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Nel giro di poche ore, lunedì scorso, si è aperta la possibilità che il consiglio comunale di Torino indìca un referendum consultivo cittadino sulla costruzione di grattacieli nell’area centrale. Il Sindaco e il gruppo Pd si sono visti accerchiati ma a dar loro manforte sono scesi in campo gli editoriali de La Stampa e dell’edizione torinese di Repubblica, ambedue contrari al referendum (“non si possono mettere in discussione decisioni già prese”, “se non voterà almeno il cinquanta per cento dei torinesi, il conto lo paghino quelli che il referendum l’hanno preteso”.) La coincidenza con le urne sulla tramvia di Firenze è molto forte, da opposti punti di vista e ha creato un mix particolare che va visto nel suo insieme e va scomposto nei suoi ingredienti. Sullo sfondo c’è il conflitto paesaggistico urbanistico aperto da mesi sui progetti della Banca Intesa San Paolo e della Regione per torri di terziario che cambierebbero il profilo della città.

La prima parte della notizia è che la Sinistra Arcobaleno (che pure è parte della Giunta Chiamparino), tutta insieme, ha proposto un referendum consultivo di iniziativa del consiglio comunale per chiedere ai torinesi se sono d’accordo con torri alte più di 100 metri tra la Mole e le Alpi. La seconda parte della notizia è che prima Alleanza Nazionale poi Forza Italia, pur favorevoli ai grattacieli ( “è come per la Tav, la sinistra vuol bloccare il progresso”) hanno annunciato di concordare sulla richiesta democratica di referendum, consultivo. A questo punto il sindaco ha ammesso a denti stretti che il referendum si può anche fare, perché «non ho alcun dubbio sul fatto che una consultazione sulla questione grattacieli, se ben definita nel suo oggetto e con tempi adeguati ad una corretta informazione, vedrebbe la stragrande maggioranza dei torinesi pronunciarsi a favore” ( Sergio Chiamparino), ma “questo tuttavia non può mettere in discussione e quindi non può riguardare in alcun modo impegni amministrativi già assunti per i quali esistono interessi legittimamente costituiti di terzi”. In pratica si vuole escludere dall’eventuale referendum almeno il progetto San Paolo (di Renzo Piano) dato che la banca ha già comprato l’area al Comune. (Ma la licenza edilizia ancora non c’è e se davvero i cittadini si pronunciassero per altezze massime di 80-100 metri, quindi contro l'attuale progetto di 185 metri, non sarebbe poi facile per l’immagine del San Paolo pretendere i danni dalla “sua” città.)

Nella vicenda, più che mai aperta in queste ore, c’è un aspetto politico interessante.. La Sinistra Arcobaleno non è sempre necessariamente costretta a passare per il Pd se vuole sostenere e affermare una proposta, quanto meno di metodo. Il famoso ragionamento “ci accordiamo con l’avversario per stabilire regole nuove e più avanzate di conflitto” non vale solo per accordi tra il Pd e la destra per ridurre la rappresentanza, ma può valere al contrario per introdurre una verifica democratica. E’ chiaro che c’èa destra chi ha visto con favore la vittoria, sia pure risicata e simbolica, ottenuta a Firenze nel referendum antitramvia contro la posizione di Domenici. Ma in questo caso Forza Italia si batterebbe poi, nell’eventuale referendum, per la stessa posizione grattacielistica di Sindaco, Banca e Regione. E in questo caso non si contestano linee di trasporto pubblico ma inutili giganti di nuovo terziario in una città che ha ancora molti edifici dismessi riutilizzabili. Che dire poi – ecco l’altro aspetto, quello procedurale- di questi referendum comunali? Se ci partecipa il 40% dei cittadini diciamo che son falliti? Ha ragione Fuksas (progettista di 220 metri di torre per la Regione a Torino) secondo il quale “Questi referendum sono ridicoli : in democrazia si vota per un´amministrazione e se non ti piace a fine mandato non la voti più. ”? Da quando sono stati istituiti i referendum comunali – che si svolgono in data diversa dalle elezioni – non hanno mai visto in Italia partecipazioni superiori al 30-35%.

In altri paesi, in altre situazioni, questi livelli di partecipazione vengono considerati più che sufficienti. Il referendum che a Monaco di Baviera tre anni e mezzo fa ha stabilito in 100 metri l’altezza massima delle nuove torri costruibili aveva visto superare di poco il quorum, che nella capitale bavarese è del 20%. E tutti lo hanno riconosciuto come valido. Altri sono i problemi e i limiti di questi, come di tutti o quasi i referendum : la estrema semplificazione del quesito, e invece la costosa complessità della macchina elettorale che si mette in moto. Il rischio che prevalga chi ha maggiori capacità economiche e pubblicitarie. Si può ragionare su forme più leggere e insieme più raffinate di democrazia partecipata, sulle consultazioni, le giurie dei cittadini, i tavoli. Ma se non ci sono alternative praticabili e riconosciute, il referendum è comunque molto meglio dei giochi chiusi tra sindaci, banchieri e costruttori. (Salvo auspicabili ma improbabili salvataggi del paesaggio da parte del Ministero dei Beni Culturali.) Nel caso concreto dei grattacieli che stravolgerebbero Torino, il Comitato che pazientemente opera da mesi (qui il sito) da solo non potrà convertire Pd e Pdl a una scelta urbanistica sostenibile, né da sola potrebbe farlo la Sinistra Arcobaleno.

