosso delle mura leonine con vista sulla cupola di Michelangelo, sulle aree della stazione ferroviaria di San Pietro. A nulla sono valse le proteste dei residenti che, già provati dall’invasione dei turisti, ne chiedevano la cancellazione.

Le statistiche ufficiali del 2005 parlano di circa 16 milioni di presenze turistiche in strutture alberghiere. Sulla base dell’andamento dei primi otto mesi, per il 2006 si azzarda una previsione di 18 milioni. E’ stato più volte annunciato l’obiettivo di raggiungere i venti milioni di turisti. Se si tiene conto degli incrementi dovuti alle altre tipologie di offerta (residence, abitazioni o campeggi), si può ragionevolmente stimare che non siano meno di 30 milioni all’anno i turisti che affollano la città, o meglio il suo cuore antico. I percorsi turistici sono infatti concentrati nell’area del Campidoglio, nel tessuto barocco, nell’area di Borgo e del Vaticano e poche altre zone. Gli abitanti nel centro storico si attestano sotto la soglia dei centomila abitanti, ma quelli che vivono nella parte investita dal turismo intensivo sono meno di 50 mila. Il numero dei turisti giornalieri supera di due volte il numero dei residenti in quelle zone.

Le attività commerciali, lasciate senza alcun vincolo dalle leggi neoliberiste approvate nell’ultimo decennio, si orientano verso questa enorme massa erratica. Gli esercizi tradizionali legati alla residenza chiudono i battenti e alcune strade sembrano enormi luna park, uguali a quelle di ogni altra città. Pizzerie, gelaterie, paninoteche, e ogni sorta di offerta turistica hanno omologato lo spazio. Un quotidiano stillicidio, come testimoniava Tiziano Terzani in Anan il senzanome. “Sono così pazzo che per protestare contro il degrado di Firenze e della mia amata via Tornabuoni dove una delle più belle librerie di Firenze, la Seeber, è stata sostituita da un negozio che vende mutande firmate, ogni volta che ci passo davanti apro la porta e urlo dentro: “Vergogna!”.

E’ lo squilibrio tra residenti e turisti che sta portando il centro storico ad un degrado irreversibile. Per riportare la normalità in alcune piazze che di notte diventano veri e propri campi di battaglia, siamo arrivati al punto di vietare la vendita di bottiglie in vetro, così da evitare almeno il tiro a segno verso i monumenti e gli abitanti che si azzardano a protestare. Ma sono cure inutili sia nel breve che nel lungo periodo. Si tenta di aggredire l’effetto più evidente del malessere urbano, senza affrontare le cause strutturali di quel sintomo.

Il fatto che il centro storico sia sottoposto ad una pressione turistica insostenibile viene ignorato dal nuovo piano regolatore. Anzi, nella relazione di accompagnamento c’è scritto (pag. 15) che: “Ciò significa un nuovo ruolo per l’area centrale: appare difficile immaginare un suo svuotamento delle funzioni forti né tale ipotesi sarebbe auspicabile (il centro storico come museo)”.

Il centro antico è un immenso pub, una gigantesca catena di pizzerie a taglio. E’ investito da un traffico automobilistico e da livelli di inquinamento insostenibili, da rumori intollerabili diurni e notturni. E dopo dodici lunghi anni di ponderosi studi, i progettisti del nuovo piano hanno trovato il bandolo della matassa: bisogna evitare di far diventare il centro storico un museo!

La forte crescita economica di Roma è dunque basata su tre settori. Sull’intramontabile rendita fondiaria, sul commercio e sul turismo. Il primo è quanto di più arretrato si possa pensare in un paese moderno. Gli altri due sono guidati dall’economia globalizzata. Oltre alle imprese che abbiamo citato, in questi anni sono giunti a Roma i colossi dell’economia internazionale. Nel mondo dei fondi di investimento, ad esempio, oltre al consolidamento delle società italiane candidate a raccogliere il prezioso regalo della svendita del patrimonio immobiliare pubblico (Pirelli real estate, Caltagirone, Progestim della Sai, etc), arrivano società come la Morgan Stanley, il colosso dei fondi di investimento Carlyle, Peabody.

Nel 2004 viene affidata la trasformazione del Mercati generali dismessi, ad una cordata composta da diverse società italiane e dalla corporation americana Mills. Quotata al New York stock exchange, la società è un self-managed real estate investmnets trust (Reit) che gestisce, sviluppa o possiede 38 centri sparsi nel modo a destinazione retail & entertainment per un totale di 4,3 milioni di metri quadrati. In particolare Mills sta realizzando uno shopping center nel New Jersey, a Meadowlands Xanadu che si svilupperà su 440 mila metri quadrati. Questa è la dimensione d’impresa che viene inserita nel mercato finanziario e immobiliare romano.

Lo schieramento progressista deve saper cogliere gli aspetti devastanti di questa vera e propria colonizzazione. Trovo dunque molto importante la sollecitazione di Sandro Medici a riflettere sul “modello romano”. Sono tre, a mio giudizio, i nodi da affrontare prioritariamente. Il primo è relativo all’assenza di qualsiasi legame tra gli investitori e la città. InFiducia e paura nella città,Zygmunt Baumann afferma che: “Quelli della prima fila non appartengono al posto in cui abitano, dal momento che i loro interessi stanno (o meglio fluttuano altrove). Si può supporre che non abbiano acquisito altri interessi, per la città in cui si trovano ad abitare……. Essi dunque, non sono interessati agli affari della “lorocittà: nient’altro che un posto come tanti, e come tanti piccolo e insignificante”.

Alle grandi catene alberghiere, alle organizzazioni del turismo, ai centri finanziari, non interessa nulla del destino di città in cui investono. Ne traggono ricchezze colossali, ma non investono nulla per mantenerne la bellezza. Un’enorme ricchezza viene accumulata da pochi gruppi, lasciando la cura dei luoghi a carico delle amministrazioni comunali. Un problema da affrontare urgentemente, specie in una fase di restringimento delle capacità di spesa locale.

Il secondo è relativo allo svuotamento della democrazia. I consigli comunali e la stessa figura del Sindaco sono messi in crisi dallo strapotere dell’economia. Torna di attualità il lucido pensiero di Ernesto Balducci in Immagini del futuro: “Nella megalopoli ci si abita, ogni tanto si prova a interessarci del destino comune, ma si avverte subito che ci sono processi che ci sovrastano, perché la megalopoli non è formata, come invece la città è stata formata fin dalle origini, da processi organici in conflitto con processi meccanici: il meccanicismo investe totalmente la città. I processi che investono le nostre città vengono da altrove, che hanno estensioni che superano di gran lunga i confini della città. Pensate ad esempio al traffico, alle città alle città ormai investite di arterie autostradali che le sfiorano e che le investono. Cosa può fare una città per contenere questo processo dentro una propria logica? Quasi nulla!”.

Infine, la sollecitazione di Medici è di straordinaria importanza perché oggi iniziano ad affiorare anche all’interno del pensiero liberale le preoccupazioni per gli aspetti devastanti della globalizzazione. “Abbiamo sotto gli occhi un sistema commerciale globale ingiusto, che ostacola lo sviluppo, e un sistema finanziario globale instabile in cui i Paesi poveri si trovano ripetutamente oberati di un debito ingestibile. Il denaro dovrebbe affluire dai Paesi ricchi a quelli poveri, ma sempre più spesso va nella direzione opposta. L’aspetto più significativo della globalizzazione è la disparità tra promesse e realtà. Sembra che la globalizzazione sia riuscita a unire gran parte del mondo contro di sé, forse perchè sembra che ci siano troppi perdenti e troppo pochi vincitori”. E’ Joseph Stiglitz a fare queste affermazioni.

Lo schieramento progressista non può continuare a recitare la parte del neofita e cantare acriticamente le lodi del mercato. Deve saper ridefinire un pensiero critico. Nel campo dell’urbanistica ciò significa l’abbandono dell’illusione che “il mercato” possa risolvere i problemi urbani. Non è mai avvenuto nella storia delle città e del territorio: il governo dei beni comuni appartiene alle amministrazioni pubbliche.

E alla luce del fallimento dell’urbanistica romana è venuto il momento di inviare segnali di inversione di tendenza. Dietro l’involuzione culturale nascosta al concetto della “compensazione urbanistica” si è ristabilita la supremazia della rendita fondiaria. L’esempio romano sta dilagando in tutta l’Italia, e stiamo assistendo ad una grande restaurazione proprietaria. E ciò che sembrava tutelato per sempre è rimesso in discussione. Non è solo l’agro romano a scomparire sotto una mostruosa quantità di cemento. Stanno per essere approvati progetti per l’edificazione delle colline bolognesi. La mirabile campagna di Pienza è aggredita da volgari speculazioni stile anni ’60. Luoghi urbani e paesaggi di grande bellezza vengono sfigurati.

E mentre tutti le altre nazioni d’Europa incrementano i settori ad alto contenuto tecnologico, siamo rimasti l’unico paese ostaggio della rendita parassitaria. E’ ora dunque di ripristinare le regole del governo pubblico delle città e del territorio.

l'Unità, Firenze

9 novembre 2006

Cemento nel Chianti, tocca a Rutelli

di Osvaldo Sabato

Quella dell’ex soprintendente Antonio Paolucci è un “j’accuse” a tutto tondo. «Il vero bene culturale che si sta distruggendo, non sono i quadri o gli affreschi, ma il paesaggio» dice. Dopo Monticchiello, la Toscana è ancora in prima pagina per il rischio di una cementificazione nel cuore del Chianti classico, fra gli olivi e i vigneti pregiati. Il caso dell’annunciata costruzione di 83 villette a Palaia, a pochi passi da Greve in Chianti, fa discutere. E come era prevedibile non mancano le polemiche. L’ex soprintendente punta il dito sulla mancanza di leggi che possano bloccare queste lottizzazioni «con le nuove norme i comuni fanno ciò che vogliono» dice. Sotto accusa, per il professore, è la Riforma del Titolo V della Costituzione fatta nel 2001 «da allora lo Stato non può più dire: qui non si può costruire». Da allora, infatti, tutta la competenza è passata alle Regioni e ai comuni. Intanto il sindaco di Greve, Marco Hagge, continua a polemizzare a distanza con il capo dell’opposizione in consiglio comunale, ed ex sindaco, Giuliano Sottani. Una svolta potrebbe giungere da Roma? Il Comune, infatti, nel 2002 ha chiesto al ministero di porre il vincolo paesaggistico nella zona di Palaia. Ma finora da Roma non c’è stata nessuna risposta.

OCCUPARSI di quadri e musei? «A questo punto, è tempo perso». Quella dell’ex soprintendente Antonio Paolucci, non è una provocazione «ma una constatazione» dice il professore. «Il vero bene culturale che si sta distruggendo non sono i quadri o gli affreschi, ma il paesaggio», insiste «il guaio è che nessuno lo vuole capire». Dopo Monticchiello, in Toscana è scoppiato il caso dell’annunciata colata di cemento vicino a Greve in Chianti, che tradotto significa centinaia di case a Palaia, nella frazione Chiocchio. Il sindaco di Greve, Marco Hagge, parla di una eredità, di una tendenza urbanistica che la sua amministrazione si è portata dietro dagli anni ‘70. «Tutto è cominciato da quando, sindaci, assessori, architetti, geometri, intellettuali e urbanistici hanno sostituito la parola paesaggio, considerata arretrata, se non addirittura reazionaria, con la parola territorio» osserva Paolucci. «Perché il paesaggio, per la sua stessa parola, va tutelato, mentre il territorio va lottizzato» insiste l’ex soprintendente, nominato recentemente Direttore delle Scuderie del Quirinale. Non è solo una questione di mutazione linguistica, dunque «ma di un cambio di rotta concettuale e politico, che poi ha portato a quello che vediamo andando in giro». È il federalismo urbanistico il grimaldello che poi avrebbe permesso tutto ciò, Paolucci non ha dubbi: «Tutto nasce con la Riforma del Titolo V del 2001» dice, «fino a quel momento si era inteso che spettasse allo Stato, con le soprintendenze, difendere il paesaggio. Da allora è stato detto che le Regioni e i comuni hanno la titolarità concorrente - spiega Paolucci - che in un linguaggio più chiaro vuol dire che il Comune fa ciò che vuole». Insomma, «la potestà dello Stato, che poteva dire: qui non costruisci, non esiste più» dice Paolucci «perché la tutela per essere efficace deve essere indifferente e lontana». Sarebbe questo l’unico presupposto per conservare il paesaggio «altrimenti, come si è visto a Monticchiello e come potrebbe succedere a Greve, faranno macelli inenarrabili». E il ruolo della Regione? «Annaspa di fronte all’autonomia dei comuni» dice Paolucci. Insomma quello in atto è una sorta di cannibalismo paesaggistico? «Finché c’è territorio da consumare, lo consumeranno» rincara Paolucci. A Palaia, infatti, non è stato possibile fermare quello che Giuliano Sottani definisce «scempio», ma che, come ricorda Hagge, «è partito da un suo macroscopico errore urbanistico». «Noi - prosegue il sindaco - ci apprestiamo a rimettere insieme i cocci». «Lo conosco Hagge e lo so che non è colpa sua» afferma Paolucci. Il sindaco si è sempre difeso dicendo di non avere gli strumenti giuridici per cancellare questa lottizzazione: il rischio è dover pagare risarcimenti milionari a Triaca, produttore della Valtellina, che costruirà le villette a Palaia «certo è così» spiega Paolucci. Ed ora? Non resta che sperare in Rutelli. Infatti nel gennaio del 2002 l’ex sindaco Paolo Saturnini, come ricorda Hagge, chiese al ministero dei Beni culturali, tramite la Soprintendenza di Firenze, di porre il vincolo paesaggistico sulla zona. Da Roma però non è giunta nessuna risposta. «Questo non abolisce i diritti dei privati, ma fornirà all'amministrazione nuovi strumenti per controllare l’operazione» assicura il sindaco di Greve. «spero che il ministro Rutelli dia una risposta positiva, che anzi ho intenzione di sollecitare».

l'Unità, Firenze

9 novembre 2006

Residenze turistiche, miracoli della destra

di Giuseppe di Teresa

OGNUNO fa i miracoli che gli competono. Il Centrodestra grossetano è stato bravissimo nella moltiplicazione delle residenze turistiche alberghiere (Rta) e delle ca-

se albergo vacanze (Cav). Nel solo comune di Grosseto, fra il 2002 ed il 2004, sono state presentate 70 richieste di autorizzazione per complessive 1.341 unità abitative, vale a dire appartamenti.

Da allora, quasi tutte le strutture sono state concessionate. Di queste, 28 hanno ottenuto anche l’autorizzazione ad iniziare l’attività, e altre 42 sono in attesa del completamento dell’istruttoria.

Ai sensi della Legge regionale 42/2000, Rta e Cav sono considerate “strutture alberghiere” che vanno gestite in modo unitario, perchè attività produttive di tipo turistico ricettivo. Di fatto, in molti casi, gli appartamenti sono venduti ad acquirenti che li utilizzano come residenza abituale, accendendo anche mutui prima casa. Un escamotage che, per le agevolazioni fiscali su oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, consente all’acquirente di comprare a prezzi più bassi ed al costruttore di trovare con facilità dei compratori.

Solo pochi giorni fa, la magistratura grossetana ha sequestrato una settantina di appartamenti in Cav ed Rta, parte dei quali abitati tutt’altro che da turisti o frequentatori occasionali della Maremma.

Residenze turistiche alberghiere e Case albergo vacanze come funghi, dunque. Ma non spuntate per caso. Con l’approvazione della Variante del territorio aperto, qualche anno fa, l’allora giunta Antichi introdusse un elemento che ha scardinato la programmazione urbanistica nelle aree rurali, rendendo possibile la realizzazione di “alberghi, Rta e strutture di ristorazione” ovunque ci fossero volumi da ristrutturare. Quella scelta ha scatenato la corsa all’oro, e chiunque avesse un edificio da recuperare ha presentato richiesta di realizzare queste due tipologie ricettive, contando sui costi di costruzione più bassi, sulla facilità di collocare sul mercato miniappartamenti per lo più localizzati in campagna, e, in molti casi, sull’assenza di controlli.

La Legge regionale 42/2000, d’altra parte, affida ai Comuni poteri ispettivi e di controllo. «La situazione - spiega l’assessore all’urbanistica del comune di Grosseto - è evidentemente sfuggita di mano, o si è lasciato che ciò avvenisse. In questa fase, i nostri vigili urbani stanno effettuando controlli a tappeto, anche su precise segnalazioni, sia rispetto alla gestione delle strutture, sia rispetto ad eventuali difformità edilizie rispetto ai volumi concessionati. Parallelamente la magistratura sta svolgendo una propria indagine. Anche se tardi rispetto ai danni prodotti in passato, ritengo che dovremo intervenire per modificare lo strumento urbanistico relativo al territorio aperto, in modo da lanciare un segnale politico preciso».

il Riformista

10 novembre 2006

Monticchiello vittima del decentramento: se la tutela è affidata ai Comuni

di Vittorio Emiliani

L’articolo che Roberto Barzanti ha scritto per il Riformista sulla vicenda di Monticchiello, o meglio della intera regione Toscana, non può che essere largamente condiviso. Poiché al convegno del 28 novembre - dov'ero fra i relatori - si è allargato il discorso alla regione e all'intero Paese, vorrei sintetizzare come e perché.

Intanto va detto che la marea di costruzioni che sta invadendo l'Italia (mille cantieri nella sola Vigevano), e quindi pure la Toscana, ha molti padri: la bolla speculativa, la febbre del mattone (da seconda casa), la debolezza delle soprintendenze, l'inerzia delle regioni, l'acquiescenza dei comuni. Questi ultimi, privati di parecchi trasferimenti centrali, si arrangiano come possono assecondando una edilizia che frutta loro buoni incassi (poi si vedrà chi, alla fine, pagherà gli oneri urbanizzazione). Gli investimenti nella sola edilizia residenziale sono balzati in pochi anni da 58 a 71 miliardi di euro. Possono (e vogliono) i comuni fronteggiare validamente con una mano la dirompente febbre edilizia che sta alzando gru ovunque, visto che, con l'altra mano, incassano fondi cospicui dalla medesima?

Ma, ecco il punto-chiave, la regione Toscana è stata e rimane fermissima nell'assegnare ai comuni, sub-delegandoli, il ruolo di tutori del paesaggio. Quasi che esso fosse un fatto municipale e non nazionale (articolo 9 della Costituzione). Questa autotutela municipale è costituzionalmente corretta? A me pare di no. Soltanto la regione Toscana sostiene che il Titolo V della Costituzione del 2001 (improvviso e affrettato pasticcio di fine legislatura) ha previsto che Stato, regioni, enti locali siano «equiordinati», cioè che nessuno possa interferire negli atti dell'altro. In altre regioni invece si è legiferato dopo il Titolo V mantenendo alcuni chiari valori gerarchici (ad esempio, la provincia sui comuni). Di recente poi, con la sentenza n. 182/06 e con altre successive, la Corte costituzionale ha ribadito la sovraordinazione nella attività pianificatoria della regione sulle province e di queste ultime sui comuni, testualmente «secondo un modello rigidamente gerarchico». Sentenze da rispettare, anche per ragioni funzionali, oppure trascurabili "grida"?

V'è di più. Il codice dei beni culturali e paesistici prescrive alle regioni di redigere piani paesaggistici dettagliati. Sempre la Corte ha stabilito che essi devono essere formati dalla regione, in collaborazione coi ministeri dei Beni culturali e della tutela dell'ambiente e del territorio, e riguardare l'intero territorio regionale. E ammessa la sub-delega ai comuni soltanto laddove i piani paesaggistici regionali siano stati formati d'intesa coi due ministeri, e gli strumenti urbanistici comunali siano stati adeguati a tali piani paesaggistici. Anche in quel caso resterà peraltro vincolante il parere della soprintendenza statale circa il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche.

Fino a quando la pianificazione paesaggistica regionale non sarà stata pienamente adeguata alle disposizioni del Codice - per contenuti, efficacie, ambito di riferimento - le soprintendenze possono "annullare" (per motivi non soltanto di legittimità, ma anche di merito) le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dalle regioni, ovvero dai soggetti istituzionali da queste sub-delegati.

Infine, ai sensi del codice, resta intatta la competenza sia del ministero per i Beni e le attività culturali che della regione di ordinare la sospensione di qualsiasi lavoro iniziato su qualsiasi immobile, anche non previamente "vincolato", che risulti «capace di recare pregiudizio al paesaggio». Tali regole sembrano non valere -ecco uno dei problemi-chiave - in Toscana. Chi le sostiene viene considerato, e subito bollato, come "neo-centralista". Ha ragioni Barzanti a sostenere che il paesaggio, anche quello toscano, ha subito numerose modifiche e però esse, nei secoli, sono state spesso migliorative. Emilio Sereni sosteneva che il contadino toscano avesse in testa il paesaggio di Benozzo Gozzoli e quello del Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio. Oggi dietro il grido «II paesaggio ai Comuni! Il paesaggio non è un museo!» c'è la voglia di tirar su tante lottizzazioni (brutte, proprio brutte) come quella di Monticchiello-Pienza. Magari a Mantova, sui laghi, in faccia al Castello di San Giorgio, come ha denunciato Fiorenza Brioni, sindaco ds della città, la quale ha osato cancellare, fra accuse e minacce, le 200 villette e le due torri condominiali volute dal suo predecessore, pure ds. Ce ne fossero di Fiorenze Brioni.

l'Unità, Firenze

10 novembre 2006

Un vincolo fantasma contro il cemento a Greve

di Valeria Figlioli

La richiesta è partita, ma non se re è saputo più niente. Quella della proposta di vincolo per la zona di Palaia, nel Comune di Grevi : in Chianti, dove saranno costruite le 84 villette che hanno scatenato le polemiche degli ultimi giorni, sta assumendo le sfumature di un piccolo giallo. La proposta di tutela è partita il 3 gennaio 2002, dalla Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Firenze, Pistoia e Prato, allora guidata da Mario Lolli Ghetti: era indirizzata al dipartimento delle politiche territoriali e ambientali della Regione, altre che, per conoscenza al Ministero dei Beni culturali, alla Provincia di Firenze e al sindaco del Comune di Greve. L'allora Soprintendente indicava i confini fisici della zona e comunicava che l'ente aveva avviato l'iter per l'imposizione del vincolo di tutela. E qui la faccenda si complica. Secondo le prescrizioni del Testo unico del '99 (per la tutela dei beni culturali e ambientali), il Comune avrebbe dovuto provvedere alla pubblicazione della proposta e della relativa planimetria. Ma la pubblicazione non c'è stata. «Perché - spiega l'allora sindaco di Greve Saturnini - non c'era nulla da pubblicare, non c'era né la delimitazione né una planimetria, si trattava dell'avvio della procedura». Dopo di che sono passati 4 anni, pare che non sia più successo niente e al Comune di Greve non è arrivata alcuna risposta. «So che si tratta di procedure lunghe - dice l'attuale sindaco, Marco Hagge - ma spero che con il cambiamento al vertice del Ministero si muova qualcosa: conosciamo la disponibilità di Rutelli» Intanto il sindaco ha chiesto (e ottenuto) all'impresa costruttrice «che ogni singola unità abitativa possa essere esaminata dai nostri uffici per veri-ficare che le prescrizioni generali siano state rispettate e valutarne l'impatto». Ma Hagge sottolinea anche come sia già in atto una prima modifica: «II progetto prevedeva una serie di villette di buona qualità, ma un po'omologate; abbiamo chiesto che materiali colori e dimensioni fossero più consoni al paesaggio, in una linea di massima semplicità, che per lo stile toscano vuoi dire attenzione ai dettagli. Al momento sto aspettando il prototipo modificato». E a Hagge arriva il sostegno del presidente della Regione: «Trova il nostro consenso l'iniziativa del sindaco, che si è rivolto al ministro Rutelli per ottenere il vincolo per la zona di Palaia, peraltro già chiesto dalla Soprintendenza». Per Martini «tale richiesta di vincolo può interessare tutte le zone paesaggistiche di pregio, contribuendo a dirimere le vertenze urbanistiche in corso. Siamo certi che il ministro Rutelli riserverà a questo tipo di richieste un'accoglienza più attenta rispetto ai suoi predecessori».

