"Ora togliete le colonne di plastica"
Carlo Alberto Bucci – la Repubblica, ed. Roma, 2 settembre 2007
La festa dei vip è finita da mesi, ora è tempo che anche le colonne di Valentino lascino il tempio di Venere e Roma. «Ho dato da tempo disposizione ufficiale di procedere alla loro rimozione», la risposta secca del Soprintendente Angelo Bottini. Che per domani attende l’arrivo degli operai dello scenografo Dante Ferretti, o di quelli della maison di Valentino: dovranno smontare i luminosi cilindri in vetroresina dal podio dell’edificio sacro che s’affaccia sul Colosseo. Proprio la base del tempio - sulla quale hanno banchettato i 400 invitati nella cena di luglio - è del resto al centro degli indispensabili interventi di consolidamento per contribuire ai quali Valentino ha donato 200mila euro. Criticato dall’ex soprintendente La Regina per l’mpatto sul monumento antico (che non è accessibile al pubblico), il colonnato è stato difeso dall’archeologo Carandini, «a patto che sia tolto in tempi ragionevoli». Lo stesso Bottini pose un limite all’uso del tempio che dal ministero gli era stato chiesto di concedere: «Sì, solo perché è per un evento eccezionale, irripetibile ...».
Ai Fori restano le false colonne fino a ottobre
Renata Mambelli – la Repubblica, ed. Roma, 7 settembre 2007
Per ora restano. Le colonne in vetroresina che fanno bella mostra di sé sopra i ruderi del Tempio di Venere, in faccia al Colosseo, non saranno smantellate con la fine dell’estate, come aveva dichiarato il ministro dei Beni Culturali Rutelli. Nonostante le polemiche suscitate e la richiesta di rimozione del sovrintendente Bottini, l’installazione curata dallo scenografo Dante Ferretti nata come sfondo per la cena di gala per i 45 anni della maison di Valentino verrà prorogata. «Si andrà avanti sicuramente per tutto settembre, forse fino ai primi di ottobre», ci spiega la dottoressa Silvana Rizzo, consigliere culturale del ministro, che anticipa anche nuovi eventi che si terranno nella cornice delle colonne: sono in programmazione per gli inizi di ottobre due o tre incontri aperti al pubblico, a numero chiuso, con i più illustri studiosi che stanno lavorando ai restauri del Palatino.
«Non capisco perché tante polemiche sulle colonne del tempio di Venere», continua la dottoressa Rizzo, «Si tratta di una scenografia, tra l’alto di un premio Oscar, che si presta al gioco di far vedere com’era un tempio nell’antica Roma. Durante questi mesi abbiamo avuto molti apprezzamenti, su richiesta sono state tenute diverse visite guidate. Fare un allestimento così solo per una serata sarebbe stato uno spreco di denaro, in questo modo si è offerto qualche cosa a tutti i romani». Quanto ai lavori di consolidamento e agli scavi nell’area del tempio, ai quali Valentino ha contribuito con 200 mila euro, se non sono iniziati non è colpa delle colonne di Ferretti: «Per gli scavi, che saranno condotti dall’Università La Sapienza in collaborazione col Ministero dei Beni Culturali e con la Sovrintendenza, bisogna aspettare l’erogazione dei fondi», spiega ancora la dottoressa Rizzo, «non se ne parlerà prima dell’inizio dell’inverno». E poi, aggiunge, «possibile che con tutti gli orrori che ci sono ai Fori Imperiali, compresi i falsi gladiatori e i furgoni abusivi e no che vendono panini, quello che sembra dare più fastidio siano proprio queste colonne in vetroresina?»
La breve nota di domenica scorsa sembrava quasi scontata, nella sua ragionevolezza, una “non” notizia, appunto: finita la festa, anzi la “celebration”, spentisi gli echi accortamente rimbalzati per giorni e giorni sui media di mezzo mondo delle crapule di vipperie e politicanti assortiti, come si conviene, occorrerebbe “sparecchiare”. In questo caso, alle desuete regole di educazione e buon gusto, si aggiungevano, en passant, le determinazioni del responsabile istituzionale dell’area in oggetto, il Soprintendente Archeologo di Roma. Ma si sa, viviamo in tempi di flessibilità giuridica e relativismo culturale latamente inteso: l’opinione dell’attuale Soprintendente, di quello precedente e di un cospicuo e sempre più perplesso numero di studiosi non solo nazionali è sembrata forse frutto di rigidità burocratiche un po’ bacchettone. Così appare per lo meno dal tono di quasi disarmante meraviglia che traspare dalle dichiarazioni riportate della consigliera Rizzo, talmente risibili nei contenuti culturali e nell’innocente inconsapevolezza dei meccanismi istituzionali da suscitare, lì per lì, solo un sorriso distratto e indulgente nei confronti dell’evidente stress da rientro postvacanziero.
Non ad altro si potrebbero addurre le analogie acrobatiche fra Dante Ferretti e l’architetto del tempio di Venere, gli involontari ossimori degli “incontri aperti” a “numero chiuso”, la trasmutazione degna delle migliori alchimie di un evento di marketing commerciale divenuto operazione didattica di successo. A ulteriore scusante della consigliera (che, è noto, è mestiere ingrato, di incerti destini e labili contorni tematici) si può d’altro canto aggiungere la consacrazione delle celebrazioni valentiniane ad opera del Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma che nella prefazione culturale al catalogo della kermesse in Ara Pacis abbina il sarto di Vigevano allo scultore augusteo: “due classicità a confronto” (sic!).
E se le colonne in vetroresina, pare di capire che, forse, fra un mese, verranno rimosse, l’allestimento di decine e decine di manichini che circondano l’altare romano si prolungherà ancora almeno fino alla fine di ottobre, soffocando fin quasi all’asfissia il monumento, ormai divenuto accessorio e incongruo, con chilometri di chiffon e quintali di paillettes e perline (come quelle dei conquistadores…) e nascondendo per mesi parte dell’apparato didattico (il plastico e le copie di ritrattistica giulio-claudia).
La sortita settembrina, però, ad un occhio attento rivela anche altri elementi: ad esempio inaugura un nuovo stile di comunicazione ministeriale, più rilassato (in ogni senso), per cui le iniziative del Mibac relative alla più famosa area archeologica mondiale sono anticipate e pubblicizzate a mezzo stampa anche se in contrasto con quanto stabilito dal supremo responsabile della tutela dell’area stessa.
E che stile: quelle poche righe sono davvero un concentrato di equivoci e ambiguità forse non del tutto inconsapevoli, come quella di accreditare a Valentino, novello mecenate, la sponsorizzazione dei restauri e degli scavi archeologici. In realtà i 200.000 euro (pagabili in comode rate diluite in molti mesi) sono il prezzo stabilito per l’uso privato del monumento e del sito, cifra che, considerati i tempi dilatati (ma nel contratto non erano stabilite date certe?) e il ritorno mediatico ottenuto, si può a pieno titolo dichiarare come molto modesta. Ad una cena privata con celebrità di vario conio e origine erano funzionali le colonne di Dante Ferretti, non certo ad una ricostruzione filologica per visite didattiche. All’opposto, il perdurare dell’allestimento avrebbe richiesto una adeguata segnalazione di segno contrario, ai visitatori ignari e spesso sconcertati.
E al limite del comico, infine, appare il parallelismo fra il colorito teatrino di gladiatori e ambulanti che circonda i luoghi della romanità per il sollazzo e il dileggio dei turisti e le scenografie allestite al tempio di Venere sulla base di accordi istituzionali sottoscritti al massimo livello di responsabilità istituzionale.
Di fronte a simili enfatiche smargiassate mediatiche, contrabbandate per operazioni culturali, seppur mitridatizzati dall'ossessivo e stucchevole ritornello del "bene culturale come risorsa", riaffiorano alla memoria le parole, fastidiosamente attuali, di Cederna sarcastico censore dell'uso retorico e superficiale della romanità che bollava come inequivoco sintomo di: "ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico" (Mirabilia Urbis, X). m.p.g.
Sulle "Valentiniadi" in eddyburg
Sul Parco di Tormarancia incombe una colata di cemento di 400 mila metri cubi. La conferenza dei servizi che deve decidere è convocata per martedì 19. «Se passa sarà come stare a Copacabana...», scherza un abitante dei palazzoni costruiti già a Grotta Perfetta, sul versante sud dei duecento ettari del parco. Il residente si riferisce a una sfilata davvero sconcertante di ben undici palazzoni che devono sorgere accanto a via di Grottaperfetta, a sette metri di distanza (tanto è larga la strada) dal limite del parco: undici palazzi alti sette piani (due si fermano a sei), per uno sviluppo complessivo di 27 metri in altezza. Copacabana, appunto.
Sembrano una vendetta, per tutta la storia di Tor Marancia: non è stato possibile «colare» quattro milioni di metri cubi di cemento com'era previsto dieci anni fa nel progetto della giunta Rutelli e dell'assessorato Cecchini, quel piano è stato bloccato e al suo posto è nato un parco di 200 ettari che ancora non è stato però minimamente messo a punto e che giace lì abbandonato a sé stesso, ma ora ecco la beffa. Per fare Tormarancia sono state concesse «compensazioni» edilizie ai proprietari dei terreni e ai costruttori che sono state spalmate su tutta Roma e che sommate superano la cifra iniziale di metri cubi previst, sfondando ora il tetto di 4,1 milioni. Di questi metri cubi ben 400 mila sono state piazzati però a Grotta Perfetta, a ridosso del Parco, talmente a ridosso che di più non si poteva. E sono stati sistemati in modo molto forte ed evidente, tra ciò che resta del Forte Ardeatino e via Ballarin dove preesisteva la recente urbanizzazione con palazzi residenziali consistenti. La «colata» prevede anche un'area centrale destinata a un centro civico.
Lì dunque, dove finora c'era un'area a verde con alcune «sussistenze» di epoca romana (sono stati trovate alcune tombe romane durante gli scavi preventivi, vicine a un tratto dell'antica via Laurentina e ai resti di un mausoleo in laterizi), insomma una fetta di agro ancora incontaminata e suggestivamente ricca di memorie, ma già destinata fin dal piano regolatore degli anni sessanta ad edificabilità, sorgerà un insediamento abitativo per tremila abitanti che prevede 280 mila metri cubi di immobili residenziali e 120 mila metri cubi di immobili non residenziali. In tutto 400 mila metri cubi che rappresentano un decimo di quanto inizialmente previsto, una quota che si farà vedere come un vero pugno nell'occhio.
«Siamo tutt'altro che contenti - spiega Annalisa Cipriani di Italia Nostra che con altre associazioni ha partecipato alla lunga discussione sulla «compensazione» in questione - . Nel percorso di mediazione abbiamo tentato di far slittare indietro quel waterfront di cemento così pesante che incombe sul verde del Parco. Ma forse non abbiamo fatto tutto quello che dovevamo...».
Tutta l'operazione è stata seguita in prima persona dall'assessore all'urbanistica Roberto Morassut, la soluzione delle «compensazioni» rischia però di comportare non solo a Grotta Perfetta ma in tutta la cintura uno scotto molto duro da pagare. Pe Tormarancia alla Magliana sorgeranno 650 mila metri cubi, a Prato Smeraldo 340 mila, a Muratella 645 mila, a Massimina 618 mila, a Colle delle Gensole 221 mila, a Torrino sud 59 mila, sulla Pontina 70 mila, al km 13 dell'Aurelia 248 mila, a Prima Porta 100 mila, a Tenuta Rubbia 180 mila, all'Olgiata 120 mila, alla Bufalotta 99 mila, al Divino Amore 142 mila e a Fontana Candida 200 mila. Tutto per un parco che ancora non c'è...
La mobilità urbana (di uomini e merci) è la circolazione del sangue che tiene in vita il corpo di una città. Ma, parlando di Milano, la prima cosa che viene da chiedersi è: quale circolazione? E quale città? Se circola sangue malato, come quello di chi continua ad affidare la maggior parte degli spostamenti all’auto privata (il mezzo più inquinante, più costoso, più pericoloso, quello che occupa più spazio e che ne sottrae di più alle funzioni vitali degli umani), il corpo deperisce, se non altro per i troppi veleni trasportati. Se la pressione esercitata dal traffico automobilistico sulle arterie della città è eccessiva, le conseguenze sono ictus e infarto.
L’ictus, che colpisce il cervello, è già arrivato. Milano non ha più, e da tempo, una testa pensante. A quale progetto, o modello, o idea di città pensino – se pensano – gli amministratori di Milano non è dato sapere. L’infarto è alle porte e ogni giorno le sue avvisaglie si manifestano in qualcosa che non torna a causa di provvedimenti estemporanei, scoordinati e contraddittori. Il ticket di ingresso – se verrà istituito – dovrebbe ridurre il numero di auto che entrano in città. Ma le sue motivazioni sono diverse: non è una tassa sulla congestione, come a Londra, dove ha avuto successo, ma un modesto balzello, che sull’inquinamento avrà scarsi effetti.
Contemporaneamente si abbattono alberi, si distruggono monumenti e si scavano buchi per "ospitare" e fare arrivare in città più auto. Si dipingono strisce gialle e blu, che teoricamente raddoppiano gli oneri di chi usa l’auto per spostarsi in città, ma poi, per non urtare l’automobilista-elettore, non si elevano contravvenzioni nemmeno a chi posteggia in doppia e tripla fila. Si riducono ai minimi termini le vie pedonalizzate per non turbare i commercianti e poi si bloccano per anni intere zone con cantieri che non finiscono mai. Si fa pagare l’ingresso a chi entra "in città" e poi si aumenta il prezzo dei biglietti per chi arriva da fuori Milano. Il fatto è che per far vivere Milano, come qualsiasi altra città, occorre ridurre drasticamente la circolazione delle auto private. Servono tutte le misure che vanno in questa direzione, purché coordinate tra loro. Fanno danno tutte quelle che tendono ad aumentare il numero delle auto.
Ma poi, di quale "corpo", cioè di quale città si parla? L’hinterland di Milano è come gli arti di un corpo che senza di essi non potrebbe vivere. Pensare di curare il tronco a scapito degli arti non è un’operazione sensata. Eppure è quello che il sindaco Moratti continua a cercare di fare per salvaguardare il "suo" elettorato. Affrontare l’inquinamento, la mobilità, la localizzazione delle funzioni urbane su basi simili dimostra una totale incapacità di pensare la città. D’altronde il sindaco Moratti, al Meeting di Rimini, quando le hanno chiesto a chi o a cosa pensava, ha dichiarato: «Parlavo in modo ampio e non pensavo a nessuno». Esatto.
«Invece di spendere tanti di quei soldi per ripavimentare via dei Fori Imperiali, così da renderla ancora più scorrevole, quasi fosse una autostrada urbana, perché non approfittiamo della cantierizzazione per chiuderla definitivamente al traffico automobilistico?». A lanciare la provocazione, è il presidente del Municipio X, Sandro Medici. «È davvero desolante - prosegue la nota - che una amministrazione così intelligente come la nostra non trovi il coraggio e la lungimiranza per realizzare il semplice ma straordinario progetto dì restituire al Parco archeologico dell'Appia Antica la sua sorgente naturale che è il Colle del Campidoglio. Ci si inorgoglisce per il ritrovato prestigio internazionale di Roma, per la capacità attrattiva di flussi sempre maggiori di turismo, e poi si resta inchiodati a una mentalità provinciale e politicamente modesta, che assegna al modello automobilistico la sua intoccabile centralità». La questione se chiudere o meno al traffico via dei Fori Imperiali è del resto cavalcata da anni da Legambiente Lazio. «Via dei Fori Imperiali andrebbe chiusa al traffico. Noi lo andiamo dicendo da almeno 10 anni - ricorda il presidente Lorenzo Parlati - D'altronde è ormai noto il grande successo che riscuotono le domeniche ecologiche proprio su via dei Fori».
Postilla
Ai più fedeli lettori di eddyburg , l’appello di Sandro Medici per la chiusura di via dei Fori Imperiali apparirà fin quasi scontato e la buona fede del suo autore lo è altrettanto. Quasi una “non-notizia”, degna della penuria mediatica ferragostana, se non fosse per la fonte giornalistica che, ospitando la proposta in forma asseverativa, ne sposa le tesi.
Fu sempre d’agosto, ma di qualche anno fa - il 1979 - che Il Tempo cominciò una campagna stampa dai toni violenti e non aliena da attacchi ad personam contro quello che si andava configurando come il progetto Fori, ovvero sia l’idea di un grande parco archeologico che da Piazza Venezia si allargasse a comprendere i fori imperiali e, oltre il Colosseo, tutta l’Appia Antica incuneando, nel centro storico capitolino, un’oasi di natura e cultura. Snodo del progetto lanciato da Leonardo Benevolo e ripreso, fra gli altri, da Adriano La Regina, allora neosoprintendente archeologico a Roma, Italo Insolera e soprattutto Antonio Cederna, doveva essere, appunto, la rimozione di via dei Fori Imperiali. In un articolo de Il Tempo dell’11/8/1979 a firma di Bruno Palma il progetto è definito via via “utopia”, “ipotesi bizzarra”, “amabile sciocchezza”: sarà l’inizio di un’opposizione durissima che vedrà succedersi, con livelli a volte di scarsa eleganza (Antonio Cederna denominato A. Sedere, in un articolo del 15/2/1981, a firma Alcindoro), sulle colonne del quotidiano romano, non solo giornalisti della testata, ma molti accademici e soci del circolo dei Romanisti, fra i quali Ettore Paratore e Massimo Pallottino.
Il progetto che troverà nel sindaco Luigi Petroselli il suo più entusiasta e tenace protagonista politico, raggiungerà l’acme del consenso popolare probabilmente con le chiusure domenicali di via dei Fori Imperiali, inaugurate il 1° febbraio 1981 (e quindi qualche anno prima dell’attivismo oggi rivendicato da Legambiente…) per arenarsi gradatamente ma inesorabilmente una volta scomparso Petroselli, il 7 ottobre 1981.
Gli anni passano, le mamme invecchiano, le opinioni mutano. Da qualche mese è stata istituita la commissione mista Stato- Comune che dovrebbe elaborare una proposta per il “riassetto dell’area archeologica centrale”: ai suoi componenti eddyburg , in questo periodo di sosta vacanziera per convenzione dedicato alle letture, propone una selezione di documenti su quelle vicende, perché in tempi di svagata memoria e storia flessibile, qualche testo, seppur dichiaratamente e appassionatamente di parte, può non essere inutile. (m.p.g.)
Sul tema, in eddyburg gli articoli diMauro Baioni, 07/07/2006 , di Vezio De Lucia, 26/08/2006 - 17/06/2007 e di Maria Pia Guermandi, 23/05/2005 - 29/03/2007
«Gli scempi aumentano con progressione geometrica, la situazione è uscita da qualsiasi controllo e accentua la divaricazione tra amministratori e amministrati». Gli ultimi due casi, il progetto di villaggio turistico ai piedi del borgo medievale di Campiglia Marittima e il piano di ampliamento dell’aeroporto senese di Ampugnano, spingono Alberto Asor Rosa ad una nuova, durissima, presa di posizione. E’ un attacco frontale alle amministrazioni locali, accompagnato da richieste precise. Al ministero del beni culturali, Asor Rosa - che parla a nome della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio - chiede di porre il vincolo come è stato fatto per Monticchiello in modo da scongiurare la «villettopoli» di Campiglia Marittima. Alla Regione e alla Provincia di Siena, il leader dei comitati chiede di intervenire per evitare «lo scempio dell’inutile aeroporto di Ampugnano».
Fanno impressione i toni forti dell’intervento, che mostrano allarme da ultima spiaggia e rabbia da promesse tradite. «Gli scempi territoriali e urbanistici aumentano in Toscana con progressione geometrica, producendo effetti devastanti» esordisce lo scritto del leader del movimento. «Non si tratta più di casi isolati, come fino a qualche mese fa ci si era proposti di far credere, allo scopo di circoscrivere la protesta. Si tratta invece di una catena quasi ininterrotta di eventi, testimonianza di un’aggressione spietata, che non trova ostacoli, anzi spesso collusioni e appoggi, nelle amministrazioni locali». Ciò che ha fatto sobbalzare sulla sedia il professore, sono «gli ultimi due casi emersi in questi giorni». Quello di Campiglia Marittima e l’altro di Ampugnano, appunto, che per il professore sono «scempi» progettati che vanno assolutamente evitati.