La quale ha coraggiosamente lanciato la palla ai cittadini, pur sapendo che alle urne potrebbero essere pochi, o affascinati dai vetrini di Piano e Fuksas. Nella spietata marcia delle ruspe del bipartitismo speriamo che non si arrivi anche ad abolire qualunque forma di consultazione che riguarda i problemi. Le primarie le fanno solo per le persone (e non sempre).

foto f. bottini

Settecento e qualcosa firme al giorno, praticamente senza copertura stampa. È la seconda, piccola mobilitazione di massa contro il progetto neocementificatore e paleoautoritario del centrodestra lombardo per abolire gli enti parco e l’idea di fondo della pianificazione territoriale.

Segue di una manciata di settimane, questa raccolta firme, quella dell’autunno scorso, che provocò anche se indirettamente il ritiro del cosiddetto “emendamento Boni”.

Si era detto allora: ci riproveranno. Ed eccola qui la junta padana a ribadire che un parco “ el custa un sacc del danée” perché bisogna pagare un consiglio, e i consigli sono una cosa inutile se le decisioni vengono prese altrove, no?

Si era detto anche: ma noi ci saremo ancora. Ed eccola qui, l’ormai ciclica raccolta di firme, stavolta su impulso di un piccolo gruppo pavese, ma che ha ripetuto e ampliato il sistema della partecipazione sicura e informata che già aveva caratterizzato la scorsa esperienza.

foto f. bottini

Mercoledì 13 febbraio, quando si è riunita nel primo pomeriggio la V Commissione Territorio per ri-discutere l’emendamento, i consiglieri sapevano già (ognuno dal suo punto di vista) delle più di mille firme che in poche ore si erano già accumulate sul sito www.piccolaterra.it . Non si è discusso in realtà di nulla: salvo rimarcare le due posizioni a quanto pare inconciliabili dei favorevoli e dei contrari, e rinviare l’eventuale voto al successivo mercoledì 20.

Il consigliere Monguzzi dei Verdi insieme a un altro ha segnalato l’ampiezza e coesione del movimento motivatamente contrario alle modifiche alla legge urbanistica regionale: un movimento che si esprime sia nel modo più istituzionale delle prese di posizione visibili di rappresentanti e stampa locale e non, sia appunto nelle forme anche più socialmente e culturalmente significative della partecipazione diffusa attraverso la raccolta firme.

Nel momento in cui vengono scritte queste note il numero delle firme sul sito ha raggiunto e superato quota 2.300, e non c’è motivo di ritenere che anche questo numero di adesioni non possa essere superato di molto. I due consiglieri hanno ottenuto che nella prossima seduta di Commissione venga ascoltato (ehm: per 15 minuti) un solo rappresentante del movimento di opposizione e dell’associazionismo.

Indipendentemente dai risultati istituzionali, che si spera comunque possano essere positivi, è comunque il caso di rimarcare ancora una volta come su un tema tanto tangibile e quotidiano come il verde, i fatti dimostrino come la cosiddetta “antipolitica” sia un’invenzione di alcuni politicanti di professione, eletti o meno, che vedono in una crescita della partecipazione diretta e consapevole un ostacolo ai propri tristi disegni, di non importa quale segno (anche perché spesso non li si distingue davvero, nel merito come nel metodo).

foto f. bottini

Nel caso specifico, è evidente l’orientamento dell’assessore e della maggioranza che lo sostiene: neocentralismo, culturalmente neolitico, complessivamente ostile nei confronti di qualunque forma di conflitto, per quanto incanalato e istituzionalizzato. Come quello che appunto nei meccanismi della pianificazione territoriale ai vari livelli e competenze vede una forma matura e consolidata.

E che si sostiene nelle sue forme non specialistiche su supporti come questo sito, e altri di varia ispirazione, a partire dal “glocale” www.piccolaterra.it al quale invitiamo per l’ennesima volta a far pervenire le adesioni, vostre e degli amici di tutta Italia (e del mondo, perché no?) che vorrete coinvolgere.

ORISTANO. Strana storia davvero, questa dell’investimento immobiliare sulle dune boscate di Is Arenas. Storia infinita che riserva sempre nuove sorprese e che cammina da sempre sui binari di due realtà intimamente inconciliabili. Da una parte, la Commissione Europea che sta per far cadere la sua mannaia sullo Stato italiano e la Regione Sardegna perché non hanno saputo conservare integro un Sito di interesse comunitario; dall’altra, un Comune, quello di Narbolia, che invece due anni fa ha concesso una licenza edilizia che autorizza la costruzione di un albergo cinque stelle-lusso e quasi cento villette in un’area ambientalmente sensibile e che dovrebbe essere tutelata e difesa come un parco.