Non accenna a placarsi la polemica avviata da Alberto Asor Rosa in merito al progetto edilizio che prevede 1a costruzione di una novantina di villette ai piedi di Monticchiello - in Val d'Orcia, a due passi da Pienza, provincia di Siena - noto anche perché da anni, in estate, diventa scena di un teatro povero, che h a promuove a protagonisti arguti e estrosi gli stessi abitanti. La diatriba insorta sarebbe un soggetto adattissimo per trattare temi spinosi: come conciliare incombente sviluppo e tutela del paesaggio, ad esempio. Oppure come metter d'accordo punti di vista spesso contrastanti: da un lato c'è chi amministra con l'occhio al consenso dei residenti, dall'altrol'occhiuta vigilanza di quanti hanno eletto quel territorio a privilegiato luogo di riposo e contemplazione.

La battaglia attorno a Monticchiello è diventata emblematica e il rumore sollevato si spande per tutta la Toscana e oltre. Nel recente convegno, che ha registrato la partecipazione di tutte le principali associazioni ambientalistiche e perfino la presenza del ministro Rutelli, si è evitato il rischio di restringere la discussione al singolo caso. Per il quale è stato riciclato addirittura il termine di “ecomostro”. A dire il vero, il neologismo appare sproporzionato: la mostruosità delle villette a schiera che stanno sorgendo è quella ordinaria dell'edilizia senza anima e senza rigoreche avvilisce in lungo e in largo la Toscana, e non solo. Se si vuol metter ordine al confronto che è nato bisognerà anzitutto chiedersi perché progetti del genere vengono in mente. La risposta è piuttosto amara: in mancanza di uno sviluppo che ambisca a interventi più originali e sofisticati, attenti a non compromettere delicati equilibri, si prende sovente la strada di un'anonima crescita edilizia, richiesta con identica solerzia da cooperative intraprendenti e da spregiudicati speculatori. La domanda paradossalmente è alimentata proprio dallo sbandieramento che si fa dell'eccezionale qualità del luogo. I1 fatto che sia stato istituito un Parco - non saprei quanto oggi funzionante - e che l'intera valle . dell'Orcia sia stata assunta tra i siti selezionati dall'Unesco come patrimonio dell'umanità, in un mondo che spinge a tradurre l'eccellenza in reddito e lc meraviglie in quattrini, non è strano siano diventati dei boomerang.

Pienza ha un'invincibile austerità pontificale, ma non è lontano il giorno che sarà in tutto comparabile ad una San Gimignano rinascimentale, agghindata con delizie culinarie e futili oggetti kitsch in bella vista per ogni dove. L'aggressione di un consumismo facile e la difficoltà di offrire risposte intelligenti che guardino lontano fanno corto circuito: episodi come la goffa espansione presso Monticchiello sono all'ordine del giorno. Se il caso viene analizzato nelle sue reali, mediocri e modeste. dimensioni e elevato a sintomo di una preoccupazione generale ben venga il grido di dolore lanciato da illustri innamorati di questo pezzo di Toscana. Può dar fastidio che si abbia un'enorme attenzione dei media e perfino un fulmineo intervento ministeriale solo quando a gridare allo scandalo c'è una persona disturbata dallo scempio che scorge dalla finestra di casa sua, e ha il privilegio di poter disporre a piacere di spaziostampa, ma tant'è! Meglio prendere il buono che può derivare dalla coincidenza che far spallucce o mettere in cattiva luce i soliti intellettuali, che pretenderebbero di insegnare ai nativi, con colonialistica altezzosità, ricette e soluzioni, allo scopo di non vedersi rovinate la quiete e le vacanze. Per smentire il sospetto che a fomentare l'indignazione ci sia soprattutto un (comprensibile) interesse personale, nient'affatto scientifico, è necessario rendere la denuncia sistematica e impegnarsi per una ricognizione ampia dei guasti che vanno moltiplicandosi, in campagna e in città. Chi da queste parti vive non è stato inerte o insensibile alle angosce che ora sembrano inquietare quanti sono approdati qui con acceso entusiasmo.

La cultura dell'eccezionalismo ha fatto il suo tempo in tema di salvaguardia dei beni culturali edel diffuso patrimonio architettonico, e anche il mito della Toscana felice, propagandato da un'aggraziata vulgata turistica, spesso acriticamente subita. «La Toscana è in bilico!» è stato detto. Certo: questo è il punto, e non da oggi. Aprire gli occhi ora sarebbe tardi, ed è assai riduttivo darsi da fare per affibbiare l'etichetta di ecomostro a questa o quella costruzione, scelta a caso, facendo leva su impressioni frammentarie e soggettive. E sarebbe patetico mettere sul banco d'accusa, indiscriminatamente, ogni intervento edilizio o certe moderne infrastrutture con toni che evocano l'idillio rustico esaltato dal becero Selvaggio di Maccari & C. Non è neppur da credere che la ricetta miracolosaconsista nel rilancio di una pianificazione concertata tra Regione e Comuni. Nessuna pianificazione fondata essenzialmente su parametri quantitativi e indirizzi di massima riuscirà a evitare di per sé che il disegno sia inautentico, l'insediamento mal piazzato, le tecniche d'esecuzione rozze c trasandate, tirate al risparmio,la qualità finale scadente. A produrre mostriciattoli e arrangiamenti, recuperi fasulli e poderucci imbellettati è una perdita di consapevolezza culturale, un offuscamento della memoria. un'economia arretrata e fragile.

La lottizzazione in programma si stende come un abborracciato presepe, sotto un piccolo paese tenuto insieme da una fedele devozione comunitaria. Si direbbe una futile Monticchiello 2, secondo uno schema ben noto e fortunato, ovvio, berlusconiano e piccolo-borghese. L'urbanistica contrattata tanto in auge è portata a mediare trainteressi forti e pretenziose insidie, raramente sa opporre un semplice e netto no. Allora: se Alberto Asor Rosa, Giulia Maria Crespi, Carlo Ripa di Mcana, Nicola Caracciolo vogliono continuare la loro azione e contribuire a suscitare nelle politiche di una Regione, che ha avuto e ha grandi meriti, un respiro più profondo non possono limitarsi a compilare l'elenco dei guai sotto casa, siano a Monticchiello, a Capalbio o dintorni. Ed è disdicevole che gli amministratori reagiscano facendo notare che le procedure sono in regola e che i bolli sono a posto. Ci mancherebbe! Il problema può essere proprio qui.

Occorre rilanciare una gestione del territorio dotata di controlli severi, sottratti al piccolo cabotaggio del singolo Comune, e ritrovare per questa via qualcosa almeno di un'ispirazione che, sarà stata anche talvolta illuministica e giacobina, ma è la sola ad aver sottratto qualcosa - in Toscanaparecchio - alla devastazione o alla falsificazione. È un buon segno che, udito l'allarme, il ministro competente sia subito accorso. Rutelli ha promesso che forse si farà in modo che si costruisca qualche villetta in meno, ha assicurato che il volume dell'insediamento sarà mitigato anche grazie alla consulenza di esperti architetti all'uopo incaricati. Ma è chiaro che i1 tema suggerito dal progetto contestato va molto al di 1à dell'eventuale impiego dei mimetismi con i quali si è soliti celare, alla meglio, malefatte e storture.

Il paesaggio da conservare in Toscana non è mai stato immutabile. Interventi tecnologicamente innovatori, concepiti sulla base di ponderati calcoli e argomentate prospettive, collocati seguendo canoni estetici forgiati da una coscienza storicistica delle forme e dell'ambiente, sono talvolta necessari perché una gloriosa eredità non vada in malora. Nell'attuarli la Toscana dovrebbe riuscire ad essere se stessa, la regione sobria e scarna, «splendida perché sempre sottovoce e mai a gola spiegata», che già Cesare Brandi, in un accorato Addio Toscana di trentacinque anni fa, vedeva pericolosamente assediata dai nuovi ricchi. Già allora in bilico, appunto, tra rassegnata memoria dell'antico e arrendevole disponibilità. Le manovre durano. dunque, da tempo. Probabilrnente la parte principale degli scontri si è già svolta, con alterne fortune e generosa fatica. Ora si tratta almeno di non arretrare.

Caro direttore, le «prove di forza» sul futuro del traffico aereo e sulle strategie di sviluppo delle infrastrutture aeroportuali in Italia, alle quali assistiamo in questi giorni, ci preoccupano non poco.

I dati di traffico complessivo sia per il sistema aeroportuale milanese che romano sono entrambi ad un tasso di incremento annuo che si attesta intorno al cinque per cento. Ma questa crescita si inserisce in un contesto aeroportuale europeo altrettanto vivo, altamente concorrenziale e già strutturato e consolidato rispetto al nostro: Londra, ad esempio, è il principale hub europeo, con 67milioni di passeggeri all´anno, ma non dimentichiamo hub già consolidati quali Amsterdam, Parigi e Francoforte, ormai centrali per l´intera rete europea.

Il punto cruciale, quindi, è che l´Italia non ha giocato in tempi utili la strategia di integrazione con il sistema europeo, ed è quindi rimasta prigioniera della presunta rivalità tra snodo milanese e romano.

Le condizioni attuali sono quindi del tutto diverse da quelle esistenti quando si ipotizzò la coesistenza di due hub italiani, Malpensa e Fiumicino. Il dibattito in corso è erroneamente e strumentalmente affrontato come rivalità Roma-Milano: è una triste reiterazione di vecchi riti ormai vuoti di significato, superati dal tempo e dalla capacità stessa delle imprese e dei cittadini italiani di adattarsi, di autoregolarsi e di trovare soluzioni alternative altrettanto efficaci. Lo testimonia il fatto che a fronte delle mancate scelte e della permanenza di rivalità localistiche, il traffico e le infrastrutture aeroportuali si sono ormai reindirizzate su modalità che ormai prescindono dall´esistenia di un hub principale e di un vettore nazionale di riferimento come Alitalia; e lo testimonia lo sviluppo di ben Il infrastrutture aeroportuali pienamente operative ed in crescita in tutto il nord Italia (Genova, Torino, Malpensa, Linate, Bergamo, Brescia, Verona, Treviso, Bolzano, Venezia, Trieste) con collegamenti garantiti con i principali hub europei.

Un ulteriore punto critico è dato dall´erroneo presupposto che l´aumento del traffico aereo implichi automaticamente l´espansione dell´aeroporto di Malpensa e della complessa rete di infrastrutture collegate. Perché? Perché non ottimizzare invece l´impiego delle infrastrutture esistenti a Malpensa, definendone la vocazione principale e la complementarietà rispetto ad altri snodi europei ed italiani? Servono scelte chiare, lungimiranti e culturalmente evo Iute. Ma soprattutto è necessario smettere di discutere e pianificare prescindendo dall´impatto ambientale e sociale di certe scelte e di invocare sempre gli spettri del ricatto occupazionale e della delocalizzazione degli investimenti.

La nostra profonda preoccupazione, quindi, è nel vedere come l´attuale dibattito su Malpensa prescinda dall´utilità oggettiva dell´opera e dal fatto che ogni ampliamento ed ogni nuova infrastruttura avverrà, ancora una volta, a spese del Parco del Ticino: una cruciale, unica riserva di ossigeno e bio diversità in una zona ormai fortemente antropizzata; una meta di salute, di ricreazione e svago per quelle persone e famiglie, sempre più numerose, che non si possono permettere il lusso di andare lontano nelle vacanze di fine settimana e ferie estive.

I nostri amministratori conoscono questa realtà e hanno ben presenti questi problemi? Pensano davvero che tutti i cittadini lombardi siano passeggeri o frequentatori di aeroporti? Non sanno che tante e diffuse realtà produttive del territorio del Ticino non considerano l´ampliamento dello scalo di Malpensa come presupposto essenziale per la loro attività? L´ambiente, la nostra salute, il nostro benessere fisico e mentale non possono, ancora una volta, essere vittime sacrificali di scelte sbagliate, poco trasparenti o poco lungimiranti.

*presidente Fai

Nota: qualche particolare in più sul tema degli aeroporti padani, anche nel mio HUB? BURP! e articoli seguenti (f.b.)

Riccardo Martinotti, Millennium: discussione in Provincia

Nei vari interventi succedutisi durante la convocazione del Consiglio provinciale di Torino indetto il 22 settembre 2006 per discutere il progetto Millennium Canavese, le stantie retoriche sulle opportunità economiche e opache argomentazioni sulla reale utilità del parco a tema esternate dai sindaci di Albiano e Ivrea non sono minimamente riuscite ad offuscare le brillanti esposizioni del sindaco di Settimo Rottaro e quelle dei rappresentanti delle Associazioni ambientaliste che con efficacia hanno illustrato invece le gravi implicazioni ambientali del progetto. La cordata politico-ingegneristico-imprenditoriale può avere dimestichezza sui vari budget, sui finanziamenti occorrenti (chi paga? pantalone) sulle mirabili (per loro) implicazioni sull’economia locale che permettono all’artigiano alimentare di dare più visibilità al suo cotechino (sic!), sulla capacità perversa di strumentalizzare la disoccupazione usandola, adoperandola nel vero senso della parola per aggrapparsi con le unghie e con i denti ad un avallo dell’opera che spera in cuor suo di ottenere. Si tratta però di argomentazioni fruste, fritte, performance oratorie poco pregnanti e scarsamente convincenti che atterrano nel solito pantano dello sviluppo a oltranza e nel buio tunnel della pseudocultura che abilmente il sindaco di Settimo Rottaro ha progressivamente smontato. Egli ha parlato saggiamente del tesoro naturalistico e geologico del Canavesano, sollevando quindi dubbi sul traffico, sull’inquinamento e lo smaltimento dei rifiuti, sull’adeguamento delle infrastrutture legate al progetto Mediapolis che sconvolgerebbero un territorio ancora intatto che va tutelato dallo sviluppo fine a se stesso che peggiorerebbe la qualità della vita degli abitanti della zona.

Analogamente e con molta competenza gli ambientalisti hanno richiamato l’attenzione sulle problematiche riguardanti l’esondazione della Dora Baltea e la ricarica delle falde idriche sui terreni che andrebbero sacrificati per il Millennium Park, terreni di prima classe e quindi sicuramente perchè i più fertili. Argomenti chiave che le forze politiche ed imprenditoriali non si sono degnate minimamente di sfiorare nei loro discorsi. Un aspetto importante che le associazioni ambientaliste hanno inoltre trattato, ma che mai viene messo in discussione, è quello del modello economico perdente o del modello culturale superato rappresentato dal parco a tema in questo decennio, perchè tale progetto è vecchio di almeno vent’anni e quindi non più proponibile in quanto ancor prima di nascere rischia solo di essere una grande scatola vuota o poco più di una superdiscoteca.

L’idea del progetto Mediapolis è nata nel 1998: quanto è costato quindi fino ad oggi, sia che parta o non parta, si chiede legittimamente il sindaco di Caravino con molto buon senso.

Purtroppo stride l’affermazione del sindaco di Ivrea che in barba a tutto e a tutti, superando qualsiasi ostacolo di natura ambientale o finanziaria sostiene che in fondo anche per il castello di Masino o la Basilica di Superga già allora una collina era stata spianata... Come dire che si può proseguire senza preoccuparsi troppo. Ma il castello di Masino e la Basilica di Superga sono strutture architettoniche, vere opere d’arte costruite in coincidenza di precise circostanze storiche, preziose eredità che hanno contribuito a far conoscere Torino e il Piemonte. Il parco a tema si rivelerebbe un ennesimo obbrobrio fin da subito.

Nell’ascoltare non sapevo se ridere o piangere. Soprattutto mi montava la rabbia per il silenzio assordante di alcuni politici o degli imprenditori sullo stato dell’ambiente, significativo esempio di un paese malandato, l’Italia, ormai alla frutta, incapace da sempre di gestire risorse ambientali che non meriterebbe, abile nello sperperare denaro pubblico riciclando lacune del passato mai tamponate che diventano carte vincenti per assicurarsi il potere; quel potere che soffoca una zolla di terra, copre un raggio di sole, avvelena un bicchier d’acqua e frusta le speranze del cittadino onesto.



Il Documento delle Associazioni Ambientaliste



Riportiamo il documento diffuso da FAI (Fondo Ambiente Italiano), Italia Nostra Piemonte e Valle d’Aosta, Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, Pro Natura Torino, WWF Piemonte e Valle d’Aosta dopo il Consiglio aperto della Provincia di Torino.

Finalmente il Consiglio Provinciale di Torino si è aperto, seppure tardivamente, alle richieste delle associazioni ambientaliste di portare in aula il dibattito relativo al progetto Mediapolis di Albiano. Molti interventi hanno stigmatizzato la mancanza di dibattito politico su un progetto di tale portata che se realizzato connoterà in maniera irreversibile la serra morenica del Canavese.

Le associazioni ambientaliste sino dal 2001 hanno rivolto pesanti e puntuali critiche rispetto alla scelta di localizzazione territoriale di questo parco divertimenti e commercio che andrebbe ad occupare 60 ettari di territorio inedificato. Le principali critiche riguardano:

• le caratteristiche idrogeologiche dell’area di insediamento: area di esondazione della Dora Baltea e di ricarica delle falde. Le mappe di rischio regionali classificano tale area in classe terza, ossia inedificate ed inedificabili;

• fabbisogno idrico; si attinge alle stesse falde (già esigue) utilizzate dai comuni limitrofi;

• tutela del paesaggio; messa a rischio di un insieme ambientale unico in Europa; qualità dei terreni, si tratta di terreni agricoli di prima classe.

Le stesse ragioni portarono la Commissione Tecnico Urbanistica della Regione Piemonte a bocciare questo progetto.

Ma ancora oggi, a distanza di ben otto anni dalla presentazione del progetto, manca sia una seria valutazione di impatto ambientale che una valutazione approfondita e credibile degli aspetti economici ed occupazionali.

L’amministratore delegato di Mediapolis, Porcellini, invece di chiarire finalmente il progetto con dati e analisi economiche fondate, ha presentato un caso di realizzazione in Francia di un parco a tema, nato venti anni fa con un finanziamento pubblico rilevantissimo di 288 milioni di euro.

Tra gli interventi succedutesi nella mattinata quelli di due sindaci della Comunità Collinare del lago di Viverone hanno espresso fondate preoccupazioni sia sul piano economico che dell’impatto ambientale e sociale, chiedendo precise garanzie.

Mediapolis resta, secondo FAI, Italia Nostra, Legambiente, Pro Natura e WWF, un progetto apparentemente suggestivo perché scarsamente analizzato, soprattutto sotto il profilo della convenienza economica collettiva e della compatibilità con le linee strategiche evolutive, dello specifico territorio canavesano.

Difficile sostenere che tre Centri commerciali rappresentino un investimento innovativo e foriero di progressivo sviluppo, oltretutto senza alcuna garanzia effettiva di completamento!

La situazione esposta e le prospettive di sostanziale incertezza che ne emergono impongono a giudizio delle Associazioni ambientaliste due adempimenti decisivi per la valutazione del progetto: in primo luogo una seria valutazione di impatto ambientale; in secondo luogo la conoscenza di un preciso programma di esecuzione delle operepreviste (alcuni delle quali ancora molto indefinite), accompagnato dalle opportunegaranzie economiche e una aggiornata valutazione delle risorse private epubbliche previste, onde valutarne urgenza ed opportunità, prima di sottoscriverel’Accordo di Programma.

Nota: per le altre notizie sul progetto si può iniziare a risalire da QUI oppure scorrere l'elenco di questa cartella SOS Padania (f.b.)

Il convegno Monticchiello, Italia: il paesaggio italiano di sabato 28 ottobre scorso si è concluso nei fatti con una richiesta unanime: la Regione Toscana rediga, al più presto stavolta, il suo Piano paesistico in modo dettagliato, approfondito e impegnativo, secondo quanto prescrive il Codice dei Beni culturali e del paesaggio. Per questo l’intervista del ministro Francesco Rutelli sui problemi del suo Ministero trova concordi FAI, WWF, Legambiente, Comitato per la Bellezza, Ass. Bianchi Bandinelli, associazioni promotrici del convegno di Monticchiello, nel sottolineare la indispensabilità e l’urgenza dell’adozione del Piano paesistico regionale: per la Toscana – che il ministro considera, in tal senso, un laboratorio – e per tutte le regioni italiane.

