Fra roventi polemiche, a Monza la giunta di Michele Faglia (Unione) ha ottenuto dal Consiglio comunale l'adozione del Piano di governo del territorio: 22 voti a favore pochi minuti dopo la mezzanotte di venerdì. Sullo strumento che delinea lo sviluppo urbanistico della città, compresa la questione Cascinazza, annosa vertenza giuridico—immobiliare fra la famiglia Berlusconi e il Comune, pesa tuttavia la decisione della Casa delle Libertà di abbandonare l'aula al momento del voto per protesta contro «l'arroganza della maggioranza». Dice Osvaldo Mangone, capogruppo di Forza Italia: «La giunta Faglia ha dimostrato scarso rispetto dei diritti della minoranza. La nostra possibilità di intervenire è stata praticamente annullata». Il tutto accompagnato da bandiere e cartelli e dalle grida del pubblico. I punti chiave del piano messo a punto dall'assessore all'Urbanistica, Alfredo Viganò, sono l'introduzione del principio della perequazione e la salvaguardia delle aree verdi libere, fra le quali compare anche il lotto Cascinazza, nella periferia Est di Monza. «Il nuovo Pgt di Monza non è stato approvato solo per risolvere il problema della Cascinazza — commenta Faglia —. Grazie a questo voto la città ha adesso delle regole certe in materia urbanistica e abbiamo evitato che ritornasse in vigore il vecchio Prg Piccinato». Sullo sfondo, tuttavia, la questione Cascinazza continua ad incombere. Il Consiglio di Stato ha infatti accolto il ricorso presentato da Istedin, società della famiglia Berlusconi, contro la decisione della giunta di sospendere la discussione del piano di lottizzazione da 388 mila metri cubi. «Il Comune dovrà motivare un eventuale rifiuto — commenta Antonio Anzani, amministratore della società —. Ho già fatto partire una diffida e nelle prossime ore recapiterò la richiesta di danni».
Faglia, tuttavia non si scompone. «Ci stupisce questa sentenza — conclude —. Abbiamo già espresso un parere nel merito del progetto in questione e l'abbiamo sospeso perché non conforme al Prg. Questa decisione non cambia le carte in tavola, la Cascinazza è un caso chiuso».
Una sintesi della vicenda su Carta del 3 luglio 2006. Molti altri articoli e documenti nella cartella Padania, oppure scrivendo "Cascinazza" nel "Cerca" in alto a destra di tutte le pagine.
Lo studio di fattibilità è sul tavolo di Bassolino, l´allarme per il recupero dei lidi è tra le mani di Pecoraro. Uno racconta perché la colmata di Bagnoli non andrà più alla Darsena Levante con percorsi e costi alternativi, l´altro riferisce che la bonifica non funziona. I dati dell´Arpac, riferiti in un promemoria al ministro dell´Ambiente, sono espliciti: «I risultati - c´è scritto nella relazione - sono lontani da quelli attesi. Il livello di inquinamento residuo da idrocarburi policromatici totale resta sempre del 90 per cento». Significa che la macchina "soil washing" utilizzata dalla ditta De Vizia - una variante al progetto di partenza - non riduce l´inquinamento presente nella sabbia. Secondo la relazione che Pecoraro può leggere da qualche giorno, ai veleni dell´Ilva l´intervento di pulizia gli fa il solletico: «Gli abbattimenti sono poco significativi». È una resa definitiva all´idea di recuperare la sabbia di partenza. Esistono due date da rispettare: il 30 aprile è prevista la consegna degli arenili di Coroglio Nord, il 30 maggio quelli di Coroglio Sud. La soluzione che si profila? «Sabbia da scavi di sbancamento». Così dopo l´erba sintetica, Bagnoli avrà pure la spiaggia d´importazione. Costa 3 euro ogni metro cubo.
Portar via la colmata costerà invece dai 94 e ai 155 milioni di euro. Dipende dalla soluzione che si intenderà sposare. È l´esito dello studio di fattibilità commissionato a Sviluppo Italia Aree Produttive. È il documento da cui proviene l´indiscrezione del trasferimento a Piombino di cui s´è parlato giorni fa. È una delle quattro ipotesi dello studio, consegnato a Bassolino con una certezza di base e una acquisita. La colmata va rimossa perché non esistono attualmente informazioni che indichino se il sistema di messa in sicurezza del 2003 abbia prodotto o meno un lavaggio dei sedimenti e dei suoli; inoltre i tempi per la realizzazione della Darsena Levante all´interno del porto di Napoli si sono prolungati, e non coincidono più con le esigenze della bonifica di Bagnoli. Ecco perché bisogna rinunciare a quel progetto, approvato appena il 21 dicembre 2005.
Al suo posto spuntano 4 possibilità. Uno: la trasformazione della colmata in inerti e il recupero come materiale da costruzione. Due: lo smaltimento nella discarica di Pianura. Tre: il trasporto in Danimarca. Quattro: Piombino. L´ultima è la più economica, ed è il motivo per cui da qualche giorno ci si lavora. Costa 94 milioni e 46 mila euro, di cui 58 da spendere per la rimozione, 4 e mezzo per opere accessorie, 32 per trattamento, trasporto e conferimento. C´è già la disponibilità dell´Autorità portuale toscana e del sindaco Ds, Gianni Anselmi, neppure quarant´anni, ex dee jay di una radio locale ed ex calciatore della squadra cittadina. Cosa ne farebbero lì della colmata dell'Ilva, pare ormai certo. I materiali trattati sarebbero usati in parte per una nuova opera di banchine, in parte per la realizzazione del prolungamento di una strada statale, la 398, nel tratto tra Montegemoli e il porto della città.
Scartata la Darsena Levante per i suoi ritardi, l´idea di utilizzare la colmata per farne un pezzo di strada era stata presa in considerazione anche per la Campania. Per la Caserta-Benevento o per la variante della Statale VII quater. Il punto dolente è lo stesso del porto. I tempi di Bagnoli non coincidono con quelli delle infrastrutture: sarebbe stato necessario dotarsi di un´enorme area di stoccaggio, e figurarsi. Ma la trasformazione in inerti e in materiale da costruzione - secondo lo studio di Sviluppo Italia - potrebbe tuttora far comodo al litorale di Castelvolturno, dove è previsto un progetto di ripascimento per l´arretramento della battigia per un´intensa azione erosiva. Lì, la "post colmata" farebbe da base per la sabbia e per il rimodellamento dei fondali. Il costo previsto è 107 milioni di euro. Con un ostacolo di non poco conto. Il trasporto via terra di due milioni di metri cubi di materiale. Con la capienza attuale dei camion, significa che occorrono 140 mila viaggi, che divisi per la durata dei lavori prevista in 18 mesi fanno 252 al giorno, cioè 25 all´ora. Più o meno un camion ogni due minuti sulle strade di via Nuova Bagnoli, via Coroglio e via Cattolica. Motivo che ha portato Sviluppo Italia a scartare in partenza, senza neppure azzardare un preventivo, l´ipotesi di un trasferimento nella discarica di Pianura. «Costi sociali altissimi», scrivono i tecnici a Bassolino. E allora? La colmata viaggerà via mare. Il materiale sarà stoccato e trasportato separatamente, secondo il suo grado di inquinamento. Per la rimozione si suggerisce di agire da terra con 5 escavatori per agitare meno acqua possibile. Prima si rimuove la massa di materiale, poi la scogliera, quindi si passa alla bonifica dei fondali, a cominciare dagli arenili disponibili. Il programma prevede anche la ricerca di ordigni bellici con il Side Scan Sonar, una sonda acustica che rileva le anomalie dei fondali e che consente a un computer di ricostruire i dati sotto forma di immagini. Portare la colmata in una stazione di conferimento rifiuti in Danimarca, analogamente al modello seguito dall´Autorità portuale di La Spezia, costerebbe 155 milioni di euro. Portarla a Piombino 94. Cinquanta milioni sarebbero a carico del ministero, 10 in quota Regione, circa 23 da parte del commissariato di governo, gli altri 35 dall´ex articolo 1 comma 3. Ora lo studio passa all´attenzione del commissario alle bonifiche, Arcangelo Cesarano. Oggi è a Napoli il ministro Pecoraro.
Postilla
Dunque, dopo quasi quattro lustri dalla chiusura dei due altoforni dell'acciaieria (1989) e oltre dieci anni dalla variante PRG del 1996 che stabiliva il programma di riqualificazione urbana e ambientale dell'area, questi sono i risultati: la bonifica dei lidi è fallita, la colmata a mare continua a diffondere nell'ambiente circostante i veleni dei suoi idrocarburi e i recentissimi scavi per la costruzione di una fogna a Coroglio hanno rivelato altissime presenze di amianto, venefico lascito dell'ex Eternit (la Repubblica, ed. Napoli, 27/2/2007). In compenso il CdA della Società di Trasformazione Urbana “Bagnolifutura” è paralizzato da mesi in una infinita e molto prosaica querelle su designazioni e compensi dei consiglieri.
Davvero Bagnoli rappresenta l'epitome del degrado dell'area metropolitana napoletana e dell'inefficienza della sua pubblica amministrazione.
E del triste declino di una stagione politica, ideologicamente ormai lontanissima: la svolta ambientalista della prima giunta Bassolino era stata accompagnata dalle famose assemblee popolari attraverso le quali il mito dell'industrializzazione cominciò ad essere sostituito dall'esigenza e dall'aspirazione ad una diversa e migliore qualità della vita urbana. Bagnoli divenne uno dei punti di forza di quella politica simbolica del così detto 'rinascimento' napoletano capace di suscitare un clima istituzionale di grande fiducia nel nome di una solidale appartenenza comunitaria.
Oltre ai danni ambientali, uno dei risultati più pericolosi del fallimento che vive quest'area consiste proprio nel tradimento di queste attese: recenti ricerche demoscopiche (la Repubblica, ed. Napoli, 25/2/2007), illustrano con chiarezza come per i cittadini della zona disillusione e perdurante crisi economica abbiano ormai portato ad accantonare la questione ambientale; e si riaffacciano prepotenti le paure collegate all'ascendente controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Il disincanto de “La dismissione” aleggia sui fantasmi di questa bonifica infinita.
Non tutti però, sono pessimisti: Emma Marcegaglia, vicepresidente di Confindustria, ha dichiarato (Il Mattino, 9/3/2007): «I grandi progetti di riconversione industriale come Bagnoli e la zona orientale costituiscono una grande occasione di sviluppo per Napoli. C’è una grande opportunità che deriva, per il territorio, dalla possibile attuazione dei grandi progetti di riconversione».
Eppure a chi, incamminatosi lungo il pontile nord, si volti all'indietro ad osservare quei lidi disastrati questo spazio sprigiona, con quella mixitè così struggente di archeologia naturale e archeologia industriale, un potere evocativo davvero straordinario che ci ricorda impietosamente, incessantemente, come la strada del ritorno dai disastri dell'insipienza umana sia lunghissima e tortuosa. (m.p.g.)
La Fondazione Fiera Milano ha costruito il nuovo polo fieristico di Rho-Pero, e ha ceduto buona parte dell’area urbana della "vecchia fiera", 255mila metri quadrati, a Citylife, una cordata composta dal gruppo Ligresti, Generali, Ras, Lamaro e Lar.
Su quest’area verranno costruiti quasi un milione di metri cubi, tra abitazioni e uffici, con 15mila presenze: una nuova città. Si tratta di un progetto dal valore complessivo di circa 2 miliardi, sull’ultima grande area disponibile in Milano. I promotori lo descrivono come un caso esemplare di collaborazione pubblico-privato: si tratta dunque di un tema di interesse generale e non solo locale.
Il progetto
Il progetto ha suscitato numerose e forti critiche, da architetti e urbanisti oltre che dai "comitati" dei residenti. (1)
Per inserire tanta volumetria in poco spazio sono stati progettati tre altissimi grattacieli, forse belli per Shanghai, ma del tutto estranei all’anima del quartiere, e, lungo il perimetro della "vecchia fiera", una cinta di case alte 14-20 piani che incomberanno sugli edifici circostanti. Al verde è lasciato solo poco più di un terzo dell’area, e in parte si tratta di verde "condominiale", incuneato tra gli edifici, per cui il tanto vantato "parco" sarà ancor più ristretto e per larga parte in ombra. Si prevede un drammatico peggioramento del traffico attorno all’area, già oggi congestionata, per gli accessi ai novemila parcheggi sotterranei. Eppure, secondo un’indagine dell’Ocse, Milano risulta la seconda peggiore tra trenta città europee quanto a inquinamento e congestione del traffico. Con progetti come questo la situazione è certo destinata a peggiorare.
Tutte le critiche derivano, a ben vedere, dal vizio originale del progetto: consentire una volumetria abnorme, con un indice di edificabilità doppio rispetto a quello normalmente concesso per altri PII a Milano. Ma è proprio grazie a questa volumetria che la Fondazione Fiera ha potuto ricavare ben 523 milioni di euro dalla vendita del terreno. La domanda che si pone è perché il comune di Milano abbia concesso questa volumetria abnorme, visto che la costruzione di uffici e case di lusso non si configura certo come un progetto di interesse pubblico.
La collaborazione pubblico-privato
Torniamo al tema della "collaborazione pubblico-privato".
All’origine esisteva l’Ente autonomo Fiera internazionale di Milano, pubblico, al quale lo Stato cedette, nel 1922, la vecchia piazza d’Armi in quanto ente "non con mire speculative ma di pubblica utilità". Nel 1999, con un accordo di programma si decise di costruire il nuovo polo fieristico di Rho-Pero e di dismettere buona parte dei padiglioni della "vecchia fiera". Successivamente, l’Ente Fiera si è trasformato da ente pubblico in Fondazione di diritto privato, l’attività fieristica è stata scorporata nella Fiera Milano spa (quotata in borsa), e la Fondazione è divenuta in sostanza una "immobiliare" ("privata") che affitta i padiglioni alla Fiera Milano spa.
Il contributo del "privato" è stata la costruzione del nuovo polo fieristico, che resta peraltro proprietà della Fondazione. Questa possiede immobili valutati, prudenzialmente, 855 milioni e varie partecipazioni, tra cui la quota di controllo della Fiera Milano spa. 160 milioni ai prezzi di borsa), a fronte di debiti a lungo termine per soli 164 milioni (bilancio al 30.6.2006). Si tratta dunque di una Fondazione ricchissima, senza che il suo statuto indichi alcun specifico scopo sociale. Questo patrimonio è stato "privatizzato" senza alcun compenso per il "pubblico", che pure aveva finanziato e sostenuto in molti modi l’Ente Fiera nell’arco di novant’anni.