Il primo caso, quello di Campiglia Marittima - ricostruisce Asor Rosa - appartiene alla classe dei fenomeni degenerativi, che il ministro dei beni culturali, Francesco Rutelli, ha recentemente definito "villettopoli". Si tratta infatti di un progetto per la realizzazione di 51 mini appartamenti in grado di occupare, con i servizi, ben più di 25.000 metri quadrati del tutto visibili dall’antica Rocca di Campiglia, il quale rappresenterebbe un intollerabile lesione di un territorio assolutamente prezioso e da conservare totalmente; anche per la sovrastante presenza dell’altra Rocca di San Silvestro». Il leader dei comitati boccia anche il progetto di ampliamento dell’aeroporto di Siena. «Il caso dell’aeroporto di Ampugnano - afferma infatti Asor Rosa - appartiene al novero delle così dette grandi opere d’interesse pubblico il cui effetto in realtà è di apportare benefici nulli e di provocare inauditi disastri ambientali. La vicenda genera legittime preoccupazioni nella popolazione locale che rischia di subire passivamente la mercificazione del proprio territorio in nome di interessi non condivisi».
Giudizi lapidari sui due progetti, ai quali Asor Rosa fa seguire una allarmata riflessione generale. «Di fronte al moltiplicarsi di fenomeni di tale natura - scrive il professore - lecita è la valutazione che siamo di fronte ad una situazione uscita da qualsiasi controllo. In tal modo si accentua la divaricazione ormai endemica tra amministratori e amministrati e fra politiche di bassa cucina e interessi strategici autentici dell’ambiente toscano e nazionale». Quindi, a nome della Rete toscana dei comitati, Asor Rosa chiede «il pronto intervento del ministero dei beni culturali, perché, come accadde opportunamente a Monticchiello, sia apposto il vincolo tale da impedire tempestivamente la creazione di una nuova "villettopoli"». E invoca «il pronto intervento della Regione Toscana e della Provincia di Siena, perché, tornando sugli orientamenti in qualsiasi modo già espressi, evitino lo scempio dell’inutile aeroporto di Ampugnano». Infine una promessa: «La Rete toscana è comunque impegnata a fare anche di questi due casi emblematici delle vere e proprie bandiere nazionali, da sostenere con i mezzi più efficaci dell’informazione e dell’agitazione».
GRIMALDI (VENTIMIGLIA) - «Intanto, diciamo che in quelle terre il principe Alberto non si è mai visto. Ma soprattutto il suo progetto potrebbe trasformarsi nel tradimento di quel patto che suo padre Ranieri strinse con gli eredi di Thomas Hanbury, e con il quale si stabiliva che le terre dei Grimaldi sarebbero state una sorta di cuscinetto di protezione dei giardini». Nico Orengo, scrittore torinese e responsabile dell´inserto Tuttolibri de La Stampa, rischia l´incidente diplomatico. Ma l´ideatore del premio Hanbury può permetterselo. Soprattutto perché di questo lembo di Liguria di cui parliamo è da sempre un appassionato difensore e sensibile narratore. Gli abbiamo chiesto cosa pensa dell´operazione immobiliare commissionata dal principe all´architetto veneziano Giampaolo Mar, che dovrebbe trasformare un´ex cava, nella frazione di Grimaldi, sopra i Balzi Rossi, sulle terre appartenenti dal 1200 al principato monegasco, in un complesso polivalente. Vocabolo proteiforme che, in questo caso, racchiude un albergo di lusso, parcheggio sotterraneo e residenziale, e annessa scuola di specializzazione in botanica legata ai confinanti giardini Hanbury.
«Prima di tutto - continua lo scrittore - bisognerebbe vedere il progetto nei dettagli. Se è misurato, se son case che non si vedono, se viene ripristinato il verde, se ne può discutere. Sicuramente in questa nuova proposta c´è meno residenziale che in quella presentata una decina di anni fa. D´altra parte mancava l´idea della scuola per giardinieri. Ma non vorrei che fosse una proposta civetta, una verniciata culturale per nascondere l´ultima ferita ad un tratto di Liguria dal valore inestimabile».
«Eppure - prosegue - il progetto di una scuola di botanica potrebbe essere affascinante ammesso che come ha detto al vostro giornale Giorgio Campodonico (direttore dei Giardini Hanbury, ndr) abbia tutti i servizi, sia rivolta ai grandi giardinieri che andranno a lavorare in tutto il mondo. Se l´obiettivo è quello, se si punta in alto, a farla diventare il primo centro di studi botanici d´Europa va bene, ma se è per gente che andrà a curare aiuole grandi come uno sputo...».
Il direttore degli Hanbury ha detto di non sapere nulla del progetto. «Io mi auguro - commenta Orengo - che sia coinvolta l´università di Genova. E poi sono di nuovo d´accordo con Campodonico quando dice che se il principe farà "dono" ai giardini del terreno franoso, allora può pure tenerselo».
I dubbi e i sospetti di Orengo di fronte al progetto Grimaldi nascono dalla sua antica conoscenza di quei luoghi e dei suoi abitanti. «Ultimamente - spiega - in quell´ultimo tratto di frontiera è in corso un vero e proprio attacco. A Latte con la costruzione di case sul rettilineo, a Mortola con costruzioni all´interno di un vecchio uliveto. C´è una colata di cemento che fa impressione. Purtroppo quello è un territorio avulso da Ventimiglia. C´è sempre stato un rifiuto da parte della città, degli abitanti e degli amministratori. La si considerava una zona di elite, si diceva che "lì ci pensano gli Hanbury". Non capiscono che patrimonio possiedono grazie ai giardini».
Orengo sottolinea come degrado e speculazione siano strettamente correlate. «Il disinteresse di Ventimiglia per la zona dei Balzi Rossi e di Grimaldi si manifesta anche nel degrado dell´area. Vicino alla pineta i francesi vengono a scaricare la loro immondizia, calcinacci, vecchi serramenti. Da loro non possono farlo ma di qua non c´è controllo. Più il territorio si degrada e più viene giustificato il cemento».
Il discorso, inevitabilmente, si allarga. «E poi c´è la questione del porto» quello che vorrebbe realizzare Beatrice Cozzi Parodi, presidente della Camera di Commercio di Imperia. Un primo progetto che insisteva su una scogliera è stato fermato, temporaneamente. «Su questa zona bellissima e fragile si addensano dei carichi - dice Orengo - che senza un equilibrio possono provocare un disastro. Resto stupito di fronte a questa smania di costruzioni e porticcioli. Visto che a terra non c´è più posto si edifica in mare invece di pensare seriamente a recuperare l´entroterra. Ma abbiamo davvero bisogno di tutti questi posti barca, sono tutti così ricchi? E poi va bene qualche porto, ma c´è modo e luogo. Quello a Ventimiglia proprio no».
A margine della polemica sulle “Valentiniadi”, ecco un commento per eddyburg. Fra i tanti guai che affliggono il nostro patrimonio culturale questa vicenda dell'allestimento bolliwoodiano del tempio di Venere e dell'invasione dell'Ara Pacis per le “Valentiniadi”, non sembrerebbe, a prima vista, fra le più pericolose e urgenti. In fondo che male c'è ad integrare gli asfittici bilanci di un Ministero economicamente esangue con qualche introito aggiuntivo lucrato a privati ben provvisti? Non è davvero tempo di purismi sdegnosi, questo.
E infatti non è questo il punto. La concessione a pagamento di spazi pubblici a privati avviene da anni ed è stata regolamentata dalla legge Ronchey, seppur molto parzialmente. E in moltissimi casi questa pratica è servita a tamponare reali emergenze (anche primarie) nella gestione di sedi culturali prestigiose, senza che i monumenti interessati ne subissero danno alcuno, neanche di immagine.
Ma che questa iniziativa sia contrabbandata non come un'integrazione di bilancio, ma come vera e propria operazione culturale, è strategia mediatica non priva di pericolosità culturale in quanto indizio di quel progressivo e ipocrita slittamento semantico cui è condotto il parallelismo “bene culturale come risorsa” reiteratamente espresso, nelle sue varianti sinonimiche (volano, asset, incentivo, ecc.), sulle cronache degli ultimi mesi/anni.
E speriamo davvero che siano imputabili al caldo e alle stanchezze estive i peana unanimi dei nostri più alti rappresentanti politici arrivati a dichiarare che “la moda è il nostro più alto punto di riferimento” (sic! la Repubblica, ed. Roma, 7 luglio 2007, omissis dell'autore per carità di parte).
Quanto a Valentino, con questo accorto mélange di haute couture, scenografi hollywoodiani (Dante Ferretti) e frammenti d'antico, si accredita esso stesso come creatore di beni culturali del 3° millennio con un ritorno di immagine a livello mondiale (dalle tv nazionali al Wall Street Journal) che decuplica, a dir poco, il valore mediatico dell'iniziativa rispetto all'investimento di 200.000 euro, per di più, parrebbe, devoluti in rate dilatate nel tempo e per un allestimento, nelle due sedi del tempio di Venere e dell'Ara Pacis, che si prolungherà, complessivamente, per parecchi mesi.
Che poi simili carnevalate possano in qualche modo attirare un'attenzione “virtuosa” sul tempio preso “a nolo”, e quindi provocare di riflesso contraccolpi positivi, è negato dall'evidenza dei media che hanno riservato tutte le loro attenzioni all'esatta enumerazione dei vip presenti e non certo ad una seppur corsiva illustrazione del monumento antico.
E viene da sorridere ripensando allo spirito stesso del recente Codice dei beni culturali, infarcito in ogni rigo, in ogni virgola, di cautele e di paletti nei confronti degli enti pubblici altri (Regioni in primis) sospettati, a prescindere, di saper organizzare solo operazioni di valorizzazione culturalmente lacunose laddove non indirizzate e sorvegliate dalla competenza ex machina del Ministero. Ci piacerebbe davvero risalire alle “linee guide” che hanno guidato l'auctoritas ministeriale nel concedere (e propagandare come fatto culturale per bocca del suo più alto rappresentante...) l'allestimento di un duplice colonnato di vetroresina e di una statua di 6 metri 6 nel tempio di Venere e della selva di manichini che incombe quale “processione pagana” (sic!) a ridosso dell'Ara Pacis. Quest'ultima divenuta ormai un mero accessorio per iniziative di ogni tipo che si trovano così accostate, nell'involucro di Meier, ad un logo di lusso che conferisce ad oggetti ed eventi una patina culturale.
Un Ministero che, nello stesso tempo, mentre si dibatte in una perenne paralisi (dis)organizzativa, frutto dell'ennesima riforma combattuta proprio in queste settimane nei corridoi del Collegio Romano, fra scambi di casacche e sibilar di coltelli, è pronto a stroncare o a lasciar cadere qualsiasi operazione di cooperazione Stato-Regione-privati ove leda, anche tangenzialmente, interessi di consorterie assortite e consolidate nel tempo da una ignavia politica i cui risultati stanno diventando sempre più evidenti in termini di smagliature del nostro sistema complessivo della tutela.
Nonostante questo, occorre sottolinearlo, i risultati faticosamente conseguiti da tanti operatori “sul campo” non mancano, sia in termini di salvaguardia del patrimonio (si veda la battaglia per l'Appia cui eddyburg dedicherà una sezione apposita), sia di valorizzazione dello stesso patrimonio: per rimanere in ambito archeologico e in questi stessi giorni, basta ricordare la straordinaria mostra sui Balkani del rinnovato Museo di Adria, dedicata al periodo di Halstatt e l'inaugurazione del bellissimo ed evocativo Museo narrante dell'Heraion alla foce del Sele. Eppure non ci risulta che il Ministero abbia profuso grandi energie per propagandare simili eventi, organizzati, fra mille difficoltà, dalle sedi "periferiche". Forse dipende dalla loro location, mediaticamente poco spendibile. E poi si sa, le nostre romane antichità hanno sempre goduto di un'attenzione particolare, sin dai tempi dell'oratore di Palazzo Venezia.
Così, alla fine, in questa nostra postmodernità liquida e virtuale, non è più Las Vegas che riproduce attraverso factices approssimativi i monumenti della romanità, ma, nel cuore del Palatino, l'archeologia romana che si traveste da Las Vegas. E, anche in questo caso, si compie quello che Jean Baudrillard, nella sua inquietante analisi, aveva anticipato e definito come “il delitto perfetto”.
E pensare che, in fin dei conti, stiamo parlando dei prodotti commerciali, seppur fascinosi ancorchè costosissimi, di un sarto neanche particolarmente innovativo nel suo settore.
Ai responsabili ministeriali che hanno avvallato l'operazione, compreso il privatissimo convivio per celebrities mondane di recente conio organizzato nella cella del tempio, sarebbe stata sufficiente una adeguata dose di buon gusto, così come avrebbe sentenziato Oriane de Guermantes, che di glamour se ne intendeva.
A distanza di un anno dall'insediamento dell'Amministrazione è giunto il momento di affrontare i problemi della politica urbanistica a Savona. Le decisioni in merito alla pianificazione territoriale dovranno fornire delle risposte concrete e sostenibili per il futuro assetto urbano della città, per la mobilità e per la qualità della vita dei cittadini.
Il rapporto tra pubblico e privato è oggi il cardine per lo sviluppo della realtà savonese, e nel campo della pianificazione territoriale tale rapporto è ancora più determinante che in altri settori. L'urbanistica infatti rappresenta un forte potere che si traduce in grandi responsabilità nei confronti della collettività, condizionando in modo rilevante l'economia locale e l'impiego delle risorse della società e del territorio.
Le trasformazioni della città, per il significato che hanno, per gli interessi sociali coinvolti, per le prospettive del futuro che possono aprire, devono essere quindi attribuite, e gestite dall'Amministrazione comunale con il vincolo di favorire l'interesse collettivo. Occorre affermare con chiarezza che il principale soggetto di attenzione nella pianificazione e progettazione della città deve essere il cittadino e la qualità della vita urbana, e non la proprietà immobiliare e gli interessi a essa collegati.
Non occorre peraltro demonizzare la rendita immobiliare (fondiaria o edilizia) ma occorre essere consci che questa è il frutto del lavoro, delle decisioni e degli investimenti - attuali e storici - della collettività e come tale deve essere considerata: un mezzo per migliorare la qualità della vita e dell'economia e non un fine da perseguire a vantaggio di pochi. Le valorizzazioni immobiliari e l'attività edilizia derivante da queste non devono essere il solo motore dell'economia locale: la collettività savonese deve trovare la forza di ideare e mettere in pratica scenari di sviluppo alternativi alla semplice costruzione di nuove volumetrie nelle residue aree pregiate del territorio comunale.
E da questo concetto che occorre ricominciare a ragionare sul rapporto tra pubblico e privato e decidere sul futuro di Savona, affrontando il tema della pianificazione territoriale con un approccio innovativo e democratico. Oggi sussistono le condizioni per fare questo salto di qualità e l'Amministrazione comunale è matura per interrogarsi sul futuro della città in modo critico e costruttivo al contempo.
Il PUC è senza dubbio il nodo principale da risolvere: l'obiettivo non è la sua approvazione in tempi rapidi a prescindere dai suoi contenuti ma la sua revisione in chiave innovativa secondo i principi appena esposti.
L'Amministrazione comunale e i cittadini savonesi devono prendere atto che il PUC in itìnere va revisionato partendo dalla riformulazione di un nuovo Documento degli obiettivi basato su una serie di studi e indagini tecnicamente e scientificamente commisurati alla rilevanza dei problemi da affrontare per il futuro. Tale revisione va maturata all'interno di un vasto processo partecipativo e prendendo come riferimento un modello urbano, un uso del territorio e una mobilità sostenibili, cosi come propugnati nella Carta di Aalborg, sottoscritta nel 2004 anche dal Comune di Savona.
Pur avendo come obiettivo primario la costruzione di un PUC sostenibile e adeguato alle esigenze della collettività, occorre trovare lo stimolo culturale e i mezzi operativi per cambiare rotta. Savona deve interrogarsi su quale scenario puntare la propria scom messa per il futuro, traguardando un ampio orizzonte temporale, e ai cittadini deve essere offerta la chance della condivisione delle scelte pianificatorie che assumerà l'Amministrazione comunale.
Lo strumento offerto dalla pianificazione strategica, nelle forme già consolidate in molte realtà italiane ed europee di fatto induce a effettuare quegli approfondimenti d'indagine e quegli studi propedeutici alle scelte pianificatorie che la legge urbanistica regionale non obbliga a eseguire nelle fasi di redazione del piano urbanistico generale.
Anche sotto l'aspetto partecipativo, una pianificazione strategica permetterebbe di fare emergere in modo più chiaro e trasparente gli interessi economici consolidati che spesso limitano e condizionano la possibilità di ricercare alternative di sviluppo a quelle già presenti sul territorio e garantirebbe il confronto tra tutti i portatori di interessi, cittadini inclusi.
L'ipotesi operativa consiste pertanto nell'avvio di un Piano strategico per Savona, in contemporanea con la revisione generale del Progetto preliminare del PUC con l'obiettivo di arrivare alla definizione di scenari strategici sostenibili e condivisi che dovranno naturalmente confluire nel nuovo Documento degli obiettivi del PUC. Il progetto politico e amministrativo appena illustrato ha senza dubbio le sue difficoltà operative e i suoi rischi ma ha l'indubbio vantaggio di essere un percorso di alto profilo e trasparente in ogni suo tratto.
Il Piano strategico va interpretato come un atto volontario di costruzione partecipata e condivisa di una "visione" per il futuro, ossia un processo democratico e creativo che risponde all'esigenza di orientare ciascun soggetto coinvolto, portatore di interessi ed esigenze diverse, verso obiettivi comuni, contribuendo a creare una visione della comunità locale e ridefìnendone l'identità economica, sociale e urbanistica.
Il dibattito e il confronto tra i soggetti coinvolti, se adeguatamente supportato da studi e indicatori attendibili che descrivano la situazione attuale della città permetteranno all'Amministrazione comunale di disegnare scenari strategici che favoriscano lo sviluppo socioeconomico della comunità savonese. Il Piano strategico dovrà altresì definire ed esplicitare obiettivi e strategie per conseguire detti scenari mediante specifiche politiche amministrative e specifici interventi pubblici e privati.
In quest'ottica il Piano strategico e la revisione del Progetto preliminare del PUC potranno essere gli strumenti con cui i principali attori della vita sociale, culturale, economica e politica di Savona costruiranno in concreto un progetto di sviluppo futuro.
Pur rimarcando ancora una volta la bontà dell'impostazione metodologica appena illustrata, non bisogna sottovalutare i rischi che tale programma comporta. L'adesione a un nuovo percorso pianificatorio quale quello proposto dalla pianificazione strategica può avere un significato democratico solamente nel caso in cui si raggiunga l'effettiva partecipazione della società e dei cittadini ai processi di formulazione e decisione.
Attuare un vero processo partecipativo in una città come Savona, garantendo l'uguaglianza tra i diversi soggetti e interessi, indipendentemente dalla loro diversa capacità contrattuale sarà la vera sfida politica di rinnovamento. Gli interessi imprenditoriali e immobiliari "forti" dovranno confrontarsi con gli interessi "diffusi" dei cittadini che vivono direttamente le scelte urbanistiche come abitanti o fruitori delle diverse parti della città.
Andranno evitate le scorciatoie costituite dall'enunciazione di facili ricette di sviluppo economico-edilizio da parte delle associazioni imprenditoriali e gli ostacoli rappresentati dagli spesso sterili dinieghi formulati da comitati sorti a difesa di particolari interessi: si dovrà ragionare senza pregiudizi della città e della sua condizione attuale, di quale città abbiamo bisogno e di quale città avranno bisogno i nostri figli.
Si dovrà giungere a delle regole metodologiche per la valutazione dei progetti che incideranno sulla città e sul territorio che garantiscano un giusto equilibrio tra interessi privati e interesse della collettività, evitando i pericoli della negoziazione con il privato senza alcuna forza contrattuale da parte della pubblica amministrazione, la deregolamentazione assunta come paradigma pianificatorio attraverso l'attivazione sistematica di procedure urbanistiche straordinarie e l'eccessiva complicazione formale dell'apparato normativo del PUC.
L'orizzonte temporale tra pianificazione, progetti e politica: lungo per il piano strategico e PUC (10-15 anni); corto per i mandati elettivi e per la realizzazione di progetti non dovranno essere visti come ostacoli. L'Amministrazione comunale deve poter puntare a obiettivi di medio e lungo termine e non solamente a quelli che possono essere realizzati nell'arco del mandato di governo.
Un PUC improntato a questi principi è l'obiettivo che l'Amministrazione comunale savonese deve traguardare, il Piano strategico può essere uno strumento per raggiungere tale obiettivo, le condizioni necessarie per avviare questo importante e innovativo processo democratico sono la coesione politica delle forze di governo, il rafforzamento della capacità di discussione e di indirizzo del Consiglio comunale, il diritto di rappresentanza degli interessi diffusi nelle scelte economiche e territoriali del Comune.