Ma come spiegare questa incongruenza, questo paradosso che ha portato a una situazione surreale? E’ come se, in questa bizzarra commedia degli errori, convivessero due mondi giuridici e culturali diversissimi, ognuno con le proprie regole, le proprie logiche e le proprie convinzioni: un’Europa che rivendica il suo diritto-dovere di vedere applicata una sua direttiva (la 92/43 CEE) e un gruppo imprenditoriale che riafferma il devastante paradigma che coniuga ambiente e metro cubo.

In questa storia non poteva dunque mancare l’imbarazzante coincidenza che ha messo a nudo la profonda incongruenza del «caso Is Arenas». Proprio in questi giorni, infatti, la Travel Charme Hotels & Resorts ha diffuso gli inviti per l’inaugurazione del suo nuovo albergo superlusso nella pineta di Is Arenas. Con una promozione che ha tutto il sapore di un ossimoro, la cortese addetta stampa Annalisa Costantino dice: «Is Arenas si propone quale luogo ideale per vacanze all’insegna del relax e dell’ecoturismo».

E per capire appunto quanto sia ecoturistica l’iniziativa, ecco che proprio in quegli stessi giorni la Commissione Europea ha annunciato che il contenzioso con lo Stato italiano è arrivato al punto di rottura e che il nostro Paese dovrà essere processato dalla Corte Europea di Giustizia proprio per l’intervento «ecoturistico» sulle dune boscate di Narbolia.

Come se non bastasse, ecco comparire sul mercato immobiliare le prime proposte di vendita di ville nella pineta-parco che era stata inserita nella rete europea dei Sic su proposta della Regione Sardegna. Il primo dubbio deriva dalla proposta della Travel Charme Hotels & Resorts che annuncia la disponibilità di oltre 90 residence individuali intorno al campo da golf da 18 buche. Dunque, come gli ambientalisti avevano denunciato in passato, l’albergo sarebbe stato una sorta di cavallo di Troia per far “passare” poi le ville.

Sarà infatti un caso, una semplice coincidenza, ma è un fatto che l’agenzia immobiliare milanese Moscova Stabili Real Estate srl proprio nei giorni scorsi abbia proposto la vendita di sei ville a Is Arenas. Si legge infatti: «La nostra società vende sei unità proprio sulla buca 5 (del campo da golf ndr) in una posizione veramente bellissima. Tali villette sono pronte per essere consegnate. Il loro prezzo è di 330 mila euro per la villa 7, che è una singola; 320 mila euro per le tre ville 27-28-29) e 310 mila euro per le ville 34 e 35». La consegna è prevista per l’estate di quest’anno. E infine, un annuncio: «Sono previsti ulteriori interventi residenziali all’interno del comprensorio nei prossimi anni». Una conferma che arriva dal sito internet Sognandolasadegna.it dove si parla addirittura di 103 villette. E di 103 unità abitative parla anche il sito di offerte immobiliari Paradisola.it.

A questo punto, è evidente che si è messo in moto proprio quel meccanismo che gli ambientalisti avevano tenuto e denunciato.

Ma si pongono anche nuovi interrogativi. Prima di tutto l’albergo «cinque stelle-lusso» che dovrebbe essere inaugurato a giugno, viene presentato come una proprietà della Travel Charme Hotels & Resorts e non della Is Arenas srl. E’ probabile che quindi la struttura sia stata acquistata dalla società tedesca, che dice di possedere undici alberghi (nove in Germania, uno in Austria e uno in Italia). La realtà labirintica della Is Arenas srl, che come si ricorderà è controllata al 50% dalla misteriosa società anonima Antil BV, induce a fare una piccola ricerca sulla Travel Charme Hotels & Resorts, che dice di far parte del gruppo Schmidt di Berlino.

Sarà una coincidenza, ma come per la Is Arenas srl, ecco anche qui un sentiero che porta in Svizzera. Più precisamente a Zurigo. Consultando il registro di commercio cantonale, si scopre infatti che il 17 gennaio scorso è stata iscritta la Travel Charme Hotels & Resorts Holding AG. Tanto per cambiare, una società anonima. Il presidente del consiglio d’amministrazione risulta essere un tal Peter Kupfer, mentre gli amministratori sono un italiano, Giuliano Guerra, e un tedesco, Jochen Traut.

In questo scenario, nel quale si promuove un’offerta turistico-immobiliare superlusso, ecco un inatteso scivolone che riporta questo “mondo dorato” a una drammatica quotidianeità. E cioé la scoperta, da parte dell’Ufficio del lavoro di Oristano, che in quei cantieri molte cose non funzionavano. In un blitz effettuato nei giorni scorsi, è venuta infatti a galla una realtà di lavoro sommerso: molti dei 94 muratori trovati a lavorare al “paradiso Is Arenas” sono risultati in nero. Un’impresa del Cagliaritano è stata addirittura chiusa perché aveva alle proprie dipendenze solo lavoratori non in regola. La vera sorpresa è stata però quella di trovare anche piccole imprese estere (siriane, egiziane e senegalesi) sulle quali si stanno facendo accertamenti. Certo, tutto questo non può essere considerato un buon biglietto da visita per la promozione del “paradiso di Is Arenas”.

