Strepitoso successo di Elio e le Storie Tese al Festival della canzone napoletana con la riedizione regionale de "La terra dei cachi". Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, Casalnuovo abusivo, palazzi sì, palazzi no, perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. Colmata sì, colmata no. Chi colma e chi dice calma. Bagnolifutura, Bagnolipassata, datti una colmata. Pecoraro sì, Scanio no. I Nerli a fior di pelle. Un roseto a Bagnoli. Telefonami fra vent´anni. Quanti problemi irrisolti, ma un sindaco grande così. Poteri speciali, doveri speciali, foulard speciali. La voce speciale. Una donna per tutti gli annali. Non fa bene, ma non fa male. Non si spiega e non si spezza. Ci mette una pezza. Mese per mese, sciacqua Rosa e bive Agnese. Piani, programmi, progetti e rigetti. L´arredo urbano, una mano di colla e poi tutto crolla. Ma avanza la metro, il fiore all´occhiello, l´occhiello di triglia. Calcinacci e transenne, il buio perenne del Plebiscito. La piazza non vale senza la montagna di sale. Via dalla piazza folle, galeotto è il deserto e chi lo volle. Chi spara e chi spera. Esercito sì, Esercito no. Inviati speciali. La terra dei cachi. Lo stadio a Scampìa. Caserme sì, caserme no. Lo stadio di Fuorigrotta. Tornelli sì, Bucchi no, Calaiò, Calaiò. Coroglio che cede, occhio non vede. Cinesi dovunque, la zona orientale. Buche dovunque, la zona accidentale. Rifiuti sì, rifiuti no. Bertolaso: l´aso nella manica, l´aso in mezzo ai suoni. Osservatorio dei rifiuti, Catasto dei rifiuti, cataste di rifiuti. Rosso di Serre, rifiuti senza terre. Termovalorizzatori sì, termovalorizzatori no. Più balle che eco. La politica. Papaveri e capi, la razza impunita, ma questa è la vita. Sono sempre gli stessi (bisogna farsene una Regione). Le solite facce e un uomo sodo al comando. L´imperatore. Piace alle bionde e piace alle more. Guerra e piace. La grinta dei duri, lui dura. Nel paese dei cachi. Ci sta molto bene, ha messo radici, circondato da amici, il giro pasciuto del potere assoluto. Il rivale è servito, ma l´irpino forbito s´è presa metà della torta creando sul posto un papa di scorta, Sua Sanità, l´assessore alla salute campana. La terra dei cachi. Cachi amari per tutti. Napoli sì, Napoli no. Appalti annullati, parcheggi irrisolti, pali crollati, siamo tutti assediati. Vigili sì, vigili no. La razza pregiata degli uomini colpiti all´incrocio da stress assoluto. Chiedono aiuto e si ritirano stanchi. Il Corpo municipale dei cachi più neri che bianchi. Promesse, programmi e annunci a sacchi. La terra dei pacchi.
E’ preceduto da una nuova polemica l’esordio di Piero Fassino sulla tormentata scena del dibattito per lo sviluppo del territorio toscano. Comune di Fiesole e Fondazione Italianieuropei - quella di D’Alema e Amato - hanno organizzato per lunedì un convegno con folta partecipazione dell’establishment di Ds e Margherita, col presidente della Regione Claudio Martini, l’assessore regionale Riccardo Conti, il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, il segretario regionale Ds Andrea Manciulli, alcuni parlamentari dell’Ulivo e eminenti accademici, conclusioni affidate appunto al segretario nazionale Ds. Non ci sono nel lotto dei relatori a Fiesole gli esponenti del Coordinamento regionale dei comitati toscani per la difesa del territorio, neonato sotto l’input di Alberto Asor Rosa proprio a Fiesole, uno dei terreni di battaglia del nuovo ambientalismo.
Il Coordinamento ha scritto una nota per rivendicare il desiderio di partecipare all’evento. «L’appuntamento si presenta, a detta degli organizzatori - scrive il Coordinamento - anche come occasione per una riflessione approfondita sulle politiche in atto. Non sarebbe quindi di cattivo auspicio per le istituzioni presenti e promotrici invitare il Coordinamento regionale dei comitati toscani per la difesa del territorio, al fine di dimostrare una effettiva volontà di dialogo con le organizzazioni ed i gruppi presenti sul territorio che esprimono forti critiche non solo sull’operato di specifiche amministrazioni comunali, e fra queste quella di Fiesole, ma anche verso il nuovo Piano d’indirizzo territoriale che a nostro avviso risulta inadeguato ad arginare sia l’attacco speculativo alle aree di pregio che il dilagare di una malintesa cultura dello sviluppo destinata a produrre danni irreversibili al territorio. Esprimiamo quindi l’auspicio che questo confronto avvenga affinché la volontà di dialogo esca dalle affermazioni di principio ed entri nel merito». Secca la risposta del sindaco di Fiesole Fabio Incatasciato. «Non è un evento organizzato per confrontarsi con Asor Rosa» replica il primo cittadino che negli ultimi tempi ha avuto più di un’occasione di scontro coi comitati. «Ben vengano ad ascoltare, se vogliono, ma non è un’assemblea pubblica che prevede il contraddittorio».
I lavori del convegno «Territorio Cultura Sviluppo», presso FiesoleArte in via Gramsci 19/a a Fiesole, saranno aperti alle 9 dai saluti di Incatasciato e Martini. Alle 9.30 la prima tavola rotonda su «Conservazione attiva e politiche di sviluppo», coordinata da Rita Borioni (Fondazione Italianieuropei) e introdotta da Silvia Viviani (Presidente Inu Toscana). Dell’argomento discuteranno Franco Ceccuzzi, deputato dell’Ulivo, Vittoria Franco, senatrice dell’Ulivo e presidente Commissione cultura del Senato, Pietro Giovanni Guzzo, sovrintendente di Pompei, Amerigo Restucci, università di Venezia, Mariella Zoppi, università di Firenze, Leonardo Domenici. Alle 11.30 la seconda tavola rotonda, sul tema «La Toscana insidiata?», con Massimo Morisi (università di Firenze), Patrizia Colletta (responsabile nazionale Ds sostenibilità e politiche del territorio), Daniele Mazzonis (sottosegretario Ministero beni culturali), Riccardo Varaldo (Scuola superiore Sant’Anna di Pisa), Manciulli e Conti. Alle 13.00 le conclusioni di Fassino.
Lo scandalo Monticchiello, provvidamente sollevato da Alberto Asor Rosa, ha provocato un’attenzione al paesaggio che è di per sé positiva, tanto più se sollecita anche segretari di importanti partiti politici a muoversi. Speriamo che, dalla Toscana, quell’attenzione si rivolga anche altrove.
E speriamo che in Toscana faccia chiarezza, e qualcuno sottolinei quanta distanza separa le parole dai fatti e con quanta attenzione questi vadano seguiti e verificati, come abbiamo scritto in un recente eddytoriale. Molti hanno già segnalato quale abisso vi sia tra le intenzioni del PIT e la sua concreta efficacia (si veda, tra l’altro, il contemporaneo articolo di Paolo Baldeschi).
Poiché si parlerà del Codice del paesaggio, sarà opportuno ricordare come esso venga mistificato e falsificato nelle “intese” propagandisticamente firmate, a partire dalla Toscana, da presidenti regionali e segretari o sottosegretari di Stato. Basta leggere in proposito gli scritti del nostro Luigi Scano, ampiamente presenti nelle cartelle a lui dedicate in questo sito.
Il Piano di Indirizzo Territoriale della Regione Toscana (il PIT in corso di adozione) come descritto da Massimo Morisi è tutto collocato in una sfera di politica alta, tanto alta da rischiare di perdere il contatto con la realtà. Ad uno scienziato come Morisi certamente non sfugge il corposo intreccio di interessi per cui molti Comuni continuano ad inseguire uno sviluppo senza qualità, promuovendo edificazioni che non corrispondono a nessuna esigenza sociale. Di fatto il PIT è pieno di esortazioni a ben fare, ma l’attuale dispositivo dei poteri e competenze è tale che i Comuni, ottemperando ad una legislazione ambigua e sempre aperta a deroghe, possono fare quello che vogliono. Pensare che sia sufficiente una «coerenza politica» ad assicurare la coerenza dei fatti con gli obiettivi dichiarati è l’ipotesi che la Regione Toscana ha perseguito in questi anni, con i risultati che sono di fronte a tutti e che muovono le proteste dei comitati.
Cosa fare dunque? La proposta che viene da vasti settori del mondo universitario non è di tornare indietro ad un sistema di controlli gerarchici, bensì di procedere verso un reale trasferimento di poteri ai cittadini. Questo può essere fatto distinguendo gli aspetti statutari e invarianti del Piano da quelli programmatici e contingenti, così come nell’ordinamento giudiziario le norme costituzionali sono distinte dalle leggi ordinarie. Si faccia dunque, con un’ampia partecipazione, uno statuto regionale articolato in tanti statuti locali in cui siano definite le regole condivise di conservazione e trasformazione del territorio, regole rispetto alle quali ogni piano deve essere coerente: lasciando la possibilità ai cittadini di ricorrere ad una «corte costituzionale del territorio» laddove ritengano che i piani violino tali regole. Il resto, le norme del PIT citate da Morisi come esempi di buona amministrazione vanno benissimo, ma sono solo dispositivi di salvaguardia. Per perseguire uno sviluppo in cui la qualità faccia aggio sulla quantità ci vuole ben altro. Le critiche che da più parti sono rivolte al governo del territorio in Toscana non sono contro le istituzioni, ma significano al contrario volontà di partecipazione alla vita istituzionale. Sapere ascoltare, essere aperti al confronto, e disponibili a cambiare, non è politica tout court: è buona politica.
La sintetica valutazione del PIT ci sembra totalmente condivisibile, così come le preoccupazioni sollevate e la sostanza della proposta formulata. È opportuno precisare (e crediamo di interpretare anche il pensiero di Baldeschi) che quando, nella sua proposta, si parla di “regole condivise di conservazione e trasformazione del territorio, regole rispetto alle quali ogni piano deve essere coerente”, non ci si riferisce a chiacchiere o principi, ma a precise regole precisamente riferite a specifici territori adeguatamente cartografati: regole valide erga omnes, che favoriscano trasformazioni coerenti con le esigenze di conservazione e ostacolino quelle distruttive o degradanti.
Parte l´operazione Fori: non più una pigra questione accademica, dibattito da tenersi intorno ad un tavolo con tempi epici immaginando soluzioni avveniristiche. Adesso che sul cuore dell´area archeologica centrale sta per arrivare il ciclone metropolitana, i tempi per un assetto definitivo sono nelle cose, accelerati, imposti, scanditi da progetti e inaugurazioni scritte nei contratti. Secondo gli impegni sottoscritti dal Comune, la linea C della metropolitana sarà funzionante nelle fermate Colosseo e Piazza Venezia nel 2015. Quel che i passeggeri della metropolitana di Roma troveranno emergendo in superficie dovrà essere un parco archeologico attrezzato, comprensibile, unificato, ordinato.
La soluzione Fuksas - via dei Fori come una passerella sulla storia, il traffico limitato al massimo, aree sosta e accoglienza per turisti e visitatori - progetto esposto nel 2004 al Colosseo e rilanciato dall´architetto in questi giorni, è considerato dal Campidoglio un utile suggerimento, un contributo interessante al dibattito, alla discussione in corso. L´assessore alla Cultura Silvio Di Francia precisa: «L´architetto Fuksas coglie soprattutto un punto. È questo il momento di intervenire, di cambiare e pensare a come definire l´area archeologica centrale. Non è possibile ancora dire se si realizzerà precisamente quel progetto ma sicuramente Fuksas stesso sarà un interlocutore e il suo lavoro uno stimolo ma anche una sfida». L´architetto parla anche di una spesa per la realizzazione del suo lavoro pari a circa duecento milioni di euro: «Non siamo ancora al punto di valutare i costi - commenta Di Francia - è prima necessario stabilire come riorganizzare l´area che non si limita soltanto alla zona dei Fori ma include anche zone circostanti, Colle Oppio e Celio, Palatino e Circo Massimo». Come dire: è il cuore storico di Roma e va ripensato urbanisticamente in maniera armonica. Prematuro al momento parlare di un concorso internazionale di architettura, per concedere ad altre star dell´architettura di esprimere il proprio punto di vista sull´appassionante tema del centro di Roma.
Quella dei Fori è comunque una priorità che è nell´agenda del Campidoglio: torna al lavoro proprio in queste settimane anche la commissione Stato-Comune proprio sulla risistemazione dell´area archeologica centrale, la discussione a quanto pare è entrata nel vivo. Ne fanno parte gli assessori Di Francia e Roberto Morassut, all´Urbanistica insieme ai tecnici La Rocca, soprintendente e Modigliani, direttore del piano regolatore e al soprintendente archeologico Angelo Bottini. Inevitabile che si torni a parlare ancora delle sorti di via dei Fori. Ancora Di Francia: «Ho sempre considerato che si trattasse di una strada sovradimensionata dal punto di vista della carreggiata, del traffico. Ma oggi capisco che sia necessario arrivare a una mediazione».
Altri lavori sono in corso, e non secondari per importanza. In ottobre saranno infatti chiusi i cantieri di restauro in corso ai Mercati di Traiano e si potrà passare finalmente all´allestimento del sospirato Museo dei Fori imperiali, il luogo per eccellenza deputato ad offrire ai visitatori, turisti e anche agli appassionati di storia antica e archeologia una visione unitaria dei Fori imperiali, senza tralasciare la storicizzazione, di quella via realizzata in epoca fascista per unire piazza Venezia al Colosseo, prossime modernissime fermate della metropolitana, al centro di una città che cambia.
Sul tema, in eddyburg, con riferimenti documentari
«Per il ponte sui Fori è il momento giusto»: sono i lavori per la metropolitana a far tornare di attualità il progetto elaborato da Massimiliano Fuksas, a riportare all´ordine del giorno uno studio completo che rende vivibile e moderna la strada che taglia l´area archeologica senza cancellarla né isolarla dal contesto urbano. Accade quindi che un cambiamento importante come quello avviato dai cantieri della metropolitana, premessa a una trasformazione epocale nel cuore della città antica, imponga un adeguamento urbanistico, un cambiamento di assetto ulteriore, riguardante proprio la via che unisce piazza Venezia e il Colosseo. Far diventare la strada come un lungo ponte sospeso sulla storia, arricchirlo di passerelle leggere e moderne e percorsi aperti al pubblico, ai turisti può essere la soluzione.
Cosa fare di via dei Fori imperiali è stata annosa questione che negli anni ha diviso e infiammato archeologi e urbanisti, assessori e ministri, soprintendenti e ambientalisti. Ora l´architetto che ha portato a termine la nuova Fiera di Milano, impegnato in cantieri in mezzo mondo ma sinceramente romano nel cuore, spiega: «Siamo arrivati al dunque. A Roma avremo la metropolitana più bella del mondo che tocca, per così dire, "la testa e la coda" di via dei Fori. Allora, io dico, è il momento di metterci mano. E il punto adesso non è più se togliere la strada o lasciarla ma farla vivere tutti i giorni e non soltanto una volta ogni tanto la domenica».
Il progetto dello studio Fuksas, firmato con Doriana Mandrelli già al centro della mostra «Forma» allestita al Colosseo nell´estate 2004, prevede che via dei Fori non venga modificata ma «riportata alla geometria d´origine». «La strada resta, è ormai storia di Roma» ma «la trasformiamo in modo da farne il collegamento tra i fori». Nei Fori di Fuksas, nati lavorando insieme all´allora soprintendente Adriano La Regina, la pedonalizzazione garantisce comunque l´uso pubblico e di emergenza della strada mentre dalle due corsie pedonali si collegano passerelle in legno sollevate dall´area archeologica dalle quali saranno accessibili piattaforme che potranno ospitare spettacoli all´aperto, caffè, libreria, mediateca, piccoli ristoranti. Questi percorsi sono pensati rispettando i percorsi storici e «sono tutti interamente reversibili».
L´operazione, rilanciata da Fuksas presentando un convegno sulle procedure urbanistiche che si svolgerà venerdì 30 alla Casa dell´architettura, ha costi stimati intorno ai duecento milioni di euro. Conclude Fuksas: «Adesso che finalmente si sta intervenendo con progetti architettonici importanti che trasformeranno e renderanno moderne le zone di Tor Vergata, dell´Ostiense, della Flaminia e dell´Eur non si può correre il rischio di dimenticarsi del cuore del cuore del problema, del centro storico di Roma e di trasformazioni importanti e urgenti».
Postilla
Il progetto Fori, che infiammò il dibattito capitolino a partire dalla fine degli anni ’70, era in realtà problema urbanistico un po’ più complesso della proposta di rivitalizzazione di una strada cui, in sostanza, si limita il progetto di Fuksas. Nell’idea dei protagonisti di allora, fra gli altri soprattutto il sindaco Petroselli e Antonio Cederna, si trattava di rivoluzionare il centro storico di Roma eliminando lo stradone fascista e recuperando l’unitarietà dei fori quale cuspide archeologica di un cuneo verde che si stendeva da Piazza Venezia ampliandosi a comprendere l’Appia antica fino ai piedi dei colli romani. Non solo quindi operazione di recupero archeologico, ma di innovazione urbanistica e culturale in senso ampio, ottenuta invertendo la gerarchia del primato selvaggio della mobilità privata a favore di uno spazio pubblico di natura e cultura.
La proposta Fuksas ci pare attestata su orizzonti non solo molto più limitati, ma anche di dubbia efficacia oltre che di oscure modalità di fruizione complessive. Solleva qualche dubbio, ad esempio, l’obiettivo del “riportare alla geometria d’origine” via dei Fori Imperiali senza peraltro modificarla in nome della sua asserita storicizzazione. Se occorre far ‘vivere’ la strada tutti giorni e non solo qualche domenica, il primo passo obbligato non può che essere la chiusura al traffico immediata ed illimitata temporalmente.
Logicamente non ineccepibile sembra quindi nel complesso una proposta che a partire dalla constatazione di una modifica in atto di grande rilevanza, come è a tutti gli effetti la costruzione della metropolitana, ne trae come conseguenza l’intangibilità spaziale dell’asse viario lungo il quale viene a collocarsi il percorso sotterraneo su ferro. E’ storicamente dimostrato, infine, che soluzioni di compromesso ispirate a restrizioni e limitazioni parziali del traffico sono destinate a soffrire di smagliature via via sempre più sbracate.
Quanto poi alla soluzione prescelta delle passerelle pensili immancabilmente dotate dei consueti imprescindibili gadgets di caffè, ristorantini e mediateche, e sospese su un panorama di asfalto, ruderi ed anidride carbonica, siamo pressoché certi che avrebbe scatenato la più feroce ironia lessicale di Antonio Cederna: forse non gli sarebbe dispiaciuta una definizione tipo “sadismo futurista”.(m.p.g.)
In eddyburg:
Sul progetto fori:
Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto Fori, di Vezio De Lucia
Sul progetto Fuksas:
De foris, etiam,di Maria Pia Guermandi
Cazzola chiede alle istituzioni risposta definitive: sicuramente quella della Provincia era una risposta molto chiara, anche se non definitiva. Che ne pensa, Campos?
«Cazzola sa, perché evidentemente ha avuto delle assicurazioni in questo senso, che non tutti la pensano come la Provincia. Il sindaco di Imola, Massimo Marchignoli, lo ha già detto, quello di Medicina, Nara Rebecchi, anche. A questo punto, molto dipende da quello che dicono il presidente della Regione, Errani, e forse anche il sindaco di Bologna, Cofferati».