L’ultimo "regalo" del "pubblico" è stata appunto la possibilità di valorizzare al massimo il terreno della "vecchia fiera", concedendo una volumetria che pur penalizza gravemente la città, e accettando che la scelta tra i progetti selezionati, dalla stessa Fondazione, fosse determinata esclusivamente in base al prezzo offerto. Visto poi che, per rispettare lo standard di 44 metri quadri per abitante, "mancavano" 106mila metri quadrati, il comune ha concesso di "monetizzare" queste aree pubbliche mancati al prezzo irrisorio di 242 euro al metro quadro. In teoria il comune dovrebbe incassare, tra monetizzazione e oneri di urbanizzazione, 98 milioni. Ma una volta scomputati gli oneri che Citylife sosterrà per l’urbanizzazione e gli edifici di interesse pubblico (Museo del Design e del Bambino, di cui non si sentiva proprio il bisogno), al comune non resterà pressoché nulla, mentre dovrà farsi carico di pesanti investimenti per adeguare la viabilità. È poi ora prevista anche una nuova linea di metropolitana con fermata alle "Tre torri", ottima iniziativa, che aumenterà il valore degli immobili (e quindi i profitti di Citylife), ma con costi a carico della collettività.
In conclusione, questo esempio di "collaborazione pubblico-privato" sembra essere stato impostato esclusivamente in base alla logica del profitto "privato", della Fondazione e di Citylife, addossando invece alla collettività notevoli costi finanziari e pregiudicando irrimediabilmente la qualità della vita di una delle migliori parti della città.
L’esempio di Monaco
Era possibile una soluzione diversa? Certamente sì, perché i numeri indicano che i costi del nuovo polo di Rho-Pero avrebbero potuto essere ampiamente coperti anche limitando alla metà la volumetria concessa e quindi il ricavo dalla vendita del terreno. Forse, al comune, hanno sbagliato i conti, oppure si sono semplicemente adeguati alla logica del profitto.
Anche la Fiera di Monaco ha lasciato la propria sede storica, 110 mila metri quadrati nel cuore della città, per trasferirsi in uno spazio più ampio, in periferia. In quel caso la Fiera ha restituito alla città il terreno che aveva ricevuto, e la città ne ha pianificato lo sviluppo, anche con la costruzione di case private ma con stretti vincoli: 27 per cento di edilizia sociale, 20 per cento destinate a famiglie giovani, densità in linea con quelle esistenti, servizi pubblici di quartiere, parco e museo. È un esempio che mostra come sia possibile contemperare l’interesse pubblico con la logica dei costi, laddove vi sia un ente pubblico deciso appunto a difenderlo.
(1) Per una rassegna stampa, si veda www.quartierefiera.org oppure www.residentifiera.it
Dal Casilino alla Serpentara, case dalle forme gratuite non a misura d'uomo.
Viste dall'aereo le case dell'Iacp al Casilino sembrano formare un'allegra, disordinata raggiera, come bastoncini dello shangai gettati casualmente al suolo. Da terra, invece, appaiono come casermoni che convergono verso il nulla, governati da direzioni astratte. I progettisti ne spiegarono le ragioni con argomenti bizzarri: l'analogia con la forma del Colosseo, l'affinità con i tessuti urbani antichi. Spiegazioni che oggi, percorrendo questi spazi che sembrano vivere in una dimensione irreale, fanno sorridere.
In realtà, per comprenderne il senso, occorre collocare il Casilino (e molti quartieri Iacp contemporanei) all'interno della crisi profonda che percorre l'architettura degli anni '60. Un decennio in cui tutto sembra precipitare, che si apre con le Olimpiadi di Roma e si chiude con la strage di piazza Fontana. E in mezzo i primi simboli della società dei consumi (gli elettrodomestici, le utilitarie), la corsa allo spazio, la rapina del territorio, la ribellione studentesca, il Vietnam.
È il periodo in cui appaiono, con drammatica evidenza, le prime crepe dell'ideologia del moderno mentre gli strumenti dell'architetto, i suoi linguaggi, il suo stesso ruolo, mostrano tutta la propria inadeguatezza di fronte ad un mondo in vorticosa trasformazione.
Scompaiono, intanto, i maestri: Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe.
Un libro di Marcello Pazzaglini («Architettura italiana degli anni '60 e seconda avanguardia», Mancosu editore) presentato nei giorni scorsi alla Casa dell'Architettura, fornisce l'occasione per riflettere su questo intricato, e poco indagato nodo di questioni.
Dalle architetture disegnate come ordigni meccanici di Sacripanti alle labirintiche strutture del gruppo Grau, viene descritta l'ansia di cambiamento che si manifestava, in quegli anni, attraverso intuizioni improvvise e spesso utopiche che sembravano tradurre la ricerca dell'arte informale in tormentate geometrie e inquieti spazi architettonici. Una lacerante rottura tra forma e contenuto che non fu certo solo italiana e che, consolidatasi nel tempo, ha prodotto opere di grande successo come il museo Guggenheim costruito da Gehry a Bilbao, edificio-scultura estremo dove la pelle è indipendente dallo spazio interno.
Forse l'abbaglio di quegli anni è stato tentare di estendere criteri estetici impiegati per teatri, padiglioni, monumenti al tema dell'edilizia pubblica.
Pazzaglini, va detto, non è uno storico ma un architetto militante che ha partecipato in modo appassionato alle vicende di quegli anni. È giusto, dunque, che veda il mondo dal proprio punto di vista.
E, tuttavia, alcuni esempi indicati quale positiva ricaduta di quel clima culturale, (la raggiera del Casilino, le «vele» di Secondigliano) ci fanno domandare se non sia arrivato il momento di guardare a molti interventi d'edilizia pubblica con occhi nuovi, se la loro fortuna critica non rispecchi un equivoco di fondo che rischia di creare nuove catastrofi.
Perché le stesse ragioni che hanno prodotto il disegno del Casilino hanno generato, anche nei decenni successivi, una danza sfrenata di linee spezzate, sinusoidali, circolari come a Vigne Nuove, Spinaceto, Tor de' Cenci, Serpentara, Tiburtino Sud. Figure astratte, d'inverificabile coerenza, calate sul territorio come meteore che mostrano, a viverci dentro, tutti i limiti degli intensivi più banali. E che fanno rimpiangere la familiarità corale dell'edilizia popolare degli anni '50, come le case Ina al Tuscolano.
Questi fallimenti andrebbero riconosciuti senza il pregiudizio delle firme illustri che li nobilitano. E dovrebbero far riflettere su quale significato profondo possieda il modo in cui gli abitanti immaginano la forma del loro spazio domestico, sull'arroganza con cui sono stati costretti a vivere entro forme gratuite, che sembrano annunciare novità inesistenti, dove ogni individuo è straniero. In nome di un'originalità di facciata che andrebbe, invece, cercata pazientemente nell'origine delle cose: partendo di nuovo, come agli albori dell'architettura moderna, dai problemi concreti dell'abitare, mettendo l'uomo e i suoi bisogni al centro del progetto.
Sarà forse perché da amministratore ho visto piani e varianti di tutti i tipi e colori, o forse perché ho modo oggi di vedere cosa i nostri piani hanno prodotto nelle città, ma sta di fatto che nutro una profonda delusione sulla reale efficacia di questo strumento. E nutro diffidenza sulla sua strumentalizzazione, sulla autoreferenzialità arrogante, sulla ipocrita chiamata in causa del "Piano" a difesa di quegli interessi collettivi e di quella correttezza politica e amministrativa che nessun Piano può di per sé e comunque garantire. Ma soprattutto ritengo un´offesa all´intelligenza far credere che con il Piano non si favorisce la rendita e si controlli la speculazione immobiliare.
Non è così, e da tempo. Forse è per mancanza della legge nazionale sul regime dei suoli? Forse. Però gli amministratori di Bologna (Zangheri, Sarti e Cervellati), già negli anni 70 praticarono un´efficace politica patrimoniale capace di garantire una fetta consistente di edilizia pubblica comprando vaste aree di espansione, interi isolati degradati del centro storico e parchi in collina.
Guardiamo a Bologna oggi, dove il piano dell´85–89 (per il quale solo il sindaco Vitali ha fatto autocritica) ha lasciato sul campo della sua attuazione uno dei peggiori esempi di pianificazione. Non so quanto il nuovo PSC inverta la rotta, ma ammetto la mia difficoltà a leggerlo o la sua vocazione a non farsi comprendere. Una cosa è chiara: è sparito qualsiasi riferimento al centro storico, da sempre polo funzionale primario della città e identità dell´intera area metropolitana. Così come non viene previsto alcun significativo decentramento di funzioni primarie, né viene impostata alcuna concreta visione metropolitana. Per il resto non mi risulta ci siano innovazioni sostanziali rispetto a scelte, ipotesi e progetti che si erano già via via consolidati prima della formalizzazione del piano attraverso accordi o varianti specifiche al piano dell´85: dall´area ferroviaria, alle volumetria concesse al CAAB, alla stessa proposta del people mover. Così come allo stesso modo risulta casuale ed estemporanea e quindi labile la previsione della più importante scelta infrastrutturale del PTCP.
Il cosiddetto "passante" che, pur senza essere previsto in nessun atto di pianificazione, venne inserito all´ultimo momento nel piano. Superfluo dire che sia la previsione del passante che quella del people mover ha promosso e favorito la logica della rendita di posizione che sarà difficile combattere o anche solo contemperare.
Questo quadro rappresenta l´apice di una difficoltà di governo del territorio presente anche in tanti altri comuni della regione. Forse vale la pena tornare a guardare all´Europa dove alcune fra le più avanzate esperienze hanno dato alla crisi del piano una risposta positiva accompagnandola con una pianificazione strategica capace di sposare politiche e piani e con una capacità di progettazione urbana di alta qualità. E´ la strada seguita da Rimini, ma la stessa Regione con l´elaborazione del piano territoriale e l´adeguamento del piano paesistico intende dare una risposta in positivo.
Tornando a Bologna, vi è infine da registrare come si sia di recente calato in questa situazione, in modo del tutto anomalo, il progetto Romilia. Anomalo perché è del tutto irrituale che parta dalla solitaria iniziativa di un gruppo di privati un progetto di così forte impatto, ma anomalo anche per l´atteggiamento del Sindaco che, prima ha ritenuto che la cosa non lo riguardasse, salvo successivamente chiedere alla Provincia di decidere. La Provincia ha optato per la costituzione di un tavolo inter-istituzionale dove ogni soggetto dovrà assumersi le proprie responsabilità. Senz´altro la valutazione che dovrà contare meno è quella che il progetto non è previsto nel Piano (quale?). Senz´altro quello che è necessario per il futuro è la messa in campo di una cultura di governo capace di disegnare un progetto strategico per la città metropolitana.
Sul PSC bolognese, in eddyburg
«La Regione Sardegna sospenda il bando di vendita degli ex siti minerari del Sulcis-Iglesiente». La richiesta arriva - attraverso una dichiarazione alle agenzie di stampa - dal presidente della commissione ambiente del Senato, Tommaso Sodano (Prc), che in un'interrogazione parlamentare chiede anche, al ministro Rutelli, di annullare gli atti della giunta sarda. «E' opportuna - dice Sodano - una riflessione, prima di cedere a privati un bene pubblico che l'Unesco ha dichiarato patrimonio mondiale dell'umanità».
Sodano si riferisce a una delibera della giunta regionale sarda (del 26 aprile 2006) che mette in vendita pezzi (di proprietà della Regione Sardegna) delle miniere dismesse del Sulcis-Iglesiente, uno dei siti di archeologia industriale più vasti e più importanti d'Europa.
Sodano, che polemicamente usa il termine «svendita» anziché «vendita», spiega: «Pare giunto il momento di sospendere la svendita del territorio, per verificare, insieme a comunità locali, parti sociali, associazioni culturali e ambientaliste, se esista un differente e più appropriato percorso per dare risalto a questi beni, senza che di essi si debba necessariamente e definitivamente spogliare la parte pubblica». Il presidente della commissione ambiente di palazzo Madama contesta «la cartolarizzazione dei siti di Masua, di Ingurtosu, di Naracauli, di Monte Agruxau e di Pitzinurri in favore delle multinazionali del mattone e del turismo d'élite». «Viene in questo modo affermata - dice Sodano - un'idea di sviluppo che passa attraverso l'alienazione di beni comuni in favore di imprese private, per realizzare alberghi di lusso e campi da golf».
Le multinazionali del mattone alle quali fa cenno Sodano sono tre: Pirelli Real Estate, Immobiliare Lombarda (Ligresti-Fondiaria-Sai) e Hines Italia, un importante fondo immobiliare con sede negli Usa che a Milano sta realizzando il «Quartiere della moda». Sono queste le imprese che hanno risposto, nel luglio 2006, al bando lanciato da Renato Soru con la delibera dell'aprile 2006. Ce n'era anche una quarta, una cordata di imprenditori sardi, che però lo scorso ottobre una commissione nominata da Soru ha messo fuori gioco (mancavano alcuni dei requisiti richiesti). Il bando prevedeva tre fasi: una manifestazione d'interesse all'acquisto, una successiva selezione dei richiedenti e, infine, un'asta attraverso la quale scegliere l'impresa a cui vendere le aree. A quattro mesi dalla selezione (ottobre 2006) dei richiedenti, la data dell'asta ancora non è stata fissata. Al momento, quindi, non si sa quale dei tre colossi del business delle vacanze potrà «riqualificare a fini turistici» (così dice il bando regionale) le aree di Masua, di Monte Agruxau, di Ingurtosu, di Pitzinurri e di Naracauli (650 ettari in tutto). Si sa, invece, perché sta scritto nel bando, che il vincitore dell'asta non potrà costruire niente di nuovo, neppure un metro cubo. Potrà però ristrutturare 260 mila metri cubi di vecchie costruzioni (case di minatori, laverie, depositi) già esistenti, per trasformarli in strutture ricettive destinate a turisti di target alto.
