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Sul caso Monticchiello sbagliate

Il 5 gennaio scorso è comparso su il manifesto un articolo di Stefano Chiarini («Disfida di Monticchiello») che, al di là delle opinioni, esige alcune precisazioni. 1. Chiarini afferma che gli amministratori locali non erano stati invitati al convegno di fine ottobre. Non è vero. Se fosse stato presente o avesse assunto doverose informazioni, avrebbe visto o saputo che hanno preso la parola al convegno, oltre all'assessore regionale Riccardo Conti, l'assessore al Turismo del comune di Pienza, Claudio Serafini che ha portato, fra l'altro, un saluto ai convegnisti, il sindaco di San Quirico d'Orcia, Marileno Franci; il sindaco di Capalbio, Lucia Biagi; il sindaco di Mantova, Fiorenza Brioni; l'ex sindaco di Pienza e altri. Tutti i principali esponenti della amministrazione comunale di Pienza erano stati invitati, ma il sindaco Del Ciondolo non ha ritenuto opportuno partecipare.

2. Chiarini sostiene che, nonostante «il linciaggio mediatico» promosso da quanti erano, e sono, contrari alla lottizzazione di Monticchiello le istituzioni «chiamate in causa» non hanno condiviso quegli atteggiamenti critici. Anche questo non è vero: il ministro Rutelli, subito accorso in zona, ha valutato la lottizzazione in modo pesantemente negativo e proposto, quanto meno, di limitarne i danni; il presidente della regione, Claudio Martini, l'ha definita «uno schifo» (da non ripetere); il direttore dell'Unesco arch. Francesco Bandarin, ha scritto alla Società Iniziative Toscane srl e ai giornali: «L'iniziativa di costruzione di una lottizzazione edilizia in comune di Pienza, a Monticchiello, non ha in alcun modo l'approvazione dell'Unesco, che anzi la considera lesiva dell'integrità del sito del Patrimonio mondiale della Val d'Orcia» chiedendo che qualsiasi riferimento all'Unesco venisse subito tolto dalla pubblicità di quella immobiliare.

Nulla racconta Chiarini del tono aggressivo usato, nel proprio sito, imitando le Iene televisive, dalla immobiliare Iniziative toscane contro i suoi critici, persino contro il parroco «colpevole» di aver espresso un'opinione negativa in merito. Nulla racconta del volantino anonimo contro Alberto Asor Rosa chiamato il «vero ecomostro della Val d'Orcia», e distribuito in tutte le cassette postali del paese, né di altri spiacevoli episodi.

Infine, sulla legislazione urbanistica toscana, tanto lodata da Chiarini, ci limitiamo a far notare come la sub-delega ai comuni della tutela paesaggistica sia stata criticata dalla Conferenza nazionale per il paesaggio e dall'allora ministro dei Beni culturali, Giovanna Melandri, fin dal 2000 e come essa confligga con lo stesso articolo 9 della Costituzione «la Repubblica (e non i comuni, n.d.r.) tutela il paesaggio» e pure con il Codice dei beni culturali e paesaggistici. Del resto, in quale modo possono i comuni da una parte incassare somme decisamente consistenti dalle concessioni edilizie, come è avvenuto negli ultimi anni, e dall'altra svolgere efficacemente il ruolo di tutori unici del paesaggio? Senz'altri controlli che quelli (nel caso in questione gravemente assenti) della Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici? Essere al tempo stesso controllori e controllati è sempre sbagliato, antidemocratico e fonte di pasticci senza fine. Il caso Monticchiello ha fatto emergere in Toscana una serie di lottizzazioni per le seconde case e di pesanti scempi paesaggistici a Fiesole, a Bagno a Ripoli, a Donoratico, a Bagnaia, a Rigutino, a Casole d'Elsa, a Capalbio, a Magliano in Toscana, a Campagnatico, ecc. Alla faccia dell'urbanistica «partecipata». Sinceri saluti.

N. Criscenti; V. Emiliani, Com. per la Bellezza; L. Menchini, Legambiente Chianciano; Violante Pallavicino

«Scandalo» nella Val d'Orcia

Marco Del Ciondolo *

Come possiamo tornare a parlare dei problemi della Val d'Orcia in modo «normale» e costruttivo? Il nuovo grido di allarme uscito sulla stampa nazionale a firma di Alberto Asor Rosa, «Una cava minaccia la Val d'Orcia» ripropone purtroppo ancora una volta il metodo utilizzato nel più famoso articolo sulla lottizzazione di Monticchiello del 24 agosto 2006, «Il cemento assale la Val d'Orcia». Anche in questo caso si utilizzano dati e fatti, distorcendoli, o peggio, per amplificare il punto di partenza di un ragionamento che trova terreno fertile per suscitare una facile attenzione mediatica mentre elude la complessità della realtà, costringendo a una difficile operazione di difesa i malcapitati amministratori locali da tempo impegnati in una coerente difesa del territorio.

Nel caso della cava di S. Quirico - dal nome di «Malintoppo» - Asor Rosa sostiene che si stia procedendo a un ampliamento di diciotto ettari di una cava esistente, con conseguente compromissione del paesaggio; in realtà, quello di cui si sta discutendo nelle sedi istituzionali appropriate (e su proposta del comune di San Quirico d'Orcia) è la semplice traslazione di circa tre ettari della cava in una zona più a valle, con finalità esplicite di salvaguardia del paesaggio e della vegetazione locale.

E' evidente che anche in questo caso, così come in precedenza per quello di Monticchiello, l'obiettivo di queste critiche sembra quindi quello di voler colpire la pianificazione complessiva dell'area delegittimando la credibilità del percorso tecnico e istituzionale in atto.

L'articolo allarga la polemica denunciando una presunta mancanza di sensibilità delle istituzioni locali, che sarebbero incapaci di garantire la tutela del buon nome della Val d'Orcia. Viene in un primo momento plaudita l'iniziativa del sindaco di S. Quirico, Marileno Franci (apparsa sulla stampa nazionale) che ha chiesto alla Monsanto di non utilizzare l'immagine dei «cipressini» - icona internazionale della val d'Orcia e della Toscana tutta - per pubblicizzare i suoi Ogm (organismi geneticamente modificati, antitesi evidente della genuinità dei prodotti locali) ma subito dopo il professor Asor Rosa si domanda il perché di tanto zelo, affermando che nulla sarebbe stato fatto per impedire alla immobiliare che sta costruendo l'ecomostro di Monticchiello di pubblicizzare in maniera analoga la sua iniziativa.

In verità l'utilizzo pubblicitario da parte della Società iniziative toscane, realizzatrice della lottizzazione di Monticchiello, delle dizioni «provincia di Siena», «comune di Pienza», «Parco artistico naturale e culturale della Val d'Orcia» e «Patrimonio mondiale dell'umanità» è apparsa da subito ai soggetti istituzionali interessati come inopportuna, ma si configura sostanzialmente come un'azione legittima. I soggetti chiamati in causa da Asor Rosa (non essendo dotati di potestà legislativa), pur avendolo tentato, non sono quindi riusciti ottenere la cancellazione dei prestigiosi simboli dal materiale pubblicitario. La provincia di Siena e la Commissione italiana per l'Unesco avevano provveduto a diffidare, per quanto riguarda la provincia e a invitare per quanto riguarda la Commissione Unesco, la Società iniziative toscane dal loro utilizzo. Per quanto riguarda il comune di Pienza - e questo Asor Rosa lo sa per certo avendoglielo io stesso raccontato in un colloquio risalente alla scorsa primavera - l'intervento sulla questione si è dispiegato in una duplice direzione: dapprima diffidando la Società medesima e invitandola al ritiro di una prima edizione del materiale pubblicitario cartaceo che conteneva i loghi degli enti interessati (cosa che è avvenuta immediatamente) e successivamente, visionata la seconda versione dei depliant e dei manifesti, attraverso l'interessamento di un legale di fiducia, che ne ha tuttavia confermato la legittimità (estate 2005).

«Anno nuovo, vizi vecchi» verrebbe da dire; e purtroppo siamo sempre nel campo di un'informazione non corretta, per quanto autorevolmente supportata (viene da pensare: l'autorevolezza è data una volta per tutte o, come accade per tutte le azioni umane, dovrebbe essere anch'essa soggetta a qualche forma di verifica?).

Con queste premesse dovremmo ora occuparci del problema vero che è stato sollevato, e cioè quello della tutela del territorio, questione che vede costantemente impegnati da un ventennio gli amministratori di questa valle, con risultati positivi che sono evidenti a chi ha voglia di posarvi uno sguardo non viziato da pregiudizi. Ma come si fa? Credo che il confronto sia francamente difficile, se non impossibile, almeno fino a quando non sarà restituita oggettività e giusta dimensione ai fatti, e soprattutto fino a quando si continuerà a ignorare le sedi e i percorsi democraticamente legittimati. Auspico allora che partendo da un «Malintoppo» possiamo sgombrare il campo dai malintesi, dalle esagerazioni e dalle delegittimazioni sentenziate a priori. Buon anno e che Iddio ci salvi dai salvatori della Val d'Orcia...

* sindaco di Pienza e pres. Conf.za sindaci Val d'Orcia

Tra borghi antichi e sciacchetrà

Francesco Ferrante *

Cari amici de il manifesto, la lettura incrociata - lettura che voi stessi invitate a fare nell'occhiello del secondo articolo - dei pezzi usciti venerdì 5 gennaio su Monticchiello e sabato 6 sul Parco delle Cinque Terre, dipingono un pezzo di realtà che francamente mi riesce difficile riconoscere. Conoscendo bene quelle due zone e le storie relative permettetemi di provare a spiegare perché a mio parere leggete male ciò che lì sta succedendo. Secondo Stefano Chiarini a Monticchiello un professore (Asor Rosa) con la complicità delle associazioni ambientaliste (tutte) ha scatenato un'ingiustificata campagna mediatica contro la regione Toscana e amministrazioni locali della Val d'Orcia su un intervento alle porte di Montichiello tutto sommato poco impattante e che sarebbe invece necessario per dare risposta alla richiesta di case della popolazione locale. Ciò che si tace nell'articolo è che però la supposta pressione demografica che giustificherebbe tale espansione edilizia è smentita (ovviamente) dagli stessi documenti programmatori del comune. Al contrario quell'intervento è figlio di un'impostazione - cemento, brutto cemento per seconde case - che tanti scempi ha causato in tutta Italia, specie al sud dove ciò è avvenuto fuori da ogni regola e con diffuso abusivismo, ma anche al centro e al nord dove molto spesso si sono fatti danni «legalizzati». Anche nella splendida Val d'Orcia e nella meglio amministrata Toscana (anche se mi pare eccessivo definire la regione che si batte con forza per la realizzazione dell'inutile autostrada tirrenica come un modello «non solo in Italia») quella «cultura» urbanistica ha colpito: basta andare in giro per quelle splendide lande e dare un'occhiata anche alle espansioni che negli scorsi decenni sono cresciute attorno ai borghi antichi. Oggi finalmente qualcuno riesce a mettere uno stop, e la protesta degli ambientalisti ottiene che il ministro Rutelli ponga attenzione alla vicenda e insieme alle amministrazioni locali provi a mitigare l'impatto di una scelta rovinosa e sbagliata qualche anno fa. Credo che chi si batte per cambiare questo paese e contro gli interessi dei pochi (costruttori) e a favore dell'interesse generale dovrebbe essere felice di questo processo e non criticarlo. Invece Alessandra Fava il giorno dopo dipinge la situazione del Parco delle Cinque Terre come un luogo dove la democrazia sarebbe addirittura sospesa - da un presidente-faraone - e dove i «dissidenti» avrebbero persino paura di incontrarsi al bar. Addirittura! Con tutta evidenza non è così e anzi l'esperienza del Parco nato nel 1999, innanzitutto grazie alla passione di chi ci lavora, è un modello positivo che andrebbe approfondito, quello sì che meriterebbe un'inchiesta, grazie alla quale si sta recuperando un territorio splendido che correva il rischi dell'abbandono completo e dello spopolamento. Oggi la fatica e la passione di quegli uomini e di quelle donne sta recuperando le terrazze, dove si producevano e si tornano a produrre vino e sciacchetrà (vino passito, ndr), che stavano franando anche sotto il peso di quei pini che niente c'entrano con la storia e la biodiversità di quei luoghi e dei quali alcuni oggi si ergono a strenui difensori. Oggi quasi 200 persone (in un territorio dove ne vivono circa 5 mila) lavorano grazie al Parco e alle cooperative che sono nate attorno ad esse. Tutta l'economia della zona ne ha tratto beneficio (e questo tenendo bassi i prezzi di alberghi e ristoranti contro ogni tentazione di turismo d'élite e invece promuovendo culture e prodotti locali) e tornano a nascere bambini qui e quindi servono scuole. E' un successo straordinario non qualcosa di cui lamentarsi. Poi sui singoli progetti è ovviamente legittimo il dibattito. Io continuo a pensare che il progetto sul Villaggio Europa sia una riqualificazione importante e che la scuola sia utile e bella realizzata con i criteri della bioarchitettura. Ma anche se sbagliassi su quelle due cose ritengo che è ben più grave non cogliere quanto sia «rivoluzionario» il progetto complessivo del Parco. Comunque la Val D'Orcia e le Cinque Terre sono posti talmente splendidi che valgono certamente un viaggio dei lettori de il manifesto per verificare quale è la lettura della realtà più corretta.

* Direttore generale Legambiente

Mi chiamo Franco Matteoni, sono un ingegnere di 57 anni, libero professionista a Pistoia. Da molti anni faccio parte del partito dei Verdi,( sono anche Consigliere comunale a Sambuca Pistoiese, piccolo comune montano), del WWF e di Legambiente. Da tre anni sto partecipando ad una battaglia di civiltà contro un'enorme danno paesaggistico che sta per abbattersi sulla mia bella città. A questa battaglia partecipano tutte le Associazioni ambientaliste pistoiesi, i Verdi,( che per questo sono stati espulsi dall Giunta comunale), cittadini ed una libera Associazione, chiamata Osservatorio sulle politiche urbanistiche sanitarie e sociali, di cui fanno parte le stesse Associazioni, cittadini ed alcuni professionisti, qualche architetto, geologo, ingegnere. Nell'ultima area rimasta libera a sud della città, destinata dal Piano strutturale a Parco urbano, "Presidio delle Mura Verdi" sta per essere costruito il nuovo ospedale che fa parte del Project financing per la realizzazione di 4 ospedali: di Pistoia, Lucca, Massa e Prato. L'area scelta a Pistoia è l'ex-campo di volo, già classificata dall'Autorità di bacino, come area "di pertinenza fluviale", perché, per la sua altimetria e la posizione, adatta ad essere invasa dalle piene del torrente Ombrone: il prof.Menduni scrisse a proposito in un documento del 2003; ½l'area deve essere salvaguardata, in generale, per la mitigazione del rischio idraulico, nonché di altri rischi, in particolare idrogeologici e ambientali.… . L'area è inoltre classificata dal Piano Comunale di classificazione acustica come zona 4 a causa dell'elevato livello del rumore trasmesso dall'adiacente circonvallazione e dall'autostrada Firenze-Mare: gli ospedali, secondo le Norme vanno costruiti in zone di classe 3 e 2. Gli Amministratori pistoiesi hanno adottato, per superare questo ostacolo, una variante al Piano che riporta l'area in classi idonee, ipotizzando la costruzione di barriere fonoassorbenti alte anche 6 m lungo gli assi viari.

Non è finita. Nella zona si trovano importanti pozzi che alimentano l'acquedotto, fornendo una portata che copre circa il 30% del fabbisogno della città: i pozzi dovranno essere dismessi con la costruzione dell'ospedale e la preziosa risorsa idrica andrà perduta. E ancora: la falda idrica è presente a quote prossime a quella di campagna per cui anche la falda rischia di essere inquinata e danneggiata dalla costruzione. Nella battaglia per la difesa dell'ex campo di volo sembrava che la Sovrintendenza fosse dalla nostra parte, infatti nel settembre scorso il Ministero per i Beni e le Attività culturali ha dichiarato l'area " di notevole interesse pubblico", accogliendo la proposta fatta dalla Sovrintendenza,( decreto del 7/09/2005). E' stata grande la delusione e lo sconcerto quando, nella Conferenza di servizi, la Sovrintendenza non ha difeso il vincolo paesaggistico, da lei stessa richiesto ed appena introdotto. Il Decreto, che La prego di leggere, dichiara: "mantenere le caratteristiche di area verde di notevole pregio naturalistico ancora possedute dalla zona e di fascia di rispetto tra la città e l'antistante paesaggio collinare e pedecollinare"; " costituisce un'area di belvedere verso quadri naturali di grande pregio a sud verso le colline del Montalbano, ad ovest verso la valle dell'Ombrone,..." ed ancora" la zona in questione, ancora salvaguardata da insediamenti, collega mirabilmente dal punto di vista ambientale la città di Pistoia con le colline del Montalbano, risultando così luogo di grande valore paesaggistico anche per la sua conformazione territoriale". Sembrava che questa Dichiarazione appassionata bastasse a mantenere integra l'area e realizzarvi il Parco urbano previsto da più di trent'anni, invece...

Anche le procedure autorizzative sono tutte improntate alla velocizzazione dei percorsi burocratici e a negare la partecipazione. Siamo stati costretti a ricorrere al Tar visto che, contrariamente a quanto disposto dalla legge regionale i del 2005, l'Accordo di programma tra regione, provincia, Comune, Asl, ecc. che ha variato gli Strumenti di pianificazione urbanistica, è stato ratificato dal Consiglio comunale senza ammettere la presentazione di Osservazioni. Infine, la situazione di Pistoia si riproduce quasi fedelmente a Lucca e Massa: anche qui i nuovi ospedali sono stati previsti in aree con grosse criticità, dismettendo nosocomi ancora efficienti ed in cui sono in corso ingenti investimenti di ammodernamento. Ho cercato di sintetizzarLe dati e considerazioni su situazioni che a noi, cittadini normali, sembrano incredibili per l'evidente disprezzo delle regole, dei compiti istituzionali, della partecipazione, di valori fondamentali come il paesaggio e l'economicità e logicità delle scelte politico-amministrative.

Grazie per l’ospitalità.

In grandissima parte d’Italia le aree vincolate per verde pubblico, oppure tutelate per ragioni aventi a che fare con l’integrità fisica e l’identità cuturale (l’area cui si riferisce a entrambi le ragioni di tutela, mi sembra), sono considerate aree in attesa di trasformazione a scopi edilizi. A New York, nel 1835, per costruire un grande servizio pubblico, il Central Park, tolsero l’edificabilità privata a un centinaio di grandi isolati; in Italia mai che per realizzare un servizio pubblico si tolga l’edificabilità a suoli privati: si colpiscono sempre, e solo, gli interessi pubblici più deboli.

In molte regioni e città ciò succede a causa di oggettive preferenze di chi governa per alcuni interessi (quelli immobiliari), o per ignoranza. In Toscana ciò succede, a parere di eddyburg, a causa di alcuni seri equivoci a proposito del ruolo dei diversi livelli istituzionali e, di conseguenza, alle caratteristiche del sistema di pianificazione.

Bene ha fatto, anzi, molto bene ha fatto il sindaco di S. Quirico d´Orcia, Marileno Franci, a denunciare per «appropriazione indebita» la Monsanto, grande produttrice internazionale di Ogm, perché sul suo sito usa a scopi pubblicitari foto di paesaggi indimenticabili della Val d´Orcia. L´importanza di tale denuncia sta nell´acquisita consapevolezza che paesaggio e territorio, essendo patrimonio di tutti, non possono essere sfruttati in senso speculativo da nessuno: neanche quando si tratti di quel bene, più astratto e forse più difficilmente definibile dal punto di vista giuridico, che è 1´ «immagine del territorio». Farei due osservazioni, una procedurale, 1´altra più sostanziale.

Per più di un anno sono apparse su grandi quotidiani nazionali e su quotidiani locali e minori, vistose inserzioni pubblicitarie dell´impresa Iniziative toscane, le quali, oltre a pubblicizzare i cosiddetti "Casali di Monticchiello", portavano in alto a sinistra, in bell´evidenza, la dizione: "Provincia di Siena", in alto a destra "Comune di Pienza", e in bella vista nel corpo del messaggio "Parco artistico naturale e culturale della Val d´Orcia" e "Patrimonio Mondiale dell´Umanità", con chiara allusione all´Unesco. Sullo sfondo la foto della strada contornata di cipressi che scende verso Monticchiello, e che è una di quelle che ora il sindaco Franci contesta alla Monsanto.

Si direbbero forme di appropriazione dell´immagine e del messaggio non meno pesanti di quelle operate dalla Monsanto. Non risulta che i vari Enti chiamati in causa - se si esclude una tardivissima iniziativa dell´Unesco, del resto inesplicabilmente inerte in tutta la vicenda - abbiano mai formulato nei confronti delle Iniziative toscane richieste analoghe a quelle del sindaco Franci. Se non è così, sarebbe interessante sapere come e quando esse si siano manifestate, e con quali reazioni ed effetti.

Secondariamente (ma non tanto): è del tutto ovvio che la "difesa dell´immagine del territorio" è importante, ma ancor più importante è la "difesa del territorio".

Ora, giunge notizia dalla stampa (a partire da un articolo del Corriere di Siena del 22 settembre u.s. seguito da diversi altri) che nel territorio del comune di San Quirico, presieduto dal suddetto sindaco Franci, sono state avviate le procedure per estendere di ben diciotto ettari la cava di argilla, da cui trae la materia prima una nota fabbrica di laterizi del luogo, la cosiddetta «cava di Malintoppo» (nome, si deve convenire, poco beneaugurante). Esaminata de visu, la cosa, se realizzata, si presenterebbe catastrofica: il fronte della cava, infatti, risulterebbe prospiciente, senza più alcuna copertura, proprio ad alcuni fra i poderi e fra le colline più belli dell´intera Val d´Orcia.