Che per il momento tacciono. Il sindaco di Imola rimprovera invece alla Provincia un atteggiamento «troppo istituzionale».
«La prima cosa che voglio dire è che la Provincia ha fatto bene e io non mi aspettavo di meno. Però cosa fondamentale da capire è che il Piano con cui la Provincia regola lo sviluppo del territorio (e sulla cui base ha posto dei “paletti” al progetto Romilia ndr) è stato disegnato con il consenso della Regione. Per questo mi aspetto subito che alla Provincia faccia eco la Regione».
Per il momento l’assessore regionale Campagnoli dice, a proposito di Romilia, che va accelerata la realizzazione del Passante autostradale.
«Ci arriviamo, prima però voglio dire un’altra cosa, a proposito dell’approccio istituzionale. Che in questo caso altro non è che una lettura del Piano territoriale provinciale che, essendo lo strumento urbanistico vigente, va rispettato. Io non ho mai pensato - e non lo penso oggi - che il Piano debba essere blindato. Certo risponde a una strategia generale chiara che può essere cambiata. Se questo è il problema, abbiano il coraggio di dire che va cambiata la strategia generale del Piano provinciale (e regionale), ci spieghino qual è la nuova strategia e, per servire gli interessi del signor Cazzola, cambino il contenuto del Piano».
Cazzola è risentito perché il suo progetto è stato da lei paragonato a quello berlusconiano di Milano 2.
«Lui dice che questo confronto gli fa accapponare la pelle e che si è offeso. Mi sorprende che Cazzola si adonti per il paragone con Berlusconi, da un certo punto di vista mi fa persino piacere. Però l’unica differenza che c’è tra Milano 2 e Romilia è che nel primo caso si parla di 70 ettari di variante, mentre per Romilia sono 300. Inoltre, per Milano 2, la proprietà del terreno era già di Berlusconi, mentre per Romilia è ancora di proprietà delle cooperative, che evidentemente hanno concesso a Cazzola un’opzione. Quindi c’è un socio che, per essere espliciti, è cointeressato all’operazione di Cazzola. E questo è il primo punto, ma ce n’è un altro che mi preme sottolineare».
Prego, lo faccia.
«Cazzola parla di piano industriale, ma quello di Romilia non lo è».
Perché?
«I liquidi non ci sono: Cazzola stesso li cerca. L’unica produzione sarà costituita da servizi. Non si tratta quindi di profitto, ma di pura rendita. Un terreno di 300 ettari, con un valore agricolo relativamente basso, con una semplice firma potrebbe diventare edificabile, vedendo moltiplicato per cifre imponenti il proprio valore. Le destinazioni ottenute con quella firma sono private e come tali andranno sul mercato. Per finanziare lo stadio e il Bologna calcio, che restano privati».
Il sindaco di Medicina ricorda che esistono anche le varianti ai piani urbanistici.
«In parte ho già risposto. Qui non si tratta di una variante, si tratta di una strategia. Il piano indica una direzione di sviluppo, verso nord, e comunque lungo gli assi esistenti. Dice che le campagne vanno semplicemente preservate e non ci deve essere nessuna aggiunta di centri commerciali o residenze fuori da queste direttrici. Se non va bene, facciamo un nuovo piano che dica il contrario».
Torniamo alla proposta di Campagnoli.
«Mi chiedo se abbia provato a guardare una carta. Se il Passante autostradale deve essere dirottato di dieci chilometri per arrivare a Romilia, io comincio a preoccuparmi moltissimo. Bisogna portare servizi dove vuole Cazzola, strade dove vuole Cazzola, persino la ferrovia. Questo è un metodo che in Emilia Romagna non è mai stato praticato».
Ma Bologna che c’entra con Romilia?
«Il Comune di Bologna è proprietario dello stadio Dall’Ara per ristrutturare il quale la collettività, nel 1990, ha speso fior di quattrini. Se si decidesse di fare un altro stadio, il Dall’Ara, un valore immobiliare di proprietà pubblica, verrebbe danneggiato».
Lei, parlando di Romilia, chiama in causa il nuovo Pd.
«A Rimini c’è un’operazione identica a quella di Romilia, tutta finanziato dalla rendita. Noi stiamo presentando la nuova legge nazionale di governo del territorio, ispirata alla nostra legge regionale. Se passano queste operazioni, diranno: “Si voi fate leggi, ma poi non le seguite”. Il Partito democratico per cui ho votato non sarà mica il partito di Romilia? Se così fosse, mi ritirei in buon ordine».
Stella Cervasio, Transenne ai portici del Plebiscito
La piazza simbolo transennata. Somiglia a una foto del primo Dopoguerra, scattata dal celebre reporter Troncone e conservata proprio nell´archivio Parisio, che domina piazza Plebiscito. Quello era filo spinato, in verità, ma anche qui, da ieri, non si passa più, come allora. Il Plebiscito, il colonnato che per anni hanno rappresentato il senso dell´era Bassolino - il quale per primo aveva liberato lo spazio scenografico della piazza da un immane parcheggio - condannati a restare nell´ombra anche a Pasqua e poi per il Maggio dei Monumenti, se i lavori non cominceranno in tempo utile.
«È l´anticamera della periferia in pieno centro di Napoli», dicono in coro gli abitanti. Fanno eco gli operatori che vi hanno investito e che oggi vedono ancora una volta deluse le loro aspettative. Ieri mattina una squadra di operai ha transennato gli ingressi al colonnato al di sopra delle scalinate per tutelare i passanti dalla caduta di calcinacci della struttura monumentale che fa ala alla chiesa di San Francesco di Paola. «La mia soprintendenza - dice Enrico Guglielmo - alla quale è assegnata l´alta sorveglianza sulla chiesa, di proprietà del Fondo Edifici di Culto del ministero dell´Interno, e sul colonnato, che appartiene al Demanio, ha provveduto a mettere in sicurezza l´area della caduta di calcinacci dalle cornici con un transennamento provvisorio. I lavori non competono a noi. Ma vanno eseguiti, come abbiamo scritto nelle nostre lettere al Demanio, sollecitandone l´inizio già da qualche settimana».
«Ho speso 800 euro per le fioriere e ho anche aumentato l´illuminazione molto scarsa. Volevo rendere più accogliente il colonnato ora che la bassa stagione sta per finire. Ma ieri mattina ho trovato questa nuova sorpresa: mi lasciano un ingresso solo perché io pago al Demanio». Non ha fortuna Salvatore Piccolo, che aveva aggiunto al ristorante "Al Plebiscito" di piazza Carolina l´affaccio sulla piazza maggiore e l´anno scorso si era visto murare l´ingresso perché abusivo. La sua birreria alle forti critiche iniziali ha visto aggiungersi mille e più difficoltà di gestione. Quando piove i ragazzi giocano a pallone sotto i portici, dribblando fra i tavolini, mandando in frantumi gli arredi minimi, ma segnale di buona volontà del gestore. Basta fare pochi passi per vedere i materassi dei clochard: il colonnato è anche una camera da letto, oltre che il posto dei graffiti - dei vandali, non degli artisti di strada.
«Ci vogliono procedure urgenti», dice il gallerista Giangi Fonti, che ha gli uffici su via Chiaia e dai balconi guarda il leone di pietra al confine tra piazza Carolina e il Plebiscito. La faccia bella della piazza, quella dell´arte, che per anni ha significato le opere di artisti storici del contemporaneo, è mortificata come ogni altro suo aspetto. «Il lavoro di Serra diventò un orinatoio, quello di Sol LeWitt uno sversatoio di rifiuti. Bisogna metterci mano in modo radicale, non con il solito intervento lampo», aggiunge Fonti, «il degrado urbano è connesso con il problema sicurezza: insieme ai monumenti che cadono a pezzi a far da cartellone pubblicitario c´è sicuramente l´immagine che più si vede in giro anche da queste parti: quella della Vespa con a bordo tre persone senza casco, di cui magari uno è un bambino di pochi anni. Ma se si pensa che fino a un anno fa piazza Carolina era un parcheggio abusivo invaso dagli ultras della Brigata Carolina, ora si può dire che la situazione è migliorata».
È ancora aperto il bando del Comune per un caffè letterario, un ristorante etnico e alcune botteghe artigiane. Ad oggi c´è questo e altri progetti. Come quelli che da anni vorrebbe giocarsi Stefano Fittipaldi, titolare degli archivi Troncone e Parisio, i giacimenti di tesori fotografici più importanti di Napoli e di un laboratorio che potrebbe essere più che un assaggio di storia della fotografia. «L´idea del ristorante etnico può funzionare di sera, ma il porticato deve vivere di giorno», osserva Fittipaldi. «E quello che finora possiamo notare, è che non ha una vera vocazione commerciale». Ne sa qualcosa la libreria Treves, che sotto sfratto da via Roma, ha ricevuto in concessione i locali del Comune e ora, per la fatalità della pioggia di calcinacci, vede sbarrata la strada ai clienti.
«Il peggiore dei guai della piazza - fa ancora notare Salvatore Piccolo - è l´illuminazione che non c´è. La messa in sicurezza del colonnato si è resa necessaria, ma ci preoccupano i tempi dell´intervento per fermare i crolli. Del resto ci siamo abituati: anche l´anno scorso, proprio a Pasqua, quando l´arrivo dei turisti diventò massiccio, furono aperti i cantieri di piazza Municipio. Se passerà molto tempo, allora vuol dire che su quel colonnato c´è davvero una maledizione».
Massimiliano Palese, Il patrimonio minacciato
I "Patrimoni dell´Umanità" sono luoghi di particolare pregio, scelti per quel programma internazionale dell´Unesco che dal 1972 (soltanto, purtroppo) ha lo scopo di preservare siti di eccezionale importanza naturale o culturale. Questi siti devono soddisfare molti dei rigidissimi criteri che l´Unesco ha fissato per la selezione: devono rappresentare un capolavoro del genio creativo umano (un edificio, una basilica, o un insieme di opere d´arte) o apportare una testimonianza d´eccezione su una particolare tradizione culturale (solo un castello o un insediamento intero); devono offrire un esempio, ma eminente, di costruzione architetturale o del paesaggio (un parco, una villa, tutta una costiera) o possono essere "paesaggi culturali".
Cioè paesaggi che offrano buon esempio di interazione umana con l´ambiente (un monte, una valle e, perché no?, una foresta); devono essere vestigia di grandi epoche storiche (vedi alcuni importanti siti archeologici) o contenere gli habitat naturali più rappresentativi della conservazione delle biodiversità. E l´Unesco spesso dà rilievo, considerazione e un punteggio maggiore agli "spazi minacciati".
La lista dei "Patrimoni dell´Umanità" è lunga, istruttiva, e fa girare la testa: si va dalla foresta tropicale di Sumatra ai monasteri dell´Armenia, dalla barriera corallina australiana al centro di Vienna, dai giardini di Schönbrunn alle mangrovie del Bangladesh, dalla Grand Place di Bruxelles alla foresta vergine bielorussa, dal ponte di Mostar alla Muraglia Cinese, da Canterbury alle Seychelles. Insomma dalla reggia di Versailles al campo di Auschwitz, dalle piramidi a Valparaíso, passando per Gerusalemme, Brasilia e Macao. Al 2006 la lista è composta da 830 siti di 138 nazioni del mondo, e l´Italia detiene il bel primato di paese col maggior numero di luoghi inclusi. Le incisioni rupestri della Valcamonica e la laguna di Venezia. I Sassi di Matera e i trulli di Alberobello. La Valle dei Templi e le necropoli etrusche. Le residenze sabaude e le delizie estensi.
Sono patrimoni italiani alcune località di estremo pregio naturale come le Cinque Terre e le Isole Eolie. O produzioni del genio umano come le ville palladiane e quelle di Tivoli. Per la concentrazione di opere d´arte sono state inserite nella lista Unesco centri storici di grande importanza (Roma, Firenze, Urbino, Modena, Pisa, Siena, Siracusa, Pienza, San Gimignano), e intere città (Ferrara, Verona, Vicenza). Addirittura uno stato (Città del Vaticano). E la Campania dà lustro al patrimonio mondiale con la Costiera Amalfitana e il Parco Nazionale del Cilento. Con i siti archeologici di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata. Con Paestum, Velia, e Padula. Con la reggia di Caserta e il complesso di San Leucio. E il centro di Napoli.
Ebbene sì, dal 1995 anche il centro storico di Napoli è "Patrimonio dell´Umanità". Con Piazza del Gesù che di notte diventa un parcheggio abusivo. L´inquinamento atmosferico che rovina i marmi, quello acustico che lacera i timpani. Altro che Ztl, troppo poco. Si dovrebbe chiuderlo al traffico - sbarrarlo, serrarlo - un patrimonio dell´umanità. Il Traffico della Zona sarà Limitato, ma traffico resta. Intanto per cardini e decumani i motorini sfrecciano e le macchine intasano. Gli automobilisti se la prendono con le strade: «´A colpa è ‘a lloro, so´ tropp´ strett´». Ma è certo che le vie sono strette. Sono state concepite due millenni e mezzo fa da gente e per gente che a suo tempo andava a piedi, al massimo in dorso a un asino. Non possono contenere un Suv con nove persone dentro. Non possono accogliere un camion, ancorché piccolo. E che dire del Sacro Tempio della Scorziata che cade in pezzi, della Chiesa dei Gerolamini chiusa dal terremoto, di Santa Maria in Vertecoeli mai più riaperta, del Museo Filangieri di cui non si hanno più notizie? Facciamo richiesta all´Unesco di inserire il centro storico di Napoli nella lista di patrimoni minacciati, ma in una sottolista "a minaccia immediata". E di tutelare noi napoletani come "umanità minacciata da se stessa".
Romilia potrebbe restare un sogno. Il patron del Bologna Calcio e i suoi soci, Mario Bandiera e Renzo Menarini, stanno pensando di abbandonare l’idea del complesso ludico-residenziale che vogliono realizzare a Medicina, nell’hinterland bolognese. L’area in cui, tra appartamenti e parchi tematici, dovrebbe sorgere anche il nuovo stadio. A far riflettere la triade di imprenditori sono una lettera che la presidente della Provincia, Beatrice Draghetti, ha mandato allo stesso Cazzola. Nella missiva Draghetti chiede «approfondimenti tecnici necessari per le valutazioni territoriali di sostenibilità, fattibilità e coerenza del progetto con le politiche amministrative approvate dagli Enti locali». Una serie di richieste che, evidentemente, ha messo in allerta Cazzola e soci.
Nei prossimi giorni il gruppo, di cui fa parte anche la società Aktiva, «valuterà l’opportunità di sostenere ulteriori investimenti per produrre la documentazione richiesta o se abbandonare definitivamente l’iniziativa». Un “aut aut” in piena regola, dunque, dovuto al fatto che la lettera di palazzo Malvezzi «evidenzia che i contenuti della proposta di progetto denominato Romilia sono incompatibili con le norme e i criteri vigenti sulla pianificazione territoriale di competenza della Provincia», recita la posizione della società rossoblù. Il nodo, insomma, è la compatibilità con il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp), messo a punto in questi anni dalla giunta di palazzo Malvezzi. Il punto è che il terreno scelto a Medicina non è nelle linee di sviluppo del piano. Le dimensioni del progetto Romilia avevano aperto polemiche aspre in Consiglio provinciale: la giunta vuole mantenere aperto il dialogo con Cazzola e soci, ma Verdi e Sinistra radicale avevano bocciato l’idea. A fronte dell’entusiasmo del sindaco di Medicina, Nara Rebecchi, il primo cittadino di Bologna, Sergio Cofferati, dapprima freddo, aveva mostrato segnali di apertura al progetto. Una stroncatura totale, invece, era arrivata dall’urbanista Giuseppe Campos Venuti che, l’ultima volta lunedì scorso dalle colonne de L’Unità, ha definito Romilia un «ecomostro». Ma cosa si legge nella missiva della Provincia? Tutto, come si diceva, ruota attorno alle prescrizioni del Ptcp. Che individua per lo sviluppo dell’hinterland 5 aree: San Giovanni in Persiceto, Funo, Altedo, Castel San Pietro, Martignone. Medicina non compare. Ma non è finita. «La residenza (si parla di circa 600-700 alloggi, ndr) è ammessa solo in corrispondenza dei centri urbani esistenti e dotati di servizio di trasporto pubblico su ferro (Sfm)», oltre che di scuole e servizi sanitari. Tradotto: niente vieta di realizzare in aperta campagna, come vorrebbe il progetto di Cazzola e soci, impianti sportivi e ricreativi, altra cosa è costruire delle abitazioni lontane da centri abitati e servizi. Una «coerenza rispettata da tutti i Psc finora elaborati», tra cui quello di Bologna. E se pure è vero che il Ptcp «ammette funzioni complementari a quelle sportive», le stesse prescrizioni - cioè la vicinanza a aree urbanizzate o urbanizzabili - riguardano anche le funzioni commerciali. Se le infrastrutture non ci sono, bisogna che la loro «realizzazione sia garantita da impegni finanziari già inseriti nei programmi di investimento degli enti competenti e/o dei soggetti attuatori dell’investimento». Per il nuovo stadio, poi, «si chiede il tipo di stadio ipotizzato, le funzioni presenti, le dotazioni territoriali necessarie per il suo funzionamento, gli usi, sportivi e non, che dovrà ospitare oltre a quelli calcistici». Per il vecchio Dall’Ara, si chiedono, invece, «gli usi e le funzioni previste per il suo riutilizzo».
Mentre la triade rossoblù riflette, Alfredo Vigarani, capogruppo dei Verdi a palazzo Malvezzi, spera che Romilia resti un sogno: «Sono felice che Cazzola abbia finalmente compreso il senso della pianificazione territoriale», esulta l’ambientalista.
COLPO DI SCENA Romilia non è stata ancora concepita che già sembra essere morta. Ieri la Provincia ha ricordato a Cazzola e soci i vincoli. Gli imprenditori ora getteranno la spugna?
Già li chiamano i «Girotondi del paesaggio». Il tam-tam tra le associazioni ambientaliste toscane è sempre più intenso. Al raduno autoconvocato per domani mattina, domenica, a Firenze alle 10 nella sede del circolo culturale «II giardino dei ciliegi» in via dell'Agnolo potrebbero partecipare più di una cinquantina di gruppi che, da Firenze passando per Siena e Arezzo, si stanno battendo contro le diverse forme che sta prendendo la Villettopoli denunciata dal ministro Francesco Rutelli. Ovvero la progressiva invasione di tanti insediamenti simili a quelli di Monticchiello. Lo storico Alberto Asor Rosa, proprio dopo quella battaglia, è diventato un simbolo della lotta contro le brutture che sfigurano il paesaggio. E sarà infatti il professore a prendere le redini del nuovo Movimento ambientalista «spontaneo» toscano.
Uno dei principali animatori dell'assemblea eco-girotondina sarà Mario Bencivenni, docente di Teoria e storia del restauro alla seconda facoltà di Architettura a Milano, tra i fondatori del Comitato per la difesa delle Cascine, lo splendido parco fiorentino. Dice Bencivenni: «In molti comuni toscani c'è purtroppo una corsa a inventarsi insediamenti destinati a diventare autentiche nefandezze. Monticchiello è solo la punta di un iceberg, la spia di un fenomeno ben più vasto e preoccupante. Le colate di cemento sono impressionanti, anche nella stessa Firenze dove sono minacciate aree verdi di grande pregio naturalistico. Ormai dilaga l'idea di sviluppo che vede nella rendita fondiaria il motore principale. Per ora le amministrazioni ci hanno risposto poco e male. E ora, con la creazione della nostra rete, tradiscono segni di nervosismo».