Con le premesse metodologiche appena esposte, vogliamo infine riassumere in pochi punti gli indirizzi generali per la pianificazione territoriale che impronteranno l'azione di governo nei prossimi mesi:
· affrontare con il Piano strategico e la completa revisione del PUC la pianificazione territoriale savonese;
· inserire la trasformazione urbana in una strategia complessiva sostenibile e condivisa;
· perseguire la sostenibilità sociale dello sviluppo mediante l'attuazione una politica redistributiva più equa delle rendite immobiliari a favore della città, a partire dai prossimi interventi edilizi di trasformazione urbana che sono già conformi agli strumenti urbanistici vigenti ;
· garantire la partecipazione dei cittadini nelle scelte di trasformazione urbana;
· accettare il cambiamento e aprire la città al nuovo mediante il confronto di scenari di sviluppo alternativi;
· incentivare la bioarchitettura, il risparmio energetico e l’utilizzo delle fonti di energie rinnovabili;
· scegliere lo sviluppo in modo consapevole.
Nota: sul caso del savonese qui su Eddyburg si veda anche questo articolo di Luca Urbinati (f.b.)
Da qualche tempo il magnifico paesaggio toscano è oggetto di conflitto tra gli abitanti che, organizzati in comitati, ne difendono integrità e valori, e imprese, quasi sempre d'accordo con le istituzioni locali e regionale, che propongono trasformazioni sempre più impegnative in nome «delle esigenze dello sviluppo» turistico e commerciale. Da più parti si è segnalato che la Regione Toscana, pure dotata di una normativa avanzata di governo del territorio, presentava al contrario strumenti di tutela e affermazione dei valori paesaggistici piuttosto inefficaci, spesso vani rispetto alle dinamiche socioterritoriali attuali a forte consumo di suolo e ambiente. Non sorprende allora il proliferare dei vari casi Monticchiello, Val di Chiana, etc. che ha costretto le cittadinanze di oltre un centinaio di comuni toscani a formare un coordinamento per la tutela, che vede tra i suoi promotori Alberto Asor Rosa, insieme a tecnici, studiosi, ambientalisti, intellettuali e attori locali.
Un'ostinata difesa delle prerogative dei sindaci, trasformati in «governatorini» che devono assolutamente mantenere un fortissimo quanto discrezionale potere sull'intero territorio comunale e non possono tollerare aree di incertezza, pure dovute alle leggi di tutela del paesaggio. Le quali invece - appunto ex costitutione - prevedono competenza statale, unica per determinati aspetti e condivisa per altri con le Regioni. La Toscana ha di fatto contestato questo. Con l'aggravante che troppo spesso quei sindaci che storicamente rivendicavano la propria autonomia con il rappresentare le istanze della comunità oggi sono «troppo prossimi» ad interessi imprenditoriali che poco o punto hanno a che vedere con le domande sociali dei contesti.
La materia è stata oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale, che nel maggio 2006 aveva addirittura annullato la parte di legge urbanistica toscana riguardante il paesaggio. Fornendo consistenza e spessore giuridico alle critiche che da più parti arrivavano rispetto all'ostinazione della Regione a non voler redigere un vero piano paesaggistico regionale - o almeno, come previsto dalla norma in subordine, un piano territoriale paesaggistico in cui quest'ultima valenza sia «individuabile, marcata e determinante». Si sono allargati invece disinvoltamente al paesaggio contenuti e competenze della pianificazione ordinaria, provinciale e comunale; anche con problematici tentativi di interpretazione di elementi specifici della ricerca scientifica e disciplinare che ne risultavano banalizzati e spesso strumentalizzati a destinazioni affatto diverse da quelle per cui erano stati formulati.
Di recente la Regione ha operato un parziale aggiustamento delle conseguenze della sentenza costituzionale attraverso un'intesa con il governo e, per esso, con il ministero dei Beni culturali. In questo quadro, pur mantenendo la singolarità toscana dell'attribuzione ai piani ordinari delle valenze paesaggistiche, si dichiara di voler rispettare le direttive dei codici tramite meccanismi di adeguamento e integrazione dei contenuti negli apparati tecnici e metodologici degli strumenti territoriali.
Un gruppo di urbanisti di Firenze, coordinati da Alberto Magnaghi e Paolo Baldeschi, hanno a questo proposito avanzato osservazioni al Piano di indirizzo territoriale regionale, da cui dipendono tutte le strategie di governo del territorio ed evidentemente i progetti di livello più basso. Gli studiosi hanno sottolineato l'importanza di individuare le varianti strutturali, da tutelare e valorizzare secondo criteri e regole dettati da statuti del territorio elaborati in maniera consistente. Tenendo distinto tale patrimonio, contrassegnato da presenza di valori «intrinseci o verticali», dalle parti di territorio a più alta densità trasformativi da strategie di sviluppo socioeconomico.
Le buone intenzioni contenute nel Protocollo Governo-Regione e negli stessi rilievi degli urbanisti fiorentini rischiano però di essere vanificate dalle carenza dello strumento programmatico attorno a cui dovrebbe ruotare tutto. Il citato Pit è infatti poco più che uno schema di piano strategico, ovvero di ipotesi di consolidamento territoriale di una serie di comparti dell'economia regionale; praticamente mancante delle dotazioni iconografiche e rappresentazionali indispensabili per individuare, interpretare e gestire le particolarità del patrimonio culturale ed ambientale. Gli Ambiti di paesaggio, la cui determinazione è fondamentale per le politiche di tutela e valorizzazione, sembrano tratti da testi di geografia elementare e corrispondono praticamente ai contesti toscani descritti da qualsiasi guida turistica, con i relativi quadri conoscitivi ridotti a poche decine di righe.
Il mantenimento delle competenze paesaggistiche integrato alla strumentazione territoriale, ovvero un vero piano almeno a valenza paesaggistica, in primis a livello regionale, presupporrebbe un impegno innovativo nella costruzione della relativa documentazione, da cui oggi in Toscana si è lontanissimi. Il quadro resta allora assai carente e contraddittorio. E le uniche garanzie per la tutela e valorizzazione del patrimonio possono giungere dal consolidarsi della partecipazione, anche conflittuale.
Gentile signora Letizia Moratti, sindaco, una decina di giorni orsono Ella ci ha invitato alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale: voleva illustrarci il percorso pensato per condividere con i cittadini le scelte urbanistiche che avrebbero dato corpo al Piano di governo del territorio. Partecipare e condividere le scelte sembravano essere le parole d’ordine. Nemmeno una settimana dopo Ella c’informa di aver deciso l’avvio delle procedure legate alla realizzazione di una Cittadella della giustizia nel Sud di Milano sulle aree già di proprietà del Consorzio per il canale navigabile, quelle stesse che un paio d’anni orsono l’allora assessore Gianni Verga aveva dichiarato destinate alla Cittadella dello sport in previsione delle Olimpiadi del 2016. Era subito partito un bel Comitato ufficiale con dentro più o meno sempre le stesse facce a Lei note e conservo una bella foto del sindaco Albertini e del presidente Formigoni che si sbracciano indossando la maglietta bianca della nuova squadra dei promotori olimpici. Lo stesso presidente Formigoni che presenta ora con Lei la Cittadella della giustizia (delle olimpiadi del 20016 allora non si parla più, visto che l’area del Consorzio era l’unica ad avere le caratteristiche adatte alla Cittadella dello sport?).
Ma torniamo a noi. Non posso credere che il giorno della conferenza alla Sala delle Cariatidi Ella non ne sapesse nulla del progetto della Cittadella della giustizia.
Si tratta di un’operazione immobiliare che interessa un’area grande cinque volte quella della Fiera, ora Citylife, che ha destato tanto rumore in città. Non solo ma è accompagnata da due "dismissioni" sulle quali pure da almeno un decennio si dibatte: il palazzo di giustizia ed il carcere di San Vittore. Siamo dunque di fronte alla più grande operazione immobiliare in Comune di Milano, quella che le batte tutte. Ma è importantissima non solo per le sue dimensioni ma perché, se si farà, andrà ad incidere sull’assetto – ed i valori – dell’attuale area del palazzo di giustizia e dei suoi dintorni che si sono terziarizzati per far posto agli studi legali ed all’indotto collegato. Si deve riaprire la questione della futura destinazione del carcere di San Vittore. Per essere chiari il Piano di governo del territorio con o senza Cittadella della giustizia fa la differenza tra il giorno e la notte. La scelta del luogo non pare in ogni caso felice: il palazzo di giustizia teoricamente andrebbe posto al centro del bacino di utenza e Rogoredo non lo è; i treni locali che fermano a Milano Rogoredo sono tra i peggiori della rete e la linea 3 della Mm è la più disagevole (vedi il rumore che è notizia di questi giorni). Del planivolumetrico mostrato alla stampa non parlo perché immagino che sia solo una bozza. Del rapporto con i privati che interverranno a finanziare l’operazione prendendosi in cambio le aree di San Vittore e del palazzo di giustizia non ho voglia di parlare ma vorrei mettere i nomi in una busta e darla al notaio. Difficile sbagliare.
Mi resta una domanda nel gozzo: perché fare questo annuncio adesso? Stavamo partendo per le vacanze pieni di speranza – di illusioni – sul nuovo corso dell’urbanistica milanese: l’urbanistica del rilancio. Invece no: "Stessa piaggia stesso mare", stessa urbanistica.
Nota: di seguito, il comunicato dell'Ufficio Stampa del Comune (dal sito ufficiale) sul tema a cui si riferisce l'articolo di Beltrami Gadola (f.b.)
A Porto di Mare la Cittadella della Giustizia
Sorgerà su un'area di 1,2 milioni di metri quadrati di cui la metà a verde. Il nuovo polo ospiterà tribunale, carcere e uffici. Il sindaco Moratti: gli obiettivi sono migliorare la qualità di vita per detenuti e operatori, aumentare l'efficienza organizzativa, riqualificare il territorio
"Una nuova cittadella della giustizia che riunisce tribunale, carcere e uffici per rispondere sempre meglio alle esigenze dei cittadini e per migliorare la qualità della vita di operatori e detenuti". Queste le parole del sindaco di Milano, Letizia Moratti, che riassumono la conferenza stampa di oggi, al Palazzo della Regione, per la presentazione con il Presidente Roberto Formigoni, l'assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli e il Presidente della Corte d'Appello, Giuseppe Grecchi, del progetto che porterà alla chiusura di San Vittore e dello stabile di corso di Porta Vittoria.
| Giuseppe Grecchi, Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Carlo Masseroli |
Un milione e 200mila metri quadrati nell'area di Porto di Mare, nel sud est della città, accanto al quartiere di Santa Giulia. E' qui che sorgerà il nuovo "polo". Oltre la metà dell'area sarà destinata a verde, mentre gli spazi per l'amministrazione della giustizia passeranno dagli attuali 146mila metri quadrati, fra Tribunale e funzioni esterne, a una superficie di pavimento di 400mila. Gli spazi carcerari, dagli attuali 5.500 metri quadrati di San Vittore, arriveranno a 220mila. L'inizio dei lavori è previsto per il 2009.
“Gli obiettivi che ci poniamo con la creazione della Cittadella della Giustizia – ha detto il Sindaco Moratti - sono tre: creare una funzionalità dei diversi uffici della giustizia che consentano a tutti gli operatori di lavorare in maniera più efficiente e più efficace; creare condizioni migliori per i detenuti attualmente a San Vittore e per le guardie carcerarie; riqualificare attraverso questo grande progetto punti della Città definiti periferici, portando in periferia qualità e funzioni pregiate”.
“Quello che presentiamo oggi – ha spiegato il Presidente Formigoni – è un passo importante per tutta la giustizia milanese e lombarda. È la testimonianza dell’intenso lavoro che c’è stato in questi mesi sul tema della giustizia tra tutte le Istituzioni, dopo le segnalazioni che gli operatori di questo importante settore ci avevano fatto giungere qualche mese fa. È il frutto di un’intensa collaborazione: tutte le parti interessate hanno lavorato al progetto della Cittadella della Giustizia nell’esclusiva ottica del bene per i cittadini”.
| Veduta del progetto di massima della Cittadella Giudiziaria |
“Sono rimasto sorpreso – ha detto Giuseppe Grecchi – dai tempi rapidi e veloci di Comune e Regione. La scelta dell’area è stata condivisa da tutti gli operatori coinvolti, che hanno espresso un parere positivo per tutte le caratteristiche indicate dal Sindaco e dal Presidente della Regione. Il fatto che si parli dell’inizio dei lavori nel 2009 è estremamente positivo per poter permettere a tutti di svolgere le proprie funzioni in condizioni migliori”.
“Questa cittadella con verde, zone pedonali e servizi per 655mila metri quadri – ha spiegato l’assessore Carlo Masseroli – è un ulteriore passo in avanti della Milano del futuro. Un opera che permetterà di migliorare la qualità della vita degli operatori, dei detenuti e dei cittadini milanesi. Inoltre il progetto si colloca in un’area periferica già urbanizzata, che vede la presenza di due stazioni metropolitane, l’ingresso dell’Autostrada del Sole e l’alta velocità ferroviaria. Verrà fatta una gara Internazionale – ha concluso Masseroli – perché vogliamo che la Cittadella della Giustizia di Milano si realizzi in tempi brevi e sia una struttura moderna, funzionale ma anche una bella opera in una zona periferica dove è in corso un grande progetto di riqualificazione".
Un perdente di successo
Giuseppe Pullara – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 luglio 2007
In questi giorni il Vittoriano è più bello che mai. Il colonnato è ricoperto di plastica bianca, per i lavori di restauro. E l'intero monumento ha subito una trasformazione. Ha fatto un balzo nella modernità, ha dimostrato come un linguaggio architettonico possa accettare la contaminazione di un intervento di altissima qualità. Perché quell'immensa telata bianca leggermente concava, che sulla destra presenta perfino una lacerazione verticale alla Burri o alla Fontana, sembra pensata da un genio. Il monumento meno amato dai romani si è fatto più semplice, ha fatto diventare il cavaliere sabaudo un vero eroe metafisico.
Bello come non mai, ma al centro di polemiche come sempre. Quando fu fatto, si cominciò col colore troppo bianco del suo botticino, il marmo che veniva dal Nord come volle la politica. Bruno Zevi, più recentemente, chiese al neo-sindaco Rutelli di farlo smontare nottetempo. Pezzo a pezzo. L'illuminazione, l'apertura al pubblico, il bar sul terrazzo lo hanno avvicinato alla gente, che ha cominciato ad apprezzarlo. Gli architetti no. Lo hanno sempre osteggiato. Ora il Vittoriano, con quella sua aria da perenne sconfitto, subisce un nuovo assalto. A torto o a ragione, qualsiasi cosa nuova che appaia nel prezioso contesto storico di Roma viene criticata. Ne sa qualcosa l'Ara Pacis, opera di grande architettura ancorché sopradimensionata.
In genere ogni polemica riguarda la coerenza, la contestualizzazione, la continuità e si articola su argomenti più specifici quali i materiali, le proporzioni, gli aggetti. L'ascensore di vetro che corre sulla schiena del Perdente spunta oltre il profilo ed è un nuovo guaio. È avviata una nuova battaglia sull'architettura romana: se non altro, un pezzo dell'intellighenzia di questa città si desterà dal sonno. Architetti critici sono già in campo, altri presto difenderanno l'elevator caro come i Musei Vaticani. Cento fiori fioriranno, studiosi e progettisti a cercare il bandolo della matassa: è accettabile o no questo nuovo segno di architettura?
Dal Gianicolo Roma si mostra bellissima, con le sue stratificazioni stilistiche e le sue contraddizioni, con le sue antichità che furono moderne e le sue classicità che furono rivoluzionarie. Con le sue distonie, i suoi contrasti, le sue coerenze Roma si specchia vanitosa, del tutto indifferente al bandolo della matassa.
«E' orribile, da rimuovere subito» Vittoriano, rivolta anti-ascensore
Edoardo Sassi – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 luglio 2007
Tra i primi a fare «outing» era stato una archeologo dei Musei capitolini, Francesco Paolo Arata, con un intervento intitolato, senza giri di parole, «Vittoriano, l'ascensore più brutto del mondo». La visuale dal Campidoglio è infatti una delle più compromesse, stando ai detrattori dei nuovi elevatori panoramici che dal 2 giugno portano sulla terrazza dell'Altare della Patria.
Inaugurati il 2 giugno scorso dal ministro Francesco Rutelli, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal sindaco Walter Veltroni, gli ascensori infatti non a tutti piacciono. Anzi, in molti li trovano «orrendi». È di pochi giorni fa la presa di posizione anti-ascensori (e anti- progetto ristorante) dell'associazione Italia Nostra, con il presidente della sezione romana Carlo Ripa di Meana, che ha definito gli ascensori «orrende superfetazioni esterne», e il ristorante sulla terrazza «uno sfregio insopportabile di un luogo sacro».
Ieri, a tuonare di nuovo contro «una simile bruttura che altera in maniera criminale l'Altare della Patria» è stato il segretario della Uil Beni Culturali Gianfranco Cerasoli, che è anche membro del Consiglio superiore dei Beni culturali, organo consultivo di cui fanno parte (oltre ai segretari di settore dei due maggiori sindacalisti) anche eminenti personalità della cultura. Lo stesso Cerasoli ha annunciato ieri «un ordine del giorno che censura gli ascensori da parte proprio del Consiglio » (di cui è membro) di lunedì: «Affinché il Ministero faccia chiarezza e soprattutto indichi con trasparenza le responsabilità di quanto è stato realizzato e metta in moto le iniziative urgenti e necessarie per l'eliminazione e/o modifica degli attuali ascensori».
«L'odg — ha aggiunto Cerasoli — a partire dal Presidente Salvatore Settis, è stato approvato all'unanimità e ora sarà trasmesso al ministro Rutelli affinché le strutture ministeriali mettano a disposizione del Consiglio Superiore tutti gli atti e i provvedimenti assunti che peraltro non sono mai stati sottoposti al parere del Comitato Tecnico Scientifico per i Beni Architettonici nonché dello stesso Consiglio Superiore. In più con l'odg si è chiesto di acquisire informazioni in merito a ipotesi alternative pregresse, dal momento che da ambienti ministeriali sembra ve ne fossero almeno altre due, che non avevano alcun impatto» (di certo esisteva un progetto elaborato dall'ex soprintendente e direttore regionale Ruggero Martines, che prevedeva in sostanza l'accesso alle terrazze, sì, ma potenziando gli ascensori già esistenti all'interno del monumento).
Intanto il «partito» anti-ascensori annovera di ora in ora nuovi adepti, compreso il sito internet «Patrimonio sos», cha ha da poco lanciato la petizione on line intitolata «L'Archimostro degli ascensori al Vittoriano». Ma a criticare gli ascensore sono molti architetti e storici dell'arte di fama. Paolo Portoghesi: «Progetto inammissibile. Si vede sporgere la tettoia già da largo Chigi. Non è certo colpa del ministro, né di Ciampi, i quali volevano l'agibilità della terrazza. Ma è colpa del progetto. Rutelli disse che l'opera è reversibile. Bene, prendiamolo in parola». Cesare De Seta, anche lui membro del Consiglio superiore: «Alla riunione di lunedì ho partecipato ma sono andato via mezz'ora prima del termine. Di un ordine del giorno a dire il vero non so nulla e mi pare strano. Comunque, a titolo personale, e non certo a nome del Consiglio, posso tranquillamente esprimere la mia opinione sugli ascensori. Non mi piacciono proprio. Trovo soprattutto la tettoia che sporge dalla terrazza una soluzione infelicissima, si vede anche da via del Corso. Siamo di fronte a una vera alterazione del monumento. Il risultato tecnico-estetico dell'intervento è davvero deludente».
«Davvero un odg del Consiglio contro gli ascensori? Era ora. Alè, champagne, mi pare davvero un'ottima notizia», esordisce scherzando Giorgio Muratore, architetto, ordinario di cattedra e storico dell'architettura di fama. Che poi si fa serio e aggiunge: «Stavo preparando anche io un documento di protesta. È un progetto volgare, nel segno di una deriva merceologica da tour operator che ormai ci affligge e affligge Roma. Si pensa solo alla redditività, ai numeri. E così si avallano cose che fanno schifo. Quegli ascensori sono uno dei progetti più indecenti che si siano mai prodotti».
Vittoriano, interviene il Ministero
Edoardo Sassi – Corriere della Sera, ed. Roma, 26 luglio 2007
Il Vittoriano e quegli ascensori che una parte significativa del mondo della cultura giudica «orrendi», «indecenti», una «bruttura criminale». Il giorno dopo il j'accuse di storici dell'arte, architetti e urbanisti di fama, e a 48 ore dalla «censura» espressa dal Consiglio superiore dei Beni culturali presieduto da Salvatore Settis, arriva la replica del ministero dei Beni Culturali, che quegli ascensori panoramici ha voluto.