E´ facile rendersi conto che la situazione di San Quirico, dove è interessata un´attività produttiva che dà lavoro a svariate decine di dipendenti, non è paragonabile a quella puramente speculativa dei "Casali di Monticchiello". Tuttavia, proprio questa maggiore complessità dovrebbe spingere a cercare soluzioni che non siano ancora una volta a danno del paesaggio valdorciano, il quale, non c´è ombra di dubbio, non è in grado di sopportare altre offese dopo quelle recentemente subite. Se è vero quello che scriveva (2 gennaio) su questa colonne il presidente della Commissione regionale Territorio e Ambiente, Erasmo D´Angelis, e cioè che il problema toscano consiste oggi nel tentare di coniugare virtuosamente il "vecchio" modello di sviluppo con quello "nuovo" e potenzialmente prevalente, il caso di San Quirico d´Orcia è uno di quelli con cui il personale politico del centro-sinistra deve da subito misurarsi per dimostrare che è in grado di farcela (cosa di cui, sulla base delle esperienze passate, sarebbe lecito dubitare). Aggiungo che, per restare al caso Val d´Orcia (ma forse il ragionamento varrebbe in generale per il caso Toscana), siamo andati avanti recentemente a colpi di casi singoli, il che non solo è sbagliato ma è anche improduttivo dal punto di vista degli obbiettivi da raggiungere. Bisognerà tornare ad affrontare l´argomento in maniera globale: non mancherà il modo di farlo in tempi anche brevi.

Coordinamento delle Associazioni Ambientaliste, Osservazioni agli elaborati del progetto “Parco a tema polifunzionale Mediapolis”, 21 dicembre 2006 (estratto)



Si rileva una illogica non corrispondenza tra l’impostazione progettuale e le intenzioni di salvaguardia e tutela del territorio nonché di efficienza e innovazione.

Il documento risulta carente e poco esplicativo delle effettive problematiche ambientali e dei potenziali impatti, nonché delle risposte progettuali, a seguito della realizzazione e dell’esercizio dell’opera/intervento che ben si discostano invece dai risultati attesi.



1. suolo e sottosuolo: dal punto di vista geologico vengono evidenziate delle importanti anomalie nella classificazione dei suoli dell’area di intervento. Ciò deve essere trattato in modo esaustivo e dettagliato in considerazione dell’alta pericolosità geologica e geomorfologia del sito e della estesa natura del progetto. Nel valutare i potenziali rischi che una classificazione superficiale del luogo di intervento può arrecare, si conclude che lo studio in oggetto risulta insufficiente.

2. ambiente idrico: la documentazione presentata risulta carente sotto diversi punti di vista: mancano dati quali i volumi di invaso dell'area, calcoli idraulici di dettaglio relativi al nuovo tracciato della Roggia dei Cugnoni, elaborati di calcolo relativi ad un evento di piena contemporanea della Roggia dei Cugnoni e del Fiume Dora Baltea. Pertanto, considerata la pericolosità delle esondazioni e le sue possibili conseguenze su un’area destinata ad un ampio bacino d’utenza, si ritiene non adeguato lo studio effettuato in merito al progetto.

3. vegetazione, flora, fauna – ecosistemi: dal punto di vista naturalistico sono state evidenziate gravi criticità relative al progetto in oggetto, relativamente a: scomparsa di habitat naturalistici con conseguente banalizzazione della biodiversità, nuovi problemi igienico sanitari dovuti alla capacità del progetto di fomentare focolai di zanzare in un’area già critica, eccessivo disturbo antropico nei confronti di tutta la biocenosi. Tale intervento quindi non risulta avere sufficienti ed idonee caratteristiche per essere accettato quale intervento di miglioramento ambientale ed ecologico.

4. paesaggio e beni storico-culturali: il progetto non si inserisce nel contesto paesistico rispetto a nessuno dei criteri descritti, ovvero morfologico e tipologico, linguistico, visivo, ambientale e simbolico, difatti il giudizio risulta essere “molto alto”. Ciò significa che la proposta dovrebbe essere automaticamente respinta e rimandata alla completa riprogettazione o alla valutazione di localizzazioni alternative.

5. viabilità e traffico: il documento esaminato oltre a non analizzare le diverse previsioni di traffico, non valuta gli impatti che dovranno subire le strade e gli incroci urbani principali di Albiano di Ivrea e dei comuni circostanti, a seguito di tale intervento. Con riferimento poi ai valori di traffico esistente e futuro rapportati alla capacità veicolare oraria della bretella autostradale, indicati nella relazione ambientale, risulta che il livello di servizio dell’infrastruttura stessa è scadente e pertanto induce a significativi fenomeni di congestione.

Nota: i paragrafi riportati sopra sono soltanto un estratto dalle conclusioni finali, qui di seguito è scaricabile il documento integrale delle Osservazioni; sul progetto Mediapolis, data la quantità di riferimenti qui su Eddyburg e eddyburg_Mall, posso soltanto consigliare una ricerca a parola chiave sul motore interno in alto a destra (f.b.)

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Contributo a seguito del Convegno di Italia Nostra

“Dopo Monticchiello, paesaggio toscano da salvare: ripensare il governo del territorio - Firenze, 09.12.2006

Il nuovo PIT : un efficace strumento per il governo del territorio toscano, oppure un manuale di buoni consigli?”

A seguito del Convegno di cui all’oggetto e che ha visto una così ampia partecipazione di esperti e di pubblico, il Consiglio Regionale di Italia Nostra desidera trasmettere ufficialmente le proprie considerazioni e il proprio parere per rendere più efficace la disciplina del governo del territorio e la tutela dei valori paesaggistici, anche in riferimento alle bozze del nuovo PIT che la Giunta sta elaborando e che sono al momento consultabili.

Sul progetto di “Super 5” (divenuta poi LR1/2005 “Norme per il governo del territorio”) Italia Nostra organizzò a Firenze il 4 dicembre 2004 un convegno di studio con la partecipazione di esperti delle scienze del territorio e dell’assessore Riccardo Conti. Nel corso di quel convegno e nei giorni successivi, attraverso scambi con gli uffici regionali preposti, furono evidenziati oltre ad un insieme di aspetti positivi della legge - soprattutto se paragonata ad altre leggi regionali assolutamente devianti rispetto alla titolarità pubblica della pianificazione (come ad esempio la legge lombarda) - anche altri aspetti sicuramente non secondari che Italia Nostra non condivideva e rispetto ai quali furono avanzate precise osservazioni e proposte di varianti specifiche all’articolato.

Queste riserve e proposte riguardavano (e riguardano ancor oggi) da un lato le competenze di Regione, Province e Comuni, con la rinuncia a precisi compiti e poteri di coordinamento e controllo da parte della Regione, a nostro parere con uno sbilancamento eccessivo verso le autonomie locali, e dall’altro lato la richiesta di una più rigorosa ed efficace disciplina del territorio agricolo che tanto peso ha nel paesaggio toscano. Pochissime e solo marginali sono state le nostre richieste accolte poi dalla Regione nel testo definitivo approvato di questa legge.

E’ da rilevare che il modello di governo territoriale proposto dalla L.R. 1/2005 è stato oggetto, per quanto attiene la disciplina e la gestione dei beni paesaggistici, di rilievi da parte della Corte Costituzionale che con la propria sentenza n° 182 del 20 aprile-5 maggio 2006 ha dichiarato la illegittimità costituzionale di due disposizioni contenute nella L.R .n° 1/2005 (comma 3 dell’art:32 e comma 3 dell’art:34) in quanto in contrasto con il ’Codice dei beni culturali e del paesaggio’ (Dlgs 42/2004)….e questo confermando in qualche modo la giustezza di quelle nostre osservazioni.

La Corte ha sostenuto, infatti, che la disposizione legislativa regionale – il riferimento è al terzo comma dell’art. 34 della LR n° 1/2005 – sottrae “la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, al quale deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori”.

Inoltre la Corte ha argomentato che l’art.135 del “Codice” è “tassativo, relativamente al piano paesaggistico, nell’affidarne la competenza alla Regione”, che il successivo articolo 143 elenca dettagliatamente i contenuti dello stesso piano e che l’articolo 145 definisce i rapporti con gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province “ secondo un modello rigidamente gerarchico ( immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità di introdurre ulteriori previsioni conformative che risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori individuati dai piani )”.

Infine la Corte ha concluso che la legislazione regionale non può porsi “in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela non derogabile”.

Il nuovo PIT è figlio della LR 1/2005 e per questo lascia ancora irrisolti la precisa argomentazione della Corte Costituzionale e l’adeguamento alle norme del Codice della L.R. stessa.

Anche rispetto a questo strumento applicativo della pianificazione territoriale (ancora in bozza) una valutazione intellettualmente onesta deve considerare la complessità e la contraddittorietà della proposta.

Se lo consideriamo dal punto di vista strettamente disciplinare e accademico, il PIT (ultima formulazione finora conosciuta è quella del 15 dicembre 2006) si presenta, nel suo complesso, dal Quadro Conoscitivo, al Documento di Piano, alla parte normativa, assai ricco, stimolante, culturalmente aggiornato: basta scorrere gli indici ed esaminare l’articolato per rendersi conto della impostazione interdisciplinare delle argomentazioni. Di questo dobbiamo dare atto e tenere conto.

Diversa è la valutazione del PIT se lo si considera dal punto di vista dell’efficacia e dell’incidenza concreta nella pianificazione e nel governo del territorio regionale, sotto il profilo della salvaguardia attiva e di un coerente sviluppo realmente sostenibile.

Innanzitutto e per evitare equivoci, ribadiamo subito che il nuovo PIT (nella bozza attuale) non presenta i contenuti di piano paesaggistico prescritti al capo III, art. 143 e seguenti del DLGS 42/2004 "Codice dei beni culturali e del paesaggio" .

Il “giallo” dell’art. 31 (bozza del 15 dicembre 2006) appare irrisolto: il piano paesaggistico, che secondo lo stesso articolo sarebbe stato già elaborato congiuntamente da Regione, Ministero dei Beni Culturali, Ministero dell’Ambiente, si presenta all’improvviso come un fantasma e come tale subito si dilegua. Rileviamo inoltre che la formazione del piano paesaggistico non è in alcun modo richiamata in altri elaborati del PIT; in particolare il piano paesaggistico non è ricompreso nella tabella che indica i piani e i programmi regionali da attivare.

A ribadire questo indirizzo, la disciplina del PIT si limita a stabilire che la Regione provvede alla implementazione progressiva della disciplina paesaggistica anche attraverso accordi di pianificazione con le Amministrazioni interessate e mediante la successiva acquisizione delle determinazioni dei Ministeri per i BB. CC. e dell’Ambiente.

Altra cosa quindi rispetto all’intesa di cui all’art. 143 del “Codice del paesaggio” che richiede che, in tale intesa, sia “stabilito il termine entro il quale deve essere completata l’elaborazione del piano (paesaggistico).

Così operando la Regione Toscana testimonia di voler continuare ad operare all’interno del proprio indirizzo di lavoro che è stato attivato per dare attuazione alla Legge Galasso: quello di non procedere alla formazione di una specifica disciplina per il paesaggio!

Ma così operando…. la Regione Toscana non soddisfa un preciso obbligo di legge.

A oltre due anni dall’entrata in vigore del “Codice Urbani” si è forse persa un’occasione per integrare organicamente lo strumento di pianificazione territoriale con il piano paesaggistico. Questa mancata integrazione pone ancora una volta problemi di efficacia rispetto ai contenuti dei due strumenti, ai tempi e ai modi di attuazione.

Nel PIT viene consolidata, anzi esaltata, la pratica toscana della collaborazione pattizia tra Regione ed Enti Locali che si manifesta nella paziente ricerca della convergenza verso comuni obiettivi. Anche l’interesse regionale – comprensivo di quello in materia di paesaggio – è esercitato nel quadro di questa cooperazione limitandosi ad essere un momento della filiera delle responsabilità inter-istituzionali.

Eppure questo modello ha mostrato segni evidenti di mancata efficacia nel governare, nell’ottica di uno sviluppo sostenibile, le trasformazioni urbanistiche e territoriali; in particolare quelle che vengono ad interessare aree paesaggisticamente rilevanti quali sono quelle agricole che connotano significativamente l’identità della Toscana.

Questo è implicitamente riconosciuto dal “Documento di Piano”, dove trattando del patrimonio collinare ( ma non solo, anche delle realtà rurali di pianura e di valle) segnala che questo patrimonio, oggi, è a forte rischio di erosione in quanto assistiamo ad una pervicace e diffusa aggressione di questi territori da parte della rendita immobiliare che agisce indifferente ai luoghi alterando così le caratteristiche strutturali dei luoghi stessi.

A questa corretta analisi non corrisponde nel PIT l’individuazione di scelte conseguenti che abbiano efficacia nella riduzione del rischio. Sostanzialmente ci si limita a dare buoni consigli, ad esortare l’adozione di linee di intervento più attente alle specificità dei luoghi….e ad auspicare che, dove necessario, gli strumenti di governo del territorio (e cioè Piani Strutturali e Regolamenti Urbanistici comunali e, per quanto di competenza, i PTC provinciali) ridefiniscano, in coerenza con l’indirizzo regionale, le proprie acquisite opzioni pianificatorie.

In questo auspicio c’è il rischio, reale, che il nuovo PIT si riveli del tutto ininfluente a modificare – sia nelle quantità che nelle localizzazioni – le previsioni contenute negli strumenti di governo del territorio vigenti.

Non solo, ma questa ininfluenza si manifesta anche sulla formazione dei Regolamenti Urbanistici comunali da definirsi in attuazione di Piani Strutturali vigenti e sulle molteplici varianti ad essi.

Tornando allo specifico del nuovo PIT ed esaminando il “Documento di Piano” si riscontra una concezione del territorio e del paesaggio molto letteraria e poco “materiale”, una sorta di lunga premessa al Piano caratterizzata però da un taglio sostanzialmente economicistico, quasi espressione di una volontà di modernismo a tutti i costi.

Con la “rappresentazione del patrimonio comune”, con le “agenzie statutarie”, con lo “statuto del territorio toscano”, con una “agenda programmatica”, con le “scelte di indirizzo, condizioni, strumenti e procedure, metaobiettivi”, in sostanza con un insieme formalmente articolato, elegante, di buoni consigli….. riteniamo non sia possibile governare efficacemente il territorio, né a livello regionale, né a livello provinciale, né a livello comunale. Il governo viene lasciato sostanzialmente alla “capacità politica” dei politici-amministratori ai vari livelli istituzionali. E’ immaginabile la forza che potranno avere i “buoni consigli” di fronte al potere economico grande e piccolo: dalla SAT dell’autostrada tirrenica, alla Fondiaria della piana fiorentina, al piccolo speculatore immobiliare di paese?

Nel PIT non si riscontrano, anzi si rifiutano nettamente, le definizioni di quantità, di localizzazioni, di perimetrazioni, definite un po’ sprezzantemente “zonizzazioni” e sostituite da “sistemi territoriali funzionali”. Il concetto di “sistema territoriale funzionale” ben esprime la complessità dei diversi ambiti, ma la pianificazione e il governo del territorio rischiano di diventare concetti evanescenti di fronte alla pressione dei poteri forti.

Innovazione, sussidiarietà e autonomie locali, patto fra i diversi livelli di governo, governance, costituiscono concetti e lessico che percorrono tutto il documento.

Perfino la definizione di “obiettivi del piano” sembra essere troppo “vincolante”, pertanto vengono indicati “metaobiettivi” con l’evidente scopo di proporre un piano non rigido, duttile, elastico, che non “ingessi” il territorio, per usare un’espressione cara ai settori economico-politici che aborrono i “lacci e lacciuoli” di una politica di programmazione-pianificazione. Dove va a finire quel “senso del limite” giustamente affermato e conclamato?

Rispetto poi alle misure di salvaguardia che dovrebbero scattare all’approvazione del PIT, consideriamo che, nella definizione dei regolamenti urbanistici in attuazione dei piani strutturali vigenti, è facoltativa l’applicazione delle disposizioni contenute nel PIT e comunque è lasciata alla singola Amministrazione comunale la verifica della congruità delle proprie previsioni alle prescrizioni del PIT.

Nella normativa del PIT emerge una concezione che vede il territorio e il paesaggio essenzialmente come fattori costitutivi del sistema economico: il territorio inteso come patrimonio ambientale, paesaggistico e culturale è presente, ma sembra essere quasi un corollario del sistema economico.

E le aree economicamente deboli e in cui scarsa è l’attività edilizia sono trascurate dal documento regionale: si consideri che nella struttura del territorio toscano non è compresa la montagna che presenta proprie peculiarità sociali, territoriali e paesaggistiche e pertanto non può essere ricondotta all’interno della schematica dizione del lemma di “universo rurale della Toscana”. Si consideri il significativo ruolo che hanno le Alpi Apuane, la Dorsale Appenninica e l’Amiata nel connotare l’identità toscana e che in questo contesto sono localizzati due Parchi nazionali (Appennino Tosco-Emiliano e delle Foreste Casentinesi) e uno regionale (Alpi Apuane).

La “moderna Toscana rurale” che costituisce il corpo del paesaggio e dell’ambiente toscano sembra essere un mero complemento delle “città della toscana”.

Le “invarianti strutturali” sono indicate e descritte in una elencazione che ne evidenzia tanto la complessità quanto il rifiuto di scelte definite, quindi emerge la difficoltà di gestione concreta e vincolante da parte della pubblica amministrazione.

Un esempio: fra le invarianti strutturali rientrano anche i siti UNESCO e le ANPIL. Il “caso Monticchiello” e le decine di altre “villettopoli” ed “ecomostri” che sono diventati concreti anche se sorgevano in territori indicati come invarianti strutturali. Se poi si considera che il territorio attorno al centro storico di Monticchiello, e tanti altri, è anche collinare ..... e le colline sono anch’esse indicate nel PIT come “’invarianti strutturali”, allora qualcosa non torna in tutta questa catena di riconoscimenti di valore, di tutele e di controlli.

Altro esempio: le risorse del territorio rurale come possono essere definite anch’esse fra le “invarianti strutturali” a fronte delle devastazioni del territorio rurale maremmano da Grosseto a Civitavecchia che sarebbero prodotte dall’autostrada tirrenica voluta dalla Regione Toscana? E, sempre rispetto allo stesso esempio, come la mettiamo con quanto indicato all’art. 56.9 “la realizzazione di nuove infrastrutture è consentita quando le alternative di utilizzo o riorganizzazione non siano sufficienti e previa valutazione integrata degli effetti”? Dove sono la valutazione integrata e l’analisi costi-benefici applicate ai progetti presentati a partire dal 2000: il progetto ANAS di messa in sicurezza dell’Aurelia e quello autostradale proposto dalla SAT?

Si rileva che nella ‘bozza’ di PIT non si riscontrano né azioni, né efficaci disposizioni, né l’individuazione di strumenti e/o di procedimenti finalizzati a contrastare – al di là delle belle parole– la crescita edilizia diffusa e dispersa nei mille rivoli che portano alla rozza occupazione di significativi paesaggi toscani.

Questo in particolare si manifesta per quegli ambiti dove il fenomeno della diffusione urbana e della dispersione insediativa si manifesta con maggiore intensità: nel sistema policentrico della Toscana ( Firenze-Prato-Pistoia-Lucca e Firenze-Empoli-Pontedera-Pisa) e nel sistema della costa nelle sue diverse articolazioni.

Manca una chiara, precisa ed esplicita scelta che persegua la conservazione attiva e l’accrescimento delle dotazioni ambientali proprie di questi vasti territori. Si ritiene che la disciplina del PIT debba contenere una precisa ed efficace disposizione – che produca effetti anche in regime di salvaguardia – che esplicitamente richieda, per questi territori, l’individuazione delle discontinuità di valenza territoriale e di quelle insediative e una disciplina volta al loro mantenimento al fine di garantire la qualità ambientale dei contesti considerati.

A seguito di quanto sopra premesso e descritto, con questa nota siamo ad osservare e richiedere:

Che la normativa regionale in materia paesaggistica e del territorio e in particolare la L.R. 1/2005 (assieme alla strumentazione conseguente e in particolare la L.R. 26/2006) sia integralmente e legittimamente adeguata a quanto prescrive il Codice del Beni Culturali e del Paesaggio (D. lgs. 42/2004 e succ. modifiche) sia per quanto concerne la sub-delega ai Comuni che l’aspetto particolare della composizione delle Commissioni di Programmazione e quelle di Controllo (v. allegato 1);

Che la scelta regionale di inserire il Piano Paesaggistico all’interno dello strumento del PIT non debba avvenire a scapito della cogenza, dell’efficacia e della dettagliata normazione della tutela paesaggistica perché, come ha ribadito la Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata “il paesaggio va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”;

che la ‘bozza’ di PIT manca dei contenuti e, soprattutto, delle efficacie che il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” richiede alla disciplina paesaggistica regionale comunque questa venga denominata; pertanto la disciplina paesaggistica del PIT al momento conosciuta potrebbe correttamente configurarsi come documento contenente le ‘linee guida’ regionali per poi procedere alla elaborazione del piano paesaggistico (comunque lo si voglia denominare) attraverso le collaborazioni e le intese di cui all’art. 143, comma 3, del Dlgs 42/2004. Ma questo dovrebbe essere esplicitato con chiarezza nel documento.

che il PIT dovrà contenere una precisa disposizione che con chiarezza garantisca la conservazione attiva e l’accrescimento delle dotazioni ambientali del sistema policentrico della Toscana centrale e del sistema della costa anche attraverso il mantenimento delle discontinuità territoriali ed insediative presenti in questi contesti.

che il PIT dovrà contenere reali misure di salvaguardia attraverso prescrizioni aventi diretta efficacia oltre che per la realizzazione di interventi puntuali anche sulla formazione sia degli strumenti urbanistici attuativi che dei Regolamenti Urbanistici da definirsi in attuazione di Piani Strutturali adottati precedentemete all’entrata in vigore della nuova disciplina. L’accertamento comunale della verifica di coerenza con le direttive e le prescrizioni del PIT dovrebbe essere equiparato, in regime di salvaguardia, agli atti urbanistici e come tale da sottoporre a pubblicazione e poter essere oggetto di osservazioni.

si ritiene che il PIT non debba introdurre “meccanismi perequativi” alla scala territoriale e alla qualità del paesaggio in quanto l’attivazione di questi meccanismi “che consentano il trasferimento delle sollecitazioni all’urbanizzazione in aree diverse da quelle di maggior pregio o di maggior fragilità ambientale” (come si esprime il ‘Documento di Piano’ nel trattare della conservazione attiva del valore del patrimonio “collinare”) porta inevitabilmente a dover riconoscere tali ‘sollecitazioni’ (immobiliari) e a dare ad esse una qualche risposta. Così operando si rischia di vulnerare il principio fondamentale – in più occasioni richiamato dalla Corte Costituzionale – che i vincoli ambientali e paesaggistici non sono indennizzabili. Il PIT dovrebbe stabilire con chiarezza che il paesaggio costituisce un valore e una qualità non negoziabile.

che nella ‘bozza’ di PIT manca la montagna quale elemento fondante e strutturale del territorio e del paesaggio toscano

Si ritiene inoltre che quanto fino ad ora contenuto nella pur complessa articolazione del PIT (sia per quello che concerne il Documento di Piano, il variegato Quadro Conoscitivo e soprattutto la Disciplina di Piano) ci sembra ben lontano dai caratteri di una precisa normativa quale quella prescritta dal Codice .