Al raduno parteciperà anche il fotografo Oliviero Toscani, da tempo impegnato in una sua personale battaglia in difesa del patrimonio paesaggistico italiano insieme con lo scrittore Andrea De Carlo, il sociologo Domenico de Masi, il cantautore Lorenzo Cherubini (Jovanotti) e il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci. Alla fine di maggio organizzerà alla Cantina Petra-Ter-ra Moretti di Suvereto, in provincia di Livorno, una mostra permanente sui disastri ambientali: nascerà una banca dati ordine degli scempi che sfregiano la penisola. Dice Toscani: «Sono favorevole a interventi che contemplino grande qualità architettonica contemporanea. Purtroppo in Toscana, come nel resto d'Italia, c'è l'invasione delle Case dei Puffi disegnate "in stile" dai geometri italiani, che per me restano i principali responsabili del disastro. Per fortuna in Toscana molti amministratori dimostrano sensibilità e attenzione. Ma non tutti...».
E c'è chi non è d'accordo. Ovvero Claudio Martini, presidente della giunta regionale toscana, reduce da Strasburgo dove ha messo a disposizione la villa medicea di Careggi come nuova sede del centro europeo per la difesa del paesaggio: «Se il messaggio di domenica sarà la massima attenzione per combattere l'aggressione speculativa, io ci sto. Se invece sarà una dichiarazione di guerra all'istituzione comunale, vista come responsabile di tutti i mali, allora non ci sto». Martini si riferisce alla ricorrente polemica ambientalista che individua nelle piccole amministrazioni cittadine, dopo la riforma del titolo V della Costituzione e l'assegnazione da parte delle regioni delle deleghe in materia di ambiente ai comuni, le responsabili dei massacri per i «permessi facili».
Sostiene Martini: «Se si procedesse ad un'analisi seria, si scoprirebbe che l'80% dei nuovi insediamenti così contestati in Toscana sono code di previsioni urbanistiche cominciate negli anni a cavallo tra gli '80 e i '90, quando vigeva il centralismo». Il presidente, che conferma il suo dissenso di fondo sull'operazione Monticchiello, avverte: «Definire quell'insediamento un ecomostro è un'esagerazione che fa torto al senso della misura delle parole. E anche l'espressione Villettopoli mi pare sbagliata, rimanda a un'atmosfera giudiziaria che non esiste». Ma la parola è un'invenzione di Francesco Rutelli... «Ho l'abitudine di dire ciò che penso, il mio giudizio non cambia. Le esasperazioni, la logica della contrapposizione non aiutano a risolvere i problemi. La mia proposta ad Asor Rosa e agli altri è semplice: solo con un'alleanza tra istituzioni nazionali e locali, mondo della cultura e dei movimenti si può individuare la strada per battere la speculazione. Dividersi è solo dannoso».
Carlo Masseroli è assessore allo sviluppo del territorio del Comune di Milano
Non c´è dialogo senza chiarezza. Ho letto molta confusione nel presentare la radicale svolta nella politica urbanistica che il Comune ha comunicato pochi giorni fa alla città. Un nuovo strumento capace di proiettare Milano come benchmark di riferimento nel quadro delle riforme urbanistiche, qualcosa che non è mai riuscito a nessuna grande città prima d´ora. Non solo è sfuggito il significato di questa comunicazione, ma non ne è stato nemmeno colto l´oggetto.
In questi giorni abbiamo dato avvio a un processo, presentando un contenitore non un contenuto. Questo non perché il contenuto non ci sia, ma perché il contenitore, e mi riferisco al Piano di governo del territorio, rappresenta la vera rivoluzione. Una proposta culturale che apre al definitivo abbandono del Prg.
L´abbandono di un disegno teorico e calato dall´alto, di un modello gerarchico ed estremamente rigido, che si è dimostrato nell´esperienza incapace di raccogliere la sfida della città, e per questo ideologico. Che si è dimostrato essere vincolo a qualsiasi strategia di sviluppo. Dalla sua approvazione al giorno d´oggi si sono rese necessarie più di 300 varianti per adeguare il piano ai differenti e mutevoli bisogni di una società in forte cambiamento, dal Piano casa alle varianti per il Passante ferroviario, dalla riqualificazione di aree dimesse alla recente conclusione del processo di pianificazione delle zone di recupero. Da qui la necessità di uno strumento nuovo: il Piano di governo del territorio, dove la flessibilità diviene occasione di verifica continua e confronto dinamico, capace di offrire una risposta adeguata alla realtà che per sua natura è in continua trasformazione. Tale innovazione dello strumento apre a una molteplicità di opportunità e di obiettivi di trasformazione che costituiscono una soluzione adeguata al problema della progettazione e pianificazione strategica del territorio in un contesto sociale ed economico caratterizzato da forti cambiamenti.
Tre i documenti fondamentali del Pgt: il Documento di piano, il Piano dei servizi e il Piano delle regole. Da un unico strumento che regola e pianifica si passa a tre, permettendo così la separazione tra gli aspetti regolatori che hanno effetti diretti sul regime dei suoli e gli aspetti programmatori e strategici. Per quali obbiettivi? Per quale città? Per quale sviluppo? Il Piano di governo del territorio individua un obiettivo strategico generale, il "miglioramento della qualità della vita a Milano". Migliorare la qualità della vita a Milano significa, ad esempio, differenziare e articolare l´offerta di abitazioni rispetto alle diverse tipologie di domanda, migliorare la dotazione di servizi alla persona, incrementare e potenziare la dotazione di verde curato e realmente fruibile, migliorare le condizioni della mobilità, sia per chi risiede a Milano, sia per chi a Milano viene per lavorare o fruire dei suoi servizi, ridurre il consumo di suolo, salvaguardare la sostenibilità ambientale e il contenimento energetico. Entrare nel merito di ognuno di questi temi e predisporre uno strumento semplice, flessibile e trasparente che sappia tradurre in modo efficiente la strategia in realtà fisica ed esperibile, è il lavoro che abbiamo scelto di condividere con le parti istituzionali e private, con tutta la città. Ascolto, raccolta di suggestioni e contributi, costruzione e condivisione di un progetto complesso e articolato per l´avvio all´elaborazione definitiva dei contenuti che daranno risposta a qualsiasi domanda.
Cominciamo innanzi tutto col rimettere le cose coi piedi per terra. Nel corso del Convegno indetto del «Comitato per Fiesole», l´11 marzo scorso, allo scopo di dibattere i problemi urbanistici sorti in quella cittadina negli ultimi anni, è stata avanzata da più parti la proposta di costituire un Coordinamento dei Comitati di base che lottano in Toscana per 1´ambiente, il territorio, il paesaggio e la vivibilità dei grandi centri urbani. L´incontro organizzato a Firenze per il 25 marzo (ore 10, via dell´Agnolo, 5), dovrebbe servire a questo. E anche, ovviamente, a meglio precisare caratteristiche e obbiettivi di tale coordinamento.
Tutto qua. E´ un bene o un male che tale Coordinamento si realizzi? Quel che intanto di certo possiamo dire è che le situazioni di disagio, di tensione e di conflitto, e anche i veri e propri scempi sono più numerosi di quanto non si dica. Certo, non più numerosi che nel Veneto o nel Lazio o in Calabria. Ma il fatto che le risposte in Toscana siano più frequenti e appassionate non dovrebbe fare che piacere: sono infatti, la vivente testimonianza, che lo stato della società civile è migliore qui che altrove.
Dunque, io penso che sia un bene che tale Coordinamento si realizzi. Darà più forza a ognuna delle singole battaglie che attualmente si combattono. Affiancherà le organizzazioni ambientalistiche nazionali nella realizzazione dei loro programmi.
Consentirà uno scambio rapido delle informazioni. Renderà possibili grandi iniziative comuni. Metterà di fronte alle Istituzioni, locali e centrali, un interlocutore più autorevole.
A questo proposito. E´ del tutto scontato che il Coordinamento non possa non vedere nelle Istituzioni, locali e centrali, degli interlocutori, non certo degli avversari. Sarebbe auspicabile che avvenisse anche il contrario. Nella mia esperienza personale questo purtroppo non è accaduto. E´ bastato scrivere un articoletto, moderato nelle argomentazioni e nei toni, per scatenare un putiferio. A chi tornasse a ripetere che da parte di iniziative come la nostra non c´è che arroganza e negatività, sono pronto a esibire pubblicamente un nutrito dossier, fatto di prese di posizioni roventi, volantini (anonimi e no), articoli, tanto più indecenti in quanto siglati da firme autorevoli, tutto originato da una semplice «presa di parola». Episodi analoghi hanno riguardato parecchi dei singoli Comitati di lotta. Dunque, per abbassare i toni, bisogna essere in due. Noi lo faremo.
La Toscana è un bene prezioso, universale. In quanto bene, oggi è innegabilmente oggetto di una bramosa campagna di conquista. E´ la legge del mercato; un bene, quanto più è prezioso, tanto meglio si vende. E la speculazione è risalita impetuosamente dalle coste verso la collina e gli Appennini. Questo è lo stato della cose, con cui tutti ci misuriamo.
Sappiamo che le Istituzioni regionali toscane sono impegnate in uno sforzo per sostenere il confronto su questa base, su cui non è possibile chiudere gli occhi. Il PIT ne è certamente un´espressione. Il dibattito ferve, ma andando per ora molto sulle generali, pare a molti di noi che esso si presenti debole da un duplice punto di vista: non elabora un sistema di vincoli all´altezza della situazione; e non fa del paesaggio un bene da tutelare a prescindere (a prescindere da qualsiasi altra considerazione di tipo «sviluppistico»). Non voglio fare riferimento in questa fase a citazioni troppo impegnative, ne si direbbe, a giudicare dall´intervista resa recentemente al «Corriere della sera», che il Ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli, nutra al proposito preoccupazioni analoghe (ovviamente, a livello nazionale). Tenendo presente questa ampia base di attenzioni, ma al tempo stesso con grande spirito di prudenza, cerchiamo di fare una cosa nuova, che fonda insieme le presenze militanti di base con una forte intelligenza specialistica e disciplinare. Com´è noto, i «laboratori» sono una nostra passione. Questo toscano presenta le condizioni per diventare esemplare.
Il dibattito sui piani paesaggistici di nuova generazione, che nascono sotto la complementare articolazione degli indirizzi e delle prescrizioni espressi dalla Convenzione europea e dal Codice italiano del paesaggio, trova significativi spunti di riflessione dalla recente pubblicazione del nuovo piano territoriale della Regione Toscana. Si tratta evidentemente di uno strumento di preminente importanza, anche in quanto piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, equiparato dal Codice al piano paesaggistico prescritto alle Regioni in merito alla tutela, di esclusiva competenza legislativa dello Stato, e in merito al governo del territorio e alla valorizzazione del paesaggio e dei beni paesaggistici, ricadenti nel campo della legislazione concorrente.
Significativi sviluppi alla discussione sono scaturiti anche dalla approfondita disamina intorno alle questioni della tutela paesaggistica proposta da Luigi Scano al convegno di Fiesole, dello scorso 11 marzo, “Lo sviluppo in-sostenibile. Il governo del territorio in Toscana. Fiesole e l’area Fiorentina”.
Inserendosi dunque in questo contesto di riflessione, si crede utile proporre il presente contributo che si sofferma su alcuni elementi di coerenza che costituiscono essenziali requisiti di conformità della pianificazione territoriale regionale al disposto legislativo recato dal Codice. Avendo avuto il ruolo di consulenti della Regione Toscana per la redazione degli studi preliminari al PIT in merito agli aspetti paesaggistici, tali considerazioni partono proprio dalla osservazione dello strumento di pianificazione toscano attualmente in costruzione.
Ci si riferisce nello specifico alla parte del quadro conoscitivo del nuovo piano di indirizzo territoriale che riguarda il paesaggio e, in particolare, all’elaborato denominato “Atlante dei paesaggi toscani”.
La natura del documento e la stessa concezione di elaborazione del piano paesaggistico esplicitata dal Codice in attuazione delle disposizioni della Convenzione in merito alla definizione delle politiche per il paesaggio da riferirsi agli obiettivi di qualità paesaggistica, sollecitano un chiarimento relativo al significato e ai contenuti dell’Atlante all’interno del piano.
La valenza conoscitiva dell’Atlante ricognitivo dei caratteri strutturali dei paesaggi della Toscana, in quanto tale, non prevede nello stesso l’espressione di precetti normativi, che competono alla parte del piano recante la disciplina paesaggistica e che, nel contesto legislativo regionale, si ritiene debbano formare il cuore dello Statuto del territorio, con idonei contenuti di prescrizione e vincolo, oltre che di indirizzo.
Per quanto riguarda la natura dell’Atlante, in varie sedi pubbliche sono stati illustrati alcuni aspetti sostanziali che si crede utile riportare qui sommariamente. Nel convegno che Italia Nostra ha promosso nel 2005 sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica con il titolo “Italia da salvare. Il paesaggio tra storia e natura”, si affermava che “ogni strumento può funzionare nella misura in cui se ne faccia un uso corretto. L’Atlante (...) è basato sul rilevamento fotografico dei caratteri del paesaggio. Pertanto esso può concorrere al soddisfacimento della domanda conoscitiva che sta alla base della definizione spaziale delle politiche di tutela e conservazione del paesaggio in modo indiretto, mediato dalla considerazione delle sue indicazioni nell’ambito dei processi analitico-diagnostici e decisionali propri della pianificazione territoriale. Nato con la duplice finalità di supportare i processi di divulgazione insieme a quello di revisione del piano regionale di indirizzo territoriale, l’Atlante può costituire uno strumento di base a cui riferire l’attivazione di iniziative di partecipazione pubblica finalizzate a recuperare consapevolezza alla percezione del paesaggio (...). Essa è stata infatti progressivamente indebolita dalle importanti spinte di decontestualizzazione territoriale che caratterizzano pesantemente la contemporaneità e hanno le proprie radici nei decenni precedenti. Dal recupero di valori e equilibri nella percezione del paesaggio dipende l’efficacia dei processi di individuazione e di raggiungimento degli obiettivi di qualità paesaggistica (...), difficilmente separabili dal progressivo radicamento culturale del valore del paesaggio come bene di preminente importanza” (Paolinelli, Valentini, Roma, 28 gennaio 2005).
Il riconoscimento delle esigenze di strumenti di conoscenza e descrizione idonei a operare anche entro i processi di divulgazione rispondenti alle finalità di “sensibilizzazione” definite dalla Convenzione, ha esortato a privilegiare le descrizioni fotografiche rispetto a quelle cartografiche e a rendere i testi ad esse riferite didascalici e in linguaggio comprensibile anche al di fuori di un contesto tecnico specialistico. Ciò fa sì che un corretto impiego di tale elaborato è possibile, come già si affermava nel 2005, in termini divulgativi, nell’ambito dei suddetti processi di sensibilizzazione delle popolazioni, e in termini tecnici, nell’ambito dei processi di formazione tecnica (in associazione a altri supporti), nonché come riferimento di base negli studi della percezione sociale, entrambi previsti dalla Convenzione europea.
Di fatto, dunque, il documento costituisce un repertorio fotografico-critico, piuttosto che un atlante propriamente detto, in ragione dell’assenza della essenziale componente cartografica di livello regionale.
Inoltre, gli ambiti a cui sono riferite le schede di identificazione dei caratteri strutturali non risultano da un processo cartografico di analisi strutturale e funzionale del paesaggio, bensì da una individuazione storico-geografica che tiene conto soprattutto della componente identitaria che ogni parte del territorio toscano esprime e che, nell’indirizzo regionale dato al processo di formazione del quadro conoscitivo, hanno preceduto l’individuazione dei caratteri paesaggistici effettuata con l’Atlante.
In relazione a quanto sopra scritto e soprattutto in riferimento alla questione inerente la procedura di elaborazione del piano paesaggistico codificata dalla legislazione nazionale, emergono dunque alcuni elementi tecnici che si crede utile introdurre quali contributi al processo di completamento dei contenuti paesaggistici del piano toscano. Il Codice prescrive una definizione diagnostica dell’articolazione spaziale del territorio regionale. E’ infatti dalla identificazione qualitativa del paesaggio secondo le caratteristiche di “rilevanza” e “integrità” della “tipologia dei valori paesaggistici” che deve derivare l’individuazione degli ambiti di paesaggio, a cui la legislazione prevede debbano essere riferiti gli obiettivi di qualità e le relative politiche territoriali per il paesaggio. Poiché l’Atlante toscano non contiene tali diagnosi di qualità, né le descrizioni dei caratteri strutturali identificativi e ordinari del paesaggio sono state riferite a quadri cartografici regionali che ne abbiano informato la definizione secondo i medesimi indicatori di qualità, si trae una ulteriore conferma della necessità di leggere l’Atlante coerentemente alle finalità con cui è stato concepito. Tale coerenza, nella fattispecie, non prevede la possibilità di attribuire all’Atlante e agli ambiti di riferimento del processo ricognitivo che in base al quale esso è stato formato, requisiti di soddisfacimento delle disposizioni degli articoli 135 e 143 del decreto legislativo 42 del 2004 e successive modifiche e integrazioni.
Gli argomenti in discussione inducono inoltre a riflettere sulla collocazione del paesaggio nel quadro legislativo toscano come “risorsa essenziale”, insieme a “sistemi infrastrutturali e tecnologici”, “documenti della cultura”, “città e sistemi degli insediamenti”, “aria, acqua, suolo e ecosistemi della fauna e della flora” (art. 3 della legge regionale 1 del 2005 della Toscana). Si ritiene infatti tale collocazione limitante rispetto al corretto riconoscimento della natura del paesaggio come entità complessa comprensiva di quelle sopraccitate, così come definito dalla Convenzione europea. Tutto ciò fa sì che, ad esempio, nel piano toscano non si riconosca un organico disegno di politiche prescrittive per la conservazione delle reti ecologiche e per il controllo del consumo di suolo, efficaci nel definire alcuni ordinamenti regionali essenziali per un corretto indirizzo dei piani territoriali provinciali e comunali. La definizione della disciplina paesaggistica, recante precetti cogenti e prevalenti sugli strumenti di governo del territorio di ogni genere e livello, non è una facoltà delle Regioni, bensì una loro specifica e diretta competenza obbligatoria attribuita dalla legge e le eventuali e opportune forme di cooperazione degli altri enti territoriali negli adempimenti connessi a tale competenza non escludono in alcun modo l’esigenza generale e preminente di compiutezza e di conformità alla legge della struttura complessiva del piano regionale. Le importanti responsabilità e competenze di pianificazione e governo territoriale appena citate richiedono una rispondente declinazione analitico-diagnostica delle qualità strutturali e funzionali del paesaggio su tutto il territorio regionale e secondo quadri interpretativi ad esso estesi nel suo complesso. In un tale contesto, la definizione di contenuti strettamente integrati della disciplina paesaggistica regionale relativi al contenimento del consumo di suolo e alla conservazione delle reti ecologiche diviene una condizione ineludibile e sostanziale di garanzia delle possibilità effettive di tutela, di conservazione e di buona trasformazione del paesaggio. La loro considerazione in piani di settore, come in strumenti meramente strategici o, peggio, la loro delega alla pianificazione di diverso livello territoriale, rimettono tali aspetti cruciali esclusivamente al senso civile e alla buona fede del governo del territorio nelle sue espressioni locali e non garantiscono l’organicità del quadro regionale delle politiche per il paesaggio. In tempi nei quali ancora si devono argomentare gli effetti della dispersione insediativa e dell’abnorme sviluppo incrementale del sistema infrastrutturale per sostenere le più semplici ragioni di opposizione a tali fenomeni, l’assunzione delle due questioni sopraccitate in un quadro regionale di riferimento della disciplina paesaggistica può costituire un esplicito indirizzo culturale e un concreto strumento di base per reinnestare un processo di buon governo che conferisca al paesaggio la centralità corrispondente alla valenza di entità essenziale della qualità della vita delle popolazioni ad esso riconosciuta nella concezione europea.