Le Associazioni chiedono che ministro e Ministero vigilino affinché non abbia a ripetersi l’esperienza successiva alla legge Galasso del 1985 allorché numerose Regioni non rispettarono i tempi dettati dalla legge medesima e, di fatto, non vollero redigere né tantomeno approvare i piani previsti. Occorre però rammentare che fino al 1° maggio 2008, termine ultimativo per l’adeguamento della pianificazione paesaggistica regionale alle disposizioni del Codice quanto a contenuti, efficacie, ambito di riferimento, le Soprintendenze possono ancora “annullare” (per motivi non soltanto di legittimità, ma anche di merito) le autorizzazioni paesaggistiche già rilasciate sia dalle Regioni, che dai sub-delegati Comuni.

Il Codice dei Beni culturali ammetterà infatti la sub-delega ai Comuni soltanto quando i Piani paesaggistici regionali saranno stati formati d’intesa con il Ministero per i Beni e le attività culturali e con il Ministero per la Tutela dell’ambiente e del territorio, e gli strumenti urbanistici comunali saranno stati adeguati a tali piani paesaggistici.

Giusto perciò il rilievo dell’on. Rutelli sulla necessità di una stretta cooperazione fra Regioni e Soprintendenze affinché si evitino preventivamente altri scempi ad un paesaggio e a centri storici purtroppo sempre più feriti dalla febbre edilizia in corso. Ma, ai sensi del Codice dei Beni Culturali, resta a tutt’oggi intatta la competenza sia del Ministero per i Beni e le attività culturali che della Regione di ordinare la sospensione di qualsiasi lavoro iniziato su qualsiasi immobile, anche non previamente “vincolato”, che sia “capace di recare pregiudizio al paesaggio”.

Su quanto è ancora in costruzione, a Monticchiello, in numerose altre località della Toscana e nel resto d’Italia deve quindi rimanere ben fermo l’impegno ad una penetrante valutazione della congruità degli edifici, non solo ai permessi a costruire, ma comunque ai valori paesaggistici da salvaguardare e quindi all’assunzione di provvedimenti conseguenti.

Al ministro Rutelli e al Ministero chiediamo inoltre di vigilare seriamente sulla costituzione entro il 31 dicembre prossimo delle commissioni sovracomunali o di ambito provinciale previste dal Codice Urbani-Buttiglione (a tutt’oggi non avvenuta), nonché di esercitare con forza gli altri poteri che il Codice dei Beni culturali e del paesaggio attribuisce al Ministero prima, durante e dopo la formazione dei Piani paesaggistici regionali.

“Questa nostra terra dove ogni valle e ogni cima ha un nome di famiglia: dove sono nati e dove sono morti i nostri cari, e dove hanno vissuto, che è lo stesso, i poeti e gli artisti dai quali è stata illuminata la nostra anima: dove a scavar le colline ci si accorge che sono tombe, sulle quali noi siamo cresciuti senza che mai si sia rotto nei millenni il filo della parentela con quei sepolti”

Piero Calamandrei in una lettera a Pietro Pancrazi, 24 giugno 1941

In Italia ci stiamo giocando, in pochi anni, il paesaggio, anzi i paesaggi, a colpi di ruspa e di cemento, di villettopoli, di seconde e terze case. Mentre mancano alloggi per la nuova immigrazione essendo l’edilizia economica precipitata al 4 per cento del totale.

Il caso-Monticchiello non è il solo ad appannare fortemente l’immagine di una Toscana Felix. Nei dintorni di Firenze come nell’Aretino e nello stesso Senese (per non parlare della Maremma e dell’Argentario) l’edilizia va a tutto spiano. Il problema, ormai drammatico, è nazionale, anche se nella luminosa e conservata (fino a ieri) Toscana diventa un pugno nell’occhio.

L’edilizia ha tirato moltissimo (ed è quasi tutta di mercato) in anni di crisi o di stagnazione industriale. Negli ultimi sei anni gli investimenti nazionali nella sola edilizia residenziale sono balzati da 58 a oltre 71 miliardi di euro (+23 per cento).

I permessi di costruzione galoppano. Specie in Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia (nella sola Vigevano mille cantieri aperti). La Toscana si pone a metà classifica con permessi, nel 2002, per 41.000 nuove stanze. Per l’intera Italia sono oltre 800.000 stanze. Pochissime di edilizia economica e popolare.

E la corsa continua: nel primo semestre di quest’anno le costruzioni, già in crescita, segnano altri aumenti, del 3,1-3,2 per cento sull’anno precedente. Una autentica “febbre” che ha portato il comparto dal livello 100 del 2000 al livello 129 dell’anno in corso. Nel decennio 1992-2002 sono volati come stracci gli sfratti e le compravendite di case hanno toccato un picco del 62 per cento. Il tutto con una popolazione nazionale (e regionale toscana) che invece cresce pochissimo e quel pochissimo soltanto in forza dell’immigrazione. Per la quale non c’è però offerta edilizia, ma soprattutto bassa speculazione.

Cemento: siamo i primi produttori d’Europa con 800 Kg per abitante contro i 350 Kg della Germania e della Francia. Anche le cave stanno divorando mezza Italia.

Il dramma del paesaggio veneto. Il Veneto registra il più elevato numero di permessi di costruzione e una produzione di cemento che è balzata da 3 a 5 milioni di tonnellate in vent’anni, oltre 1.000 Kg a testa contro gli 800 della media nazionale. Infatti la collina di Comisso, di Piovene, di Parise è ormai costellata di ville e villette, fabbriche e fabbrichette. Anche in Emilia-Romagna l’“invasione” è di tipo barbarico, allarmante. La stessa verde Umbria registra episodi sempre più diffusi e visibili di cementificazione.

Dato di fondo: la speculazione sale sempre più dal mare all’interno collinare. Il fenomeno dunque sta portandosi dalle coste, ormai largamente compromesse, o in pericolo mortale (basta viaggiare sull’Aurelia), fin sulla dorsale appenninica e pre-appenninica “mangiando” altri suoli liberi, erodendo altri paesaggi intoccati. Anche nell’Umbria interna stanno succedendo cose gravi o gravissime, ai bordi di centri storici intatti e di gran pregio.

Il consumo di suoli liberi prosegue incessante: dai 30 milioni di ettari del 1951 siamo scesi in mezzo secolo a meno di 19 milioni di ettari non urbanizzati né infrastrutturati. In mezzo secolo ci siamo mangiati un terzo della superficie totale del Paese. In Toscana l’erosione di suoli liberi è minore e però a livelli allarmanti: da 1.776.563 ettari del 1990 si è scesi a 1.495.329 del 2003, cioè con 281.234 ettari cementificati e/o asfaltati (-15,8 per cento). I quali rappresentano un decimo dell’intero territorio toscano, in tredici anni. Con una sensibile accelerazione negli ultimi anni. C’è una legge regionale in proposito, ma il trend di consumo del suolo è allarmante.

Per contro molti borghi storici sono desolatamente svuotati e fuori le mura si alzano case e casoni (per es. a Montemerano in Maremma). Una indagine di Censis e Ance calcola che il patrimonio di edifici esistenti in Italia costruiti prima del 1919 ammonta a 4.745.270 abitazioni (17,9 per cento del totale delle abitazioni esistenti) delle quali quasi il 19 per cento è in cattive condizioni. Quindi vi sono abitazioni antiche o vecchie da risanare pari ad un milione circa di unità. In qualche caso interviene un grosso speculatore che si prende il borgo intero e ne fa, più o meno, quello che vuole: come sta succedendo a Castelluccio di Norcia. In altri, rari, casi si fanno buoni recuperi.

Chi dovrebbe contrastare, regolare, disciplinare fenomeni tanto dirompenti che stanno dissipando l’ultima nostra risorsa, cioè il paesaggio interno? Le Soprintendenze che però hanno scarsi mezzi, pochi tecnici e poteri indeboliti dal Codice Urbani, ma pure quei poteri residui li usano scarsamente. Con gravi responsabilità. Le Regioni le quali però, in maggioranza, hanno preferito liberarsi dell’incomodo sub-delegando “democraticamente” alla bisogna i Comuni divenuti così i controllori di se stessi. Eppure l’articolo 9 della Costituzione (quella vera) parla chiaro: “la Repubblica tutela il paesaggio”, cioè Stato, Regioni, Enti locali, insieme, con un ruolo preminente dello Stato e delle Regioni ribadito da leggi e sentenze della Corte costituzionale.

Ma la Regione Toscana, per bocca del suo presidente Claudio Martini, insiste nell’assegnare soprattutto ai Comuni il ruolo di tutori del paesaggio. Quasi che lo stesso fosse un fatto municipale e non nazionale.

Come possono i Comuni fronteggiare validamente un fenomeno di cui abbiamo appena descritto la dirompenza economico-finanziaria? Oltre tutto, in anni di economia stagnante, questa “febbre” edilizia ha finito per surrogare altre attività, e per portare parecchi denari nelle esauste casse comunali. Lo riconosce per primo lo stesso Martini.

Come pretendere, allora, dai soli Comuni la salvaguardia del territorio e del paesaggio se l’edilizia porta loro tanti benefici immediati? Il Titolo V della Costituzione del 2001 (improvviso e affrettato pasticcio di fine legislatura) prevede, è vero, che Stato, Regioni, Enti locali siano “equiordinati”, cioè che ciascuno possa interferire negli atti dell’altro.

Ma è soprattutto in Toscana che si sostiene in modo esasperato questa “equiordinazione”. In altre regioni si è legiferato dopo il Titolo V mantenendo alcuni valori gerarchici (ad esempio, la Provincia sui Comuni). Di recente poi, con la sentenza n.186, la Corte costituzionale è intervenuta a ribadire la sovraordinazione nella attività pianificatoria della Regione sulle Province e di queste ultime sui Comuni. Essa va rispettata, anche per ragioni funzionali.

Di fronte al caso-Monticchiello, ai diffusi segnali di manomissione paesaggistica anche all’interno della Toscana, deve partire una riflessione che porti a posizioni meno sbilanciate e più sagge. Il Codice dei beni culturali prescrive alle Regioni di redigere piani paesaggistici adeguati. La Corte costituzionale ha stabilito che tali piani devono essere formati dalla Regione e riguardare l’intero territorio regionale.

E’ disposta la Regione Toscana a dare all’intero Paese un forte segnale positivo impegnandosi qui e subito alla redazione di un piano paesistico approfondito, dettagliato, rispettoso del grande patrimonio paesaggistico regionale? Come sta facendo la Regione Sardegna (Regione, certo, a statuto speciale, con altri poteri. Qui ben usati tuttavia dal presidente Soru).

Il presidente Claudio Martini continua a sostenere che la titolarità della tutela spetta ai Comuni e, al tempo stesso, ammette che i Comuni hanno “fatto cassa” con gli oneri di urbanizzazione, cioè lasciando correre l’edilizia privata. Una contraddizione stridente in termini.

Qui l’assessore toscano Riccardo Conti ha affermato che la Regione Toscana “inserirà il Codice Urbani nel Piano di Indirizzo Territoriale” in fase di aggiornamento. Qui non si tratta di “inserire” il Codice sui beni culturali e paesistici nel PIT toscano, ma di redigere finalmente, e al più presto, assieme alle Soprintendenze, quel Piano paesistico approfondito, dettagliato, che questa Regione non volle elaborare neppure al tempo della legge Galasso ricorrendo contro di essa.

Intanto vanno avanti grandi progetti toscani di edilizia residenziale di tipo turistico (seconde case): sono stati approvati i 400 alloggi di Donoratico presso Castagneto Carducci, sono in pista altri 400 appartamenti a Bagnaia (promotore l’editore della “Nazione” Vittorio Rieffeser), incombono altre centinaia di alloggi a Fiesole (38.000 mc), a Bagno a Ripoli, a Rigutino di Arezzo. Mentre a Capalbio la lottizzazione di Poggio del Leccio, visibilissima dalle mura, sta sbregando quella collina e le gru si alzano ovunque fra Borgo Carige e Capalbio Scalo (qui si è mossa Real Estate di Pirelli), col lago di Burano che rischia seriamente l’assedio. E il catalogo toscano potrebbe continuare a lungo…

La situazione toscana è diventata preoccupante, anche se non è certamente la più grave di questo sfortunato Paese. Non siamo alla fase terminale della distruzione in atto, per non citare sempre il Sud, nel Veneto. Si può, si deve però correre (ma presto!) ai ripari. Allora il caso-Monticchiello sarà servito a invertire una tendenza, a riportare in onore, come in Sardegna, la pianificazione urbanistica e paesaggistica. Ma ci vuole una forte ed esplicita volontà politica. Ci vuole la volontà di ricostituire una virtuosa cooperazione Stato-Regioni-Autonomie locali a salvaguardia del territorio e del paesaggio, senza municipalismi anacronistici, o populistici, e senza centralismi, né statali, né regionali. Ma con la concreta possibilità di evitare e di correggere errori e speculazioni, di pianificare sulla base di un interesse generale oggi appannato e aggredito da mille interessi privati e corporativi, di ricreare nelle popolazioni l’orgoglio di una appartenenza storica, di un legame col passato che è poi patrimonio per il presente e per il futuro.

Scandalo già finito, si ricomincia: via alle 400 case di Donoratico

CASTAGNETO. Ha sudato freddo Fabio Tinti, sindaco diessino di Castagneto, ma alla fine ha incassato gli okay decisivi: prima quello della Regione col via libera della commissione territorio e ambiente presieduta da Erasmo D’Angelis, poi venerdì scorso quello della Provincia (15 voti favorevoli, 9 contrari, un astenuto) quando si è ratificato, in un’aula incandescente, l’accordo di pianificazione.

Ma sulle 417 seconde case di Marina di Castagneto elevate su 115mila metri quadrati a poche centinaia di metri dalla suggestiva pineta dei vip si è consumata una battaglia politica senza precedenti. Con la destra infuriata («Monticchiello non ha insegnato nulla» ha tuonato la Casa delle Libertà da Firenze), gli ambientalisti allibiti, Rifondazione sul piede di guerra e più di un mal di pancia forte anche in seno alla Quercia.

Ora, su una vicenda che ha arrovellato l’estate degli amministratori di quello che fino a poco tempo fa era ritenuto un Comune-modello (dove comunisti e popolari andavano d’amore e d’accordo), si è scritta la parola fine. Gli alloggi (tipologia 50 mq) delle lottizzazioni Olmaia, Stella 1 e Stella 2 si faranno, seppur da Firenze arrivino raccomandazioni sull’impatto dell’intervento, sulla risorsa idrica e la necessità di azioni di risparmio energetico.

L’incognita acqua e fognature è quella che pesa di più sulla più grande operazione edilizia a Donoratico negli ultimi dieci anni. E non lo dicono solo Verdi e Legambiente. Già l’Asa Spa, l’azienda che gestisce la rete idrica nei comuni dell’Ato 5, nell’iter autorizzativo aveva condizionato l’esito della lottizzazione alla realizzazione di almeno 3 nuovi pozzi. Compito non facile in un territorio a vocazione agricola dove ci si scontra con la massiccia presenza di nitrati nei terreni.

Oggi il nuovo piano strutturale recepisce il problema: si calcola nel periodo di punta un consumo di 85,1 litri al secondo di fronte ad una disponibilità di 87. Ma il piano di ambito prevede un fabbisogno di qualità di 103 litri in vista proprio delle nuove costruzioni. Poi c’è la grana di un depuratore tarato per 50mila persone che rischia il collasso se nuovo cemento, e nuovi residenti, appesantiranno il fragile equilibrio di un ecosistema a rischio.

Fabio Tinti non ha mai nascosto che il via libera alla megalottizzazione di Marina sia il frutto di «una scelta sofferta». Ma ha difeso fino in fondo il lavoro della sua giunta e dei precedenti amministratori. Forte di aver imposto - ricorda - l’obbligo ai lottizzanti di mettere in sicurezza il fosso dei Molini, che corre a fianco dei nuovi alloggi, azzerando così i limiti di un’area soggetta alla legge Sarno. E forte della convenzione che verrà sottoscritta coi costruttori e che prevede la destinazione a Palazzo civico di 9 appartamenti per fronteggiare le nuove emergenze abitative.

Poco, però, per placare l’ondata di polemiche che ha visto tra i contestatori anche il vulcanico conte Gaddo Della Gherardesca il quale, dopo la crociata ambientalista contro l’autostrada Tirrenica, non ha risparmiato nuove accuse.

Tinti &c hanno sempre replicato punto su punto alle critiche, forti del sostegno che gli assessori Conti e Bartoli hanno sempre garantito. Ma proprio Regione e Provincia - insieme col Comune di Castagneto - sono finite nel tritacarne delle opposizioni che le hanno accusato di aver firmato l’accordo di pianificazione perché a suo tempo Castagneto è stato inadempiente col piano strutturale. Ed oggi c’è chi fa notare che lo stesso accordo è in contrasto col Ptc (piano di coordinamento) della Provincia di Livorno e pertanto deve saltare.

«E’ in ballo un investimento da un centinaio di milioni di euro, cifre che possono anche far pensare male», ha detto venerdì scorso il capogruppo provinciale di An Benito Gragnoli, attirandosi la replica stizzita del segretario diessino Marco Ruggeri: «O si hanno le prove e in quel caso si va dalla magistratura, oppure si tace». Una querelle che ben segnala la tensione sulla questione. «Siamo figli di quella sinistra - scriveva il 6 settembre il sindaco Tinti - che negli anni ’70 impediva scellerati interventi edilizi nella pineta pensati da pochi fortunati a discapito di molti. E così continueremo».

Sarà. Ma intanto i 417 alloggi per vacanzieri non hanno più ostacoli.

A Montescudaio, invece, disco rosso

MONTESCUDAIO. E’ un vero e proprio braccio di ferro fra la Regione e il sindaco di Montescudaio quello sulla variante urbanistica dell’area Peep che prevede 57 alloggi pubblici e 22 privati sulle colline del Comune pisano: questi ultimi, con quelli previsti in pianura al Fiorino, arriveranno dunque a 37.

I primi a muoversi sono stati Verdi e Rifondazione che hanno duramente attaccato la variante che avrebbe di fatto nascosto «scambi fra privati e amministrazione, licenze a costruire in ambiti finora intoccabili». Di più: una variante che snaturava il piano strutturale, secondo gli ambientalisti.

Poi, a Montescudaio, è arrivato il disco rosso dell’assessore regionale Conti che dopo il rovente dibattito sul caso Monticchiello ha chiesto la sospensione della variante in attesa che sulla stessa si pronunci una conferenza paritetica interistituzionale. Conti, il 20 settembre scorso, non ha risparmiato critiche a Pellegrini sottolineando come fosse «venuta meno la leale collaborazione fra gli enti». Il sindaco ha ribattuto: «Tecnicamente la variante non può in alcun mondo essere sospesa». E nel nome delle case popolari da dare a 46 famiglie montescudaine, continua la sua battaglia per l’area Peep. (a.r.)

Ecomostruosi, ma non troppo

MONTICCHIELLO. Francesco Rutelli, ministro dei Beni culturali, lancia l’allarme: «La Toscana è una delle regioni più belle e tutelate del mondo. Però bisogna prestare più attenzione al paesaggio. Per evitare altre Monticchiello».

Lo dice a fari spenti, fuori dalla sala del Granaio, dove ieri si è svolto, sotto la regia di Alberto Asor Rosa - il grande accusatore dell’insediamento in costruzione (96 appartamenti) nell’antico borgo di Monticchiello (appena 300 anime) - il raduno delle associazioni ambientaliste e dei Comuni in guerra contro gli ecomostri. Sfilano tutte le bruttezze della Toscana e d’Italia, qui nella sala affollata di Monticchiello.

Ecomostri in Toscana. C’è Ornella De Zordo, capogruppo della lista dei «professori» di Firenze (Paul Ginsborg e compagni) che se la prende contro l’ecomostro dell’insediamento Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti, che dovrebbe sorgere nella piana fiorentina (1 milione e 400mila metri cubi di cemento), con la benedizione politica di Regione e palazzo Vecchio. C’è chi diffonde un voluminoso dossier rosso contro il progetto di realizzazione del porto di Marina di Pisa. C’è il comitato di Fiesole che si batte per impedire la costruzione di 29 appartamenti in un’area pregiata: «Rutelli, vieni a vedere anche lo scempio di Fiesole...», gridano gli attivisti fiesolani, durante l’intervento del ministro. «Verrò, verrò...», assicura Rutelli. C’è il comitato contro il progetto di un campo da golf a Bagnaia. Ci sono quelli che illustrano con tanto di diapositive lo scempio di Magliano. C’è Italia Nostra di Lucca che diffonde un dossier sulle presunte speculazioni edilizie lucchesi. Poi gli ambientalisti di Carrara, di Massa, i Verdi che diffondono un dossier intitolato «Ecomostri e scempi urbanistici in Toscana. Viaggio nella Toscana infelix, paradiso insidiato dal cemento»...

Conti abbraccia la Biagi. E l’elenco continua, mentre Riccardo Conti, assessore ai trasporti e all’urbanistica della Regione, ascolta, ma non applaude. Si sbraccia solo due volte. Quando parlano il presidente nazionale di Legambiente Roberto Della Seta e il sindaco di Capalbio Lucia Biagi. Il primo assolve la Toscana: «Ci troviamo in una Regione dove il valore sociale del paesaggio è molto sentito. Ciò non toglie che anche qui ci siano dei problemi, ma sarebbe un errore fare paragoni con altre regioni».

Il sindaco di Capalbio racconta invece di avere ereditato un Prg che è «un mostro». Colpa della Regione, che lo approvò nel 1999. «Ma io non mi arrendo. Sto cercando di non approvare alcuni interventi che non sono sostenibili con l’ambiente. Grazie anche alla nuova legge della Regione. Che si è schierata al mio fianco», racconta la Biagi. Conti si alza e dalla presidenza va ad abbracciare il sindaco di Capalbio. «Esempio felice di collaborazione tra Regione e Comuni. Capalbio è l’esempio di come insieme possiamo condurre una battaglia vincente contro i cosidetti ecomostri», spiega l’assessore.

Toscana in bilico. Sì, la Toscana è in bilico, aggiunge Conti. «Però da noi si parla di Monticchiello perché la regione è tutelata bene», osserva. I numeri, presentati da Vittorio Emiliani, presidente del comitato per la Bellezza, almeno in parte gli danno ragione. I permessi di costruzione galoppano, specie in Veneto, Emilia e Lombardia. La Toscana si pone a metà classifica: 41mila nuove stanze - nel 2002 - contro le oltre 800mila nazionali. «In Toscana l’erosione di suoli liberi è minore e però a livelli allarmanti», accusa Emiliani.