Contro la vendita delle aree minerarie si sono schierati, nei mesi scorsi, il «Gruppo d'intervento giuridico» (una delle associazioni ambientaliste più attive nella lotta contro la cementificazione delle coste sarde) e la Rete Lilliput. Critiche sono arrivate anche dal Social forum di Cagliari. Ora contro il progetto di Soru arriva, con le dichiarazioni del presidente della commissione ambiente del Senato, uno stop più forte. Nell'interrogazione presentata il 23 gennaio scorso, Sodano ricorda a Rutelli che nella procedura di cessione dei siti minerari sardi «è stata omessa la preliminare verifica di legge dell'interesse culturale da parte del ministero» (solo nel novembre 2006 Soru ha avviato questa pratica, oltre sei mesi dopo la presentazione del bando di gara). Sodano chiede al ministro se tutto ciò non debba portare all'annullamento degli atti della giunta sarda. Ma parla anche, Sodano, di «alienazione di un bene comune in favore di privati». Questioni tecniche e nodi politici.
Vedi l'articolo per eddyburg di Arnaldo (Bibo) Cecchini e l'intervista di Edoardo Salzano su la Nuova Sardegna
ROMA - Il Nord Italia ha un traffico equivalente a quello di una megalopoli, una Bombay in movimento su quattro ruote. In 20 anni sono raddoppiati i chilometri di percorrenza e la Pianura Padana è diventata un'unica gigantesca città. E' questa la fotografia scattata da un dossier del Wwf intitolato "Nord Italia", in vista della domenica di stop al traffico, domenica 25 febbraio, dell’intero nord Italia Stop che, secondo un sondaggio svolto da Legambiente, è visto con favore dalla stragrande maggioranza degli italiani: ben l’83% è convinto che il blocco sia una decisione giusta in una situazione di emergenza smog ormai cronica, anche se il 62% non pensa che sia una misura sufficiente per risolvere il problema.
LA CITTA' DIFFUSA - Il traffico ha cancellato i confini regionali. Nella Pianura Padana è nata infatti la "città diffusa" con 20 milioni di persone, tanti quanti sono gli abitanti di Bombay, che percorrono 20 km in media al giorno (nel 1980 erano 10) e 16.000 km all'anno (il doppio rispetto al 1980) su un'area urbana e sub-urbana di 30 mila kmq (con una densità di 650 abitanti a km) pari ad un quarto del Nord Italia.
TAGLI ALLE FERROVIE - Il problema è che mentre gli investimenti su strade e autostrade continuano a crescere (con un + 25% in dieci anni) quelli nella ferrovia subivano un taglio progressivo (-2% in dieci anni) provocando ingorghi e code sulle strade, inquinamento e conseguenti malattie respiratorie. Il tasso medio di motorizzazione nell'Italia settentrionale è cresciuto di oltre il 50% (da 380 a 585 autovetture ogni 1000 abitanti), ma contemporaneamente i passeggeri sulla ferrovia sono aumentati solo del 13%.
Le emissioni di CO2 - il principale gas serra - dovute al traffico autostradale ammontano a 66 milioni di tonnellate l'anno con un incremento nel 2000, rispetto al 1980, del 71%. La megalopoli padana include il Piemonte centrale intorno a Torino, l'area metropolitana milanese e il Pedemonte lombardo, l'area veronese e il fondovalle dell'Adige tra Trento e Bolzano, l'area centrale veneta (intorno a Vicenza, Padova, Venezia-Mestre e Treviso) l'area triestina e udinese, l'intero asse della via Emilia da Piacenza a Rimini, il litorale ligure. Nel 1951 i 21 milioni di abitanti del Nord Italia vivevano ancora in prevalenza all'esterno delle aree urbane, mentre gli attuali 25,3 milioni di abitanti si sono sempre più concentrati in aree urbane e sub-urbane, alimentando la città diffusa sino alle zone pedemontane consumando paesaggio e territorio.
LE PROPOSTE DEL WWF - Contro questa emergenza e in occasione del blocco auto del 25 febbraio, il presidente del Wwf Fulco Pratesi ho scritto ai Presidenti delle Regioni del Nord proponendo 10 interventi strutturali e 20 azioni concrete per governare la mobilità nella megalopoli padana. Tra queste compaiono l'uso dei motori a metano e ibridi, l'incentivo dell'efficienza con veicoli più piccoli e leggeri, la pianificazione territoriale, la riorganizzazione radicale della rete del trasporto pubblico passeggeri, il ripensamento dell' assetto dei servizi logistici, il potenziamento dei nodi di interscambio, il rafforzamento dell'innovazione logistica e il potenziamento della rete ferroviaria.
In quella che fu la patria del diritto, sempre più spesso le leggi non danno normative di lungo periodo, ma sono un gesto di comunicazione e d’immagine, valgono in primis per il loro effetto-annuncio. Effimere come un comunicato stampa, si fanno e si sfanno (passando per fasi di proroga, deroga, surroga), ma come notizie di cronaca vengono presto dimenticate nell’incalzare di nuovi regolamenti e decreti: un pulviscolo che col suo flusso ininterrotto oscura la norma, la rende inconoscibile e impraticabile. Un caso da manuale furono, nella stagione del centrodestra, i reati contro il paesaggio: ogni sanatoria fu severamente vietata dal Codice dei Beni Culturali promosso dal ministro Urbani (che giustamente se ne vantò), ma pochi mesi dopo la legge sull’ambiente introdusse una totale depenalizzazione e sanatoria. Contraddizioni della politica? Certo, ma anche logoramento di una civiltà giuridica, svuotamento dei contenuti legislativi, oblio della Costituzione repubblicana.
Non siamo ancora al riparo da questo processo di degrado. Il nuovo governo ha riaffermato la fedeltà all’art. 9 della Costituzione ("La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione"), ma non tutti i suoi atti sono coerenti in tal senso. E’ vero che la politica di dismissioni di immobili pubblici di valore culturale inaugurata con scarso successo da Tremonti sembra abbandonata, ma essa continua pienamente a livello dei Comuni (basti citare Roma e Venezia). E non è morta l’idea-base di Tremonti, che i beni culturali pubblici debbano essere utilizzati per contenere il disavanzo: la Finanziaria 2007 (comma 259) prevede la "valorizzazione a fini economici dei beni immobili tramite concessione o locazione". Le locazioni, della durata di 50 anni, prevedono la "riqualificazione e riconversione… tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso". La norma prevede, è vero, il rispetto del Codice dei Beni Culturali, ma intanto ne mina un assunto-base, e cioè che la valorizzazione va intesa "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura" (art. 6), e non per fini economici. Non è un timore astratto: il comma 263 della Finanziaria di fatto riapre i termini per la dismissione degli immobili pubblici della Difesa, in modo che siano "inseriti in programmi di dismissione e valorizzazione ai sensi delle norme vigenti in materia", pudico riferimento alle norme Tremonti che nessuno ha abolito: redazione rapidissima degli elenchi di beni da porre in vendita, 90 giorni di tempo per le Soprintendenze (anziché 120 come nel Codice) per opporvisi. Con questo comma, anzi, la Finanziaria oblitera perfino il riferimento di garanzia al Codice contenuto nella legge 248/2005, art. 11/5: insomma, è più tremontiana del governo Berlusconi.
Questa politica delle "concessioni" si estende alla gestione dei beni culturali, favorita dalla mancanza di personale nelle Soprintendenze e dall’interpretazione equivoca e contra legem della valorizzazione in senso meramente economico. Il Codice, in coerenza con le norme dell’Unione Europea, privilegia l’ipotesi di una gestione diretta dell’ente proprietario, che può creare all’uopo società al 100% pubbliche, giustificandone la formazione con specifici progetti di valorizzazione (intesa in senso culturale). In ogni altro caso, l’ente proprietario deve ricorrere al mercato, né può costituire Fondazioni che direttamente gestiscano musei e monumenti. Lo ha imparato a sue spese il Comune di Roma: l’affidamento diretto dei musei comunali alla società Zetema è stato prontamente annullato dal Tar del Lazio (sentenza 1117/2006) per illegittimità. Eppure, si legge ora sui giornali che in Campania verrebbero trasferiti alla Regione aree di enorme rilevanza come Paestum e Velia, i Campi Flegrei, le certose di Padula e Capri, con l’intesa di affidarne la gestione, senza gara pubblica, a una SpA appositamente costituita (Scabec), con capitale al 50% privato. Di analoghi progetti si parla anche per Venaria reale ed altre residenze sabaude: nell’un caso e nell’altro, preferendo a quel che pare non la gestione diretta dello Stato, non la trasparente dinamica del libero mercato, bensì affidamenti fiduciari vietati dalle norme della Comunità Europea. In attesa, s’intende, delle prossime sentenze dei Tar.
Queste e simili "concessioni" che nella confusione dei linguaggi si vanno apparecchiando dietro le quinte ricordano quelle dell’impero cinese in disfacimento: forme di colonizzazione mascherata, che a volte (come la concessione italiana di Tien-tsin) ebbero vita breve, a volte (Macao e Hong-Kong) assai più lunga. Sul fronte dei beni culturali, la disinvolta interpretazione delle leggi e la cessione di spazi e poteri sembra prefigurare uno Stato a sovranità limitata, in costante ritirata, incapace di progetti di grande respiro, dimentico della propria Costituzione. Resta, si capisce, il muro di carta delle leggi, quello che Natalino Irti fin dal titolo di un libro recentissimo ha chiamato Il salvagente della forma (Laterza). Perchè, scrive Irti, «il formalismo si delinea come corrispettivo dell’indifferenza contenutistica», e in questo naufragio dei tempi «la Costituzione, gravemente indebolita, rimane custode dei diritti fondamentali, ma non più sollecita e genera leggi di attuazione».
Il degrado di Milano continua, è a macchia di leopardo e non risparmia né centro né periferia, ci manca solo un´unità di misura: la sua "magnitudo", come per i terremoti. Ci arriveremo. Il degrado può essere in due fasi od in un´unica soluzione. Se è in un´unica soluzione si tratta del tempo che passa combinato con l´incuria e la sciatteria. Se è in due fasi si tratta del degrado iniziale (fase 1) – degrado del progetto, sua cattiva esecuzione, incompletezza dell´opera – e del degrado successivo (fase 2), ossia l´inizio dello scorrere del tempo ovviamente combinato con la nota incuria e sciatteria. Un esempio tanto pregnante quanto clamoroso: Piazza Duca d´Aosta, il degrado in due fasi. Il progetto di sistemazione della piazza degli architetti Antonio Zanuso e Carlo Chambry vinse il concorso bandito dal Comune di Milano nel 1988. Il concorso riguardava la sistemazione di tutto l´asse che va dalla fine di Via Turati fino a Piazza duca D´Aosta – dunque anche Piazza della Repubblica e Via Vittor Pisani - con i due risvolti di Piazza Luigi di Savoia e Piazza IV Novembre. Si trattava di ridare dignità a un pezzo di Milano, forse l´unico della Milano moderna, stravolto dalle costruzioni della metropolitana e del parcheggio di Via Vittor Pisani. Ricordando vagamente la vicenda, mi sono fatto mostrare il progetto per confrontarlo con la realtà. Non mi stancherò mai di ripetere che il progetto d´architettura non è come il salame, non si taglia a fette secondo l´appetito o, meglio, l´estro dei pubblici amministratori.
Di quel progetto se ne realizzò solo una parte - poi vedremo come - quella di Via Vittor Pisani e Piazza Duca d´Aosta. Ecco il primo avvio del degrado: realizzazione parziale, in questo caso meno della metà. I lavori cominciarono che era sindaco Paolo Pillitteri, poi ci fu Piero Borghini, poi il commissario Claudio Gelati, poi Marco Formentini e l´inaugurazione nel ´96: sei anni di lavori per sistemare il parterre di Piazza Duca D´Aosta e Via Vittor Pisani. Ma nemmeno questa parte rispettò il progetto originario. L´esecuzione di quel poco fu pessima e oggi, a dieci anni di distanza si vede perché il tempo è giustiziere e l´uomo ci mette del suo. I rivestimenti dei muretti delle aiuole sono caduti in molti punti, le pietre del lastricato sono per la maggior parte rotte – dovevano essere spesse 6 centimetri e furono posate da 4 – e dove sono state sostituite non lo si è fatto con lo stesso materiale: la piazza ormai è un arlecchino.
Le panchine di progetto lungo la facciata della stazione sono state rimosse – ci dormivano i barboni che adesso dormono nelle vicinanze – i due filari di magnolie sono la testimonianza del pollice verde milanese – quelle vive stentano e quelle morte sono state sostituite con altre di diversa specie - ed alcuni gradini divelti giacciono (da anni) abbandonati qua e là come i paracarri originari in granito. Delle due rotatorie per i taxi se ne realizzò solo una. Le piante lungo Vittor Pisani non attecchiscono perché non c´è terra sufficiente. La ciliegina sulla torta (ma non è certo chiuso il lunghissimo elenco degli scempi) è il sentiero guida per ciechi, quello che dovrebbe condurli all´ingresso della Regione ma finisce contro il muro di cinta. Non c´è pietà per nessuno. Questa è la Milano delle "eccellenze" che si candida all´Expo nel 2015. Questa è la città che la giunta vorrebbe illuminare di più. Santa penombra.
Dopo l´assalto edilizio a Capodimonte, che, con il poco verde che gli è rimasto, si candida a diventare - senza che nessuno intervenga - la centrale del business dei matrimoni, ora tocca ai Camaldoli. Ventimila metri quadrati di verde a cui dire addio, in pieno Parco metropolitano delle colline di Napoli, istituito il 16 giugno 2004. Un altro pezzo di città che si trasforma in cemento. A dimostrare che ormai a Napoli il mattone è libero, basta percorrere qualche chilometro in tangenziale, allungandosi sulla bretella che congiunge il Vomero a Pianura, a metà dello svincolo si vedrà chiaramente che il paesaggio ha cambiato forma. Un vero e proprio villaggio è sorto in viale delle Bucoliche, nei pressi delle cave di Verdolino di età romana. Si trova ai piedi della montagna che appare alle spalle di via Epomeo, in una posizione che ricorda quella delle case distrutte dalla furia dell´alluvione a Sarno. Dista pochi metri il sito archeologico che ogni anno (forse da quest´anno non più) rientrava nei percorsi archeologici del Maggio dei monumenti del Comune.