In ragione della decisa componente di formazione culturale del paesaggio italiano e europeo in genere e in ragione delle dinamiche evolutive che lo caratterizzano, si deve aggiungere che occorre mettere mano davvero alla tanto nominata conservazione attiva, fattore essenziale nella protezione del paesaggio, complementare della tutela dei beni paesaggistici. Essa si fa con un corretto e lungimirante uso di progetti e danari, in quanto richiede lavoro, come lo ha sempre richiesto l’intervento umano che ha formato e conservato in modo dinamico i nostri paesaggi. Ma sappiamo anche quanto siano mutate le questioni di “chi fa cosa?” e “con quali risorse?”, rispetto alla società agricola che ci ha tramandato il paesaggio fino alla metà del secolo scorso. Oggi occorre riconoscere la necessità di agire in modo diverso e occorre farlo. Occorrono atti politici e amministrativi che riconoscano che il paesaggio costa, che su esso si deve investire, incentivando la presenza dei capitali privati, ma curando attentamente la presenza strategica e efficace dei capitali pubblici. Non è possibile, in modo urbanocentrico attribuire ogni onere all’agricoltura, riempiendoci la bocca di una multifunzionalità sociale e ambientale a suo esclusivo o prevalente carico. Si insiste a far notare l’assurda situazione, tanto più in Italia, per la quale nessuna Regione, insieme innanzitutto allo Stato, ha ancora fatto l’essenziale passo di riconoscere al paesaggio un capitolo di bilancio oppure quote vincolate di oneri per opere di paesaggio nell’ambito dei molti progetti strutturali e infrastrutturali pubblici e privati. La conservazione attiva del paesaggio è riconosciuta in disciplina come necessaria da alcuni decenni, ma anche su questo aspetto i piani rimarranno, in questo caso loro malgrado, “piani di chiacchiere” se non si provvederà a tali semplici provvedimenti di tipo legislativo, avendo preliminarmente maturato la necessaria volontà politica e pertanto un mutato e evoluto senso culturale dell’importanza del paesaggio.
Il paesaggio non muore, ma sappiamo e abbiamo ampiamente dimostrato negli ultimi decenni che a fronte dell’ormai frequente superamento dei suoi punti di snervamento, esso può mutare in modo irreversibile e diventare un altro paesaggio. A noi decidere quello che vogliamo. Indica questo percorso con molta coerenza e concretezza la Convenzione europea, quando afferma che le politiche territoriali per il paesaggio debbono discendere dagli obiettivi di qualità, definiti in base a processi partecipativi e nell’ambito di una pianificazione tecnicamente capace di analizzare la percezione sociale del paesaggio espressa dal territorio in cui interviene.
Potremmo dire che abbiamo il paesaggio che siamo, ma la responsabilità che hanno avuto i nostri predecessori, che abbiamo adesso noi e che avranno le generazioni future trascende questa visione, poiché è il paesaggio a trascendere nella dimensione tempo i disegni amministrativi contingenti e le percezioni generazionali superficiali. Tutto ciò dovrebbe suscitare un preminente senso etico di responsabilità nel trattarne l’evoluzione.
Non solo Fuksas. La polemica sulla Torre delle torri, tornado, emozione, puntura di spillo in mezzo al mare a seconda della fantasia di chi si esalta solo ad immaginare i 123 metri, per ora solo uno schizzo, dell´architetto italo-lituano, rischia di spingere ai margini, di abbassare la soglia di attenzione dall´emergenza cemento su cui la città deve da tempo interrogarsi, non si interroga mai abbastanza o non ne ha forza e piena coscienza.
Ma il progetto della Margonara (porto turistico con annessa Torre Fuksas) è solo la punta di un iceberg. Un grosso iceberg. L´ultimo tassello di un´operazione di progressiva acquisizione (conquista?) della città in un intreccio tra affari e politica, che arriva da lontano e che appare inarrestabile prima con il progetto Bofill e ora con Fuksas. E´ la conferma di una fitta rete che vede come protagonisti i "soliti noti", affiancati e sospinti dall´Unione Industriali e dall´Autorità portuale, più in generale con il sostegno delle categorie economiche sotto l´ombrello della Camera di commercio, e con l´avallo esplicito e conclamato del vertice ds e della Lega delle Cooperative, seguiti a ruota da enti e partiti in ordine sparso e con varie differenziazioni, ultima in ordine di tempo quella dello Sdi, che con una mossa strategica certo ispirata dal segretario Paolo Caviglia, minaccia la verifica dell´alleanza di Palazzo Sisto IV se, come è scontato, Rifondazione e Comunisti italiani voteranno "no". Senza contare il pieno assenso dell´opposizione di centrodestra, speranzosa di fruttare sul piano politico la piccola ma pesante emorragia provocata nella maggioranza dal dissenso della sinistra radicale.
Una ragnatela di interessi, una liaison senza veli e senza incertezze. Lo dimostrano le pubbliche e ufficiali affermazioni del segretario diessino Lunardon, del presidente coop Granero e del capogruppo De Cia, affascinati fino all´incantamento (rileggere per conferma il testo dell´intervento del capogruppo diessino in consiglio comunale) per l´indiscutibile tratto geniale e l´avveniristica intuizione artistica e immaginifica dell´architetto che vota Rifondazione, ma che a Rifondazione proprio non va giù dal viceministro all´Ambiente all´assessore regionale Zunino.
La città è tutta un cantiere. Privato. Riassunto delle puntate precedenti. Si è costruito nel cuore del porto, accanto al Palacrociere: Torre Orsero con annessi e connessi; si è costruito sui resti dell´ex Mulino, sulla sponda destra del torrente Letimbro, a cinquanta passi dalla spiaggia; si sbanca, si scava e si costruirà poco più in là, nella vecchia centrale e nel palazzo dell´ex Cieli con una maxi operazione di edilizia residenziale (appartamenti, box sotterranei, negozi). Ma l´elenco è ancora lungo. In pole position le aree ex Italsider. Qui, demolito lo stabilimento e cancellati con imponenti sbancamenti i resti del promontorio di San Giorgio (anno 1100-1600) nascerà il maxi complesso del Crescent disegnato da Bofill per Orsa 2000, la società guidata della famiglia Dellepiane dopo l´uscita del terminalista Campostano. Si costruirà una torre anche nell´area ex Mottura e Fontana, nella zona di San Michele, ponente della città; si sta costruendo sulle ceneri del glorioso cinema teatro Astor, all´imbocco del Centro storico (ma i lavori sono fermi a causa delle crepe provocate dai lavori di palificazione nell´adiacente Pianacoteca). Altro cemento è previsto nell´ex Cantiere Solimano, tra l´Aurelia e il mare, zona di ponente; come per il progetto che prevede appartamenti, uffici e galleria commerciale nell´ex ospedale San Paolo, in pieno centro cittadino. Si costruirà ancora nella zona del Brandale, ad un tiro di fionda dalla Fortezza del Priamàr, dalla Darsena Vecchia e dal Crescent. Ma non basta. Incombono altri progetti e altro cemento. Binario Blu (De Filippi-Barbano), proprietaria delle aree ex Squadra Rialzo, zona centralissima, tra il torrente Letimbro e il Palazzo di Giustizia, ha affidato all´architetto svizzero Mario Botta (formatosi alla scuola di Carlo Scarpa, influenzato da Le Corbusier e Louis Isadore Kahn, e nel cui palmarès figurano le Torri Kyobo e il Museo d´Arte a Seoul, la Banca del Gottardo a Lugano, la nuova Scala di Milano, il Museum of Modern Art di San Francisco) il progetto di un "importante" centro residenziale. Un´altra cordata (De Filippi, Mirgovi, Bagnasco, Cooperative) ha pronto un progetto di edilizia residenziale, con tanto di torre, nell´area degli Orti Folconi, proprio di fronte alla stazione Mongrifone. Centinaia e centinaia di appartamenti, uffici, box in una città con poco più di 60 mila abitanti e in cui proliferano le agenzie immobiliari (una ogni 500 abitanti). Non solo Fuksas, dicevamo all´inizio. Il progetto della Margonara, esaltato come la panacea capace di guarire una città resa vulnerabile dai ritardi e dalle miopie nel progettare e superare la fase post industriale, è solo l´ultimo assalto, la spallata finale di una lobby trasversale in cui la politica va al traino dell´impresa privata, poco o nulla riservando alla collettività. E in cui le voci contrarie, prime fra tutte Italia Nostra, Campanassa, Istituto di Studi Liguri e Storia Patria, sono l´ultima, fragile barricata per fermare l´escalation dei "padroni della città".
Il grottesco di Bagnoli
Cesare De Seta
La querelle sulla colmata di Bagnoli assume di giorno in giorno toni sempre più grotteschi. Qui non c´è nulla di poco chiaro, a me pare tutto di una trasparente evidenza: ma gli amministratori, l´Autorità portuale, i vari responsabili ai livelli ministeriali sembrano voler fare di tutto (del tutto involontariamente) per imbrogliare le carte in un modo così parossistico da non venirne più fuori.
Una cosa risultata chiara dalle indagini scientifiche che si sono fatte sui contenuti chimici di quella "bella terrazza a mare", come ha detto pure qualcuno incline al Bello. È quella colmata un serto di veleni che per tale ragione - se una ragione ancora c´è e ancor più il semplice senso comune - essa va semplicemente rimossa e non trasferita in altro sito del golfo (quale che esso sia), perché non farebbe che riproporre gli stessi problemi ecologici che pone dove sta, cioè a Bagnoli. Se si accetta l´ipotesi del trasferimento nel golfo (malaugurata ipotesi) vuol dire che fin qui si è giocato con i soldi dell´erario come alla roulette.
La confusione che regna è resa in modo chiarissimo da una pagina che un quotidiano locale ha dedicato ai favorevoli alla rimozione e ai contrari: sono tutti uomini d´onore sa va sans dire. Ma sgomenta il fatto che sono contrari alla rimozione della colmata persone autorevolissime che hanno avuto responsabilità dirette importanti nella gestione trascorsa di Bagnolifutura. Cosa può aver indotto il vice sindaco Sabatino Santangelo, uomo saggio e prudente, che è stato presidente di Bagnolifutura a cambiare opinione? Mi pare che il sindaco Rosa Russo Iervolino ha la mano ferma e continua a sostenere quello che il buon senso (oltre che le indagini scientifiche) richiedono, cioè la rimozione.
È evidente che c´è uno scontro all´interno dei Ds e della sinistra con responsabilità di governo di cui non si capiscono le ragioni, sempre che abbia senso stare a invocare la ragione come mi ostino a fare. Da uomo della strada non riesco a capire dove possa tale scontro andare a parare. Nell´incontro di mercoledì a Roma tutte le parti in causa - locali e nazionali - decideranno speriamo per il bene della città: ma se c´è ragione nella testa di costoro (e non ne dubito) la soluzione è una sola: la rimozione e l´allontanamento dal golfo di Napoli di questa bomba inquinante. I cinquanta intellettuali e tecnici che hanno firmato un documento sui nodi irrisolti di Bagnoli dicono cose sagge: non conosco il documento nella sua integrità, ma i problemi sollevati sono importanti e meritano risposta. A cominciare dal quel porto-canale che subito denunciai come pure stupidità più che follia quando comparve alla ribalta. Tuttavia un´opinione chiara e inequivocabile mi sarei atteso da questi cinquanta volenterosi e valenti sulla questione cruciale della colmata, della sua rimozione e del suo trasferimento irrinunciabile dal golfo di Napoli.
La città sia chiamata a scegliere
Lucio Iaccarino
Eternamente sospesi tra l´utopia ambientalista e le razionalità urbanistiche, corriamo il rischio di ritardare ulteriormente la riqualificazione di Bagnoli. E prima di archiviarla, per lasciare campo aperto ai disfattisti o agli opportunisti, sarà bene mantenere alto il livello d´attenzione, e riflettere sui tratti di questa politica pubblica e trarne qualche lezione per il futuro. Mentre la società civile napoletana sembra aver sposato le ragioni dell´ambientalismo, con un quartiere ostaggio di visioni post-industriali, autorevoli figure istituzionali manifestano forti perplessità sulla necessità di rimuovere la colmata a mare. Se i piani in vigore sono espressione della razionalità dei primi pianificatori, oggi collidono con le visioni urbanistiche di quelli in carica. Ammettendo pure che rimossa la colmata non vi siano altri sedimenti sui fondali, tali da compromettere la sicurezza dei bagnanti, ulteriori rischi si nascondono dietro le faraoniche opere di bonifica, tanto invocate dalle Assise cittadine.
Nel luglio 2003, l´allora vicesindaco ebbe a dichiarare: «Non so se ci sia la necessità della bonifica dei fondali. Che un fondale dal punto di vista tecnico possa essere bonificato, non so se sia possibile. C´è un problema di rimozione della colmata. I metalli pesanti, in quanto pesanti, vanno giù nell´acqua. Se si mette mano alla rimozione della colmata, bisogna far sì che questa rimozione avvenga in un´area esterna a quella marina. Voglio dire che bisogna fare movimenti di terra sempre in area non marina, perché se si sbaglia la rimozione della colmata, i materiali in essa contenuti entrano nel circuito marino causando l´inquinamento del mare. Bonificare i fondali è una cosa difficile. Non vorrei che ci fosse qualcuno che pensi che Bagnoli debba diventare una specie di isola felice, all´interno di un mondo tutto inquinato» ("La rigenerazione", Ancora del Mediterraneo, p.162). I dubbi sui rischi d´inquinamento nelle zone marine circostanti andrebbero dissipati con la stessa urgenza assunta dalla disputa tra Darsena di Levante e Piombino.
È paradossale assistere ad una contesa istituzionale volta all´aggiudicazione di 200 mila metri cubi di materiali inquinanti. Evidentemente, la posta in gioco sono gli appalti e le somme da stanziare per l´eliminazione e il trasporto della colmata bagnolese. La Bagnoli dei ritardi si conferma, ancora una volta, come una formidabile opportunità per recuperare finanziamenti pubblici. Da questo punto di vista, per quanto riguarda gli ultimi tre lustri non si può certo dire che non sia convenuto aspettare. E le alternative non si riducono a colmata sì o colmata no, poiché anche per lasciarla lì dov´è, sarebbe necessaria una messa in sicurezza per ridurne l´impatto ambientale. Mancano, quindi, gli elementi necessari a chiarire i termini della comparazione tra la soluzione toscana e quella campana; termini che dovrebbero ruotare attorno tre variabili: la durata delle operazioni, i costi e rischi.
L´urbanistica è una politica costitutiva ma non è certo la Costituzione. Per variarla, anziché appaltare strabilianti progetti d´idee alla creatività urbanistica, basterebbe mettersi d´accordo, magari prima ascoltando più attentamente i bisogni del territorio. Se oggi si vuole cambiare rotta, occorre convenire sulle modalità di progettare il futuro di Bagnoli (in quel poco che resta di non deciso o negoziabile) e l´intelligenza delle istituzioni dovrebbe manifestarsi proprio dinanzi ai paradossi normativi che gli attuali piani sollevano. La dilatazione temporale è imputabile alla riqualificazione regolativa intrapresa dall´establishment bassoliniano il cui imperativo è stato quello di costruire delle regole sufficientemente forti da reggere dinanzi ai continui salti in avanti, oltre agli interessi sottesi a tali spinte immaginifiche. Niente più del litorale di Coroglio, infatti, per il suo spettacolare panorama mozzafiato, è in grado di risvegliare appetiti speculativi e progetti altisonanti.
Il passato di Bagnoli imponeva, tuttavia, una scelta ponderata, basata su vincoli di natura razionale, tradottisi in impegni prescrittivi, grazie alla frangia più intransigente dell´urbanistica italiana. Garante di questo disegno è stato Vezio De Lucia, guru del rispetto paesaggistico. In questo percorso sofferto di trasformazione urbana, gli abitanti del quartiere, privati della loro centrale lavorativa, dovevano essere risarciti con la forza riparatrice dei piani, capaci di privilegiare l´interesse pubblico su quello privato. Ma ben presto, a questa presa di coscienza, se ne è affiancata un´altra. Tutte le volte che il processo decisionale si è inceppato, si è ricorso ad un accordo di programma per sbloccarlo. Gli accordi si fanno per aggirare norme, per fare in fretta e per recuperare nuovi investimenti.
Così sono arrivati gli accordi per assestare la Fondazione Idis, garantendo la sua presenza sulle rive di Coroglio, fino a quando i suoi investimenti non saranno ammortizzati. Accordi per sbloccare dai veti del centrodestra nazionale la tranche dei 75 milioni di euro e completare la bonifica. Accordi per far transitare l´imponente colmata verso i lidi della Toscana. E, chissà, accordi anche per prelevare la sabbia da Castelvolturno, dissipando i potenziali attriti provenienti dal litorale domizio. Accordi e disaccordi, come è emerso dal ricorso presentato dagli ex proprietari dei suoli della dismissione per avvalersi nei confronti dell´ente pubblico espropriante, e rivendicare il proprio diritto a negoziare un indennizzo più alto. Il paradosso vuole che proprietarie fossero le industrie di Stato, per cui al cittadino è sfuggito del tutto, dove si annidasse l´interesse pubblico. Pezzi di Stato che fanno causa ad altri pezzi? A vantaggio di chi? Non sarebbe stato meglio accordarsi prima? E non dimentichiamo Coppa America, la cui collocazione bagnolese avrebbe significato il sovvertimento subitaneo del lungo e faticoso lavoro per approvare il Prg. L´unica strada per uscire dal dilemma tra pianificazione e negoziazione è la partecipazione.
L’ultimo pezzo critico de l'Unità sulla gestione del paesaggio toscano, mi suggerisce di continuare e di allargare il discorso fatto da Vittorio Emiliani. Perché la sua critica alla Regione Toscana riguarda l'eccesso di autonomia attribuita ai Comuni toscani per quanto riguarda il paesaggio, mentre la questione, secondo me, riguarda più in generale tutto il governo del territorio. Io penso, infatti, che la sacrosanta responsabilità urbanistica di ciascun Comune, deve misurarsi costantemente con quella dei Comuni vicini e con quella della Provincia e della Regione; oltre, naturalmente con le responsabilità nazionali.
Resto del parere, insomma, che il governo ottimale del territorio - e non solo dei suoi aspetti paesistici - si ottiene con una collaborazione continua delle diverse istituzioni a tutti i livelli.
Detto questo, però, condivido l'opinione dei compagni toscani che, fra tanti «ecomostri», quello di Montichiello - tanto sbandierato sulla stampa - , indubbiamente sgradevolissimo, non è però fra i più gravi; e penso che sarebbe utile occuparci di ecomostri anche più macroscopici. Per esempio di quello che rischia di nascere in Emilia Romagna, in mezzo alla campagna fra Bologna ed Imola. Si tratta di una colossale urbanizzazione battezzata «Romilia», la cui superficie totale sfiora i 300 ettari - per capirsi 3 milioni di metri quadrati -; una cittadina grande come le vicine Medicina, Budrio o Molinella, che dovrebbe nascere dal nulla, con motivazioni francamente difficili da condividere.