A chi il controllo? Molto rivolto alle situazioni «in cui i buoi sono scappati dalle stalle», il convegno non ha saputo dare una risposta univoca su come evitare in futuro nuove Monticchiello. In breve: a chi spetta l’ultima parola per la costruzione di un insediamento edilizio.

Due i «partiti» che si sono confrontati e scontrati. Da un lato, il partito dei Comuni, che difende - sindaco di Capalbio in testa - i controlli comunali, dal basso. Dall’altro, il partito del ritorno delle competenze di controllo alla Regione e allo Stato.

Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, propone una legge per il governo territorio. Mentre Conti punta sul Pit, il piano integrato del territorio, che la Regione approverà nei prossimi mesi. E su un’accordo tra Rutelli e la Toscana per inserire il codice del paesaggio dentro il Pit.

Rutelli soft: limitiamo i danni

C’è chi propone di abbattere l’insediamento residenziale di Monticchiello, 96 appartamenti, in costruzione tra le colline della Valdorcia, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, ma il ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ha gelato gli entusiasmi degli ambientalisti. «La demolizione - ha detto - credo sia giuridicamente non fattibile». Anche perché l’impresa costruttrice, “Iniziative toscane”, chiederebbe al Comune di Pienza dove si trova il borgo di Monticchiello danni milionari, in caso di revoca della licenza a costruire. L’impresa romana ha già mostrato i muscoli citando per danni - un milione di euro - Legambiente, Espresso, Repubblica e Alberto Asor Rosa per aver definito un ecomostro l’insediamento di Monticchiello.

Dunque niente abbattimento, ma intervento soft, quello proposto da Rutelli. Scandito in tre aspetti: verifica tra il progetto approvato dal Comune e la realizzazione dell’insediamento; studio di interventi che ne abbelliscano il profilo estetico; auspicio infine che non siano realizzate le ultime villette, il lotto finale (circa 4 strutture), i cui lavori sono stati sospesi dalla società edile.

La posizione del ministro non ha trovato d’accordo tutti gli ambientalisti. Il presidente di Italia Nostra Carlo Ripa di Meana è stato il più duro. «C’è una grande distanza tra noi e il ministro. La sua posizione è di composizione bonaria della vertenza. Per noi questo è inaccettabile. Siamo pronti a fare ricorso alle vie penali». In disaccordo anche il leader dei Verdi toscani Fabio Roggiolani: «Dall’assessore regionale Conti e dal ministro Rutelli abbiamo ascoltato due interventi che sono vuoto pneumatico e dimostrano un’impotenza assoluta. Quando invece entrambi sanno bene di avere strumenti per risolvere il problema». (m.l.)

Associazione Industriali del Canavese, Progetto Canavese – Linee Operative, Fase 2, maggio 2005

[…] 6.3 Linee di azione

Le possibili azioni per raggiungere gli obiettivi prefissati possono essere molteplici. Di seguito riportiamo alcune idee che riteniamo possano essere prese in considerazione da esperti del settore turistico per un eventuale sviluppo.

6.3.1 Turismo dei grandi numeri

Sviluppare progetti innovativi che possano attrarre un numero rilevante di turisti italiani e stranieri tra cui i PARCHI A TEMA (iniziative da oltre un milione di turisti). Tra i parchi in fase di progettazione od in via di realizzazione possiamo citare:

●Mediapolis

●Motorlandia

I parchi a tema possono rappresentare il motore in grado di accendere una industria del turismo del Canavese. Riteniamo, da questo punto di vista fuorviante ed inutile la discussione sulla scelta tra un turismo di quantità ed uno di qualità, che si è sviluppata in questi ultimi anni anche in sede locale. In Canavese non potranno mai venire grandi masse di persone se non ci sarà un’occasione, uno spunto, un’idea che li possa portare; i parchi a tema possono essere quello spunto; da questo pubblico, in accordo con le società che promuovono i parchi e che li realizzeranno, si può partire per ingenerare una ricaduta sul resto del territorio. Pur avendo un’area territoriale simile in termini di bacino d’utenza (principalmente il nord ovest d’Italia) i due progetti sono diversi per tema sviluppato e questo è un vantaggio non indifferente; inoltre, per la loro differente localizzazione nello stesso Canavese potrebbero generare insieme una ricaduta sull’intero territorio: Mediapolis sull’eporediese, i Laghi e la Serra d’Ivrea; Motorlandia sul Calusiese, Rivarolo ed il Canavese occidentale.

In sostanza il turismo dei grandi numeri può aiutare il turismo di qualità. D’altra parte coloro che vengono per l’arte, l’ambiente, lo sport, ecc., potrebbero trovare nella presenza del Parco divertimenti un completamento dell’offerta perché potrebbe essere d’interesse per la famiglia, i figli, ecc. (ad esempio, potrebbero venire non più da soli ma con altri o fermarsi qualche giorno in più).

In tema di Parchi dei divertimenti, ci permettiamo di inserire anche il Parco Nazionale del Gran Paradiso; l’accostamento è, forse, irriverente, ma si tratta di una risorsa unica che può essere utilizzata maggiormente, in cui il tema è lo spettacolo della natura e degli animali. Se facciamo il confronto con i grandi parchi degli Stati Uniti, ci rendiamo conto di quanto possiamo ancora fare. Ma nelle Valli del Gran Paradiso ci si deve poter arrivare con una strada adeguata, deve esistere ricettività, ristorazione (es. malghe, agriturismo, ecc.), si devono offrire prodotti e gadget da acquistare, ecc.

Siamo convinti che con una promozione adeguata, infrastrutture sufficienti, sviluppo di imprenditorialità di servizio il Parco del Gran Paradiso potrebbe portare ad un numero di visitatori enormemente superiore agli attuali.

Nota: per il progetto Mediapolis, si veda l’ultimo documento pubblicato qui su Eddyburg , da cui è poi possibile risalire ad altre informazioni; il documento PDF integrale da cui sono estratti questi brani è scaricabile di seguito (f.b.)

progetto_canavese

Notizie degli scavi è il nome di una gloriosa rivista di archeologia pubblicata dall´Accademia dei Lincei; ma è anche il titolo di un racconto scabro e crudele di Franco Lucentini (1964). Protagonista ne è il «professore», tuttofare di una pensione equivoca, minorato mentale eppure curioso del mondo, che dalle rovine di Roma, sfiorate per caso nel suo girovagare imbambolato e assorto, impara a guardare dentro di sé.

Quante cose di quei ruderi, lo dicono perfino le guide stampate, «non si sanno» dopo tanti studi, quante date, quanti fatti restano oscuri! E allora, davanti alle incertezze e ai silenzi dei sapienti, anche le esitazioni del «professore», che non è mai sicuro di aver capito quello che gli dicono, che inciampa nelle parole proprie e altrui, non sono vergogna, solo solitudine. «Le rovine si presentano come la vera e unica forma del nostro universo. Il mondo è fatto di resti, di frantumi, di cose su cui è passato il tempo» (D. Scarpa), e così anche la mente del «professore», così la nostra.

Ruolo, funzione e destino del rudere archeologico nelle città, ma specialmente nella Roma del presente e del futuro: questo il tema del denso, prezioso libro di Andreina Ricci edito da Donzelli ( Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, pagg. 159, euro 12.90). In nessun luogo come a Roma si avverte (si vive) la presenza del passato, il sedimentarsi delle età, l´innestarsi dell´oggi su una moltitudine di ieri. Eppure manca dal nostro orizzonte una domanda radicale, quella di questo libro: mentre la città cresce, e cresce la diversità culturale dei suoi abitanti, a chi spetta decidere che cosa fare delle sue rovine, e perché? E´ importante (non per l´archeologo che lo fa per mestiere, ma per il cittadino, il passante, il più distratto e spaesato turista) capire che cosa erano e che cosa sono quei ruderi, perché sono conservati, e soprattutto per chi? Non si tratta qui solo del Colosseo, né di monumenti meno famosi (come l´arco del Foro Boario in copertina), ma anche dello smozzicato segmento di un acquedotto, dei frammenti spesso incomprensibili di tombe o strade che tanto spesso spuntano inattesi nelle periferie romane. Andreina Ricci ha ben chiaro che il rudere archeologico non è «proprietà» né degli archeologi né dei professionisti della tutela; sa, come dovremmo sapere tutti, che la tutela passiva (la protezione contro degrado e distruzione) non basta. Tutelare è anzi nulla, il vano ossequio rituale a una petizione di principio, una stanca coazione a ripetere, se non si accompagna a meccanismi culturali ben più vivi e stimolanti: la curiosità e la conoscenza non degli specialisti, ma dei cittadini. Il rudere nella città non è solo l´esile voce di un´altra Roma, quella che non c´è più eppure ebbe le sue folle e il suo clamore, il suo traffico, le sue passioni e i suoi delitti, proprio come quella di oggi; è un generatore di memoria, ci prende per il collo obbligandoci a rispettarlo (o a distruggerlo), condiziona la crescita della città. Il rituale della tutela impone uno spazio «di rispetto» attorno al rudere: ma allora il tema della tutela s´intreccia con quello della definizione del tessuto urbano, anzi con l´uso pubblico dello spazio urbano in generale, col ruolo che possono avervi (che, a Roma, hanno e avranno sempre e comunque) le «notizie degli scavi».

La formula «nuda pietra» che Andreina Ricci usa sin dal titolo per cogliere in due parole la doppia natura del rudere nella città, la sua forza (la pietra) e la sua debolezza (la nudità) viene, riconoscibilmente, dalle riflessioni di Giorgio Agamben sul rapporto fra la «nuda vita naturale» dell´uomo e la sua condizione di cittadino, portatore di sovranità e di diritti. Ci voleva coraggio (e la Ricci l´ha avuto) per dire chiaramente che il diritto di cittadinanza del rudere nella città moderna non è scontato: «nelle nostre leggi di salvaguardia il solo emergere dal terreno di una "pietra antica" fa di quell´epifania una sorta di natività che trasforma immediatamente una nuda pietra in portatore di "valori di civiltà" propri dello "Stato di cultura", così da imporne automaticamente la tutela. (...) Una forzatura e un automatismo che non hanno nulla a che fare con l´esperienza diretta, non rappresentano in alcun modo, per i cittadini, un lapalissiano fatto concreto».

La tutela del bene archeologico dà per scontato che esso abbia valore in sé, non comporta la minima riflessione né il minimo sforzo perché tale valore venga definito, coltivato, comunicato al cittadino che dovrebbe (si suppone) inorgoglirsene, considerarlo parte della propria identità.

Questo è, mi pare, il nodo centrale del libro di Andreina Ricci: che è anche un´interrogazione di fondo sul mestiere dell´archeologo. Perché gli addetti ai lavori fanno così pochi tentativi di comunicare ai cittadini comuni il significato delle loro scoperte, la natura delle «nude pietre» che riemergono, il senso del proprio lavoro? Forse, per pigrizia o mancanza di riflessione, essi non credono che sia necessario comunicare proprio nulla, perché immaginano che il cittadino che visita le rovine, o vi passa accanto, ne abbia quella percezione estetico-contemplativa che fu ovvia, è vero, nella stagione del Grand Tour, ma che era propria di ristrette élites, da gran tempo defunte.

Perciò non basta perimetrare le rovine per affermarne la sacralità: la nuova professionalità dell´archeologo richiede la capacità (più spesso rimossa che dispiegata) di raccontare la storia attraverso i resti materiali del passato. Un esempio: la recente sistemazione dell´arco del Foro Boario comporta due livelli d´intervento non solo incompatibili, ma ostili l´uno all´altro. Si schierano, davanti all´arco, una serie di (miserevoli) panchine, che invitano ad avvicinarsi, a sedersi, a fermarsi per guardare. Lo impedisce però un´alta cancellata, che vieta non solo l´uso delle panchine ma ogni visione ravvicinata dell´arco. In questo andare a tentoni, archeologi e architetti non si parlano, troppo occupati a ritagliarsi, ognuno per sé, spazi autonomi d´intervento. Chi perde la battaglia è il cittadino comune, ma anche il monumento, affidato a una «tutela» di maniera che lo proietta in una dimensione inconoscibile.

Questo tema è oggi straordinariamente importante.

Tutelare sulla base di principi generali è giusto, è irrinunciabile (guai a fare anche un solo millimetro indietro). Ma quei principi devono fondarsi su valori riconosciuti e condivisi, a cominciare da quello della conoscenza: se rinunciamo a diffondere la coscienza del significato dei beni da tutelare, anche i principi (anche l´art. 9 della Costituzione) si sfarineranno via via, li violeremo (succede già) nella generale indifferenza. Vale per l´archeologia, vale per tutti i «beni culturali» (comunque definiti), vale a maggior ragione per il paesaggio e per quell´essenziale continuum fra città e campagna che è ancora la ricchezza più importante dell´Italia e che tutti sembrano industriarsi a voler smantellare, anche i comuni e le regioni «di sinistra». E dove mai, in quale scuola, in quale pubblico progetto di Stato, regioni o comuni, si prova a cercare strade nuove ed efficaci per tramandare alle generazioni future il rispetto per il paesaggio, l´ambiente, i monumenti, che per secoli non solo parve, ma fu, parte imprescindibile dell´essere italiani?

Secondo Andreina Ricci, fu con la politica del vuoto intorno ai monumenti archeologici propugnata dal fascismo che venne a spezzarsi il legame vitale fra passato e futuro, e i ruderi da gangli essenziali del vissuto urbano furono mutati in neutro e sciatto testimonio di sé stessi, «glorificati» in apparenza ma in verità relegati in un loro ghetto astratto e senz´anima. Per capovolgere questa perversa deriva, suggerisce con forza questo libro, non c´è che da ripartire dal presente, da una nuova alleanza di volontà e di saperi, da una rinnovata capacità di interpretare per raccontare, di raccontare per coinvolgere i cittadini, per ricreare coscienza e appartenenza. Per ridare alla «nuda pietra» la sua cittadinanza perduta, prima che sia troppo tardi.

Toscana in bilico Insomma, dopo due mesi di appassionate discussioni, le cose stanno più o meno così: l’insediamento immobiliare speculativo, che sta sorgendo sulla collina del borgo medievale di Monticchiello e che io ho chiamato, suscitando in taluni scandalo, un «ecomostro» (la Repubblica, 24 agosto), è stato in seguito definito «uno schifo» (Riccardo Conti, assessore regionale all’Urbanistica, il Tirreno, 29 agosto), così sbagliato da auspicare che «in futuro un caso Monticchiello non accada più» (Claudio Martini, Presidente della Regione Toscana, Corriere di Siena, 5 settembre), «un intervento fuori scala e inopportuno, un clamoroso errore» (Erasmo D’Angelis, Presidente della Commissione Ambiente del Consiglio regionale toscano, 10 settembre).

Ancor più rilevante istituzionalmente e politicamente, l’intervento di Francesco Rutelli, Ministro dei Beni Culturali. Invece di far finta di niente, come sovente capita, manda un’ispezione, ne deduce la gravità della situazione, tratta con l’Amministrazione comunale di Pienza perché a due architetti di chiara fama sia affidato il compito di «correggere e mitigare» l’insediamento di Monticchiello (20 settembre). A mio giudizio, è stato finora poco apprezzato, nella sua significatività, questo intervento. Tutti si sono affrettati a lodarlo (chi criticherebbe un Ministro?), ma pochi hanno osservato che si tratta della prima volta che il Ministero, di cui Rutelli è titolare, lancia un messaggio forte di questo tipo: un insediamento, quando è particolarmente distruttivo (e questo evidentemente lo è, altrimenti perché il Ministro avrebbe dovuto muoversi?), può esser rimesso in discussione e corretto e modificato anche quando, in base a un percorso più locale, sia già stato autorizzato e addirittura iniziato. C’è un altro clima, è quello che per cominciare avevamo chiesto.

Nel frattempo, tuttavia, i lavori in atto sono stati sospesi solo per i corpi di fabbrica non ancora iniziati (tre su undici, se non erro), continuano allegramente invece su tutti gli altri, determinando pesantemente il risultato finale. Comincio da qui per tentare un aggiornamento del discorso. E’ corretto aspettare a questo punto che i due architetti si pronuncino. Tuttavia, proprio perché le indicazioni ministeriali vengono così apertamente disattese, torna lecito chiedersi di nuovo come sia possibile tollerare che venga comunque portato a compimento un insediamento che, non io, ma voci tanto autorevoli hanno definito «uno schifo», qualcosa di cui ci si augura che in futuro non accada più, «un clamoroso errore». Dunque esistono anche gli «ecomostri» con tanto di autorizzazione?

Se le concessioni sono in regola (ultima linea di difesa di tutti coloro che non vogliono rimettere in discussione l’obbrobrio, nonostante le sue evidenti e conclamate deformità), assisteremo inerti al fatale sviluppo degli eventi come nel finale di una tragedia greca? Non riesco a persuadermene. Ho già chiesto e torno ora a chiedere la creazione di un fondo nazional-regionale di «rientro dall’errore» (o, in altri casi, di «premio alla virtù»), che consenta di salvare il salvabile finché si è in tempo (e che serva da ammonimento preventivo a tutti i furbetti che cercano di approfittarsi di volta in volta o della eccessiva flessibilità o della eccessiva rigidità delle leggi).

Il discorso, però, come tutti possono vedere, si è impetuosamente allargato da quell’apparentemente minuscolo punto di partenza. Sembra che di casi Monticchiello ne esistano, in Italia e in Toscana, ovunque. Spero che questo contribuisca a sollevare dalle mie spalle il peso, non piacevole, della prima denuncia (mi sono trovato inaspettatamente a fronteggiare in provincia, per quel mio moderatissimo articoletto iniziale, sia le stilettate di un certo stalinismo di ritorno, sia le volgarità di un incipiente leghismo pseudo-rosso). Ci sono evidentemente problemi di fondo, di cui il caso Monticchiello è stato il detonatore. Cercherò di dirlo nella maniera più semplice, ma sento il bisogno di fare due dichiarazioni preliminari intorno alla Toscana (di cui a quanto sembra resto un semplice ospite temporaneo, nonostante la mia lunga e appassionata permanenza nel tempo).

1) La Toscana è una delle regioni al mondo più ricche di beni artistici, culturali, paesistici. Ho già detto in altra occasione che, in un ragionamento spinto fino all’estremo, l’UNESCO potrebbe assumerla in quanto tale nell’elenco dei siti «Patrimonio mondiale dell’umanità»; 2) la Toscana presenta un livello più elevato che altrove di salvaguardia del suo patrimonio culturale e ambientale, di cui l’Istituzione Regione è stata finora la principale garante.

Questo sfondo è innegabile, ed è giusto chiedere che non sia dimenticato. Su questo sfondo, però, si sono aperte nel corso dell’ultimo decennio (approssimativamente) molte smagliature. In particolare, nel corso degli ultimi anni l’attacco del cemento si è enormemente moltiplicato (si vedano i servizi del Tirreno e il recente articolo di Giovanni Valentini, sempre su la Repubblica), ed è diventato una vera e propria strategia. Ciò è perfettamente comprensibile. Il capitale speculativo che affluisce da tutte le parti, si concentra attualmente nell’immobiliare, e anche il più disinformato dei lettori capirebbe il perché. Il capitale immobiliare, come le mosche intorno al miele, corre là dove l’investimento è più appetibile e sicuro: in Toscana, ad esempio, che miriadi di articoli, saggi e libri hanno descritto come la «Regio felix» e, ancor più smaccatamente, là dove si può esibire l’esistenza, per quanto illusoria, di un Parco e la patente di «Patrimonio mondiale dell’umanità» conferita dall’UNESCO, come nel caso Monticchiello, cui qui si fa riferimento in forma emblematica.

Ma il caso è ripetibile anche altrove, in tutte quelle situazioni in cui si può succhiare sangue dalla vicinanza di un grande bene culturale o artistico (per esempio, la grandiosa speculazione immobiliare progettata sulle sponde del lago di Mantova, denunciata in un articolo di Francesco Erbani, la Repubblica, 12 ottobre). Siamo di fronte al diffondersi di una pratica, che definirei il «vampirismo» della attuale speculazione immobiliare.

Allora il ragionamento di fondo a me pare di una chiarezza cristallina. I beni culturali e artistici e il paesaggio non sono facilmente riproducibili, le «aggiunte» o le «modifiche» di segno positivo contemporanee rarissime.

Insomma, la storia dell’uomo è andata così, ci si potrebbe scrivere un libro, per ora basta prendere atto delle sue conclusioni. In questi nostri anni si gioca, in definitiva e, ahimè, per sempre - ripeto: per sempre, - il patrimonio di famiglia: un patrimonio millenario, che sta prevalentemente alle nostre spalle e che è compito della modernità conservare e al tempo stesso rendere fruibile.

Questo è il circolo virtuoso della modernità: la fruizione non deve mettere in crisi la conservazione, la conservazione deve rendere possibile il meglio e il più a lungo possibile la fruizione. Se la conservazione entra in crisi, non c’è e non ci sarà più fruizione. La speculazione spezza brutalmente e per sempre questo circolo virtuoso. Se ne frega al tempo stesso dei nostri progenitori e dei nostri discendenti; pensa solo al proprio profitto, e distrugge alla maniera dei vandali i beni altrui (il bene, intendo, dei mantovani, dei monticchiellesi, dei capalbiesi, dei versiliesi, e così via, ma in ultima analisi degli italiani e degli europei, perché tutti tali siamo, non bisognerebbe mai dimenticarselo). In questo processo negativo, anzi catastrofico, oggi la Toscana mi sembra in bilico, l’Italia gravemente malata: ma - non lo dico per concludere positivamente questa perorazione, - né in un caso né nell’altro in modo irreparabile. Qui sta il compito, - gravissimo per la sua effettiva decisività, - dei politici e delle assemblee elettive in questa fase.