Fino ad aprile 2006, quando si è consumata la sua ultima primavera, quell´area era una distesa di fiori bianchi di decine e decine di alberi di prugne. In un battibaleno i terreni sono stati venduti e lottizzati e al posto dei fiori in pochi mesi sono sbocciate venti villette monofamiliari a un piano, ciascuna da 80 a120 metri quadri circa. Per difendersi dai curiosi che vogliono assistere al miracolo di una città che continua a edificare in barba a vincoli e divieti, i fortunati abitanti dei villini si sono barricati con severe cancellate. Ma a guardare attraverso le sbarre ci si accorge che otto edifici sono già abitati mentre quattro sono ancora liberi, e il resto dell´area disboscata si intuisce che sarà teatro di una operazione simile di qui a poco. «Su questo c´è il massimo impegno nostro, dei carabinieri, del Comune, ma qualcuno lì ha avuto una sospensiva del Tar - dice il presidente del Parco collinare, architetto Agostino Di Lorenzo - Il dramma è che non si tratta di un´edilizia di necessità, quindi se anche la borghesia ricorre all´abuso, vuol dire che è un momento particolarmente difficile. Occorrerebbe che i livelli amministrativi competenti si facessero carico di superare i limiti delle attuali procedure amministrative che sempre più spesso finiscono col tutelare e non perseguire chi commette reati».
Degli abusi denunciati da "Repubblica" finora un solo abbattimento è stato ordinato, quello della sopraelevazione di un edificio di via Sanità, visibile dal ponte della Sanità e la vista della retrostante collina di Capodimonte per fortuna è salva. Così non è stato per una sopraelevazione in pieno centro, in via Nardones, 48 visibile fin da San Martino: un attico abusivo di quasi 260 metri quadrati, sorto a partire dalla fine del 2006. Nasce dalla sicurezza di un cantiere sequestrato nel ’94.
Campeggiano come baite delle Dolomiti le costruzioni sorte al posto delle due ex serre De Luca, al tondo di Capodimonte, che, nonostante numerose visite delle forze dell´ordine, sono state completate sotto la pioggia battente. Il ristoratore che le ha realizzate, forte di un dissequestro della Procura, e in possesso di una Dia e di un provvedimento di messa in sicurezza ai sensi della normativa antisismica, dovrà rispettarne almeno la destinazione d´uso: vivaio. Ma la pizza e i fiori non sembrano compatibili. Nessuno ha voluto, a un passo dal Real Bosco di Capodimonte, neppure far rispettare a questi signori l´estetica dei luoghi, che appare gravemente compromessa.
Sul fenomeno dell'abusivismo in Campania, in eddyburg
«Parlano tutti di Romilia come se fosse una cosa fattibile, invece non si può fare. Ed è inutile "scaricare" la decisione su Beatrice Draghetti, perché riguarda anche Vasco Errani». L´urbanista Giuseppe Campos Venuti guida l´ira degli urbanisti contro il progetto di Romilia, il nuovo polo funzionale di Alfredo Cazzola che dovrebbe comprendere anche lo stadio decentrato di Bologna, a Medicina. Nei giorni in cui il sindaco Sergio Cofferati invita a "decidere in fretta" e la presidente della Provincia, Beatrice Draghetti, annuncia un tavolo tra istituzioni entro febbraio, Campos Venuti mette uno stop al mega progetto. E l´Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu), di cui il professore è presidente onorario, pubblica un comunicato dichiarando «preoccupazione per come il problema degli stadi è affrontato in questi giorni a Bologna».
Campos Venuti è molto diretto: «le istituzioni discutono come se questo progetto si potesse fare, ma non si può fare. Sarebbe commercio di vincoli urbanistici». Per uscire dai termini tecnici, significa, secondo Campos Venuti, «che un privato cittadino non può decidere di edificare su un suo terreno che non vale niente, un complesso di abitazioni e servizi che lo renderà ricco. Altrimenti io domani compro un piccolo campo coltivato e ci costruisco sopra un grattacielo, vendendo gli appartamenti a caro prezzo».
L´equilibrio tra le aree verdi, quelle destinate alla costruzioni di case e quelle per le nuove infrastrutture è codificato in un Piano Territoriale Provinciale (Ptcp) approvato dalla Provincia di Bologna d´intesa con la Regione. Ed è a questo documento che si richiamano gli studiosi dell´Inu, definendo il progetto di Cazzola concepito «in spregio totale della strategia generale del Ptcp, strategia basata sulla valorizzazione insediativa delle direttrici ferroviarie in particolare sulla direttrice Nord». Se si decide che il nord non è più la direzione da tenere, bisognerà motivare la scelta in una deroga al piano. Ma c´è anche un motivo tecnico di salvaguardia del verde: dove dovrebbero sorgere spalti e tribune, scorre il torrente Quaderna, i cui argini e territori cono protetti dal Piano paesistico regionale. Per questi motivi tecnici e istituzionali, gli urbanisti definiscono il piano "inaccettabile".
L´alt su Romilia non significa però che non si possa pensare ad un decentramento dello stadio. Cofferati aveva infatti sollecitato "decisioni in merito a una diversa ubicazione dello stadio" anche per una migliore gestione dell´ordine pubblico, in giorni in cui la violenza negli stadi è un problema di rilievo nazionale. Gli studiosi del settore chiedono però che la nuova struttura si faccia sulla direttrice di sviluppo indicata dal piano, dove si trovano anche strade e infrastrutture, soprattutto con un bando di gara per l´appalto. «Gli operatori privati», spiegano, «potranno aggiudicarsi e realizzare a proprie spese gli stadi da rinnovare o da decentrare, in regime di aperta concorrenza».
«Qui si parla della costruzione di un paese privato nel vuoto», dice Campos Venuti, «dove oggi ci sono solo campi e arriva solo una strada. È quello che Silvio Berlusconi ha fatto con Milano 2. Ma in Emilia queste cose non si sono mai fatte: prima bisogna spiegare a tutti noi cittadini perché è nel nostro interesse che i piani si cambino. Altrimenti si tratta di una variante illegale».
Adesso, secondo Campos Venuti, la Regione deve per forza intervenire. Il tavolo "interistituzionale" che Beatrice Draghetti ha convocato entro fine mese non può non coinvolgere chi ha approvato l´attuale piano della Provincia e deve sorvegliare sulla tutela del paesaggio. «Quest´opera», chiosa l´urbanista, «ci coinvolge tutti come cittadini, quindi è in capo a tutte le istituzioni del territorio».
Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale adottato dalla Provincia di Padova, dovrebbe costituire uno strumento fondamentale della pianificazione e della gestione del territorio. Italia Nostra e Legambiente hanno in questi giorni presentato un organico documento di “Osservazioni al PTCP”
E’ da tutti riconosciuto che una delle cause principali della distruzione del paesaggio e del territorio della nostra regione è senza dubbio costituita dalla frammentazione degli strumenti di piano ed al prevalere degli interessi localistici, i quali fanno sì che ogni Comune – assecondando le pressioni della speculazione fondiaria e dei costruttori e per incrementare le proprie entrate fiscali – si senta in dovere di prevedere nel proprio piano regolatore e attraverso specifiche Varianti di piano sempre nuove espansioni residenziali, commerciali e produttive, spesso senza alcuna correlazione con il fabbisogno effettivo ed al di fuori di ogni più ampia e razionale visione dell’organizzazione del territorio e delle attività economiche a scala comprensoriale e regionale.
Tra i compiti essenziali del PTCP vi dovrebbe dunque essere quello di una realistica quantificazione dei fabbisogni insediativi e delle definizione di precisi indirizzi per una concentrazione delle localizzazioni, finalizzata ad evitare la crescita a macchia d’olio degli aggregati urbani, al riequilibrio delle funzioni e dei servizi in una visione multipolare della realtà territoriale e quindi anche alla salvaguardia delle risorse naturalistiche e dei residui spazi aperti. Erano questi gli indirizzi di fondo caratterizzanti il primo PTCP presentato nel 1994 dall’architetto Camillo Nucci, anche se la violenta reazione di molti comuni – che rifiutavano l’imposizione di qualsivoglia limite esterno al proprio potere gestionale – fece sì che all’atto dell’adozione del piano, nel 1995, la normativa, che avrebbe dovuto conferire reale operatività al piano, assumesse un carattere più orientativo che prescrittivo.
L’iter di approvazione di quel PTCP non giunse comunque mai a conclusione. Anzi, la nuova Giunta Provinciale, nel 2000, decise incredibilmente di buttare a mare tutto il lavoro fatto e di conferire un nuovo incarico esterno per la redazione di un nuovo piano, quello adottato la scorsa estate. Un decennio di non governo del territorio a scala provinciale che ovviamente ha favorito un’ulteriore, inarrestabile proliferazione di urbanizzazioni ed insediamenti di ogni tipo, al di fuori di qualsiasi disegno organico, con conseguenze micidiali in termini di consumo di territorio, spreco di risorse energetiche ed economiche, pendolarismo, incremento del traffico veicolare privato, inquinamento.
Ma arriviamo al merito dei contenuti del nuovo PTCP. Va innanzitutto osservato che le metodologie e le procedure seguite per la sua elaborazione sono non solo profondamente carenti ed inadeguate, ma anche clamorosamente illegittime. Nel giugno 2001 il Parlamento Europeo ha approvato una specifica Direttiva, la 42/2001, che rende obbligatoria nella redazione dei piani urbanistici la cosiddetta VAS – Valutazione Ambientale Strategica. L’articolo 3 di detta Direttiva (divenuta efficace a tutti gli effetti dal 21 luglio 2004 per tutti i paesi della Comunità, indipendentemente dal suo formale recepimento con apposita legge nazionale) stabilisce con chiarezza che detta valutazione ambientale «deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano ed anteriormente alla sua adozione» e che detta valutazione, nonché tutti gli studi e la documentazione relativa al piano devono essere messi in tempo utile a disposizione del “pubblico” (e tra il “pubblico” sono espressamente indicate anche le associazioni ambientaliste e le organizzazioni portatrici di interessi collettivi) al fine di consentir loro di esprimersi nel merito prima dell’adozione del piano. Tutto ciò nel caso specifico del PTCP di Padova non è avvenuto. Solo dopo la loro formale adozione da parte del Consiglio Provinciale i documenti di piano ed il Rapporto Ambientale (avente anche valore di VAS) sono stati resi pubblici.
Già questo aspetto procedurale invalida totalmente i contenuti del Rapporto Ambientale e dello stesso piano; ma anche nel merito il Rapporto Ambientale, per numerosi aspetti (mancata elaborazione di scenari alternativi, mancata valutazione dei possibili effetti negativi sull’ambiente e la salute umana delle scelte operate, interrelazioni tra i diversi fattori, monitoraggio,…), non risponde affatto ai criteri fissati dalla Direttiva comunitaria: il che ci fa affermare che di fatto non è stata attivata alcuna reale procedura di Valutazione Ambientale Strategica.
Più nello specifico dei contenuti di piano, si può osservare:
In generale le indicazioni di piano hanno irrilevanti o carenti contenuti progettuali. Quasi sempre ci si limita alla fotografia dell’esistente ed alla descrizione delle tendenze in atto, rinviando ogni decisione agli strumenti della pianificazione comunale. L’unico elemento di novità (derivato dalla nuova legge urbanistica regionale) è costituito dall’invito rivolto ai Comuni per l’elaborazione – nei diversi comprensori provinciali – dei PATI – Piani di Assetto Territoriale Intercomunali, ma l’articolo 7 della Norme tecniche significativamente non inserisce tra i temi di carattere generale da affrontare nell’ambito di detto strumento urbanistico quello fondamentale relativo al sistema insediativo residenziale: esclusione che, non vi è dubbio, favorirà – come già è avvenuto nel passato – il sovradimensionamento del fabbisogno abitativo di ogni singolo comune e quindi, ancora una volta, la frammentazione e dispersione insediativa.
Molto concrete ed “operative” sono invece le indicazioni relative alla grande viabilità (GRA – Grande Raccordo Anulare, camionabile lungo l’Idrovia, “Bovolentana”, nuova strada provinciale complanare tra la statale 16 e l’autostrada A13, ecc. ecc.). Ma in realtà su questo fronte il PTCP ha semplicemente recepito – senza alcun confronto critico – il Piano della viabilità precedentemente predisposto, in separata sede, dall’Assessorato provinciale alla mobilità: un piano la cui unica finalità sembra essere quella di bypassare con nuove strade e superstrade i “punti critici” della viabilità attuale. In questo modo il PTCP abdica rispetto ad uno dei suoi compiti fondamentali, che dovrebbe appunto essere quello di far dialogare il disegno di una nuova più equilibrata organizzazione degli insediamenti nel territorio con il sistema dei trasporti (di quelli collettivi in primo luogo) e non banalmente di recepire la richiesta di nuove infrastrutture stradali come una variabile indipendente. Tra l’altro le nuove strade previste, oltre a generare un inevitabile disastroso impatto sull’ambiente e sul paesaggio, comportando costi astronomici (oltre 1 miliardo e 200 milioni di euro nelle previsioni ufficiali) vanificano di fatto ogni reale prospettiva di potenziamento del trasporto collettivo su ferro a scala metropolitana.
Tema specifico del PTCP dovrebbe essere, in primo luogo, quello della salvaguardia della biodiversità e della formazione di una rete ecologica estesa a scala provinciale, atta a favorire i processi naturali e condizioni generali di equilibrio ecologico (dinamico e non statico). In realtà gli studi sulla rete ecologica effettuati dal piano non si rifanno affatto – come dovrebbero – alle metodologie scientifiche dell’ecologia del paesaggio, limitandosi al puro e semplice rilievo cartografico degli spazi inedificati lungo i principali corsi d’acqua. Non solo. Per non rimettere in discussione le scelte urbanistiche o le richieste dei singoli comuni (come pure il PTCP potrebbe e dovrebbe fare), si arriva al punto di considerare come già di fatto edificate aree che risulterebbero strategicamente fondamentali per il sistema del verde – quali, a Padova, quelle del Basso Isonzo e dei cunei verdi periurbani – che pure sono a tutt’oggi ancora prevalentemente utilizzate a fini agricoli o comunque non urbanizzate. Anche in questo caso un bel salto all’indietro rispetto al PTCP del 1995 che forniva precise indicazioni sulla localizzazione di nuovi potenziali parchi urbani e territoriali (Basso Isonzo-Bacchiglione, Terranegra-Roncajette, Brenta, … per limitarci a Padova), salvaguardava con apposita grafia i “cunei verdi” periurbani e promuoveva la formazione di una “Green Belt” metropolitana estesa per 8.900 ettari e di una grande fascia di salvaguardia ambientale tutt’attorno al Parco dei Colli Euganei.