Ribadiamo che la tutela paesaggistica non può essere gestita alla scala comunale, e che scempi come quelli, emblematici, di Monticchiello (ma in realtà sparsi in tutto il territorio regionale) sono il frutto di autorizzazioni comunali e delle Soprintendenze locali e che se vogliamo evitare per il futuro questi pessimi risultati è indispensabile e urgente una precisa e sovraordinata assunzione di responsabilità alla scala regionale.

In calce è scaricabile il testo completo di appendici. I documenti del Piano d’inquadramento territoriale della Regione Toscana sono scaricabili qui

Contributo di Giorgio Pizziolo al Convegno di Italia Nostra: Dopo Monticchiello, paesaggio toscano da salvare: ripensare al governo del territorio, Firenze 9 dicembre 2006

Il Pit, com'è noto, rappresenta nell'organizzazione normativa delle leggi sul "governo del territorio" della Regione Toscana il momento regionale ed in esso appunto vengono definite le linee, le scelte e gli indirizzi delle politiche territoriali regionali. Tale Piano è ormai in una fase di elaborazione quasi definitiva.

Questa versione del Pit, come risulta dai documenti finora apparsi, ci desta gravi preoccupazioni.

Quello che maggiormente ci preoccupa è l'impianto stesso del documento, la sua filosofia, a cominciare fino dal PUNTO 1 (e seguenti ) del "Documento di Piano", che ne rappresenta la relazione programmatica. Vi si afferma infatti che la Toscanasta bene, ma è in una fase di stagnazione e che di fronte si hanno due alternative: o la conservazione dei vantaggi acquisiti, o la sviluppo verso l'innovazione e la crescita.

Scelta, ovviamente, la seconda opzione, si individua nel territorio e nello "stile di vita" toscano sul territorio stesso, la chiave per la crescita: "il territorio come fattore della crescita".

Anzi, questo porterebbe alla possibilità di inserire la Toscana nella competizione della globalizzazione, "sviluppando la competitività del sistema", in particolare della "Città Toscana", ovvero della "Città regionale" composta dalla "rete di città", alla quale sarebbe complementare la "moderna ruralità".

Questo ragionamento, peraltro non giustificato da una documentazione e da una ricerca adeguate, è assolutamente inaccettabile. Già al primo punto si può fare notare che si sarebbe potuto considerare anche una terza alternativa, quella di una dinamica evolutiva della condizione toscana che si sviluppasse dal suo stesso interno. Ma questo avrebbe contrastato con l'idea di sfruttare il territorio, sia fisicamente, sia nelle sue caratteristiche più strutturali e più "intime", compreso il rapporto con i suoi abitanti, sull'altare della globalizzazione.

L'idea di piegare quanto di più profondo e di più originale c'è nell'esperienza toscana, sia quella storica che quella attuale, ad un disegno di competizione globale, senza che i suoi cittadini siano nemmeno informati, negando invece automaticamente la possibilità di ritrovare nel territorio, non un fattore esterno di valorizzazione, ma suoi propri valori che portassero la Toscana a percorre una propria originale esperienza, è operazione terribile, politicamente estremamente pesante e sul medio termine, suicida.

Si tratta di un'appropriazione indebita del territorio toscano, dei suoi valori e della sua storia, di un'appropriazione di quanto di più sacro possiede la popolazione, per di più fatta "per decreto" pianificatorio.

Si ha un bello scrivere in varie parti del documento che il Territorio è considerato un "bene pubblico", per poi finalizzarlo meglio alla competizione globale. Questa operazione è tanto più sottile in quanto molte parti del testo, se estrapolate, potrebbero anche essere condivisibili, ma proprio per questo l'insieme fa del testo complessivo un elemento di "perfidia" strategica.

Così anche lo slogan del Pit "reddito non rendita" non significa altro che una maniera diversa di mettere sul mercato il territorio e tutti i suoi valori, compresi quelli immateriali ma qualitativamente significativi . Certamente non il mercato grossolano della rendita, ma quello più lucrativo dell'innovazione e delle merci immateriali.

Con tutto che poi, quando si va a vedere la normativa o si vola nelle "meta/astrattezze" (i "metaobiettivi dell'agenda statutaria del Pit", "l'agenda strategica del Pit", e simili)) o si ritorna bruscamente al pratico, come del resto suggerisce il secondo motto della nuova pianificazione toscana "quando si può, si fa", che se non capiamo male, è come dire "liberi tutti!".

Questa considerazione è pesantemente aggravata dal fatto che nei regolamenti urbanistici dei comuni si sollecita esplicitamente l'intervento dei privati, fin dalla fase di redazione del Regolamento stesso, così che in qualche modo ci ritroviamo il privato non solo legittimato ad intervenire sulla redazione urbanistica, ma di fatto cooptato nelle scelte sulla città. Del resto il comune di Firenze sempre all'avanguardia delle "innovazioni" urbanistiche ci aveva già mostrato il coinvolgimento diretto di Ligresti nella definizione delle decisioni urbanistiche sulla Fondiaria….).

Qui si chiude il cerchio di questa nuova urbanistica toscana che da un lato vede il territorio subalterno e strumentale alle scelte programmatiche (e non già come valore proprio in un coordinamento di scelte con la programmazione stessa), e dall'altra vede la solita subalternità della popolazione e degli interessi comuni alle scelte dei poteri forti e della politica delegata, senza il benché minimo spazio lasciato alla "Partecipazione", completamente assente dal documento, dalle norme e da qualsiasi riferimento significativo.

Così come assenti, nel loro significato reale e non nelle formule di rito, sono gli aspetti ambientali (la montagna non è mai citata, come se non fosse, per la Toscana, la sua ossatura fondamentale ed una straordinaria risorsa), così come è assente ogni idea ormai indispensabile di "processualità" di Piano, con la stessa VAS (la valutazione ambientale strategica richiesta dal governo europeo) sostituita in Toscana da una Valutazione Integrata, tutta schiacciata sulla pianificazione ordinaria e senza alcuna valenza partecipativa, che così non può avere nessun effetto di retroazione sistemica in una procedura processuale.

Altro che "Territorio come bene comune", qui il territorio è "delegato" e funzionale alle manipolazioni dell'innovazione e dell'eccellenza, che spesso, come poi è successo a Monticchiello ricadono, invece, proprio in quella "rendita" che si diceva di volere evitare.

Si tratta di un progetto "neosviluppista" e di un "riformismo neoliberista" che vorrebbe sottrarre alla popolazione toscana alcuni dei suoi beni più preziosi, il suo territorio e , più che altro, il suo modo di viverlo e di gestirlo. Non credo che la popolazione sia disponibile per questa mercificazione estrema.

Post scriptum

E non ci si venga a dire che non esistono alternative. Riteniamo viceversa che il territorio toscano ed i suoi abitanti siano ancora, nonostante i rischi di una pesante infiltrazione speculativa, nella condizione di sviluppare modelli economici e di insediamento ecologico del tutto originali, probabilmente verso la realizzazione di prospettive di costruzione di Bioregioni, integrate sia socialmente che ambientalmente che territorialmente.

PARIGI - Forse nessuno avrebbe mai pensato che una grande strada commerciale, per quanto prestigiosa ed evocativa, potesse ambire un giorno a diventare monumento nazionale, protetta e tutelata come fosse una cattedrale o un museo ottocentesco. Eppure è quello che sta per accadere agli Champs Elysées.

L´immenso viale che collega place de la Concorde con l´Arco di Trionfo diventerà presto intoccabile. Senza il permesso del governo sarà difficile spostare un´insegna luminosa, installare un tavolino, cambiare gli orari di apertura dei negozi. Impossibile poi entrare nel club delle fortunate boutiques domiciliate agli Champs Elysées se lo Stato francese non sarà d´accordo. Lo ha capito a sue spese il gigante dell´abbigliamento giovanile H&M. Il gruppo svedese si è visto rifiutare la licenza dopo aver già versato 20 milioni di euro per il contratto di affitto del numero 88, nella parte centrale del viale. La commissione pubblica ha spiegato che ci sono ormai «troppi negozi di vestiti» nella strada: su 332 esercizi commerciali, il 39% vende infatti vestiti. «Gli Champs Elysées rischiano di banalizzarsi» è stata la conclusione dei funzionari. E il ministro del Commercio, Renaud Dutreil, ha promesso un decreto: «Da gennaio sarà possibile per le autorità locali controllare i passaggi di licenze. Dobbiamo proteggere gli Champs Elysées».

La misura era nell´aria da tempo, da quando la speculazione immobiliare ha trasformato definitivamente la celebre strada che nel Settecento portava re e regine verso la campagna, ornata dal giardiniere di Versailles André Le Notre, celebrata da Napoleone che volle costruirvi in cima l´Arco di Trionfo e dalle passeggiate della nascente borghesia, poi infine delle classi operaie trasportate nel salotto della capitale con il metro. Simbolo dell´orgoglio repubblicano e della festa popolare - qui si tiene la parata del 14 luglio, l´arrivo del Tour de France - gli Champs Elysées sono diventati uno dei luoghi più costosi del pianeta. In pochi anni, gli affitti sono quasi quintuplicati, passando da 2 fino a 10mila euro al metro quadrato. «Una follia» commenta la socialista Lyne Cohen-Solal, responsabile del commercio al Comune di Parigi.

L´avenue ha così cambiato velocemente identità, perdendo l´antica vocazione culturale (il nome significava proprio «campi delle isole felici») a beneficio dell´animo più commerciale. Dal 1996 sono scomparse dieci sale cinematografiche, tradizionale attrazione della strada. L´anno scorso, il caro-affitti ha costretto alla chiusura l´Ugc Champs Elysées sostituito da un megastore della Nike. E adesso l´Ugc Triomphe e Normandie minacciano di andarsene: «Il canone richiesto supera il guadagno che possiamo realizzare con gli spettatori» spiega il direttore generale di Ugc, Hugues Borgia. Anche le librerie-discoteche Virgin e Fnac temono di dover sloggiare come molti ristoranti, l´ultimo è stato il Cascades, al quale subentrerà il negozio di vestiti Esprit.

«Il predominio delle boutiques, di uffici e banche segna la fine dell´animazione serale» ha scritto Le Monde. «Senza cinema e ristoranti la vita si spegne al tramonto, con la chiusura delle vetrine» sostiene il quotidiano che ricorda come il boulevard Saint-Germain - altra celebre passeggiata della vita culturale parigina - sia già stato in parte «ucciso» da questa mercificazione. All´opposto, il giornale Le Figaro ha stigmatizzato l´intervento pubblico che come nell´Ancien Regime «soffoca» la libertà economica e «disprezza» il dinamismo commerciale. Il nuovo palazzo di Louis Vuitton affronta tuttora una battaglia legale per continuare l´apertura domenicale, il palazzo occupato da Zara è stato sottoposto a «umiliazioni fiscali» e anche Adidas ha chiesto aiuto ai migliori avvocati per riuscire a inaugurare la sua boutique. «Le autorità vogliono trasformare Parigi in un museo» conclude Le Figaro. Ma sulla difesa dei due chilometri dell´avenue persino le divisioni politiche sembrano scomparire: la giunta socialista di Parigi ha siglato un accordo con quella di destra che governa l´ottavo arrondissement. E sull´intesa bipartisan c´è il sigillo del presidente della Repubblica Jacques Chirac, secondo cui sarebbe «terribile» vedere snaturati gli Champs Elysées. E pazienza se qualche imprenditore protesterà.

Postilla

In Italia, nel 1985, la legge Mammì diede i comuni un analogo potere per i centri storici. Applicata in più di un comune (tra cui Venezia), fu rapidamente disapplicata quando le "nuove sinistre" giunsero al potere, deregolamentando e liberando il mercato da "lacci e lacciuoli"

Chi svolge funzioni delicate sa che di lettere anonime si intasano le buche, di telefonate nel cuore della notte sono pieni i brogliacci delle segnalazioni di polizia e carabinieri. La stessa Mormino ha una tutela perché minacciata in passato quando mise mano ai turni di Arte e Vita, la società, poi Beni Culturali spa, che si occupa della custodia dei siti. La sua incolumità fu messa a repentaglio fino a sfiorare l´aggressione fisica.

Ma questa sembra una storia ben più grave, proprio per l´entità della minaccia. Chi, come un soprintendente, agisce quotidianamente su una trincea di legalità a difesa dei beni culturali e paesistici, sa di dovere fare i conti con disegni illeciti mandati per aria con un sì o con un no. E gli ultimi, i no, sono decisamente tanti qui a Palermo. Le competenze di un soprintendente sono smisurate. L´ufficio, in definitiva chi lo dirige, dice la sua non solo sull´attività edilizie nel centro storico, già di per sé un settore difficile. Ma, intervenendo a tutela del paesaggio, a difesa del patrimonio naturale, è nei fatti un baluardo contro ogni tentativo di scempio. In verde storico, per esempio. Minacciato da Mezzomonreale a Ciaculli fino a fondo Raffo da una teoria di costruzioni che le armi spuntate dei controllori intercettano spesso in ritardo.

La soprintendenza è anche un punto di riferimento, restando a Palermo città, sulla questione di Pizzo Sella come sulla riperimetrazione della riserva naturale di Capo Gallo. Un atto che equivale a un no definitivo su ogni mira speculativa nell´ultimo scampolo di natura incontaminata all´interno del perimetro cittadino. Ancora la soprintendenza è di mezzo nella storia del parcheggio sotterraneo davanti al palazzo di Giustizia, dopo la scoperta di resti che riconducono ai vecchi bastioni della città.

Stesse competenze, stessi no, sullo scacchiere provinciale, terreno di scontro di interessi tra i più disparati, quasi sempre in danno della costa o della natura. Come per tutto il litorale, basti pensare a Bagheria, Santa Flavia e Campofelice di Roccella dove si è ripreso a costruire a tutto spiano. Insomma, non c´è faccendiere, palazzinaro, speculatore, imprenditore rampante e senza scrupoli che non vada a sbattere sulla soprintendenza nell´esercizio della propria attività. Magari dopo aver bypassato agevolmente gli uffici tecnici comunali.

In mezzo a tante pratiche, a tanti delusi e scontenti per l´intransigenza della soprintendente c´è chi ha provveduto a farle recapitare quel messaggio sinistro.

La politica sembra aver compreso che non è questione da sottovalutare. Tuttavia ai proclami sulla solidarietà alla Mormino occorre che si accompagnino gesti coerenti. Troppo spesso, in fondo a un iter permissivo, a un procedimento che corre veloce, in nome di una snellezza che talvolta fa troppi sconti al rigore, la soprintendenza si trova da sola a dire quei no che dovrebbero essere corali. Quando con gli strumenti, pure ideati per rendere agile il Moloch burocratico, non si tenta di aggirare i no dei custodi dei beni culturali e paesaggistici.

Nello stesso disegno che vuole a capo delle soprintendenze qualunque funzionario di rango della pubblica amministrazione, a prescindere dal grado di competenza specifica, c´è il tentativo di rendere meno rigido il sistema dei vincoli, meno ineluttabile lo sbarramento costituito dagli uffici. Ritorna, periodicamente, il tentativo di piegare alle convenienze della politica anche quelle decisioni. Pur all´interno di un apparato burocratico che, soprattutto ai piani alti, difficilmente anche per questioni di mera sopravvivenza, rimane insensibile ai venti cangianti della politica, Adele Mormino di no ne ha detti parecchi. E c´è da stare in guardia perché questa minaccia non sia anche l´occasione per una rimozione ammantata di protezione.

Il debutto della Ztl nel rione Monti è stato controverso. Troppo poche le ore per i residenti. Danno gravi, invece, per gli esercenti. Il presidente del Primo Municipio, Giuseppe Lobefaro, promette che andrà avanti, includendo pure Testaccio, di notte quasi impraticabile. Piano piano va riprendendo quota l'idea che non si può ridurre la città storica — la più grande (e la più bella) del mondo — a semplice «Divertimentificio» e che far diminuire la sua popolazione ancora, sotto le 100 mila unità, sarebbe la morte stessa del tessuto connettivo che la mantiene viva.

Dal 1951 al 2001 gli abitanti di Monti sono precipitati da 46.630 a 13.751 (-70,5 per cento, un po' più della media del centro).

Ancora un po' e resteranno solo dei «panda».

La Consulta delle associazioni di tutela, con grande fatica, raccoglie dati, denunce, proposte.

Dal I˚Municipio e dal Campidoglio vengono segnali di ascolto e alcune decisioni positive. Chi passa per la disastrata zona di Tor Millina, può constatare che la «mangiatoia» continua è stata rimessa un po' in riga, le file di tavolini sono state (quasi tutte) assottigliate e non riducono più le strade ad un budello. Dovere di un critico del disordine urbano è anche quello di riconoscerlo.

Lobefaro ha anche spedito ai gestori di locali affacciati sulle piazze storiche la lettera di disdetta per evitare l'automatico rinnovo delle concessioni di suolo pubblico e per riportare i tavolini nei limiti dei piani di quella «massima occupabilità».

Risposta immediata dei gestori: una diffida allo stesso Lobefaro per 18 milioni di euro di danni e la minaccia di licenziare centinaia di dipendenti.

Questa è la «cultura» contro la quale si scontra ogni iniziativa volta a restituire un minimo di ordine nell'uso della città e dei suoi spazi. Si badi bene: nell'interesse dei gestori stessi i quali non capiscono che la «mangiatoia» ininterrotta trasforma Roma in un indecente bazar e allontana il turismo che spende e soggiorna, favorendo invece quello mordi-e-fuggi. A questa logica negativa sembra volersi sottrarre la Confesercenti la quale, per bocca del responsabile nazionale Centri storici, Cesare Campopiano, propone un «patto sul decoro», e quindi sull'uso dei quartieri centrali, alle associazioni dei residenti. Sin qui tutto ciò che è pubblico è stato considerato a disposizione del primo privato che se ne impossessa. Piazza delle Coppelle è stata per anni un allegro e utile mercato al mattino e nelle altre ore un'area silenziosa di sosta, di passeggio, di attraversamento. Da qualche anno, ormai, appena i banchi vengono smontati, l'intera piazza sparisce e diventa, in toto, ristorante all'aperto.

Gli abitanti e i passanti non hanno più un centimetro di suolo che sia loro. Se si indulge nel «lasciar fare», è difficile, dopo, riportare le cose a civili convivenze e compatibilità. Gli arrivi negli alberghi romani sono stati nel 2005 quasi 8,3 milioni (più stranieri che italiani), con 19,8 milioni di presenze, e quindi 2,6 giorni di permanenza media. Un patrimonio che esige più attenzione, pubblica e privata, servizi migliori, e non caos e trasandatezza.

I «Tre Magi» entrano senza bussare e buttano sul tavolo del sindaco una mappa in cui al posto dei campi di barbabietole si vedono alberghi, case, campi da golf e piste per auto: un parco disneyland. Il sindaco, sorpreso dal magico potere di trasformare barbabietole in oro, alza gli occhi e chiede il perché di tanto ben di Dio… La risposta, paradossale, non si fa attendere: «Serve per fare il nuovo stadio…». Il Sindaco, subito non coglie il nesso, ma poi ricorda che il Bologna è retrocesso in B, che la società era in brutte acque e che i Tre Magi generosamente l'hanno acquistata. E a tutti vengono alla mente le polemiche che si scatenarono quando un pacchetto simile fu proposto a un altro paese al di là di Bologna perché, data l'attività terrena dei Tre magi, si era diffuso il dubbio (o la certezza?) che il povero Bologna calcio fosse solo la scusa per un progetto pensato, subito dopo o subito prima poco importa, del suo acquisto. Il sindaco, che non finisce di stupirsi, nota che l'affare non è proposto dalla società del Bologna Calcio bensì da una società dal nome strano, certamente di comodo, per loro. Come dire… al Bologna Calcio i soldi forse arriveranno, ma solo di sponda, dopo vari giri e se tutto va bene; se l'affare funziona, se non vendono ad altri, ecc. Il solito giro di società già visto in altri luoghi. Ancora perplesso il sindaco dice «vedremo» poi vede al loro fianco uno dei proprietari delle terre interessate felice per la pensata dei Tre che lo liberano dalla fatica di coltivare barbabietole. Uno che conosce bene perché fa parte del consiglio del paese e che dice che bisogna fare presto perché il «miracolo dei Tre Magi» può svanire se il consiglio del paese non decide entro il 2007. E subito nasce la pensata di convocare il Consiglio e il popolo per sentire il loro parere che, si pensa, non potrà essere contrario a un miracolo così evidente di cui nessuno aveva mai parlato, anche se qualcuno ci aveva sperato. Non c'è traccia di una tale ipotesi di trasformazione nei piani di sviluppo del territorio provinciale che con tanta cura e per tanti anni sindaci, tecnici e consiglio locale e provinciale avevano discusso per quella zone, spesso allagate, lontane da autostrade e ferrovie. I Tre non hanno alcun titolo per lanciare quella mappa sul tavolo, se non il loro potere magico. E non è poco di questi tempi, avranno pensato, visto che i Comuni sono presi per la gola e vedono con grande favore oneri di urbanizzazione e nuove Ici per fare funzionare i loro servizi. Ovunque: sussurri e grida, imbarazzo generale, timidi sussulti, richiami a precedenti, accettati e respinti, timori per il Bologna calcio, rifiuto allo spostamento dei tifosi. Preoccupazioni per il traffico? Spuntano una nuova ferrovia e nuove strade: «Tutto si può fare, piccola». Ma basta un'occhiata rapida alla mappa per vedere la stranezza del progetto: le aree di intervento sono come poligoni staccati l'uno dall'altro che si congiungono ai vertici: sembra un progetto disegnato con la logica delle proprietà fondiarie e non certo con la logica del progetto urbanistico.