Vorrei concludere tornando a Monticchiello. A Monticchiello, posto bellissimo e altamente civile (è per questo che merita d’essere difeso), non c’è omertà. C’è la sofferenza e forse l’imbarazzo di una piccola comunità stretta fra l’innegabile violenza dell’«ecomostro» e il clamore altissimo, positivo in sé ma forse per certi aspetti disturbante, che ne è seguito. Se se ne parla ora adottando Monticchiello quale proscenio nazionale di un ragionamento ambientalista, come del resto è nella vocazione teatrale di questo borgo, questo non è un processo, è un riconoscimento, e con questo spirito dev’essere, da una parte come dall’altra, accolto e praticato.

“La denuncia di Riccardo Pacifici è sacrosanta”: sintetizza così la sua posizione Vezio De Lucia, urbanista, una lunga carriera professionale e politica divisa fra Roma e Napoli. “Ha perfettamente ragione a temere per l’identità di un quartiere, perché un quartiere soprattutto in un centro storico, è la gente che lo abita, sono le attività che vi si svolgono, la rete di rapporti che si instaura. Se la gente va via, si snatura il profilo di un quartiere: e questo vale a maggior ragione per il quartiere ebraico di Roma, che ha un carattere identitario rinforzato”.

Pacifici chiede che si indaghi sulla speculazione che sta dietro l’espulsione dei residenti.

“Concordo anche su questo. L’indagine che va fatta non è tanto un’indagine di polizia, anche se di fronte a violazioni di legge è la magistratura che deve intervenire”.

E a quali indagini pensa?

“Non si può la sciare che la distribuzione sociale di una città e dei suoi quartieri sia solo affidata al mercato. E invece è ciò a cui assistiamo. I centri storici, compreso quello di Roma, da anni si stanno svuotando dei vecchi residenti e riempiendo di residenza di lusso, di studi professionali e di uffici”.

E questo fenomeno come si può contrastare?

“In passato lo si è contrastato. Ora molto meno. Uno dei pochi contributi che l’Italia ha fornito all’urbanistica europea è stato proprio il recupero dei centri storici. L’esperienza di Bologna, tra la fine degli anni 60 e i primi 70, è stata esemplare. Il piano di Pier Luigi Cervellati prevedeva che si risanassero le abitazioni e che si lasciassero i vecchi residenti.”

E’ accaduto solo a Bologna?

“No, anche a Roma. I casi di Tor di Nona e di San Paolo alla Regola dimostrano che, quando vuole, un’amministrazione comunale può controllare la distribuzione sociale di una città. In quelle due circostanze fu decisiva l’iniziativa del sindaco Petroselli, che progettò anche il trasferimento in periferia di alcune funzioni amministrative, cercando di ottenere due vantaggi: allontanare dal centro attività urbanisticamente troppo onerose e riqualificare le periferie, dove Petroselli avrebbe voluto mandare non il catasto o l’anagrafe, ma le sedi dei ministeri. Questo era il sogno di Antonio Cederna. Ma le cose a Roma sono andate diversamente”.

28 agosto 2006

«Ha vinto il partito del cemento»

di Mario Lancisi

Asor Rosa: basta seconde case, puntiamo sull’agriturismo

FIRENZE. «In Toscana si è imboccata la strada delle lottizzazioni selvagge e della seconda casa turistica che crea un danno all’ambiente e al paesaggio». E’ il grido di allarme di Alberto Asor Rosa, 79 anni, professore emerito della Sapienza di Roma. Un richiamo forte, il suo. Sì, perché Asor (casa a Capalbio e a Monticchiello, nel Senese), è l’autore della famosa definizione della Toscana come «terra felix».

Qualcosa si è inceppato, negli ultimi anni, nella tutela del territorio toscano. A tal punto che Asor Rosa su Repubblica ha denunciato la costruzione di un grande insediamento nel borgo di Monticchiello, vicino a Pienza, nel cuore della Val d’Orcia. Monticchiello non è un caso isolato. La Toscana è a rischio, secondo il professore.

Non più terra ‘felix’?

«Riconfermo il mio giudizio positivo sulla Toscana e sugli orientamenti generali della salvaguardia del territorio. Anche se questi negli ultimi anni sono entrati in una fase critica, in cui le ragioni dello sviluppo, che nessuno nega, vengono passati al filtro di molti e contraddittori strumenti di realizzazione».

E’ venuta meno una certa tutela ambientale per favorire uno sviluppo economico basato sulle seconde case anziché sull’agriturismo?

«Non c’è dubbio. L’agriturismo rappresenta una forma decente di sviluppo sostenibile. Esso andrebbe sostenuto come un volano importante dell’economia turistica, impedendo la costruzione di megacomplessi turistici. Si è favorita la politica delle seconde case che confligge sia con una linea di sviluppo che di tutela ambientale».

Quale è la responsabilità della Regione Toscana?

«Io non sono un esperto di questioni urbanistiche. Da ospite della Toscana direi che l’inversione di tendenza sia determinata da un indebolimento della capacità progettuale della Regione nei confronti del territorio».

In che misura questo venir meno della funzione progettuale della Regione è frutto della nuova legge regionale urbanistica che assegna ai Comuni un ruolo decisivo nell’iter edilizio?

«Ritengo questa legge sbagliata perché i vincoli regionali devono sovradeterminare quelli locali. Altrimenti è la vittoria delle logiche e degli interessi campanilistici».

Però questa legge ha consentito l’abbreviamento dei tempi nelle concessioni edilizie, cavallo di battaglia del mondo industriale edile.

«Mi pare onestamente una spiegazione opportunistica. La sfida di un governo di sinistra deve essere invece quella di tenere insieme i due obiettivi della tutela del territorio e della rapidità negli iter autorizzativi».

Il centrodestra toscano - a Grosseto, Lucca e Arezzo - ha puntato sull’edilizia. L’immagine vincente è stata quella della gru, simbolo felice di operosità e dinanismo. Anche la sinistra si è adeguata a questo modello?

«Non c’è dubbio che il contagio del berlusconismo abbia preso anche parte della sinistra. E’ tornato in auge un modello di sviluppo basato sulla gru. La ritengo una strada sbagliata non solo per il territorio ma anche per lo sviluppo economico della Toscana».

Non ritiene che i numerosi obbrobri che si vedono in giro siano frutto anche di un certo peggioramento del personale tecnico?

«Parliamoci chiaro, i tecnici mettono il loro sapere al servizio del maggiore profitto. Nel caso di Monticchiello su una cubatura prefissata si è passati da 40 a 95 appartementi. I tecnici possono dividere un volume per tre o per sei. Il loro compito è meramente esecutivo. Il problema è di chi dà loro gli ordini. Non c’è dubbio che la responsabilità sia della politica».

Perché le amministrazioni locali hanno abbassato la tutela territoriale?

«Per leggerezza, ignoranza e scarso spirito progettuale. Spesso i politici hanno orizzonti amministrativ corti, che non progettano per il futuro ma si limitano a sguardi che non vanno oltre i 3-4 anni».

Quale futuro per la Toscana?

«In bilico tra la ripresa forte di salvaguardia di una tradizione tipicamente toscana e il cedimento alle tematiche più distruttive dello sviluppo turistico e economico».

Oltre a Monticchiello quali altri luoghi della Toscana sono un esempio negativo di salvaguardia del territorio?

«Delle zone che conosco posso citare Capalbio, dove hanno costruito male. Stessa cosa a sud di Livorno, dove spuntano nuovi insediamenti turistici, all’isola d’Elba, a San Vincenzo. Ma l’elenco è molto più lungo, purtroppo».

29 agosto 2006

«Però Asor Rosa qui ha due case...»

Conti: tutti osti e giardinieri? Non sarebbe una Toscana felix

di Carlo Bartoli

FIRENZE. «E’ vero, in Toscana c’è troppo cemento e il nuovo insediamento di Monticchiello fa schifo, però rendiamoci conto che non siamo più nell’impero asburgico, la Regione non può bloccare i Comuni. La Toscana ha bisogno di un grande patto tra Regione, Province e Comuni per la gestione del territorio, per affermare una politica che coniughi tutela e sviluppo: non possiamo ridurre la nostra regione alla terra del buen retiro di illustri personaggi».

L’assessore regionale Riccardo Conti risponde così all’allarme di Alberto Asor Rosa che sul Tirreno ha denunciato «l’indebolimento della capacità progettuale della Regione sul territorio». Ma la prima stoccata l’aveva vibrata due mesi fa il direttore della Normale Salvatore Settis, secondo cui in Toscana «il sistema di tutela paesaggistica in questi ultimi anni si è molto indebolito».

Il nuovo insediamento a Monticchiello fa scandalo. Lei cosa risponde?

«E’ vero, l’insediamento di Monticchiello è uno schifo. La Regione è sempre stata contraria, tanto che nel 1997 l’intervento fu bloccato dalla Crta, ma poi il Comune è tornato alla carica e ha dato il via libera a un intervento sbagliato. Ma non sarebbe giusto prendersela solo con le amministrazioni comunali, alle prese con delle pressioni fortissime. Per questo diciamo che occorre un grande patto tra Regione, Province e Comuni per il governo dei territori».

Ma la Regione ha le mani così bloccate?

«La Regione non ha alcuna possibilità di fermare un intervento. Non lo permette, anzitutto, il titolo quinto della Costituzione: tra Regione, Province e Comuni non vigono le regole della burocrazia ottocentesca, il rapporto non è di tipo gerarchico, in Toscana come nel resto d’Italia».

La Toscana va indietro, dicono Settis e Asor Rosa.

«Vorrei tranquillizzare Asor Rosa: con la nuova legge 5, l’intervento a Monticchiello non si sarebbe potuto realizzare con una semplice “variante breve”, ma sarebbe stato istruito in maniera più complessa, con il coinvolgimento della Regione. Intendiamoci, il quadro dei rapporti istituzionali rimane quello detto poc’anzi, solo che le nuove procedure sono più articolate».

Ma prima questi scempi non avvenivano.

«Falso. Questa è un’ottica da rovesciare. Proprio quando Asor Rosa coniava la bella espressione “Toscana felix” venivano pensati quei processi di cementificazione che adesso cerchiamo di mettere sotto controllo. In Toscana c’è troppo cemento, è vero. E non lo dico adesso. C’è un eccesso di produzione edilizia, oltretutto quasi mai di buona qualità. Negli anni Novanta l’Inu censì un potenziale di costruzioni tale da soddisfare il fabbisogno di una Toscana da 8 milioni di abitanti. Da allora di strada ne abbiamo fatta. Abbiamo approvato la legge 5 e poi la legge 1 per avere strumenti di pianificazione in grado di svolgere un’azione di contenimento e di qualificazione».

Fatto sta che le gru sono sempre al lavoro.

«In Toscana la pressione è enorme. Ringraziamo Alberto Asor Rosa per il segnale d’allarme, ma è pur vero che anche lui ha due seconde case nella nostra regione. Noi vogliamo contenere la spinta alla realizzazione di seconde case, ma dobbiamo coniugare tutela e sviluppo. La Toscana non può essere ridotta a un grande agriturismo, ad un luogo ameno per il buen retiro di illustri personaggi: i toscani non sono un popolo di osti, casieri e giardinieri».

Tra villettopoli e buen retiro c’è una terza via?

«La pianificazione del territorio. E’ una chiave essenziale dello sviluppo della nostra regione non solo sotto il profilo della tutela; in questi anni troppe risorse sono state convogliate verso la rendita, impiegate nel mattone invece che in attività produttive. Con il Piano regionale di sviluppo e con il Pit abbiamo deciso di giocare tutte le nostre carte sull’innovazione e gli investimenti. Il 15 settembre ci sarà a Capalbio un confronto sulla buona urbanistica. Invito fin da ora Asor Rosa a portare il suo contributo, ma anche ad ascoltarci, perché lo sguardo di chi vive la Toscana solo il fine settimana non sempre coglie la complessità dei problemi».

29 agosto 2006

«E lo sviluppo è una balla»

Legambiente: guadagnano i costruttori e le casse comunali per gli altri solo briciole, danni ambientali e traffico-caos

Piero Baronti, lei è il presidente regionale di Legambiente. E’ d’accordo con Asor Rosa?

«Così d’accordo che l’associazione sta preparando un comunicato nazionale sul caso di Monticchiello, quello da cui parte la denuncia del professore. L’intera Val d’Orcia è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco eppure i maxi-interventi continuano. Ce n’è uno anche nel comune di Radicofani, a Contignano, su una collina bellissima. Quello di Monticchiello è un progetto vecchio: il Comune dice che non può più opporsi perché pagherebbe penali alte, ma non è proprio così».

Succede spesso che le amministrazioni si giustifichino in questo modo.

«Sì ma è come nascondersi dietro un dito. I Comuni dicono che i progetti sono stati approvati dai loro predecessori, che le società ormai hanno tutte le autorizzazioni e dunque non si possono più impedire i lavori. E invece ci sono esempi di Comuni che hanno rimesso in discussione i progetti avviati. E’ successo a Castiglione della Pescaia, ma anche a Fiesole. L’importante è avere coraggio».

Quello delle seconde case resta un bel business. Ma si dice che l’edilizia è un volano di sviluppo».

«Il paravento per realizzare interventi massicci è l’affermazione che costruire porta lavoro, nell’immediato e in futuro, e quindi genera sviluppo. La realtà è diversa: le società si affidano di solito a imprese estranee al territorio, si portano dietro persino i muratori, e alla gente del posto restano le briciole. E’ ormai appurato che il turismo delle seconde case ha ben poche ricadute in loco: i vantaggi veri sono per chi costruisce».

Le località turistiche sono sovraffollate in alcuni periodi e deserte nel resto dell’anno. Continuando con le seconde case non si aggravano i problemi?

«Naturalmente: prima di tutto il problema del traffico e dei parcheggi. Poi quello dell’approvvigionamento idrico e dei rifiuti. Ma i costruttori non si preoccupano molto della viabilità o dei depuratori».

Una regione come la Toscana non dovrebbe essere più attenta al suo patrimonio ambientale?

«Abbiamo una buona legge regionale sull’urbanistica. Ma attraverso le maglie della norma riescono a passare, con le varianti, dei progetti che fanno danni e che a volte sono dei veri obbrobri. Non è ancora diffusa una cultura ambientale».

E non è certo frequente la protesta popolare contro lottizzazione selvaggia.

«Negli ultimi anni sono nati tanti comitati: contro le discariche, contro gli inceneritori, contro i rigassificatori, a Firenze persino contro la tramvia, e questo è falso ambientalismo, ma contro gli ecomostri restano in campo solo le grandi associazioni».

Anche i Comuni di centro-sinistra spesso lasciano passare le mega lottizzazioni. Non sarà che tutti ne traggono vantaggio? per esempio con gli oneri di urbanizzazione?

«Non metterei sullo stesso piano destra e sinistra, anche se qualche eccezione c’è. Però è vero che le amministrazioni mettono in cassa gli oneri per le opere di urbanizzazione, e incamerano anche l’Ici sulle seconda case. E quei soldi possono essere preziosi quando lo Stato taglia i fondi agli enti locali».

31 agosto 2006

L’assessore sfida a duello il professore

di Mario Lancisi

Degrado della Toscana: Conti e Asor Rosa sul ring di Caparbio

FIRENZE. Ad Alberto Asor Rosa la telefonata, nella sua casa estiva di Monticchiello, piccolo borgo antico nel comune di Pienza, è arrivata intorno all’ora di pranzo. Dall’altro capo del telefono l’assessore regionale ai trasporti e all’urbanistica Riccardo Conti. Motivo della chiamata? «Ho voluto invitare Asor Rosa a partecipare il 15 settembre a Capalbio ad un confronto sulla buona urbanistica in preparazione del Pit, il piano integrato territoriale», spiega laconico Conti. Asor Rosa, 79 anni, professore emerito della Sapienza, il cui nome è rimbalzato sui giornali come uno dei candidati ad una poltrona di ministro nel governo Prodi, ha accettato l’invito. Conti e Asor Rosa. Un singolare duello di fine estate all’insegna della battaglia contro il degrado della Toscana.

Il là lo ha dato l’intellettuale che dalle colonne del Tirreno ha lanciato l’allarme: la Regione e i Comuni si arrendono al turismo selvaggio, alle colate di cemento, alla costruzione di complessi edilizi che deturpano il paesaggio e ingrassano il portafoglio degli speculatori.

«L’affare» Monticchiello. Asor Rosa questa situazione la conosce bene. A Monticchiello, un borgo medioevale di 200 abitanti, stanno per costruire un grande insediamento di 95 abitazioni, in vendita come seconde case soprattutto per i clienti di Roma. Una scandalosa speculazione edilizia, secondo Asor Rosa. Anche Conti è d’accordo: «Il nuovo insediamento di Monticchiello fa schifo». Ora sul fatto che l’insediamento contestato da Asor Rosa non sia un fiore all’occhiello sono tutti d’accordo. Persino il presidente della provincia di Siena, il diessino Fabio Ceccherini, è stato costretto ad ammettere che l’intervento, pur non essendo un ecomostro, come lo ha definito Asor Rosa, «presenta limiti qualitativi».

Conti: «Ho le mani legate». La differenza di posizione tra Conti e Asor Rosa, così come è emersa anche nel colloquio telefonico di ieri, è sul passato. Che fare di Monticchiello e simili insediamenti sparsi un po’ in tutta la Regione? Conti ha detto ad Asor Rosa di avere le mani legate: i poteri edilizi sono nelle mani dei Comuni e la Regione non può farci nulla. «Però ho anche detto ad Asor Rosa che con la nuova legge urbanistica l’intervento a Monticchiello non si sarebbe potuto realizzare con una semplice variante breve, ma sarebbe stato istruito in maniera più complessa, con il coinvolgimento della Regione».

La Regione può fare di più. Una giustificazione che non sembra aver molto convinto Asor Rosa: «Io penso che la Regione possa fare molto di più. Non so se sul piano legislativo, questo non potrei dirlo. Ma su quello politico non c’è dubbio che una presa di posizione forte della Regione potrebbe creare le condizioni per una convergenza di forze regionali e nazionali per impedire lo scempio di Monticchiello», spiega Asor Rosa.

Il caso in parlamento. La battaglia di Monticchiello approda intanto in parlamento. Ezio Locatelli, deputato di Rifondazione comunista, ha deciso infatti di presentare un’interrogazione ai ministri dei Beni culturali Francesco Rutelli e dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio per sollecitare «un’indagine conoscitiva e atti conseguenti per quanto riguarda alcuni interventi edilizi in Val d’Orcia, in particolare per quanto riguarda il megacomplesso di seconde case che sta sorgendo a Montichiello».

Aspettando Martini. La vicenda ormai è diventata nazionale. Rutelli e Pecoraro Scanio nella loro risposta dovranno sentire la Regione. «Rutelli non potrà dire che si tratta di un insediamento orribile e poi concludere che non si può fare nulla», commenta Asor Rosa. E anche il presidente Claudio Martini, che ha finora scelto la strada del silenzio, è probabile che dovrà prendere posizione.

1° settembre 2006

La Regione vuol vedere gli atti

Edilizia selvaggia, il caso Monticchiello è il detonatore

Il sindaco senese si difende e minimizza, ma la polemica monta, si allarga a tutto il territorio e adesso arriva in Parlamento

FIRENZE. «Ritengo che non siano condivisibili le analisi, i paragoni e soprattutto il metodo usato da Asor Rosa. Trovo la denuncia del professore un passo sbagliato, eccessivo e fuorviante nei suoi esempi paradossali». Replica così il sindaco di Pienza Marco del Ciondolo ad Asor Rosa, che ha definito «ecomostro» il nuovo complesso residenziale in costruzione nel piccolo borgo di Monticchiello, in Val d’Orcia. Secondo il primo cittadino, «l’insediamento abitativo si colloca su un’area di circa due ettari di terreno e le abitazioni, che si inseriscono in maniera coerente e gradevole nel paesaggio circostante, rispettano i criteri imposti: l’utilizzo di materiali locali, pietra e mattoni, e l’altezza massima di 6 metri in gronda».

In realtà non è solo Asor Rosa ad attaccare il complesso residenziale di Monticchiello. L’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti lo ha definito «uno schifo», mentre Rifondazione ha presentato un’interpellanza parlamentare. Inoltre ieri si sono scatenate ulteriori reazioni. «Monticchiello è sotto i riflettori della Regione. Ho già predisposto la richiesta di tutti gli atti amministrativi e autorizzativi al Comune di Pienza perché vogliamo capire se il progetto di 95 unità immobiliari, distribuite in 11 lotti, che sorgeranno a ridosso del piccolo suggestivo borgo di circa 150 abitanti, patrimonio mondiale dell’Unesco, è una di quelle lottizzazioni turistiche di tipo speculativo, da periferia metropolitana per intenderci, per le quali la Regione sta redigendo nuove norme di salvaguardia del territorio collinare toscano», ha dichiarato Erasmo D’Angelis, presidente della commissione territorio e ambiente del Consiglio regionale.

Anche Luciano Ghelli, capogruppo regionale dei Comunisti italiani, ha annunciato la presentazione di un’interrogazione al presidente della giunta Claudio Martini. Mentre il capogruppo di An Maurizio Bianconi ha allargato il tiro a tutta la Toscana: «Stupisce che soltanto come polemica estiva sia esplosa la questione delle edificazioni selvagge in Toscana. Il fatto è antico e non riguarda certo soltanto le coste, perché coinvolge da decenni le amministrazioni locali di sinistra che hanno deturpato la regione per evidenti interessi di cassa a favore dei Comuni, del giro d’affari delle cooperative rosse e del diffuso potere clientelare». ( m.l)

1 settembre 2006

Gli “schifi” non vanno fatti

«Bisogna pur bloccarli, la giunta studi un piano»

di ALBERTO ASOR ROSA

Ho letto con grande interesse l’intervista resa al “Tirreno” (29 agosto) dall’assessore regionale all’Urbanistica Riccardo Conti. Ne traggo occasione per una premessa metodologica, che spero valga una volta per tutte: non mi sono mai mosso, né intendo farlo ora, con spirito di contrapposizione alla Regione Toscana, di cui riconosco lo spirito costruttivo e l’apertura al confronto. Del resto, se siamo ancora qui a discutere seriamente di come l’ambiente toscano possa essere meglio preservato, vuol dire che ne esistono le condizioni, altrimenti sarebbe fiato sprecato.

Ribadisco una convinzione pluridecennale (a cui è legata anche la mia scelta di passare qui e non altrove tanta parte della mia vita): la Toscana rappresenta l’esempio più alto in Italia d’integrazione tra opere dell’uomo e ambiente naturale. È perciò che la sua conservazione, e conseguentemente le forme possibili del suo sviluppo, costituiscono una materia così delicata.