Gravissimo è infine quanto previsto dall’art. 8 delle Norme di piano, che tende ad interpretare (in stridente contrasto con le norme di legge vigenti e con la giurisprudenza) lo strumento della “compensazione urbanistica” come un implicito riconoscimento di un diritto all’edificazione (jus aedificandi) connesso alla proprietà dei suoli… una forma di risarcimento per le aree soggette a vincoli di tipo ricognitivo quali quelle «… interessate da problematiche legate alla morfologia del territorio, o alla presenza di rischi naturali maggiori quali ad esempio fenomeni di esondazioni e/o ristagno d’acqua, di vulnerabilità del territorio sotto il profilo ecologico, igienico-sanitario e paesaggistico-ambientale».
Sergio Lironi è Presidente di Legambiente Padova
Mentre il frastuono della politica rende indistinguibili le voci del governo locale, l´accattivante suono delle sirene edilizie si appresta a conquistare sia il terreno materiale dei suoli edificabili sia quello simbolico dell´interesse collettivo. La perdita dello scettro da parte del principe, la fibrillazione delle corti impegnate a disegnare nuove fazioni politiche, e l´incapacità dei vassalli di ingaggiare una lotta credibile per il cambio di vertice, lasciano ai cavalieri del mattone l´arduo compito di mettere le fondamenta per un futuro migliore.
Lo scetticismo è d´obbligo, almeno da parte di quanti rivedono sulla periferia le antiche mani che furono capaci di trasformare la città in modo irreversibile, o per quanti preferirebbero parchi e verde pubblico pensando ancora di avere i vandali in casa.
È forse giunto il momento di considerare la periferia oltre che come contorno, «anche come baluardo: non-luogo decentrato che permette di osservare la realtà da un punto di vista atipico, magari con lo sguardo strabico che punta verso il centro eppure si apre a nuove prospettive». Se così fosse, osservando ciò che circonda il mondo, non scorgeremmo più solo processi marginali ma figure potenti e capaci di attrarre addirittura le aspirazioni di successo tipiche del centro. Nelle parole dello scrittore Angelo Petrella si scorge un laboratorio di costruzioni letterarie mai così vivace come in questa stagione, nella quale la scrittura, della e sulla periferia, diventa emblema del discorso metropolitano. Dalla periferia avanzano immagini che riescono a smuovere la stagnante economia campana, sovrapponendo alla crisi segnali di ripresa, ospitando totem di presunta civiltà, dotati di una forza espressiva assolutamente ineguagliabile, volti a debellare l´immagine di un´economia regionale come culla del primordiale.
Più che sventolare grandi annunci o altisonanti recuperi urbani, la novità risiede nell´imponenza delle opere già costruite e di quelle in costruzione. Il ruolo del settore edile comincia ad assumere una centralità indiscutibile, che si tratti delle joint venture della riqualificazione della periferia orientale di Napoli o dei vulcanici territori nolani, vi è sempre la costante dei privati che riconquistano la scena. L´edicola locale si riempie di opere imponenti che rimbalzano sui giornali come fiori all´occhiello, dal complesso alberghiero del casertano del gruppo Coppola al Vesuviello di Renzo Piano che affiancherà i non luoghi del Cis-interporto di Nola. E la priorità di questa fase diventa, quasi naturalmente, allargarsi ulteriormente, anziché regolare il caos dilagante nel costruito esistente.
Le opere sono templari e sono capaci di riprodurre miti e luoghi sacri della città al di fuori delle sue mura come lo stadio San Paolo di Fuorigrotta, sempre se si farà nelle vie più periferiche di Miano, sempre se l´Uefa darà una semifinale a Napoli, dopo che si sarà consumata l´ennesima sfida di marketing urbano. Guardando le foto sui giornali viene da chiedersi se l´anglosassone conformazione dello stadio riuscirà mai a modernizzare le tribali abitudini della tifoseria più brutale, con le tribune che lambiscono il manto erboso, e con la tifoseria a distanza di uno spintone dai giocatori in campo. L´utopia di azzerare la violenza abolendo il suo rituale potrebbe materializzarsi in una delle periferie più estreme, rendendo territori dimenticati, salotti del mondo del pallone.
Di certo il nuovo stadio potrebbe rendere meno periferiche le attuali periferie, ma potrebbe privare anche antichi centri della loro centralità, creando un´inestricabile competizione tra nuove e vecchie periferie. Il risultato potrebbe essere quello dell´ennesimo conflitto urbano di difficile soluzione, da risolvere tra qualche anno, quando il motore dell´economia non farà più lo stesso rumore. La previsione non sembra essere una dote del pianificatore locale se l´imponente complesso sportivo che attende di transitare fuori dall´area flegrea necessita di nuove regole, mentre quelle appena approvate dovranno fare i conti con un nuovo vuoto dalle dimensioni colossali.
Pare insomma che al cambiamento di forma se ne accompagnino diversi e profondi anche nella sostanza. Con una politica incapace di imprimere direzione, il rischio è di affidarsi completamente al mercato sperando che tutto questo almeno crei posti di lavoro sufficientemente attraenti per tirare i giovani più periferici dalle strade. Un destino diverso potrebbe toccarci qualora le poste in gioco fossero più alte, se all´investimento privato corrispondesse un intervento a favore della cultura o del sociale. È un po´ quello che potrebbe succedere qualora i privati colonizzassero il consiglio d´amministrazione del San Carlo, approntando un credibile piano aziendale, in netta controtendenza, rispetto alle scelte di governo della massima istituzione culturale meridionale. E se al fianco di ogni grande investimento vi fosse una Fondazione in grado di finanziare con i profitti in esubero la soluzione dei problemi territoriali, allora avremmo almeno a che fare con un´impresa più responsabile, in grado di rilasciare sul territorio esternalità positive, per promuovere benessere, assistenza, ricerca e ancora cultura.
Progetto Fuksas, ovvero quello della torre alta 120 metri e del posto turistico per 700 posti barca. Il conto alla rovescia è partito. Dopo i botta e risposta da taverna (il viceministro all´Ambiente: «Sembra un grosso fallo»; l´architetto lituano: «Spesso si disprezza quello che si desidera») si va al sodo. Si discute. Si comincia a metà febbraio (15, 20 e 22) con tre consigli comunali "aperti", preceduti da una seduta propedeutica del consiglio comunale. Tre momenti delicati con 23 soggetti coinvolti: Lega Navale, Wwf, Assonautica, Lega navale, Ordini di ingegneri, architetti e geologi, Collegio dei geometri, Camera di commercio, Consulta culturale, Industriali, Confesercenti, Confcommercio, Confartigianato, Cna, albergatori, Lega delle cooperative, segretari sindacali, Automobile Club. Una specie di cartina di tornasole degli umori e delle pulsioni, dell´interesse vero o presunto della città per il suo futuro. Nel bene e nel male.
Il sindaco Federico Berruti si prepara alla "tre giorni" ostentando tranquillità. Si dice sereno, anche se non lo è. E non può esserlo. E´ convinto che non vi fosse altra strada per giocare a carte scoperte, per sgomberare il terreno da velenosi sospetti, polemiche pretestuose. Lo fa facendosi scudo di una dichiarazione di principio. «A me interessa che la città si renda conto che l´istituzione democratica, cioè il consiglio comunale, è la sede dove si decide». Ma la partita è grossa, gli interessi tanti, le attese pure. E già si stanno addensando tensioni, sollecitazioni, pressioni, manovre e manovrine, uscite tattiche, prese di posizione, scelte di campo. Come quella del segretario ds Lunardon («Il progetto s´ha da fare, è un opportunità da non perdere per lo sviluppo della città») che ha fatto drizzare le orecchie al "fronte del no" (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) e alle molte anime della Margherita, subito spalleggiato dall´assessore Di Tullio, ex segretario della Camera del lavoro, trovando facili sponde in Forza Italia, ma con An pronta a prendere le distanze un po´ per diffidenza (nel progetto), un po´ per ripicca. Lo Sdi per ora sta alla finestra. Paolo Caviglia, vice sindaco e un po´ padre-padrone dei socialisti savonesi, è possibilista. «Non mi infilo nei discorsi sul sì o sul no, ma sul come. Prima voglio capire, vederci chiaro. Terremo conto della ricadute che l´operazione avrà per l´intero comprensorio savonese. Ma mantenendo alta l´attenzione sui temi riguardanti territorio, ambiente, viabilità».
Piatto ricco mi ci ficco (investimento previsto: 100 miliardi). E il sindaco Berruti ad un certo punto deve essersi sentito assediato. Da una parte la lobby dei costruttori (ieri Dellepiane-Orsero-Campostano, oggi Gambardella-Spada), sponsorizzata da Autorità portuale e Unione Industriali, lo schieramento delle intese trasversali, il frullatore dei partiti; dall´altra il partito del "no" a prescindere, sinistra radicale, dissenzienti per principio o per convenienza, ambientalisti, tutori del territorio, conservatori per principio. Un accerchiamento che poteva mettere in crisi le sue certezze, ma soprattutto incrinare la sua immagine di sindaco dalle porte aperte, del dialogo a tutto campo, con qualche concessione alla demagogia ma capace di inusuali aperture, senza tessera (e in casa Ds non l´hanno ancora digerita), svincolato, fin che gli è possibile, dalle logiche dei partiti. Ne è uscito, bene o male, con un colpo d´ala. Con un semplice, banalissimo: «Parliamone». C´è chi ha gradito e chi no. Gli interlocutori chiamati a Palazzo Sisto IV a metà febbraio in larghissima parte sì. Non solo per poter andare a dare battaglia in difesa della prateria di posidonie, della baraccopoli della Madonnetta (ordine di sgombero dell´Autorità portuale entro marzo), ma anche per dire basta alle colate di cemento spacciate come volano di sviluppo. Nutrita la platea degli estimantori di Fuksas. Luciano Pasquale, presidente della Fondazione De Mari ma anche direttore dell´Unione industriali, non ha dubbi. Il suo consenso è netto. Approva la strategia del sindaco. E´ fiducioso. «Alla fine prevarrà il buon senso, nell´interesse della città». E cala tre carte: turismo, industria e cultura. Quale turismo? Luciano Pasquale non ha dubbi. «Il progetto ha una evidente valenza paesaggistico-infrastruttutrale con l´offerta di porto turistico potenziata e un´area di collegamento del comprensorio Savona-Albissola che può essere migliorata sul piano estetico e funzionale. Ma ha soprattutto il pregio, la capacità di attrarre investitori, turisti, diportisti, visitatori ma anche chi abita nel comprensorio. La torre di Fuksas? Un´immagine-simbolo». Industria è una parola grossa, desueta per Savona. Pasquale non è d´accordo. «E´ ovvio che mi riferisco alla nautica, nostro fiore all´occhiello. Un settore di alta qualità e professionalità, più industriale che artigianale, sia nella costruzione che nell´assistenza e riparazione. In un circolo virtuoso aumenteranno le capacità di creare lavoro, occupazione qualificata e reddito». E la cultura? «E´ l´aspetto più immateriale, com´è logico che sia. Mi riferisco alla trasformazione della città, un segnale forte, soprattutto verso l´esterno, ma auspico anche verso l´interno. Ciò vuole dire una città che si trasforma, che realizza cose nuove, importanti, apprezzate unanimemente. Vedo una città capace di aprirsi per 365 giorni al pubblico esterno e a un mercato, che sa valorizzare le proprie opere d´arte, organizzare eventi, arte, musica, convegni, spettacoli, manifestazioni sportive. Una città viva con operatori non rinchiusi nel guscio ma capaci di dare segnali e di assumere iniziative. Il mio sogno è che in cima alla torre Fuksas sorgano locali in cui circolino non solo salatini e drink ma anche idee».
Ma non saranno tutte rose. Anzi. Berruti, sindaco assediato e dal sorriso sempre più raro, si augura che «su un tema così controverso si ricompatti la città». Le tre audizioni non scioglieranno il nodo. Sarà poi il parlamentino a pronunciarsi se andare avanti con un atto di indirizzo. L´iter prevede altri passaggi: Autorità portuale, progetto preliminare, conferenza dei servizi, ritorno a Palazzo Sisto IV per esame in sede tecnica ed eventuali osservazioni, parere della giunta e definitivo approdo in consiglio comunale per il via libera al progetto. Tutto deciso? Sembra, ma non è detto. Berruti sta abbottonatissimo. Anche se c´è chi afferma che l´incontro romano con Fuksas gli ha chiarito molti dubbi. Ma non esce (del tutto) allo scoperto. Non fa previsioni. «Saranno consultazioni vere. L´esito non è scritto. Non sarà una passerella per imbellettare un processo già definito. Farò considerazioni di merito solo dopo non prima. Non ho preconcetti. Ascolto, rifletto. Sono disponibile a farmi convincere».