È tutto molto strano: da anni questo modo di fare era alle nostre spalle e l'attività privata sempre più si misurava con i progetti di riqualificazione e di uso corretto del territorio sulla base della programmazione dei Comuni e della Provincia. Non siamo nelle praterie da lottizzare bensì in una regione molto edificata dove la collocazione di nuovi servizi e così pesanti come questi va programmata sulla base di criteri generali, prima che personali, pardon societari. Ed ecco il colpo si scena. Il sindaco convoca il Consiglio comunale aperto a tutti e consegna il microfono al capo dei Magi che lo terrà per tutta sera. Tra perplessità e applausi, il più costruttore tra i Magi fa una grande pensata: «Non è previsto nel Ptcp? Ma non c'è problema. Sulla base dell'articolo 40 faremo un accordo anche con la Regione e tutti i problemi saranno risolti». Magico?… O forse pensavano di essere entrati nella stalla prima dell'evento? Nei film più popolari a questo punto arrivano i nostri che con la tavola delle regole spiegano a tutti, e in particolare ai Tre Magi, che lo spettacolo pirotecnico è stato folgorante ma che passata l'ubriacatura serale e alla luce del giorno le cose saranno affrontate in punta di spada, pardon di penna, con la verifica di tutte le compatibilità partendo dalle previsioni della «mappa generale» che si è costruita nel rispetto delle nostre tradizioni di programmazione. Saremo anche poco fantasiosi noi terreni ma, come si dice, in queste terre di questi miracoli ne abbiamo visti pochi, e ci riteniamo fortunati.

Ugo Mazza, Consigliere regionale Ds

Titolo originale: The new New York – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nei suoi primi tempi, New York era città che guardava avanti. La sua griglia stradale fu progettata per un milione di persone in un’epoca in cui la popolazione arrivava a malapena a centomila. Il Central Park fu pensato 150 anni fa, in un acquitrino lontanissimo dal cuore di Manhattan, che era già downtown. La sotterranea fu realizzata cent’anni fa, quando gran parte di New York era ancora campagna. Ma la città aveva perso la sua capacità di visione circa cinquant’anni fa, scivolando in un processo di declino apparentemente inarrestabile.

La prova migliore di quanto siano migliorate le cose a New York è il fatto che il sindaco è tornato ad essere un visionario rispetto al futuro. Anche se le fortune della città hanno iniziato a riprendersi sotto la mano ferma del sindaco Rudy Giuliani negli anni ‘90, fino a soli cinque anni fa – quando hanno colpito i terroristi – era facile temere il peggio per New York. Ma questa settimana Michael Bloomberg, succeduto a Giuliani immediatamente dopo gli attacchi, ha reso pubblico un piano venticinquennale di miglioramento della città. Se attuato, potrebbe avere impatti superiori a quelli dei suoi due grandi costruttori: Fiorello La Guardia, sindaco negli anni ’30 e ‘40, che coordinò grandi lavori pubblici realizzando anche gli aeroporti, e Robert Moses, dominatore dell’urbanistica a cavallo della metà del XX secolo, con la costruzione di strade, ponti, gallerie.

Secondo Bloomberg, New York compete – in particolare con Londra – per essere una delle grandi città del XXI secolo, e attirare una elite globale sempre più mobile e ricca. Il suo piano si rivolge a quelle che considera le tre sfide principali da affrontare per la transizione. Primo, prevede che la popolazione di New York, già a livelli record, cresca di circa un milione di persone entro il 2030, sino a raggiungere i nove milioni. Secondo, le infrastrutture urbane – in gran parte vecchie di oltre un secolo – cadono a pezzi, e necessitano di interventi. Terzo, la città deve diventare molto più verde.

Per trasformare New York in una “città sostenibile” Bloomberg ha fissato dieci obiettivi, che verranno verificati dal nuovo Sustainability Advisory Board composto da scienziati, studiosi, accademici, urbanisti e ambientalisti. Gli obiettivi comprendono una massiccio incremento nelle case economiche; la promessa che ogni newyorkese abiterà a dieci minuti a piedi da un parco pubblico; una modernizzazione dei trasporti pubblici, incluso prolungamento della metropolitana. Bloomberg vuole che New York abbia l’aria più pulita di qualunque grande città d’America, e ridurre le emissioni che contribuiscono al riscaldamento globale del 30% entro il 2030. Vuole rendere disponibile il 90% di fiumi, cale e baie per il tempo libero riducendo l’inquinamento dell’acqua e conservando gli spazi naturali.

Saggiamente, Bloomberg ha posticipato ad altro giorno, probabilmente in marzo, i dettagli su come verrà attuata questa sua visione. Non sarà a poco prezzo, e si dovranno reperire i fondi da qualche parte. L’influenza sulle casse federali del senatore Chuck Schumer e del deputato Charlie Rangel, ora che i Democratici dominano il Congresso, sarà d’aiuto. Lo stesso vale per una relazione più costruttiva con l’amministrazione statale, se il nuovo governatore Eliot Spitzer riuscirà a gestire Albany efficacemente come ha fatto con Wall Street. Per fortuna, le quotazioni dei titoli emessi dalla città sono migliori che mai, e gli alchimisti finanziari del municipio la scorsa settimana hanno raccolto 2 miliardi per un prolungamento della metropolitana nel West Side: un’impresa che prelude ad altri gesti creativi del genere.

Il piano si basa su cose che il sindaco Bloomberg ha già cominciato. Su gran parte della città sono state approvate varianti urbanistiche per consentire una migliore composizione di uffici (che sono di nuovo inferiori alla domanda), attività produttive e residenza. Si sono impegnati circa 4 miliardi per il completamento di una terza condotta per portare acqua in città, 1,6 miliardi costruire un assolutamente indispensabile impianto di filtraggio dell’acqua, e 13 miliardi per un intervento di modernizzazione scolastica più che mai ambizioso. Un’ex discarica, un tempo la più vasta del mondo, tra poco diventerà il parco più grande che si sia mai inaugurato in un secolo.

Migliorare il sistema di approvvigionamento energetico della città, e renderlo molto più verde, sembra di sicuro una battaglia fondamentale. Altra questione molto controversa è se, e come, introdurre una tariffa di ingresso anticongestione per le automobile, presumibilmente a partire dalla parte bassa di Manhattan. Bloomberg è un noto ammiratore della congestion charge di Londra. Dopo aver tolto il fumo dai bar della città, dovrebbe essere pronto per quella che forse è una sfida politica più impegnativa. Al momento, esita.

In generale comunque si tratta di un sindaco che ha fretta: e non soltanto perché, come corre voce, stia pensando di candidarsi alla presidenza. Il suo obiettivo è attuare la visione per la città nel modo più irreversibile possibile; perché è più che probabile, che dopo la fine del suo mandato nel 2009, la politica a New York tornerà ai vecchi e tristi orizzonti limitati.

Nota: per i veri appassionati qui la pagina web delle grandi promesse (f.b.)

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Titolo originale: Reducing the Cost of Congestion – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Rassicura, che il sindaco Michael Bloomberg non abbia chiuso del tutto le porte ad una tariffa sulla congestione, anche davanti a coloro che la chiamano scorrettamente tassa. Il sindaco e I suoi funzionari tecnici hanno senza dubbio osservato il successo di queste misure in città come Londra o Stoccolma, che hanno allentato gli ingorghi fissando una tariffa d’accesso per gli automobilisti alle strade più usate.

L’argomento a favore dell’esame di una tariffa sulla congestione ha avuto ulteriore impulso la scorsa settimana, con uno studio della Partnership for New York City che mostra come le strade intasate costino alla città 13 miliardi di dollari l’anno.

E quella cifra appare prudente per difetto. Il Department of Transportation federale, utilizzando dati del Texas Transportation Institute, calcola il costo del traffico nelle città di tutto il paese a un’incredibile cifra di 200 miliardi. E senza contare l’inestimabile valore del tempo e delle occasioni perse. Imprese e consumatori ci perdono quando beni e servizi non vengono distribuiti con efficienza, e ambiente e salute umana soffrono in modo grave l’aria inquinata.

Washington ora sta distribuendo fondi per finanziare studi che consentano alle città di individuare modi per allentare la congestione. Bloomberg deve approfittarne. Anche se i sondaggi mostrano come i newyorkesi desiderino un sollievo dal sovraccarico di traffico, una sperimentazione concreta della tariffa anticongestione potrebbe contribuire a stipulare un patto. É quanto accaduto a Stoccolma, dove i cittadini prima hanno esitato, poi dopo una sperimentazione di sette mesi hanno votato a favore della tariffa.

I pendolari di New York hanno i tempi di spostamento più lunghi del paese. Se non si trovano subito delle soluzioni, la situazione è destinata a peggiorare con l’aumento della popolazione, previsto di un milione di persone, a raggiungere i 9,2 milioni, neo prossimi 25 anni.

Lo studio Partnership propone altri dati interessanti. Se si diminuisse il traffico del solo 15%, si sostiene, potrebbero essere creati sino a 52.000 nuovi posti di lavoro. Si tratta di un obiettivo raggiungibile. A Londra, che impone una tariffa di circa 16 dollari agli automobilisti nel quartiere centrale degli affari, il traffico è stato ridotto del 17%. A Stoccolma, dove la tariffa varia a seconda delle ore della giornata, il traffico in centro è crollato del 25%.

I vantaggi si avvertirebbero in tutte e cinque le municipalità, a Long Island e New Jersey, dove lo studio ha rilevato che il traffico sulle strade più affollate verso Manhattan si sposta a meno di venti chilometri l’ora.

L’epicentro del garbuglio di New York è a Manhattan, a sud della 60° Strada. Ogni giorno della settimana entrano nell’area oltre 800.000 automobili. Circa un quinto di questi veicoli è soltanto di passaggio sulla direttrice fra New Jersey e Queens o altre destinazioni verso est.

Ma la cosa più incredibile è che oltre il 40% dei veicoli che si muovono nell’area occupato da una sola persona, il conducente. La tariffa sulla congestione potrebbe trasformare qualcuno di questi automobilisti in utente del trasporto pubblico, che riceverebbe anche il ricavato delle tariffe per migliorare il servizio della metropolitana, aumentare il numero degli autobus veloci e sostenere i traghetti a basso costo.

Chi è contrario alla tariffa sulla congestione –come alcuni proprietari di parcheggi che temono posti vuoti – sostiene che va contro i piccoli imprenditori, che possono non avere alternative al venire in città in auto. Altri esprimono perplessità riguardo agli abitanti della città che possiedono un’auto, e potrebbero aver bisogno di usarla. Ma il sistema può essere tagliato su misura per rispondere a queste obiezioni.

La discussione su come New York possa attuare un piano di tariffe di ingresso è meno importante, ora, del fatto di mantenere in gioco la sua possibilità. Bloomberg cerca modi per far crescere l’economia della città, ridurre le emissioni e migliorare la salute pubblica. Tutti questi obiettivi potrebbero essere raggiunti semplicmente allentando la congestione da traffico.

Nota: il citato caso di Stoccolma è raccontato con qualche particolare in questo articolo dallo International Herald Tribune; la bonifica urbana è affrontata comunque con ben altro piglio dalla RPA nel suo recentissimo piano integrato per Newark, appena al di là dell'Hudson (f.b.)

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«Abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c'erano. Abbiamo costruito villaggi fantasma e abbiamo reso fantasma i villaggi vivi. La "buona edilizia" può svilupparsi riqualificando i villaggi e i paesi esistenti perché vivano meglio tutto l'anno, perché i sardi ci possano lavorare e non semplicemente in funzione di quel breve periodo e di turisti che noi vorremmo invitare a conoscere la Sardegna più a fondo, fuori dall'enclave chiusa dei villaggi turistici».

Ho riportato per intero questo passo del discorso che Renato Soru, governatore della Sardegna, va facendo da tempo e che, in questa Italia del cemento, stupisce per chiarezza di visione, per antiveggenza, per risolutezza nel voler salvaguardare quanto di intatto c'è ancora nella sua isola, anche sulle coste più investite da massicce operazioni edilizie.

L’obiettivo strategico che sta perseguendo non a chiacchiere «bensì col più grande piano paesistico mai realizzato in Italia», come fa notare l'ingegner Edoardo Salzano, presidente del comitato scientifico per il piano medesimo (realizzato dagli uffici tecnici regionali).

Propongo un parallelo che parla da sé: se il Piano Paesistico Regionale, il PPR, verrà definitivamente approvato e attuato, si salveranno lungo i 1.731 km di coste sarde centinaia di km di dune profondissime che hanno tante funzioni oltre a quella estetica (salvano la macchia mediterranea dalle mareggiate e dalle tempeste di salmastro e di sabbia, operano un ripascimento naturale, ecc.) e che possono in futuro concorrere ad attrarre un turismo finalmente amante della natura. In Adriatico invece -dove dai primi decenni del '900 va avanti un modello turistico fondato sulla cementificazione e sull’asfaltatura della costa - dei 1.260 km di dune a uno o più cordoni esistenti un secolo fa, ne sopravvivono appena 123, cioè meno del 10 per cento. Così, alcune regioni non presentano più nemmeno 1 km di duna fra Trieste e Otranto. Un autentico massacro al quale è sfuggito e sfugge a fatica lo stesso delta del Po. Per la verità una folla di aspiranti-lottizzatori di Goro, nel delta ferrarese, avrebbe voluto una bella litoranea per poi poter ''riminizzare” anche lì. Li fermò la Regione, nata da poco. li fermò, anche fisicamente, nel 1972, Guido Fanti, presidente della medesima, salvando un gruppo di ambientalisti, fra i quali Giorgio Bassani e Antonio Cedema, da un minaccioso assedio. Altri tempi. Renato Soru ha il grande merito di aver riportato in onore l'idea-forza della pianificazione paesistica nel momento in cui tante altre regioni italiane (dei più diversi colori politici) o sbracavano cedendo ad una forsennata corsa edilizia che è tutta di puro mercato, oppure fabbricavano chiacchiere lasciando anch'esse costruire seconde e terze case a tutto spiano. Sapete a quanto è precipitato l'intervento pubblico nell'edilizia italiana? Dalle 35.000 abitazioni di un ventennio fa al migliaio o poco più del 2004, dall'8 all'1 per cento. Sapete a quanto è sprofondata, da noi, l'edilizia sociale sul complesso degli alloggi in affitto? Al 4 per cento, contro il 18 della Francia, il 21 di Regno Unito e Svezia e il 35 dei Paesi Bassi (siamo in coda all'Europa). Sapete di quanto è balzato in alto, per contro, l'indebitamento delle famiglie italiane per comprarsi una casa? Del 134 per cento in cinque anni. In testa ai permessi di costruzione ci sono la Lombardia, il Veneto, ampiamente devastato, e l'Emilia-Romagna, seminata di gru. Ma pure la Toscana e l'Umbria, fino a ieri "felix", hanno la febbre alta. Ancora nel 2003 erano stati rilasciati in Sardegna permessi di costruzione per 9.224 abitazioni in fabbricati residenziali. Poco meno che in Campania che però ha 5,7 milioni di abitanti contro il milione e 631 mila della Sardegna. Renato Soru e la sua maggioranza di centrosinistra sono partiti, in attesa del PPR, dal decreto salvacoste a difesa di una fascia di 2 km dietro le spiagge e che il governo di Silvio Berlusconi (il quale ha forti interessi immobiliari nell'isola, a Costa Turchese) impugnò nel gennaio 2005 con un atto considerato di vera e propria prevaricazione politica. Poi ha insediato il comitato scientifico coordinato da Salzano, il quale ha elaborato le linee-guida del PPR. Quindi gli uffici tecnici della Regione hanno lavorato a vapore, con entusiasmo, al piano stesso. Si possono ben immaginare le resistenze degli interessi grandi e piccoli incrostatisi negli scorsi decenni sul turismo sardo, seccamente stagionale, l'opposizione dei Comuni guidati dal centrodestra (ma non solo) ormai abituati ad incassare somme ingenti dalle nuove concessioni edilizie. Le osservazioni sono state quasi tremila, con parecchi mal di pancia nella stessa maggioranza, e però Soru ha portato a compimento nel settembre scorso l'approvazione dei piani in sede di Assemblea regionale. «La valorizzazione non ci interessa affatto», aveva volutamente rimarcato il governatore sardo nell'atto di insediare il Comitato scientifico. Al convegno del Fai ha riscosso consensi sostenendo che la Sardegna non ha bisogno di un tardivo «capitalismo karaoke». «Abbiamo semplicemente capito che i pezzi del nostro paesaggio costiero rimasti intatti andavano salvaguardati e trasmessi alle future generazioni». Un modo per ribadire, con assoluta chiarezza, che - come afferma anche Salzano - «conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell'uomo su una natura difficile, significa conservare l'identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità né memoria». Di qui le linee-guida del piano: priorità alla preservazione delle risorse paesaggistiche, al loro ruolo strategico sul piano culturale, alla riqualificazione e al recupero dell' esistente, a forme di sviluppo fondate su di una nuova cultura dell1 ospitalità «sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati». Il PPR rappresenta da una parte il catalogo aggiornato delle risorse del territorio e del paesaggio sardo e dall'altra il centro di promozione e di coordinamento di ogni azione volta alla tutela e ad uno sviluppo soste-nibile. Per questo Soru può affermare «la valorizzazione non ci interessa affatto»: nell'opera di tutela egli vede già ricompresa anche quella di valorizzazione e di qualificazione dell'esistente. Un concetto fondamentale, centrale, e invece oggi quanto mai disatteso. Anche dalla sinistra, spesso scioccamente sviluppista, che non vuoi fare i conti col dissennato consumo di suolo libero in corso in Italia. Nel programma dell'Unione c'era un accenno alla necessità di frenare e invertire questa rotta folle, ma, per ora, atri concreti non se ne sono visti. In tal senso gli studi preparatorii per il PPR sardo e gli elaborati del Piano medesimo possono ben costituire una base strategica di discorso per tutti. Anche per migliorare, speriamo presto e bene, il lacunoso Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il PPR poggia sulla corretta impostazione del processo di co-pianificazione.

È chiaro che gli enti locali non possono essere i meri destinatari del piano. Devono contribuire attivamente. Ma, allorché insorgano contrasti in forza dei corposi interessi che il turismo ha mosso e muove, non vi può essere la paralisi, né ogni Comune può fare da sé (come è avvenuto nel caso ormai emblematico di Monticchiello, nel Senese). Ogni soggetto deve cioè assumersi le proprie responsabilità, secondo il modello gerarchico ribadito dalle sentenze della Corte costituzionale. L'articolo 9 della nostra Costituzione recita del resto con chiarezza «la Repubblica tutela il paesaggio». Fu proprio un politico sardo di grande spessore, il sardista, poi azionista e socialista, Emilio Lussu, a proporre la dizione «la Repubblica» in luogo di quella originaria «lo Stato», ricomprendendo in essa l'armonica cooperazione fra Stato, Regioni, Province e Comuni. In sede di articolo 117 si affidò peraltro allo Stato la tutela del patrimonio storico e artistico. Trattandosi di una Regione a statuto speciale, deve funzionare in modo ancor più positivo il binomio Stato-Regioni: al fine di «produrre» tutela attiva, non dissesto privato e assenza di piani pubblici, come invece è avvenuto in Sicilia. Secondo quanto dettano le stesse norme europee -si afferma nel documento di base per il PPR sardo - «principio di sussidiarietà vuoi dire che laddove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello territorialmente sovraordinato (UÈ nei confronti degli Stati nazionali, Stato nei confronti delle Regioni, queste nei confronti delle Province e così via), è a quest'ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell'azione».

Esemplarmente chiaro. Entro il 1° maggio 2008 le Regioni dovranno aver elaborato i nuovi piani paesistici secondo le prescrizioni del Codice. Teoria e pratica del PPR sardo possono essere di grande aiuto in un Paese spaesato e, a volte, proprio sbandato, senz'altra bussola che non siano, come ieri e peggio di ieri, la rendita fondiaria e la speculazione edilizia.

I funzionari della Soprintendenza archeologica di Pompei si schierano con Pietro Giovanni Guzzo, che ha annunciato il proposito di dimettersi dalla guida di quella Soprintendenza. Dimissioni motivate dalla conferma nel suo incarico, da parte del ministro Francesco Rutelli, del direttore amministrativo della Soprintendenza, Luigi Crimaco, nonostante si sapesse che Crimaco, nominato da Giuliano Urbani, non fosse mai riuscito a instaurare una buona convivenza con Guzzo, archeologo di fama riconosciuta.

I direttori degli scavi di Pompei, di Ercolano, di Oplontis, di Boscoreale e di Stabia, una fra le più importanti aree archeologiche al mondo, esprimono in un documento la «totale solidarietà» a Guzzo e a loro si affiancano architetti, archeologi e biologi. A favore di Guzzo si sono espressi anche studiosi stranieri, dalle università di Friburgo a quella di Nimega, e adesioni sono arrivate anche dal Pergamon Museum di Berlino. Oltre che dall´Assotecnici, l´organizzazione che raccoglie i funzionari di tutte le soprintendenze, e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil.

Guzzo non ha ancora inviato la lettera di dimissioni. Ma non sembra intenzionato a recedere a meno che non vi sia un segnale di svolta nella difficile situazione di Pompei. Il sito archeologico è visitato ogni anno da due milioni e mezzo di persone, ma è assediato da una realtà complicata, con custodi invadenti, parcheggiatori assillanti e una pletora di bancarellari che vendono patacche d´ogni genere. Molti dei dipendenti appartengono a cordate familiari, veri clan che impongono logiche ostruzionistiche. Guzzo si è sempre mosso con energia (è a Pompei dal 1994). Ma molte delle sue iniziative si sono scontrate con il vertice dell´amministrazione. Luigi Crimaco, ex direttore di un piccolo museo a Mondragone, si dice sia stato appoggiato a suo tempo dall´ex ministro di An Mario Landolfi. Nelle ultime settimane è entrato in rotta di collisione anche con alcune strutture dell´amministrazione: ha infatti sostituito la responsabile del servizio personale e rapporti sindacali con un funzionario di sua fiducia, che quindici giorni dopo si è dimesso anche lui dall´incarico.