Ma veniamo al punto. Tutto parte da un mio articolo (“Repubblica”, 24 agosto), in cui denunciavo l’edificazione presso Monticchiello di un vero e proprio ecomostro, un complesso edilizio enormemente sovradimensionato (95 appartamenti in 11 lotti!), più grande del paesino cui è addossato, lesivo dell’ambiente e del paesaggio, tipologicamente più simile ad una periferia urbana che ai famosi casali toscani, distruttivo dal punto di vista antropologico (gli abitanti potenziali più del doppio di quelli attualmente residenti nel borgo medievale), autolesionistico dal punto di vista economico (ovviamente, infatti, in rotta di collisione con l’attività predominante sul territorio, l’agriturismo).

L’assessore Conti non sembrerebbe lontano dal senso della mia valutazione. In due punti della sua intervista, infatti, egli usa la seguente espressione: «l’insediamento di Monticchiello è uno schifo», «fa schifo». È un’espressione incredibilmente forte, che non lascia adito a equivoci. Subito dopo, però, Conti passa a ribadire l’impossibilità di qualsiasi intervento nel caso in questione da parte della Regione e a delineare un quadro di «attenzioni» legislative, con cui far fronte in futuro all’eventuale ripetersi di consimili «schifi».

Qui c’è secondo me un salto logico, su cui vorrei soffermarmi, rimandando ad altro momento l’analisi delle interessanti intenzioni progettuali della Regione in materia di urbanistica. Dunque, a Monticchiello (ma potrebbe essere un qualsiasi altro luogo) si sta costruendo un «ecomostro» (Asor Rosa), ovvero uno «schifo» (Conti), e non si può far nulla per impedirlo? Dunque, in Toscana (in Italia) si costruiscono «ecomostri», si costruiscono «schifi», perché le «autorizzazioni» e le concessioni sarebbero, come si dice, tutte a posto? Dunque, in Toscana esistono gli «ecomostri», gli «schifi» autorizzati? Naturalmente, sul piano storico non sarebbe indifferente capire come da una buona intenzione iniziale si sia arrivati a concepire e a rendere realizzabile un «ecomostro», uno «schifo»; e neanche sarebbe fuori luogo verificare se il progetto in via di realizzazione sia in tutto e per tutto corrispondente a quello inizialmente approvato.

Ma sul piano pratico e fattuale io propongo alla Regione Toscana di studiare, per così dire all’incontrario, come si possa rendere non realizzabile un «ecomostro», uno «schifo», apparentemente dotato di tutte le autorizzazioni ad essere realizzato. È difficile farlo? Facciamo un esempio estremo. Se su un lembo del territorio toscano s’abbatte una catastrofe atmosferica e tellurica, Stato e Regione intervengono in misura straordinaria con aiuti, misure, sovvenzioni. Ci spendono, insomma, impegno e soldi. Che differenza passa fra una catastrofe atmosferica o tellurica e una catastrofe ambientale? (questa seconda, se mai, è più grave delle prime, perché duratura).

Propongo che sia presa in considerazione una misura che si potrebbe definire «rientro dall’errore» (oppure, in altri casi, come, se non ho capito male, quello di Fiesole, «premio alla virtù»). Poiché non ha senso che si progetti sensatamente il futuro, lasciandosi dietro una scia così fitta di «errori autorizzati» e di «magagne malcelate» (anche limitandomi al Comune di Pienza e alla Val d’Orcia, avrei potuto allargare il catalogo ben oltre lo scempio di Monticchiello, se avessi voluto procedere in maniera globalmente accusatoria). Sarei lieto se questa scommessa fosse assunta come una proposta positiva da parte della Regione Toscana.

1° settembre 2006

La lettera. L’assessore Conti spiega gli obbiettivi

Confronto, non duello Serve un nuovo patto

di Riccardo Conti

Caro Direttore, dopo aver letto sul Tirreno l’articolo titolato «L’assessore sfida a duello il professore» non ho potuto fare a meno di scriverti. È vero, come si evince dal titolo che mi pare tradisca anche il senso di un articolo molto corretto, il professor Alberto Asor Rosa è stato invitato personalmente da me per telefono a partecipare al prossimo convegno «La buona urbanistica» che si svolgerà il 15 settembre a Capalbio, al di là dei casi particolari come Monticchiello, in nome della sua nota capacità critica e delle sue analisi che non possono che essere preziose.

L’incontro di Capalbio è il secondo nell’ambito di un ciclo di cinque appuntamenti organizzati in vista dell’approvazione del Pit, il Piano di indirizzo territoriale, strumento cardine per il governo del territorio toscano, sul quale stiamo lavorando da tempo e che tra i suoi principali obiettivi strategici ha proprio quello della conservazione attiva del patrimonio territoriale.

Non a caso il primo incontro del ciclo, svoltosi lo scorso 25 luglio a Montaione, ruotava sulle questione della tutela, puntando il dito contro l’aggressione delle colline dove la rendita immobiliare per troppo tempo ha ritenuto di poter tradurre in utile immediato la perdita di valori irrinunciabili, parte di un territorio che invece è e rappresenta una grande risorsa. Per questo il Pit funzionerà come un grande patto tra le amministrazioni locali alle quali la Regione Toscana fornirà tutte le risorse normative necessarie e possibili sulla base di impostazioni che funzionino a filiera e non in via gerarchica.

Il patto presuppone cooperazione e coerenza reciproca. È un’alleanza per costruire migliore sostenibilità e crescita nell’ambito di una programmazione che vedrà protagonisti comuni e province, in una logica di coerenza sia con le politiche territoriali sia con le strategie di sviluppo.

Questa lunga premessa per dire che l’invito al professor Asor Rosa è tutto fuorché un duello. Anzi, sono felicissimo che un intellettuale del suo calibro possa darci una mano a costruire e dare gambe a questa politica nell’ambito di un dialogo proficuo e attivo, aperto a lui come a tutti gli intellettuali, ai professionisti, alle associazioni che vorranno dare un contributo. La parola giusta non è dunque «duello». E’ un dialogo utile e fecondo, come quello per il quale ringrazio il professor Asor Rosa di aver dato la propria disponibilità a partecipare.

1° settembre 2006

La pineta assediata dal cemento

A Marina di Castagneto 417 case. Ma per l’acqua potabile sarà dura

di Andrea Rocchi

Il sindaco Fabio Tinti si difende: scelta dolorosa, ma questa sarà l’ultima megalottizzazione

CASTAGNETO CARDUCCI. A meno di un chilometro svetta il Tombolo, resort di lusso appetito dai vip e la spiaggia dove due estati fa Harrison Ford e compagna in brachette prendevano la tintarella prima di una cena di pesce alla Tana del Pirata. Più a sud l’ex Cantiere Navale, realizzato nel ’46 da Gaddo della Gherardesca per fabbricare canoe olimpioniche e riconvertito dall’intraprendente nipote in villaggio turistico incastrato in 25 ettari di pineta marittima mozzafiato. Nel mezzo il Cavallino Matto, il parco giochi dove l’imprenditore Riccardo Manfredini ha investtito un milione e 300mila euro per farne un parco dei divertimenti tra i più grandi d’Italia.

Siamo a Marina di Donoratico, tra la Torinella e il torrente Seggio: oltre 120mila metri quadrati di terreni su cui presto, salvo improbabili marce indietro, si costruiranno 417 alloggi tra i 40 e i 60 mq ciascuno. Sono le tre lottizzazioni Olmaia, Stella 1 e Stella 2 al centro, da mesi, di una feroce polemica che fa tremare palazzo civico.

«Uno stuolo inutile e dannoso di seconde case», grida Legambiente, che punta il dito sui contraccolpi di questa colata di cemento sul territorio. Dai problemi di viabilità e di incremento di rifiuti, al collasso del depuratore di Castagneto, tarato per sopportare gli scarichi di 50mila persone (e già a rischio nei picchi d’estate) e non il peso di nuovi residenti. Ma Legambiente lancia anche l’allarme acqua: «Le falde sono al limite, nuovi prelievi incrementeranno l’inquinamento». Qui, del resto, l’Asa - l’ex municipalizzata dell’acqua di Livorno - fatica a trovare nuovi pozzi e gli attuali sono seriamente minacciati dai nitrati che filtrano nelle falde per il pesante utilizzo di fertilizzanti agricoli. Recentemente, poi, anche un pozzo privato alle Ferruggini, vicino al celebre viale dei cipressi di Bolgheri, è stato chiuso per contaminazione da cromo esavalente. Senza dimenticare la legge Sarno che ha dichiarato il fosso dei Mulini a rischio esondazione.

Eppure i piani di lottizzazione, dopo un travagliato iter, sono stati approvati. Il sindaco Fabio Tinti, che ha ereditato la patata bollente dalle passate amministrazioni (gli insediamenti abitativi sono già previsti nel vecchio Prg degli anni ’70), si difende: «Sono già stati ridotti gli indici di edificazione», ha risposto Tinti a chi lo accusava. Quanto ai problemi idraulici spiega: «I lottizzanti dovranno mettere in sicurezza il Fosso dei Mulini», che scorre vicino alle nuove edificazioni. Ci vogliono 450mila euro e c’è già un progetto. Quanto agli alloggi «c’è l’impegno di metterne a disposizione alcuni per l’emergenza abitativa», conclude Tinti. Ma gli ambientalisti ribattono: «Gli oneri di urbanizzazione non basteranno a sistemare tutto».

In consiglio provinciale, su questa operazione, c’è stata vera bagarre: Rifondazione contro i Ds e il capogruppo di An Benito Gragnoli che ha minacciato un esposto in Procura. Ora, anche all’interno del centrosinistra, si percepiscono i primi mugugni ed il modello Castagneto, basato sull’equazione turismo-ambiente, comincia a scricchiolare. Sdoganato dal complesso dei «comuni ombra» grazie anche alle produzioni vitivinicole di qualità riassunte dai grandi rossi come il Sassicaia e l’Ornellaia, balzato agli onori delle cronache mondane alla fine degli anni ’90 per l’amicizia tra il conte Gaddo Della Gherardesca e Sarah Ferguson, duchessa di York, Castagneto oggi vive di agricoltura e turismo. Dopo il boom di presenze del 2000 (657.594 turisti), la flessione del 2003 (597mila), oggi il trend è in ripresa. Con 8.226 residenti, il comune ha una densità abitativa di 57,7 abitanti per km quadrato (superiore alla confinante Bibbona, di 46,5), ma vuole crescere ancora. Olmaia e Stella erano state pensate per questo.

Oggi lo stesso Tinti, a chi gli chiede se c’era proprio bisogno di 400 seconde case, ammette: «Una scelta dolorosa, indubbiamente, ma che abbiamo governato e rivisto rispetto alle previsioni iniziali». Ma sarà l’ultima megalottizzazione, assicura. Poi lo stop alle seconde case, sperando che non sia troppo tardi.

1° settembre 2006

Ma poi diventò verticale...

Castiglione, ecomostro story. Con un mistero

Mario Lancisi

Il progetto cambiò e diventò ancor più invasivo. Ora tutto fermo per anni, e rischio abbattimento

CASTIGLIONE DELLA PESCAIA. Sulla collina di Santa Maria, che domina Castiglione della Pescaia, dei 250 appartamenti del cosidetto «ecomostro» 170 sono in gran parte pronti per essere abitati. Questione di piccoli dettagli, interventi di poco conto.

Ma la controversia tra i costruttori e l’amministrazione comunale di centrodestra, capeggiata dal sindaco Monica Faenzi, 41 anni, Forza Italia, ha congelato tutto, da ormai tre anni. E la vicenda rischia di trascinarsi ancora a lungo, tra carte bollate e ricorsi.

Se ti abbatto l’ecomostro. I costruttori - 7 società di Arezzo e Grosseto, la cooperativa La Fenice e alcuni privati - sono ricorsi al Tar contro la decisione del sindaco Faenzi di non rinnovare loro la concessione edilizia. Il Tar ha respinto i ricorsi, e ora è presumibile che la controversia approdi al Consiglio di Stato. Dunque tempi lunghi, esito incerto. Tre gli scenari possibili per l’ecomostro di Santa Maria, come spiega Daniele Falagiani, l’avvocato della Faenzi: la rimozione dei vizi di forma delle licenze contestate, la sanzione amministrativa pari al valore di mercato degli immobili (se uno vale 200 milioni il costruttore deve pagare l’intera cifra) e - soluzione traumatica - l’abbattimento dei 270 appartamenti.

Clienti senza casa. Scenari drammatici, gli ultimi due. Per i costruttori, certo. Soprattutto però per chi ha sborsato fior di quattrini per acquistare appartamenti a prezzi intorno ai 9 milioni di vecchie lire al metro quadrato. Clienti i più diversi. Chi ha acquistato per avere una seconda casa in riva al mare, ma c’è anche chi ha sborsato i soldi per averne una di casa, la prima. Gente che freme: vorrebbe avere le chiavi in mano, ma rischia di aspettare ancora molti anni. E soprattutto di vedersi abbattere una casa pagata cara. Con chi se la deve prendere il signor Rossi che ha acquistato un appartamento che non può usufruire e che addirittura potrebbe essere buttato giù? E a chi addossare le responsabilità di quello che tutti definiscono uno scempio, una ferita per il paesaggio di Castiglione della Pescaia.

Di chi la colpa? «Io no...»Il cerino delle responsabilità - almeno a livello amministrativo - gira di mano in mano. Come tutte le vicende iniziate alcuni decenni fa. E rotola tra sigle, nomi tecnici, cavilli, delibere, licenze, ricorsi, piani, contropiani. Il Tirreno ha provato a mettere qualche punto fermo, interpellando tre sindaci protagonisti della lunga storia. Il primo è Giancarlo Farnetani, 54 anni, primo cittadino di Castiglione dal 1977 al 1990, oggi assessore provinciale allo sport e al territorio. Racconta che sotto la sua amministrazione Castiglione ha finalmente avuto il piano regolatore e che all’origine le lottizzazioni dello scandalo erano villette a schiera a due piani.

Il commissario nel mirino. E’ dopo che si è passati - secondo Farnetani - da una tipologia di costruzioni in orizzontale ad una in verticale. Per capirci: se all’inizio era previsto che un immobile avesse due piani, in seguito si è permesso che ne avessero diversi, assumendo così un profilo in verticale che «ferisce» il paesaggio. Già, ma chi ha permesso tutto questo? Qui nasce il giallo delle responsabilità. Dopo Farnetani c’è stato il sindaco Massimo Emiliani, marito della Faenzi. Che difende il coniuge: «Per carità, il complesso era brutto dall’inizio, ma non illegittimo. Con Massimo ho litigato spesso per questo. Lui però non ha colpe». Emiliani è durato due anni. Poi è venuto il commissario prefettizio Mario Sodano. E su di lui si appuntano le critiche di Farnetani e dei Ds: «Ha modificato alcune norme tecniche di attuazione non contemplando alcune cubature come i garage e le scale. Così le cubature sono aumentate».

«Tutta colpa della sinistra». Un’interpretazione che non convince la Faenzi. La quale incolpa la sinistra. E in particolare la giunta presieduta dal sindaco diessino Franco Roggiolani, 63 anni, che è stato in carica dal 1996 al 2001. Due i capi di imputazione. «Sono state modificate le norme tecniche senza il rispetto delle procedure e soprattutto il piano di lottizzazione è passato da una tipologia orizzontale ad una verticale», spiegano la Faenzi e il suo avvocato.

Ma Roggiolani replica: «Mi sono trovato in mano un atto finito, non ho introdotto modifiche sostanziali». Poi ammette che «forse ci voleva più attenzione». E intanto i 270 appartamenti sono fermi, in attesa di un destino ancora indecifrabile, mentre i soldi sono già

La domanda è: un ecomostro è meglio distruggerlo dopo che è stato realizzato o impedirne la realizzazione? La risposta non sembra dubbia (ma ogni giorno la drammatica alternativa si pone qua e là per l´Italia). Mi sono posto la domanda - e ho riflettuto sulla risposta - osservando nei giorni scorsi la nascita di un insediamento immobiliare a fini speculativi alle pendici del colle di Monticchiello.

Monticchiello? Sì, avete capito bene: Monticchiello, il bellissimo borgo medievale alle porte di Pienza, sede del celebre Teatro povero, una delle porte d´ingresso più prestigiose della Val d´Orcia. «Alle pendici del colle» vuol dire a non più di duecento metri in linea d´aria dalla storica cinta muraria dentro la quale Monticchiello da secoli vive.

Pare a me che la definizione «ecomostro» non sia esagerata a connotare i caratteri di tale insediamento per i seguenti motivi: A) Per le sue spropositate dimensioni: trattasi infatti di 95 (novantacinque!) unità immobiliari, distribuite a raggiera in ben 11 (undici) lotti. Poco più, o poco meno, della cubatura raggiunta dall´intero abitato del borgo di Monticchiello nel corso della sua secolare storia. Al paragone, l´ecomostro di Punta Perotti presentava, rispetto alla città di Bari, cui era limitrofo, proporzioni più ragionevoli; B) Per il mutamento antropologico che ne deriverebbe all´intero territorio circostante. Se le 95 unità immobiliari fossero abitate ciascuna a regime da 3-4 persone, se ne ricaverebbe una cifra complessiva oscillante fra le 285 e le 380 unità: considerando che il borgo di Monticchiello ne conta attualmente non più di 150, sarebbe come se a qualcuno venisse in mente di costruire un insediamento turistico di 6 milioni di abitanti a ridosso della cinta delle Mura Aureliane a Roma. Se invece restasse sostanzialmente deserto, come potrebbe accadere in certi periodi dell´anno, sarebbe come avere un deserto di cemento alle porte dell´abitato; C) Per il totale stravolgimento del profilo collinare che, dalla strada provinciale sottostante, sale appunto fino alla porta di Monticchiello: infatti, oltre a subire l´effetto devastante in sé di tutta quella massa edilizia, questa, per renderla più appetibile, viene astutamente innalzata su di un trincerone di dieci metri di terra di riporto, una piattaforma gigantesca che risulterà da questo momento in poi l´aspetto predominante del paesaggio; D) Per la tipologia architettonica utilizzata, a fini, ovviamente, il più possibile speculativi. Novantacinque unità immobiliari in undici lotti significano una media superiore alle otto unità per ciascun lotto. Nulla, dunque, che abbia a che fare con la tipologia toscana dei «casali» (come invece recita la pubblicità) e neanche con quella di più modeste villette monofamiliari, bensì piuttosto con dei casermoni condominiali, più confacenti a qualche periferia metropolitana che alle dolci colline valdorciane.

A questi dati di fatto, aggiungerei qualche (singolare) elemento d´informazione, perché ci si renda meglio conto delle dimensioni e dello spirito del progetto.

Da alcuni mesi a questa parte, su alcuni importanti quotidiani romani (per quanto mi consta, ma ovviamente ce ne potrebbe essere anche altrove), compare una pubblicità dell´impresa a colori e a tutta pagina (di dimensioni, dunque, anch´esse spropositate), in cui, per magnificare l´affaire, si fa riferimento a caratteri cubitali al «Parco Artistico Naturale e Culturale della Val d´Orcia» e al «Patrimonio mondiale dell´Unesco» (tali, infatti, sono stati proclamati anni fa Pienza e la Val d´Orcia): cioè, si chiamano in causa, a fini promozionali, esattamente i due motivi per cui l´affaire andrebbe proibito. Ora, lasciamo stare il Parco della Val d´Orcia, cui non si può attribuire oggi un valore più che di simulacro; ma la qualifica di «Patrimonio mondiale dell´Unesco» è una cosa seria, che qualche volta viene, ma talvolta anche se ne va, come dimostra l´esperienza, a seconda di come si comportano i soggetti che ne sono insigniti. E quindi bisognerebbe fare attenzione ad agitare impropriamente un titolo che proprio per quel motivo ti potrebbe esser tolto.

Pare a me che, a parte l´Unesco che, tirato in causa, non può fare a meno di dire la sua, il caso superi le dimensioni locali e investa responsabilità più generali. La Regione Toscana, ad esempio (del resto, dichiaratasi sempre contraria all´insediamento, ma forse ignara ora della piega ancor più brutta che le cose via via hanno preso). Ma anche, e forse soprattutto, il Ministero dei Beni Culturali e quello dell´Ambiente, i cui attuali titolari, Francesco Rutelli e Alfonso Pecoraro Scanio, sono notoriamente due tipi attenti e tosti e hanno a disposizione fior di strumenti per intervenire. Anche dalla reattività a questo genere di problemi si misura il cambiamento

FIRENZE. Martini batte i pugni sul tavolo: sull’urbanistica niente ritorni al centralismo della Regione e dello Stato. «Se lo spirito critico vuole aiutare i Comuni a fare il loro mestiere siamo d’accordo», non così invece «se le critiche intendono emarginare i Comuni e avocare la tutela a livello ministeriale», ha dichiarato il presidente della giunta regionale Claudio Martini, partecipando ieri a Lucignano, un piccolo Comune aretino, al convegno organizzato in occasione della «Giornata del Touring», promossa in 24 famose piazze italiane.

Difesa dei piccoli Comuni. Martini ha difeso a spada tratta il ruolo dei Comuni, piccoli e grandi: «La tutela del paesaggio e dell’ambiente della Toscana deve molto ai Comuni, soprattutto ai piccoli Comuni», ha osservato il governatore riferendosi alle discussioni che si sono svolte negli ultimi mesi sugli ecomostri presenti nel territorio toscano. Una discussione che ha diviso la maggioranza regionale.

«La Regione come Pilato». La Margherita toscana ha presentato una proposta di legge in cui chiede che sull’urbanistica si torni al passato: più poteri alla Regione e meno ai Comuni. «Dal tempo delle vicende elbane sosteniamo che la Regione non possa fare come Ponzio Pilato. Serve, e in tempi brevi, una più efficace politica di controllo delle operazioni urbanistiche e una minore autonomia ai Comuni. Quelli piccoli, per esempio, spesso non hanno strutture adeguate per affrontare la questione», ha sostenuto il capogruppo della Margherita Alberto Monaci.