E infine si arriva al nodo dei problemi. O meglio, al problema dei problemi nella contradditoria, e a tratti confusa, storia del progetto immobiliare sulle dune di Narbolia, originariamente di 224 mila metri cubi di cemento. Su quei terreni che l’Europa, su segnalazione della Regione, vuole difendere, non sarebbe stata effettuata alcuna procedura di incidenza o impatto ambientale. Sarebbe stata quindi elusa una norma comunitaria. E proprio da qui nasce il procedimento di infrazione contro l’Italia, la messa in mora complementare nel gennaio del 2005 e ora, infine, l’ultimatum che porterà molto probabilmente a un processo per il nostro Paese. Con una sentenza che appare scontata. Bruxelles contesta all’Italia di essersi astenuta dall’adottare misure per evitare la compromissione dell’integrità del Sic e di non aver effettuato la valutazione di incidenza ambientale, prevista dall’articolo 6, comma 3, della direttiva 92/43CEE.

E fortemente critico era stato il Consiglio di Stato quattro anni fa, valutando insufficiente la procedura di verifica preventiva, come aveva invece sostenuto l’ufficio Sivea della Regione. La magistratura amministrativa, accogliendo il ricorso presentato dagli “Amici della Terra” che contestavano la procedura adottata dall’ufficio Sivea, non aveva risparmiato anche qualche bacchettata all’allora ministro dell’Ambiente, Altero Matteoli “colpevole” di avere presentato una relazione incompleta sul caso. Nel dicembre del 2004, quindi, il Consiglio di Stato aveva deliberato una sospensiva cautelare, anticipando comunque alcuni dei punti della trattazione di merito.

Agli ecologisti del Gruppo di Intervento Giuridico e agli Amici della Terra non è però finora arrivata alcuna comunicazione sulla decisione del Consiglio di Stato sul loro ricorso straordinario al capo dello Stato. Dopo la sospensiva, insomma, tutto sarebbe rimasto fermo. E allora l’interrogativo è questo: cosa è accaduto per mettere in moto le betoniere a Is Arenas?

Cinque anni fa, quando il ministro dell’Ambiente Matteoli cercò maldestramente di aiutare la Is Arenas srl chiedendo a Bruxelles la cancellazione del Sic, il consigliere regionale diessino Cicito Morittu era stato durissimo: «Ci troviamo davanti a un imprenditore che ha cercato in tutti i modi di sfuggire alla Valutazione di impatto ambientale. E questo è nei fatti. Come è nei fatti che Mauro Pili, in una legge di assestamento di bilancio dell’agosto del Duemila, ha inserito un emendamento che svuotava il senso della Valutazione di impatto ambientale, la quale diventava applicabile solo nelle aree protette previste dalla legge 394. Nella Finanziaria di questa’anno, con un colpo di mano, siamo riusciti a ripristinare l’obbligo della Via sui siti previsti nella “rete” Natura 2000. Conclusione: è evidente che alcuni imprenditori, e primo fra tutti quello che vuole costruire a Is Arenas, hanno avuto un appoggio politico dal presidente Pili».

Oggi Cicito Morittu è assessore regionale all’Ambiente e a Is Arenas le ruspe si sono messe in moto. E, come dimostra la linea adottata dalla Commissione Europea, senza alcun procedimento di incidenza o di impatto ambientale...

In un intervento a un convegno promosso dalla Quadriennale di Roma sul tema «Arte e cultura degli anni Novanta», Deyan Sudjic si confronta con le modalità (perverse) di produzione dell’architettura contemporanea, più vicine alle tecniche della comunicazione pubblicitaria che alla ricerca sulla città e sulla gente che la abita. Quanto sia comunque difficile sottrarsi al mainstream culturale testimonia il fatto che lo stesso autore è stato membro della giuria per il concorso di riqualificazione del quartiere della fiera di Milano. Come critica alla qualità architettonica del progetto vincitore possono valere su tutte le parole di Antonio Monestiroli: “Napoleone, che conosceva bene Milano, e che per Milano ha voluto straordinari progetti spesso non realizzati, diceva che gli uomini amano il meraviglioso e che sono anche disposti a farsi ingannare pur di riconoscerlo. Ecco, qui sta il punto: da una parte c'è un bisogno diffuso di una città che sappia farci meraviglia, che sappia interpretare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri ideali, dall'altra qualcuno pensa di meravigliarci con un gioco di specchi.” (GJF)

Circa tre anni fa le pagine patinate di Vanity Fair, la rivista americana per i fanatici dello star system che offre ai suoi lettori una dieta funesta ma irresistibile a base di celebrità, delitti borghesi e intrighi hollywoodiani, hanno festeggiato il novantacinquesimo compleanno di Philip Johnson in maniera quasi identica a quella del suo novantesimo. La rivista ha commissionato al fotografo di moda Timothy Greenfield-Sanders un ritratto del grande vecchio dell’architettura seduto al centro di un folto gruppo di seguaci nell’ atrio del Four Seasons, il ristorante ai piedi della Seagram Tower che Johnson ha avuto l’incarico di progettare come ricompensa per aver procurato la commissione dell’edificio a Mies van der Rohe.