Romilia: un sogno da 500 milioni

red. - la Repubblica, 30 novembre 2006

Si chiamerà Romilia e sarà il maxi-investimento del Bologna. Romilia come un vecchio angolo della Fiera campionaria di qualche lustro fa. «Quel nome m´è sempre piaciuto - ha spiegato Alfredo Cazzola - e in questo caso, unendo l´Emilia alla Romagna, mi sembra il più appropriato». E´ l´area di circa 300 ettari, fra Budrio e Medicina, sulla quale sorgerà il nuovo stadio del Bologna; e poi il centro tecnico, ossia campi sportivi, ristorante e residence, la stazione ferroviaria, un centro commerciale, un´ampia zona residenziale, un campo da golf da 18 buche e ben tre parchi tematici. Uno dedicato al divertimento (con tema l´Europa), uno al fitness, uno all´auto, sulla scia del Motor Show, una sorta di motor valley che guarda alla vicina Imola (Cazzola è interessato a rilevare la gestione dell´autodromo).

«Più che un progetto - ha chiarito Renzo Menarini, costruttore e socio del Bologna -, si tratta di un´idea di progetto che presenteremo al più presto alle istituzioni cittadine». Ieri mattina intanto, presso l´Associazione industriali di via San Domenico, è stato illustrato alla stampa. L´operazione è faraonica e destinata a rivoluzionare, se andrà in porto, il comprensorio ad est di Bologna ed anche la sua economia. I costi s´aggirano sui 500 milioni di euro, mille miliardi di vecchie lire. Due o tremila coloro che da questa operazione trarranno occupazione. «Per definire correttamente il piano finanziario - ancora Menarini - bisogna aspettare che le amministrazioni coinvolte accettino la nostra proposta, poi bisognerà valutare i tempi: comunque sia, su queste dimensioni un affare del genere siamo in grado di affrontarlo noi». A cominciare dagli investimenti per la sola viabilità. «Metteremo noi fra i 35 e i 40 milioni di euro», ha sintetizzato Cazzola in apertura del suo intervento. Noi, cioè lui stesso, Menarini e Bandiera, il terzo socio del Bologna.

«Cambieremo pelle al Bologna, questo è un progetto molto innovativo, come ci eravamo prefissati quando acquistammo il club. Il futuro della società è di trasformarsi in un entertainment company, un club che sviluppa e gestisce, oltre al calcio, una serie di iniziative ed attività tali da consentirci di aumentare sensibilmente le nostre entrate. Anche se c´è in ballo, e sino al 2028, la convenzione col Comune per il Dall´Ara, che noi rispetteremo e della quale siamo pronti a ridiscutere col Comune, questo progetto di Romilia non può prescindere dal nuovo stadio che, se i cantieri partiranno nel 2008, potrebbe essere pronto nel 2010 o nel 2011, in tempo utile anche per gli eventuali Europei del 2012. Perché il nuovo stadio sarà il motore di questo progetto: dietro a tutto c´è un´idea di marketing legata al Bologna. Vogliamo, partendo da lì, proporre un´offerta innovativa per vivere nel migliore dei modi questo ampio territorio. Sarà una zona molto servita, fra superstrade, un´autostrada, un treno e ci si arriverà agevolmente e spendendo pochissimo, senza contare gli oltre 16 mila parcheggi». A chi gli chiedeva conto delle eventuali reazioni dei tifosi, costretti a lasciare il Dall´Ara per arrivare a Fossatone, Cazzola ha risposto che «da questo progetto credo proprio che trarranno soddisfazioni, benefici e orgoglio. Perché aumentando patrimonio e fatturato, potremo essere all´altezza dei nostri migliori competitori».

Campos Venuti: «Fermate Romilia»

Andrea Bonzi - l'Unità, ed. Bo, 2 dicembre 2006

«Romilia? È una proposta sbagliata, fuori dalle attuali linee di sviluppo del territorio. Così si torna agli anni ‘50, dove chi comandava era la proprietà fondiaria. È inaccettabile». Non usa mezzi termini, il famoso urbanista Giuseppe Campos Venuti, nel bocciare la proposta immobiliare-sportiva di Romilia, il sogno della triade rossoblù Cazzola-Menarini-Bandiera. Un’opposizione «non certo ideologica - spiega Campos Venuti -, nessun timore dell’impatto ambientale, che è risolvibile, e neanche dei grandi cambiamenti urbanistici».

E allora, Campos Venuti, perché Romilia non la convince?

«Perché non è coerente con il piano dello sviluppo del territorio bolognese. Nel Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) si individuano tre direttrici su ferro: verso Ferrara, Budrio e Verona (passando per San Giovanni in Persiceto). L’area su cui vogliono realizzare Romilia sta a Medicina, che è estranea a questo disegno. Io sono favorevole alla flessibilità, ma l’operazione deve essere organica al complesso, altrimenti si cambia la strategia. Così si finisce per valorizzare un terreno privato a spese della collettività».

In che senso? Cazzola e soci sono pronti a investire 500 milioni di euro...

«I privati possono coprire i costi degli alloggi, dei parchi tematici, del centro commerciale, del campo da golf, dei centri fitness... Ma i 15 chilometri di strada aggiuntiva fino alla tangenziale e l’allungamento delle rotaie per far arrivare lì il treno chi li paga? E le fogne e gli allacciamenti idrici? Le istituzioni non hanno neanche i soldi per pagare il Passante nord, il Servizio ferroviario metropolitano (Sfm), il metrò. Se non ci sono risorse per finanziare le opere considerate indispensabili, perché spendere altrove?».

Per le opere infrastrutturali hanno previsto una quarantina di milioni, sempre a carico dei privati...

«Sono briciole. Per fare un paragone, ci paghi giusto un pezzettino di metrò. I costi delle infrastrutture sono sotto gli occhi di tutti. Il progetto andava pensato lungo una delle linee di sviluppo del territorio, così resta solo un bel plastico: non è che possiamo costruirlo a Medicina solo perché un privato ha 300 ettari da valorizzare, così si ritorna agli anni ‘50, quando erano i latifondisti a comandare».

Di decentrare alcune funzioni d’eccellenza, in questo caso lo stadio, si parla da un bel po’ di tempo. Non si perde un’occasione?

«È un tema che si ripresenta ciclicamente. Un’idea fu sottoposta addirittura a Imbeni. Un’altra l’aveva in mente Gazzoni Frascara. Nel caso di Romilia, lo spostamento dello stadio mi sembra un pretesto per un’operazione immobiliare».

Come giudica l’atteggiamento degli enti locali bolognesi?

«Il Comune di Bologna, con il sindaco Sergio Cofferati, ha dichiarato che non vuole averci nulla a che fare e vedrà eventualmente cosa fare del Dall’Ara; la Provincia è stata richiamata a un inevitabile richiamo al Ptcp e ha spiegato che metterà in campo le verifiche opportune».

La Regione, però, con l’assessore Campagnoli, parla di tassello fondamentale per la Motor Valley?

«Se è funzionale per spostare da Bologna il Motor Show di Cazzola io sono felicissimo. Quanto alla Motor Valley, rilevo solo che abbiamo appena perso il gran premio di Imola. Piuttosto, mi dispiace l’atteggiamento della Regione e di Campagnoli, diessino come me. L’ente di viale Aldo Moro sta monitorando l’attuazione da parte dei Comuni e delle Province della legge urbanistica 20/2000, ma non ha ancora fatto il suo piano territoriale, di cui da troppo tempo sentiamo la mancanza. Con i primi Romilia non è sicuramente coerente, non vorrei che il piano regionale si adattasse».

Postilla

Molto ci sarebbe da aggiungere alle critiche, condivisibili, di Campos Venuti a questo nuovo progetto. A partire dalle modalità di presentazione: una conferenza stampa di imprenditori privati che illustrano ai cittadini – i futuri potenziali consumatori - l’arrivo di un nuovo Paradiso chiavi in mano. E potrebbe bastare il contrasto con le direttrici di sviluppo delineate nell’attuale PTCP per suscitare nelle istituzioni territoriali interessate una reazione un po’ più allarmata rispetto all’attuale: un mix di cauta attesa, quando non di aperto, plaudente sostegno. Un assessore comunale l’ha definito “progetto con una grande logica imprenditoriale” e voleva essere un complimento.

Quanto poi al “pagheremo tutto noi” della triade degli investitori, beh, grazie, ma abbiamo già dato…(m.p.g.)

Il governo ha pubblicato oggi il GLA Bill proponendo un rafforzamento dei poteri della GLA - Mayor di Londra e London Assembly – sulla base dei risultati positivi ottenuti sinora.

Il progetto di legge sviluppa norme per attuare molti dei risultati dell’esame sui poteri di Mayor e Assembly, pubblicato a luglio. Complessivamente si conferisce a Londra la forte leadership necessaria a una città mondiale per affrontare le sfide del futuro.

Si propongono nuovi poteri strategici per il Mayor in aree fondamentali, tali da fare la differenza nella qualità della vita dei londinesi: nuovo ruolo decisionale per le questioni della casa e per affrontare il riscaldamento globale, compiti rafforzati in urbanistica e gestione dei rifiuti, maggiori poteri in sanità e cultura.

Il Bill dà anche nuovi poteri al Mayor per intervenire sui piani regolatori locali delle circoscrizioni, e per quanto riguarda decisioni di piano di importanza strategica per l’insieme di Londra.

Yvette Cooper, Ministro per la Casa e l’Urbanistica, ha dichiarato:

“I maggiori poteri che proponiamo in questo progetto di legge sono una buona notizia per Londra. Questo governo ha ripristinato il governo metropolitano per la città capitale creando gli istituti ad elezioni diretta del Mayor e della Assembly. A Londra la devolution ha funzionato. Il sindaco metropolitano offre una leadership forte, visibile, verificabile.

“La legge prosegue la strada di questi risultati positivi, conferendo poteri adeguati al livello decisionale adeguato. Dà al Mayor la possbilità di fare davvero la differenza: affrontare con successo la sfida di dare più case economiche al londinesi; assumere un approccio strategico alla pianificazione della capitale; assumere un ruolo guida nella lotta al cambiamento climatico. E dà alla Assembly un ruolo rafforzato per controllare il Mayor per conto dei londinesi”.

“Rafforzerà la leadership del sindaco metropolitano, offrendo basi più solide per una crescita economica sostenibile, e confermando il ruolo di Londra di vera città globale con una economia di grande successo”.

A breve anche il Ministero per le Aree Urbane proporrà un progetto di legge sul governo locale. Ciò comporterà una ulteriore significativa delega: da Whitehall a town hall.

Nota: qui di seguito scaricabile il PDF del progetto di legge; per altri particolari si può partire anche dalla pagina originale di questo comunicato al sito del Ministero per leAree Urbane; per un impietoso confronto si veda il recente articolo da Repubblica sui problemi “analoghi” della regione metropolitana milanese (f.b.)

GLA_Bill

1.IL TESTO

Si osserva innanzitutto che la dimensione stessa del documento “preliminare” (550 pagine, più gli allegati cartografici), unitamente al tempo ristrettissimo previsto per la formulazione di pareri e osservazioni – tramite il sito internet della Regione – non depongono certo a favore della serietà dell’approccio scelto, per quanto concerne la partecipazione degli stakeholders all’analisi e alla valutazione del documento stesso.

Si tratta inoltre di un testo di difficile lettura, problematico:

- perché composto da più scritti separati (non solo per temi affrontati, ma anche per tempo di stesura, concezione, impostazione, livello di approfondimento, ordine e stile espositivo);

- per la mancanza di un filo ordinatore, di raccordo tra i singoli argomenti;

- per l’assenza quindi di integrazione tra le parti, per la frammentazione che ne deriva, per lo sviamento rispetto all’obiettivo primo, unificatore, che è la pianificazione territoriale;

- per la prolissità con cui vengono trattati argomenti di importanza secondaria e l’eccessivo semplicismo riservato di contro a questioni che sono invece essenziali;

- per le frequenti ripetizioni, risultato di semplici copia/incolla, per la dispersione che ne consegue e rende arduo arrivare al centro delle questioni;

- per il linguaggio, troppo spesso pretenziosamente tecnicistico, o non pertinente alla materia, anche perché traslato da altri settori, specialmente da quello economico, aziendale-produttivo o prettamente borsistico;

- per la stessa fraseologia, per la struttura delle espressioni, a volte così mal formulate da rendere incomprensibile il senso delle frasi;

- per i concetti, che, pur all’interno di uno stesso tema, appaiono tra loro disomogenei, fuori scala, scoordinati, e complessivamente confusi;

per la commistione tra descrizione di problemi, asserzioni e definizione di obiettivi, per cui non è sempre facile distinguere dai presupposti quelli che sono gli effettivi intenti, e tanto meno capire se tutte le questioni e gli aspetti individuati, o che si devono comunque affrontare, trovino poi una corrispondente proposta di soluzione.

Un testo, insomma, disorganico, non chiaro e non sempre comprensibile, nel quale è difficile orientarsi e cogliere la sostanza delle cose, vale a dire capire quali siano gli indirizzi fondamentali, direttamente attinenti alla pianificazione territoriale, che l’Amministrazione regionale intende assumere per il piano.

Un testo quindi che di per sé, già per come è concepito e formulato, è di ostacolo all’attuazione di una vera, seria, ampia, partecipazione da parte di quei soggetti esterni che si dice di voler coinvolgere.

Soggetti esterni (gli stakeholders), peraltro quanto mai variegati, di formazione ed esperienza diversa, con competenze, interessi, linguaggi anch’essi diversi, ma tutti comunque chiamati ad esprimersi su una stessa materia, su quel tema, composito ma allo stesso tempo unitario, che è per l’appunto la pianificazione territoriale; tutti comunque tenuti a dare un giudizio sia sulla molteplicità di aspetti che essa considera, sui loro caratteri specifici ma anche sulle reciproche interrelazioni, a dover valutare gli obiettivi proposti e le loro possibili ricadute, a doverlo fare sia per singoli settori ma non di meno in termini complessivi, vale a dire a dover considerare la valenza che, in conseguenze delle scelte, il nuovo piano regionale verrebbe ad avere nel suo insieme.

- Il che evidentemente comporta la necessità che il testo risulti uniformemente accessibile; e per esserlo, si ritiene che debba essere qualificato da:

- un linguaggio costantemente chiaro e comprensibile, in ogni parte, e per ogni settore specificatamente trattato;

- un linguaggio comunque rigoroso – e non vago, semplicistico, o fuorviante – di terminologia appropriata, precisa, pertinente alla materia;

- adeguata spiegazione – perché no, corredata da un glossario – dei termini a carattere prettamente tecnico o relativi a settori specifici oppure ripresi da altre lingue, tuttavia utilizzabili solo se indispensabili, privi di un corrispettivo nell’italiano, ormai entrati a far parte dell’uso corrente;

- eliminazione di parole inutilmente pretenziose, spesso frutto di invenzioni fantasiose, probabilmente in nome di ambizioni fintamente intellettualistiche o di una malintesa modernità, ma che danno in realtà l’impressione di una cattiva conoscenza dell’italiano, creano un effetto rozzo, grossolano, appesantiscono il testo, ne rendono ardua la lettura e la comprensione;

- grande ordine espositivo sia nella formulazione dei concetti che nella struttura, nell’articolazione e nella sistemazione per temi, capitoli, elenchi;

- una forte capacità di sintesi per non costringere a disperdersi tra generalità, lungaggini, parti decisamente ovvie, ripetitive, di nessun peso e incidenza;

la messa in evidenza dei contenuti che hanno un’importanza essenziale, per dare il senso di quali siano le priorità, per facilitarne l’individuazione, per consentire di focalizzare l’attenzione sugli elementi effettivamente portanti e considerarli alla giusta stregua, rispetto a questioni e proposte di minor incidenza o, in ogni caso, conseguenti o puramente discorsive.

Un testo, in definitiva, di grande pulizia e correttezza linguistica e strutturale è quello che occorrerebbe. Contro il marasma delle 550 pagine, dove in realtà quelle che contano sono ben poche. Ma perché il testo sia tale, conciso, comprensibile, non è che i contenuti debbano essere stati ben ponderati, verificati, digeriti, chiari in primo luogo a chi ne è autore? È allora un problema di sostanza? Una sostanza che è ancora nebulosa per la stessa Amministrazione regionale? Ma come si fa a spiegare quello che è ancora oscuro a chi lo propone?

2. Le procedure

La (presunta) procedura partecipativa sul sopra citato ponderosissimo documento preliminare del PTR, che pomposamente fa riferimento ad “Agenda 21”, si è in definitiva risolta in una sorta di “videogame”, tramite la compilazione da parte degli stakeholders – avendo a disposizione tempi oltre tutto ridottissimi (7 giorni, poi aumentati a 10!) – di una sorta di questionario on line.

Nessuna meraviglia che solo una trentina degli oltre 200 stakeholders individuati abbia partecipato all’operazione.

A ciò hanno fatto seguito alcuni “forum” tematici (l’ambiente, gli aspetti sociali, ecc.), sfociati in stringatissimi e sostanzialmente vuoti documenti di sintesi, il cui effettivo utilizzo nel prosieguo dell’iter del futuro PTR è peraltro alquanto misterioso.

Non è difficile perciò comprendere le ragioni per le quali la scrivente associazione ha deciso, fin dal principio dell’operazione, di non prestarsi ad avallare un “processo partecipativo” tanto equivoco e ha perciò evitato di partecipare alle fasi “partecipative” sopra descritte.

3. I "PRESUPPOSTI STRATEGICI”

Difficilmente del resto, a giudizio della scrivente associazione, i contenuti del documento preliminare al PTR avrebbero potuto essere diversi, stanti le premesse “strategiche” (altrimenti definite “Linee di indirizzo”, cfr. par. 3 del documento) a monte dello stesso.

Va rilevato infatti come tra tali premesse vengano citati principalmente:

a) il “Programma di governo regionale 2003-2008” (che NULLA contiene in merito alle politiche territoriali e urbanistiche);

b) lo studio di Monitor Group “Verso una visione economica condivisa”, documento chiaramente improntato alla definizione di obiettivi di politica economica, NON urbanistica e territoriale, che contiene riferimenti a scelte territoriali esclusivamente in funzione di obiettivi economici; la pianificazione del territorio è vista cioè come ancella dell’economia, intesa per di più nel senso tradizionale della crescita misurata mediante il PIL;

c) il Piano strategico 2005-2008 “Al centro della nuova Europa” (cfr. par. 3.2 del documento preliminare), derivato dalle analisi del Monitor Group e pressoché interamente incentrato su obiettivi di potenziamento infrastrutturale in ogni settore, assunti come postulati indiscutibili, senza alcun bisogno di verifiche e analisi relativamente a costi, sostenibilità ambientale, effettiva necessità delle opere, ecc.;

d) la L.R. 30/2005 (si veda il commento del WWF sulla stessa, in all. 1);

e) la relazione dell’assessore regionale alla pianificazione territoriale all’incontro “La nuova politica urbanistica della Regione” (cfr. par. 3.7 del documento preliminare), tenutosi a Villa Manin il 24 febbraio 2005. Si tratta di un documento prettamente politico, che da un lato postula la necessità di riformare la L.R. 52/1991 e predisporre il PTR (senza avvertire alcun bisogno di un’analisi critica dell’esperienza fatta con la L.R. 52/1991, della mancata attuazione di sue parti fondamentali, del ruolo svolto dai Comuni e delle conseguenze di una pianificazione in gran parte delegata ai Comuni sul territorio, ecc.), dall’altro delinea con chiarezza il ruolo di un’urbanistica al servizio della crescita economica, poiché elenca tra gli obiettivi della “nuova politica urbanistica” i seguenti: “diventare una regione più ricca e più civile”, “produrre un vantaggio competitivo territoriale”, “perseguire l’obiettivo della centralità del cittadino e delle imprese nel fare il nuovo PTR”, “devolvere le competenze in direzione degli Enti locali, quale mezzo per corrispondere meglio alle esigenze dei cittadini e delle imprese”, “il governo del territorio e dei Comuni”, ecc. Appare perciò chiaro, a giudizio della scrivente associazione, l’intento di costruire un sistema normativo e di pianificazione regionale in cui da un lato l’Ente locale diventa (più di quanto già non sia) l’unico vero referente dei cittadini e dell’imprenditoria per le decisioni che riguardano insediamenti produttivi e residenziali, con gli effetti che si possono facilmente immaginare. Sono tra l’altro quanto mai significativi, a tale proposito, i riferimenti, contenuti nella premessa del documento preliminare al PTR, alla riforma urbanistica nazionale (cfr. par. 2.2 e 2.4), vale a dire la c.d. “Legge Lupi” – fortunatamente decaduta con la fine della precedente legislatura prima dell’approvazione definitiva – per quanto concerne in particolare i principi della “perequazione” e della “compensazione dei diritti edificatori”. Dall’altro lato, la Regione persegue chiaramente l’obiettivo di riservare a sé le decisioni concernenti le grandi infrastrutture (di trasporto ed energetiche), che costituiscono il cuore e di fatto l’unico vero contenuto del PTR.

4.GLI OBIETTIVI DEL PTR

4.1. Premessa

Contenuti nella Parte II - Repertorio degli obiettivi, quivi elencati, gli obiettivi del PTR sono preceduti in Premessa dalla spiegazione dei presupposti e intenti comuni. Molti gli interrogativi che si aprono, a cominciare dai riferimenti alla L.R. 30/2005, o perché scorretti o comunque tali da riproporre la ridiscussione sulla legge medesima (in merito alla quale si ripropongono le valutazioni già formulate a suo tempo, v. all. 1).

Scorretta, se non altro perché priva di un preciso riscontro, appare l’affermazione iniziale secondo la quale:

“Gli articoli 6 e 8 della legge regionale 13 dicembre 2005, n. 30Norme in materia di piano territoriale regionale’prevedono che la formazione del nuovo Piano Territoriale Regionale (di seguito P.T.R.), si articoli in tre fasi che produrranno, rispettivamente, i seguenti elaborati:

1.ilDocumento preliminare al nuovo P.T.R, (è propedeutico alla costruzione della strategia del nuovo piano e rappresenta il primo atto di politica territoriale per la sua costruzione);

2.ilProgetto di P.T.R.(è predisposto dalla Giunta regionale che lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali);

3.ilProgetto definitivo di P.T.R.(è elaborato dalla Giunta regionale, anche sulla base delle valutazioni e delle proposte raccolte in esito al parere del Consiglio delle Autonomie locali)”.

In realtà, l’art. 6 della L.R. 30/2005 disciplina i “Contenuti ed elementi del PTR”, per quanto riguarda i suoi elaborati costitutivi in termini globali e definitivi, senza esplicitarne le fasi di formazione; l’art. 8 tratta delle procedure di “Adozione e approvazione del PTR”, fissandone la sequenzialità temporale, ma senza alcun accenno al Documento preliminare al nuovo P.T.R.