Poteri alla Regione. E il presidente della commissione territorio del consiglio Erasmo D’Angelis non solo si è recato in visita a Monticchiello per verificare il da farsi riguardo al complesso edilizio denunciato dallo scrittore Alberto Asor Rosa (mentre l’assessore regionale Riccardo Conti ha sempre dichiarato che la Regione non poteva fare nulla per modificare quello che ha definito «uno schifo») ma ha anche aggiunto: «Occorre che ogni singola iniziativa in campo urbanistico di un certo rilievo venga accompagnata da una valutazione anche regionale che ne verifichi gli effetti».

Ds e Margherita divisi. Dunque Ds e Margherita sulla vicenda degli ecomostri si sono mossi su linee contrapposte. La Margherita ha detto in sintesi che l’ultima parola deve spettare alla Regione mentre i Ds difendono l’autonomia dei Comuni e ricordano che quando i piani urbanistici venivano approvati in sede regionale errori e scempi erano di gran lunga superiori ad oggi. Per cui nessun ritorno al passato. Il potere dei Comuni non si tocca. «I Comuni vanno aiutati con politiche finanziarie e anche con un sistema di collaborazioni tra Regione, Province, Comuni e anche lo Stato». Giù le mani dai piccoli Comuni, ha tuonato Martini: «Non ha senso rifarsela con loro anche perché spesso sono soggetti a pressioni molto forti alle quali fanno fatica a reagire perché non hanno nemmeno i mezzi finanziari e tecnici».

La proposta di Martini. Però dopo Monticchiello e gli altri ecomostri toscani non è neanche più possibile far finta di nulla. E allora Martini ha approfittato del convegno di Lucignano per lanciare la proposta di «una nuova alleanza Regione e Comuni, per fare ulteriori passi avanti e confermare la Toscana come regione leader in Italia del paesaggio e della tutela ambientale». Martini dice no ad una nuova sorta di guerra delle competenze tra Regione e Comuni. Nel Pit - il piano integrato del territorio - che dovrà essere approvato a fine anno, Regione e Comuni dovranno essere alleati, non avversari, ha concluso Martini.

Postilla

Non si riesce a comprendere perché si debba scatenare “una guerra di competenze tra Regione e Comuni”. Si tratta semplicemente di applicare le leggi. Come quella che prevede che la Regione abbia, insieme allo Stato, la responsabilità di tutelare il paesaggio mediante determinati strumenti di pianificazione. Questi non possono essere compendi di analisi o raccolte di esortazioni o antologie di racconti, ma devono definire individuare e regolare precisamente ciò che il Codice dei beni culturali e del paesaggio dispone. E devono farlo loro, le Regioni, non possono delegare né alle province né ai comuni: come ha ribadito recentissimamente la Corte costituzionale.

Invochiamo il “centralismo regionale”? No, non siamo più aficionados del Governatore Bassolino. Ci limitiamo a rivendicare l’equilibrato esercizio dei differenti livelli di governo, prescritto dai padri della Costituzione.

Sullo stesso argomento, da

Molto peggio. Vogliamo riflettere su questo? Altrimenti la vasta campagna d’opinione pubblica sollevata, giustamente, a proposito dello “schifo” di Monticchiello avrà servito a ben poco.

Vittorio Emiliani, su eddyburg, ha ricordato che “il paesaggio non è del Comune”, e ha rimproverato la Regione Toscana di aver attribuito troppo potere ai comuni, affidando loro qualcosa (il paesaggio) di cui la Costituzione attribuisce la tutela allo Stato. Ha ragione. Esiste, ed è centrale nel governo del territorio, la comunità locale. Ma non è l’unica. Ciascuno di noi appartiene a cerchie via via più vaste di comunità: esiste il comune dove sono nato o dove abito e lavoro, e poi esiste la provincia (il “contado”, diceva Cattaneo), la regione, la nazione, l’Europa… Ciascuna di queste comunità è titolare del bene paesaggio, il quale non può essere privatizzato, gestito e goduto in esclusiva, da nessun individuo e da nessuna comunità che ne escluda le altre.

Certo, la comunità più vicina, che del paesaggio è anche autrice, ha maggiori responsabilità. Ma non è l’unica responsabile. E se opera male, se non tutela ciò che a lei spetterebbe tutelare, altre hanno il dovere di intervenire. Le leggi hanno il compito di regolare i modi in cui le responsabilità devono equilibrarsi: senza esclusività per nessuno dei livelli di comunità cui la nostra costituzione attribuisce sovranità popolare. Pessima è una legge che attribuisce troppo potere a uno dei livelli, cancellando la responsabilità degli altri. E in Italia abbiano esempi di leggi pessime sia in una direzione sia nell’altra.

Che fare per cogliere la sollecitazione emersa a partire dallo “schifo” di Monticchiello? Cerchiamo di capire le ragioni per cui quello schifo, e altri cento in Toscana, e altri mille e diecimila altrove in Italia, sono nati. Studiamo le leggi che dovrebbero impedire che quegli schifi avvengano, se è necessario cambiamole. Se invece sono buone e non vengono fatte funzionare (come il Codice dei beni culturali e del paesaggio) facciamole rispettare: alle regioni, e agli organi dello Stato.

In nome di un boom demografico virtuale molti Comuni hanno autorizzato la costruzione di case. - Nella regione "rossa" scoppia la polemica tra ecologisti e Ds. "Qui i sindaci sono come i topi nel formaggio"

PIENZA - Dall’antico balcone della passeggiata panoramica che costeggia il borgo medievale di Pienza, la "città a misura d’uomo" commissionata da papa Pio II all’architetto Rossellino a metà del Quattrocento, lo sguardo spazia incantato sulle "crete" della Val d’Orcia: a sinistra Monticchiello, pietra dello scandalo per l’ecomostro delle novanta villette a schiera in costruzione; di fronte, all’orizzonte, la rocca di Radicofani celebrata dalle angherie di Ghino di Tacco; poi il profilo imponente del monte Amiata e infine sulla destra la sagoma merlata di Montalcino. Siamo nel cuore della "Toscana felix" o forse bisognerebbe dire "infelix", tanti sono i casi di assalto al territorio e all’ambiente che stanno insidiando l’intera regione. Da qui, parte il nostro giro ecoturistico fra speculazioni, lottizzazioni, licenze sospette, piccoli o grandi abusi edilizi, sullo sfondo di un paesaggio unico al mondo, irriproducibile, tessuto nei secoli di bellezze naturali, storia e tradizione.

Il clamore suscitato dalla denuncia del professor Alberto Asor Rosa su Monticchiello, proprio dalle colonne del nostro giornale, risuona in tutta la valle e si propaga in quelle limitrofe per arrivare fino alle colline intorno a Firenze. Basta montare in macchina e macinare un po’ di chilometri, attraversando la Valdichiana e la Val Tiberina, per fare a vista un inventario dei guasti prodotti o comunque minacciati dalla cementificazione. È un’emergenza ambientale che rischia di danneggiare non solo il paesaggio, ma di riflesso anche il turismo (da cui la Toscana trae più di un terzo del suo Prodotto interno lordo) e perfino la produzione agricola.

In nome di un boom demografico virtuale, previsto nei piani di costruzione e smentito però dai trend statistici, molti Comuni hanno autorizzato o intendono autorizzare la costruzione di case e casette, ville e villette, destinate in realtà a un mercato potenziale di seconde o terze case, resort, spa e centri benessere: con il risultato di far lievitare i prezzi danneggiando così l’attività alberghiera e in particolare l’agriturismo che, con le sue 3.527 aziende censite e 160 milioni di euro di fatturato all’anno, ha rivitalizzato la campagna. All’origine di questa spirale, c’è una legge regionale (la n. 5 del ‘95) che, in nome delle autonomie locali, aveva abrogato il centralismo delegando di fatto ai sindaci e alle loro giunte la potestà di amministrare il territorio. E anche se dieci anni dopo la successiva legge n. 1 del 2005 ha riequilibrato - almeno sulla carta - a favore della Regione i poteri in materia urbanistica, a oggi non sono stati ancora approvati tutti i regolamenti applicativi per metterla in pratica.

In una tradizionale roccaforte "rossa" come la Toscana, dove la sinistra arriva al 60% e oltre fin dai tempi del vecchio Pci, la "questione ambientale" alimenta anche una crescente polemica politica fra gli ambientalisti e i Ds. «I sindaci - attacca Fabio Roggiolani, combattivo leader dei Verdi toscani, presidente della commissione regionale Sanità ed ex presidente della commissione Agricoltura - sono come i topi nel formaggio. Qui si mangiano non soltanto il territorio, ma anche la speranza di un’alternativa politica e la stessa tenuta della coalizione. Se continua così, non ci sarà più spazio per una collaborazione né alla Regione né a livello nazionale». E in diversi casi, già si registrano ribaltamenti di maggioranze, rotture e alleanze trasversali.

Replica Riccardo Conti, diessino, assessore regionale al Territorio e alle Infrastrutture: «La legge del ‘95 non ha tutte le colpe che le vengono attribuite. In realtà, era stata quella precedente del ‘90 a sovradimensionare i piani, ipotizzando che la popolazione toscana da meno di quattro milioni di abitanti arrivasse fino a otto milioni. Poi, cinque anni dopo, l’incremento è stato ridotto al 15% con una previsione di 5-5,5 milioni di abitanti. Ora, comunque, l’ultima legge ha stretto le maglie e i singoli Comuni sono tenuti a raccogliere i pareri e le osservazioni di tutti gli enti interessati: in caso di dissenso, decide una commissione di garanzia, composta da tre rappresentanti della Regione, tre dei Comuni e tre delle Province». Ma, al di là dell’ambito strettamente politico, l’allarme è diffuso in tutto il fronte delle associazioni ambientaliste: dal Fai a Italia Nostra, dal Wwf a Legambiente.

Da Pienza, risalendo verso la Valdichiana, c’è un progetto di resort a San Giovanni d’Asso in località Pavicchia, sul terreno di un’ ex fabbrica di laterizi abbandonata ormai da vent’anni. In origine, erano 50 mila metri cubi e il Municipio ne ha autorizzati 19.250, più altri 9.000 interrati. Ma quello che preoccupa maggiormente il Fai è che lo studio sugli effetti ambientali, dall’assetto idrogeologico all’impianto di depurazione, è stato realizzato privatamente dal gruppo investitore e, a quanto pare, accettato dagli uffici comunali senza verificarne direttamente l’attendibilità. Sulla superstrada Siena-Bettolle, una lunga teoria di capannoni industriali modello finto-artigianale continua a rubare spazio e produttività a un terreno di grande valore agronomico. Passiamo da Rigomagno, un altro borgo da salvare, accerchiato dalle costruzioni Pep, il piano di edilizia popolare, che spesso e volentieri diventano seconde case a uso e consumo dei forestieri. Davanti a Lucignano, è già sorto intanto un villaggio multicolore in stile marinaro che ricorda più le quinte artificiali di Porto Rotondo o Porto Cervo che i tetti, le tegole e i camini delle case coloniche toscane.

A Rigutino, in provincia di Arezzo, nel cuore di un parco naturale è in cantiere una residenza privata per anziani, con 50 mila metri cubi e contorno di ville e villette. A fianco dei Verdi e degli ambientalisti, è sceso in campo anche un Comitato civico per la salvaguardia della Valdichiana. Nel capoluogo della provincia, intanto, un esponente della Margherita, Beppe Fanfani, il "nipotissimo" dell’indimenticabile Amintore, ha sostituito da poco un sindaco di centrodestra finito sotto processo per una "variantopoli" che ha stravolto il territorio, insieme a tre consiglieri comunali arrestati. E in seguito a questa vicenda, s’è dovuto dimettere - ufficialmente per "motivi di lavoro" - anche l’ex vice-presidente della Provincia, Antonio Boncompagni (Margherita), colpito da un evidente conflitto di interessi in quanto amministratore di un’azienda specializzata in lavori pubblici.

Attraversando i campi di tabacco della Val Tiberina, arriviamo a San Sepolcro, il borgo dove visse il celebre pittore Piero della Francesca. Qui è stato necessario un altro braccio di ferro tra i Verdi e i Ds per bloccare un piano regolatore che in un paese di 15 mila abitanti prevedeva la costruzione di un milione e mezzo di metri cubi, per metà destinati ad aggiungere nuovi capannoni a quelli già fabbricati e rimasti in buona parte vuoti. Tanto che alle ultime amministrative è stato necessario prospettare la candidatura poi ritirata di un outsider come Valentino Mercati, imprenditore del nuovo "capitalismo naturale" e proprietario di "Aboca", l’azienda leader nella produzione di erbe medicinali, per arrivare finalmente a un compromesso limitando l’intervento a 20 ettari e a mezzo milione di metri cubi.

Il nostro eco-tour nella "Toscana (in)felix" termina sulle colline che circondano Firenze, alle porte del Chianti. A Bagno a Ripoli, dove i Verdi alle elezioni si sono presentati addirittura da soli, sono in corso i lavori per un’altra "villettopoli" in forza di un assurdo artificio burocratico-amministrativo: per aggirare il piano strutturale, formulato in base al numero di stanze da costruire, s’è stabilito che la stanza media era di 36 metri quadri (successivamente ridotti a 27) e così in pratica è stata raddoppiata la superficie edificabile. Ma episodi analoghi si segnalano in tutta la cintura intorno al capoluogo, fino a Fiesole e all’Impruneta, nonostante l’opposizione dei vari comitati civici che nascono come i funghi. «Qui - conclude allarmata Beatrice Sensi, già candidata sindaco dei Verdi - in realtà non c’è alcun bisogno di costruire: la popolazione decresce o al massimo rimane stabile. È solo la speculazione che sta divorando le colline fiorentine. Dal bisogno abitativo si passa al desiderio abitativo, con un consumo del territorio che alla fine danneggerà tutti: l’ambiente, il paesaggio, la salute dei cittadini, il turismo e l’agricoltura».

La lottizzazione, oggettivamente orrenda, di Monticchiello di Pienza ha avuto il merito di sollevare alcune questioni sin qui note a pochi:

a) il caso non è affatto isolato, neppure in Toscana, un tempo Felix, ma ve n'è una costellazione di brutture che sono soprattutto case di vacanze temporanee. Per paradosso, l'edilizia che servirebbe, economica e popolare, è ridotta in Italia al 4 per cento contro il 25 delle medie europee, così gli immigrati e i nuovi poveri finiscono in bocca alla speculazione più nera, con tutto quel che segue;

b) l'articolo 9 della Costituzione ("la Repubblica tutela il paesaggio della Nazione") è stato ripetutamente sforacchiato, in Toscana e in tutta Italia. Soprattutto con leggi regionali si è elevato il Comune a rappresentare tutta la Repubblica nel ruolo di tutore di se stesso e del suo territorio;

c) ciò ha sviluppato negli amministratori e, in parte, negli abitanti un'idea radicalmente sbagliata: pensano cioè che quel territorio e quel paesaggio - anche se patrimonio mondiale Unesco - sia "il loro" e non dell'umanità, quella vivente e quella a venire, e che quindi ci possano fare quello che vogliono ;

d) le Soprintendenze, anche perchè indebolite nei mezzi, sono state spesso molto accomodanti, soprattutto dopo che il Codice Urbani per i Beni culturali ne ha, in modo disastroso, ridotte le funzioni e il potere di veto, di bocciatura.

In conclusione, non abbiamo più "la Repubblica" intera a presidiare e a tutelare il paesaggio della Nazione tutta, cioè lo Stato assieme a Regioni, Province e Comuni (come vollero i costituenti, secondo un ordine del giorno di Emilio Lussu). Abbiamo il solo Comune, controllore di se stesso, con un potere decisamente indebolito dell'organismo tecnico-scientifico delle Soprintendenze. Profondamente sbagliato. A dire il vero, il ministro Buttiglione ha in parte corretto il codice del suo predecessore Urbani, restituendo poteri agli organi ministeriali, ma le Regioni insistono nel tenersi, di fatto, fuori e nel sub-delegare i Comuni con discorsi di una demagogia populistica davvero disarmanti. Se l'Italia è sempre più devastata dal cemento, legale e abusivo, la colpa è di tutti, ma principalmente degli enti più decentrati, più vicini ai problemi del territorio, anche più facili ad essere ricattati dai poteri forti locali, cioè dei Comuni. Da soli non ce la faranno mai a contrastare il fenomeno, oggi di nuovo dirompente, di una edilizia quasi tutta di seconde e terze case nelle zone turistiche più appetite. Ho notizie disperanti dalla Romagna collinare e dai Colli Euganei. Capalbio è sotto gli occhi di tutti, un disastro urbanistico, e ci sono voci inquietanti sulla stessa zona a mare un tempo intangibile. Comincia a mancare seriamente l'acqua.

I Comuni, anzi - l'ha detto, mi pare, lo stesso presidente Martini - da questa "febbre" edilizia incassano delle belle cifre che in tempi di stretta finanziaria fanno comodo. Hanno dunque un interesse oggettivo a largheggiare in concessioni e a chiudere gli occhi. Senza capire che, in un futuro ormai prossimo, avranno consumato la "materia prima" di un turismo che frequenta quei luoghi finché son belli e li diserta appena diventano brutti. La grande agenzia Future Brand ci assegna ancora il primo posto nel mondo per arte e storia, siamo scesi però al decimo per la natura e precipitati oltre il quindicesimo per le spiagge. Andiamo avanti così e il suicidio, anche economico, sarà garantito.

Abbiamo dunque, contemporaneamente, uno dei patrimonii abitativi più giganteschi (oltre 120 milioni di vani, esclusi i milioni di vani abusivi), abbiamo uno dei più alti impieghi di cemento per abitante d'Europa, abbiamo il più elevato consumo di suolo libero (da 100 a 200mila ettari l'anno asfaltati e cementificati), abbiamo la più bassa percentuale di edilizia economica e popolare. Ma le Regioni, anche di sinistra, stanno proseguendo in una polemica contro i vincoli di piano, contro l'azione delle Soprintendenze che è stato un cavallo di battaglia del governo Berlusconi e dei vari cultori della non-pianificazione modello Milano. L'assessore toscano Riccardo Conti mi ha risposto sull'Unità con due colonne di testo che era tutta una sinfonia partecipativa. Seguo l'urbanistica dai primi anni '60. Ricordo il piano di Urbino, frutto di una partecipazione attiva e fiduciosa. Un bel piano firmato da Giancarlo De Carlo. Che però, una volta approvato, è servito allo Stato per restaurare mirabilmente la città storica e al Comune per autorizzare con varianti varie una nuova città brutta e confusa, inguardabile e qualche volta invivibile. Come sono in molti casi le nostre città, ahinoi, fuori dalle mura. Una maledizione. Perché siamo tanto ciechi e cialtroni rispetto ai nostri antenati?

FIRENZE. Mentre a Monticchiello Erasmo D’Angelis, presidente della commissione ambiente e territorio del Consiglio regionale, dichiarava che la lottizzazione contestata da Alberto Asor Rosa è proprio «uno schifo», a Firenze l’assessore all’urbanistica della Regione Toscana Riccardo Conti si incontrava con Roberto Cecchi, incaricato dal ministro Rutelli di studiare interventi per «correggere e mitigare» il progetto edilizio in Val d’Orcia. Risultati? La parola passa agli esperti. Saranno loro a decidere quali interventi eseguire per «addolcire» la lottizzazione privata a Monticchiello. «Abbiamo già in mente come muoverci in quanto il ministero ha impostato con il codice del paesaggio, la strada da seguire agli enti locali. La via è quindi già aperta. E’ comunque un episodio molto datato. E il primo lavoro che noi faremo è vedere se questo episodio si inserisce nelle nuove regole», ha spiegato Amerigo Restucci, professore allo Iuav dell’ Università di Venezia, uno degli esperti inviati dal ministro Rutelli.

Sia Conti che Cecchi hanno teso a ridimensionare il caso-Monticchiello, anche perché i margini di manovra per gli interventi che dovranno fare gli esperti sono assai ridotti. «Monticchiello è un episodio piccolo. Con Cecchi ho discusso di cose più importanti come l’intesa tra Regione e ministero per la pianificazione paesaggistica della Toscana». Gli ha fatto eco Cecchi: «Sia chiaro che Monticchiello non è un ecomostro. Certo è un intervento che non si confà alla natura di quei luoghi e come tale sarà sottoposto a opere di mitigazione».

Conti ha annunciato che il ministro Rutelli e il Presidente della Regione Claudio Martini firmeranno nei prossimi giorni un’intesa sulle politiche del paesaggio, che farà da guida a tutte le altre Regioni italiane. Il PIT, il piano integrato del territorio, che si appresta ad approvare la Regione, conterrà quindi anche il piano paesaggistico. E’ stato spiegato che con il PIT casi come quello di Monticchiello non saranno più possibili.

«In Toscana mai più altri casi Monticchiello», ha commentato D’Angelis. «Sulla lottizzazione privata il ministro Rutelli ha fatto bene a definire con il sindaco un concreto intervento di diminuzione dell’impatto paesaggistico e di riduzione del danno. Si tratta di un clamoroso errore, tanto più che soltanto otto appartamenti su ottantasei sono stati acquistati da persone della zona. Questo non può che dimostrare che si tratta solo di una lottizzazione turistica, peraltro con una architettura da hinterland metropolitano».

Ma Paolo Marcheschi, Forza Italia, ha dichiarato che Monticchiello non è un caso isolato: «Se il ministro Rutelli, in questi anni, avesse fatto un giro in Toscana, avrebbe potuto veder sorgere gli ecomostri di Firenze (parcheggio alla Fortezza da Basso), Donoratico, Elba, Monticchiello, S. Vincenzo e prossimamente quelli di Campi Bisenzio e Castagneto Carducci. Un intervento quest’ultimo, di appena 400 nuove villette. Un nonnulla come sostiene Conti».

M.L.

IL CONTESTATO progetto per l'insediamento abitativo di Monticchiello, in Val D'Orcia, sarà corretto e mitigato. Ad annunciarlo è il ministro dei Beni Culturali e vicepremier Francesco Rutelli, al termine di una giornata di incontri con le istituzioni coinvolte. Incaricati della revisione del progetto, saranno due autorevoli architetti paesaggisti, Paola Falini e Amerigo Restucci. Rutelli ha inviato anche una lettera agli amministratori locali dei siti Unesco invitandoli ad una «più attenta vigilanza, affinché gli interventi siano coerenti con la conservazione dei siti».