Il bravo assessore all´Urbanistica della Toscana, Riccardo Conti, giustamente fiero del "suo" territorio, contesta (nelle Lettere a "Repubblica" del 24 us), in cortese polemica con la mia ultima rubrica, la validità dell´art. 9 della Costituzione ("La Repubblica.... tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"). Quando mai – sembra dire – con tanti scempi che per cinquant´anni hanno devastato il Paese? Ora è pur vero che lo svuotamento degli strumenti urbanistici, la corruzione, la speculazione sfrenata hanno sovente avuto la meglio sui vincoli di legge e che in questo quadro la Toscana, a differenza di altre regioni, ha in buona misura saputo salvaguardare e saldare assieme, come dice Conti, "città, bellissimi borghi, attività produttive molteplici, grandi bellezze e tradizioni culturali". Ma questo non è un buon motivo per devolvere in toto le responsabilità della salvaguardia dallo Stato alle Regioni e, ancor peggio – Toscana docet –, da queste ai Comuni. Come si è appena visto, proprio il fatto che il completamento della speculazione di Monticchiello (vedi "Linea di Confine" del 22 us) sia stato bloccato da un intervento in extremis del ministro dei Beni culturali, nonché vice presidente del Consiglio, sta a comprovare l´esigenza di una autorità più alta di ultima istanza. Lo ha ribadito anche Rutelli ad "Italia Nostra". Del resto, a dispetto dei molti meriti, anche la Toscana annovera esempi pessimi, a cominciare dalla devastazione dell´Argentario. Una zona minacciata inoltre dalla paventata nuova autostrada. Infine, sempre a proposito della Val d´Orcia, se Rutelli è riuscito ad imporre la tardiva soluzione del "male minore", non potendo più far abbattere tutte le villette, nessuna garanzia è stata ancora data sul pericolo che una collina prospiciente Pienza, malgrado la protezione dell´Unesco, venga di bel nuovo scavata e sconciata dal cosiddetto "trasferimento" della vecchia cava, ora al di là dal dosso. Anzi non poca preoccupazione mi desta la lettera di Conti laddove esalta "le Crete senesi, attività storiche che fanno parte di una identità insieme ai paesaggi e ai campi coltivati" e conclude: "Quale tutela sarebbe possibile in un territorio inerte e imbalsamato?". La frase può essere interpretata a doppio senso: se per crete senesi s´intendono i celebri calanchi, cioè i dirupi argillosi e le conformazioni geologiche create dal ruscellamento delle acque, allora anche queste fanno parte del paesaggio da salvaguardare, ma se, di contro, con una abile traslitterazione, per crete si vuol intendere il "cotto", tratto dalla escavazione della argilla, per alimentare una fabbrica di foratoni di una grande impresa del settore, allora il discorso cambia. E non perché la Toscana non debba avere fabbriche, opifici, industrie ed anche nuovi manufatti edili, ma perché tutto questo va collocato in modo da non alterare e danneggiare una patrimonio ambientale, paesaggistico e artistico prezioso ed unico al mondo. E´ una stupida polemica quella che contrappone la validità e la modernità di una cosiddetta "tutela dinamica" del paesaggio ai "retrogradi difensori di una Toscana da cartolina". In realtà chi si nasconde dietro simili slogan è prigioniero di una cultura vetero-industrialista e non coglie come ormai, proprio nel contesto della globalizzazione, il "territorio" si è trasformato nel patrimonio più concorrenziale del nostro Paese. Non per farne una immagine museale ma la base creativa in cui nuove tecnologie, società dell´informazione, paesaggio, cultura, arte, agricoltura avanzata, accoglienza qualificata si combinino in un mix vincente e non rapidamente consumabile. Mi scrive, tra gli altri, il prof. Giorgio Pizziolo, ordinario di Urbanistica a Firenze: "In realtà la posizione arretrata è proprio quella di certi amministratori che dal Pit (Piano di indirizzo territoriale) alle pratiche correnti, trattano il paesaggio come "valore aggiunto" e come fattore di valorizzazione, aprendo così di fatto il territorio toscano all´ondata speculativa in atto, richiamata dalla sua fama e dalla sua immagine. Così la speculazione edilizia e le attività improprie, tenute finora distanti dai paesaggi di pregio unico, possono trovare numerosi canali di intervento, legalmente riconosciuti. Mentre, invece, per attuare la sostenibilità che si afferma di volere, sarebbe necessario cambiare profondamente modello di sviluppo e fare del paesaggio, in quanto tale, un elemento fondamentale della nuova programmazione, fulcro di orientamento di tutte le altre scelte, non un elemento di valorizzazione "aggiuntiva" e, di fatto, speculativa.
In eddyburg, l'analisi di Giorgio Pizziolo
Sembra che gliel'abbiano fatto apposta, ad Antonio Cederna. Il giornalista- archeologo-parlamentare paladino della difesa ambientale si è battuto per anni, anche quando ricoprì la carica di consigliere comunale, per l'eliminazione del vialone dei Fori Imperiali considerato una «ferita» nell'area archeologica più preziosa d'Europa. Il guru ecologista si era scagliato contro la politica mussoliniana delle demolizioni nel tessuto storico della Capitale e al tempo stesso chiedeva la demolizione di ciò che era stato costruito sopra le antiche rovine di Roma.
E il Comune, qualche anno dopo la sua morte, che cosa gli fa? Gli dedica un luogo, «Belvedere Antonio Cederna, giornalista, saggista, ambientalista» che guarda trionfalmente proprio l'inizio dello stradone fascista. Come dire: fissatelo bene in testa, quello resta lì. Naturalmente le intenzioni del Campidoglio sono state diverse, piene di rispetto e forse un po' nostalgiche perché di gente battagliera come Cederna, sempre in campo nell'interesse della città, non se ne trova spesso. Ma piazzare la targa in quello spiazzo che domina il Colosseo ha avuto obbiettivamente il senso di un affronto.
La prova che l'interpretazione giusta è quella non ufficiale sta nei fatti. Il Belvedere è un luogo degradato, un vero e proprio pernacchio all'ambientalismo e al suo tanto amato storico rappresentante. Ingombranti e volgari graffiti da una parte, un barbone infagottato nel suo misero giaciglio dall'altra, un palo della luce spaccato alla base, un altro con il «cappello» sulle ventitrè, a regalare al sito un'aria scanzonata e malandrina. Benvenuti turisti, accomodatevi ad ammirare il Colosseo. Ma non chiedete chi è questo «Antonio Cederna», perché è meglio non dirvelo. Altrimenti, osservate le condizioni del Malvedere, da un americano non potrebbe che uscire un commento divertito che nota il contrappasso tra il dire e il fare: «It's so amazing!», che cosa bizzarra.
Il caso del Belvedere diventato un Malvedere è emblematico della difficoltà del Comune di far seguire alle inaugurazioni la manutenzione. Si può citare l'esempio dei giardini di piazza Vittorio: a due soli mesi dall'inaugurazione, qualche anno fa, risultavano rinsecchiti e malmessi. In diverse piazze e piazzette riqualificate con aiuole e panchine si possono registrare segni di abbandono. Spesso un Municipio si limita a perimetrare con il nastro un sedile spezzato senza poi provvedere a sostituirlo. Quando il servizio giardini insedia un nuovo albero, il lavoro viene considerato concluso: d'inverno l'acqua piovana può aiutare, negli altri mesi spesso i nuovi impianti seccano in poco tempo per mancanza di innaffiamento.
E se nella vicenda che riguarda il ricordo di Cederna non c'è un pizzico di malafede, il Comune può dimostrarlo facilmente: se non togliendo di mezzo via dei Fori Imperiali, ormai «storicizzata», almeno rimettendo a posto il Belvedere.
Strane coincidenze, un giorno si illustra il Piano Strutturale Comunale di Bologna e il giorno dopo il ministro Lanzillotta presenta la legge di riforma delle amministrazioni locali che istituisce le città metropolitane – tra cui Bologna. Evviva, si dirà da molte parti che speravano in questa decisione. Come la mettiamo ora con il PSC? Dato che salta la scala territoriale di riferimento e si dilata all´intera Provincia che nel disegno governativo sparisce sostituita dalla metropoli. Una transizione che era nell´aria da tempo, che cerca di sanare sovrapposizioni di competenze e duplicazioni di spese degli enti territoriali. Il PSC insiste invece, salvo marginali sbordature, sul territorio comunale. Disattento a ciò che da molto era noto ribolliva in seno a un governo amico. Una sfasatura che ne mette in crisi l´idea di fondo, la prospettiva urbanistica.
La Relazione illustrativa del PSC intende la città metropolitana come "conurbazione fisica" per "densità e continuità del suolo urbanizzato". Un´interpretazione che non tiene conto, a Bologna come in ogni città del mondo da trent´anni a questa parte, della dilatazione dell´organismo urbano. Che non è più un corpo compatto e uniforme, ma una ragnatela disseminata di gangli, in cui popolazioni e attività si sono decentrati a partire dagli anni ‘70. Su questo tessuto cresciuto senza ordine, polverizzato e informe, vanno pensate politiche di piano in grado di rafforzare le connessioni vitali, per dare unicità, coordinamento, fisionomia all´area degli interessi metropolitani. Una dimensione reticolare della metropoli che non è dunque solo metaforica ma scritta nei fatti.
Il PSC preferisce invece la città densa, compatta. Che è una buona regola trasportistica, ma che viene applicata alla sola Bologna cercando di riconcentrare ciò che è già diffuso. E andava invece finalizzata a un policentrismo metropolitano capace di razionalizzare il caos della dispersione. Attraverso una pianificazione di taglio territoriale più che urbanistica in senso tradizionale. Progettando la città dei cittadini decentrati nell´area vasta, non quella del continuum costruito (e da costruire, saturando i pochi spazi ancora vuoti).
Un PSC che ha anche buone intuizioni. La "città di città" viene infatti ricondotta a una logica funzionalistica. Di cui però quel termine implica il superamento, non negando la necessità di razionalizzazioni, ma affidandole a una concertazione degli interessi di natura plurima. A interventi cioè concordati in contesti e secondo procedure di decisione condivisa. Le "7 città", non a caso disegnate sugli assi morfologici, sono suggestive e sicuramente esprimono delle rappresentazioni utili al riassetto della città. Ma non è questa la città di città. Che va intesa invece come città dei cittadini, come insieme di polis federate nel corpo politico della metropoli.
Al PSC insomma manca una visione politica. Ignaro com´è da un canto della politica in atto a livello governativo, che riconosce la realtà metropolitana. E dall´altro delle sensibilità scaturite dalla critica al pianismo vecchia maniera, che da tempo propongono attenzione all´idea di cittadinanza attiva. Un piano insomma ancora di impronta modernista - senza neppure le mediazioni riformiste del buon welfare dei tempi andati - in cui i cittadini rimangono una variabile (tra le altre).
SIENA - Distanze insufficienti dalle mura antiche, oltre a misure e altre caratteristiche degli edifici in costruzione ai piedi del borgo medievale, danneggiano la prospettiva e alterano il decoro della Rocca di Monticchiello. Dovrebbe essere questa la motivazione con cui nei prossimi giorni il ministero per i Beni e le attività culturali aprirà la procedura prevista dagli articoli 45 e seguenti del decreto legislativo 42 del 22 gennaio 2004, per sottoporre ad un nuovo vincolo, quello della tutela indiretta, l’area nel comune di Pienza oggetto di una lottizzazione discussa ma pienamente autorizzata. Risultato: stop d’autorità, almeno per ora, alla costruzione dei tre edifici del lotto D, per un totale di una ventina di appartamenti disposti su due piani i cui lavori devono ancora iniziare. Sono le villette giudicate a più pesante impatto dagli architetti paesaggistici nominati in base ad un accordo ministero-enti locali e che si punta a cancellare dalle previsioni di edificazione. Anche al costo, se la procedura non dovesse approdare ad un accordo tra privati e parti pubbliche, di dover pagare al costruttore fior di quattrini di penale. Il ministero, insomma, passa all’attacco. E ferma la costruzione di circa un quarto dell’insediamento, che è diviso in undici blocchi per complessivi 87 appartamenti, la maggior parte già in costruzione e venduti sulla carta.
Dai buoni propositi, dai bonari inviti all’impresa, si passa dunque ai provvedimenti ex lege e al braccio di ferro per evitare quello che è stato definito un «ecomostro», uno scempio in una delle zone più belle d’Italia, che mette a rischio il sigillo di patrimonio dell’umanità concesso dall’Unesco alla Val d’Orcia. La strategia è stata definita ieri in un incontro, che si è svolto presso la Provincia di Siena, e al quale hanno partecipato, oltre ai vertici e ai tecnici di Regione ed enti locali, il direttore generale per i beni architettonici e del paesaggio del ministero Roberto Cecchi e soprintendenti della Toscana. La riunione ha prodotto un protocollo d’intesa, i cui contenuti non sono stati resi noti in attesa di un annuncio ufficiale che il vicepremier Francesco Rutelli si è riservato di fare nei prossimi giorni. È trapelato però che il pezzo forte dell’intesa è la decisione di avviare «la procedura di tutela indiretta». Che sarà presto notificata dal soprintendente all’impresa di costruzioni. E avrà come effetto immediato il blocco dei lavori di realizzazione degli edifici finiti nel mirino dei consulenti nominati d’intesa da Ministero e Comune di Pienza per «correggere» e «mitigare» l’impatto della lottizzazione. Il comma 4 dell’articolo 46 del decreto legislativo 42 impone infatti, «in via cautelare, la temporanea immodificabilità dell’immobile». In questo caso si imporrà di non cominciare i lavori dei tre blocchi del lotto D.
Nuovi vincoli diretti saranno inoltre varati per tutelare la Rocca di Monticchiello da mire speculative. Mentre gli enti locali hanno ottenuto la promessa dal ministero di un sostegno allo sviluppo del territorio della Val d’Orcia attraverso l’apertura di linee di finanziamento «dedicate», che una Fondazione ad hoc canalizzerà verso iniziative nella quali si abbinino crescita e tutela dell’ambiente. «È stato definito un accordo equilibrato che garantisce maggiori e ulteriori azioni di tutela al patrimonio paesaggistico ma che, al contempo, tiene conto anche dei temi dello sviluppo sociale ed economico di quell’area» si è limitato a commentare, senza peraltro voler rivelare i contenuti dell’intesa, il presidente della Provincia di Siena Fabio Ceccherini. In sintonia il sindaco di Pienza, Marco Del Ciondolo, più volte nel mirino per aver autorizzato la discussa lottizzazione di Monticchiello. «Non è mettendo in contrasto sviluppo economico e tutela del paesaggio che si può affrontare la questione di Monticchiello e della Val d’Orcia - ha detto De Ciondolo - È quanto invoca la stessa motivazione del riconoscimento Unesco nel 2004 alla Valdorcia: trovare il giusto equilibrio tra tutela e antropizzazione».
All´unanimità abbiamo deciso di dedicare un parco ad Antonio Cederna…» Così l´assessore Vittorio Sgarbi, un uomo la cui intelligenza è travolta dall´ansia, al termine della riunione nella quale si è allargato il Pantheon della toponomastica cittadina. L´insipienza dell´unanimità o insipienti all´unanimità? Non c´è molta differenza.
Nell´ottobre del ‘96, a poche settimane dalla morte di Antonio Cederna, uno dei fondatori di Italia Nostra, il professor Carlo Bertelli in un suo scritto lamentava come questo lutto avesse trovato pochissima eco sui quotidiani. Poca o nessuna eco ha avuto poi nel 2006 la ristampa di Vandali in casa, il libro col quale Cederna definiva vandalo chi distrugge l´antico, chi spreme il territorio per ricavarne il maggior reddito possibile. La sordità di Milano, dice Bertelli, è che questa è una città di ingegneri e di architetti, difficile da mobilitare sulla rinuncia al costruire: una delle grandi opzioni di Cederna. Non per nulla nel 1957 il manifesto di Italia Nostra diceva: «Uno dei presupposti della modernità è appunto quello di sapersi adeguare alla scelte urbanistiche e quindi rinunciare, ove occorra, a costruire».