Una replica che, un po' a sorpresa, implicitamente ammette che qualcosa non va nell'opera che svetta sopra il monumento, visibile anche da molto lontano. Fin dagli inizi a dire il vero, oltre un anno fa, lo stesso ministro Francesco Rutelli aveva sempre sottolineato come gli ascensori fossero opera «reversibile» (se non piace, si disse nella prima conferenza stampa di presentazione dei lavori, si toglieranno). E nella nota diffusa ieri in serata il Ministero dei Beni culturali informa che un gruppo di lavoro, voluto dal ministro, è insediato «da diverse settimane » per «valutare la realizzazione del progetto » e «stabilire possibili miglioramenti all'impatto della struttura». La nota è della direzione regionale del Lazio per i beni culturali e paesaggistici, alla cui guida è l'ingegner Luciano Marchetti, «responsabile — come ricorda un intervento di Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil Beni Culturali, uno delle voci più critiche nei confronti dei nuovi ascensori ascensori — del procedimento che ha validato e autorizzato il lavoro della commissione che ha scelto il progetto ». «La scelta del progetto — ha scritto il sindacalista — fu fatta da una commissione composta da Antonio Giovannucci, direttore Regionale della Basilicata, Giovanni Belardi, architetto della Soprintendenza di Roma, e Corrado Bozzani, docente universitario. Il Direttore dei lavori fu l'architetto Federica Galloni, attuale soprintendente di Roma per i beni architettonici, una delle nomine più contestate a Rutelli».
Ora, del gruppo di lavoro «insediato praticamente dall'apertura dei nuovi ascensori », fanno parte, oltre al capo di gabinetto del ministero Guido Improta e al segretario generale Giuseppe Proietti, appunto il direttore regionale Luciano Marchetti e la soprintendente Federica Galloni, con il sovrintendente capitolino Eugenio La Rocca. Obiettivo, precisa la nota del Mibac, «valutare la realizzazione del progetto presentato da Paolo Rocchi, vincitore della gara d'appalto, e stabilire possibili miglioramenti all'impatto della struttura, anche nella prospettiva della rimozione dell'impalcatura che attualmente ricopre tutto il Vittoriano e che rimarrà in sede fino ai primi mesi del 2008». Il gruppo di lavoro - conclude la nota - «darà presto gli esiti delle sue riunioni ». La nota della Direzione regionale sottolinea inoltre come i nuovi ascensori panoramici siano un successo, «con 32 mila visite alle terrazze nel mese di giugno e un incasso di 137 mila euro».
E sull'affaire Vittoriano, da ieri, soffia anche il vento della polemica politica, con il centrodestra che si aggiunge a Italia Nostra e agli intellettuali: «Deturpano irrimediabilmente uno dei monumenti più significativi della Repubblica», ha detto l'ex sottosegretario ai Beni culturali Nicola Bono (An), che sul tema ha presentato un'interrogazione a Rutelli. Di «ennesimo scempio» parla Davide Bordoni, consigliere capitolino di Fi. Mentre per il capogruppo di An nel I municipio Federico Mollicone, si tratta di un «monumento all'orrendo urbano. Unica soluzione, abbatterli».
Vittoriano, lascia che sia kitsch!
l’Unità, 26 luglio 2007
Il Vittoriano? Ma non era inteso, per decenni e decenni, specie nella seconda metà del Novecento, via via che s'andava scolorendo la retorica del Risorgimento, che fosse, quella mastodontica «macchina da scrivere» in marmo botticino, «piazzata» a fare da quinta abnorme a Piazza Venezia, regno e dominio del kitsch? Se ne stava lì, quel povero monumentone snobbato, per la sua invadenza e per le sue «colpe» urbanistiche (lo spostamento di Palazzetto Venezia), e anche per un inconfessabile superstizioso timore di quell'aria perenne di celebrazione funebre che lo circondava - la fiamma che arde sul sacrario dell'Altare della Patria: che non si poteva contestare apertamente, ma… (E, del resto, ben due militari di guardia non si sono suicidati)? Fino a quando il sindaco Francesco Rutelli, forse per la circostanza «genetica» di avere avuto un bisnonno scultore risorgimentale senza complessi (vedi la Fontana dell'Esedra, con lo svettare di bronzei seni e fianchi femminili), decise di illuminarlo a festa come si trattasse di un meraviglioso Circo della Belle Epoque… E se kitsch deve essere, che lo sia alla grande! Fu il principio della resurrezione: il bar-ristorante (discreto), le ascensioni ansimanti - senza ascensore - di masse di turisti innamorati della vista, minuziosamente descritta, per singoli monumenti, cupole, Fori e magnificenti rovine, dalle vecchie guide del Touring… E che sia davvero uno spettacolo chi potrebbe negarlo? Perciò gli ascensori di cristallo e acciaio, sottili e longilinei, che ora ti portano in un lampo ad 81 metri d'altezza, fino alle aeree terrazze sorvolate dalle quadrighe di bronzo (risparmiandoti i 196 gradini che per una società ad anzianità crescente non sono poi il massimo) non mi scandalizzano affatto: consumismo? Marketing dei monumenti? Ma non l'avevate sempre disprezzato il povero Vittoriano? Almeno ora sappiamo che il suo autore, il tanto biasimato Giuseppe Sacconi, aveva una cultura antiquaria nutrita di modelli archeologici e che forse per la sua «patria di marmo» si ispirò all'Ara di Pergamo appena scoperta... E le terrazze delle quadrighe lui le immaginò gremite di visitatrici e visitatori… In quanto a me, da quelle terrazze ho assistito - e non scherzo - al concerto dei Genesis al Circo Massimo. (Mai avrei potuto affrontare quel volume sonoro a distanza più ravvicinata). Dopo aver contemplato il tramonto su una Roma «morena e fulva… con trecce di miele… sorgente dal fiume, colle dopo colle, tra giardini e fontane, tra colonne ed archi…». Così come la descrisse, e chi sa che non l'abbia guardata da quassù, Cecilia Meirels: la bellissima poeta brasiliana, considerata la più grande di lingua portoghese del Novecento.
Parla Vittorio Emiliani: Lo scempio del Vittoriano è figlio di un deficit culturale
Riccardo Paradisi - L'indipendente, 27 luglio 2007
Alle radici degli ascensori sull’Altare della Patria c’è un deficit culturale». Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza, direttore del Messaggero negli anni Ottanta, è indignato per lo sfregio inferto al Vittoriano. Denuncia da settimane lo scempio. Quasi isolato. Soprattutto inascoltato. «Fino quando, e finalmente, il Consiglio superiore dei Beni culturali, sollecitato da Gianfranco Cerasoli, uno dei componenti – racconta Emiliani – ha preso una posizione chiedendo spiegazioni al ministro Rutelli». Proprio per quella gobba verde sul marmo bianco dell’Altare della Patria. «È una cosa da ingegneri quella struttura, così brutta, così pesante. Viene da chiedersi come sia potuto avvenire. Evidentemente non ci sono più storici dell’arte al ministero dei Beni culturali. E se ci sono non contano più nulla». Prima dello scempio del Vittoriano per Emiliani, c’è una visione sbagliata. «Come si fa a non capire, a non vedere che si deturpa tutta l’area con quell’archimostro, dall’orizzonte dell’Ara Coeli fino a largo Chigi?». La sensazione è che sia tutto sbagliato. Tanto più, ricorda ancora Emiliani, che «l’idea di due ascensori laterali esistono dai tempi di Sacconi, dal 1908. E su quel progetto originario aveva lavorato Ruggero Martines. L’idea era quella di potenziare i due ascensori laterali curandosi di non farli sbucare dalla struttura monumentale e prevedendo che scendessero sottoterra anche per collegarsi alla linea C della metropolitana. Un progetto molto interessante e molto funzionale. Ma Martines è stato mandato dall’ex ministro Giuliano Urbani a fare il direttore regionale in Puglia e adesso sul Vittoriano svetta quell’escrescenza verde». Il progettista dell’escrescenza verde, come la chiama Emiliani, è Paolo Rocchi «che è un bravo strutturista», riconosce il presidente del Comitato per la bellezza, «chissà come gli è venuta in mente però quella struttura così orribile, questa canna d’acciaio così poderosa, così intrusiva». Ma ci sarebbe da domandarsi anche chi e perché ha consentito la realizzazione della bruttura. «Sa qual’è il problema vero? Che i sovrintendenti di settore non contano più nulla. Sono spiazzati e disorientati, umiliati dai diktat di direttori generali regionali di nomina politica. E questo grazie alla legge Bassanini, da cancellare. È anche così che vengono al mondo gli archimostri». Ma prima ancora c’è il deficit culturale. Emiliani ci ritorna: «C’è questa idea della cultura come consumismo di massa. Spettacolo mediatico. È così ormai in tutta Italia anche se Roma sembra la città pilota di questa deriva». Una deriva che confonde lo sguardo, smarrisce la memoria. «L’Altare della Patria», nota Emiliani «è il monumento del nostro Risorgimento, è un sacrario. Come si fa a non avere il minimo senso della sua funzione simbolica. Ormai si passeggia e si pasteggia sulla tomba del Milite Ignoto. Ma io mi chiedo: sarebbe stato possibile al Campidoglio di Washington o a Les Invalides di Parigi una cosa simile?». Domanda retorica, risposta scontata:no. «Ecco, io temo che la cultura del consumismo di massa distruggerà l’anima di questa città e il patrimonio italiano». Il tutto nella più pingue indifferenza mediatica: «I giornali hanno cominciato a parlare dello scempio con un mese di ritardo, e ancora non c’è stato un servizio di un Tg nazionale che faccia vedere come hanno ridotto il Vittoriano».
Sono stata su quell’ascensore, a occhi chiusi, aggrappata al solido braccio del mio accompagnatore perché soffro di vertigini, ma volevo arrivare lassù, sulla terrazza delle quadrighe dove davvero Roma che si srotola intorno a 360° è un panorama di fenomenale impatto visivo in cui ancora prevale la percezione del molto che si è salvato rispetto al moltissimo che potrebbe cambiare a breve. Come ci ha insegnato il grande Johnny Hart, con tenera ironia, è la visione “da urbanista”, dall’alto, che procura al nostro sguardo un’indulgenza speciale e aiuta ad annegare l’incongruo, il difforme, la banalità del brutto, nella sinfonia di storia che ogni pietra di questa città ha contribuito a costruire.
In quel momento ho pensato che era un buon modo per viverlo, quel monumento così discusso, quell’immenso, ingombrante vespasiano che da oltre un secolo incombe su uno degli ombelichi del mondo e al quale l'universo culturale al quale mi richiamo ha sempre guardato con un misto di sdegnoso fastidio e ironia (da Cederna a Zevi, fino al Nanni Moretti di palombella rossa). E mi sembra frutto di una sensibilità appartenente ad altre concezioni ideologiche, il lamento per la dissacrazione di una struttura da sempre giudicata pessima dal punto di vista architettonico e dei valori che rappresenterebbe, che non possono certo essere messi in discussione da una più libera fruibilità. In fondo, facilitare l’accesso agli ambienti del Vittoriano è un modo per renderlo finalmente meno isolato e anodino e con finalità d’uso che, in sé, si apparentano caso mai alle siepi leopardiane piuttosto che a godimenti sbracati o escamotage modaioli così come è avvenuto recentissimamente per altre iniziative e altri monumenti.
Ma fin qui rimaniamo nel campo di un relativismo di giudizi che a qualcuno oltre Tevere appare pernicioso, ma che ad eddyburg piace sottolineare. Questa vicenda dell’ascensore ci sembra invece signum esemplare, in negativo, di una deriva evidente che connota la gestione del nostro patrimonio culturale ai più alti livelli. Qualunque sia il giudizio estetico e di impatto visivo-paesaggistico che se ne voglia dare, è un fatto che l’idea, l’elaborazione del progetto e la sua costruzione hanno avuto un iter che, per quanto rapido, ha richiesto molti mesi. Tempo durante il quale sono stati altresì rispettati tutti i passaggi di tutela prescritti per legge: tutto si può dire dell’ascensore, tranne che sia privo di legittimità in senso giuridico. Certo più di un mugugno ci sarà anche stato nei corridoi del Collegio Romano: alternative al progetto realizzato ce ne erano sul tappeto, ma assumersi i rischi delle scelte, all’interno di un sistema di regole, è, di questi tempi, persino un titolo di merito.
Appunto.
E’ di qualche giorno fa la “conciliante” affermazione del Ministro Rutelli sulla reversibilità dell’opera (oltre un milione di euro di costi), quasi fosse “un panno steso al sole del mattino che si può ritirare alla sera” (cit. orizzontale).
Adesso che le polemiche sull’impatto visivo della struttura, da alcuni critici ed associazioni giudicato eccessivo, stanno riempiendo le cronache dei giornali e che il Consiglio superiore dei beni culturali, peraltro interpellato con tempistiche incongrue, ha espresso la sua censura sull’opera, i rappresentanti del Ministero, ai più alti livelli, si sono avventurati nelle prime imbarazzate dichiarazioni di “aggiustatura”.
Imbarazzate e imbarazzanti, nei contenuti e nei metodi. Che dire della “trasparenza” di tutta l’operazione in cui 2 dei 5 membri del gruppo di lavoro frettolosamente allestito in queste settimane per “valutare la realizzazione del progetto” e “stabilire possibili miglioramenti all’impatto della struttura” (nota della Direzione Regionale del Lazio per i beni culturali e paesaggistici diffusa il 25 luglio u.s.) hanno avuto ruoli di primo piano nell’autorizzazione e realizzazione dell’opera essendone direttore dei lavori l’una (Federica Galloni) e responsabile dell’intero procedimento il secondo. Che altri non è, nella fattispecie, se non il Direttore regionale del Lazio, l’ingegner Luciano Marchetti, alle cui competenze, in ogni caso, il Ministero è ben deciso di fare il più ampio ricorso visto che si tratta di uno dei pochissimi direttori (3 su 17) per i quali il ministro non ha richiesto l’avvicendamento (vicenda che si snoda in questi caldi giorni estivi con modalità da corte di Bisanzio e sulla quale eddyburg ritornerà nei prossimi tempi).
Quanto ai contenuti, come commentare la nonchalance autodifensiva con cui, nella stessa nota della Direzione regionale con la quale si fornisce notizia del gruppo di lavoro, si sottolinea il successo economico e turistico dell’iniziativa a suggerire, neppur tanto velatamente, che il tintinnar di cassa è pur sempre il migliore dei make-up.
Che poi in epoca di sofisticatissimi software di simulazione virtuale fosse necessario aspettare non solo la costruzione, ma alcuni mesi di attivazione, per accorgersi degli effetti visivi dell’opera sul contesto monumentale e prospettico che la circonda, rende più pungente un sospetto: che poche colonne di piombo possiedano poteri straordinari per schiarire la visione di insieme. Come direbbe Bogey: “è la stampa, bellezza” (m.p.g.)
Per l’autostrada tirrenica sono possibili nuove revisioni progettuali. Con il Pit, il Piano d’indirizzo territoriale appena approvato, non ci saranno più casi Monticchiello. L’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti parla però anche del Piano strutturale di Firenze adottato due giorni fa. E lo fa in modo critico.
Assessore Conti, il ministro Rutelli vi sta bloccando la tirrenica.
«Non mi pare che Rutelli sostenga questo, il suo documento ha il sapore opposto: dare il via libera di massima per portare il progetto al Cipe e concludere così la fase preliminare».
Il ministro dei beni culturali parla però di revisione progettuale.
«Si tratta di verificare le prescrizioni della Valutazione d’impatto ambientale sul progetto. Per quale motivo dovremmo escluderle? Lancio una sfida: mandiamo subito il progetto al Cipe e si configuri poi un’autostrada ambientalizzata come chiede la Regione».
«Autostrada ambientalizzata», un neologismo "contiano"?
«Riguarda la tecnica di progettazione: evitare le opere d’arte, limitare i viadotti, aderire alla morfologia del terreno, mitigazioni».
Ma il Pit cosa dice dell’autostrada tirrenica?
«La inquadra tra le priorità generali e il Pit apre una nuova fase».
Assessore, pensa davvero che il Pit eviterà altri casi Monticchiello?
«Non considero Monticchiello un caso di valenza straordinaria. Il Pit è il frutto di un lungo dibattito ma è anche un punto di partenza: lo integreremo adesso con il codice del paesaggio».
Ma a Campi Bisenzio il Pit non è naufragato?
«No, ha dimostrato la sua forza. Il Comune ha adottato un nuovo regolamento urbanistico che contiene previsioni diverse rispetto a quelle che hanno provocato la crisi. Rilevo una vitalità di un sistema che ha saputo reagire in 3 mesi: dai 70mila abitanti si è passati a 45mila. E rilevo anche che alla fine si è cambiato un sindaco».
Campi dimostra anche che se un Comune sballa le previsioni non esistono controlli o anticorpi.
«Gli anticorpi invece a Campi ci sono stati. Alla fine quello che decide tutto sono i meccanismi di consapevolezza urbanistica e culturale. Il punto non è riempire la Toscana di sceriffi ma di come affermare meccanismi virtuosi sotto il profilo urbanistico».
Ma come può un piccolo Comune senza soldi dire di no a chi offre oneri di urbanizzazione in cambio di una licenza edilizia?
«E’ un grande tema nazionale che riguarda il federalismo fiscale e i Comuni. Il territorio non può essere messo in vendita».
Il Pit può fermare un Comune che si lancia in speculazioni?
«Il Pit fissa delle regole che non spingono in questa direzione. Del resto i costruttori protestano contro le nuove norme. Dobbiamo favorire i buoni investimenti, volti al reddito e non alla rendita».
L’insediamento Laika di San Casciano è un buon investimento?
«E’ reddito, un investimento complesso con punti d’avanguardia».
La Toscana è però terra appetibile per gli speculatori.
«C’è un articolo di "Le Monde" che parla delle nostre norme in termini molto lusinghieri. E questo ci pone un dilemma: chi interviene in Toscana non deve trovarsi di fronte una regione rassegnata. Deve sapere di essere condannato alla qualità, di avere di fronte una regione intenzionata ad investimenti d’avanguardia. E’ questo il vero antidoto alle speculazioni».
Il Pit blocca le vecchie previsioni urbanistiche, perché?
«Abbiamo avuto un ciclo economico sfavorevole che ripiegava sugli investimenti edilizi. E dobbiamo ora contenere questa tendenza. L’effetto politico è che si formano, com’è accaduto a Campi, blocchi per la crescita edilizia, banche comprese. Si tratta di fare politiche orientate alla qualità, formare blocchi per la qualità e lo sviluppo, fondati su cultura, lavoro e impresa. Del resto, a ben vedere, è questa la sfida ultima del Pit. Che può essere letto come un manifesto dei moderni produttori toscani».
Cosa pensa del Piano strutturale di Firenze?
«Il Pit è stato approvato quasi in contemporanea con il Piano della città capoluogo. Penso che il contributo di Firenze possa essere ancora più ambizioso e innovativo del Piano strutturale adottato. Dico questo sapendo che è condiviso anche dall’assessore comunale Gianni Biagi. Tant’è vero che si è convenuto di collaborare per migliorare il Piano prima dell’approvazione definitiva. Come del resto il Comune ha fatto con il Pit».
Il Pit nasce in modo bulgaro, con l’opposizione fuori dall’aula.
«C’è stata la convergenza dell’Unione: un buon programma trova la convergenza tra riformisti e resto del centrosinistra. Devo ringraziare il presidente della commissione ambiente Erasmo D’Angelis».
Postilla
Rivelatore l’escamotage di “ambientalizzare” l’autostrada tirrenica per renderla digeribile agli oppositori. È la stessa concezione secondo la quale nei luoghi protetti di potevano costruire ville purchè i tetti fossero di tegole verdi. L’estro innovatore dei governanti della Toscana approda al vetusto modello della mascheratura, del camuffamento, degli “schermi arborei”. Aspettiamo la proposta di circondare le case di Monticchiello da alcuni filari di cipressi, o magari di tuie, e di risolvere lo scandalo delle collusioni tra amministratori e speculatori (la prevalenza della rendita a qualunque altro valore) con una manciata di pater ave gloria. Quell’autostrada è stata ed è criticata per motivi molto più consistenti e strutturali: dal punto di vista del territorio, dell’economicità, dei tempi di adeguamento della viabilità tirrenica. A chi altri giova quell’autostrada se non agli interessi di chi incamera i pedaggi. Si vedano in proposito i numerosi documenti raccolti nella cartella SOS Maremma.
Rivelatrice anche l’affermazione secondo la quale il PIT dovrà essere integrato con il codice del paesaggio. Significa che aveva ed ha ragione chi sostiene, come puntualmente eddyburg ha documentato (si vedano, ad esempio, l'articolo di Luigi Scano e l'eddytoriale n. 100), che il PIT è oggi del tutto difforme da quello che, a norma di legge, dovrebbe essere un piano paesaggistico.