Infatti il patron del Bologna Football Club, Cazzola ha deciso che lo stadio comunale bolognese, rifatto impeccabilmente per i Mondiali del 1990, non va più bene e ne vuole costruire uno nuovo tutto suo, a circa 40 chilometri dalla città. Siccome, però, non ha intenzione di finanziarlo in proprio, ha deciso di farlo finanziare dalle scelte urbanistiche della comunità. E ha presentato un plastico, che spiega come ha intenzione di utilizzare i quasi 300 ettari di campagna da urbanizzare: un migliaio di alloggi, un megacentrocommerciale, un gruppetto di alberghi e ristoranti, un parco acquatico, un parco divertimenti tipo Gardaland, un parco dell'automobile - tribune colossali e una bella pista che fa pensare ad un vero e proprio autodromo -, un golf, il centro tecnico del Bologna Football Club e relativi campi di allenamento ed infine il nuovo stadio. Più parcheggi per 17.000 posti macchina, perché a Romilia si arriverà - naturalmente - in automobile. Anche se Cazzola ha dichiarato che vuole un raccordo ferroviario, oltre all'indispensabile raccordo superstradale, alla cui realizzazione spera di poter contribuire con i proventi della colossale operazione immobiliare.
Il fatto è che la Provincia di Bologna ha approvato nel 2004, d'intesa con la Regione, un ottimo Piano Territoriale di Coordinamento, redatto in base alla nuova legge regionale riformista. Un piano che indica le direttrici di sviluppo strettamente legate alle ferrovia esistenti, sulle quali è previsto si snodi il Servizio Ferroviario Metropolitano, già in via di attuazione; con una netta preferenza per la direttrice nord e con l'esplicito rifiuto di nuovi centri urbani da creare a spese della campagna. Mentre Romilia si trova ad est, lontana dalle direttrici ferroviarie e isolata da qualsiasi insediamento. In più la legge regionale riformista impone ad ogni nuovo insediamento, la cessione gratuita di tutte le aree necessarie ai servizi per la popolazione già esistente e da insediare; e non consente certamente previsioni premiali che le proprietà possano usare per finanziare nuove attrezzature private.
La proposta di Romilia si presenta, quindi, come un vero e proprio baratto urbanistico, che sfrutta le scelte delle istituzioni per creare valori immobiliari privati, capaci di finanziare altre operazioni private. Una operazione al limite della legalità, ma fuori da ogni visione etica, che rappresenta soltanto una gigantesca operazione immobiliare. Anche se Cazzola, sdegnato, si ostina a definirla una «operazione industriale»; mentre chiede di valorizzare terreni il cui costo sul mercato è soltanto agricolo, con una decisione pubblica di piano che farà lievitare il prezzo in modo esasperato. E in seguito l'operatore immobiliare beneficiato da questo regalo della comunità, costruirà attrezzature e insediamenti che resteranno privati e saranno venduti a privati a prezzi di mercato. Non è possibile sostenere in alcun modo che si tratta di una operazione industriale, perché siamo di fronte soltanto ad una speculazione, fatta da privati con la complicità delle istituzioni.
È una operazione identica a quella che fece ai suoi esordi Berlusconi, 45 anni fa; ottenendo dal Comune di Segrate una variante che consentiva di urbanizzare 70 ettari di campagna, permettendogli di costruire dal nulla «Milano2», una cittadina alle porte della grande città. E così dalla Edilnord naquero le fortune del Cavaliere, dal mattone alla tv, alla editoria, fino alla costituzione di un partito politico. Eppure le istituzioni bolognesi non sembrano indignarsi. La Regione è quasi apertamente favorevole, il Comune di Bologna non sembra interessato, mentre nel piccolo Comune di Medicina sede dell'operazione, all'opposizione è rimasta solo Rifondazione. La Provincia di Bologna, che per la legge regionale deve valutare la coerenza della variante rispetto al Piano Territoriale Provinciale, è l'unica istituzione che ancora non si è arresa e tergiversa, abbandonata dalle altre istituzioni più potenti politicamente.
Eppure nei congressi dei Ds, che si stanno svolgendo in questi giorni, non c'è nessuno fra le tre mozioni, che abbia preso le parti di Romilia. Come farebbe del resto il Partito Democratico, per il quale si orienta la maggioranza degli emiliani e dei romagnoli, ad esibire nel suo nuovo e immacolato biglietto da visita l'ecomostro di Romilia? Ecco perché sostenevo all'inizio, che per le scelte di rilievo sul territorio, tutti i livelli istituzionali sono corresponsabili. Non certo solo il piccolo Comune, esaltato dalla mirabolante prospettiva di Romilia; ma insieme il Comune capoluogo, la Provincia e la Regione, tutti oggettivamente responsabili di rifiutare o di consentire la nascita di un ecomostro anche in Emilia Romagna.
Se l'impazzimento edilizio in atto in Italia - incoraggiato dai condoni berlusconiani - procederà ai ritmi degli ultimi anni e con esso andrà avanti, ovviamente, il consumo di suolo libero e di paesaggio, regioni splendide come Lazio e Toscana saranno in pratica del tutto cementificate e asfaltate in capo al 2050. Nel periodo 1999-2002 quel consumo sconsiderato di superfici a prato, a pascolo, a bosco si è infatti accelerato, con percentuali vicine al 10 e più per cento. Contemporaneamente, in una città come Roma, l'area degli alloggi dati in locazione si è ristretta dal 50 per cento circa di 30-35 anni fa al solo 24 per cento.
E questo con disagi sociali crescenti e con speculazioni pesantissime sulla pelle dei giovani, degli anziani sfrattati, degli immigrati. Nella pubblicazione annuale del Comune di Roma si parla esplicitamente di «fallimento» della risposta di mercato rispetto alla domanda di alloggi. Eppure negli ultimi sei anni gli investimenti nazionali nella sola edilizia residenziale (quasi totalmente edilizia di mercato) sono balzati da 58 a oltre 71 miliardi di euro (+23 per cento). In tal modo il contributo al Prodotto Interno Lordo delle costruzioni è risultato fondamentale. Praticamente, esso ha puntellato il Pil che, diversamente, avrebbe avuto segno costantemente negativo. In tale situazione i permessi di costruzione hanno galoppato. Con cifre imponenti in Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia. Per l'intera Italia sono oltre 800.000 stanze nel solo 2002. Pochissime però di edilizia economica e popolare. Difatti, nelle città maggiori siamo ad una autentica emergenza-casa.
E la corsa continua: nel primo semestre del 2006 le costruzioni, già in crescita, hanno segnato altri aumenti, del 3,1-3,2 per cento sull'anno precedente. Una autentica «febbre» che ha portato il comparto dal livello 100 del 2000 al livello 129 del 2006. Nel decennio 1992-2002 sono volati come stracci gli sfratti e le compravendite di case hanno toccato un picco del 62 per cento. Il tutto con una popolazione nazionale che invece cresce pochissimo e quel pochissimo soltanto in forza dell'immigrazione. Per la quale non c'è però offerta edilizia, ma solo tanta speculazione.
In questo quadro segnaliamo un dato ancora recente: ormai la speculazione edilizia risale dal mare all'interno collinare. Il fenomeno dunque sta portandosi dalle coste, ormai largamente compromesse, o in pericolo mortale (basta viaggiare sull'Aurelia o sull'Adriatica), alla dorsale appenninica e pre-appenninica «mangiando» altri suoli liberi, erodendo altri paesaggi intoccati. La stessa verde Umbria registra, come la Toscana o le Marche, episodi sempre più diffusi e visibili di cementificazione (con una parallela espansione delle cave impressionante). Basta un nuovo insediamento edilizio a guastare, come nei pressi di Casole d'Elsa, un intero paesaggio collinare, per sempre.
Chi dovrebbe contrastare, regolare, disciplinare fenomeni tanto dirompenti che stanno dissipando l'ultima nostra risorsa, cioè il paesaggio interno?
1) Le Soprintendenze che però hanno scarsi mezzi, pochi tecnici e poteri di controllo indeboliti dal taglio feroce delle spese (anche di quelle di funzionamento) negli anni del governo Berlusconi. Soprintendenze che però usano poco e male anche i poteri e i mezzi di cui dispongono, e a volte chiudono letteralmente gli occhi di fronte a sconci e aggressioni. Basti pensare all'inutile e orrendo mega-parcheggio autorizzato a Capalbio proprio sotto le mura medioevali o agli incredibili lavori permessi nel foro etrusco e romano di Fiesole e nelle vicine necropoli, romana e longobarda.
2) Le Regioni le quali però, in maggioranza, hanno preferito liberarsi dell'incomodo sub-delegando "democraticamente" alla bisogna i Comuni divenuti così i controllori di se stessi. Eppure l'articolo 9 della Costituzione parla chiaro: "la Repubblica tutela il paesaggio", cioè Stato, Regioni, Enti locali, insieme, con un ruolo preminente dello Stato e delle Regioni ribadito da leggi e sentenze della Corte costituzionale. Ma la Regione Toscana, per bocca del suo presidente Claudio Martini, insiste nell'assegnare soprattutto ai Comuni il ruolo di tutori del paesaggio. Quasi che lo stesso fosse un fatto municipale e non più nazionale. Come possono i Comuni fronteggiare validamente un fenomeno di cui abbiamo appena descritto la dirompenza economico-finanziaria?
Oltre tutto, in anni di economia stagnante, questa «febbre» edilizia ha finito per surrogare altre attività, e per portare parecchi denari nelle esauste casse comunali. Lo riconosce per primo lo stesso Martini. Il Titolo V della Costituzione del 2001 (improvviso e affrettato pasticcio di fine legislatura) prevede, è vero, che Stato, Regioni, Enti locali siano «equiordinati». Ma è soprattutto in Toscana che si sostiene in modo esasperato questa "equiordinazione". In altre regioni si è legiferato dopo il Titolo V mantenendo alcuni valori gerarchici (ad esempio, la Provincia sui Comuni). Di recente poi, con la sentenza n.186, la Corte costituzionale è intervenuta a ribadire la sovraordinazione nella attività pianificatoria della Regione sulle Province e di queste ultime sui Comuni. Essa va rispettata, anche per ragioni funzionali. Come va rispettato il Codice per il paesaggio che prevede piani paesaggistici prescrittivi e non semplici e vaghi «piani di indirizzo».
3) i Comuni. Questi ultimi hanno avuto in un recente passato dalla Finanziaria la possibilità di utilizzare i proventi delle concessioni edilizie per tamponare le spese correnti, i «buchi» di bilancio. In tempi di stagnazione industriale e commerciale, l'edilizia è stata pertanto la «salvezza» dei Comuni. Una autentica «droga». Come pensare - che gli stessi Comuni siano i tutori del bene collettivo paesaggio e quindi gli attenti controllori dell'espansione edilizia se quest'ultima è per essi una risorsa vitale per una sorta di «doping» finanziario? Qui si tratta di pesare gli interessi in gioco e in quest'ottica non v'è dubbio che «pesino» di più gli interessi dal cemento rispetto a quelli della tutela paesaggistica. Dunque la sub-delega della tutela ai Comuni da parte della Regione appare insostenibile, da ogni punto di vista.
Insostenibile e pure a corta vista perché in tal modo, per gli interessi di pochi, viene manomesso e svilito un bene di tutti, quel paesaggio che, sedimentato nei secoli, rappresenta anche una formidabile carta di successo nel turismo internazionale di oggi e, ancor più, di domani. Persino un «asset» fondamentale nella promozione planetaria, per esempio, dei prodotti tipici di quel territorio, a cominciare dal vino. E invece il consumo di suolo (e quindi di paesaggio) procede, in Italia e anche in Toscana a ritmi accelerati. Nell'intero Paese nella seconda metà del Novecento siamo passati da 30 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e da infrastrutture a meno di 19 milioni di ettari. Ciò significa che asfalto e cemento hanno coperto un territorio vasto quanto l'intera Italia del Nord.
In Toscana, regione delicatissima, fra il 1999 e il 2003 la superficie ancora libera è scesa sotto il milione e mezzo di ettari, diminuendo - per effetto dell'espansione edilizia, residenziale e non e delle grandi infrastrutture - di ben 169.345 ettari nel quadriennio, con una erosione pari al 10,2 per cento.
Più forte della stessa media italiana che si colloca in quel periodo al 9,5 per cento. Più forte della stessa media del Lazio che, pur comprendendo Roma e il suo cemento continuo, si situa al 9,2 per cento. Se il consumo di suolo dovesse procedere in Toscana a questi ritmi, in meno di mezzo secolo l'intero territorio sarebbe urbanizzato e infrastrutturato, cioè «mangiato» dal binomio asfalto & cemento. Analogamente nel Lazio. A vantaggio della popolazione? No, la popolazione della Toscana, decisamente più vecchia della media italiana (indice 193,3 contro quello nazionale di 135,9), cresce infatti molto lentamente: nel 2004 ammontava a 3.598.269 unità; il saldo naturale era negativo in tutte le province collocandosi nella regione a - 2,1 ogni 1000 abitanti (Italia + 0,3).
Ci sembra che le cifre esposte parlino un linguaggio chiaro, inequivocabile, e che richiedano un ripensamento totale, a livello nazionale, regionale e locale, delle politiche sin qui seguite. Negli ultimi tempi invece alcuni influenti politici regionali si sono detti molto, ma molto preoccupati di tutt'altro effetto negativo, e cioè del cosiddetto «effetto-cartolina».
A loro dire, quanti chiedono rigorose salvaguardie per il paesaggio toscano sarebbero prigionieri di una idea cartolinesca del paesaggio stesso. Ad entrambi vorremmo rispondere con le parole di un grande studioso del paesaggio agrario il quale affermava: «Del paesaggio toscano non potremmo darci piena ragione, nella sua diversità da quello lombardo, diciamo, se considerassimo il processo della sua formazione avulso dalla realtà storica di una cultura toscana, nella quale il gusto del contadino per il "bel paesaggio" agrario è nato di un sol getto con quello di Benozzo Gozzoli per il "bel paesaggio" pittorico, e con quello del Boccaccio per il "bel paesaggio" poetico del Ninfale fiesolano». Altro che effetto-cartolina. Forse una rilettura di Emilio Sereni (è lui che abbiamo appena citato) e dei suoi splendidi saggi sul paesaggio agrario sarebbe altamente consigliabile ai nostri politici, nazionali, regionali e locali. Darebbe loro una qualche consapevolezza culturale in più ed eviterebbe, a tutti, altri guasti irreparabili nel paesaggio italiano e a quello toscano che nel mondo ha suscitato e suscita una incredibile ammirazione Altro che temere l'effetto-cartolina. Detto brutalmente: qui ci si frega con le proprie mani. E per sempre.
Emiliani si è fatto ingannare dal presidente Martini. La Costituzione non parla affatto di “equiordinazione”. Essa afferma (nuovo articolo 114) che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, e che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Ciò non significa affatto che siano “equiordinati”, cioè posti allo stesso livello, come la Corte costituzionale (Emiliani lo ricorda) ha costantemente ribadito.
Milano Cemento su cemento. Milano manda in pensione (a suon di pedate) il vecchio Piano regolatore della città, e prepara la sua «rivoluzione» urbanistica. Scompare la vecchia «destinazione di uso» che vincolava le aree urbane alla programmazione del territorio e fa il suo ingresso, in pompa magna, la «Borsa dei diritti edificatori». Tutta la città diventa potenzialmente edificabile e i diritti di costruzione potranno essere scambiati nel nuovo «borsino del cemento», come lo ribattezza Milly Moratti, consigliere comunale dei Verdi. Dino Buzzati sognava (e disegnava) un tappeto di erba in piazza Duomo. «Ora - ironizza ancora Moratti - manca poco che non arrivino con il calcestruzzo persino lì». Perchè il principio alla base del nuovo Piano di governo del territorio è quello dell'«autoregolamentazione del mercato». La «mano invisibile», roba da ridere a pensare che ormai anche i più convinti liberisti cominciano a dubitare della sua infallibilità.
Le linee di indirizzo del nuovo Piano sono state presentate dall'assessore comunale Carlo Masseroli mentre l'approvazione è prevista entro il luglio 2008. L'iter insomma è ancora lungo ma la filosofia di fondo è piuttosto chiara. Non si può dar torto allo stesso Masseroli che parla di una vera e propria «rivoluzione». La sua, naturalmente. Quella, per usare le sue parole, contro il vecchio piano regolatore rivelatosi «uno strumento iniquo che attribuisce i diritti edificabili in modo disomogeneo e con effetti di sperequazione». Ora infatti, precisa Letizia Moratti, «ci sarà la certezza dei diritti di tutti i privati, nel rispetto delle indicazioni del pubblico».
Quel che una volta si chiamava «programmazione», oggi diventano «indicazioni». Quanto, come e dove si potrà costruire in città, lo deciderà il Comune. Il nuovo Piano di governo del territorio prevede però, e questo è certamente uno dei punti più «rivoluzionari», la scomparsa della destinazione d'uso. Quello strumento cioè con cui il vecchio Piano regolatore (l'ultimo a Milano risale al 1980) pianificava, in funzione dell'uso, le volumetrie realizzabili. Ora, tutte le aree, verde incluso, diventano potenzialmente edificabili. La decisione spetterà naturalmente al Comune. Ma chi, per fare un esempio, avrà i diritti di costruzione su un area in cui il Comune lo vieta (un parco, per dirne una), quegli stessi diritti potrà rivenderseli. Dove? Alla «Borsa dei diritti edificatori», dove domanda e offerta dovrebbero incontrarsi. Se prima cioè, in un'area non completata poniamo, il costruttore poteva metter mano al calcestruzzo solo seguendo la destinazione prevista dal piano regolatore, domani potrà essere sufficiente fare un salto in Borsa, comprarsi qualche diritto vacante, ed ecco finalmente aggiungere due piani a un palazzo. Nel gergo tecnico, la possibilità di comprare e vendere diritti di costruzione, si chiama «perequazione». Ironia della semantica, perchè non è poi così difficile azzardare scommesse su chi, nel complicato marchingegno, si beccherà le plusvalenze. E nel mercato immobiliare, ormai si sa, non si tratta certo di noccioline.
L'opposizione milanese lamenta di essere stata fino ad ora per nulla coinvolta nella discussione del documento. «Lo strumento può essere valido - dice Natale Comotti, responsabile urbanistica per l'Ulivo - Dipende da come sarà gestito». «Non fa ben sperare - aggiunge - il fatto che manchi dalle linee di indirizzo un capitolo a sè stante dedicato al verde». I timori sono legati al Parco Sud, enorme area verde che tocca Milano ma complessivamente lambisce una sessantina di Comuni limitrofi. Lo stesso assessore Masseroli ha usato parole non troppo enigmatiche: «Su alcuni parchi bisognerà fare una riflessione, per valorizzare le aree lasciate nel degrado». Perciò, conclude Comotti, «è essenziale che il confronto sul nuovo piano avvenga nel quadro della città metropolitana e sia quanto più largo possibile».
«Il nuovo Piano non è che un modo per premiare chi ha comprato in questi anni terreni su terreni» sostiene invece Basilio Rizzo, consigliere comunale del Prc. Un po' come dare la possibilità a chi ha speculato, di passare all'incasso. «Il fatto poi che non ci sia più un limite all'espansione della città - aggiunge - darà il via ora ad una corsa all'accaparramento di terreni».