Cederna poi fu soprattutto romano e dedicò tanta attenzione ai problemi urbanistici della capitale. Perché ricordarsene a Milano adesso? Mi piacerebbe pensare non tanto alle miserie pattizie di questa Giunta ma a una sorta di "onore delle armi". Onore a chi combatté contro tutto quello che sta facendo l´attuale Giunta, che hanno fatto le passate e che senza dubbio farà in futuro. Nel 1958 sul Mondo, il giornale di Pannunzio, scriveva: «La speculazione è responsabile della crisi edilizia e degli alloggi, in quanto mantenendo i prezzi dei terreni più alti del dovuto costringe i costruttori a costruire solo case medie e di lusso». Più tardi, nel 1967, preconizzava uno «sviluppo indifferenziato lungo le principali arterie, loro saldatura in interminabili suburbi, crescita abnorme». Nel 1990, ricordando che il governo Craxi nel 1984 aveva parlato della svendita dei beni demaniali «con allegra metafora chiamati "gioielli di famiglia"», scrive: «Sono proprio questi immobili che non devono essere alienati, ma ceduti ai poteri locali per essere destinati ad usi di esclusivo interesse pubblico... Perché la difesa dei vuoti, delle pause urbane, l´utilizzazione nell´interesse generale di quanto non serve più agli scopi per cui fu costruito deve essere l´impegno di fondo di una pianificazione urbanistica che renda meno invivibili le nostre città». In giunta non è andata così, niente onore delle armi, un gesto troppo intelligente e civile, invece solo il tonfo nella trappola dell´ignoranza su Antonio Cederna. Morì avendo perso la sua battaglia e noi milanesi con lui. Solo una battaglia, non la guerra. Speriamo.
Pochi sanno che il direttore del Centro del Patrimonio mondiale dell’Unesco, incaricato di iscrivere nella lista dei siti protetti le località più straordinarie e uniche di ogni continente, è un italiano, l’architetto Francesco Bandarin. L’ho incontrato recentemente a Parigi e mi ha espresso le preoccupazioni della organizzazione per quanto sta avvenendo in Val d’Orcia, prescelta, appunto, nel 2004 dall’Unesco come uno dei luoghi più emblematici per trasmettere e conservare l’immagine della Toscana (è proprio di qui la celebre foto di Robert Capa della strada che sale a zig zag, costeggiata da cipressi, icona internazionale della campagna senese). I nostri lettori sono stati messi al corrente dagli articoli di Alberto Asor Rosa, di Giovanni Valentini e di altri dello scempio edilizio inferto, reclamizzando addirittura l’avvenuto patrocinio, all’antico borgo fortificato di Monticchiello con la lottizzazione di 20.000 metri cubi a villette a due piani, autorizzata dal comune di Pienza. Neanche l’intervento in extremis del ministro per i Beni culturali è valso a bloccare l’operazione speculativa e Rutelli ha solo potuto promettere qualche palliativo per «mitigare» la visibilità dell’offesa. Ma il capitolo delle incursioni non si è fermato qui. Si è aperto subito dopo quello della cava di Malintoppo, da cui dal 1920, quando la sensibilità ambientale era di là da venire, si estrae l’argilla per la fabbricazione del cotto toscano, prodotto da una vicina fornace. Scava che ti scava, una parte della collina, quella che guarda verso Montalcino e San Quirico, è ormai ridotta ad un grande buco grigio. Nel frattempo la vecchia cooperativa ha venduto a un gruppo industriale del settore che ha fortemente incrementato la produzione con conseguente intensificazione delle escavazioni e, secondo l’Agenzia dell’Ambiente, delle emissioni inquinanti.
Contemporaneamente la nuova impresa ha acquistato 18 ettari di terreni adiacenti a un prezzo triplo di quello di mercato, così da impedire la prelazione dei contadini confinanti. Questi terreni, sui quali ricade il vincolo protettivo dell’Unesco, superano il crinale della collina e si aprono verso Pienza. Sono destinati in un prossimo futuro ad "ospitare" una nuova cava al posto della vecchia in esaurimento, deturpando anche da questo lato il paesaggio. Il comune di San Quirico appare intenzionato a dare parere favorevole, superando le obiezioni fin qui espresse dalla Regione. Di fronte alle prime proteste il sindaco si è inalberato e in una recentissima intervista dichiara che «sta valutando le vie legali per la diffamazione». Par di capire che la sua reazione nasca dal fatto che la nuova cava, dal punto di vista del perimetro, non dovrebbe essere più ampia della vecchia. Che male c’è ad autorizzare un trasloco? Ed aggiunge, con una «spiegazione» che più rivelatrice non si può: «È giunto il momento di preoccuparsi non solo delle tematiche ambientali ma delle persone che abitano, lavorano e sentono proprio questo territorio... reso Patrimonio dell’umanità grazie al loro duro lavoro».
Quasi si trattasse di difendere un centro siderurgico e non un paesaggio unico al mondo, "patrimonio", appunto, di tutti e non solo di chi localmente lo amministra. Ora è in corso il complicato iter tra Regione, Provincia ed altri enti, in base a una farraginosa procedura che vede il sovrapporsi di diversi Piani di intervento (dal Pit – Piano d’indirizzo territoriale – al Praer – Piano attività estrattive e di recupero per finire con la Vpr, Variante al Piano regolatore). Alla fine, però, sarà il Comune, come per Monticchiello, ad avere l’ultima parola, in base alla Legge 1/2005 della Regione Toscana che subdelega ai Comuni il potere di autorizzazione paesaggistica nelle zone vincolate, riservando alla Regione un ruolo puramente programmatorio e d’indirizzo. È il frutto di una teorizzazione estremizzata del governo "partecipato" del territorio e di una visione angelicata delle "virtù" dell’ente locale. Si sottovaluta, per contro, che questa delega verso il basso – apparentemente più democratica – è destinata ad alimentare un devastante conflitto d’interessi poiché i Comuni, in nome di una malintesa idea di "sviluppo", sono a volte più sensibili all’introito dei cospicui cespiti delle concessioni edilizie che al fascino del paesaggio. Del resto si tratta del punto di arrivo della dissennata riforma del Titolo V della Costituzione: ormai non è più «la Repubblica (che) difende il paesaggio», poiché questo grande valore di principio è stato spezzettato in quote condominiali locali.
Un altro atto che segna l’abdicazione suicida di una classe dirigente.
Alla vicenda della speculazione edilizia dell’area storica della Fiera di Milano è stata dedicata un’attenzione distratta e locale. Dopo il mio primo, isolato testo sul Corriere della Sera (giugno del 2004), la stampa si è poco interessata della questione, tutta affidata alle proteste della popolazione circostante il futuro insediamento ed alla coraggiosa battaglia condotta dall’architetto Sergio Brenna e dal suo gruppo. Solo di recente le pagine milanesi di Repubblica hanno ospitato alcuni articoli di severo e giusto giudizio di Beltrami Gadola, che ha scritto «dell’eccellenza del peggio».
Si è parlato anzitutto delle scandalose procedure di concorso ed istituzionali che hanno segnato il destino della più grande area centrale disponibile della città di Milano. Purtroppo il caso Fiera non è isolato ed a Milano altre decisioni su grandi aree sono state prese negli ultimi anni con una sottomissione acritica alle mode e con una totale indifferenza alla storia urbana della città.
Ma il problema ha risvolti che meriterebbero un’attenzione più ampia da parte del governo stesso ed in particolare del ministro per i Beni e le attività culturali. Non basta la giusta battaglia per la difesa delle città d’arte se poi si consentono errori duraturi che consegneranno ai posteri la testimonianza della nostra capacità di costruire immagini urbane rappresentative solo di una cultura mercantile.
Sappiamo bene che, nonostante l’Italia si vanti di essere il paese dei monumenti e degli artisti, la cultura della forma urbana conta assai poco (quando è separata dalla rendita turistica) e che il destino della qualità morfologica e di uso delle sue città e del suo territorio sembra essere l’ultimo dei pensieri che preoccupano la collettività. Anzitutto, credo, perché istituzioni e politici sono attraversati, per quanto riguarda l’architettura, da dubbi ed ignoranze tanto ampi da rendere i loro giudizi molto incerti e quindi indifesi rispetto alle pressioni delle convenienze finanziarie, alle opinioni dei falsi competenti ed alle celebrazioni multimediali. Ancor più perché la stessa connessione tra pensiero politico e pensiero culturale è andata perduta, coperta dall’idea di libertà dell’artista come pura assenza di limiti ancorché come progetto critico.
Sembra che basti vincere qualche ridicola sfida come l’accumulo in altezza delle costruzioni o un «Guinness dei Primati» per l’edificio più inutilmente strampalato per affermare che la modernità globalizzata, cioè in realtà la sua provinciale imitazione, ha finalmente raggiunto la città più laboriosa d’Italia.
Naturalmente vi è anche l’aspetto, niente affatto secondario, delle critiche specifiche che al progetto dell’area Fiera sono state fatte; non solo alla frammentazione che rende insignificante il verde pubblico, alla totale astrazione dei principi ordinatori del nuovo insieme rispetto al contesto urbano, o all’estetismo privo di qualsiasi necessità delle forme inutilizzate con un puro obiettivo di marketing, ma anche a causa dell’indifferenza con la quale gli stessi responsabili della cultura si rendono complici, con evidente superficialità, di una posizione che vuole ridurre la pratica artistica dell’architettura a pura immagine comunicativa, rappresentazione iperrealista dello stato delle cose come il migliore dei mondi possibili.
L’assenza di ogni distanza critica, o meglio la sua trasformazione in estetica generalizzata, fa inesorabilmente decadere non solo le pratiche artistiche eccellenti ma anche il livello dell’onesto mestiere, lo trasforma nella cattiva coscienza dell’efficienza in sé o nella frustrazione, fatale per l’architetto di oggi, dell’assenza di successo mediatico, mentre trasforma l’architettura stessa in una forma di intrattenimento visivo.
Credo che tutto questo non interessi solo chi pratica la nostra disciplina, preoccupato del suo stato di corruzione ogni volta ingentilito da ingannevoli rappresentazioni pubblicitarie dove l’estetica diffusa delle mode trionfa. E quando tutto questo è estetico il giudizio può dissolversi. Ma purtroppo non si dissolvono né a Milano ma anche nel resto del paese, gli edifici durevolmente costruiti a partire da queste ideologie.
Sullo scandalo della ex Fiera di Milano questo sito ha dedicato molti articoli di denuncia, fin dal marzo 2004: alcuni presi dalla stampa, altri in esclusiva per eddyburg: segnaliamo quelli di Sergio Brenna del 24 marzo 2004, del 12 luglio 2005, del 5 luglio 2006, di Lodo Meneghetti del 31 ottobre 2004, e l’eddytoriale del 12 luglio 2004.
V iva viva Sant'Agazio, protettore delle ruspe. Il presidente della Calabria, stavolta, merita gli applausi. Il via ai lavori di abbattimento dell'«ecomostro» di Copanello, un osceno e immenso complesso di cemento abusivo costruito su promontorio un tempo bellissimo, è un gesto simbolico di straordinaria importanza. E ha ragione il governatore, scosso da una miriade di grane politiche e grattacapi giudiziari che lo hanno toccato anche personalmente, a rivendicarlo. Perché, come ha sottolineato il ministro per l'Ambiente Pecoraro Scanio, quello di ieri, dopo mille complicità e battaglie giudiziarie e rinvii, è stato davvero un passaggio «storico».
Purché, appunto, non resti «solo» un gesto simbolico. Spiega infatti l'ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente, che per un verso è entusiasta e per un altro prudente, che la Calabria ha un 28˚ della popolazione e un 20˚ del territorio nazionali ma ha ospitato nel 2005 un 7˚ di tutte le illegalità nel ciclo del cemento, con una percentuale di costruzioni abusive rispetto a quelle regolari in linea col Sud peggiore, che svetta col 26,2% di abitazioni fuorilegge contro il 4,8% del Nord e il 9,5% del Centro.
Il governatore calabrese dice che lo sa, che non «si possono censire tutti gli abusi» ma finalmente chi tira su una palazzina illegale «sa che gli sarà buttata giù». A partire da una prima lista già concordata col governo. Lista di cui fanno parte vari mostri di cemento a Pizzo Calabro, Stignano, Scilla, Rossano, Cessaniti, Stilo, Tropea e Bova. Di più: Roma e la Regione si sono già impegnati a trovare i soldi non solo per le ruspe ma per il ripristino della situazione preesistente. Tutti in coro: evviva Sant'Agazio, evviva i caterpillar.
Questa volontà di rompere coi vizi del passato, però, sarebbe più convincente se il presidente si decidesse a troncare con parole nette ogni ipotesi intorno al progetto «Europaradiso». Il megalomane complesso alberghiero da costruire alla foce del Neto, vicino a Crotone, in uno dei rarissimi tratti di costa scampato agli Attila del cemento e perciò sottoposto a una serie di vincoli, regionali ed europei. Là dove oggi sorgono ancora (miracolosamente) le dune dovrebbe nascere su 6 chilometri di litorale una città di quattro milioni di metri cubi con sei hotel da 1.500 letti ognuno e campi da golf e una metropolitana di collegamento a Crotone e uno stadio per 20 mila spettatori per un investimento complessivo di 10 miliardi di euro: 20 mila miliardi di lire, quasi quanti quelli spesi per il tunnel sotto la Manica.
E chi metterebbe, i soldi? Un «finanziere» israeliano, David Appel. Il quale aveva già provato a far passare il progetto prima su un'isola greca e poi sulla costa spagnola, finendo per essere non solo respinto ma indagato e coinvolto in una serie di inchieste per corruzione che tirarono nel pantano anche Ariel Sharon e suo figlio. Al punto che, saputa la cosa, il quotidiano Haaretz ha mandato un paio di giornalisti pubblicando un reportage a dir poco feroce non solo su Appel ma anche su come il mondo politico calabrese si era lasciato incantare dalla prospettiva di un fruscio di soldi. Soldi che peraltro avrebbe dovuto parzialmente anticipare (e ti pareva!) Sviluppo Italia. Tanto da spingere poche settimane fa il Consiglio regionale, col solo voto contrario di Rifondazione, a chiedere in commissione la rimozione dei vincoli sull'area prelibata. Loiero, a proposito di «Europaradiso» i cui soli disegni in internet gelano il sangue, disse che «nessuno a cuor leggero può rinunciare a un progetto come quello».
La pensa sempre così? Gli ecomostri non si abbattono meglio, se sono ancora di carta?