Intanto, nuove Monticchiello nascono nelle aree protette, come ha raccontato su questo sito Paolo Baldeschi.. Intanto, alle osservazioni che propongono ragionevoli misure di tutela del paesaggio si risponde (per quanto se ne sappia) con un sostanziale fin de non recevoir .
E se i rom avessero occupato la Chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, il Broletto o il Ponte Coperto? Ecco cosa ti domandi, nel vedere a Pavia le macerie di quello che era fino a ieri uno dei monumenti di archeologia industriale più affascinanti d'Italia: l'antico stabilimento della Snia Viscosa. Demolito dalle ruspe perché il sindaco diessino non sapeva più cosa fare per cacciare gli «zingari » che avevano occupato l'area. C'è chi dirà: non era mica il Colosseo! Non era mica una cappella gotica! Non era mica un castello medievale!
Verissimo. È la tesi dello scrittore Mino Milani, autore del romanzo «Fantasma d'amore» dal quale Dino Risi trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni: «La necessità di abbattere la Snia trascende dalla storicità degli edifici. Non si tratta di chiese o monumenti, ma di ruderi abbandonati da decenni». Opinione condivisa giorni fa sul Corriere da Pietro Trivi, consigliere comunale di Forza Italia: «Che valore storico possono avere dei vecchi capannoni trasformati dai rom in una bidonville? Per la città quella ex fabbrica è solo un buco nero che crea problemi ai residenti».
Verissimo anche questo. Come è sempre successo nella storia (si pensi alle rovine della reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale che sta per essere restituita al suo splendore ma che fu a lungo occupata negli anni del boom economico da immigrati veneti e siciliani, pugliesi e romagnoli) gli antichi capannoni, scrostati e crepati e aggrediti dalla vegetazione, erano stati invasi negli ultimi tempi da un numero crescente di rom. I quali si erano adattati a vivere in condizioni spaventose.
Niente servizi igienici. Bambini abbandonati tra le macerie. Avvisaglie di una ripresa di quella tubercolosi che pareva sconfitta da decenni. Accumulo di quintali e tonnellate di immondizia.
Un degrado progressivo e apparentemente inarrestabile. Tale da scoraggiare il Comune, che dopo alcuni tentativi si era di fatto rassegnato all'impotenza. Da spingere gli operatori sociali a rinunciare a mettere piede nel ghetto, dove tra i 260 «zingari» accampati alla meno peggio c'erano almeno 74 ragazzini mai coinvolti in un progetto scolastico. Da esasperare gli spazzini al punto che, mandati a portar via almeno un po' di tonnellate di spazzatura, si erano ribellati all'idea di entrare nel complesso industriale abbandonato: «C'è il pericolo i muri crollino».
Insomma: che tirasse un'aria sempre più pesante, con rischi sanitari per tutta la popolazione dei dintorni, è innegabile. E neppure gli oppositori più critici della giunta unionista, come l'ex sindaco Elio Veltri che pure accusa l'amministrazione comunale di non aver fatto abbastanza, si sognano di negare l'evidenza: il problema andava risolto. Ma mai come in questo caso c'era il rischio di buttare via, con l'acqua sporca, il bambino. Perché il «monumento industriale» della Snia è (era?) davvero bello.
Lo aveva detto il grande architetto Vittorio Gregotti, che una manciata di anni fa aveva progettato per il Comune il piano regolatore spiegando che quegli edifici, soprattutto i più belli allineati lungo viale Monte Grappa, nel quartiere di San Pietro in Verzolo, andavano sottratti al degrado, recuperati, restituiti alla città che avrebbe potuto portarci una parte dell'Università. Lo aveva ribadito Italia Nostra, che aveva mandato un drammatico appello alla Sovrintendenza ai beni ambientali e architettonici chiedendo che almeno sui pezzi più pregiati del grande stabilimento fondato nel 1905 per produrre seta artificiale su una grande area (appetita dai padroni dell'edilizia) di 240 mila metri quadri tra la Ferrovia e il Ticino, fosse posto finalmente il vincolo ufficiale già prefigurato da Gregotti. Lo aveva implorato Legambiente. E lo stesso Veltri in una lettera angosciata al vice-premier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in cui ricordava come l'amministrazione pavese avesse già consentito negli ultimi anni due profonde ferite (una strada e una tangenziale) al parco della Vernavola dove nel 1525 si scontrarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V e minacciasse ora di costruire un grande parcheggio sotto la splendida chiesa romanica di San Primo. E ancora decine e decine di volontari trascinati da Giovanni Giovannetti, che col consigliere comunale Irene Campari (indipendente di sinistra in dissenso con la giunta di sinistra) e con Paolo Ferloni di Italia Nostra si erano spinti a presentare un esposto alla magistratura denunciando «il "partito del mattone"» deciso a «buttare giù tutto, anche le cornici dentellate, anche gli ornamenti e le archeggiature in cotto dipinto » di una testimonianza essenziale del ruolo di Pavia, che «nel secolo scorso, con Milano, è stata a lungo la città più industrializzata della Lombardia».
Niente da fare. Il sindaco Piera Capitelli l'aveva detto: «Per gli occupanti dell'area a Pavia non c'è più posto». Pugno di ferro: «Non abbiamo mai potuto affrontare il problema delle demolizioni ma ora che c'è il sospetto che alcuni edifici siano pericolanti lo dovremo affrontare ». I rom, i rischi igienici, l'odore dell'immondizia accumulata? «Il problema si risolverà con l'abbattimento dei capannoni», aveva rincarato l'assessore ai Servizi Sociali Francesco Brendolise. E i vincoli? «Non sono della Sovrintendenza ma del piano regolatore. E se vi fossero problemi di stabilità potrebbe essere superato ». Quanto alle preoccupazioni di chi denuncia «colate di cemento » in «una città che continua a perdere abitanti», il sindaco era stato chiaro: «Per il boom edilizio non posso che essere felice. Porta lavoro, attua una parte del programma e risponde all'esigenza abitativa: la città è stata ferma per troppo tempo».
E così ieri mattina, benedette dai proprietari dell'area (tra i quali spicca la «Tradital» di Luigi Zunino, indicato nella lunga estate calda delle scalate bancarie come uno che trattava affari con Stefano Ricucci e Danilo Coppola) le ruspe si sono presentate a sorpresa sul posto e hanno cominciato ad abbattere il primo dei quattro capannoni. Il più bello, forse. Finché non sono arrivati, per conto della magistratura, gli agenti: fermi tutti, sospendete. Un intervento che al sindaco non è piaciuto per niente: «L'ordinanza di demolizione l'ho firmata perché esistono concreti pericoli di crollo negli edifici in cui è nata la bidonville. Come Sindaco devo badare all'incolumità dei residenti e l'ex Snia non è sicura. Tra l'altro non vi sono vincoli architettonici imposti dalla sovrintendenza e ogni tentativo di dimostrare il contrario è solo strumentale...». Credeva di avercela fatta, ormai. E se un domani l'avessero rimproverata d'aver buttato giù quella «cattedrale industriale »? Uffa...
OLBIA. Intesa lontana, intese a rischio. Comune e Regione proprio non si trovano, quando di mezzo c’è l’urbanistica. Venerdì scorso a Cagliari c’è stato l’ennesimo muro contro muro (a parole) che per molti imprenditori (nei fatti) rallenta, se non blocca, la possibilità di realizzare quelli veri, di muri, siano per hotel o per capannoni. Ultimo motivo di scontro, le “intese”. Quei progetti che, in questa fase di applicazione del piano paesaggistico, potrebbero avere il via libera in deroga. Olbia ne ha presentato centocinque, un record. Ma l’intesa (politica e tecnica) non è stata trovata e i tempi si fanno strettissimi.
Venerdì c’è stato il primo incontro. Da una parte il Comune, rappresentato da Settimo Nizzi e dall’assessore all’Urbanistica Marzio Altana. Dall’altra la Regione, con il direttore generale dell’Urbanistica Paola Cannas. Oggetto: valutazione sulle “intese”. Il Comune - così impone il piano paesaggistico - ha presentato a Cagliari tutti quei progetti che, per la loro tipologia, devono essere vagliati dalla Regione.
Sono interventi che ricadono nelle zone di espansione (zone C), in quelle produttive (zone D), in quelle ex turistiche (zone F). C’è di tutto: riqualificazione di interi quartieri (stazione ferroviaria, ex Cerasarda) e di interi borghi (Portisco e una parte di Porto Rotondo), edificazione di alberghi (in città e sul mare) e di capannoni indudtriali, demolizione e rifacimento di ville.
Sono tutte pratiche che potrebbero partire in questa fase, in deroga ai vincoli del piano paesaggistico. La Regione li ha messi uno dietro l’altro prima di dare la risposta definitiva, che deve arrivare entro il 7 settembre. «Noi abbiamo rispettato le indicazioni del piano - si limita a dire Nizzi -: tutti quei progetti che rientravano nella procedura per l’intesa, li abbiamo mandati in Regione». Diversa la valutazione di Cagliari: «Il Comune di Olbia ha presentato progetti che non era necessario inviare da noi, costringendoci a un lavoro molto difficile» spiegano dagli uffici urbanistica, che ne ha già bocciato alcuni.
La questione è delicata. Secondo il Comune, la Regione ha reso impossibile ogni tipo di costruzione. Seconda la Regione, il Comune ha applicato un po’ troppo alla lettera le indicazioni del piano paesaggistico, “dimenticandosi” di sbloccare quei progetti che potevano ottenere le concessioni.
Opposti estremismi? Scontro più politico che tecnico? Diverse interpretazioni giuridiche?
Venerdì, questo è sicuro, c’è stata battaglia. La Regione ha spiegato che le intese prevedevano una volumetria eccessiva. «Olbia potrebbe costruire 150 mila metri cubi nelle ex zone turistiche - hanno chiarito ieri da Cagliari - invece la volumetria ipotizzata nelle intese ammonta, complessivamente, a 600 mila metri cubi. Impossibile realizzarla per una serie di ragioni».
La prima è questa: «C’è un 25 per cento di case sfitte, in centro, una delle percentuali più alte in Italia - hanno informato i tecnici regionali -: prima di pensare a nuove costruzioni, bisogna sfruttare quelle esistenti». E poi: «La volumetria richiesta corrisponde a una crescita demografica che non è possibile». E infine: «Se il Comune vuole tutte quelle volumetrie, deve prima adeguare il suo piano urbanistico a quello paesaggistico». Nizzi ha replicato, nell’ordine, che «non possiamo obbligare nessuno ad affittare le proprie case». Che la «crescita di Olbia, negli ultimi cinque anni, è stata di mille abitanti all’anno e che quindi quelle volumetrie sono necessarie». Che «le intese devono essere approvate tutte e subito, senza aspettare l’adeguamento del Puc».
Nessuna intesa e imprenditori che cominciano a essere molto preoccupati per la sorte dei loro investimenti. Domani un altro decisivo round: a Cagliari il sindaco Gianni Giovannelli e con lui Nizzi e Altana incontreranno l’assessore regionale all’Urbanistica Gianvalerio Sanna.
1. CRONACA DI UN SACCHEGGIO (DEL TERRITORIO) ANNUNCIATO
●Nel luglio 1999 la Regione Veneto emana una legge per la realizzazione di un autodromo regionale.
●Nell’ottobre 1999 viene deliberato il “Piano d’Area Quadrante Europa”, nel quale si individua un’area di circa 100 ettari a nord di Trevenzuolo adatta ad ospitare il circuito e le relative infrastrutture, con la prescrizione che la quota di superficie permeabile del suolo (ovvero non edificabile) non deve essere inferiore al 70%; nello stesso piano d’area la maggior parte del territorio tra Vigasio e Trevenzuolo viene tutelato, insieme agli alvei fluviali, come ambito di interesse paesistico-ambientale e destinato al futuro parco fluviale della pianura veronese. Il territorio rimanente viene destinato alla filiera agroalimentare.
●Tra il 2000 e il 2001 viene creata la "Strada del Riso Vialone Nano Veronese IGP", associazione riconosciuta dalla Regione del Veneto che ha come scopo la valorizzazione turistica di un vasto territorio a vocazione risicola situato nella zona Sud Occidentale della Provincia di Verona, che comprende anche i territori di Vigasio e Trevenzuolo.
●Nel marzo 2000 viene dato l’incarico di valutare le proposte di localizzazione dell’autodromo a “Veneto Sviluppo SpA”.
●Nel gennaio 2001, tra le 16 proposte, viene scelta l’area tra Trevenzuolo e Vigasio, in base ad un progetto dello studio di architettura Lyskova-De Togni che nulla aveva a che spartire con il “mostro” attualmente proposto.
●Nel giugno 2001 viene costituita la “Società Autodromo del Veneto srl” allo scopo di realizzare l’autodromo, i soci sono “Veneto Sviluppo SpA” e un “Comitato Promotore”; nell’aprile 2002 i comuni di Trevenzuolo e Vigasio entrano nella compagine sociale.
●Nel marzo 2003 entrambi i comuni approvano varianti urbanistiche per classificare la zona autodromo come ZTO “F”.
●Intorno la metà 2004 la “Società Autodromo del Veneto srl” diventa titolare dei diritti d’opzione per l’acquisto delle aree (scadenza 30 settembre 2006).
●Nel luglio 2004 Earchimede SpA e Draco SpA, individuate quali società realizzatrici, sottoscrivono un contratto preliminare per rilevare una quota del capitale sociale di “Autodromo del Veneto srl”.
●Nell’agosto 2004 viene sottoscritto un accordo quadro tra 4 i soci storici della “Società Autodromo del Veneto srl”e le 2 società realizzatrici Earchimede SpA e Draco SpA.
●Nel settembre 2004 avviene la trasformazione della “Società Autodromo del Veneto” da Srl a
SpA con aumento di capitale di euro 2.000.000 finalizzato all’esercizio del diritto di opzione sui terreni.
●Nel novembre 2004 si delibera una Convenzione per la redazione dei piani urbanistici attuativi tra il comune di Vigasio, il comune di Trevenzuolo e la “Società Autodromo del Veneto SpA”.
●Nel dicembre 2004 viene emanata una legge regionale che modifica la legge del 1999 per la realizzazione dell’autodromo, inserendo le nuove funzioni produttive e commerciali in deroga agli obiettivi di sviluppo.
●Nel febbraio 2005 viene emanata un’altra legge di modifica della legge del 1999 per la realizzazione dell’autodromo, che stabilisce la deroga anche ai limiti dimensionali della grande distribuzione.
●Nel marzo 2005 la Giunta Regionale approva la variante n.3 alle norme tecniche di attuazione del PAQE, che, recependo quanto modificato nella legge del 1999, introduce per la zona autodromo le deroghe ai vincoli di tutela degli ambiti paesistico-ambientali; recepisce le nuove funzioni produttive e commerciali; indica una blanda concertazione con la Provincia di Verona; riduce la quota di superficie permeabile del suolo dal 70% al 30%, escluse le aree per urbanizzazione primaria e secondaria.
●Nel maggio 2005 viene approvato dai comuni il “Patto Parasociale” sottoscritto da tutti 6 i soci.
●Nell’agosto 2005 il consiglio provinciale di Verona delibera le “osservazioni alla variante n. 3 al P.A.Q.E.”, dove si propone di mantenere le tutele ambientali stabilite dal PAQE vigente; lastipula di una convenzione tra Provincia e i 10 comuni contermini alla zona autodromo perconcertare le opere necessarie per un corretto inserimento ambientale, la viabilità di accesso, lacoerenza dei dimensionamenti delle aree produttive e commerciali con le previsioni di sviluppo dell’area.
●Nel corso del 2006 il Consorzio per lo Sviluppo del Basso Veronese – CSBV – di concerto con la Regione Veneto, elabora una bozza di legge per l’istituzione del Parco Naturale Regionale “Delle Antiche Terre del Riso tra il Tartaro e il Tione”. Viene prodotta una mappa che individua l’ambito territoriale del parco, del quale non fa più parte l’area del progetto autodromo.
●Nel giugno 2006 la Giunta Regionale approva la richiesta di parere alla Commissione consiliare sulle controdeduzioni alle osservazioni alla variante n.3 PAQE.
●Nell’agosto 2006 la Earchimede SpA cede il totale delle quote possedute in Motor City Holding srl (3.333.000 euro) alla Draco SpA.
●Nel novembre 2006 la Draco SpA cede quote per 3.333.000 euro di Motor City Holding srl alla Coopsette Soc.Coop. di Reggio Emilia.
●Nel novembre 2006 “Autodromo del Veneto” perfeziona l’accordo di acquisto dei terreni, versando ai proprietari il 30% del valore a titolo di acconto
●Nel febbraio 2007 la Provincia di Verona organizza una Conferenza dei Servizi con la Regione Veneto e i Comuni di Mozzecane, Nogarole Rocca, Trevenzuolo, Erbè, Isola della Scala, Vigasio, Buttapietra, Castel d’Azzano, Povegliano, Villafranca per concordare le clausole di un accordo di programma per la definizione di un “piano delle infrastrutture”.
●Il 29 giugno 2007 i proprietari dei terreni, un gruppo dei quali assistiti dall’avv. Laura Poggi (assessore alle Attività Produttive e Beni Ambientali della Provincia di Verona), e “Autodromo del Veneto” (rappresentata da M. Dall’Oca) firmano presso il notaio D. Fauci di Verona il rogito notarile. La società versa il rimanente 70% di quanto pattuito (15,49 euro/mq) a saldo.
●L’11 Luglio 2007 la società Autodromo del Veneto, rappresentata dal presidente S. Campoccia e dal vice M. Dall’Oca, presenta ufficialmente il progetto “Motorcity” all’hotel Leon d’Oro di Verona, presenti gli assessori regionali Chisso, Marangon, Gava, Conta; i sindaci di Vigasio Contri e Trevenzuolo Meneghello e il presidente della Provincia E. Mosele (unico ad esprimere preoccupazione sulla viabilità e il benessere dei cittadini). Opere previste nel “MOTOR CITY” su un’area complessiva di 456 ettari:
●AUTODROMO (211 ettari - pista 5.200 metri)
●PARCO DIVERTIMENTI TEMATICO (35 ettari)
●STRUTTURE RICETTIVE E RISTORATIVE (32 ettari)
●AREA COMMERCIALE (104 ettari)
●AREA PRODUTTIVA (50 ettari)
●AREA RESIDENZIALE (24 ettari)
●2 CASELLI AUTOSTRADALI SULLA A22
Edificabilità possibile sul 70% dell’area, più urbanizzazione primaria e secondaria: più di 300 ettari cementificati!
Investimenti: 1.500 Milioni di Euro (2.900 miliardi di lire), di cui 70 milioni per il solo acquisto dei terreni (15,5 euro al mq) - (investimenti pubblici: 424 mila euro) - 3° grande opera veneta (dopo passante di Mestre e MOSE).
Superficie: 456 ettari
Visitatori: previsti 2 milioni l’anno per il solo parco tematico
Occupazione: annunciati più di 7.000 addetti a regime
Nota: allegato di seguito l'intero dossier elaborato dal circolo Legambiente "Il Tiglio" di Vigasio, nell'area interessata da questo ennesimo "mostro"; da notare che, solo per fare un esempio, il modello di intervento è piuttosto simile a molte altre cose descritte su queste pagine, a partire dal non molto lontano (in termini di scala vasta) Hub aeroportuale di Montichiari, col suo contorno di strutture sportive, commerciali, ecc. Che avrebbero senso in una logica pianificata, di concentrazione dell'insediamento per nodi ad alta densità. ma diventano ridicole sparpagliando ovunque ogni bella pensata di "valorizzazione", ad esempio lungo gli insediamenti lineari veronesi di pianura, in questo caso sull'asse nord-sud dove già cresce compatta la statale del mobile Verona-Rovigo via Legnago, e dove gli architetti griffati hanno già messo il timbro dell'arte su VeMa, praticamente parallela e a un tiro di sasso dal post-marinettiano autodromo, fatto più di metri cubi inutili che di velocità pura. E poi i giornali parlano di "emergenza riscaldamento globale" ... L'emergenza è la faccia tosta cronica con cui abbiamo a che fare (f.b.)
Il nuovo governo mercantile di Firenze, nel 1282, chiede per prima cosa ad Arnolfo di Cambio un grandioso piano regolatore: tracciando nuove mura e aprendo nuove strade nel centro della città. Per prima cosa Marta Vincenzi, appena diventata sindaco di Genova, chiama Renzo Piano, perché metta anche lui sul tavolo un suo progetto, già in parte studiato.
Ma giovedì scorso, nella sala della Cariatidi del Palazzo reale, mentre l'assessore Masseroli esponeva a un folto pubblico le linee del suo governo del territorio, grande assente era proprio un progetto, non soltanto un progetto già materializzato in disegni, ma un programma che comportasse in se stesso un progetto.