Postilla
“Più cemento nella Milano del futuro”, titolava ieri la Repubblica nell’edizione milanese. “Prende forma il piano per il territorio, all’insegna della deregulation. Scompaiono le destinazioni d’uso, nasce una Borsa dei diritti edificatori che i costruttori potranno scambiarsi fra loro”. Questa la notizia che il manifesto riprende. È lo sviluppo di una linea proposta da un esimio urbanista, Luigi Mazza, con il quale a suo tempo si aprì una dura polemica (vedi Nota sul modello milanese e Scambio di lettere con Luigi Mazza). Ma c’è del nuovo.
Se è vero, come scrive Sara Farolfi, che “l'opposizione milanese lamenta di essere stata fino ad ora per nulla coinvolta nella discussione del documento” e che secondo il responsabile urbanistica dell’Ulivo “lo strumento può essere valido” a seconda di come viene gestito, allora bisogna convenire che il morbo s’è impossessato dell’intero Palazzo.
L’Italia è in una morsa: se dal Sud avanza l’abusivismo e l’illeggittimità, dalla Capitale del Nord prorompe il trionfo dei “diritti edificatori” sulle regole della convivenza civile. Per salvarci che faremo? Denunceremo, e magari abbatteremo qualche ecomostro in più?
ROMA — Prima di partire per Tokio (dove lo attende l'Annunciazione di Leonardo da Vinci per l'operazione cultural-economica «Primavera italiana 2007») Francesco Rutelli lancia una nuova sfida: «Tutte le soprintendenze competenti in materia di paesaggio dovranno, entro quindici giorni, comunicare alla loro Direzione generale le emergenze e le criticità più rilevanti. Il pericolo è che si assista in silenzio a un nuovo sacco del territorio italiano dopo la crescita incontrollata delle periferie nel dopoguerra, la massiccia cementificazione delle coste negli anni '60-'70, i danni provocati da tre successivi condoni». Di fatto, nel giro di due settimane il Ministero centrale disporrà di una nuova, attualissima «carta del rischio paesaggistico» con un censimento dei disastri annunciati o già in costruzione: e potrà agire. Ancora Rutelli: «La tutela del paesaggio italiano per ora è una priorità nazionale. Bisogna muoversi presto, prima che diventi un'autentica emergenza. Intervenendo in modo serio, non qualunquistico, frenando la progressiva diffusione della cattiva qualità architettonica dei nuovi interventi ma senza fondamentalismi, senza imbalsamare il territorio. È in ballo la scommessa di una generazione, riuscire a consegnare il paesaggio italiano in buone condizioni a chi verrà dopo».
Il caso Monticchiello, ma non solo, è quindi stato un campanello d'allarme: l'Italia «profonda», rurale, testimoniata nei quadri dei pittori della nostra grande tradizione, è in serio pericolo per un fenomeno che Francesco Rutelli ironicamente chiamerebbe «villettopoli, ma non voglio contrapporre il termine a vallettopoli». Ma «villettopoli» rende bene l'idea del fenomeno di ritorno alle campagne italiane (purtroppo non ai borghi spesso diroccati, restaurarli e farli rivivere sarebbe la vera vittoria di un Paese civile) che quasi sempre si traduce in agghiaccianti e inutili microperiferie di seconde e terze case che sfigurano per sempre antichi centri e paesaggi sublimi.
Dice il ministro per i Beni culturali: «La crescita esponenziale dei valori immobiliari spinge alla cementificazione selvaggia, a lottizzazioni continue». Il problema è noto e il ministro così lo sintetizza: «Il 60% del territorio italiano è vincolato (5 milioni 575 mila ettari) ma l'80% è amministrato da comuni con meno di 5000 abitanti. Spesso non hanno un geometra in organico, non parliamo di un architetto paesaggista. La pressione è enorme. Quindi i vincoli si rivelano inefficaci». La pressione di chi? Rutelli ricorre all'ironia: «La carne è debole...». Ovviamente è la pressione di quei costruttori molto «legati» alle realtà locali che vedono nel mattone un immediato risultato economico. Per questo il ministro pensa anche a un patto con le associazioni di quella categoria imprenditoriale: una progressiva sensibilizzazione sulla qualità architettonica, un impegno al rispetto del paesaggio, magari qualche facilitazione per restituire vita e bellezza agli antichi borghi cadenti invece di continuare a cementificare nel verde.
Altri strumenti che il ministro sta identificando. Prima di tutto «mai più un condono edilizio», con gli atroci e definitivi sconquassi che quello strumento straordinario comporta. La nascita di un nucleo di carabinieri specializzati nella tutela del paesaggio sul modello di quelli che già seguono furti e traffici clandestini dell'arte. La rapida approvazione — il documento verrà consegnato a giorni — delle varianti al Codice dei beni culturali, nella debole parte relativa al paesaggio, suggerite dalla commissione presieduta dal professor Salvatore Settis, neopresidente del Consiglio nazionale dei beni culturali. Il ministro non ne ha parlato, ma c'è chi giura che finalmente le soprintendenze dovrebbero obbligatoriamente esprimere il loro parere sugli strumenti urbanistici, come piani regolatori o attuativi. Parere che diventerebbe decisivo nelle aree sottoposte a vincolo.
Intanto Rutelli ha annunciato qualche «intervento significativo». Si sta lavorando a un accordo per arrivare all'abbattimento dell'ecomostro di Alimuri, scheletro in cemento armato fermo da quindici anni sotto la scogliera di Vico Equense. Parziale demolizione (e riqualificazione di ciò che resterà, magari destinandolo a un centro di formazione professionale) dell'hotel Castelsandra a Castellabate in provincia di Salerno, detto anche «Hotel della Camorra», 25 fabbricati piazzati su 13 ettari del parco del Cilento: il Tar ha appena respinto il ricorso della proprietà. Divieto di edificazione, in accordo con la regione Sardegna, intorno alla splendida area archeologica di Tuvixeddu a Cagliari. Attento riesame per le strutture teatrali a Torre del Lago per le manifestazioni pucciniane. Chiarimenti sulla proposta di lottizzazione per la vigna Santucci a Mentana, vicino Roma. Confermato il blocco delle ultime tre palazzine per Monticchiello (Siena), la madre di tutte le «villettopoli».
Postilla
Ottima la grinta rivelata dal ministro Rutelli. Ma sarebbe meglio se il ministro, prima di parlare di modifiche al codice del paesaggio, si desse da fare per attuarlo per la parte che gli compete: smettendo di firmare con le regioni “intese” che non significano niente e che fingono di essere quelle, ben più impegnative, previste dal Codice; smettesse di dire che il ministero non ha più poteri di annullamento, sostenendo le soprintendenze che li esercitano (come quella di Trieste a proposito di Baia Sistiana); e, soprattutto, assumesse subito i provvedimenti necessari per rafforzare le soprintendenze e le loro strutture regionali, essenziali per controllare effettivamente e durevolmente, mediante la pianificazione, il paesaggio italiano. Abbattere gli ecomostri è certamente utile, e paga bene in termini pubblicitari; ma serve a poco se non si lavora per impedire che sorgano, oggi e in futuro. Dare alle soprintendenze poteri per il controllo dei piani attuativi può essere un’idea convincente, ma è controproducente se prima non le si mette nelle condizioni di svolgere i loro compiti attuali.
Si veda anche la postilla all’intervista di Erbani a Settis del 14 marzo
Nessuno saprebbe dire se è un concetto filosofico, un istituto giuridico, un topos geografico, una categoria dello spirito, una patologia isolana o l’Araba Fenice. Ma qualunque cosa sia, la «Continuità territoriale» agita – eterna croce e delizia – i sonni dei sardi. Arrivi al desk Alitalia di Fiumicino e cominci a capire il perché.
Il sindaco forzista spera, nel 2009, di poter succedere a Renato Soru
Chiedi gentilmente di imbarcarti per Cagliari, esibendo il numero del tuo regolare biglietto elettronico Alitalia, ti guardano come un minus habens e ti spediscono a Meridiana, la compagnia di Karim Aga Khan, da dove, con sguardo di compatimento, ti rispediscono all’Alitalia, in un balletto che farebbe infuriare non un sardo «fumino», come dicono i pisani, ma un flemmatico britannico. Anche l’Inghilterra è un’isola e non ci puoi andare in bicicletta, ma la British Airways ti ci porta da quando esiste l’aviazione civile senza farla tanto lunga. L’Alitalia di Giancarlo Cimoli, invece, quando l’anno scorso ci fu la gara per l’assegnazione delle tratte sarde, dice di essersi distratta un po’ e di aver dimenticato di partecipare, lasciando sole Meridiana e Air One, che però non avevano aerei sufficienti. Per cui il governatore Renato Soru, che - pur nato figlio di un edicolante a Sanluri ai bordi delle mammellose colline della Marmilla - è uno di quei sardi che amano le valli interne e sono capaci di terribili ire fredde, si è dovuto sbattere da pazzi per tentare di risolvere alla meglio il problema.
Quando finalmente ci fanno sbarcare a Cagliari per la modica somma di 148 euro, solo andata, Soru lo troviamo proprio in una di quelle giornate di rabbia fredda che ben conosce Luigi Pomata, lo chef preferito dal coté di potere cagliaritano, tornato in città dopo aver lavorato a New York a «Le Cirque» di Sirio Maccioni. Da quando due anni e mezzo fa è stato eletto presidente della Regione autonoma della Sardegna, l’uomo che inventò Tiscali e cominciò a dare gratis Internet, che è un capitalista ma cita Gramsci, si è battuto per sfrattare dall’isola i sottomarini nucleari americani e liberarla almeno da una parte dalle asfissianti servitù militari. Ci è riuscito, gli americani se ne andranno dalla Maddalena nel 2008, come promesso. Ma adesso sono le «lobby militari italiane», come le chiama, a non voler schiodare, nonostante l’accordo politico già siglato. In una riunione tecnica al ministero della Difesa, retto dai corregionali Arturo Parisi, ministro, e Emidio Casula, sottosegretario, l’ammiraglio Paolo La Rosa, capo di stato maggiore della Marina, ha dichiarato con militaresca fermezza che non molleranno mai non solo il deposito munizioni della Maddalena, il più grande d’Italia, Punta Rossa, dove si fanno le esercitazioni degli incursori, Capo Frasca, Teulada e Capo Marrargiu, dove aveva sede «Gladio», l’organizzazione che, complice Francesco Cossiga, doveva salvare l’Italia da un eventuale attacco comunista, ma neanche le spiagge occupate dagli «Ops». Che cosa sono gli «Ops»? Sono gli Organismi di Protezione Sociale, che, tradotto in italiano, significa le case di vacanze estive dei militari, dei dignitari ministeriali e dei loro cari. Altro che gli americani a Vicenza, la caserma Ederle e l’aeroporto Dal Molin. A Cagliari non c’è il Palladio, ma c’è quella che il governatore definisce «l’occupazione militare delle spiagge più belle del mondo». Mille ettari in tutta la regione, 120 solo nel capoluogo, con 42 immobili cittadini, a cominciare dall’immensa caserma Ederle - lo stesso nome di quella di Vicenza - a Calamosca.
Cagliari città delle «Tre Emme» - medici, massoni e mattoni - si è sempre detto, trascurando colpevolmente la quarta emme, quella dei militari. I medici cagliaritani sono vivi e vegeti, controllano la sanità privata, sono i padroni delle cliniche. Uno di loro, Emilio Floris, è il sindaco forzista di Cagliari.
Figlio di Mario Floris, vecchio vicesindaco democristiano soprannominato «Marpio», che controllava gran parte della sanità privata, Emilio è anche lui un perfetto democristiano, che con l’acuminato governatore mantiene un buon rapporto, sperando di succedergli nelle elezioni regionali del 2009, se Berlusconi ci sarà ancora e se punterà su di lui, e non magari sull’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu, dopo la tragicomica esperienza di Mauro Pili. Pili era quel ragazzone berlusconiano che trescava con l’ex ragazza demichelisiana, l’opima Anna La Rosa televisiva, e che, diventato presidente della Regione, inaugurò il suo mandato leggendo lo stesso discorso che Roberto Formigoni aveva fatto all’insediamento in Lombardia. Fu scoperto per una piccola distrazione, perché parlava della sua regione come della regione nord-occidentale più industrializzata d’Italia, con un numero di province che purtroppo in Sardegna non tornava proprio. L’Antonio La Trippa del principe De Curtis - vot’Antonio, vot’Antonio! - al giovane Pili faceva un baffo.
Se i medici sono in salute, non si può dire lo stesso dei massoni, che pure tradizionalmente con i «clinicari» s’identificavano. Ora si riuniscono tristemente il lunedì sera da Beppe al Flora, in via Sassari, convocati da Francesco Puxeddu, ex presidente dell’Ersat, accusato anni fa di aver maneggiato una tangente del figlio di Claudio Abbado per cedere un terreno pubblico adiacente alla villa algherese del maestro. Altri tempi quelli in cui il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani, era Armandino Corona. Ex presidente regionale, lamalfiano, spadoliniano, Armandino, il «risanatore» massonico dopo il ciclone della P2 di Licio Gelli, era anche lui proprietario di cliniche, ma soprattutto era il grande mentore del potere cagliaritano, delle nomine, degli affari immobiliari e non. Oggi, ultraottantenne, vive defilato e tristissimo in lite con i figli per la gestione dell’ingente patrimonio familiare.
In compenso, la terza emme, quella dei mattoni, impazza, pur dovendosela vedere con il governatore Soru, che della difesa ambientale ha fatto la sua cifra politica, varando tra mille polemiche il suo piano paesaggistico. Sta vedendo i sorci verdi Gualtiero Cualbu, di amicizie trasversali, comprese quelle con il presidente della Provincia di Cagliari, il diessino Graziano Milia e con l’ex ministro lombardian-craxiano Giovanni Nonne, che stava colando cemento sul Colle di Tuvixeddu, la più importante necropoli punica del Mediterraneo, prima di essere fermato da Soru. Sergio Zuncheddu, palazzinaro di Burcei proprietario dell’«Unione Sarda», il quotidiano cagliaritano che acquistò per un centinaio di miliardi da Niki Grauso, e comproprietario con Veronica Berlusconi del «Foglio» di Giuliano Ferrara, sta spargendo cemento anche lui al centro di Cagliari e aveva la promessa che i suoi palazzi sarebbero stati acquistati dalla Regione. Ma Soru si è messo di traverso ed è ricambiato quotidianamente dagli attacchi del quotidiano cagliaritano, l’unico giornale italiano che ha un ex direttore affidato ai servizi sociali per reati patrimoniali. Lo attaccano tutti i giorni direttamente o per l’interposta persona del suo direttore generale Fulvio Dettori, docente di Diritto costituzionale regionale e figlio di un antico e stimato presidente democristiano della Regione, per una gara da 60 milioni di euro in tre anni vinta dalla Saatchi & Saatchi, che ha precedentemente lavorato per Tiscali, sulle tasse sul lusso, sul conflitto d’interessi, sugli ospedali cittadini, che vuole dismettere per destinarli ad altri usi e per costruirne uno tutto nuovo, sul progetto del grande museo nuragico da realizzare per risanare l’area degradata di Sant’Elia. Anche Roberto Colaninno, l’uomo della scalata a Telecom della razza padana, ha esigenze cementifere a Is Molas, un complesso turistico-sportivo a due passi da Cagliari, e si sente ripetere dal governatore che non si può andare avanti con «una grande ricchezza di tutti usata solo da pochi». E c’è persino il rettore dell’Università Pasquale Mistretta, ingegnere, che ha una passione per gli immobili: ne compra, ne vende, ne affitta, costruisce nei giardini.
«Macché cultura, Gramsci si rivolta nella tomba, macché industriali, macché capitani coraggiosi, qui abbiamo solo palazzinari non propriamente coraggiosi e una nuova borghesia mercantile proveniente dai paesi, abbiamo gente che preferisce sfruttare il bene pubblico piuttosto che investire nell’industria», provoca il governatore. Non più le grandi famiglie borghesi, ma i re dei supermercati, i Murgia, i Pilloni.
E gli industriali, quei pochi che ci sono, offesi, gli rispondono per bocca del loro presidente Gianni Biggio, titolare di una piccola agenzia di «transhipment», con un sondaggio tra gli iscritti che giudica la politica di Soru «largamente inadeguata».
Come collocare, tra tante emme, Niki Grauso, discussa e nervosa star cittadina, inventore di Videolina, ex padrone dell’Unione Sarda e ora dei quotidiani gratuiti «E Polis», di cui sostiene di distribuire nelle città italiane un milione e più di copie? L’uomo è genialoide e spesso avventuroso, come dimostrò nella mediazione che tentò di fare nel rapimento di Silvia Melis, ultimo dei grandi rapimenti sardi, perché - questo è un fatto - dopo il suicidio del giudice Lombardini e la misteriosa mediazione di Grauso, in Sardegna non ci sono più stati grandi sequestri.
Venduta a Giorgio Mazzella, presidente del Credito industriale sardo, oggi proprietà di Banca Intesa, la sua villa in viale Trento, dove si mangiava su piatti di cristallo poggiati su un tavolo di cristallo, avendo l’impressione che le pietanze levitassero nel vuoto, Grauso era scomparso da Cagliari, si dice per lidi libanesi. Ora è tornato, ha riportato le sue società a Cagliari per poter ottenere 3 milioni di euro di finanziamento dalla banca regionale Sfirs, presieduta dal sociologo Gianfranco Bottazzi. Mauro Pili, quell’ex presidente berlusconiano un po’ debole in geografia, ha fatto fuoco e fiamme, accusando Soru di proteggere Grauso, uomo della sinistra. Figurarsi. Che c’è mai di sinistra a Cagliari? «Assolutamente niente», secondo il vecchio dirigente comunista Andrea Raggio. «C’è solo una combinazione tra presidenzialismo forte e politica debole». Che piace, paradossalmente, a Rifondazione Comunista, come ci racconta Luigi Cogodi, nato in un paese vicino a quello di Emilio Lussu, detto Gigi il Rosso non solo per i capelli rossi, ma da quando, giovane assessore regionale all’Urbanistica con il presidente sardista Mario Melis, fece abbattere dalle ruspe in Costa Smeralda la villa miliardaria appena costruita da Antonio Gava, allora capo della Corrente del Golfo e potentissimo ministro democristiano. «Soru - giura Cogodi - è una contraddizione positiva, più illuminista che illuminato, è un uomo che fa una politica in una prospettiva di progresso con un taglio non direi dittatoriale, ma manageriale».
Anche Gigi il Rosso, oggi deputato di Rifondazione, naturalmente, soffre del terribile, trasversale chiacchiericcio cagliaritano. Raccontano di quel giornalista dell’»Unione», oggi suo braccio destro in Consiglio comunale, che era accreditato come il confidente di Niki Grauso nel controllo dei colleghi dell’Unione Sarda.