Philip Johnson: il primo a capire che la copertina di «Time» vale molto di più di una monografia

È inconcepibile che nessun altro architetto abbia mai ricevuto un trattamento simile. Con l’unica importante eccezione della volta in cui accompagnò l’esercito tedesco nell’invasione della Polonia come corrispondente di una testata fascista americana, Johnson ha sempre avuto la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E la fotografia di Vanity Fair non è tanto un tributo al ruolo di Johnson nella storia dell’architettura quanto una celebrazione della sua importanza nelle rubriche mondane. Johnson è stato il primo architetto del Novecento a comprendere a fondo il potere della pubblicità e della notorietà. In un certo senso si tratta di un’abilità non troppo diversa da quella di Vitruvio, Palladio e tutti gli altri maestri i cui trattati possono essere considera ti come antesignani dell’arte dell’autopromozione in campo architettonico. Ma Johnson ha capito che la copertina di «Time» e la capacità di pronunciare al momento giusto una frase a effetto di fronte a un giornalista televisivo valevano molto di più per la costruzione di una carriera di una monografia destinata a essere letta solo da colleghi. E gli edifici che ha costruito sembrano anche loro delle frasi a effetto: attraggono l’attenzione del mondo per un nanosecondo e poi vengono dimenticati. Johnson è probabilmente il personaggio più vicino a Andy Warhol che l’architettura abbia mai pro dotto, in termini di personalità se non di qualità del lavoro. La fotografia di Vanity Fair mostra un bel gruppo di volti noti: Frank Gehry, accanto a Johnson insieme a Peter Eisenman, e ancora Arata Isozaki da Tokio, Rem Koolhaas da Rotterdam e Zaha Hadid da Londra, una presenza che sembra suggerire non solo un tributo a Johnson da parte di altri colleghi, ma anche un senso di accettazione della benedizione del grande vecchio, la cui protezione ha di certo aiutato molte persone a far carriera nel corso degli anni. Johnson è stato il più efficace propagandista dell’International Style prima e del Postmodernismo poi. Più di recente ha rivolto la sua attenzione al Decostruttivismo e persino ai deliri dell’architettura virtuale. Di sicuro non ha inventato nessuna di queste correnti. Tuttavia ha sempre cercato di renderle accessibili al vasto pubblico e, associando se stesso a ognuna delle nuove tendenze, è riuscito a costruirsi una visibilità del tutto sproporzionata al suo effettivo talento. Ha utilizzato la sua intricata e complessa rete di conoscenze nel mondo dell’architettura e degli sponsor per far sì che le nuove stelle del firmamento architettonico continuassero a ottenere incarichi importanti.

Il circo volante dei soliti trenta architetti

Forse mai prima d’ora così poche persone hanno progettato tante opere architettoniche «ad alta visibilità». A volte sembra che al mondo esistano solo 30 architetti, il circo volante dei perennemente affetti da jet lag, formato dai 20 che si prendono abbastanza sul serio da riconoscere un altro membro della casta quando lo incontrano nella sala d’attesa di prima classe all’aeroporto di Heathrow e da altri 10 che vanno avanti per forza di inerzia e, pur essendo stati smascherati dai colleghi, per il momento riescono ancora ad attrarre clienti in virtù delle loro glorie passate. Tutti insieme costituiscono il gruppo da cui vengono fuori sempre gli stessi nomi quando un’altra povera città illusa crede di poter battere il Guggenheim di Bilbao con una galleria d’arte che somiglia ai resti di un disastro ferroviario o a un disco volante o con un albergo che sembra un meteorite di venti piani. Li vedrete a New York e a Tokio, indossano i completi a tinta unita di Prada o Comme des Garçons A parte due eccezioni, sono tutti uomini. Li troverete sull’aereo per Guadalajara e Seattle, ad Amsterdam e, ovviamente, a Barcellona. Ora poi stanno tutti convergendo su Pechino, che in questo periodo è il più grande cantiere edile che il mondo abbia mai conosciuto. Incrociano di continuo il percorso dei colleghi, partecipano agli stessi concorsi riservati, sono sul palco per il conferimento del Pritzker Prize, e nelle giurie che scelgono i vincitori dei concorsi a cui non hanno partecipato in prima persona. A Pechino, Jacques e Rem stanno costruendolo stadio olimpico e la torre per la Tv cinese. Miuccia Prada li ha reclutati per aumentare il numero dei suoi negozi in Cina. Frank è in giro ovunque per il Guggenheim, anche se ha rifiutato l’incarico del New York Times, lasciando a Renzo la possibilità di occuparsene. Jean Nouvel sta cercando di sostenere il tentativo sempre più disperato del Guggenheim di vendere una concessione a Rio de Janeiro, visto che il genitore newyorkese, dopo investimenti edilizi degni della follia di re Ludovico di Baviera, è rimasto senza un quattrino.