Erano di scena la vigorosa critica alle procedure del passato e la promessa di nuove procedure, ma nessuna critica ai progetti del passato: sicché le procedure nuove produrranno gli stessi guasti delle vecchie, non essendoci un'idea chiara ed esplicita di quali siano gli obiettivi del rinnovamento procedurale, quali miglioramenti produrranno nella vita materiale e morale dei cittadini.
Che i fondi di investimento considerino Milano una città attendibile ci fa piacere, ma ci fa forse meno piacere che ci reputino terra di conquista, esportando qui i loro architetti e i loro impresari e i loro modelli, guastando da un giorno all'altro quella bellezza che i nostri antenati hanno impiegato mille anni a costruire.
Nelle città prendono corpo quei desideri dei cittadini che possono tradursi in cose fisiche: una buona casa in una strada bella e illuminata bene — forse oggi più sicura di due o tre palazzi in un prato condominiale rinserrato da una cancellata —, un giardino a portata di mano soprattutto per accompagnarci i bambini, un asilo e una scuola vicini (ma qui un piano regolatore è in grado di fare poco, perché gli abitanti di un quartiere possono invecchiare, la scuola chiudere, e i pochi bambini nuovi dirottati su una scuola lontana).
Per molti secoli i cittadini dei quartieri più lontani dal centro hanno poi chiesto un riconoscimento visibile della loro appartenenza alla città, il riconoscimento della loro dignità di cittadini, e, se non potevano avere la piazza del Duomo o il teatro della Scala, avevano viale Argonne, che con i suoi 90 metri eguagliava gli Champs Elysées e che ne costituiva un apprezzabile equivalente.
Nota: QUI è possibile consultare la documentazione del Pgt di Milano e delle relative discussioni
1. La politica del territorio e del paesaggio proposta dal PIT
Il PIT della Regione Toscana adottato il 4 aprile 2007 costituisce un efficace strumento di pianificazione e governo del territorio regionale secondo le competenze istituzionali oppure si tratta di un manuale di buoni consigli?
Esaminando gli elaborati e, specificatamente, la “Disciplina del Piano”, non si ritrova una sola prescrizione, una norma, un precetto, che impediscano situazioni di crisi, la previsione e la realizzazione di “ecomostri”, di “schifi” anche recentemente denunciati, alcuni riconosciuti da autorevoli esponenti della stessa Regione Toscana.
La Regione Toscana rinuncia volutamente a precise scelte, disposizioni, prescrizioni nel proprio strumento di pianificazione. La scelta politica non sembra tanto quella di demandare sostanzialmente ai soli Comuni la tutela del paesaggio, quanto quella di rinunciare alle proprie specifiche competenze di pianificazione territoriale stabilite dal quadro istituzionale e dalla legislazione e dalla normativa nazionali.
Se lo consideriamo dal punto di vista astrattamente disciplinare e accademico, il PIT si presenta, nel suo complesso (dal Quadro Conoscitivo, al Documento di Piano, alla parte normativa), assai ricco, stimolante, culturalmente aggiornato: basta scorrere gli indici ed esaminare i testi e l’articolato per rendersi conto della impostazione interdisciplinare delle argomentazioni.
Diversa è la valutazione del PIT se lo si considera dal punto di vista dell’efficacia e dell’incidenza concreta nella pianificazione e nel governo del territorio regionale, sotto il profilo della salvaguardia attiva e di un coerente sviluppo realmente (e non solo verbalmente) sostenibile.
Il PIT stabilisce che la Regione provvede alla implementazione progressiva della disciplina paesaggistica anche attraverso accordi di pianificazione con le Amministrazioni interessate e mediante la successiva acquisizione delle determinazioni dei Ministeri per i BB. CC. e dell’Ambiente.
Altro impegno quindi rispetto all’intesa di cui all’art. 143 del “Codice del paesaggio” che richiede che, in tale intesa, sia “stabilito il termine entro il quale deve essere completata l’elaborazione del piano (paesaggistico).
Così operando, la Regione Toscana testimonia di voler continuare ad operare all’interno della propria politica già avviata per dare attuazione alla Legge Galasso: quella di non procedere alla formazione di una specifica disciplina per il paesaggio. Ma così operando la Regione non soddisfa un preciso obbligo di legge.
A oltre due anni dall’entrata in vigore del “Codice Urbani” si è forse persa un’occasione per integrare organicamente lo strumento di pianificazione territoriale con il piano paesaggistico. Questa mancata integrazione pone ancora una volta problemi di efficacia rispetto ai contenuti dei due strumenti, ai tempi e ai modi di attuazione. Inoltre, nel PIT viene consolidata, anzi esaltata, la pratica toscana della collaborazione, dei patti tra Regione ed Enti Locali che si manifesta nella ricerca della convergenza verso comuni obiettivi. Anche l’interesse regionale – comprensivo di quello in materia di paesaggio – è esercitato nel quadro di questa cooperazione, limitandosi ad essere un momento della filiera delle responsabilità inter-istituzionali.
Eppure questo modello ha mostrato segni evidenti di mancata efficacia nel governare uno sviluppo sostenibile, le trasformazioni urbanistiche e territoriali; in particolare quelle che vengono ad interessare aree paesaggisticamente rilevanti quali sono quelle agricole che connotano significativamente l’identità della Toscana.
Questa carenza è implicitamente riconosciuta dal ‘Documento di Piano’, dove trattando del patrimonio collinare ( ma non solo, anche delle realtà rurali di pianura e di valle) segnala che questo patrimonio, oggi, è a forte rischio di erosione in quanto assistiamo ad una pervicace e diffusa aggressione di questi territori da parte della rendita immobiliare che agisce indifferente ai luoghi alterando così le caratteristiche strutturali dei luoghi stessi.
A questa corretta analisi non corrisponde però nel PIT l’individuazione di scelte conseguenti che abbiano efficacia nella riduzione del rischio. Sostanzialmente ci si limita a fornire buoni consigli, ad esortare l’adozione di linee di intervento più attente alle specificità dei luoghi….e ad auspicare che, dove necessario, gli strumenti di governo del territorio (e cioè Piani Strutturali e Regolamenti Urbanistici comunali e, per quanto di competenza, i PTC provinciali) ridefiniscano, in coerenza con l’indirizzo regionale, le proprie acquisite opzioni pianificatorie. In questo auspicio c’è il rischio, reale, che il nuovo PIT si riveli del tutto ininfluente a modificare al meglio – sia nelle quantità che nelle localizzazioni – le previsioni contenute negli strumenti di governo del territorio vigenti e in quelli futuri. Non solo, ma questa ininfluenza si può manifestare anche sulla formazione dei Regolamenti Urbanistici comunali da definirsi in attuazione di Piani Strutturali vigenti e sulle molteplici varianti ad essi.
Esaminando il “Documento di Piano” si riscontra una concezione del territorio e del paesaggio molto letteraria e poco “materiale”, una sorta di lunga premessa a quello che avrebbe potuto essere il Piano, premessa comunque caratterizzata da un taglio sostanzialmente economicistico, quasi espressione di una volontà di modernismo a tutti i costi.
Con la “rappresentazione del patrimonio comune”, con le “agenzie statutarie”, con lo “statuto del territorio toscano”, con una “agenda programmatica”, con le “scelte di indirizzo, condizioni, strumenti e procedure, metaobiettivi”, in sostanza con un insieme formalmente articolato, elegante, di buoni consigli….. riteniamo non sia possibile governare efficacemente il territorio, né a livello regionale, né a livello provinciale, né a livello comunale. Il governo viene lasciato sostanzialmente alla “capacità politica” dei politici amministratori ai vari livelli istituzionali. E’ immaginabile la forza che potranno avere i “buoni consigli” di fronte al potere economico grande e piccolo: dai grandi gruppi economici ai piccoli speculatori immobiliari locali?
Nel PIT non si riscontrano, anzi si rifiutano nettamente, le definizioni di quantità, di localizzazione, di perimetrazione, definite sprezzantemente “zonizzazioni” e sostituite da “sistemi territoriali funzionali”. Il concetto di “sistema territoriale funzionale” ben esprime la complessità dei diversi ambiti, ma la pianificazione e il governo del territorio rischiano di diventare concetti evanescenti di fronte alla pressione dei poteri più o meno forti. “Innovazione, sussidiarietà e autonomie locali, patto fra i diversi livelli di governo, governance”, costituiscono anch’essi concetti e lessico che percorrono tutto il documento nelle diverse fasi di messa a punto dello stesso fino all’adozione.
Perfino la definizione di “obiettivi del piano” sembra essere troppo “vincolante”, pertanto vengono indicati “metaobiettivi” con l’evidente scopo di proporre un piano non rigido, duttile, elastico, che non “ingessi” il territorio, per usare un’espressione cara ai settori economico-politici che aborrono i “lacci e lacciuoli” di una politica di programmazionepianificazione.
Dove va a finire quel “senso del limite” giustamente affermato e conclamato?
Lo spettro dell’ “urbanistica contrattata” degli anni ’80 non appare certamente rielaborato e superato: gli si fornisce solamente un quadro meno brutale e più elegante. Rispetto poi alle misure di salvaguardia che dovrebbero scattare all’approvazione del PIT, consideriamo che, nella definizione dei regolamenti urbanistici in attuazione dei piani strutturali vigenti, è facoltativa l’applicazione delle disposizioni contenute nel PIT e comunque è lasciata alla singola Amministrazione comunale la verifica della congruità delle proprie previsioni alle prescrizioni del PIT.
Le correzioni accolte e apportate al testo originario in sede di Commissione Consigliare (in particolare quella sulle tipologie insediative collinari e quella sulla rivisitazione dei piani attuativi non "in opera") sono sicuramente migliorative dello strumento, ma solo in alcune sue parti e non non ne intaccano l'impianto del tutto carente di contenuti precettivi. Non è rispondente al vero sostenere che il problema degli "ecomostri" è conseguenza solo delle normative previgenti alle innovazioni apportate dalle leggi Urbanistiche regionali N° 5/1995 e N° 1/2005. Non è così, gli "ecomostri" sono nati e stanno nascendo anche a seguito di queste normative.
Nella normativa del PIT emerge una concezione che vede il territorio e il paesaggio essenzialmente come fattori costitutivi del sistema economico: il territorio inteso come patrimonio ambientale, paesaggistico e culturale è presente, ma sembra essere quasi un corollario del sistema economico.
E le aree economicamente deboli e in cui scarsa è l’attività edilizia sono trascurate dal documento regionale: si consideri che nella struttura del territorio toscano non è compresa la montagna che presenta proprie peculiarità sociali, territoriali e paesaggistiche e pertanto non può essere semplicisticamente ricondotta all’interno della schematica dizione del lemma di “universo rurale della Toscana”. Si consideri il significativo ruolo che hanno le Alpi Apuane, la Dorsale Appenninica e l’Amiata nel connotare l’identità toscana e che in questo contesto sono localizzati due Parchi nazionali (Appennino Tosco-Emiliano e delle Foreste Casentinesi) e uno regionale (Alpi Apuane).
La “moderna Toscana rurale” che costituisce il corpo del paesaggio e dell’ambiente toscano sembra essere un mero complemento delle “città della toscana”. Le “invarianti strutturali” sono indicate e descritte in una elencazione e catalogazione che ne evidenzia tanto la complessità quanto il rifiuto di scelte definite, con la conseguente difficoltà di gestione concreta e vincolante da parte della pubblica amministrazione.
Un esempio: fra le invarianti strutturali rientrano anche i siti UNESCO e le ANPIL. Il “caso Monticchiello” e le decine di altre “villettopoli” ed “ecomostri” che sono diventati concreti anche se sorgevano in territori indicati come invarianti strutturali. Se poi si considera che il territorio attorno al centro storico di Monticchiello, e tanti altri, è anche collinare ..... e le colline sono anch’esse indicate nel PIT come “’invarianti strutturali”, allora qualcosa non torna in tutta questa catena di riconoscimenti di valore, di tutela e di presunti controlli.
Altro esempio: le risorse del territorio rurale come possono essere definite anch’esse fra le “invarianti strutturali” a fronte delle devastazioni del territorio rurale maremmano da Grosseto a Civitavecchia che sarebbero prodotte dall’autostrada tirrenica tutta in variante rispetto alla Statale Aurelia, voluta dalla Regione Toscana? E, sempre rispetto allo stesso esempio, se la realizzazione di nuove infrastrutture è consentita quando le alternative di utilizzo o riorganizzazione non siano sufficienti e previa valutazione integrata degli effetti, dove sono la valutazione integrata e l’analisi costi-benefici applicate ai progetti presentati a partire dal 2000: il progetto ANAS di messa in sicurezza dell’Aurelia raffrontato a quello autostradale proposto dalla SAT?
Anche l’art. 36, tanto evidenziato in quanto efficace e innovativo, si limita a riformulare quanto già previsto dalla legislazione nazionale e dalla giurisprudenza, vale a dire che i diritti acquisiti da parte dei privati operatori in termini di edificabilità sono riferibili unicamente alle concessioni edilizie rilasciate e alle convenzioni già stipulate in attuazione di piani attuativi.
Si rileva che nel PIT non si riscontrano né azioni, né efficaci disposizioni, né l’individuazione di strumenti e/o di procedimenti finalizzati a contrastare – al di là delle eleganti affermazioni – la crescita edilizia diffusa e dispersa nei mille rivoli che portano alla rozza occupazione di significativi paesaggi toscani.
Un ulteriore problema di fondo già sottolineato dalla nostra Associazione: la sostanziale carenza normativa di qualunque criterio di dimensionamento dei piani comunali, già evidenziata rispetto alla LR 1/2005, permette di fatto la redazione di piani sovradimensionati con l’evidente conseguenza di “cattiva urbanistica”. Questo in particolare si manifesta per quegli ambiti dove il fenomeno della diffusione urbana e della dispersione insediativa si manifesta con maggiore intensità: nel sistema policentrico della Toscana (Firenze-Prato-Pistoia-Lucca e Firenze-Empoli-Pontedera-Pisa) e nel sistema della costa nelle sue diverse articolazioni. Manca una chiara, precisa ed esplicita scelta che persegua la conservazione attiva e l’accrescimento delle dotazioni ambientali proprie di questi vasti territori. Si ritiene invece che la disciplina del PIT debba contenere una precisa ed efficace disposizione – che produca effetti anche in regime di salvaguardia – che esplicitamente richieda, per questi territori, l’individuazione delle discontinuità di valenza territoriale e di quelle insediative e una disciplina volta al loro mantenimento al fine di garantire la qualità ambientale dei contesti considerati.
2. Osservazioni e richieste di ordine generale
A seguito di quanto sopra premesso, osserviamo e richiediamo:
- che la normativa regionale in materia paesaggistica e del territorio e in particolare la L.R. 1/2005 (assieme alla strumentazione conseguente e in particolare la L.R. 26/2006) sia integralmente e legittimamente adeguata a quanto prescrive il Codice del Beni Culturali e del Paesaggio (D. lgs. 42/2004 e succ. modifiche) sia per quanto concerne la sub-delega ai Comuni che l’aspetto particolare della composizione delle Commissioni di Programmazione e quelle di Controllo
- che la scelta regionale di inserire il Piano Paesaggistico all’interno dello strumento del PIT non debba avvenire a scapito della cogenza, dell’efficacia e della dettagliata normazione della tutela paesaggistica perché, come ha ribadito la Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata “il paesaggio va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”
- che il PIT manca tuttora dei contenuti e, soprattutto, delle efficacie che il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” richiede alla disciplina paesaggistica regionale comunque questa venga denominata; pertanto la disciplina paesaggistica del PIT al momento adottata potrebbe correttamente configurarsi come documento contenente le ‘linee guida’ regionali per poi procedere alla elaborazione del piano paesaggistico (comunque lo si voglia denominare) attraverso le collaborazioni e le intese di cui all’art. 143, comma 3, del Dlgs 42/2004. Ma questo dovrebbe essere esplicitato con chiarezza negli elaborati
- che il PIT deve contenere una precisa disposizione che con chiarezza garantisca la conservazione attiva e l’accrescimento delle dotazioni ambientali del sistema policentrico della Toscana centrale e del sistema della costa anche attraverso il mantenimento delle discontinuità territoriali ed insediative presenti in questi contesti
- che il PIT deve contenere reali misure di salvaguardia attraverso prescrizioni aventi diretta efficacia oltre che per la realizzazione di interventi puntuali anche sulla formazione sia degli strumenti urbanistici attuativi che dei Regolamenti Urbanistici da definirsi in attuazione di Piani Strutturali adottati precedentemente all’entrata in vigore della nuova disciplina. L’accertamento comunale della verifica di coerenza con le direttive e le prescrizioni del PIT dovrebbe essere equiparato, in regime di salvaguardia, agli atti urbanistici e come tale da sottoporre a pubblicazione e poter essere oggetto di osservazioni
- che nel PIT manca la montagna quale elemento fondante e strutturale del territorio e del paesaggio toscano
- si ritiene inoltre che quanto contenuto nella pur complessa articolazione del PIT (sia per quello che concerne il Documento di Piano, il variegato Quadro Conoscitivo e soprattutto la Disciplina di Piano) ci sembra ben lontano dai caratteri di una precisa normativa quale quella prescritta dal Codice
- ribadiamo che la tutela paesaggistica non può essere gestita unicamente alla scala comunale, e che scempi come quelli, emblematici, in realtà sparsi in tutto il territorio regionale, sono il frutto di autorizzazioni comunali e delle Soprintendenze locali e che se vogliamo evitare per il futuro questi pessimi risultati è indispensabile e urgente una precisa e sovraordinata assunzione di responsabilità alla scala regionale
- in ogni caso è auspicabile che le disposizioni del PIT, soprattutto relativamente alle normative di merito che si vorranno rendere prescrittive, siano estremamente approfondite e integrate in materia di tutela del paesaggio in tempi certi e ragionevoli anche in attuazione dell’accordo preliminare con il Ministero per i beni e le attività culturali, al fine di giungere ad una normativa concordata con il Ministero stesso.
Il documento di Italia nostra prosegue con un nutrito elenco di proposte di modifica e integrazione al piano adottato. Si veda in allegato il testo integrale in formato .pdf
TORINO - Il parco divertimenti più grande d'Italia, per il momento, è solo un sogno custodito su migliaia di pagine e decine di faldoni. Il progetto ormai definitivo, al vaglio di una commissione di esperti per la valutazione di impatto ambientale che dovrà pronunciarsi entro il 15 novembre, è gelosamente custodito in una villa sulla collina di Ivrea, sede legale e quartier generale di Mediapolis, la società torinese pronta ad investire 200 milioni di euro per un'opera attesa da ormai otto anni, in grado di richiamare ad Albiano, dove verrà costruito, un milione e 600 mila persone all'anno, ma anche oggetto di forti contestazioni (in particolare la battaglia di Maria Crespi, presidente Fai, ente proprietario del castello di Masino) da parte delle associazioni ambientaliste, spesso riportate anche nel blog di Beppe Grillo.
In attesa dell'inchiesta pubblica invocata da Fai, Pro Natura, Legambiente, e Wwf sul progetto, l'iter va avanti ed entro fine anno, inizio 2008, dovrebbero mettersi in moto le prime ruspe. Ecco, nel dettaglio, che cosa sarà il Parco Mediapolis, quasi 600 mila metri quadri divisi tra spazi destinati al classico divertimento da fine settimana, quello che possiamo trovare a Gardaland o Disneyland o al parco danese di Tivoli, a Copenaghen e la tecnologia esasperata e di ultima generazione. Giostre, da un lato, simulatori, elettronica d'alto livello e realtà virtuali, dall'altro. E ancora: centri commerciali (non è prevista piastra alimentare), cinema, teatri, sale convegni, hotel, aree destinate a concerti e spettacoli.
Parco e ambiente
L'obiettivo che il pool di progettisti si è imposto, è integrare il più possibile il parco con l'ambiente circostante. Sarà un parco in un parco, il primo costruito dall'uomo, il secondo offerto dalla natura con lo spettacolo dell'anfiteatro morenico tutt'attorno. In otto anni, da quando si è incominciato a pensare a che cosa sarebbe stata questa immensa area divertimenti, le modifiche sono state innumerevoli. «E spesso - spiega l'amministratore delegato Sergio Porcellini - sono servite le critiche e le dure opposizioni per migliorare il progetto nei suoi aspetti».