«Le banche, guardiamo alle banche che comandano da fuori», fa il governatore capitalista osteggiato dai partiti, che nel 2009 vorrebbero liberarsene. Una, il Cis, Credito industriale sardo, è ormai governata da Milano, l’altra, il Banco di Sardegna, nell’orbita della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, con Natalino Oggiano, ex direttore dell’Antonveneta ai tempi di Silvano Pontello, che oggi passa le carte bolognesi. «Io - rivendica Mariotto Segni, l’uomo che con l’elezione diretta dei sindaci ha cambiato di fatto i pilastri della politica italiana - sono stato un fiero avversario della gestione politica delle banche fatta dalla Democrazia cristiana, ma oggi devo dire che il Banco di Sardegna democristiano dei Giagu De Martini era migliore di quello di oggi ai fini locali». E’ nata da poco la Banca di Cagliari, creatura della famiglia Randazzo, padre, figli e discendenti vari, messa in piedi dalle cooperative rosse e dall’Aias, l’Associazione che dovrebbe assistere i portatori di handicap. Soldi pubblici, commistione di affari e politica, trasversalismo, quello che Cogodi chiama il potere che «veste pubblico e opera privato». Come quello di Sandro Usai, presidente da antiche ere del Consorzio di sviluppo industriale e quello di Nino Granara, presidente del porto, autori della grande incompiuta, costata centinaia di miliardi di lire, del canale navigabile. Un’incompiuta che ha favorito in Calabria il successo del porto di Gioia Tauro, che sembrava all’inizio la peggiore cattedrale nel deserto d’Italia.
Si chiama Bètile la scommessa della Cagliari di Soru, che vorrebbe fare a meno delle quattro emme, integrate dalla B delle banche, dalla C dei comitati d’affari e dalla P dei poteri collaterali. Bètile è un idolo sardo di pietra, ma nella testa di Soru è un grande museo dell’arte nuragica e contemporanea, che spazierà dai bronzetti che colpirono Picasso, alla ricerca artistica attuale del Mediterraneo e del Nord Africa, in un bianchissimo palazzo a vela già progettato dall’architetta irachena Zaha Hadid. «Cagliaricentrismo autolesionista» per la Sardegna, divina il sassarese Mario Segni, mentre la sua capitale del nord, in passato produttrice di classi dirigenti, perde posizioni a favore di Olbia. Soru, l’unico vero potere che resta, che comanda ma non è detto che governi, prepara, secondo lui, una Sardegna semispopolata, che fra trent’anni avrà poco più di un milione di abitanti, di cui 500 mila sul polo metropolitano di Cagliari. Se bastasse il sogno di Bétile, della Bilbao sarda, vagheggiata dall’uomo di Tiscali a salvarla...
Guardiamola, Bologna: le porte, le tracce delle mura che incontriamo percorrendo i viali di circonvallazione; guardiamola e pensiamo a come è stata progettata la cinta trecentesca della città perfetta, Jerusalem celeste con le sue porte, dentro le strade a raggiera, la calibrata dimensione dei suoi edifici, l'emergere delle chiese e, un tempo, lo svettare, accanto ai campanili, delle torri dei secoli XI, XII e anche XIII.
Guardiamola, Bologna e proviamo a capire come è stata ripensata, quella città. La città è una macchina per pensare l'esistenza, certo, ma quale esistenza? Una città è un sistema di funzioni, certo, ma quali funzioni? Una città è il luogo del vivere civile, sicuro, ma questo vivere civile, questa vita anche di relazione, è di tutti e quindi è sempre e ovunque possibile dentro la città?
Credo che per capire Bologna si debbano distinguere due tempi, quello prima e quello dopo gli anni '70, e ancora si debba pensare a distinguere le vicende del dentro e del fuori delle mura, salvo poche zone come quella dei colli.
Perché, prima di tutto, la distinzione temporale? Perché in una certa e precisa fase — quella che ha visto all'opera Pier Luigi Cervellati e Giuseppe Campos Venuti, l'urbanista che progetta Bologna fra 1960 e 1966 — si spostano dal centro al-la periferia, la Fiera, la Borsa e il Palazzo dei Congressi; si crea, quindi, un vero e proprio centro direzionale al settentrione della città, ancora oggi funzionale. L'assessore Pier Luigi Cervellati, in Via San Vitale, restaura delle case «popolari », dunque non costruisce fuori porta casermoni ma reinventa un modello urbano medioevale con servizi moderni; propone il rapporto spazio coperto-spazio verde riprendendo quello della gran parte degli spazi dentro le mura prima dei riempimenti ottocenteschi, e ulteriori, degli orti e dei giardini. La lezione è importante perché stabilisce una norma: che gli abi-tanti non abbienti devono potere vivere nel centro storico, non esserne espulsi.
Tutto questo accade ancora nel centro di Bologna? Ecco, la frattura che abbiamo indicato segna davvero uno spartiacque: il centro di Bologna diventa in pochi lustri sempre più simile a quelli delle altre città del nostro paese, diventa il luogo del terziario, il luogo degli uffici, delle banche, dei servizi; i cittadini, quelli coi redditi meno alti, sono costretti a uscire dalla cerchia delle mura e ad andare ad abitare nei quartieri periferici. Un corretto Piano Regolatore avrebbe dovuto prevedere linee di espansione precise e, visto che la collina veniva occupata progressivamente da edilizia residenziale e che al nord stava il centro direzionale, si doveva programmare un sistema di crescita coordinato, ma non è accaduto così. Il vecchio quartiere popolare in parte ricostruito dopo i bombardamenti e i disastri della guerra, la Bolognina, vive come una enclave a sé, e vive male, credo; a San Donato affiorano zone verdi ma il quartiere, come del resto quello prossimo di San Vitale, propone una crescita a macchia d'olio della città che si sviluppa, naturalmente, anche dal lato opposto; nella zona dello stadio e di porta Saragozza, modificando profondamente il rapporto con uno degli assi più significativi e che era certo da rispettare: la salita coperta alla Madonna di San Luca i cui portici, ancora ben conservati, sono stati otticamente manomessi in più punti e sopra tutto nella zona dello stadio.
La macchina della città, a questo punto, non propone più una forma, ma semplicemente un sistema di espansione disorganica senza spazi verdi, senza centri per il loisir, per gli incontri, per gli scambi.
Bologna ha un centro storico, certo, ma non hanno storia purtroppo le sue periferie: ancora oggi, infatti, i loro abitanti vivono se vanno «in centro», quello vero, pensato nell'età che dal Medioevo arriva al '700 e al primo '800, il tempo in cui Bologna è stata una città a misura di abitanti. Pochi anni fa, di fronte alla crisi della immagine stessa e delle funzioni della città, esplosa negli anni '80 e '90 e culminata con il cambio della maggioranza, un gruppo di urbanisti, Alessandro Del Piano, Marco Guerzoni, Giancarlo Mattioli fonda la Compagnia dei Celestini nel nome di un recupero di modelli diversi, e di uno spazio diverso dentro e fuori la cinta urbana.
Il nodo quindi oggi sta proprio qui, capire che cosa è accaduto non alle architetture, ma alla gente: capire dove vivono e come vivono le classi meno abbienti, capire se esse hanno dei punti di riferimento ma capire anche dove e come vivono gli altri, quale esistenza viene loro proposta al di là della qualità estetica dei condomini che per loro sono edificati.
La mancanza di forma della città, della Bologna di oggi, non è il risultato di un casuale accavallarsi di interventi, anche se questi certo vi sono stati, ma di una visione che si è perduta della funzione civile del rapporto cittadini-tessuto urbano. Nascere a Bologna, per decenni nel dopoguerra, ha voluto dire, mi si permetta la espressione, vivere nell'equilibrio di un sistema eccezionale nel nostro paese; vivere adesso a Bologna risponde a equilibri sempre più precari man mano che ci si allontana dal filo delle mura. Ma se i piccoli proprietari, i piccoli negozi, i poli stessi della microcultura urbana, compresi i cinema e tutto il resto, chiudono o si allontanano dal centro, se i grandi nodi della distribuzione di alimentari, di arredo, risucchiano all'esterno l'attenzione e i percorsi dei cittadini, se le grandi imprese, le assicurazioni, le banche, comprano o affittano i maggiori pa-lazzi del centro, che cosa resta della equilibrata, densa, ritmata e felice vita dei cittadini a Bologna? Si dovrebbe sperare soltanto che la Università avesse i fondi per comprare dentro le mura tutto quello che è possibile e per aprirlo a nuove funzioni, a nuovi usi collettivi.
Sono queste le domande che chiunque progetti, da adesso in avanti, la forma della città do-vrà porsi ricordandosi anche che, almeno in apparenza, percorrendo le strade fuori delle mura, si ha la impressione che la edificazione non sia stata pianificata se non quasi caso per caso, ogni pezzo di strada o di piazza separato dal resto. Tutto questo si vede. E si vede anche, ed è terribile, la spaventosa contraddizione fra edilizia speculativa recente ed edilizia anche e solo di fine '800 o dei primi del '900. E questo ovunque. I soli luoghi dove i villini, pur rifatti, pur ingranditi, si conservano nel verde è sulle colline a sud, lungo le strade da Via Castiglione a Via di Barbiano: affascinanti vie, alberi, verde, un bello per pochi, però, e tutti gli altri? Se avrete seguito l'itinerario negli spazi fuori della città, se avrete passato un'ora la domenica pomeriggio fra piazza dell'Unità alla Bolognina e Piazza della Pace dalle parti dello Stadio, forse allora potrete capire.
C´è un piccolo bosco, sparpagliato sui 250.000 metri quadrati del vecchio recinto della Fiera in corso di trasformazione. Si tratta di 122 alberi, collocati per lo più come filari sui viali interni, per i quali non c´è più posto. Citylife, la società partecipata da Generali Properties, Ras, Fondiaria-Sai, Lamaro Appalti e Grupo Lar, ha deciso di non abbatterli ma di spostarli. Aceri, platani, querce e tigli troveranno una nuova collocazione in zona Bonola, vicino al Consiglio di Zona 8, in via Mafalda di Savoia, al Parco Pertini. Citylife si farà carico per tre anni della manutenzione.
Il trasloco, che è già cominciato e sarà concluso entro la fine della prossima settimana, costerà 200.000 euro ma il valore stimato delle piante, 25 specie diverse fra i 10 e gli 80 anni di età, è il doppio. La pianta più alta raggiunge i 25 metri, il diametro massimo è di 125 centimetri. In media, l´altezza è di 10 metri per un diametro di 30 centimetri. Altri 47 alberi, lasciati dove sono, continueranno a vivere nel nuovo insediamento di case e uffici, mentre 68 verranno abbattuti a causa del precario stato di salute.
L´operazione non è semplice. Le piante sono state potate per facilitare il trasporto, le radici protette da una grossa zolla di terra e disinfettate, il tronco è stato avvolto in fasce di iuta per protezione. Tutte sono state numerate e per ciascuna è stata indicata la parte esposta a nord, perché possano essere rimesse a dimora con lo stesso orientamento. Le funzioni vitali, come la produzione di linfa, sono infatti diverse a seconda dell´esposizione: «Se non si fa così, scoppia la corteccia», chiariscono gli agronomi.
Come le 28.000 lettere spedite al quartiere «per presentarci come nuovi vicini di casa e spiegare cosa faremo», dice Ugo Debernardi, presidente di Citylife, il trasloco degli alberi cerca di sopire le polemiche. Debernardi definisce «strumentale» la definizione di verde condominiale affibbiata dai comitati dei residenti a un parco che, «con 2.000 alberi, sarà il terzo in città per estensione». Citylife dichiara 130.000 metri quadrati, di cui 94.000 di parte più naturalistica (il cosiddetto core green). I comitati considerano parco solo questa porzione. Dalla Guida ai parchi e giardini di Milano del Comune risultano più grandi Parco Lambro e Parco delle Cave (entrambi 1.350.000 mq), Parco Forlanini (750.000), Parco Trenno (585.000), Parco Sempione (450.000), Montestella (370.000), Parco Trotter (200.000), Parco Alessandrini (172.000), Giardini Pubblici (160.000).
I residenti: "Non è così Il cemento è ancora troppo"
Luisa Rigobon, del comitato Residenti Fiera, con questa iniziativa migliora il bilancio ambientale del progetto Citylife?
«Rimane un´occasione persa per tutto il nordovest della città. Uno spazio verde significativo nell´area della Fiera fra Parco Sempione, Montestella, Boscoincittà, Parco delle Cave creerebbe un unico grande polmone contro l´inquinamento e l´emergenza caldo. Non bastano 86.000 metri quadrati (dopo le ultime correzioni al progetto sono in realtà 94.000, ndr)».
CityLife vi aggiunge 37.000 mq di piazze alberate, la sistemazione di aree comunali come il Vigorelli e le piazze Giulio Cesare e VI Febbraio, da chiudere al traffico. Il verde condominiale è calcolato a parte.
«La valutazione di impatto ambientale della Regione del 15 dicembre 2005, con importanti prescrizioni su viabilità, verde, urbanistica, è stata ignorata. Addirittura, il piano integrato di intervento è stato approvato il giorno dopo: si possono edificare 115 mq ogni 100 di superficie, l´indice normale è di 60 ogni 100».
L´iter amministrativo ormai è concluso.
«C´è ancora un tavolo aperto fra Comune, Fiera e Citylife. I comitati non sono ammessi ma noi continueremo a fare pressione sul Comune perché verde frammentato del progetto venga ricompattato e ampliato, riducendo l´edificato. Questo è un piano urbanistico che si proietta nel futuro, dato che sarà finito fra dieci anni, ridisegna un pezzo di città ma è stato concepito con una mentalità vecchia».
Se Citylife accettasse di "spalmare" le volumetrie su un´area più ampia, recuperando 65.000 mq che peraltro sono ancora di proprietà della Fiera, i comitati sarebbero soddisfatti?
«Sarebbe un´ottima soluzione. Stiamo raccogliendo le 1.200 firme necessarie per una udienza pubblica, come prevede lo statuto comunale, con la partecipazione dei cittadini e della giunta. Il progetto può ancora essere modificato».
Il primo segnale di svolta è nel calendario. Negli ultimi cinque anni il Consiglio superiore dei Beni culturali si sarà riunito si e no quattro o cinque volte. Il nuovo Consiglio, presieduto da Salvatore Settis, storico dell´arte antica, direttore della Normale di Pisa, è convocato per il 29 marzo, ma sono stati già fissati altri otto appuntamenti da qui a dicembre. Nato nel 1907, esattamente cent´anni fa, il Consiglio serve, appunto, a dar consigli al ministro. Può essere un innocuo sinedrio di attempati accademici. Ma può anche diventare il luogo in cui si dà battaglia per rimettere in marcia una macchina invecchiata e mortificata, quella della tutela del patrimonio e del paesaggio italiani. Settis si è insediato nei giorni scorsi e ha intenzione di imboccare la seconda via. Ma deve fare i conti con una struttura ministeriale che emette sinistri scricchiolii e con un governo che tutto può fare tranne che programmarsi la vita per i prossimi quattro anni.
Un suo predecessore, Giuseppe Chiarante, si è dimesso quando si è accorto che l´allora ministro, Giuliano Urbani, non aveva alcuna intenzione di servirsi del Consiglio superiore.
Non è un precedente incoraggiante.
«Io credo che Francesco Rutelli abbia in animo di servirsi molto di questa struttura e di rilanciarla. Non avrei accettato se non fossi stato certo di questo».
Da dove pensa si debba partire?
«Le questioni sono tante, ma i punti centrali sono la riforma del ministero e i poteri delle soprintendenze. Queste ultime sono state messe nelle condizioni di non svolgere un corretto lavoro di tutela».
Funzionari mal pagati e spesso con le mani legate.
«Il problema più importante non sono i soldi. Nelle soprintendenze c´è anche chi svolge male il proprio compito, ma nella grande maggioranza il livello è eccellente, sia per il profilo tecnico-scientifico, sia per la dedizione. Sono persone che amano quel lavoro e che accettano persino di essere retribuite in misura inadeguata, purché non sia vilipesa la loro autonomia, e purché abbiano gli strumenti indispensabili».
E questo non accade?
«No. Nelle soprintendenze non si possono fare i sopralluoghi perché mancano i soldi per la benzina. Oggi l´età media dei funzionari è 55 anni. Negli ultimi decenni sono andate in pensione migliaia di persone e ne sono entrate poche centinaia. Non si svolgono concorsi».
Al ministero dicono che verranno assunti tremila precari.
«È una scelta che mi preoccupa molto. E che accomuna i Beni culturali all´Università. Per la salvaguardia del nostro patrimonio abbiamo bisogno di persone di indiscussa qualità, selezionate con criteri rigorosi e trasparenti. Qui sono in gioco studio e ricerca, questioni delicatissime. Nessun paese al mondo assume precari nel settore dei beni culturali: si scelgono i migliori ovunque essi siano. Non possiamo farlo proprio in Italia, dove abbiamo un patrimonio sterminato e soprattutto disseminato ovunque, un immenso museo a cielo aperto fatto di beni storici e artistici e di paesaggi».
Molti di questi lavoratori precari hanno comunque svolto compiti delicati di tutela, spesso sono stati selezionati già con concorsi.
«La via maestra è quella di bandire concorsi pubblici aperti a tutti, precari e non precari, riconoscendo ai primi un punteggio che attesti il lavoro svolto. Ma non è possibile immettere nell´amministrazione così tante persone ope legis. E poi, mi scusi, abbiamo creato un vero monstrum».
Quale professore?
«Il ministero dell´Università ha istituito decine di corsi di laurea in Beni culturali, dai quali escono migliaia di giovani. Ma il ministero dei Beni Culturali non indice concorsi per prendere i migliori fra questi giovani».
Ma intanto è accaduto un pasticcio. Un concorso per soprintendenti storici dell´arte è stato sospeso dal ministro, per il ricorso di alcuni dirigenti non ammessi all´orale. Però il Tar ha dato ragione a chi aveva superato la prova scritta e ha imposto che il concorso sia concluso.
«Non conosco i termini esatti di quella vicenda. Credo che il bando fosse sbagliato, perché non valutava anche i titoli: è importante scegliere un soprintendente anche per i libri scritti o per le ricerche in corso. Però quel concorso è stato avviato sulla base di quel bando ed ho sempre pensato che fosse giusto portarlo a conclusione».
Come si possono rimettere in moto le soprintendenze?
«In primo luogo potenziando quelle che fanno tutela sul territorio e ridimensionando le strutture centrali, cioè invertendo la rotta fin qui seguita. Esistono studi sul funzionamento di alcune soprintendenze, come quella ai beni archeologici di Roma. Si analizzino bene queste indagini e si veda concretamente cosa funziona e cosa no. Poi bisogna riformare il sistema delle direzioni regionali, nate con il precedente governo di centrosinistra».
Che cos´hanno che non va?
«Alcune funzionano bene altre meno. Ci sono ottimi dirigenti, ma non sempre succede. Mi sono battuto, e continuerò a farlo, perché non possano accedere a quei posti se non persone con competenze tecnico-scientifiche, storici dell´arte, architetti o archeologi, e non amministrativi, come accade in qualche caso. Ma, al di là degli uomini, in generale si sono rivelate un filtro burocratico fra le soprintendenze che operano sul campo e il ministero. E per far questo le direzioni regionali hanno ulteriormente sguarnito il lavoro sul campo».
Come le riformerebbe?
«Io proporrei per ogni regione una conferenza dei soprintendenti con uno di loro che svolga il ruolo di coordinatore. In ogni caso le soprintendenze devono riacquistare il massimo di autonomia e al tempo stesso chi le guida deve poter essere giudicato, perché si possano sanzionare omissioni o inefficienze».
Cosa propone per le soprintendenze ai Poli museali di Roma, Firenze, Venezia e Napoli?
«Sono stato sempre contrario a scindere la soprintendenza dei musei dal territorio. È un´incongruenza: i musei italiani sono il prodotto dei territori in cui si trovano, espongono i materiali provenienti da quei territori, non si possono gestire in maniera scientificamente seria sganciandoli da essi».