Un business spartito tra carestia e sovrabbondanza

Perché siamo arrivati a questo punto? In parte perché l’architettura è riuscita come mai prima d’ora a lasciare il segno su un più vasto ambito culturale. Tre anni fa, la retrospettiva di Frank Gehry al Guggenheim di New York è stata un trionfo, con 370mila biglietti venduti. Un trionfo solo in parte macchiato dall’odioso imbarazzo di avere Enron tra gli sponsor principali. Nell’introduzione del catalogo della mostra, il Presidente della compagnia spiegava che Gehry e Enron condividono gli stessi obiettivi e valori, e in particolare proprio «la ricerca del momento della verità». Sei mesi più tardi il progetto di Gehry da un miliardo di dollari per il Guggenheim di New York veniva cancellato e la Enron veniva smascherata come la più grande truffa di tutti i tempi, almeno fino all’exploit della Parmalat. Nonostante la fine dell’effetto Guggenheim e i tagli ai budget, i licenziamenti del personale e i disperati salvataggi finanziari, alcuni sindaci ambiziosi pensano ancora che la costruzione di un edificio avrà il potere di farli notare. Il problema, data la totale assurdità di tanta parte dell’architettura contemporanea, è il seguente: come possono affermare che il disastro ferroviario, il meteorite o il disco volante diventeranno il segno distintivo della loro città e non si riveleranno invece l’ammasso di immondizia che in parte già sospettano sia? In realtà non possono saperlo. Per questo si affidano a quella lista di 30 nomi estratti dalle fila degli archi tetti che lo hanno già fatto prima. Quelli che hanno il permesso di essere assurdi. Dai l’incarico a uno di loro e stai certo che nessuno riderà di te. Proprio come comprare un vestito firmato Hugo Boss.

Tuttavia si tratta di un sistema che risente di un effetto boomerang: più si continuerà ad affidare tutti gli incarichi importanti a pochi nomi, meno possibilità di scelta ci sarà la prossima volta. Con la conseguenza che l’architettura si troverà trasformata in un business brutalmente spartito tra care stia e sovrabbondanza.

Alcuni architetti hanno troppo lavoro per potersi concentrare bene su ciascun incarico e distruggono quindi la pro pria reputazione diventando la parodia di se stessi, altri ne hanno così poco da considerare l’ampliamento di una cucina l’opera di un’intera vita, e fanno la fame.

Il sistema non sembra giovare poi molto agli apparenti beneficiari. Questa attenzione incontenibile ed esagerata ha un effetto preoccupante su alcuni degli elementi più suggestionabili del circo volante dei perenni affetti da jet lag. Cominciano a crederci davvero. Non riescono a evitare quella punta di sdegno bonario nei confronti di coloro che sono esclusi dalla fortunata cerchia, ma hanno anche l’ansia costante di essere messi in ombra e temono che l’appartenenza al gruppo sia solo temporanea. E orribile, crudele e snob. Ed è la naturale conseguenza della bizzarra richiesta di icone che ha travolto l’architettura e sedotto i suoi clienti negli angoli più improbabili del pianeta.

Un «progetto visionario di riferimento»

L’anno scorso, 1’agenzia per lo sviluppo dell’East of England, qualcosa di simile all’ente per la promozione della Calabria, ha lanciato ciò che definiva con ridicola magniloquenza un concorso internazionale per «il progetto visionario di uno o più edifici di riferimento». L’agenzia dichiarava di volere «un ‘icona che promuovesse il senso di identità della regione nel suo insieme» per sottolineare il fatto che l’East of England è una «regione di idee». L’unico elemento mancante in questa tiritera di luoghi comuni triti e ritriti era il riferimento en passant alle ambizioni di livello mondiale, espressione che al giorno d’oggi spunta fuori ovunque, sia in Calabria che in Alaska. Non è stato specificato alcun sito e l’agenzia non ha stanziato alcuna somma per il progetto, il che ispira certo poca fiducia, ma l’architetto Yasmin Shariff, che è anche membro del Consiglio di Amministrazione, sostiene che questo esempio di velleitarismo «è una fantastica opportunità per riunirci in quanto regione e decidere come presentare noi stessi al resto del mondo». Non è difficile indovinare che stanno pensando all’ennesimo teatro dell’opera dalla facciata coperta di scaglie di titanio, progettato da Frank Gehry come una massa informe, op pure a un ponte pedonale eccentrico ed esibizionista alla Santiago Calatrava.