Natura, viaggi, sport
Mediapolis Park, nella porzione ovest, si estende per 148 mila metri quadri all'aperto. Viaggi e avventura, giostre che si snodano in corsi d'acqua artificiali tra foreste e calotte, insenature e canali, laghi e cascate. Un richiamo alle fiabe di Andersen o ai viaggi di Marco Polo, mondo reale e fantasia che si mescolano in continuazione attraverso viaggi a sorpresa fra la vegetazione e le attrazioni. L'utilizzo dell'acqua è il tema principale, il grande lago scenografico di 22 mila metri quadrati è una delle maggiori attrazione del parco: ci si potrà dedicare ad una gita in barca o alle giostre acquatiche come il roller coasters o la torre di caduta alta 40 metri, solo per citare due esempi. E ancora: aree per bambini, famiglie, teen zone, eco-garden, sport estremo e percorsi avventura per gli adulti e per i più piccini.
Tecnologia e interattività
L'evoluzione tecnologica, con particolare riferimento ai new-media e alla realtà virtuale è la caratteristica fondamentale. In sintesi si potrà viaggiare e ci si potrà addentrare in avventure fino a ieri immaginate, senza muovere un dito. Un viaggio nella natura e nella storia sarà reso possibile, reale ed avvincente in un unico posto, senza necessità di viaggiare, attraverso la tecnologia virtuale e i simulatori di ultima generazione. Lo spazio indoor, 25 mila mq, sarà trasformato nella «città della comunicazione»: attrazioni audiovisive, videogiochi, studi tv, sale concerti, teatri destinati ad ospitare spettacoli dal vivo e un cinema multiplex. Il parco Mediapolis, sostenuto da Regione e Provincia (con in testa il presidente Antonio Saitta che l'ha inserito nel piano strategico del Canavese), nato dai Patti Territoriali all'epoca coordinati da Ivrea, ora croce e delizia a seconda da dove lo si guardi, è pronto a spiccare il volo.
Nota. in questa stessa sezione SOS Padania numerosi altri articoli sul progetto Mediapolis (f.b.)
Una scommessa da 5 milioni puntati sulla cittadella del lusso, là dove c'era la collina dei lentischi, alle spalle dei primi insediamenti cementizi di Porto Cervo. Una scommessa ancorata su note e costose firme della moda tutte pronte ad accaparrarsi qualche metro quadro sotto i portici di quel complesso edile nato da un lustro e ben prima della legge salvacoste, tra sbancamenti di rocce, terra e verde e completato in questi giorni con gli ultimi spagnoleggianti ritocchi estetici a questa fortezza di svariati milioni di metri cubi e aperta sulla via. Dietro la scommessa il business che vien dal Continente, una manager ben determinata e ben addentro alle cose della Costa, Daniela Fargion, che vede lontano - 13 anni per far quadrare i conti di tutti - che sogna un ponte aereo tra Isola e Penisola, una navetta vips per futuri scambi tra i due porti più esclusivi della Gallura, Rotondo-Cervo e viceversa, che crede allo sviluppo molto d'lite di questa piazzetta dedicata ad un non esplicitato principe e prevede arrivi a frotte di famosi e facoltosi di ogni età, passato e passaporto.
L’idea è insomma, e sinché su questa vocazione allo sfarzo non si abbatterà qualche stangata in stile Soru, di un polo della ricchezza e del capriccio per i molli trastulli estivi di chi ha da scialare e ostentare e che nel disegno dei finanziatori si tradurrà in incasso spendendosi come richiamo il via vai dei bei nomi abitudinari frequentatori della Costa e dei suoi approdi. Con in più l'ottimistica ambizione di allungare tra feste, firme e sfilate la stagione del turismo in gran pompa ma sin qui limitata a un mesetto o poco più. E con tanti saluti a chi rimpiange la collinetta di pietre e ginepri scomparsa sotto il maglio di un palazzinaro dell'Alto Adige che ha fermato a 33 le abitazioni a vendere (quei 33 trentini che trotterellavano...) e affidato a Jean Claude Le Suisse, architetto, la confezione “naturalistico- commerciale” del nuovo borgo. Per chi ci investe e lavora, ovviamente, il complesso fortilizio con botteghe e parcheggi è il segno della vitalità e delle occasioni offerte dalle meraviglie della riviera gallurese.
Posti per i sardi, al negozio o al banco bar, gente fashion e passaggi di denari, incremento a cascata su tutto il residuo vacanziero e sino al piccolo cabotaggio anche se qui, al Principe fondatore portuale, si terrà alto, altissimo il livello, cioè il prezzo, dell'accesso a piazzetta e mercatino.
Il paragone e l’esempio sono Portofino, Saint Tropez, Sant Thomas forse, isole Vergini, tutti paradisi del superfluo e qualche volta anche del fisco. Cui Porto Cervo nulla ha da invidiare, evidentemente. Mancavano le firme dell'alta moda, un posto che le avesse tutte lì col loro meglio anche della prossima stagione, e ora vi si è posto rimedio. Il resto, infrastrutture e trasporti che non dipendono dal privato, seguirà: ne sono convinti gli scommettitori di quei milioni di euro e l'imprenditore immobiliare trentino perché là dove c'è il business la politica segue a ruota. Stasera si inaugura il tutto con musica e luci e personaggi, i soliti. E subito dopo si apre bottega.
In Toscana vive e si diffonde a tutti i livelli una cultura che conserva, propone e si mobilita per la difesa del paesaggio e del territorio inteso come eccellente bene comune. Al professor Salvatore Settis che contro l’alienazione selvaggia dei cosiddetti "gioielli di famiglia" si è sempre coraggiosamente battuto, avanzando proposte innovative sia sul piano istituzionale che su quello più propriamente culturale, poniamo alcune domande su temi che hanno animato e acceso aspre polemiche su come dovrebbe essere gestito il patrimonio culturale toscano. Una battaglia che non ha mai risparmiato nessuno, ma, senza cadere in facili banalizzazioni, le scaramucce tra destra e sinistra nelle varie sedi istituzionali, nulla hanno a che fare con ciò che anima il lavoro di Settis: la difesa del patrimonio culturale è una battaglia di quotidiana civiltà.
La politica di vendita del nostro patrimonio culturale è sostanzialmente fallita. Ma non i tentativi di depredare il nostro più prezioso bene comune da parte di spregiudicati immobiliaristi. Come impedire che tali scempi possano accadere?
Occorre agire su due fronti: il rigore nelle regole e la diffusione della consapevolezza di questo problema tra i cittadini. Solo un'efficace azione educativa (a cominciare dalle scuole) può far sperare che gli egoismi dei singoli vengano bilanciati e frenati dalla preoccupazione del bene pubblico.
Eppure anche in Toscana basta un trucchetto come quello del "cambio di destinazione d'uso" o qualche autorizzazione azzardata e la si dà vinta ad una visione d'insieme speculativa. Il ruolo dell'intellettuale in questa battaglia qual è?
Non assuefarsi, non accettare il compromesso, richiamare ai principi, argomentare con rigore, non piegarsi alle regole della politica spicciola, ma intendere la politica nel suo significato originario: il governo della cosa pubblica nell'interesse generale, e non il piccolo cabotaggio delle micro-pattuizioni elettoralistiche.
Nuovi poteri alle soprintendenze: è la via maestra per salvaguardare il nostro patrimonio culturale?
Bisogna mettere le Soprintendenze in grado di rispettare le norme esistenti, attraverso il rinnovamento e rinvigorimento degli organici. Da troppo tempo non si fanno più assunzioni, e quando si ricomincerà devono esser fatte puntando sulla competenza e sul merito, e su nient'altro.
Creare dei centri di eccellenza che siano in grado di esaltare quanto di specifico il territorio per poi affidarli a chi ha appena conseguito una laurea triennale. Non le sembra un contradditorio?
È contraddittorio, per temi tanto delicati la laurea triennale non basta, occorre non solo un percorso quinquennale ma anche qualcosa di più, la specializzazione o il dottorato di ricerca su questi temi.
A ciascuno il suo compito: al Ministero la "tutela" e alle regioni la "gestione" del bene culturale e paesaggistico. Va bene così o si tratta di un modello superato e da trasformare?
Tutela, valorizzazione e gestione sono un continuum inseparabile. Chiunque gestisca i vari segmenti, è bene che intorno vi sia uno stretto coordinamento per evitare duplicazioni, dispersioni di energie, conflittualità diffusa.
Possiamo ancora sperare di veder tronare nel nostro paese almeno una parte delle opere d'arte illegittimamente esposte nei principali musei del mondo?
È un processo bene avviato, che sta dando i suoi frutti, e spero che continui positivamente nei prossimi anni: fermo restando che possiamo legittimamente richiedere indietro solo ciò che è stato illecitamente esportato dopo le convenzioni Unesco in materia di patrimonio culturale, e non prima.
E sulla stesura del Nuovo Codice dei beni culturali può darci qualche anticipazione?
Abbiamo presentato al Ministro Francesco Rutelli una bozza, e per la fine di luglio speriamo di avere la proposta definitiva della Commissione che se ne occupa. Poi la cosa andrà naturalmente nelle mani del Ministro per la sua definitiva approvazione.
1. FINALITÀ DELL’OSSERVAZIONE
[…]
L’osservazione è finalizzata a proporre modifiche riguardanti l’impianto del PIT, la sua operatività e a perseguirne una migliore coerenza con i principi della legge1/2005 di governo del territorio. Verranno perciòavanzate alcune proposte che riguardano la struttura e la logica dello statuto del PIT e, subordinatamente, alcuni contenuti di indirizzo o prescrittivi. Questo con particolare riferimento a:
- rendere chiara la distinzione concettuale e operativa fra la parte statutaria del PIT, che definisce le risorse essenziali, le invarianti strutturali e le regole statutarie per la tutela e la valorizzazione delle risorse stesse, e la parte strategica che definisce gli obiettivi di trasformazione del territorio; distinzione che costituisce il contributo più innovativo della legge regionale 1/2005. Dare autonomia alla parte statutaria del Piano, significa che le diverse opzioni strategiche debbono confrontarsi e risultare coerenti con la tutela e la valorizzazione delle risorse essenziali, garantendone la riproducibilità e la valorizzazione;
- attribuire allo statuto del territorio valore fondativo, “costituente” dell’identità del territorio e dei suoi valori patrimoniali inalienabili: questo carattere “costituzionale” richiede che l’elaborazione dello statuto sia sottoposta ad un processo partecipativo che ne garantisca la condivisione sociale;
- rendere coerente e integrare il piano paesaggistico con lo statuto del territorio, secondo le indicazioni del Protocollo di intesa fra il Ministero dei beni e le attività culturali e la Regione Toscana (gennaio 2007).
In accordo con la legge regionale 1/2005, il territorio è inteso come deposito di ricchezza appartenente alla collettività (patrimonio) e come espressione di valori di lunga durata (identità materiale) in cui sia assicurata la partecipazione dei cittadini quali soggetti attivi della costruzione, del controllo e dell’attuazione dei piani (identità sociale). I temi dello statuto del territorio, delle invarianti strutturali, della disciplina paesaggistica, della concertazione fra amministrazioni pubbliche e dei processi partecipativi sono fra loro strettamente interrelati, perché i valori patrimoniali collettivamente riconosciuti dovrebbero trovare espressione nello statuto del PIT ed assumere un carattere di invarianza.
2. MOTIVAZIONI DELL’OSSERVAZIONE: LA CRITICA ALLA STRUTTURA DELLO STATUTO DEL PIT
2.1 Dallo statuto del territorio all’agenda statutaria
La critica generale che viene formulata all’impianto concettuale del PIT riguarda il fatto che lo statuto del territorio risulta chiaramente ed esplicitamente (sia nella relazione generale che nella disciplina del piano) condizionato e subordinato agli obiettivi strategici del piano, articolati nell’agenda strategica.
L’introduzione del concetto, o meglio dell’ossimoro, “agenda statutaria”, a sua volta definita attraverso metaobiettivi e obiettivi, tradotti in invarianti strutturali nella disciplina del piano, è la chiave di volta di questo slittamento semantico. Metaobiettivi e obiettivi dell’agenda statutaria sono in gran parte gli stessi, scritti in altra forma e con funzione complementare, rispetto agli obiettivi dell’agenda strategica (che riguarda gli obiettivi di trasformazione socioeconomica e territoriale finalizzati al progetto di sviluppo).
Questa inclusione nello statuto di obiettivi di piano, che riguardano le azioni e le trasformazioni auspicate e non la descrizione dei caratteri delle invarianti strutturali, finisce con l’eludere il tema dei valori statutari attribuendo loro un carattere contingente e collegato in maniera insoddisfacente al riconoscimento e alla riproduzione delle risorse patrimoniali. Il concetto di “agenda” indica infatti “variabilità” e “temporalità” degli obiettivi, legati alla specifica fase politico-economica e alla sua agenda politica.
Questa scelta, che è motivata dalla giusta esigenza di improntare il PIT a una logica attiva di trasformazione del territorio, contro una logica puramente di tutela e “conservativa”, rischia tuttavia di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. In questo caso il “bambino” è lo statuto del territorio stesso, cosi come definito dalla legge 1/2005, nei suoi caratteri innovativi, di cui sono fondamentali:
a) la costruzione con procedimento autonomo e prioritario rispetto alle strategie di piano dell’impianto statutario che riguarda la definizione dell’identità di lunga durata del territorio attraverso la individuazione delle sue risorse patrimoniali essenziali, delle invarianti strutturali, del loro stato di criticità e di conservazione e delle regole che ne garantiscono la riproducibilità e la durevolezza;
b) la conseguente verifica di coerenza (attraverso la valutazione integrata) degli obiettivi di trasformazione, quali essi siano (comunque contingenti) con la riproducibilità delle risorse, e in linea più generale delle invarianti che, in quanto tali, si presuppone non varino ogni legislatura;
Trasformando invece lo statuto in “agenda statutaria” e facendone conseguentemente dipendere gli obiettivi dall’agenda strategica, si subordina la definizione stessa delle risorse essenziali e delle invarianti strutturali alle esigenze dello sviluppo economico (in questo caso un modello fondato sulla competizione globale, l’esportazione, le grandi infrastrutture, la centralizzazione dei servizi, ecc).
In conclusione non c’è corrispondenza fra lo statuto del territorio come definito dalla legge 1/2005 e l’agenda statutaria del PIT, che inserisce nella parte statutaria del piano metaobiettivi e obiettivi che dovrebbero far parte della parte strategica
Tutto ciò, oltre a determinare le osservazioni ed i rilievi critici già esposti, solleva più di una perplessità anche sul piano giuridico-formale. […]
2.2 Metaobiettivi e obiettivi
Cercheremo di esemplificare questo ragionamento entrando nel merito sia di metaobettivi e obiettivi della parte statutaria che specificano le invarianti strutturali nella disciplina del piano, sia di obiettivi strategici della parte strategica articolati a loro volta in sistemi funzionali.
Con l’artificio semantico della “agenda statutaria” vengono definiti, con la stessa valenza di elementi statutari, beni non negoziabili, fondanti l’identità del territorio toscano, inteso “come patrimonio ambientale, paesaggistico, economico e culturale” e beni di carattere funzionale (infrastrutture, servizi ed impianti di utilità pubblica) che, pur rivestendo un “peculiare interesse regionale”, dovrebberoessere, in coerenza con la legge 1/05, orientati e finalizzati alla riproducibilità dei primi. Sopprimendo questa distinzione, oltre al sacrosanto paesaggio, finiscono nello statuto allo stesso livello del paesaggio “porti, aeroporti, grandi impianti tecnologici finalizzati al trattamento dei rifiuti, alla produzione o distribuzione di energia, alla erogazione e circolazione delle informazioni mediante reti telecomunicative”. Qui la confusione fra risorse essenziali e termovalorizzatori, invarianti strutturali e tralicci dell’alta tensione si fa evidente.
A questo proposito, le specificazioni degli obiettivi relativi ai metaobiettivi, che sostanziano le invarianti strutturali nella disciplina del piano, confermano questa confusione di piani fra obiettivi statutari e strategici:
Ad esempio per il primo metaobiettivo (“integrare e qualificare la Toscana come città policentrica”) viene enunciata la giusta opzione di assumere un’interpretazione sistemica della “città della Toscana” come sistema policentrico (per il superamento del modello centro-periferico), del quale cogliere i caratteri e le potenzialità in quanto risorsa essenziale del sistema Toscana, da definire come invariante strutturale; rispetto alla proposizione di questa invariante sarebbe perciò conseguente proporre, in sede di statuto la definizione dei caratteri costituitivi della città della Toscana, e in sede di obiettivi strategici del piano, azioni per la complementarietà, l’integrazione, la specializzazione, il funzionamento a sistema, di ogni nodo della “città toscana”.
Invece, alla enunciazione del metaobiettivo “statutario”, anziché seguire la descrizione dei caratteri della invariante strutturale, seguono (par. 6.3.1 della relazione) obiettivi di “agenda statutaria” del seguente tipo:
- potenziare l’accoglienza della “città toscana”, sviluppare una nuova disponibilità di case in affitto, combattere la rendita immobiliare, ecc.; tutti obiettivi degnissimi per un programma di politiche pubbliche sulla casa, ma che poco hanno a che fare con il policentrismo e soprattutto con le invarianti strutturali.
- offrire accoglienza organizzata e di qualità per l’alta formazione: come sopra, si tratta di un’invariante statutaria o di un obiettivo strategico?
- sviluppare la mobilità intra e interregionale;
- sostenere la creatività come qualità della e nella “città toscana”;
- attivare la città toscana come modalità di governance integrata su scala regionale. Perfino la governance, chiaro esempio di scelta di una modalità di governo del territorio viene inserita nello statuto: come risorsa essenziale? Come invariante strutturale?
Analogo ragionamento può essere condotto per gli altri metaobiettivi e obiettivi dell’”agenda statutaria” che articolano, nella disciplina, in termini di direttive e prescrizioni le altre invarianti strutturali: ad esempio “sviluppare e consolidare la presenza industriale” e i “progetti infrastrutturali”.
L’unica eccezione riguarda il paesaggio che è trattato in termini propriamente statutari in relazione al Codice dei beni culturali e del paesaggio e alla Convenzione europea del paesaggio, ed è inserito in una definizione di territorio come Patrimonio ambientale, paesaggistico, economico e culturale della società toscana, di cui lo statuto si propone di conservare il valore (terzo metaobiettivo).
2.3 L’agenda strategicae la valutazione integrata
A questo punto, se si esclude il paesaggio, è legittimo chiedersi in cosa differisca l’agenda strategica dall’agenda statutaria. Per dichiarazione del piano stesso i sistemi funzionali in cui si articola l’agenda strategica, sono “funzionali” alla realizzazione dei metaobiettivi dell’agenda statutaria. Vale a dire che i metaobiettivi e gli obiettivi dell’agenda statutaria trovano nei sistemi funzionali dell’agenda strategica la loro consequenziale strutturazione operativa. Esemplificando i sistemi funzionali dell’agenda strategica (cap. 7 della relazione):
- La Toscana dell’attrattività e della accoglienza riprende in altre forme più o meno simili i concetti degli obiettivi 1 e 2del metaobiettivo 1 dell’agenda statutaria;
- la Toscana delle reti articola il concetto di rete oltre che per il metaobiettivo 1, per le imprese, le istituzioni locali (riprendendo la “governance” - 5° obiettivo del metaobiettivo 1);
- la Toscana della qualità e della conoscenza riprende in modo più generico i corrispondenti metaobiettivi dell’agenda statutaria);
Come si configura, a questo punto, la valutazione integrata? La matrice che viene presentata (cap 8.4 della relazione) è singolare: si tratta di verificare la congruenza dei sistemi funzionali del PIT con i metaobiettivi dell’agenda statutaria, ovvero della strategia del PIT con se stessa. Sarebbe ben curioso infatti che i metaobiettivi dell’agenda statutaria e i sistemi funzionali dell’agenda strategica, che fanno parte di un unico impianto progettuale, con diversi livelli di specificazione, fossero incoerenti fra di loro e con i programmi strategici del PRS di cui sono parte integrante.
Viceversa la matrice che avrebbe senso introdurre nel sistema di valutazione integrata sarebbe quella che mette in relazione le invarianti strutturali - specificate nei loro caratteri descrittivi e prescrittivi - e gli obiettivi dell’agenda strategica, per verificarne la coerenza (in termini ambientali, territoriali, paesistiche, ecc). Questa matrice, tuttavia, non può esserci in quanto non sono sviluppate le descrizioni e le prescrizioni relative alle invarianti strutturali, se si esclude in parte il metaobiettivo 3 (conservare il valore del patrimonio territoriale della Toscana) e i beni paesaggistici di interesse unitario regionale (sesta invariante strutturale dell’art. 31 della disciplina del piano), i cui caratteri, valori e obiettivi di qualità sono definiti nelle schede dei 38 ambiti paesistici del quadro conoscitivo).