Questi sono tutti problemi organizzativi. Si parla da tempo di una riforma del ministero. Il ministro ha assicurato che entro l´estate sarà varata. Lei ne sa qualcosa?
«Circolano bozze diverse, alcune le ho viste. Ma aspettiamo che il ministro faccia conoscere le proprie intenzioni e poi il Consiglio esprimerà il suo parere».
Lei è stato un protagonista della battaglia contro la Patrimonio S. p. A. Che cosa ne è della vendita dei beni pubblici, compresi quelli che hanno rilievo storico-artistico?
«La politica voluta dall´allora ministro Giulio Tremonti ha avuto scarso successo e sembra abbandonata. Quella politica la stanno però adottando molti Comuni».
Può farmi qualche esempio?
«Che ne sarà della sede del Museo Geologico Nazionale a Roma, costruito negli anni Settanta dell´Ottocento, i cui lavori di ristrutturazione stanno ora terminando? Sarà venduto? A chi? Per farne cosa? Molta preoccupazione ha destato la decisione di vendere Villa Giustiniani Cambiaso a Genova. A Venezia sono stati messi in vendita in un colpo solo 13 palazzi, tra i quali Palazzo Nani e Palazzo Zaguri. Ma la cosa che continua a preoccuparmi è che nell´ultima Finanziaria si parla esplicitamente di "valorizzazione a fini economici dei beni immobili tramite concessione o locazione" e anche di "nuove destinazioni d´uso". È vero che la norma prevede il rispetto del Codice dei Beni Culturali, ma intanto ne mina uno degli assunti introdotti quando ancora era ministro Rocco Buttiglione e cioè che la valorizzazione va intesa "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura", e non per fini economici».
Si parla da tempo anche di modifiche al Codice dei Beni Culturali in particolare per la salvaguardia del paesaggio.
«Questo è il fronte sul quale la tutela mostra le maggiori debolezze. Abbiamo assistito a un progressivo slittamento delle competenze dallo Stato prima verso le Regioni e poi da queste ai Comuni. Il Codice ha ulteriormente ridotto il controllo statale perché ha tolto alle soprintendenze il potere di annullare, come si dice, "a valle", le autorizzazioni edilizie dei Comuni. Possono solo partecipare alla redazione dei piani paesistici: "possono", dice il Codice, non "devono". Per cui i Comuni alla fine hanno mano libera e le conseguenze sono che il geometra di un piccolo municipio toscano, come Pienza, si trova a fronteggiare la forza di immobiliaristi decisi a saccheggiare Monticchiello».
Cosa fare, dunque?
«Intanto bisogna rendere obbligatoria e non più facoltativa la partecipazione delle soprintendenze alla redazione dei piani paesistici. La vecchia politica dei vincoli non basta più, le soprintendenze devono poter progettare l´assetto dei paesaggi. Ma il rischio è che non possano progettare e neanche mettere vincoli. La mia idea è che bisogna ricostituire una rete di tutela di cui facciano parte lo Stato centrale, le Regioni e altri soggetti. La guerra di logoramento fra centro e periferia non avrà né vincitori né vinti, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un prezioso bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di una specie di "fuoco amico" fra i poteri pubblici».
Postilla
Le parole del nuovo presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali ribadiscono posizioni da lui incessantemente riproposte in questi ultimi anni e, nell’assunto generale, condivisibili. Lasciano qualche dubbio, casomai, alcune affermazioni che paiono derivare da un certo attardamento politico culturale.
Ad esempio laddove si criticano le direzioni regionali in quanto causa del depotenziamento delle soprintendenze: in realtà l’accertato svuotamento di quelle strutture è piuttosto il risultato del progressivo depauperamento, in termini di personale, risorse e mezzi (non solo materiali), costantemente e quasi scientemente perseguito negli ultimi 10-15 anni da parte degli organi centrali del Ministero e delle politiche (a)culturali degli ultimi governi. Le direzioni, al contrario, potrebbero rappresentare un presidio più efficace, in quanto istituzionalmente più “forte” e coordinato, nei confronti degli altri interlocutori che agiscono a vario titolo sul territorio: pubblici e privati. Questi ultimi, soprattutto, spesso dotati di ben altri mezzi e capacità di intervento.
Quanto al problema dell’autonomia dei nostri principali musei, è ormai riconosciuto dalla maggior parte di museologi ed esperti del settore che questo rappresenti, in molti casi, solo un primo, ma indispensabile passo per trasformare un’istituzione culturale che ha subito negli ultimi anni uno stravolgimento progressivo delle funzioni originarie da elitario luogo delle muse a strumento comunicativo davvero efficace e finalmente inclusivo in senso cognitivo e sociale.
E infine preoccupa questa reiterata ansia di modifica del Codice dei beni culturali del paesaggio a neanche un anno dall’entrata in vigore della ultima versione emendata. Alla versione attuale sarebbe forse più opportuno concedere una sperimentazione effettiva “sul campo” di qualche consistenza maggiore rispetto ai proclami fin qui sbandierati in occasioni mediaticamente molto strombazzate di accordi ecumenici Stato-regioni (v. ad esempio il protocollo d’intesa Mibac-Regione Toscana, sul quale, da ultimo, l’eddytoriale n.100).
Ad una analisi non pregiudiziale che tenga conto anche del suo percorso storico, il Codice si pone come l’evoluzione, con qualche sbavatura, ma non al ribasso, del testo unico del 1999 e, salendo per li rami, della spesso rimpianta 1089. Strumento non inadeguato ad esigenze di tutela che, rispetto al 1939, qualche mutamento lo devono pur aver subito.
Il problema, adesso, non è modificare il Codice, ma adeguare le istituzioni che dovrebbero attuarlo (il Ministero in primis) ai nuovi compiti: in senso strutturale, e forse soprattutto culturale. (m.p.g.)
La cronaca di Repubblica
di Massimo Vanni
Il paladino di Monticchiello Alberto Asor Rosa guiderà la rete dei comitati toscani che si battono per la tutela del paesaggio, contro «i danni che le amministrazioni comunali stanno producendo». Un coordinamento che già domenica 25 marzo potrebbe vedere la luce in una Convention alla quale parteciperanno, come richiesto da Nicola Caracciolo di Italia Nostra, anche le associazioni ambientaliste. E´ quanto è stato deciso ieri al convegno del Centro studi Cisl organizzato dal Comitato per Fiesole, dove per un´intera giornata urbanisti e esponenti dei comitati si sono avvicendati a denunciare gli «scempi edilizi» modello Monticchiello.
Fiesole anzitutto, per il quale il presidente del comitato Cosimo Mazzoni, con l´aiuto dell´archeologo Riccardo Francovich, punta il dito contro il progetto dell´area Garibaldi, dove la Fondazione Menarini «realizzerà 28 mini-appartamenti» e così facendo, dice Mazzoni, consumerà «un abuso a norma di legge». Ma anche Firenze, dove i «tanti interventi smantellano il territorio», dice Mario Bencivenni. Bagno a Ripoli, che secondo i conti di Sergio Morozzi, autorizza 150 villette. San Casciano e l´insediamento della Laika, ricorda Claudio Greppi. La Piana e l´inceneritore, aggiunge Valeria Nardi. Poi ancora, San Salvi, Montebeni, San Quirico d´Orcia. E quando Asor Rosa lancia l´idea di una rete dei comitati, «a cominciare dalla Toscana», tutti si dicono d´accordo.
E´ l´annuncio di un nuovo livello conflittuale. «Più maturo», dice Asor Rosa. Ma anche più efficace: «Cosa va cambiato? Il fatto è che lo Stato ha abdicato alla responsabilità urbanistica passando tutto alle Regione. E la Regione Toscana ha abdicato nei confronti dei Comuni - dice il presidente toscano di Italia Nostra Caracciolo - si deve ricostituire un sistema d´autorità a cui poter fare ricorso in caso di problemi». Col presidente toscano Piero Baronti però Legambiente prende le distanze: smentisce pure di essere tra gli organizzatori del convegno («Non siamo stati neppure interpellati, ci hanno messo nell´elenco senza avvertirci»). Come annunciato, in platea nessun rappresentante delle istituzioni. Si fa vedere solo il presidente del Consiglio regionale Riccardo Nencini all´inizio, ma se ne va poco dopo.
In calce potete scaricare l'intervento di Luigi Scano e il documento che ha costituito la base dell'intervento di Paolo Baldeschi, entrambi critici nei confronti del Piano d'indirizzo territoriale della Regione Toscana
La colmata della discordia
Patrizia Capua
Le Assise di Palazzo Marigliano chiedono le dimissioni del vicesindaco Tino Santangelo dopo le sue dichiarazioni sulla colmata di Bagnoli. «Da cittadino napoletano dico - aveva affermato - che la colmata ex Italsider deve restare dov´è, perché una terrazza sul mare di tale bellezza non ce l´ha nessuna città al mondo ed è un peccato che venga rimossa». Dichiarazione particolarmente grave, secondo le Assise, perché il vicesindaco deplora e contesta le decisioni assunte dallo stesso Consiglio comunale e più recentemente anche quelle del ministro dell´Ambiente, Pecoraro Scanio, che sostiene l´ipotesi di portare i materiali inquinanti a Piombino. Grave sul piano della correttezza amministrativa e politica, insistono le Assise, in quanto Santangelo «dovrebbe essere il garante dell´attuazione del Piano regolatore. A questo punto dovrebbe comprendere che la sua posizione non è compatibile con la sua carica. Si dimetta, dunque», esortano, «tenendo anche conto che non è stato eletto al Comune dai cittadini napoletani».
Posizioni contrastanti con quelle dello stesso sindaco Iervolino che ieri non ha perso tempo e ha frenato Santangelo. «Lasciatemi dire una cosa su Bagnoli - ha detto il sindaco nel corso del congresso della Margherita a Città della Scienza - vorrei proprio pregare di non aizzare più polemiche sul tema. Ci sono ormai progetti che sono partiti e che vanno governati, senza strattoni alimentati dalla stampa. Dico a tutti che il confronto va fatto nelle istituzioni, non a colpi di spot sui giornali».
Bellissima terrazza a mare o un milione e 200 mila metri cubi di sedimenti tossici dell´ex acciaieria, che impediscono il recupero della linea di costa e della spiaggia? Scontro a Palazzo San Giacomo ma anche al ministero dell´Ambiente, all´Authority portuale, al commissariato per le bonifiche della Regione. Più di dieci anni di polemiche, la città divisa in due blocchi trasversali. Il sindaco Rosa Russo Iervolino ribadiva che «per Bagnoli bisogna spegnere le polemiche e attuare i piani di disinquinamento già approvati». Francesco Nerli, presidente del porto, giudica valido l´accordo del 2003 per il riutilizzo della colmata nella Darsena di Levante.
Le Assise hanno ricordato che Santangelo nel mese scorso aveva detto di voler sollecitare un´altra relazione tecnico-scientifica. «Il vicesindaco tratta Bagnoli come una collezione di gouaches» affermano Donatone, Francesco de Notaris, Nicola Capone, Francesco Iannello e Luigi De Falco.
Sulla polemica interviene il deputato Marcello Taglialatela, componente della commissione parlamentare Bilancio e coordinatore cittadino di Alleanza Nazionale. «Il vicesindaco Santangelo prende finalmente atto della realtà di Bagnoli e ci dà ampiamente ragione sulla questione della colmata e sulla scelta negativa intrapresa dal centrosinistra di rimuoverla. La rimozione peraltro - aggiunge Taglialatela - richiede tempi lunghi e allungherà inevitabilmente quelli per il definitivo rilancio e sviluppo dell´area di Bagnoli».
Rimuoverla è velleitario e frutto solo dell´ideologia
Benedetto Gravagnuolo
Circa due anni fa, in un´intervista a "Repubblica" (18 febbraio 2005) fui tra i primi a sollevare dubbi sull´opportunità di rimuovere la colmata a Bagnoli. Proposi di valutare di trasformare quell´informe massa di terriccio in un gradevole giardino sul mare, applicando collaudate tecniche biologiche di disinquinamento dei detriti, mediante adeguate essenze arboree. Mi fu obbiettato che le mie erano osservazioni tardive, avendo il Consiglio comunale già deliberato di procedere a un immediato sgombero di quell´ingente massa di detriti dell´ex Italsider al fine di ripristinare la naturale linea di costa.
Per il rispetto che nutro verso le istituzioni, preferii non insistere sulla mia proposta. D´altronde il mio voleva essere solo un contributo teso a favorire la rapida e piena attuazione dell´obbiettivo primario del piano, vale a dire la realizzazione del grande parco sul sedime delle fabbriche dismesse. L´ostinazione polemica avrebbe allora potuto dare adito al sospetto di volere alimentare una strumentale controversia per rallentare i lavori.
Sta di fatto però che la colmata è ancora lì. Ed è divenuta anzi il pomo della discordia tra tecnici e politici che remano sulla stessa barca. Sperando dunque di non fomentare dissidi, provo a riproporre in estrema sintesi le mie considerazioni.
Innanzitutto, se valutata nei termini del rapporto tra costi e benefici, la rimozione della colmata appare con tutta evidenza un´opera ciclopica, per non dire velleitaria. Rimuovere circa 220 metri quadrati (tralasciando la disputa sui mezzi di trasporto e scartando per ovvie ragioni i camion) comporta una spesa già di per sé ingente, alla quale va aggiunto il costo dell´immissione di una notevole quantità di sabbia nuova per ridare una forma plausibile alla spiaggia da ripristinare. Si sa che il fine giustifica i mezzi. Ma, in questo caso, c´è da chiedersi che cosa giustifica il fine.
La volontà di riportare la linea di costa a uno stato di natura preesistente agli insediamenti industriali novecenteschi è una buona intenzione, ma in palese contraddizione logica con la volontà di realizzare più avanti un porto-canale che recherebbe un vulnus in un tratto di linea di costa non ancora alterato. Come hanno dimostrato vari esperti (con reiterate osservazioni tecniche, senza mai ricevere repliche) il disegno del porto-canale non è solo "contro legge", ma anche "contro logica". Questo tipo di porto implica l´incisione di un lungo taglio nella morfologia esistente, disattendendo così la legge n.582/96, nonché i vincoli sanciti dal Piano Paesistico del 1999. Ancor più paradossale è constatare che per la sua stessa conformazione, tale "canale" produrrebbe insabbiamenti e altre inefficienze nautiche.
Di "naturale" peraltro è rimasto ben poco in quel sito. Dagli stessi assertori del ripristino della linea di costa preesistente viene vantato con orgoglio il recupero del Pontile-Nord, vale a dire di un artefatto industriale che si protende per circa 900 metri tra le onde del mare. Senza contare che Nisida era un´isola ("e nessuno la sa", come canta Bennato).
Insomma, non è comprensibile l´accanimento a volere rimuovere a tutti i costi (è proprio il caso di dirlo) la colmata, lasciando però inalterati tutti altri segni della trasformazione del luogo recati dall´uomo nel corso del tempo. Le risorse pubbliche stanziate per tale opera ciclopica, potrebbero (forse) più utilmente essere finalizzate ad altri interventi per attuare (in tempi ragionevolmente programmati) l´anelato disegno della trasformazione di Bagnoli. D´altronde, un giardino sul mare resta un´ipotesi altrettanto "naturalistica" del grande parco retrostante.
Perché allora non provare a discuterne tecnicamente, senza innalzare barricate ideologiche? In fin dei conti, il Consiglio comunale potrebbe legittimamente emendare alcuni aspetti tecnici del piano esecutivo precedentemente approvato, laddove riscontrasse l´opportunità di miglioramenti attuativi. Non si tratta di rimettere in dubbio le scelte di fondo, ma anzi di rafforzarne la validità attraverso correttivi ben calibrati e condivisi.
Ma se non verrà rimossa il mare non sarà balneabile
Guido Donatone
Ci domandiamo che cosa debbano pensare gli imprenditori e i futuri investitori, che hanno da tempo mostrato interesse per il piano comunale di recupero di Bagnoli e dell´area occidentale di Napoli, di fronte alle ricorrenti dichiarazioni rese alla stampa dal vicesindaco Tino Santangelo, il quale ancora una volta ha dichiarato ("Repubblica" dell´11 marzo) a proposito della colmata a mare di Bagnoli: «... deve restare dov´è perché una terrazza sul mare di tale bellezza non ce l´ha nessuna città del mondo».
È probabile che Santangelo non abbia consapevolezza alcuna delle decennali istanze ambientaliste accolte dal Consiglio comunale di Napoli di cui fa parte. Le finalità delle associazioni ecologiche per la riqualificazione dell´area occidentale di Napoli prevedevano precise priorità: la rimozione della colmata dell´ex Italsider, il disinquinamento dei fondali marini e il ripascimento degli arenili; tutte necessarie per la restituzione del mare e della spiaggia alla libera fruizione dei cittadini.
Il vicesindaco Santangelo evidentemente non segue nemmeno il dibattito politico-culturale che si svolge sulla stampa.
Su "Repubblica" del 23 febbraio scorso, Giovanni Squame, già presidente del Consiglio comunale, ha infatti sottolineato che da parte del Comune sono necessari «forti segnali di affidabilità per gli investitori... circa il grande progetto di riconversione urbana in via di attuazione».
Quello di Bagnoli, appunto, su cui, aggiunge Squame, «c´è un accordo di programma e un cronoprogramma sui quali dar conto alla città: il Consiglio comunale eserciti la sua funzione di controllo per garantire sul perseguimento coerente di scelte ampiamente condivise, e degli accordi sottoscritti tra le pubbliche istituzioni».
Sempre su "Repubblica" (22 febbraio scorso) avevamo ricordato a Santangelo che la rimozione della colmata è prevista dalla legge 582 del 1996, che impone il risanamento ambientale del litorale e dei fondali marini, nonché il ripristino della morfologia naturale della linea di costa a Bagnoli.
Tutto ciò è stato anche recepito dalla normativa urbanistica del vigente piano regolatore di Napoli, con cui Santangelo dovrebbe avere qualche dimestichezza dal momento che ricopre pure la carica di assessore all´Urbanistica.
Lo stesso sindaco Rosa Russo Iervolino è stata votata dalla maggioranza dei napoletani perché nel suo programma era indicata come prioritaria l´attuazione del piano regolatore. E va dato atto al sindaco per la sua coerenza in quanto la sua posizione, anche recentemente ribadita, è quella della attuazione del piano regolatore e in particolare della sollecita rimozione della colmata.
Nella seduta di ieri delle Assise di Palazzo Marigliano sono state rilette le risultanze della relazione tecnico-scientifica del professor Benedetto De Vivo, docente di Scienze della Terra e già componente della commissione di controllo e monitoraggio delle attività di bonifica di Bagnoli, che hanno evidenziato una contaminazione delle acque profonde per la presenza di sostanze tossiche: idrocarburi policiclici e fluorantene nell´area della colmata, per cui senza la rimozione della stessa il mare di Bagnoli non sarà mai balneabile. E a tal proposito va sottolineato che quella di Coroglio è l´unica spiaggia a disposizione dei napoletani.
Di fronte alle predette provocatorie dichiarazioni di Santangelo, che ostenta un estetizzante disinteresse per la salute pubblica e non sembra rendersi conto che il vicesindaco dovrebbe essere il garante dell´attuazione del piano regolatore, le Assise di Palazzo Marigliano hanno approvato all´unanimità un ordine del giorno in cui si chiedono le sue dimissioni dalla carica di vicesindaco di Napoli.