Mancanza, o scorrettezza, marginale, di poco peso, semplice superficialità, ma che comunque stupisce, e non poco, essendo il “ Documento preliminare” un atto comunque ufficiale, proveniente da un soggetto istituzionale, come tale presentato e pubblicizzato proprio dalla stessa Amministrazione regionale, e sulla base del quale altre istituzioni e soggetti sono chiamati dalla medesima a doversi impegnare ed esprimere un parere.

Richiamo alle finalità strategiche ex art. 5 della L.R. 30/2005. La loro riproposizione e rilettura fa riaffiorare le perplessità sorte con l’emanazione della legge. In particolare, quelle inerenti:

- la mancata considerazione per l’intera gamma delle componenti e delle interrelazioni esistenti a scala di territorio regionale;

- l’impostazione che privilegia, rispetto a ogni altra, una visione del territorio come bene di consumo in funzione decisamente economico-produttiva;

- l’interpretazione distorta di concetti fondamentali quali lo “sviluppo sostenibile”, e il suo abbinamento, in termini subordinati e peraltro incomprensibili, alla “competitività del sistema regionale”;

- la genericità e vacuità di finalità come “coesione sociale della comunità”, “miglioramento della condizione di vita”, “migliori condizioni per il contenimento del consumo del suolo e dell’energia, … sviluppo delle fonti energetiche alternative”…

Metodo per l’individuazione degli obiettivi. Illustrato per esteso, ma in maniera disorganica, prolissa e dispersiva – anche per le ripetute traslazioni con semplici copia/incolla dalla prima parte del documento ( Quadro delle conoscenze e criticità) – sembra ambire, e per le lungaggini e per la terminologia, a una certa scientificità; in realtà consiste in null’altro che nel racconto semplicistico, acritico, e peraltro confuso, su quanto è stato fatto e sul da farsi.

Gli esiti a cui perviene aprono non pochi interrogativi (v. ad es. i “macrobiettivi” che, dopo tutto il marchingegno delle fasi di elaborazione che qui si tenta di spiegare, alla fine sono ancora – come vengono dichiarati – “di tipo intuitivo e teorico” e niente di più).

4.2. Obiettivi del Piano Territoriale Regionale

Sono tanti: ben ventotto. Di peso e scala diversa, ma compresi in un unico elenco: alcuni di valenza complessivamente, o piuttosto genericamente territoriale; altri ancora settoriali, o addirittura sottosettoriali, e pur sempre, anche questi, generici; alcuni decisamente estranei alla materia pianificatoria; altri di portata globalmente politica e amministrativa. Tutti, appiattiti al medesimo livello.

Obiettivi che hanno comunque più il significato di enunciazioni di buona volontà, di raccomandazioni che l’Amministrazione regionale fa a se stessa, che di obiettivi veri e propri che l’Amministrazione si dà e intende concretamente perseguire. Obiettivi che appartengono a una fase ancora tutta preliminare, interna, piuttosto che a quella pubblica, di consultazione all’esterno, come vengono invece presentati.

Quando più precisi, gli obiettivi appaiono disciplinarmente discutibili (ove pongono ad es. sullo stesso livello pianificazione e monitoraggio), paradossali (v. bonifica e rinaturalizzazione delle aree edificate o infrastrutturate), palesemente dubbi, ambigui, o comunque adattabili alle più varie interpretazioni e applicazioni (v. “ esercitare in modo flessibile la funzione del governo del territorio”).

La descrizione degli obiettivi è infarcita di termini quali competitività, competizione, competitivo, competere, tanto da risultare stressanti e da dare l’impressione di non avere per oggetto un territorio, peraltro unitario, da dover considerare e pianificare al meglio e per intero, ma di essere un’azienda, di occuparsi di produzione e non dell’ambiente complessivo di vita; di doversi mettere nell’ottica di uno contro tutti, per avere e fare di più, a vantaggio esclusivo del singolo, frammentato, ambito di competenza, quasi che vi si fosse confinati e lo spazio di vita, il diritto a un territorio più bello, funzionale, meglio godibile, non continuasse al suo esterno.

Considerazioni del tutto analoghe vanno fatte per altre “parole d’ordine” (sempre le solite), contenute nella descrizione degli obiettivi: sussidiarietà, adeguatezza, principio di responsabilità, equiordinamento (regione-comuni), ecc.

Come se non bastasse, la definizione delle finalità del PTR è infarcita di contenuti risibili, paradossali, incomprensibili o fuori tema. Eccone un (limitato, per carità di patria) florilegio:

- distribuire, nelle aree deboli, il rischio tra i diversi settori, favorendo una programmazione integrata”, par. 4.3.5., pag. 499;

-il mitico offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)”, par. 5.2;

- Consolidare il patrimonio rurale”, pag, 504, I capoverso;

- modello dell’albergo diffuso” (?); pag, 504 nel II capoverso al par. 5.2.3;

- dotazione di verde e arredo urbano” come unici servizi citati in par. 5.3;

- Valorizzare il patrimonio insediativo e della cultura”, par. 5.3.2, pag. 504;

- animazione del paesaggio”, par. 5.3.4, pag. 504;

- tassazione a carico di autoveicoli pesanti”, par. 7.1.1.10, pag. 515.

5.IL RAPPORTO AMBIENTALE

La direttiva 2001/42/CE, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, all’articolo 5 individua, come strumento di valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e programmi, il rapporto ambientale.

Quest’ultimo al proprio interno, come specificato nell’allegato I della direttiva 2001/42/CE, dovrebbe contenere tra le varie argomentazioni i seguenti punti: i contenuti degli obiettivi principali del piano o programma e del rapporto con altri pertinenti piani o programmi; lo stato attuale dell’ambiente e sua evoluzione probabile senza l’attuazione del piano o del programma; i possibili effetti significativi sull’ambiente; le misure previste per impedire, ridurre e compensare nel modo più completo possibile gli eventuali effetti negativi significativi sull’ambiente dell’attuazione del piano o del programma; la sintesi delle ragioni della scelta delle alternative individuate e una descrizione di come è stata effettuata la valutazione, nonché le eventuali difficoltà incontrate (ad esempio carenze tecniche o mancanza di know-how) nella raccolta delle informazioni richieste; e la descrizione delle misure previste in merito al monitoraggio.

La stessa premessa del rapporto ambientale, per il documento preliminare del PTR (pag. 6) afferma che, come da direttiva 2001/42/CE, il rapporto stesso: “…deve individuare, descrivere e valutare gli effetti significativi che l’attuazione del Piano potrebbe avere sull’ambiente, nonché le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano, individuando tutte le misure necessarie per mitigare o compensare le varie criticità di natura ambientale e territoriali.

Il Rapporto Ambientale, all’interno del processo del piano territoriale regionale, viene a configurarsi come uno strumento utile e necessario per determinare gli elementi di verifica delle scelte di piano in coerenza con gli obiettivi generali di sostenibilità definiti dal piano stesso”.

A questo punto, analizzato il rapporto ambientale per il documento preliminare del PTR, ci si accorge di essere di fronte a un documento carente delle caratteristiche intrinseche richieste dalla direttiva europea 2001/42/CE, in quanto non contiene e non sviluppa gli argomenti richiesti dall’allegato I. Non basta: è carente anche rispetto ai propositi dichiarati nella premessa del rapporto, il che non può non scandalizzare.

Nello specifico manca la valutazione degli effetti delle politiche di piano sull’ambiente, anche perché lo stesso documento preliminare del PTR non fa cenno alcuno di quali siano le politiche da adottare. Gli obiettivi previsti possono essere raggiunti come si vuole, o come vuole il politico di turno, senza valutare gli effetti che avranno sull’ambiente; quindi ogni azione e ogni politica è lecita. L’imperativo pare essere quello di raggiungere lo sviluppo e la “competitività territoriale” ad ogni costo, anche a discapito dell’ambiente stesso.

Conseguenza di questa mancanza è l’impossibilità di fornire adeguate alternative a scelte (politiche) che potrebbero danneggiare in modo irreparabile il territorio in cui viviamo e vivranno i nostri figli, quindi contraddicendo i principi della Convenzione di Rio de Janeiro (art. 1) e quelli di Agenda 21, che indicano la sostenibilità del territorio come via da seguire.

Un rapporto ambientale dovrebbe inoltre contenere la descrizione delle misure previste in merito al monitoraggio, in modo che il piano rispetti le soglie che si è dato.

A parte il fatto che il documento preliminare del PTR non si è dato delle soglie da non superare, il fatto grave è che il rapporto rimanda al processo di Agenda 21 la scelta degli indicatori ambientali, e sconta quindi la conseguente mancanza di parametri che possano indicare lo stato del territorio e dell’ambiente al momento attuale, con le conseguenti alternative possibili per le politiche da adottare per raggiungere alcuni obiettivi strategici.

Ancor più grave è l’assenza di spiegazioni su come saranno gestiti i monitoraggi e sul rapporto che ci sarà tra monitoraggio e obiettivo. In altri termini: per raggiungere un obiettivo sarà o dovrebbe essere già individuata un’azione di piano o una politica e il monitoraggio dovrebbe controllare il suo svolgersi nell’arco del tempo, ma se questa politica dovesse superare le soglie che la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia si è data, come si interverrà per reindirizzare l’azione di piano in modo corretto? Questo non è dato sapere, mentre il rapporto ambientale non dovrebbe assolutamente eludere questo aspetto.

Si può quindi concludere che il rapporto ambientale si riduce a un mero elenco dello stato del territorio e di obiettivi, sviluppato per di più in modo superficiale, senza entrare nel merito dei propositi indicati dalla Direttiva 2001/42/CE, riguardo alla funzione di verifica e correzione dei contenuti e delle scelte del PTR.

6. IL PAESAGGIO

In considerazione del fatto che il “documento preliminare” prefigura per il PTR anche la funzione di piano paesaggistico (ex D.Lgs. 42/2004), conviene premettere alcune considerazioni storico-metodologiche.

6.1. Paesaggio e beni culturali

Di paesaggio e beni culturali, il Documento parla separatamente, peraltro, nelle parti propedeutiche, più con riferimento a quanto prescritto dalla legge 42/2004 che provvedendo a illustrare i principi, gli indirizzi, e soprattutto le linee culturali che è la Regione a voler assumere e con le quali essa intende darvi seguito.

Paesaggio e beni culturali trattati quindi come componenti disgiunte, in una visione acritica e palesemente passiva rispetto alle recenti norme sovraordinate, nonché in un’ottica complessivamente frammentaria e parecchio confusa rispetto agli ulteriori molteplici aspetti (ambiente, scelte economiche localizzazioni insediative e infrastrutturali) che vi sono correlati e che con esse – e con il loro futuro –inevitabilmente interagiscono.

Un approccio pertanto ai beni paesaggistici e culturali che ha più dell’atto dovuto, del puro adempimento amministrativo, dell’obbligo di legge, che del risultato di un’effettiva consapevolezza del patrimonio che essi rappresentano per la comunità, del bene pregiato che costituiscono, dell’importanza e centralità che rivestono ai fini delle complessive politiche territoriali, della particolare attenzione e sensibilità che specificatamente richiedono.

Manca in sostanza l’idea del paesaggio e dei beni culturali come valori e beni insostituibili; non trapela il pieno necessario convincimento della loro importanza in quanto – innanzitutto – elementi primari di identificazione di una determinata comunità. Il Documento li riduce a oggetto di trattamenti parcellizzati, i più disparati e disomogenei, generici o eccessivamente minuziosi, puramente dichiaratori o vagamente tecnicistici, ma mai, come invece necessario, provenienti da una vera, solida cultura, relativamente a tutti i molteplici aspetti che concorrono a costituirne e a rivelarne l’essenza fondamentale.

Le trascuratezze e mancanze di base trovano poi riconferma, e non potrebbe essere altrimenti, nelle previsioni, quanto mai sbrigative e scoordinate, del corrispondente Repertorio di obiettivi: una lista semplicistica e disomogenea di cose da farsi, che sembra dettata più dal dover comunque trovare qualcosa da dire e metter giù, che da un reale approfondimento e ripensamento sulle finalità da doversi perseguire e da una conforme ricerca degli indirizzi e dei contenuti più opportuni.

Il paesaggio e i beni culturali costituiscono un patrimonio nel loro insieme: non possono essere considerati una semplice somma di elementi singoli e, in prospettiva, di provvedimenti staccati e peraltro palesemente casuali, ma vanno primariamente intesi nel complesso organico che essi, assieme, rappresentano e attraverso le relazioni che li raccordano e, altresì, li strutturano. Aspetti e relazioni che sono a carattere naturalistico, ambientale, storico e paesaggistico, oltre che espressione della cultura, delle tradizioni, insediative e economiche, della storia, della vita di una determinata comunità in rapporto al suo territorio. Comunità e territorio che meritano pertanto la massima attenzione, da doversi conoscere approfonditamente nelle loro connessioni, e nelle dinamiche che li caratterizzano, al fine di arrivare attraverso il piano all’individuazione di tutte le misure necessarie a difendere il medesimo territorio dai già troppo presenti e diffusi processi e pericoli di corrosione, di omologazione e di conseguente svalutazione.

Se questo patrimonio ha significato soprattutto in quanto elemento di riconoscimento dell’identità di una comunità, e se la bellezza è pur sempre un valore, è d’altra parte vero che a contribuirvi concorrono anche componenti spesso ancora trascurate come la biodiversità e i caratteri naturali, e che pertanto logiche parziali e concezioni esclusivamente estetizzanti, come pure operazioni di pseudovalorizzazione sul genere Eurodisney, sono insufficienti o palesemente dannose.

Se da un lato, per quanto riguarda specificatamente i beni culturali, nella parte propedeutica del Documento, in merito a tale aspetto di gran lunga più approfondita delle altre, si riconosce sia l’esistenza che l’insuperabilità del binomio costituito per l’appunto dai beni culturali e dal paesaggio, dall’altro lato resta comunque il fatto che, pur sulla base di tale presupposto nonché di ulteriori considerazioni che riconfermano quanto sopra osservato, poi il tutto si traduce e conclude in quello che lo stesso Documento definisce un “elenco”, peraltro “sintetico”, di obiettivi, vale a dire in una lista, quanto mai frettolosa e disorganica, di previsioni spurie e fuori scala. Un’elencazione priva di consequenzialità al suo interno e della necessaria chiarezza sul rapporto tra le azioni ivi definite e quelle assunte per il paesaggio e per le altre componenti che con i beni culturali (e con il paesaggio, in quanto entità complessiva) vanno evidentemente ad interagire. Anche nei casi più ovvi, come ad esempio, relativamente alle politiche insediative e se non altro con riguardo a una materia, tanto vicina o meglio di pertinenza comune, come quella rappresentata dai centri storici, che, qualificati dall’essere sia insediamenti sia beni culturali, richiedono un insieme complessivo e unitario di provvedimenti che di tale loro duplice caratterizzazione tenga per l’appunto debito conto.

A proposito dei sopra citati aspetti naturalistici, che concorrono alla formazione del paesaggio, in connessione, questa volta, con la componente spiccatamente ambientale, si precisa inoltre quanto segue.

6.2. L’evoluzione del concetto di paesaggio

Le tre fasi storiche nell’evoluzione del pensiero mesologico, ovvero nella branca della biologia che studia l’ambiente in cui vivono gli organismi, sono riassumibili nella conservazione della specie, la conservazione dell’habitat e la conservazione delle serie dinamiche.

In termini temporali la prima fase si sviluppa a partire dalla fine dell’800 fino al 1920 circa, mentre successivamente si inizia a parlare di habitat come entità spaziali che permettono di conservare le specie (e a questo pensiero risponde la Direttiva “Habitat” 92/43/CEE), mentre oggi si preferisce riferirsi alla conservazione delle serie dinamiche, intese come gli stati e i tipi di vegetazione che sono incollegamento dinamico fra loro, in termini di rapporti temporali, di rapporti spaziali e delle diverse situazioni geologiche e pedologiche.

Il paesaggio è quindi costituito dalla base litologica e geomorfologia, dalle grandi condizioni climatiche e dagli elementi vegetali e dalle loro interconnessioni temporali e spaziali.

Il paesaggio nel suo complesso non è più quindi opinabile, come nelle antiche teorie estetiche, ma è dato dalla somma dell’intersezione delle relazioni temporali e spaziali, che sono alla base dei modelli cenotici su cui si fonda la moderna scienza del paesaggio.

Quindi, in base a questa concezione (recepita sostanzialmente anche nella Convenzione europea del paesaggio del 20 ottobre 2000), il paesaggio si sottrae a una percezione soggettiva estetizzante, oggi di fatto ampiamente superata.

Alcuni di questi concetti fondamentali erano già stati recepiti nella pianificazione delle aree protette contenuta nel Piano Urbanistico Regionale Generale (PURG) del 1978, in cui – ad esempio – i grandi fiumi (individuati come Parchi regionali) dovevano garantire una funzione di collegamento verticale fra fasce orizzontali molto diverse (montagna, fascia collinare, alta e bassa pianura, fascia costiera), anticipando un sistema di reti ecologiche che dovrebbero intersecare tutto il territorio regionale.

Uno dei principali obiettivi che deve porsi un Piano paesaggistico è perciò la restituzione della connettività biologica, da opporre alla frammentazione degli habitat, che per potersi mantenere devono non soltanto avere superficie sufficiente, ma anche essere collegati fra loro. Ciò è reso sempre più problematico dalla progressiva urbanizzazione e dal conseguente consumo del suolo, che porta come conseguenza all’alterazione e, appunto, alla frammentazione degli habitat. Diventa perciò centrale la previsione di “corridoi ecologici” adeguati.

6.3. Il paesaggio nel documento preliminare del PTR

Il documento preliminare del PTR – in materia di paesaggio – conserva un approccio prettamente estetico e vedutistico, legato ancora alla normativa anteguerra (la Legge 1497 del 1939) e appare perciò da un lato insufficiente e dall’altro concettualmente arretrato, anche rispetto all’impostazione presente già nel PURG del 1978.

Nel documento non si considera infatti lo strumento del vincolo in termini di reti ecologiche e quindi in modo positivo per la valorizzazione del patrimonio naturalistico, con le relative ricadute culturali, ma al contrario si lascia trasparire una forte negatività delle aree assoggettate a vincolo, negatività che si manifesta ad esempio nella carta “intensità della tutela sul territorio” (tavola 1/B), in cui vengono sovrapposti i diversi tipi di vincolo (secondo una scala da 0 a 6), in termini meramente quantitativi e senza una reale considerazione delle valenze paesaggistiche presenti sul territorio. Davvero non si comprende a cosa possa servire una tale cartografia!

Si aggiungano a ciò “perle” come ad esempio la seguente (già citata sopra), tratta dalla descrizione degli obiettivi del PTR: “offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)” - (par. 5.2). Ogni commento pare superfluo.

6.4. La mancanza di un adeguato quadro delle conoscenze

Per concretizzare l’obiettivo della creazione di reti ecologiche è fondamentale una profonda conoscenza del territorio (rappresentabile – ad esempio – almeno con una carta della vegetazione e unacarta litologica) e si osserva come nel documento presentato il quadro delle conoscenze non appaia sufficientemente approfondito e adeguato a sostenere una moderna pianificazione paesaggistica.

Le relazioni e le tavole grafiche allegate al documento preliminare sono infatti un mero assemblaggio di relazioni disorganiche, relative in realtà alle politiche regionali di settore, senza la minima traccia di conoscenze relative ai caratteri fisico-strutturali della regione come ad esempio i “caratteri” geologici, pedologici, idrogeologici, idrografici. Né vi è traccia di un elaborato che evidenzi i rischi idraulici, idrogeologici e le vulnerabilità territoriali.

Pare incredibile che, per quanto concerne specificamente le conoscenze relative al patrimonio naturalistico e ambientale, gli estensori del documento preliminare al PTR non siano ricorsi alle immense banche dati e al patrimonio di informazioni, dati ed esperienze disponibili presso le Università regionali (e in particolare presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Trieste).

Ci si riserva di integrare eventualmente le considerazioni sopra esposte con ulteriori elementi e si porgono con l’occasione i più distinti saluti.

Tutto male o tutto bene! La città di Roma o è una cosa o è l'altra: ovvero è «male» quando la guida della capitale è stata gestita dai governi centristi o neocentristi (democristiani e socialisti), viceversa è «bene» quando le chiavi della città sono in mano alle amministrazioni di sinistra. In parte questo è vero, la differenza si sente e si nota. Tuttavia, esiste una questione romana, anzi «La questione romana» come hanno ricordato gli organizzatori del «Discorso pubblico sulla città e il suo governo», ossia la rivista Carta, i Cantieri sociali e la Riva sinistra, l'altro ieri all'Alpheus. Roma è un buon luogo di accoglienza «per studenti e turisti - ricorda Pierluigi Sullo - però ha tante contraddizioni che non si possono nascondere, ad esempio la piaga dei trasporti o della casa». Lo stesso Sandro Medici, presidente del X Municipio (autore insieme a Carta e Riva sinistra del numero mensile di novembre sulla capitale) non nasconde nulla: «Si rischia il collasso. Con la crescita del 4% del pil sono aumentati anche i poveri e le periferie si sono imbarbarite; il decentramento e la democrazia partecipativa non sono stati realizzati (non sono stati dati soldi in gestione ai singoli municipi) e il nuovo Piano regolatore è un regalo ai poteri forti (immobiliari)». L'urbanista Giovanni Caudo sottolinea come «nel 2005 sono stati cancellati dall'anagrafe ben 21 mila residenti; non solo gli strati più poveri ed emarginati sono stati allontanati, ma anche coloro che devono destinare il 40% e a volte il 70% della proprie entrate per pagare l'affitto». A questa realtà potremmo aggiungere i 15 mila che vivono sotto i ponti oppure i 30 mila (spesso anziani o disabili) «sotto sfratto» (dice Sandro Medici). Roma assume la caratteristica di una città moderna, competitiva come sono tutte le altre metropoli, «neoliberista», ma, aggiunge Caudo, «il centro e la periferia hanno uno sviluppo distorto e diseguale».

Le periferie che alcuni - come il sottosegretario, Patrizia Sentinelli o il segretario romano di Rc, Massimiliano Smeriglio - continuano a identificare con la «città di sotto» che si contrappone «a quella di sopra». Per altri sono terreno quotidiano di scontro (la lotta per il diritto alla casa) o d'impegno culturale. Nunzio D'Erme, difende la tesi «che Action ha l'obiettivo di considerare Roma un bene comune», di lottare «per un reddito salariale» e di organizzare «l'autogestione come momento di socializzazione». E così lancia la proposta di «una manifestazione nel mese di dicembre per il diritto all'abitare».