3 LA PROPOSTA GENERALE:LO STATUTO DEL TERRITORIO COME “CARTA COSTITUZIONALE” DISTINTA DAL PIANO STRATEGICO
La proposta contenuta in questa osservazione consiste dunque nel distinguere con chiarezza nel governo del territorio la parte statutaria dalla parte pianificatoria. In quest’ottica, lo statuto del territorio si configura come una carta costituzionale, socialmente condivisa, che definisce le invarianti del territorio (in forma di rappresentazione del territorio, di valori condivisi, di patrimonio che si vuole trasmettere alle future generazioni, di regole riproduzione delle invarianti, ecc.). La parte statutaria del Piano, proprio in virtù del suo carattere “costituzionale” dovrebbe essere elaborata con l’effettivo coinvolgimento della società locale, mettendo in atto “percorsi di democrazia partecipata” in un arco di tempo che permetta una reale partecipazione dei cittadini e consenta di sottrarlo alle contingenze e pressioni tipiche della strumentazione urbanistica. Il piano, a sua volta, definisce le trasformazioni del territorio, gli investimenti, le destinazioni, ecc., coerentemente con i principi contenuti nello statuto.
La distinzione fra aspetti statutari e aspetti pianificatori, legati a specifiche e differenti condizioni e orizzonti temporali, comporta che non sia scontato che le opzioni effettive del piano siano conformi ai principi dichiarati, come avviene correntemente in una sfera retorica del piano che maschera spesso un percorso decisionale di senso esattamente inverso.
In sintesi, il corpus dello statuto deve essere separato dal piano e acquisire uno status specifico, di natura costituzionale, e lo statuto stesso deve essere considerato un invariante, cioè non modificabile se non mediante procedure particolari in cui sia centrale la partecipazione dei cittadini.
Le considerazioni precedenti comportano come conseguenza che le prescrizioni del piano, che sono necessariamente legate a specifici obiettivi e politiche e perciò hanno un carattere contingente, non sono diretta emanazione dei principi statutari (come si vorrebbe nell’agenda statutaria del PIT) ma si conformano ai principi statutari. In analogia con le leggi ordinarie dello Stato che rispondendo a specifiche situazioni non derivano dalla Costituzione ma devono rispettarne i principi.
In questa linea lo statuto non dovrebbe contenere un elenco di risorse che devono essere sottoposte a verifica rispetto a prestazioni funzionali assunte pleonasticamente come invarianti. La proposta è invece che la Regione formuli uno statuto, con un’ampia partecipazione della società toscana, in cui siano riconosciuti descritti e tutelati i valori patrimoniali e identitari del territorio che si vogliono trasmettere alle future generazioni.
La separazione fra statuto e piano non significa, ovviamente mancanza di relazioni. I piani dovrebbero, nelle loro previsioni di trasformazione del territorio, dare specifico conto della loro conformità con lo statuto. Qui entra in gioco anche la possibilità di un controllo da parte dei cittadini, ora frustrati da procedure di tipo burocratico in cui il Comune, controllore di se stesso, risponde alle osservazioni e richieste della società locale solo nei termini di un rispetto formale alla legge (operazione tanto più facile, quanto più la legge stessa è espressa in modo confuso e ambiguo). I cittadini dovrebbero potere trovare un’istanza che non sia il TAR (come ora avviene per scongiurare le peggiori iniziative), ma un organismo che abbia funzioni analoghe ad una “corte costituzionale”, che giudichi cioè se le trasformazioni proposte rispettino o meno i principi e le regole dello statuto.
Analogamente, anche le norme di salvaguardia, introdotte esplicitamente o implicitamente dal PIT nella Disciplina rischiano di rimanere sostanzialmente inefficaci se non viene previsto uno spostamento di poteri – a livello locale – dalle amministrazioni e dai sindaci verso i cittadini. Valga come esempio una prescrizione apparentemente “forte” del PIT relativa al patrimonio costiero: Sono da evitare nuovi interventi insediativi ed edificatorî su territori litoranei a fini residenziali e di ricettività turistica, se non in ottemperanza alla direttiva anticipata nel sottoparagrafo 2 del paragrafo 6.3.3 del Documento di Piano (cioè ai fini della riorganizzazione e del potenziamento delle attività portuali e in presenza di chiari e innovativi disegni imprenditoriali, capaci di far sistema con un’offerta turistica organizzata e integrata nella chiave di servizi plurimodali e coordinati). Ma coloro che decidono sulla ottemperanza o meno alla direttiva sono ancora una volta i Comuni, come risulta chiaro dall’Art. 36 della Disciplina (Lo Statuto del PIT e le misure generali di salvaguardia); Comuni che sono chiamati a giudicare, attraverso la valutazione integrata o altri procedimenti, sui loro stessi programmi e piani. E’ difficile che le amministrazioni smentiscano le loro stesse scelte dichiarandole incompatibili con i principi di buon governo del PIT, a meno di non introdurre nel processo valutativo strumenti di democrazia partecipativa che consentano una verifica sociale della coerenza delle politiche locali alle prescrizioni del PIT stesso.
4. LA PROPOSTA OPERATIVA
Da questa proposta generale consegue una proposta operativa molto semplice: trasferire i metaobiettivi e gli obiettivi dell’”agenda statutaria”, impropriamente collocati nella parte statutaria del piano, nella agenda strategica; sviluppare invece nella parte statutaria, come per il paesaggio, la descrizione dei caratteri delle invarianti strutturali e delle loro regole di conservazione e valorizzazione.
Proponiamo inoltre di eliminare l’invariante strutturale B) la “presenza industriale” in Toscana, che ci pare rappresentare più propriamente un obiettivo strategico relativo al consolidamento della struttura produttiva peraltro in profonda trasformazione, piuttosto che un’invariante strutturale che riguarda, come per le altre invarianti definite dal PIT, caratteri di lunga durata della struttura socioterritoriale; e di sostituirla con un’invariante, non esplicitata, relativa alla Rete ecologica regionale
Operativamente proponiamo perciò di sviluppare la trattazione delle 6 invarianti strutturali dello statuto proposte nel PIT articolando la descrizione delle risorse essenziali del territorio che le compongono e le regole di riproduzione sostenibile delle risorse stesse a cui i progetti di trasformazione della parte strategica devono conformarsi.
Poiché è evidente che le invarianti del PIT non possono assumere immediata operatività, ma richiedono una loro traduzione nei PTC delle Province e negli strumenti urbanistici Comunali, devono essere rese operative le misure di salvaguardia contenute nell’Art 36 della Disciplina del PIT, prevedendo forme di partecipazione dei cittadiniai procedimenti che devono valutare la rispondenza delle previsioni urbanistiche comunali alle direttive e alle prescrizioni del PIT.
A titolo esemplificativo, proponiamo alcuni titoli che dovrebbero sostanziare la definizione delle invarianti strutturali costitutive dello statuto del territorio. […]
In allegato il testo integrale dell’osservazione nel formato .pdf
Telefonare al Presidente: ecco l’idea. Ringrazio il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini. Terrò presente la sua offerta, formulata nella lettera pubblicata mercoledì da Repubblica, anche se mi sembra preoccupante che nella pletora di Comuni, Province, Comprensori, Autorità e quant’altro si debba ricorrere a lui per avere informazioni elementari.
Resta il fatto che finora non si è trovata molta disponibilità da parte delle amministrazioni toscane, tutte schierate a difesa del famigerato "Accordo di programma" detto del Tubone e restie perfino a concederne in visione il testo. Ma può darsi che la decisione del Ministero dell’Ambiente – non della Regione Toscana, caro Presidente – di mettere un punto fermo sulla questione imponendo la costruzione di un depuratore per l’area Valdinievole ovest abbia cambiato il clima. Ci auguriamo comunque che l’autorevole presa di posizione del Presidente Martini venga meditata da tutti gli enti sottoscrittori dell’Accordo di Programma. Collaboreranno o saboteranno? Vedremo.
Ma ci sono altre cose che vorremmo sapere dal Presidente; per esempio, questa: se due milioni e mezzo di metri cubi di acqua invece di entrare nel tubo resteranno in Valdinievole per esservi depurati, che ne sarà dei rimanenti dieci milioni circa? A quanto pare, saranno sottratti ai depuratori comunali per i quali i cittadini pagano robuste tasse e portati altrove per venire definitivamente inquinati dalle lavorazioni chimiche delle industrie conciarie. Eppure tutti sanno quanto l’acqua sia preziosa e come sia destinata a diventarlo sempre di più.
Quanto al Padule di Fucecchio, non basta salvarne la sopravvivenza, bisognerebbe anche voltare pagina rispetto al vuoto amministrativo e politico che ha fatto di un territorio unitario uno spezzatino di realtà incompatibili e in conflitto. Perché qui c’è di tutto: dall’oasi ambientale alle postazioni di caccia, passando per coltivazioni inquinanti e quant’altro.
Quanto alla tutela delle bellezze della Toscana dobbiamo intenderci. È diventata fastidiosamente abituale l’espressione "patrimonio dell’umanità". Preferiremmo parlare dell’ambiente – di ogni ambiente - come patrimonio degli esseri umani in carne e ossa che ci vivono e di quelli che ci vivranno. Se un privato cittadino come lo scrivente ha partecipato a una campagna di opinione considerandola come cosa non estranea al suo mestiere di storico e di insegnante non è stato per difendere bellezze celebri ma perché ritiene diritto di ciascuno quello di vedere tutelati da autorità scelte per via democratica l’aria, l’acqua, il verde del suolo dove il caso o la necessità lo ha portato a vivere: fosse anche ai bordi di un Padule.
La regione più bella d’Italia è sulle pagine della stampa da parecchi mesi. I lettori hanno imparato a conoscere siti come quello di Monticchiello, la Val D’Orcia, Montegrossi, la Val di Magra, Fiesole, Capalbio, Bagno a Ripoli, san Macario, Lucca, più per gli interventi urbanistici in fase di attuazione in contrasto con la tutela del paesaggio che per la loro storia millenaria.
Il fenomeno sia ben chiaro è assai più ridotto di quello che si riscontra ormai in tutto il territorio nazionale, ma il problema resta.
Molti intellettuali autorevoli come Alberto Asor Rosa, Vittorio Emiliani, comuni cittadini, si sono riuniti in comitati e chiamano in correità la regione Toscana per l’assenza di controlli sui piani urbanistici e di vigilanza sugli usi del territorio locale in rapporto alla tutela ambientale e storico-artistica.
Le ragioni di questo processo di trasformazione che coinvolge in primo luogo le aree rurali, sono almeno quattro, sia di carattere giuridico-istituzionale che economico.
La principale è legata all’eliminazione – nella lr. 5/1995 – del sistema di controllo preventivo sui piani regolatori da parte regionale, in ossequio all’abolizione nazionale del sistema dei controlli sugli atti degli enti locali e ad una forzata interpretazione del principio di sussidiarietà – secondo il nuovo titolo V cost. – che considera la vicinanza delle istituzioni locali ai territori come la miglior cura dell’interesse pubblico. Teoria questa, che se applicata alla pianificazione del territorio riconoscerebbe implicitamente una “riserva” di piano regolatore cosicchè le popolazione locali – o meglio la rappresentanza politica di quelle collettività – avrebbero il diritto di disporre del proprio territorio come meglio credono. L’autoapprovazione dei piani regolatori e la mera verifica della loro coerenza agli atti di pianificazione sovraordinata come ad es. il piano territoriale di coordinamento provinciale – che di regola non detta prescrizioni ma solo indirizzi – hanno lasciato spazio a previsioni urbanistiche comunali spesso in contrasto con i principi dello sviluppo sostenibile. E questo sta accadendo in tutt’Italia. Di fronte a questo paradosso, basterebbe citare due sentenze del Tar Toscana con le quali prima la provincia di Lucca (6287/04) e poi la stessa Regione Toscana (98/05) hanno tentato inutilmente, come estrema ratio, di ottenere l’annullamento del Regolamento urbanistico del comune di Lucca perché in contrasto con il PTCP della provincia e con il PIT (piano d’indirizzo territoriale) regionale.
La lr 1/2005 “norme per il governo del territorio” prova a rimettere ordine nel sistema di controllo degli usi del territorio ma affidandosi ancora una volta all’autodeteminazione degli enti locali ancorché bilanciata da un sistema di concertazione che àncora le trasformazioni del territorio alla redazione degli statuti del territorio ed ai contenuti del PIT. Si tratta di modelli di pianificazione ancora in fase di elaborazione che pongono problemi interpretativi sull’efficacia delle disposizioni anche ad un giurista e che comunque richiederanno del tempo per arrivare a regime.
Il secondo motivo risiede in un sistema di partecipazione alle scelte pianificatorie comunali che non ha nulla a che fare con le inchieste pubbliche dei paesi anglosassoni, poiché l’amministrazione è restìa, ancor oggi, ad un’urbanistica effettivamente partecipata che potrebbe mettere in discussione la propria vision territoriale.
Il terzo è legato alla crisi fiscale dello stato che spinge i comuni a considerare gli usi edificatori del territorio come fonte di reddito per rimpinguare le casse comunali attraverso la riscossione dell’ICI e degli oneri di urbanizzazione che, sganciati, in base ad una legge finanziaria del 2002, da qualunque reimpiego nelle opere e servizi pubblici, possono essere utilizzati per finalità generali.
Il quarto motivo risiede nella perdita di senso – per le popolazioni locali – del paesaggio agricolo e nel progressivo omologarsi verso un non meglio definito paesaggio turistico fatto di seconde case, lottizzazioni intensive, e nell’abbandono progressivo del rapporto tra conduzione del fondo e attività edificatoria, tranne i casi di specializzazioni agricole gestite da veri imprenditori agricoli. La pressione speculativa tanto sulle coste come nelle colline interne distrugge le campagne italiane in funzione di una mal intepretata modernizzazione fatta prevalentemente di case con piscine abitate tre mesi l’anno.
Il paesaggio naturale ma anche quello “artificiale” opera dell’uomo, testimonianza avente valore di civiltà da tramandare alle generazioni future, non è più in grado di autogovernarsi diventando così in molti casi territorio in attesa di trasformazioni edificatorie.
Nel frattempo però, in molti piani regolatori vigenti dei comuni toscani vi sono previsioni urbanistiche che andranno in attuazione negli anni futuri e che presto potrebbero costituire oggetto di nuovi “scandali” edilizi, come già si sono affrettati a dire i responsabili regionali. Come dire il peggio deve ancora venire! Eppure quei piani regolatori sono comunque passati all’attenzione degli uffici regionali; possibile che una regione che svolge funzioni di programmazione e quindi di previsione degli sviluppi futuri non si sia resa conto, calcolatrice alla mano, che i volumi edificatori previsti in quei piani, specie di piccoli comuni, erano ben oltre i limiti dello sviluppo sostenibile e della loro potenziale crescita insediativa?
Che fare? Una soluzione ci sarebbe, quella del nuovo piano paesaggistico in fase di elaborazione, per di più oggetto di un protocollo d’intesa con il Ministero dei beni culturali come prescrive il Codice del paesaggio. Soluzione che, individuando nuovi beni paesaggistici di rango regionale o beni “identitari” sul territorio regionale, tra cui il paesaggio rurale, ponga limiti a queste nuove cementificazioni poiché le scelte del piano paesaggistico prevalgono, immediatamente, secondo la legislazione statale, sulle previsioni dei piani regolatori sottostanti.
Ma non pare che questa sia una strada promettente se la Regione Toscana intende redigere il contenuto del piano paesaggistico in collaborazione con comuni e province attraverso intese e accordi, lasciando poi agli enti locali la possibilità di una disciplina paesaggistica integrativa contenuta nel piano paesaggistico regionale (rectius piano d’indirizzo regionale).
Ora non vi è chi non sappia che le scelte sovraordinate non possono sempre essere ridiscusse con i destinatari di quelle tutele – a meno di non voler riprodurre anche qui la sindrome nimby (not in my back-yard) - poiché gli enti locali si muovono nell’ottica degli interessi particolari versus gli interessi generali di collettività anche più ampie di quelle regionali, come testimonia la risonanza internazionale di questa regione e le numerose presenze di cittadini stranieri che la frequentano per la qualità del paesaggio finora tutelato.
Mi domando se il presidente Soru, cui si deve il merito di aver sostenuto ad oltranza l’approvazione, un anno fa, del piano paesaggistico della Sardegna, avrebbe ottenuto lo stesso risultato di tutela, qualora si fosse messo a “contrattare” con i comuni costieri se era giusto o meno ridurre i 57 milioni di mc previsti sulle coste sarde dai vigenti strumenti urbanistici comunali!
La tutela del paesaggio non si “contratta” – come fossimo in un’area di riconversione urbana – poiché la sussidiarietà ambientale è spesso in contrasto con la ricerca del consenso. Il problema di fondo, a ben vedere, è tutto qui.
Sono in grado le regioni ed il ministero dei beni culturali di svolgere un’effettiva tutela e valorizzazione del paesaggio italiano? O dobbiamo ridurci ad intendere la sussidiarietà come un nuovo localismo dei territori locali? Il ruolo delle amministrazioni d’area vasta – le regioni – o centrali come il ministero dei bei culturali, può, quindi, essere decisivo per l’attuazione dei programmi di conservazione anche in funzione di accompagnamento come si usa dire oggi, e di controllo.
Nel rapporto tra regione e amministrazione centrale, lontane dagli interessi particolari, si gioca quindi la partita della tutela del paesaggio con i comuni, non perseguibile solo nella sua staticità (pena in qualche caso la perdita di significato della tutela) ma nel suo evolversi, sempre e comunque, tuttavia, nel rispetto della effettiva conservazione.
Postilla
Il primo errore del sistema toscano non è, come sostiene l’autore, quello di sostituire l’approvazione dei piani comunali con la verifica di conformità alla pianificazione sopraordinata, ma dall’assoluta intederminatezza di questa. L’errore è aver sostituito, a tutti i oiverllo sovracomunali, piani di chiacchiere a piani di prescrizioni. In contrasto anche con il codice dei beni culturali e del paesaggio. Non sembra che i due ministeri competenti alla “intesa” (Beni e attività culturali e Ambiente e tutela del territorio) se ne siano accorti.
Sull’argomento si vedano l'articolo di Luigi Scano e molti altri documenti nella cartella dedicata alla Toscana
Si tiene in questi giorni una Conferenza sul territorio promossa dal Comune di Milano. Un certo scetticismo accompagna sempre chi viene a conoscenza di questi avvenimenti perché sa, per esperienza, che sono spesso un carosello di parole altisonanti ma prive di contenuti realistici e concreti. L’attuale Conferenza sul territorio non fa eccezione. Già al momento della presentazione, avvenuta venerdì scorso, è subito apparsa chiara la palese contraddizione tra le buone promesse e le problematiche realizzazioni.
I promotori della conferenza parlano di partecipazione dei cittadini, ma non danno alcuna indicazione operativa sul modo con il quale la vantata partecipazione potrà svolgersi. Non è operazione semplice organizzare un contatto continuo e capillare con gli abitanti di una grossa città. Occorre predisporre un servizio di accettazione delle missive, un canale Internet, un ufficio di smistamento della corrispondenza; occorre comporre un elenco dei principali temi di discussione per orientare i mittenti verso gli argomenti di loro interesse.
Durante i preparativi della conferenza nulla di tutto ciò è stato fatto e neppure previsto. Come se gli organizzatori invitassero una persona a cena e poi non gli aprissero la porta di casa. Del resto è noto che tante lettere mandate dai cittadini al sindaco e agli assessori sono rimaste senza risposta. Date queste premesse parlare di partecipazione del pubblico diventa un’illusione.
Scorrendo gli argomenti in programma, salta subito all’occhio un’enorme e imperdonabile dimenticanza. Sono elencati molti importanti problemi, ma non viene menzionato quello più urgente, il traffico. Eppure in un organismo urbano il movimento dei mezzi di trasporto è altrettanto importante quanto in un organismo vivente il flusso del sangue. Come se dei medici organizzassero una conferenza di anatomia generale e si dimenticassero di parlare del sistema circolatorio. Che la Conferenza sia organizzata in modo superficiale ed affrettato lo dimostra lo sgomento di un assessore di fronte alla domanda di Luca Beltrami Gadola: ha stabilito il Comune quanti abitanti debba avere Milano? La domanda, ovvio, è provocatoria. Non si trattava di conoscere un numero demografico, ma di chiarire un concetto urbanistico. Capire cioè se sia ancora tollerabile un continuo ingrandimento della città, sempre e solo su se stessa secondo una crescita caotica a macchia d’olio, oppure se sia giunto il momento di darsi un limite, di arrestare drasticamente lo sviluppo urbano e trasferire la futura espansione nel territorio circostante, molto al di là dei confini attuali. È davvero paradossale che questo fondamentale concetto urbanistico, attinente la crescita urbana e determinante per il destino del territorio, non sia stato per nulla avvertito dall’attuale conferenza, intitolata pomposamente "Conferenza sul territorio".