La ricerca dell’icona

I concorsi di questo tipo si indicono ormai ovunque e conducono inevitabilmente al genere di architettura che ha la sua collocazione ideale sul logo di una carta intestata o nello spazio ristretto di un fermacarte di vetro con la Torre Eiffel sotto la neve, oppure sullo sfondo di una pubblicità di automobili. Sostiene di derivare da un’ispirazione, invece si riduce a una semplice ovvietà. La ricerca dell’icona è diventata il tema onnipresente dell’architettura con temporanea. Se essa deve emergere in mezzo a una serie infinita di sobborghi industriali fatiscenti, catapecchie rurali e aree di sviluppo, tutti soggiogati dal mito della celebrità e determinati a costruire l’icona che porterà il mondo ad aprirsi un varco fino alla loro porta, allora c’è bisogno di un’idea davvero straordinaria che catturi l’attenzione. Ma questa strada conduce a un’architettura dal rendi mento decrescente, in cui ogni nuovo edificio sensazionale deve tentare di eclissare il precedente; conduce a una sorta di iperinflazione, all’equivalente architettonico della svalutazione della moneta durante la Repubblica di Weimar. Oggi tutti vogliono un’icona. Vogliono un architetto che realizzi per loro quello che il Guggenheim di Gehry ha fatto per Bilbao e l’Opera House di Jorn Utzon per Sydney. Gehry, colui che ha innescato la spirale dell’inflazione con il Guggenheim di Bilbao, ha appena terminato la Walt Disney Hall a Los Angeles. Durante la cerimonia d’inaugurazione, la maggior parte degli interventi sottolineava l’importanza della nuova sala da concerti per l’immagine della città piuttosto che parlare della sua acustica. Non è certo questo il modo più semplice per perseguire l’architettura della discrezione e del tatto, né quella di qualità. Eppure sta diventando il metodo più diffuso di costruire opere architettoniche. L’effetto di questa ricerca dell’immagine danneggia allo stesso modo gli architetti e le città che conferiscono loro gli incarichi.

Santiago Calatrava, la prima vittima della mania di costruire icone

Calatrava, che rappresenta il lato oscuro e kitsch dell’inventiva gioiosa e libera di Gehry, continua ancora a definirsi un architetto. In realtà ha smesso di progettare edifici per con centrarsi sulla produzione di icone, e non è mai stato così occupato. Sta lavorando a una nuova stazione per il Ground Zero di New York, ha completato la Città della Scienza di Valencia e il nuovo auditorium di Tenerife. Inoltre ha di recente inaugurato un altro dei suoi caratteristici ponti, che va ad aggiungersi alla collezione che comprende quelli di Bilbao, Barcellona, Merida, Manchester e Venezia. Ovviamente, non ammette neppure a se stesso di non essere più un architetto. Continua in maniera commovente ad aggrapparsi all’alibi funzionale. Esaminate da vicino uno dei suoi progetti e anche se potrà apparirvi come un tentativo di gonfiare un’aragosta morta fino a farle assumere le dimensioni di un grattacielo, per di più costruito in cemento armato, troverete un’utile etichetta descrittiva che recita ad esempio «Teatro dell’opera». O nel caso della coda di balena che ha davvero costruito a Milwaukee l’etichetta annuncia con la stessa surreale sinteticità «Galleria d’arte». In realtà sarà difficile che un qualsiasi spazio espositivo trovi posto nell’ampliamento di Calatrava, che è lì solo per attrarre l’attenzione, per ricordare al mondo che la galleria esiste. L’edificio è stato realizzato con sette mesi di ritardo ed è costato così tanto che la Galleria ha dovuto licenziare il direttore e ridurre l’organico. Calatrava può essere considerato come il più grande beneficiano o la prima vittima di questa improvvisa mania di costruire icone. Ha iniziato la carriera progettando strutture realizzate in maniera artigianale e con grande economia di mezzi. Ma l’ingordigia dei suoi clienti lo ha condannato a ripetersi senza sosta, con effetti speciali sempre più roboanti per distrarci dall’assenza di ispirazione creativa. Calatrava ha appena inaugurato un cosiddetto auditorium a Santa Cruz, cittadina che conta circa 250mila abitanti nell’isola di Tenerife. Con quest’opera il suo alibi ha iniziato a vacillare. Ufficialmente le bianche conchiglie di cemento sono descritte come onde che si infrangono sulla riva. I meno benevoli le hanno viste come la riproduzione gigantesca di un velo da suora o perfino come un furto dal l’Opera House della lontana Sydney. In ogni caso si tratta del classico progetto «icona». Un edificio culturale, realizzato con il sostanzioso contributo economico di Bruxelles, che è stato costruito con l’espresso proposito di far apparire sulle pagine delle riviste patinate, di quelle che si trovano su gli aerei, una città fino a quel momento ignorata.

A Valencia, il progetto di Calatrava si chiama Museo della Scienza, anche se è assolutamente impossibile esibire alcunché al suo interno e ha l’aspetto della carcassa di un animale marino morto da un pezzo. Calatrava è un caso unico, celebre per aver studiato sia architettura che ingegneria; una combinazione che gli ha permesso di creare intorno alle sue opere la suggestione di un intrinseco senso logico, fornendo un alibi per quello che altrimenti potrebbe essere interpretato come palese esibizionismo. Calatrava ha intorno a sé quel soffio di visione ultraterrena che aleggia intorno a coloro che dicono di scorgere un ordine nascosto nei fili d’erba, nei fiocchi di neve e nei cristalli di rocca. Da ciò ha creato una specie di Gotico geneticamente modificato che oggi è il tema cardine delle sue opere. O forse è un Gaudi spremuto come dentifricio da un tubetto. La sua virtuosistica qualità visiva costituisce un diversivo sufficiente a impedire ai suoi me cenati di domandargli per quale motivo l’ampliamento della Galleria d’arte di Milwaukee debba somigliare a una coda di balena e la struttura dell’auditorium di Valencia a un’aragosta gigante o di giustificarli in termini di funzionalità.