Non bisogna stancarsi

di Paolo Fallai

Non bisogna stancarsi. Sì, c'è un aspetto psicologico da non sottovalutare nella battaglia «eterna» contro l'invasione di camion bar, per difendere le aree archeologiche dall'assalto di ogni sorta di paccottiglia ambulante, quasi sempre abusiva.

Non bisogna stancarsi perché l'impegno - e lo sdegno - per la tutela viaggia con i ritmi umani dell'entusiasmo e della depressione: è una ciclotimia che alterna euforiche campagne per liberarci dalla condanna delle pizzette a mortificanti silenzi di fronte all'avanzare delle lattine. Ma il dilagare di questi chioschetti, invece, ha la determinata e silenziosa pignoleria dell'ossessione. Pensateci bene, ogni volta che l'attenzione della pubblica opinione è scesa, il panorama che ci scorre sotto gli occhi si è arricchito di un puntino in più. E ci vuole la lente d'ingrandimento, spesso, per accorgersi che quel puntino sta su quattro ruote, ha delle tendine sfrangiate e vende una bottiglietta d'acqua da mezzo litro a 2 euro. Le rare volte che il manifestarsi di quel puntino viene colto subito, come ha fatto questo giornale segnalando il camion bar che si era materializzato davanti all'Ara Pacis un minuto dopo la conclusione dei lavori, si ottiene qualche risultato. Ma se l'attenzione non è sempre all'erta, quel primo sintomo diventa una malattia, si cronicizza e non riesci più a liberartene.

Per questo, oggi, salutiamo con favore l'iniziativa del sindaco Walter Veltroni. Non tanto perché confidiamo che si possa risolvere l'incolonnamento di camion bar sui Fori imperiali, con un colpo di bacchetta magica. Ma perché è una spinta, ciclotimica ma positiva, a tenere alta l'attenzione di tutti: uffici comunali, uffici municipali, soprintendenze.

Per questo ci sentiamo di chiedere scusa ai nostri lettori. Sì, quel titolo: «Via i camion bar» l'avete già letto infinite volte. Ma non è la coazione a ripetere di un giornalismo stanco e senza memoria. Anzi, per continuare a occuparci di questo tema, per continuare a prendere sul serio le serissime intenzioni dell'amministrazione comunale, dobbiamo reprimere il nostro scetticismo e la sensazione latente di essere stati così tante volte sconfitti.

Quindi, dichiaratamente, noi continuiamo a crederci. Vogliamo pensare che questa città sia destinata a vincere la battaglia per il decoro delle proprie aree di pregio. Proprio come un giardiniere non deve mai smettere di tenere pulito il prato, se non vuole essere sommerso dalle erbacce. Non possiamo stancarci.

Veltroni: "Via i camion bar dai Fori Imperiali"



«Basta con i camion bar ai Fori imperiali». La richiesta del sindaco Walter Veltroni è chiara e perentoria. E l'ha espressa senza troppi giri di parole ai due sovrintendenti: quello archeologico Angelo Bottini e quello alle Antichità e belle arti di Roma, Eugenio La Rocca. «È vero. Questa amministrazione e il sindaco in particolare ci tiene molto a risolvere l'annoso problema dei camion bar che oscurano la visuale dei monumenti», conferma l'assessore al Commercio, Gaetano Rizzo. E che stavolta il Campidoglio voglia uscire dal rito delle buone intenzioni, fin troppe volte annunciate, per interventi concreti lo testimonia proprio l'iniziativa di Rizzo: «Sto già predisponendo una rivisitazione di tutte le postazioni e procederò poi con i municipi, soprattutto con quello del centro storico, ad una ottimizzazione delle loro localizzazioni». Il titolare del Commercio annuncia anche che le nuove collocazioni saranno precise al centimetro. Come? «Con la "georeferenziazione" - spiega Gaetano Rizzo - ovvero la collocazione su pianta dello spazio assegnato. Metteremo un "pallino" sulle carte stradali per indicare il luogo che sarà loro assegnato, faremo le strisce sul terreno per delimitare i metri quadri che potranno occupare ed un cartello che segnalerà la postazione». Non solo. Per attuare al più presto la richiesta di Walter Veltroni si è mosso anche Luciano Marchetti, il sovrintendente regionale ai Beni culturali, forte della legge Galasso che tutela piazze e monumenti. «Nelle zone vincolate - spiega Luciano Marchetti - i camion bar non possono sostare se non hanno l'autorizzazione della sovrintendenza. E io un parere per via dei Fori Imperiali non l'ho dato di sicuro». Ma il principio stabilito dalla legge Galasso «vale non solo per i Fori Imperiali, ma un po' per tutto il centro storico - aggiunge il sovrintendete regionale - Per questo va fatto un riesame di tutte le autorizzazioni date, ho già chiesto al Campidoglio di fare una ricognizione. Abbiamo dunque iniziato a discutere della questione».

L'ingombrante presenza della rivendita di bibite e pizzette nei luoghi più belli della capitale è una lunga battaglia dell'amministrazione capitolina. Finora mai vinta. «Io non voglio assetare o affamare i turisti - ironizza Lucano Marchetti - Ritengo, però, che queste strutture vadano regolamentate e collocate nei luoghi dove danno meno fastidio alla visuale dei monumenti. E non bisogna neppure fare troppe rilevazioni, quelli che non hanno l'autorizzazione possono essere levati o spostati».

Il censimento dei camion-bar è stato fatto più volte: in tutto sono circa una sessantina. Ma tutti collocati in posti super-prestigiosi. «Troveremo sicuramente un accordo per delle nuove localizzazioni che non turbino la visione dei monumenti - aggiunge Gaetano Rizzo - E che siano adeguate alle loro richieste. Con la nuova ricognizione che attueremo verrà sicuramente migliorato il decoro urbano».

Il titolare del Commercio ha anche un altro asso nella manica: «Abbiamo già predisposto un concorso per la realizzazione del "banco tipo" romano per quel che riguarda gli ambulanti - spiega - che comprende anche un nuovo stile per i camion bar. Già dall'anno prossimo dovremmo poter far entrare in vigore anche questo nuovo aspetto che fa parte del decoro, migliorando e unificando il loro aspetto estetico».

Benvenuti al «Fori Imperiali Village»

di Ilaria Sacchettoni

Benvenuti al «Fori Imperiali Village». Parco urbano domenicale, con commercio etnico- abusivo, promozione di surrogati mesoamericani, flauto di pan e vendita non autorizzata di cd per gli appassionati sullo sfondo di reperti archeologici perimetrali e monumenti simbolo.

Ma soprattutto, grande showroom dell'abusivismo come nella maggior parte del centro storico. Con punte massime ai piedi di Castel Sant'Angelo e naturalmente proprio qui, lungo la passeggiata dei Fori: dalla borsetta taroccata al nome scritto in cinese, dal treppiede fasullo all'occhiale copiato, dal braccialetto pseudoindiano alla pashmina autentico Guangdong.

Ecco a voi, nel vuoto festivo delle autorità vigilanti, e nel viavai domenicale della città turistica, la Roma «pop» dei Fori Imperiali. Ristorazione, etnico musicale e commercio improvvisato, secondo un canovaccio da sagra di paese anziché da passerella archeologica. L'icona Colosseo in prospettiva e l'effetto «trash» dell'esibizione improvvisata e non autorizzata del giovane peruviano e dell'altro messicano che suonano amplificati in prossimità di largo (playa?) Corrado Ricci. Undici camion bar. Nove banchi di souvenir. Otto mimi (tre dei quali raffiguranti la mummia egiziana). Un numero imprecisato di lenzuola con merce contraffatta.

Ecco il camion bar numero uno che apre la passeggiata al «Fori Village». Parcheggiato vicino alla Colonna di Traiano, in compagnia di un banco di souvenir, tra cui parecchie Veneri di Milo (al Louvre). Pochi metri più avanti, altro camioncino «Roma City Food» color beigiolino, in sosta al Foro di Traiano con bottigliette (costosissime) di acqua minerale e vecchie pizzette rosse schiacciate dal vetro. Accanto, uno stand di berretti «Rome» e maglie della nazionale in gradazione dal celestino al blu. In sottofondo il suono triste e carico di affanno di un flauto pan. Lontano anni luce, l'Anfiteatro Flavio.

«Mato Grosso Band» dice la copertina del cd (in vendita su strada) mentre l'uomo di sangue atzeco, incurante, esegue vecchie glorie di Simon e Garfunkel. Ed ecco, superati i lavori in corso della metro «C», ad altri due limitrofi camioncini bar. «Ristorazione Paradise» più un altro dalle caratteristiche simili.

Se poi non dovesse bastare, ecco allora, oltre le strisce pedonali, proprio sotto al Colosseo, un altro mini furgoncino carico di prodotti delle multinazionali del dolciume ma anche, sorprendentemente, di ciambelle fritte «hand made». Era il furgone numero cinque ed è passato assieme al mimo numero quattro. Il quinto si esibisce come cavaliere di bronzo sotto via in Miranda. Non desta particolare ammirazione ma sempre meglio del ripetutissimo sarcofago egiziano.

Lungo tratto di vendita abusiva tradizionale e poi, nuovo furgoncino della ristorazione. Altri abusivi ed ennesimi camion bar. Bibite e frutta fresca. (Una «scheggia» di cocco costa anche tre euro. Per le mele si va da un euro e cinquanta in su. Il grappolo d'uva è solo per i giapponesi). Nuovi flautati canti sudamericani. Stavolta è un ragazzo giovane con capelli nerissimi, occhi sottili e un repertorio vario (molto eseguita la famosa melodia tratta dal kolossal shakespeariano di Zeffirelli «Giulietta e Romeo»). Ultimo camion bar. Siamo ai piedi di piazza Venezia. La passeggiata è finita. Il Colosseo è alle spalle, sepolto da atmosfere atzeche. Incongruo.

Postilla

La lotta, pur apprezzabile, contro i camion bar e i mille esercizi abusivi che intasano i nostri centri storici, appare in realtà non solo difficile, ma superficialmente attardata. Il degrado e la congestione che, soprattutto in talune ore del giorno, caratterizzano le zone centrali delle nostre città sono il sintomo di modificazioni dell’uso urbano che si sono incentivate senza una chiara analisi delle conseguenze, per calmierare le quali si propongono oggi ricette effimere e inadeguate. Città nelle quali è difficilissimo non solo “godere” dei panorami delle aree monumentali, ma financo muoversi senza complicati slalom provocati dagli ingombri sempre più invadenti di dehors e ‘allestimenti’ su via che, anche se legalmente autorizzati, finiscono per configurare un vero e proprio esproprio dello spazio pubblico. Intere aree delle nostre città sono state di fatto regalate alle attività commerciali e finalizzate all’attrazione di flussi turistici endogeni ed esogeni: i ritorni economici, subito mediaticamente sfruttati, sono stati rapidissimi e consistenti, come le conseguenze negative. Di fronte alle proteste odierne, incentrate peraltro solo su uno degli elementi deteriori, torna alla mente l’immagine del grande parco urbano che Cederna e Petroselli, fra gli altri, avevano pensato per Roma, come spazio pubblico per i cittadini e come riappropriazione della città in un contesto di natura e cultura.

Anche Cederna non si stancava mai di ripeterlo.

MILANO - La battaglia per rilanciare il paese agganciandolo all´Europa si vince o si perde a Milano. Ma non all´interno dell´angusta cerchia dei Navigli e nemmeno allargandone i confini a livello provinciale bensì rivitalizzando una «regione urbana» che ospita oltre 7 milioni di persone, produce il 17,2% del Pil nazionale e comprende un bel pezzo di Lombardia (Lodi, Pavia, Varese, Como, Lecco e Bergamo) oltre alla provincia di Novara in Piemonte. Solo così la città-regione milanese, oggi al trentesimo posto nella classifica mondiale stilata dall´Ocse del pil pro-capite (35,6 mila dollari) delle aeree metropolitane, potrà recuperare posizioni. E quindi completare il passaggio dall´economia manifatturiera a una società fondata sull´economia della conoscenza. A patto, però, di avere «una governance» capace di guidare politicamente lo sviluppo superando sia la dimensione cittadina sia quella provinciale e regionale.

A disegnare le linee guida per un riscossa possibile della «regione urbana» milanese, è stata la «Territorial Review», un poderoso studio di circa 200 pagine realizzato dall´Ocse e anticipato ieri da Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano. La stessa Ocse che ha già stilato una Review per la città di Helsinki, la conurbazione Copenaghen-Malmo e quella di Vienna-Bratislava, quindi per Melbourne, Atene, Montreal, Città del Messico. Più recentemente, negli ultimi 18 mesi, ci sono stati rapporti sulle due megalopoli coreane di Seoul e Busan oltre che su Stoccolma e Newcastle. In ognuno di questi studi sono stati indicati punti di forza e di debolezza con un´attenzione particolare allo scenario competitivo internazionale e alla capacità di attirare talenti e investimenti da tutto il mondo.

In questo quadro la sfida lanciata all´area metropolitana milanese e tramite Milano all´intero paese è da far tremare i polsi. Si tratta di conquistare sul campo il ruolo di capitale regionale dell´Europa meridionale nella produzione dei servizi avanzati (finanza, editoria, comunicazione, marketing, fiere) e di consolidare il ruolo di capitale globale nella moda e nel design. Per raggiungere questi traguardi la regione urbana milanese dovrà competere con una serie di concorrenti del calibro di Vienna-Bratislava, Lione, Barcellona e Monaco. Un compito arduo perché su 38 aree metropolitane censite dall´Ocse Milano si trova in 27ma posizione per quanto riguarda la produttività, dietro ad aree come Vienna, Lione o Francoforte.

Che cosa può imparare la regione-urbana milanese dall´esperienza dell´Ocse nello studio delle aree metropolitane? Gli economisti dell´Organizzazione citano quattro pre-requisiti indispensabili per accelerare una crescita virtuosa.

1. Milano ha bisogno di una «visione» complessiva del suo sviluppo futuro e quindi deve individuare una strada precisa per raggiungere i propri obiettivi. «Le numerose iniziative sviluppate nell´area metropolitana», ammoniscono gli economisti dell´Ocse, «non sono coordinate e questo riduce clamorosamente il loro effetto». I leader locali, spiegano ancora i ricercatori, utilizzando le risorse economiche per gli investimenti devono comunicare ai cittadini «un´idea chiara» dello sviluppo futuro.

2. L´area metropolitana milanese ha bisogno di «una politica di brand», per imporre una buona immagine sul mercato internazionale. «Essere considerata una città inquinata e congestionata», osservano ancora all´Ocse, «riduce le possibilità di sviluppare l´economia della conoscenza». Un punto dolente, quest´ultimo. Perché all´interno di una classifica europea delle 30 città meno inquinate, Milano si trova al ventinovesimo posto. Solo Mosca è in una posizione peggiore della metropoli lombarda. Un elemento che non incoraggia i migliori talenti presenti sul mercato a trasferirsi nell´area milanese.

3. La terza raccomandazione riguarda la necessità di stimolare la consapevolezza di «essere una comunità» all´interno dell´area metropolitana.

4. L´ultimo consiglio, strettamente legato al precedente, è la «definizione di una propria dimensione territoriale» adeguata allo sviluppo di politiche locali efficaci. Una nuova governance, dunque, capace di superare Comune, Provincia e Regione come «condizione necessaria ma non sufficiente» per innescare lo sviluppo locale. E ricominciare a correre.

Nota: l'articolo non è firmato a seguito di una protesta dei giornalisti; di seguito è scaricabile il documento originale OECD "Policy Briefing" della ricerca citata, che contiene anche le indicazioni per reperire quello integrale (f.b.)

OECD_Milan_policybrief

Leggo nell’ultimo intervento di Eddyburg per Carta, di una “ orrida megalopoli padana, pseudocittà sguaiatamente sdraiata fra Torino e Mestre”. Ne apprezzo l’utile contributo lessicale, a scrollarci di dosso gli eccessi di americanismo. Dopotutto nemmeno oltreoceano, e dopo due generazioni, si sono ancora messi d’accordo su cosa significhi esattamente il termine “ sprawl”, quindi meglio usare al meglio la ricchezza dell’italiano. E sguaiatamente sdraiata sia. Tra l’altro, dopo aver letto l’articolo, finalmente anche certi relatori di convegni la pianteranno di confondersi e confonderci con divagazioni su “qui non ci abbiamo mica il sprùl!”(la grafia poi è soggetta a varianti in corso d’opera).

Lasciando però il mondo dei convegni a coccolarsi il suo “sguaiatamente sdraiata”, vorrei tornare su quella frase nel suo insieme, su quello che evoca nel lettore: fra Torino e Mestre si attraversano 400 e rotti chilometri di stravaccamento insediativo, episodicamente interrotto da una pieve o ermo colle, che subito fuggono via ingoiati dal blob socio-cementizio che tutto pervade.

Vista l'attenzione al contesto?

Una prospettiva, a mio parere, tanto diffusa quanto fuorviante. Certo, è impresa impossibile sostenere che l’area geografica e socioeconomica fra gli sbocchi di valle alpini, appenninici e l’Adriatico, sia un paese dei campanelli: di guai, e pure grossi, ce ne sono a bizzeffe. Le ubique villette, i capannoni, gli svincoli che smistano il traffico verso lo svincolo successivo, i cantieri infiniti che non risolvono affatto i problemi ma anzi … Un sacco di guai, certo. Ce li racconta quotidianamente la stampa, e ce lo conferma il solo guardare dal finestrino. Forse è anche questa immagine subliminale, dell’accumulo di pasticci, di “pseudocittà sguaiatamente sdraiata” fra gli sbocchi di valle e il grande fiume, ad alimentare certi appetiti irrefrenabili, che non vedono (né gli interessa gran che) il sistema complesso della megalopoli. Vedono appunto solo la pseudocittà, o per usare un recente neologismo di successo la “città infinita”, spazio illimitato, sterminato territorio di conquista per investimenti, quasi sempre con una soverchiante componente brick & mortar, che in italiano si pronuncia asfalto per le strade, cemento per gli scatoloni, e pudicamente un po’ di siepi attorno ai parcheggi e ai prati delle villette. Invece qui c’è moltissimo altro, per quanto mescolato e intaccato da tutto questo: c’è un sistema urbano complesso, di grandissime dimensioni, che si chiama appunto megalopoli, e che non è affatto “infinito”. Un sistema geografico, insediativo, socioeconomico dove, volendo, è possibile declinare termini come densità, sostenibilità, ecc. Tanto per fare un esempio, in queste settimane in Gran Bretagna la CPRE ha pubblicato un curioso e interessante rapporto sulla “tranquillità”: cos’è dal punto di vista socio-sanitario, socio-economico, e come si relaziona nei grandi sistemi metropolitani alle forme insediative, alla distribuzione relativa di ambienti urbani e rurali. Anche questo è un modo per valutare, giudicare, pianificare la grande dimensione: liquidarla da un lato come territorio irrimediabilmente perduto, etichettarla dall’altro come “città infinita” buona per tutte le occasioni, è una prospettiva - se non altro – più istintiva che scientifica. La megalopoli in fondo è una città, se la si legge con gli strumenti adeguati. Una città che a modo suo dovrebbe esprimere (forse non lo fa ancora) i propri anticorpi rispetto agli organismi predatori, esattamente come succede (naturalmente con vario successo) sotto qualunque campanile.

Il territorio "vuoto" dove dovrebbe nascere VeMa

Credo sia esattamente l’idea di città, o l’assenza di questa idea, a generare fotografie sfocate come il mostro sguaiatamente sdraiato. Certo, lo stravaccamento esiste: ce l’hanno raccontato, l’abbiamo visto dal finestrino, addirittura dal passeggino sotto forma di nostrana rustbelt produttiva, o nella versione paranoico-familiare delle siepi di villette ad libitum, in quei piani di lottizzazione talmente identici, banali, da chiedersi se si tratti effettivamente di un progetto, o di una fotocopia. Talmente identici che i frequentatori abituali di questi ambienti (camionisti, postini, a volte anche urbanisti) sviluppano rapidamente un istinto geografico per il cul-de-sac con difficoltà di manovra, o la strozzatura stradale che però da' accesso alla sterrata con sbocco …

Si tratta però di porcherie episodiche, a volte pure schierate a sbarramento, infiltrate a rete, insinuate a cuneo, ma sempre eccezioni. Del resto succede in tutte le migliori città, e solo gli slogan delle avanguardie artistiche (o delle loro varie eco più o meno interessate) suonano giudizi perentori di condanna o assoluzione per una città: sprofondare Venezia, o santificare Casalpusterlengo.

Insomma, come già spiegava un paio di generazioni or sono Jean Gottmann nella sua ideale passeggiata lungo i viali di Bos-Wash, anche qui ci sono i quartieri malfamati e i prati spelacchiati, che però non rappresentano il tutto.

È mia modesta opinione che, non si tiene sempre presente questo aspetto (enorme, ma pur sempre aspetto) della questione, si rischia di non cogliere il senso. Ovvero di fare involontariamente il gioco di chi non vede la megalopoli come tale (infatti non ne parla mai), ma solo un assegno in bianco, su cui scrivere via via la cifra che interessa. Nascono così, in questa apparentemente infinita pagina bianca delle occasioni, i doppioni infrastrutturali, a simbolo (malafede a parte) di un rapporto davvero arcaico con lo spazio: conquista dei territori, infusione di “vita” là dove non ce n’era. E la stessa organizzazione a rete dell’insediamento, anziché assumere almeno in prospettiva la dovuta complessità, si declina semplicemente nei termini a-spaziali della competitività territoriale, delle grandi infrastrutture autoreferenziali, dell’adattabilità di tutto e tutti allo slogan del momento, con strascichi che poi durano però alcuni milioni di momenti.

La stessa trappola in cui volenti o meno si sono cacciati gli impavidi progettisti di VeMa, senza sapere o voler riconoscere il contesto dentro a cui si appoggia il bel giocattolino dalle aggraziate forme: grandi campiture territoriali, delimitate da linee di infrastrutture, da riempire col solito asfalto, cemento, vetro e neon. Quelli sì, inevitabilmente e sguaiatamente sdraiati. Salvo che sulle copertine delle riviste, naturalmente.