Postilla

Nonostante l’autorevolezza di Paola Falini e Amerigo Restucci è dubbio che la “revisione del progetto” (o la sua “mitigazione”) possa risolvere la questione sollevata dalla denuncia di Alberto Asor Rosa.

O l’intervento non è giudicato né incongruo nè tanto meno “uno schifo”, e allora si abbia il coraggio di esprimere con nettezza un parere opposto a quelli di Asor Rosa, Emiliani e tantissimi altri, e si lasci in pace il comune di Pienza. Pagheranno i posteri, ma sono altrove.

Oppure l’intervento è incongruo, è davvero "uno schifo", contrasta con l’esigenza di tutelare il paesaggio della Val d’Orcia, e allora il Ministero dei beni e delle attività culturali e la Regione hanno il potere (e quindi il dovere) di bloccare i lavori. Lo conferisce l’articolo 150 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che consente di “ordinare […] la sospensione di lavori iniziati” ove questi siano “capaci di pregiudicare il bene” protetto, o che si reputa degno di protezione. E magari contemporaneamente – come l’assessore Riccardo Conti aveva preannunciato – la Regione avvii, d’intesa con il Ministero dei beni e delle attività culturali, quel piano paesaggistico regionale che la legge nazionale le impone di fare e i cui contenuti non sono nè chiacchiere nè esortazioni nè indirizzi, ma precise indicazioni su cio che si può e ciò che non si può fare nei beni paesaggistici sottoposti a tutela.

È davvero strano che un ministro della Repubblica ignori i poteri (le responsabilità) che la legge gli attribuisce e si affidi a una “più attenta vigilanza" dei poveri “amministratori locali dei siti Unesco”, i quali hanno dimostrato quanto ci sia da fidarsi della loro consapevolezza del bene che anche (anche , non esclusivamente ) a loro è dato di tutelare.

Non pare preoccupazione della politica il buongoverno del territorio. Alla politica in genere, della Destra, come della Sinistra, sembra spesso riferibile una pesante carenza degli essenziali nutrimenti dell’etica e della cultura, fino a divenire essa una sorta di disarmante regola nelle politiche di governo delle maggioranze. “La maggioranza sta”, ha detto De Andrè; è una frase che non richiede alcun commento per la pregnanza e l’attualità che la caratterizza nel clima di deficienza democratica che viviamo. Non ne è indenne appunto il governo del territorio. Se ne ha prova anche in Toscana, regione che nella sua storia recente ha emanato la più avanzata legislazione per il governo del territorio. Per quanti hanno inteso leggerne onestamente i principi generali, essa ha dal 1995 preso posizione circa la priorità del controllo del consumo di suolo, ma tale processo non pare affatto controllato dagli atti e dalle politiche di governo territoriale, a dimostrare che le possibili distanze tra emanazioni e attuazioni possono annullare il contenuto delle prime, siano pur esse leggi, uguali per tutti. Di forme di deriva e malcostume del governo territoriale in Toscana danno prova, fra gli avvenimenti eclatanti alcuni dei quali sono anche in questi giorni alla ribalta delle cronache, gli atti dell’Amministrazione comunale di Pistoia, dove il processo per la realizzazione del nuovo presidio ospedaliero è stato più volte analizzato in articoli, convegni e discussioni ai tavoli delle autorità competenti e qualificato con una articolata serie di motivazioni di grave inadeguatezza. Fra di esse ve ne sono di assolutamente oggettive, che si potrebbe pensare essere in grado di distrarre da intenti scellerati anche il governo meno attento all’interesse comune. Ma non pare assolutamente così, considerando che queste stesse parole vengono scritte mentre nei fatti si procede come da programma (di edificazione pubblica e speculazione privata).

Un fatto certamente oggettivo è che l’area dove è previsto il nuovo presidio ospedaliero di Pistoia, uno dei quattro di programmata realizzazione in Toscana, è tutelata da un regolare decreto di vincolo paesaggistico recante la specificazione delle esplicite motivazioni istitutive. Secondo la linea interpretativa consolidatasi in giurisprudenza, il vincolo è il principale strumento di tutela del paesaggio, in quanto svolge la funzione essenziale della anticipazione, non attribuibile ai piani territoriali con congrue garanzie di condizionamento delle scelte e di stabilità nel tempo (Consiglio di Stato, VI sezione, sentenza n. 7667 del 23 novembre 2004).

Il vincolo paesaggistico esistente dal 1965 su parte dell’area a sud della città di Pistoia è stato esteso nel 2005 anche all’area periurbana limitrofa dell’ex campo di volo (Decreto Ministeriale del 7 settembre 2005). Il decreto interviene nel merito del ruolo paesaggistico dell’area nel contesto della pianura, sottolineandone la connotazione di base per la quale risulta “salvaguardata da insediamenti” e affermando che costituisce un “luogo di grande valore paesaggistico anche per la sua conformazione territoriale”. Fra le specifiche motivazioni di tutela, si trova che occorre “mantenere le caratteristiche di area verde […] e di fascia di rispetto tra la città e l’antistante paesaggio”.

Ma l’area, da anni soggetta alle previsioni dei piani provinciali e comunali e studiata dai progetti per la realizzazione del parco dell’arboreto, è oggi interessata appunto dalla previsione di espansione insediativa riguardante il nuovo presidio ospedaliero. Il relativo accordo di programma, ratificato dal Consiglio Comunale di Pistoia il 14 dicembre 2005, è stato siglato dalla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana e dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio per le province di Firenze, Pistoia e Prato. Per quanto attiene agli aspetti sostanziali di compatibilità con le decretate motivazioni di tutela paesaggistica, si è giunti alla firma dell’accordo con richieste delle autorità preposte alla applicazione del vincolo inconsistenti rispetto alla questione cruciale della localizzazione dell’intervento: la progettazione unitaria del plesso ospedaliero e del parco e la previsione di più collegamenti dell’area con il nucleo urbano consolidato, con accessibilità del parco distinta da quella dell’ospedale. Risulta omesso il riconoscimento di fatto che la previsione insediativa del nuovo ospedale non riguarda per destinazione, né potrebbe riguardare per dimensione, una dotazione edilizia a servizio di una “area verde” (D.M. 2005, cit.) e pertanto è in esplicito e pieno contrasto con la finalità di tutela, nella misura in cui nega la salvaguardia dell’area da insediamenti e conseguentemente la funzione di mediazione tra la città e il paesaggio di pianura, dipendente dalla peculiare “conformazione territoriale” (D.M. 2005, cit.) dell’area medesima nel contesto paesaggistico a cui appartiene.

Si ritiene difficile non ravvisare la potenziale lesione del notevole interesse pubblico attribuito all’area, che potrebbe divenire reale con il rilascio del permesso di costruire. Ma questo è stato già scritto e detto e ancora non è accaduto nulla. Sconcertante, quanto efficace nel disegno che persegue, è in realtà proprio il nulla con cui l’Amministrazione comunale preposta alla concessione della trasformazione insediativa di quest’area periurbana e le stesse Autorità preposte alla sua tutela in forza dei rispettivi mandati istituzionali rispondono alle opposizioni largamente motivate della società civile.

Una strada tra le più belle del mondo nel cuore della Val d’Orcia, immortalata dal Lorenzetti, riconosciuta dall’Unesco e meta di migliaia di turisti. Fino all’arrivo della lottizzazione dell’area per farne, dicono i dépliant, "case da amare". Uno scempio passato con l’appoggio della giunta di sinistra e tra l’indifferenza generale.

Mi aspettavo di trovare gli abitanti radunati a commentare, eventualmente a berciare e pronti a prendere fuoco Li ho trovati invece reticenti e silenziosi che pensavano ai casi loro come non avevano mai fatto

Nella casa di campagna affacciata sulla Val d’Orcia, dove sono ospite di una mia amica, arriva rombando un gippone che con una sgommata lancia in aria un’onda di brecciolino e si blocca davanti ad un muro. E dal posto di guida salta giù una giovane donna con i calzoni sporchi di cemento, con una zazzera di capelli cortissimi, una figura a metà tra un capo popolo e Peter Pan.

Punta il dito verso di me e dice: «Oh lungacchione, non mi riconosci? Sono la mamma del Mostro». E giù risate. Poi riprende, con lo stesso impeto con cui guidava: «Se credi che sia venuta a fare l’autocritica ti sbagli. Come dicono i napoletani: "ogni scarafone è bello a mmamma suia". Vogliono demolire? Si accomodino. Mi metto anche io nel mazzo dei demolitori, perché a demolire ci si guadagna più che a costruire, non lo sapevi?»

La mamma si chiama Daniela Grappi ha quasi cinquanta anni, ma ne dimostra dieci di meno, ed è sempre stata tosta e sarcastica. E il mostro è naturalmente la lottizzazione di Monticchiello, che l’articolo di Alberto Asor Rosa (Il cemento assale la Val d’Orcia, Repubblica del 24 agosto), non il primo a parlarne, ma il primo a ad aprire il ventre al fattaccio e a mostrarne le interiora, ha reso nello stesso tempo celebre e infame. Una delle prese in giro più riuscite del Mostro è stato l’uso indecente di tutto quello che la lottizzazione tende a distruggere e che viene adoperato nei dépliant promozionali diretti ai tonti, per valorizzarla. Il titolo di uno dei questi dépliant, tutti uguali nel promettere sogni fasulli come casette da Hansen e Grethel nei boschi e mulini bianchi, con la retorica della vita di campagna con l’olio "bono" e il vino "bono", dice: «Casali di Monticchiello» con un sottotitolo: «Case da amare». E ancora più sotto, a caratteri da marchio di fabbrica, per significare un’appartenenza privilegiata, si legge: «Parco artistico naturale e culturale della Val d’Orcia - Patrocinio mondiale dell’Unesco». Ma davvero?

L’altro giorno sono comparsi da queste parti i funzionari dell’Unesco, appunto, richiamati anche loro, un po’ tardi, dallo scandalo, che dopo un’accurata visita al Mostro, ne sono usciti inorriditi e sono ripartiti per le loro sedi con l’intenzione di togliere a Monticchiello quel blasone che le città e i paesi di tutto il mondo ambiscono più di ogni altro riconoscimento. E quei tozzi, pesanti edifici, circondati da muraglie di fango e cemento, che incombono all’entrata del paese e che sembrano sgorbi e scarabocchi studiati per rovinare il disegno elegantissimo di una delle vie più fotografate del mondo, di cui parleremo, si potrebbero chiamare in mille modi. Ma c’è voluta una bella faccia tosta per chiamarli casali.

Ma la Grappi, tutto sommato, fa il suo mestiere d’imprenditrice temeraria e d’assalto, una che ha più coglioni di tutti gli uomini di Monticchiello, come dicono in giro. L’avevo incontrata il giorno prima mentre arrancavo per la salita del paese. Sono più di trent’anni che vengo tra queste colline, portato la prima volta da Nico Garrone, critico e grande stimatore del teatro popolare, una delle glorie di Monticchiello e grande bevitore di Brunello di Montalcino. E credevo di conoscere bene una certa sprezzatura dei suoi abitanti, quel non meravigliarsi di nulla e non credere a nulla, un certo spirito libero. E anche un carattere fumantino e incazzoso, quando c’era da incazzarsi. Era un carattere che usciva bene a teatro, anche se negli ultimi tempi le pièce erano diventate ripetitive e sfocate rispetto alla realtà presente, preferendo ritornare indietro a temi sicuri come le lotte agrarie o il rapporto padrone-mezzadro. Per un curioso paradosso il turismo dei signori, quelli che venivano chiamati i nuovi vandali, aveva trasformato la Valle in una sorta di Klondyke, dove non c’erano pepite d’oro, ma ruderi, infinitamente più pregiati. E dove i prezzi dei terreni sono saliti talmente in alto da risultare superiori a quelli praticati, per dire, nel Luberon o nella Camargue.

Un’altra delle glorie del paese era la banda musicale, una delle più antiche d’Italia, una celebre banda rossa che durante il fascismo si era rifiutata di suonare Giovinezza, ed era stata disciolta: così almeno diceva la leggenda. E poi c’erano le celebrazioni e i festeggiamenti per la Resistenza. Durante la guerra il fronte attraversava queste colline - una storia raccontata magnificamente da Iris Origo, con Guerra in Val d’Orcia - e un certo numero di paesani si era battuto bene, anche se gli scontri venivano magnificati a livelli epici. E la giornata più importante di Monticchiello è sempre stata il 25 aprile con la passeggiata - processione a Colle Mosca, dove c’è un sacrario dei caduti e dove passava la Linea gotica.

E poi c’era una strada, disegnata a suo tempo copiando un’altra strada, dipinta dal Lorenzetti nell’affresco del Buon governo a Siena e che scendeva dall’alto in elegantissime volute, e che radunava in se l’unicità del paesaggio toscano. Non sono mai passato lungo questa strada senza trovarla parzialmente occupata da troupe televisive e cinematografiche provenienti da tutto il mondo che credevano di riprendere la bellezza allo stato puro.

Era vero che Monticchiello da più di mille abitanti, in pochi anni era scesa a meno di un centinaio, come lamentava qualcuno, ma questa è la sorte non tanto infelice che tocca ai paesi storici, dove ogni pietra ha una sua giusta collocazione che rende l’ambiente così perfetto e riposante da impedire a chiunque di manometterlo. E dunque i giovani non trovano balere, locali di biliardini, bar con sprizzi e sprazzi e se ne sono andati via già da molto tempo e la sera il paese ha assunto un’aria desolata e l’umidità sembra distillare dai muri. Ma il giorno dopo il paese è di nuovo affollato di turisti che girano a piedi o in bicicletta, e ci sono un paio di ristoranti dove si mangia bene e caro e la vista verso l’Amiata è sempre incantevole e tutto sommato passare qui una parte importante del tempo non è affatto male. Anzi, è la cosa migliore che uno possa fare.

Con questi precedenti mi aspettavo di trovare i monticchiellesi radunati intorno alla porta del paese a commentare, eventualmente a berciare e pronti a prendere fuoco per il Mostro. Li ho trovati invece incredibilmente reticenti e silenziosi, che pensavano ai casi loro come non avevano mai fatto. E ad accostarli raccontavano che loro non sapevano, che non erano competenti dimostrando una straordinaria capacità, per me del tutto nuova, di fare i pesci in barile. Eppure avevano avuto tutto il tempo di pensarci sopra perché l’allarme era stato dato per la prima volta nel 2003 da Anna Bachilega una dottoressa bolognese che aveva scritto un articolo premonitore sul bollettino della parrocchia. Bisognava tornare alla Sicilia dei bei tempi per trovare un’indifferenza così grande che da quelle parti veniva chiamata omertà.

Durante il nostro incontro la Grappi aveva difeso il suo progetto ora in fase di realizzazione di cui era proprietaria al cinquanta per cento. Me la ricordavo oltre dieci anni fa quando aveva rimesso in piedi il bilancio fallimentare della famiglia lavorando da mane a sera seduta sul suo trattore a scavare fossi per le strade che conducevano alle ville. Adesso era la proprietaria di una tenuta lungo la Cassia dalle parti di Gallina, di un grande albergo situato presso lo svincolo di Chiusi per l’autostrada per Roma, di un imponente agriturismo verso Bagno Vignoni, e case sparse a Monticchiello e altrove.

E qualche anno fa aveva rilevato l’intero pacchetto della lottizzazione, ridistribuendone la metà a romani qualificati, come lei li definiva, dopo un periodo in cui avevano ronzato intorno all’affare facce da Banda della Magliana. L’inizio della vicenda risaliva a molti anni prima, quando aveva un aspetto e un carattere del tutto diversi. Dal 1958 ad oggi a Monticchiello erano state costruite solo 14 case e quelle nuove dovevano essere assegnate alle giovani coppie per aiutarle a rimanere nel posto in un periodo in cui la fuga dal paese si era accentuata. Nel corso degli anni questa modesta e benefica iniziativa si era andata trasformando in una lottizzazione di tipo speculativo, che snaturava la ragione d’essere del progetto. Ma anche la location era cambiata passando da un versante all’altro del paese senza che nessuno osasse intervenire su una scelta che andava a sconvolgere l’antico assetto di Monticchiello.

L’accelerata era arrivata con la Grappi e anche con la presenza di un architetto che aveva doti di ubiquità riuscendo a far parte dei tecnici di cui si era servito il comune di Pienza per il piano regolatore che aveva avallato il Mostro. Ed era anche, fortunata coincidenza, l’architetto stesso del gruppo lottizzatore. Come dire che una mano lavava l’altra. Il signore in questione si chiamava Ottavio Fusi ed era già abbastanza noto per aver progettato gli interventi più discutibili di tutta l’area con la connivenza di tutta la sinistra locale. Era, comunque fosse andato il suo iter, una lottizzazione che aveva dimensioni troppo grandi per una frazione di comune piccola come Monticchiello, chiunque era in grado di vederlo, e non si capiva perché gli amministratori non fossero intervenuti a suo tempo e anche dopo per evitare un finale da circo Barnum a quella strada che tutti credevano intoccabile.

Ma anche così disastroso, il progetto aveva certe regole cui attenersi: il rispetto dell’andamento paesaggistico, l’urbanizzazione dell’area, da eseguire prima delle costruzioni degli edifici e altre ancora. Inoltre un’amministrazione decente per un intervento di quel genere avrebbe dovuto pretendere dai fautori dell’iniziativa edilizia un bel modello in scala delle costruzioni da sistemare in una sala del comune in modo che tutti gli abitanti potessero esprimere il loro giudizio. Invece non solo gli appartamenti sono stati costruiti prima dell’urbanizzazione, ma si erano moltiplicati come i pani e i pesci fino a raggiungere il numero di 96, molto più del doppio di quelli previsti. E non parliamo poi dell’aspetto paesaggistico, quello che si vede è esattamente il contrario. Invece di presentarsi con edifici bassi sul fronte della strada, per poi farli crescere mano a mano che la collina saliva, hanno costruito subito un vallo, che dà il benvenuto ai visitatori come le mura del carcere di Alcatraz. Quanto al modello su scala da esporre in Comune, l’inadeguatezza degli uomini politici che reggono le sorti delle città d’arte è spesso tale rispetto al loro compito, che nessuno ha mai pensato di presentare al pubblico il progetto.

Ci sono poi altre inadempienze o incongruità come le fosse biologiche che superano il livello della strada e altre amenità. E mentre guardavo il Mostro, mi domandavo dove erano finiti tutti quei soprintendenti severi, che minacciavano la fucilazione per una piscina dipinta di azzurro e non di verde o per l’apertura della finestrella di un bagno nei casali di compagna. E che cosa avevano in testa tutti gli amministratori del comune di Pienza quando avessero avallato un simile progetto, che sarebbe stato bocciato già qualche secolo fa perché le norme protettive dei Lorena erano abbastanza severe da evitare le indecenze su un paesaggio amato non solo da quelli di Monticchiello ma da tutto il mondo e lascia un sapore amaro il fatto che lo scempio è avvenuto con l’accordo di una parte politica che si definisce sinistra se tutto ciò ha ancora un valore.

Qualcuna delle duecento persone che contano in Italia (o anche delle mille che credono di contare) è mai scesa nella metropolitana di Roma? S'intende, non per un tragitto finto, per un'inaugurazione, con la vettura pulita e le hostess sorridenti, ma in una prima mattina vera, una qualsiasi; o anche tra le otto e le nove, evitando così l'alzataccia. Sarebbe un'esperienza senz'altro utile, per capire il mondo che si muove, i giovani e gli anziani, il commercio, la scuola, i sistemi di famiglia, i segni complessivi del progresso, del ritardo, del ristagno e anche un bel po' di globalizzazione. Un'esperienza che comunque i nostri vip non faranno. Ai funerali si va con le auto di servizio.

Alle otto, alle nove del mattino nella metro di Roma molti e molte vorrebbero leggere, se non altro il giornale. Si tratta per lo più di un giornale gratuito fatto per loro che si chiama appunto Metro. Molte donne leggono libri, quelle poche che sono riuscite a sedersi. Se ci riescono, la loro giornata andrà meglio. Molti uomini le guardano, pieni di curiosità. Lo spazio è così ridotto che non c'è problema per reggersi in piedi, sempre che non ci siano brusche frenate o brusche accelerazioni. Non è l'inferno, ma certo è molto scomodo, sporco, degradante. Perché mai la parte più viva della città debba essere tanto penalizzata, non è dato capire. A volte sembra poi che l'unica manutenzione sia fatta dai graffitari che amano lasciare memoria di sé rendendo oscuri i vetri e illeggibili i nomi delle stazioni nei cartelli sulle pareti.

Sulla linea arancio, contrassegnata dalla A - come dice con una punta di orgoglio la società comunale che svolge il servizio - salgono in media quattrocentocinquanta mila utenti al giorno. Sulla linea blu, indicata con la B sono trecento mila. E poi l'alfabeto, il più corto tra quelli in uso in qualsiasi capitale, è già finito. La metropolitana romana, così miserabile, così degradata è uno strumento essenziale per vivere e spostarsi in una città infestata dalle auto e dalle moto che provocano un inquinamento crescente, anche se i duecento vip e i loro adepti fingono di non conoscerlo o lo curano con palliativi domenicali. I tempi per allungare l'alfabeto, per avere una terza linea metropolitana, si dilatano continuamente; e i problemi di mobilità di abitanti e ospiti della città crescono, come anche i sacrifici e i tempi di percorrenza. Intanto il Comune, anche attraverso la società della metropolitana costruisce parcheggi sotterranei, e facendolo, non solo spreca la capacità tecnica e finanziaria disponibile che non è eccelsa, ma dà in prima persona un chiaro segnale in una direzione opposta: più auto, più traffico individuale in città.

Sarebbe un errore farne un caso solo romano. In Italia, in centri grandi e piccoli l'auto e la sua sorellina a due ruote stanno definitivamente espropriando le persone dalle loro vite. Strade come confini, ponti, cavalcavia, tunnel, autostrade a otto corsie, sono la nuova geografia, molto invadente. Le nuove rotaie servono solo per far correre i treni ad alta velocità, inutili, come sanno tutti, per ridurre il traffico delle automobili, quello vero, che consiste in spostamenti brevi, di cinquanta chilometri o poco più. O per girare come anime perse in città, alla ricerca di un parcheggio, in attesa che il Comune, che la società della metropolitana gliene crei uno.

© 2025 Eddyburg