I dati del secondo capoverso sono palesemente errati.
LA REGIONE Lombardia ha avviato la procedura per ottenere l´autorizzazione a costruire un´autostrada sulla direttrice Broni-Stradella-Pavia-Mortara, che, se perfezionata, costituirebbe palese violazione della normativa nazionale sulla valutazione di impatto ambientale. Si tratta inoltre di un´opera pubblica inutile e sovra dimensionata che danneggerebbe il Parco del Ticino.
Si tratta di un collegamento autostradale tra la A26 e la A21, con svincolo di raccordo all´A4, di complessivi 65,8 km (49,8 in Lombardia e 16 km a cavallo tra la Lombardia e il Piemonte). Il progetto si presenta come autostrada regionale ma ha valenza sovra regionale nella connessione con Vercelli. Ciononostante viene sottoposto a procedura di via regionale. Secondo il dpr 12 aprile 1996, si stabilisce che debbano andare a procedura di via regionale le seguenti infrastrutture: le strade extraurbane secondarie e le strade di scorrimento in area urbana o potenziamento di esistenti a quattro o più corsie con lunghezza in area urbana superiore a 1500 metri. Come si vede, la via regionale non si applica per infrastrutture autostradali. Emerge dunque la dubbia legittimità della procedura sull´autostrada "Broni-Pavia-Mortara", che se perfezionata, in violazione della normativa nazionale, costituirebbe un grave precedente.
I flussi di traffico attratti dal nuovo collegamento risultano decisamente modesti, variando tra i 3.800 ed i 7.300 veicoli al giorno, a seconda della tratta presa in esame. Tali livelli di traffico rappresentano un tasso di utilizzo medio giornaliero della capacità stradale inferiore al 10%. Nel 2021, con un incremento medio annuo del traffico del 4.6%, si potranno raggiungere i 14.600 veicoli al giorno (quando una nuova opera autostradale è giustificata nel momento in cui si hanno flussi di 70-80 mila autoveicoli al giorno). Questi risultati assolutamente mediocri si potranno raggiungere, però, solo in assenza di interventi futuri di potenziamento delle reti autostradali che circondano i capoluoghi di Milano e Pavia.
Assumendo una vita utile pari a 30 anni, ed un tasso di attualizzazione pari al 5,50% l´anno, e tenendo conto che il costo totale attualizzato dell´opera (comprensivo delle somme non quantificate e dei costi forfetari di esercizio e di manutenzione ordinaria) è attorno a 1,3 miliardi di euro, e assumendo come data di entrata in esercizio il 2011, risulta che il cash flow annuale e cumulato è del tutto insufficiente ad assicurare l´autofinanziamento dell´opera e che nei primi 8-10 di esercizio i ricavi risultano persino inferiori ai costi correnti (esercizio e manutenzione), con un conseguente mantenimento di un flusso di cassa negativi sino al 2018. La realizzazione dell´intervento risulta dunque possibile (in assenza degli altri interventi sopra descritti) soltanto a fronte di un contributo a fondo perduto da parte dello Stato pari a circa l´85-90% del costo complessivo, cioè oltre 800 milioni di euro.
Va considerato anche che l´autostrada attraverserà interi campi agricoli e zone fertilissime eliminando così molti fontanili preziosi per l´irrigazione. Fontanili che data l´incombente siccità diventeranno sempre più ricercati e pregiati. Infine bisogna tenere conto dell´unicità di questo ecosistema, che rappresenta una cruciale riserva di ossigeno e biodiversità in una zona ormai fortemente antropizzata, una meta di salute, di ricreazione e svago per molte persone e famiglie. Viste queste considerazioni chiediamo al presidente del Parco del Ticino di esprimere parere negativo sul progetto dell´autostrada.
Nota: per saperne qualcosa di più, vedi anche i materiali sul sito del Coordinamento contro l'Autostrada Broni-Mortara (f.b.)
Per spiegare la vertigine aperta dall’omicidio di Erba, il vescovo, ieri, durante il rito funebre, ha evocato Caino. L’ombra del male, che ci segue d’appresso. Vicino a casa, in famiglia, nei luoghi della nostra vita quotidiana. Che è dentro di noi. Sempre. Però, bisogna ammetterlo: da qualche anno con maggiore frequenza. Come testimonia la scia di sangue prodotta dai (mis)fatti di "ordinaria follia", commessi da persone che propongono biografie "normali". Basta ripercorrere i giornali; o meglio: guardare la tivù.
Perché la violenza che esplode tra la gente comune risulta particolarmente spettacolare. E più visibile di un tempo. Però è indubbio che si ripeta incessante. E proponga alcuni elementi che la rendono inquietante. Non è solo il fatto che avvenga, sempre più, al di fuori della criminalità organizzata. Secondo il rapporto curato da Eures in collaborazione con l’Ansa, dal 2002, in Italia, la maggioranza assoluta degli omicidi si verifica in famiglia, nella cerchia dei parenti, degli amici, dei conoscenti, del vicinato. Il rapporto rivela, inoltre, una geografia dell’orrore piuttosto precisa. Questo tipo di delitti avviene prevalentemente nel Centro-Nord. Anzi, nel Nord. Ancor più precisamente, in provincia. Basta ripercorrere le cronache.
Partendo dal caso di Pietro Maso, che nel 1991, complici alcuni amici, massacrò i genitori. Poi, andarono tutti insieme in discoteca. Al ritorno, diede l’allarme, dopo aver cercato di simulare una rapina. La scena: Montecchia di Crosara. Piccolo paese affondato nella Pedemontana, fra Verona e Vicenza. Stessa vertigine, stesso clamore, esattamente dieci anni dopo. Quando, a Novi Ligure, Erika, spalleggiata dal fidanzato Omar, ammazza a coltellate la madre e il fratellino. Insieme al delitto di Cogne, costituiscono gli idealtipi dei delitti familiari. Che coinvolgono figli che ammazzano i genitori. E genitori accusati di aver ammazzato i figli. E per questo attraggono la morbosa attenzione dei media. Altre vicende degli ultimi anni, però, si iscrivono in questa classe di delitti. A Parma, ad esempio, incontriamo Ferdinando Carretta. Scomparso per anni, nel 1998 ricompare. E a "Chi l’ha visto" confessa di aver ammazzato padre, madre e fratellino, 10 anni prima.
Ma la categoria degli omicidi familiari, nella provincia del Nord, è particolarmente folta. Vi occupa un posto importante Guglielmo Gatti, quarantenne di Brescia. Nell’agosto 2005 ammazza gli anziani zii, che vivevano nella stessa villa, nell’appartamento sotto al suo. Dopo averli narcotizzati, li porta nel garage, e li uccide. Poi li fa a pezzi e ne sparge le spoglie in montagna, intorno al passo del Vivione. Infine, lo scorso settembre, a Chiuppano, nell’alto vicentino, Assunta Beghetto viene spappolata con una mazzetta da muratore dal nipote, poco più che ventenne. Il quale, raccattati in fretta pochi euro dall’appartamento della nonna, se ne va al bar, a giocare a videopoker con gli amici.
C’è poi la saga dei serial killer. In cui ha un ruolo da protagonista Gianfranco Stevanin, arrestato negli anni Novanta per i suoi orrendi delitti ai danni di ragazze, prima violentate, poi uccise e sezionate, con sistematica e "chirurgica" ferocia. Nato a Montagnana, ridente cittadina del padovano, al momento dei delitti viveva nella bassa veronese, in riva all’Adige. Abitava in un casolare, colmo di arredi sacri e profani (vibratori, video porno, ecc.). Lo fiancheggia, degnamente, Donato Bilancia, detto "il giustiziere". E’ di Genova. Fra il 1997 e il 1998 dichiara di aver ucciso 17 persone, tra cui 7 prostitute e 2 metronotte.
Altri omicidi di provincia si consumano all’ombra dei riti satanici. Fra gli episodi più sanguinosi e clamorosi, due avvengono nelle valli lombarde. Nelle zone padane più a Nord. Il primo a Chiavenna, dove, nel 2000, suor Maria Laura Mainetti viene "sacrificata" da tre ragazze di buona famiglia. Il secondo episodio vede protagonista un gruppo di satanisti, giovanissimi. Le "bestie di Satana". Fra il 1998 e il 2004, uccidono tre compagni, loro coetanei, e ne inducono un quarto al suicidio. Gli assassini, capeggiati da Nicola Sapone, e le loro vittime, abitano fra Busto Arsizio e Somma Lombardo, in provincia di Varese.
Delitti nell’ambito degli amici e dei conoscenti. Come dimenticare la povera Desirée Piovanelli? Violentata e uccisa a coltellate, il 4 ottobre del 2002, da alcuni amici, in una cascina abbandonata; con la complicità, pare, di un adulto, Giovanni Erra, sposato e con un figlio. Abitava a Leno, in provincia di Brescia. Infine, per avvicinarci ai nostri giorni, rammentiamo il piccolo Tommaso Onofri di un anno e mezzo. Rapito e quindi ucciso. In questo caso, per la verità, si tratta di una violenza a scopo di estorsione. Commessa, però, da conoscenti. Gente del paese. Di Castelbaroncolo, frazione di Sorvolo, vicino a Parma. Persone a cui il padre aveva affidato dei lavori di ristrutturazione della casa. Infine, pochi giorni fa: Giuseppina Brasacchio, di Mirandola, vicino a Pavia, da anni disabile. Il figlio, disoccupato, e a sua volta ammalato, la massacra con 40 sprangate.
Un catalogo, incompleto ma non troppo, dei delitti commessi nei luoghi di vita quotidiana. Da persone che ci stanno intorno. Non per il piacere dello splatter. Non ci appartiene e non lo sappiamo "raccontare". Ma perché fa impressione – davvero – vederli in sequenza, questi delitti. Uno dopo l’altro. Collegare i fatti ai contesti. Associare l’orrore alla normalità. Ne emerge, chiaro, il legame con il territorio. Caino abita soprattutto a Nord. In provincia più che nella metropoli. Nelle città medie e nei piccoli paesi. Il che, ovviamente, non serve a stabilire relazioni causali. Sarebbe ingenuo, infatti, indulgere a un sociologismo positivista di basso profilo. Sostenere che l’ambiente "produca" i mostri. Che la provincia del Nord "generi" Caino. Tuttavia, questa geografia dell’orrore quotidiano serve a contraddire lo stereotipo opposto. Che induce allo stupore ogni volta che avviene un fatto di sangue come questo. Il pregiudizio, radicato, che la provincia del Nord sia un ambiente sicuro. Protetto. Lontano dall’alienazione e dalla disgregazione metropolitana. Al riparo dalle minacce che provengono dal mondo. La provincia, quella provincia, non c’è più. E’ finita. Insieme all’esplosione dell’economia diffusa, che negli ultimi vent’anni ha trasformato la Pedemontana del Nord in un unico grande reticolo di aziende. Insieme al dilagare della plaga immobiliare, che ha ridotto la Padania, e in particolare la Pedemontana del Nordest, in un unico ammasso urbano. Cresciuto senza un disegno. Sulla base di interessi grandi e piccoli. Con un unico esito: che la provincia, intesa come rete di piccoli centri, dotati di visibile e specifica identità, non esiste più. Da tempo, ormai. Ma negli ultimi anni tutto ciò è diventato più evidente. Anche a chi ci vive. La provincia padana e pedemontana del Nord. Cuore dello sviluppo; area tra le più internazionalizzate d’Europa. La società si è arricchita in fretta. Ha lavorato duro e ha conquistato un meritato benessere. Non è più luogo di emigrazione. Al contrario: attrae flussi di immigrati fra i più elevati d’Italia, come ogni zona che abbia conosciuto benessere e sviluppo. (L’immigrazione è sempre un indicatore di benessere e di sviluppo). Tuttavia, questi paesi, sono divenuti e si sentono insicuri. La classifica relativa alla crescita dei delitti denunciati dal 2001 a oggi (proposta dall’annuale inchiesta del Sole 24 Ore sul benessere delle province), vede, agli ultimi 20 posti, 15 province del Centro-Nord. Di cui 10 del Nord. Fra queste: Bergamo, Reggio Emilia, Modena, Parma, Cremona. In fondo, epicentri della nuova insicurezza, Verona, Trento e, ultima, Mantova.
La provincia del Nord. Non produce mostri: ma non riesce più a impedirne la riproduzione. Né a contrastare il diffondersi dell’insicurezza. Al contrario: in qualche misura la alimenta. Perché non dispone più dei tradizionali meccanismi di integrazione e di controllo sociale. I legami di famiglia; le reti degli amici e di vicinato. Le cerchie comunitarie. Hanno subito un degrado profondo. Come l’ambiente intorno. I vicini: sono sempre più lontani. E la strada, la piazza: hanno smesso di essere luoghi sociali. Devastati dal traffico e dalle rotatorie. Gli stessi bar. Non sono più luoghi sociali, accoglienti. Ma luoghi di consumo, perlopiù anonimi. Che i più giovani frequentano restando fuori. In piedi. I paesi pedemontani del Nord. Contesti globali e globalizzati. Frammenti di una grande metropoli. Dove si respira insoddisfazione, risentimento. Dove cresce la protesta politica e sociale. I paesi del Nord padano e pedemontano, il Nordest: in larghi settori rammentano Los Angeles. Con una grande differenza. Che non se ne rendono conto. Non ne hanno l’organizzazione, i servizi. La cultura. Non più paesi, ma neppure città. Tanto meno metropoli. E non si rassegnano, al cambiamento. Non ci rassegniamo. Per cui proviamo disagio, un dolore profondo. E ogni volta che avviene un fatto orrendo, vicino a noi, cerchiamo i colpevoli altrove. Lo straniero di turno. Per dimenticare, scacciare da noi il pensiero molesto di cosa e come siamo diventati. Stranieri noi stessi, di una metropoli inconsapevole. Dove, nel silenzio che avvolge l’ordinaria normalità, talora esplodono storie di straordinaria ferocia.
Nota: un punto di vista a modo suo "complementare" a quello di Diamanti, è quello del tuttologo Aldo Bonomi, che in una intervista a Repubblica sul caso di Erba sostiene una curiosa tesi post-Haussmanniana. In pratica, se la provincia (o "città infinita" secondo il suo vago marchio neologista) risulta arretrata in termini di modernizzazione sociale, sicuramente costruendo autostrade e centri commerciali non si può che farle del bene. Leggere per verificare, su Mall (f.b.)