Nota: come per tutte le altre cose, anche per la megalopoli è legittimo avere opinioni diverse; ciò non toglie che ad esempio quella riportata in questo sito dell'architetto Massimiliano Fuksas, sia un po', come dire, vaga; su temi paralleli, ci sarebbe anche - volendo - un altro mio intervento sulla cosiddetta " città infinita" nel quadro di un dibattito sullo spazio pubblico aperto dal nuovo sito Metronline a cui tutti sono invitati a partecipare (f.b.)

Da anni utilizziamo metafore che recepiscono la diffusione del fenomeno urbano: sprawl, controurbanizzazione, città dispersa, città diffusa, città infinita. Uno sfaldamento della città che ha messo in crisi l´idea stessa di città e ha portato persino a negare il persistere della polis. Che ha infatti perso sia i connotati, l´identità di "luogo", che il senso di comunità solidale. Non c´è più "città". Si è dispersa nel territorio ex agricolo senza carattere, specificità. E´ saltata non solo la forma urbis ma, in un gioco semiotico di rispecchiamenti, il territorio della convivenza, delle aggregazioni sociali, della vivibilità. A Bologna come altrove. Il territorio assediato. Per assenza di pianificazione. Soffocato per invadenza della "bolla" edilizia.

La mancanza di un progetto a Bologna e in Emilia è particolarmente preoccupante. (La revisione in essere degli strumenti urbanistici si basa solo sulle nuove quote di edilizia residenziale da realizzare - oltre a quelle tutt´altro che modeste contenute nei piani vigenti - e su infrastrutture atte a favorire la motorizzazione privata). Si ignora il problema dell´area metropolitana. Manca la presa d´atto (fattuale e non solo astratta) che natura e struttura della città sono cambiate. Che il suo aggregato fisico si è dilatato ben oltre i confini comunali. Che i suoi abitanti si sono dispersi nei paesi e nelle campagne e che chi la frequenta e usa non è più il cittadino di un tempo.

Questioni talmente note che ribadirle annoia. Ma che non trovano coerenti politiche territoriali. Soluzioni adeguate. La Regione tace da anni. (Sull´assetto del territorio, esiste ancora?). La capacità di controllo della Provincia si è dimostrata fallimentare. Il Comune si è isolato all´interno dei suoi confini.

Per paradosso si attende dal governo centrale una decisione che dovrebbe invece appartenere prima di tutto alle politiche locali. Qui sta l´errore di fondo.

Attribuire all´area metropolitana un esclusivo ruolo infrastrutturale e di strumento di captazione di finanziamenti pubblici. Una logica di subalternità dal centro che fa poco onore alla capacità emiliana di autodeterminazione e innovazione istituzionale e mette in luce la scarsa consapevolezza politica dei problemi complessi dell´area vasta. Che non attengono le elargizioni del centro, ma scelte politiche in direzione di nuovi modelli di decisione e di rappresentanza locale.

Sino a che non si trova il modo di coinvolgere i cittadini metropolitani nelle scelte la situazione rimarrà ingovernabile, di disagio, dissenso, malessere. I cittadini metropolitani debbono contribuire all´elaborazione di un progetto innovativo in grado di definire un giusto assetto del territorio. Ma il desiderio di partecipazione espresso da associazioni, comitati, gruppi civici viene accantonato o costretto entro contenitori fittizi. Uno spreco di risorse sociali, di idee e progettualità preziose invece per uscire da una fase avvilente di declino e di perdita del senso di appartenenza al proprio territorio. Il tema della "città di città", della irrinunciabile revisione statutaria delle Circoscrizioni, della creazione di nuovi municipi federati viene svilito ad artificio retorico privo di operatività. Nulla si sta facendo per ridare significato al vivere metropolitano. Urge una riforma delle rappresentanze e dei processi di decisione che sappia tenere conto dei contributi che la società può offrire e li traduca in effettiva potestà, rinunciando ad alcune prerogative in favore di un reale decentramento capace di ri-formare la città come "città-di-città" del terzo millennio.

Su questi temi domani, mercoledì 22, in aula Absidale si svolgerà un´iniziativa che prevede alle 15,30 una tavola rotonda "Dall´oblio dell´urbano a una città di città", coordinata da Guido Fanti, in cui si discuterà di alternative possibili con un´attenzione precisa all´idea di metropoli come città di città progettata con la partecipazione dei cittadini. Senza dimenticare le recenti polemiche sulle aree collinari, sul degrado di alcune aree del centro storico e sull´abbandono a loro stesse delle Circoscrizioni bolognesi. Alle 20,45 si terrà un esperimento di teatro-forum "Il piccolo urbanista: gioco partecipativo sulla città", inscenato dall´associazione Giolli Teatro sulla città immaginaria di Sergeville. Una tecnica partecipativa volta alla ricerca di soluzioni ai conflitti e all´individuazione degli elementi di creatività collettiva da essi generati.

Bologna, la grassa, la capitale prodiana, la città modello dell'urbanistica pianificata di sinistra è diventata una città alla «Blade Runner»? La denuncia lanciata l'altro ieri dal cardinale Caffarra durante la messa per i quattro santi patroni delle arti murarie suscita valutazioni diverse. Caffarra ha parlato di una Bologna «deturpata e sfregiata», perdita di «bellezza e dignità estetica in alcune parti» e ha invitato chi è «impegnato nell'arte muraria a essere custode e difensore dell'intima bellezza». Una diagnosi impietosa ma senza riferimenti a casi specifici. Per cui, per confortarla con esempi, ricorriamo ai casi discussi negli ultimi anni: le periferie, in particolare il quartiere Pilastro. Poi il degrado diffuso, con scritte sui muri e muri usati come pisciatoi. Qualche architettura discutibile: il virgolone del quartiere Barca, la discoteca in corso di trasformazione in residence presso San Luca, Borgo Masini al posto degli stabilimenti Vecchia Romagna, la zona industriale Roveri, la Fiera District di Kenzo Tange e i grattacieli, l'area per esposizioni della Pinacoteca nazionale, le gocce di Mario Cuccinella.

Ma Caffarra ha ragione? La sinistra boccia la sua analisi. Il padre dell'urbanistica, Giuseppe Campos Venuti (che fu anche assessore), fa spallucce: «Non sono anticlericale, ma i preti si occupino d'altro. Il quartiere Pilastro venne fatto quando lo Iacp era controllato da chi era capo dell'ufficio nuove chiese. Lì si son fatti servizi e scuole; è vero però che ci fu una ghettizzazione etnica, si concentrarono tutti i meridionali. Borgo Masini (secondo alcuni un progetto esemplare ndr) è stato fatto da Pierluigi Cervellati, che ha gestito ogni ritocco non perfettamente storicistico nel centro storico da me salvato, ma poi ha fatto quelle boiate con il vicesindaco Salizzoni, che aveva ottenuto un'autorizzazione negli anni Sessanta per abbattere una chiesa e fare un supermercato. Io salvai la chiesa. La verità — conclude — è che Bologna è tra le città meno peggio nel disastrato contesto italiano. A Bologna serviva una facoltà di architettura, che non si è voluta fare».

«BASTA INGERENZE» — Sulla sua linea anche il critico d'arte Renato Barilli. «Sono preoccupato dell'ingerenza continua della Chiesa: Bologna non è Napoli, ha delle periferie degradate come ce le hanno New York e Bogotá. Certo, io speravo che Cofferati fosse in grado di recuperare maggior decoro, su questo sono deluso».

Il discorso del cardinale trova parziale approvazione in Carlo Monaco, già assessore all'Urbanistica della giunta Guazzaloca. «Architetti come Campos Venuti e Pierluigi Cervellati avevano confezionato un mito di Bologna che io ho sempre denunciato come falso. Si è tutelato centro storico e colline, ma il resto è senza qualità per due errori: il ricorso allo zoning, che ha creato quartieri come la Fiera District e la zona industriale Roveri; e il ricorso al metodo di un metro di verde per un metro di costruito. Tutto ciò non ha funzionato, così come in altre città. Bisognava puntare sulla città policentrica costruendo centri in periferia. Poi fare dell'arte pubblica e migliorare la pulizia: c'è troppo sporco sui muri ed eccesso di polvere».

L'ABBRUTIMENTO — Pierluigi Cervellati condivide l'invettiva di Caffarra, ma non giudica Bologna peggio di altre città. «Gli inserimenti architettonici di Bologna sono analoghi a quelli di altre città e la crescita dei quartieri economici è addirittura migliore. Ma sta venendo meno il senso civico. Bologna ha cercato di salvaguardare il centro storico e la zona collinare e sviluppato i quartieri popolari. Non ha una bellezza esibita e turistica e sta diventando una città dispersa, una non città, poco vissuta e con perdita di senso di appartenenza. Gli studenti la subiscono e le strade sono utilizzate come orinatoi. C'è un abbrutimento che va al di là dell'architettura». Un brutto segno per una capitale del sapere con la sua università di via Zamboni, l'Archiginnasio e l'Accademia Clementina centro dei grandi studiosi d'arte felsinei. Un paio di brutti esempi Cervellati li segnala: «L'ex discoteca Vertigo trasformata in residence dopo un valzer pluriennale di carte bollate e azioni legali: è uno scandalo che nessuno, fra i tanti funzionari, si sia accorto del danno che si stava facendo al vicino gioiello barocco di San Luca». L'altro è «il campo da golf che si sta costruendo in collina». Un terzo è «trasformare edifici del centro storico con diversa funzione d'uso non idonea, come boutique o megastore che svuotano edifici», facendone dei non luoghi anonimi. Ricetta: «Bisognerebbe tornare alla pianificazione».

Anche il critico Vittorio Sgarbi, nato nella vicina Ferrara, nota «trascuratezze di gestione e le difficoltà di una città monumentale, ma non turistica». E con qualche errore. «Con Giorgio Morandi Bologna diventò una capitale dell'arte moderna, ma quando morì la sua casa in via Fondazza venne smontata per farne appartamenti anziché una casa museo e il suo museo l'hanno fatto altrove»: era già un segnale di quella perdita d'identità che molti rilevano sotto le due torri. Quando poi si passa al «nuovo», Sgarbi è caustico: «La Pinacoteca nazionale ha sistemato un orrendo spazio mostre sotterraneo. Con sindaco Guazzaloca, l'architetto Cuccinella ha progettato due "gocce" che erano dei pisciatoi ovali di vetro e cemento a quaranta metri da piazza Maggiore per fare il centro di documentazione dell'attività politica». Ora rimossi da Cofferati.

L’appello del ministro Rutelli a un rinnovato impegno per l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ha avuto un riscontro ampiamente positivo: buon segno, se dalle intenzioni si vorrà passare ai progetti concreti. Ne sarebbe contento Gombrich: in un’intervista rilasciata poco prima della morte disse che «i guardiani del patrimonio artistico italiano, il più ricco del mondo, devono essere i cittadini italiani; perciò studiare storia dell’arte è più importante per gli italiani che per chiunque altro». Ma quale storia dell’arte va insegnata in Italia all’alba del XXI secolo? I manuali tradizionali, con le loro sfilze di quadri e sculture e architetture in ordine cronologico, non bastano più. Se l’educazione all’arte serve alla formazione del cittadino (di una coscienza civica attenta alla conservazione), bisogna prender atto che il centro del problema si è spostato: alla storia delle arti belle va aggiunta, e in posizione centrale, quella del paesaggio e dell’ambiente, del loro delicato innestarsi sul tessuto urbano. Perché è qui, nella non-tutela del paesaggio e dei tessuti urbani, che si compiono i maggiori scempi, ed è qui che la coscienza civica deve farsi adulta. Anche la percezione dello spazio urbano come spazio della socializzazione e della civiltà è stata data per scontata per secoli, oggi non più. È necessario un grande sforzo di ricerca e di educazione sull’identità della città contemporanea, sul suo sfumare (attraverso periferie oggi così desolate) nella campagna.

È sul fronte del paesaggio che il sistema della tutela rivela le sue maggiori debolezze, anzi è assai mal definito sin dalla legge 1497 del 1939, secondo cui la tutela si esprime con atti generici che "vincolano" sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato. Il progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle istanze locali ha segnato il tracollo delle procedure di salvaguardia, già iniziato quando il DPR 616/1977 delegò alle regioni la "protezione delle bellezze naturali", con facoltà di subdelega ai Comuni, pur mantenendo un finale giudizio di conformità da parte delle Soprintendenze. Nel nuovo Codice dei Beni culturali, al contrario, l’art. 135 prescrive sì l’obbligo di piani paesaggistici regionali, ma il ruolo del controllo statale è capovolto anche rispetto alla legge Galasso (431/1985): le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie dei Comuni, possono solo partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici regionali. Possibilità peraltro teorica, perché secondo l’art. 143 del Codice le regioni «possono» (e non «devono») stipulare «accordi col Ministero per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici»; ma soprattutto perché le regioni mostrano gran riluttanza a redigere i loro piani paesaggistici, e lasciano di fatto mano libera ai Comuni. Al giudizio di un funzionario dello Stato con le debite competenze tecniche e piena indipendenza da ogni potere politico si è così sostituito il pulviscolo di una serie di decisioni sconnesse di singoli amministratori comunali, che troppo spesso ahimé (dalle Alpi alla Sicilia) sono inclini a svendere il paesaggio pur di raccattare qualche voto.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, grazie al "caso Monticchiello": Rutelli dichiara pubblicamente (convegno FAI del 10 novembre) che «la realizzazione di quei villini dozzinali fa vergogna alla capacità progettuale del Paese», l’assessore regionale Conti (Il Tirreno, 31 agosto) chiosa che «quell’insediamento fa schifo», e via con invettive d’ogni sorta; ma il presidente della regione Toscana dichiara alla Repubblica (9 novembre) che il triste villaggetto non si può abbattere perché le licenze rilasciate dal Comune sono in regola, e d’altronde il piano paesistico per la Toscana manca. Insomma, il disastro è fatto ma la colpa non è di nessuno.

Il caso Monticchiello (ma ce ne sono, in Toscana e altrove, di ancor peggiori) è istruttivo. Prima si fa campagna perché la Val d’Orcia venga inserita nella lista dei siti Unesco in grazia del suo paesaggio meraviglioso e intatto. Una volta ottenuto il "marchio" Unesco, si progettano i "villini dozzinali" a duecento metri dal borgo, e si lancia sui giornali una campagna acquisti: compratevi la villetta a schiera in un sito Unesco! Bel capovolgimento dei valori: il riconoscimento Unesco, un sigillo di qualità che dovrebbe comportare l’impegno a difendere quel paesaggio, diventa un incentivo a svenderlo, viene esso stesso mercificato. Che la speculazione edilizia prediliga i siti più intatti, più prestigiosi, più ricchi di valori paesaggistici e ambientali, è un fatto: il progetto che vorrebbe installare sulla riva del lago Inferiore di Mantova (uno straordinario paesaggio plasmato dall’uomo, e intatto da mille anni) 185.000 metri cubi di cemento è mirato a "usare" lo skyline urbano di Mantova, fra i più celebrati del mondo, come la veduta da offrire ad acquirenti e inquilini, trasformando la mirabile città in una cartolina da quattro soldi. Peccato che dal castello di San Giorgio, dalle stanze dei Gonzaga affrescate da Mantegna, si debba poi vedere la squallida cartolina del neo-ecomostro mantovano.

Quel che sta accadendo non è colpa solo del Codice né delle altre leggi, ma anche dell’infelice riforma del titolo V della Costituzione (1999), che anziché risolvere la ripartizione dei poteri fra Stato e regioni, l’ha resa ardua e impraticabile, sollevando davanti alla Corte Costituzionale decine di conflitti. Secondo l’art. 117, la potestà legislativa su tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (ivi compreso il paesaggio) spetta, in via esclusiva, allo Stato. Quanto alla valorizzazione, allo Stato spetta fissare i principi, alle regioni (ivi comprese quelle ad autonomia speciale) la regolamentazione di dettaglio. L’esercizio della valorizzazione, ha chiarito una sentenza della Corte (26/2004) è in capo al possessore del bene, che sia lo Stato o la regione. Infine, secondo l’art. 118, leggi dello Stato devono regolare forme di intesa e di coordinamento fra Stato e regioni «nella materia della tutela dei beni culturali». Ma la stessa distinzione fra "tutela" e "valorizzazione" è confusa e contraria alla buona amministrazione, produce frammentazione dell’azione amministrativa e dispersione delle responsabilità.

Ognun vede quanto insidiosa possa essere l’interpretazione di questo groviglio inestricabile, e lo illustrano bene tre casi di questi giorni. Il Friuli-Venezia Giulia (regione a statuto speciale) ha creato con propria legge una Fondazione per la gestione del patrimonio archeologico di Aquileia, in massima parte statale, senza minimamente coinvolgere gli organi dello Stato, che naturalmente ha subito avviato un procedimento impugnativo. Lo stesso sta accadendo con due altre regioni ad autonomia speciale: la Sardegna si è attribuita la competenza esclusiva a delineare nel Piano regionale "gli obiettivi e le priorità strategiche, nonché le relative linee d’intervento per la conservazione dei beni culturali, per la ricerca archeologica e paleontologica"; la Val d’Aosta prova a legiferare in materia di archivi senza coordinarsi con gli organi dello Stato. In questi tre casi, non è l’interesse delle regioni, per sé encomiabile, che è in discussione, bensì il loro ruolo: a quel che pare, anziché cercare forme di leale intesa, sta prevalendo la tendenza a cavillare, sfruttando la crisi delle Soprintendenze (per mancanza di assunzioni) e le ambiguità del nuovo Titolo V per "allargare lo spazio" delle regioni a detrimento di una concezione unitaria della tutela in tutto il territorio nazionale, prescritta dall’articolo 9, non a caso fra i principi fondamentali della Costituzione. Questa guerra di logoramento non avrà né vinti né vincitori, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un preziosissimo bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di un continuo "fuoco amico" fra i poteri pubblici. E’ tempo di lanciare in questo Paese, come ha proposto il FAI al termine del suo recente convegno, un grande patto nazionale per la tutela che includa Stato, regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e dalla necessaria unità del Paese, vigorosamente richiamata dal presidente Napolitano. In questo patto anche l’educazione all’arte, al paesaggio, all’ambiente, deve avere un ruolo essenziale, pena la devastazione dell’Italia che amiamo.

Postilla

Tra le molte considerazioni giuste di Settis qualcuna merita precisazioni, soprattutto per il ruolo che il presidente del Consiglio superiore dei beni culturali riveste.

Intanto, la tutela del paesaggio è, secondo la nostra Costituzione, impegno della Repubblica, non solo dello Stato. Se a questo spettano le responsabilità maggiori, ci sembra che la “assidua riconsiderazione del territorio nazionale alla luce e in attuazione del suo valore estetico-culturale “, cui rinvia sistematicamente la Corte costituzionale (cost 151/1987, cost. 327/1989) sottolinei la necessità di un impegno altrettanto rilevante delle regioni, delle province, dei comuni. Ciascuna istituzione con le proprie specifiche responsabilità. Così ci aspettiamo che lo Stato eserciti i propri poteri (e non faccia come a Monticchiello, dove ha dimenticato di pronunciarsi in tempo utile). Anche, e oggi soprattutto, in attuazione all’ottimo Codice dei beni culturali e del paesaggio, che costituisce il punto più avanzato dell’evoluzione culturale, avviata dal decreto Galasso e dalla legge 431/1985; che ci ha portati ben lontani dalla legge del 1939. Alle logica della quale invece Settis sembra ancora legato, visto che ritiene ancora che si possano applicare oggi le pecette del vincolo procedimentale, forse utili quando il territorio tutelato era del 2 o 3%, mentre oggi, grazie alle leggi e ai codici degli ultimi 20 anni, è certamente oltre il 50%.

E’ certamente da condividere il giudizio di Settis sulla “infelice riforma del titolo V della Costituzione (1999), che anziché risolvere la ripartizione dei poteri fra Stato e regioni, l’ha resa ardua e impraticabile, sollevando davanti alla Corte Costituzionale decine di conflitti”. E sarebbe davvero una buona cosa se dall’organo presieduto da Settis, e dal leader dell’Ulivo attualmente anche titolare del dicastero dei Beni e delle attività culturali, partisse una vigorosa iniziativa per correggere il grave errore compiuto dal Parlamento nel 2001 (e non nel1999). Ma nell’attesa, non adoperiamo la pistola scacciacani del 1939, ma gli strumenti difensivi foggiati in tempi più recenti.

Oggi lo strumento è l’applicazione rigorosa, integrale, consapevole, e in primo luogo informata del Codice del paesaggio. Questo dispone che le regioni formino un piano paesaggistico di cui vengono precisati con ampiezza i contenuti. Non potranno essere piani di chiacchiere (come quelli preanniunciati nelle 99 pagine del documento preliminare al PIT della Toscana), ma piani che censiscano con accuratezza, su una base cartografica adeguata e per tutto il territorio regionale, i beni paesaggistici prescritti o ritenuti d’interesse nazionale e regionale, che dispongano per ciascuna categoria di essi specifiche regole di tutela di ciò che c’è da tutelare, e che indirizzino i comuni a concorrere nella “assidua considerazione” proseguendo alla scala locale l’individuazione di ulteriori beni.

Le regioni sono obbligate, dalla legge, a fare ciò. Se lo fanno d’intesa con le amministrazioni dello Stato (Beni e attività culturali e Ambiente e tutela del territorio e del mare), allora le procedure abilitative degli interventi nelle aree tutelate sono semplificate e snellite, e la garanzie della tutela è fornita dal rispetto formale e sostanziale del piano paesaggistico. Altrimenti le procedure restano definite nell’attuale modo, da tutti giudicato complicato e farraginoso.

Certo, concorrere con le regioni a redigere i piani paesaggistici non è compito che gli organi dei ministeri possano fare rimanendo organizzati così come lo sono ora. Ma è certo incomparabilmente meno pesante, e certamente più efficace, la riorganizzazione da compiere per assolvere i compiti nuovi, che quella che sarebbe necessaria se si volessero rincorrere centinaia di migliaia di autorizzazioni paesaggistiche o altri simili atti discrezionali.

Lavorerà in questa direzione il Ministero del quale Settis è autorevolissimo consigliere? C’è da augurarselo. Altrimenti gli “ecomostri”, ben peggiori di quello di Monticchiello, continueranno ad accumularsi sul nostro territorio. E si dovrà additare come complice la miopia di chi oggi guarda unicamente all’apprendimento dell’arte del passato (certo utilissimo), e trascura l’applicazione delle buone leggi attuali.

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