Mai abbastanza spettacolari

All’estremità opposta della gamma si trova il gruppo di archi tetti che comprende Alvaro Siza, Rafael Moneo e David Chipperfield, ideatore di edifici semplici ma sensuali, come il restaurato Neues Museum di Berlino, avvilito di fronte alle continue richieste di progetti di icone, che a suo parere allontanano l’architetto dal suo vero ruolo, quello di realizzare costruzioni funzionali. Un tempo in Inghilterra se osavi fare qualcosa di appena un po’ moderno, eri considerato un sovversivo. Ora sei nei guai se vuoi costruire edifici sobri, perché al giorno d’oggi non si è mai spettacolari a sufficienza. Per le icone vi è uno spazio appropriato, ma è chiaro che la tendenza consumistica ha preso il sopravvento anche in architettura. Secondo Chipperfield l’idea tradizionale secondo cui l’architettura deve basarsi sulla comprensione delle esigenze del cliente e tendere a soddisfarle con semplice eleganza è valida tanto oggi quanto lo era negli anni in cui Mies van der Rohe inventò il grattacielo di vetro invece di creare semplicemente un’icona memorabile. Ma quello di Bilbao è un museo, un luogo in cui ammirare quadri, con un posto per appendere i cappotti e uno per prendere un caffè? Chi lo sa? A un certo livello, però, Bilbao è l’edificio più riuscito del secolo. La forma non deriva più dalla funzione, ma solo dall’immagine. E tra le tipologie di edifici che si sono piegate a questa tendenza, quella del museo è la più vulnerabile, la più facile da manipolare. Gli architetti possono giocarci, ma i problemi veri nascono quando si prova a fare io stesso con le biblioteche pubbliche o con l’edilizia abitativa. Più i clienti continueranno a chiedere icone e meno le nuove generazioni di architetti si sentiranno disposte a impegnarsi. Gli edifici futili, vistosi ed esibizionisti subiscono la legge dei rendimenti decrescenti. La risposta intelligente da parte di Foreign Office Architects è di progettare strutture, come il terminal per i traghetti a Yokoama, che non possano essere ridotte a un semplice logo. E il più chiacchierato museo americano, inaugurato nel 2003, nasce da una vecchia fabbrica di scatole di cartone sui fiume Hudson, ed è del tutto alieno da ogni consapevole monumentalismo. Forse, al pari del Liberty che fiori solo per un breve momento al volgere dei secolo scorso, anche il gusto per l’icona ha conosciuto questa larga diffusione solo perché è sul punto di scomparire.

Cassinetta di Lugagnano [Milano] è uno di quei piccoli borghi padani che sembrano usciti da una cartolina: sul Naviglio Grande, circondata dalle campagne, grazie anche a un piano urbanistico a «crescita zero». Una cartolina che si deve anche, però, al ruolo di tutela giocato sinora dai grandi parchi lombardi. Non è un caso se proprio dal sindaco di questo piccolo comune è nata la proposta di un coordinamento delle forze ambientaliste e progressiste contro la trovata della junta ciellino-leghista che imperversa sulla padania: l’abolizione, di fatto, dei parchi come garanti delle reti ambientali [vedi Carta 41/2007].

E ben venga, una partecipatissima reazione di cittadini, amministrazioni, associazioni, per arginare la deriva suicida-sviluppista nascosta dietro un emendamento «tecnico» alla legge urbanistica già ritirato lo scorso autunno, grazie alla raccolta di un migliaio di firme in pochi giorni: vero record.

Ma sono fortissimi gli interessi per lo «sviluppo del territorio», in quella che certa sociofagia facilona ha ribattezzato la Città Infinita, a evocare mica tanto sottilmente inesauribili frontiere su cui far avanzare la marcia di villette e capannoni. Ma si spera, si spera sempre, che passi fra i cittadini il messaggio di Cassinetta di Lugagnano: sviluppo, qualità della vita, non sono sinonimo di superstrade, scatoloni in precompresso, incombenti luci al neon. C’è anche una trasformazione partecipata, come quella del piano regolatore, con al centro la tutela delle risorse aria, acqua, suolo, della qualità dei vita quotidiana degli abitanti, e perché no anche dello sviluppo, pur nel quadro generale della sostenibilità.

Ma, viene da chiedersi: è davvero proponibile un modello di questo genere, fuori dal presepe vivente dei piccoli borghi dove si praticano piani «esemplari»? O, meglio, è davvero esportabile a scala socioeconomica e territoriale vasta, un’idea di vita almeno in parte alternativa a quella che ci propone sul vassoio la pubblicistica corrente attuale?

Verrebbe da rispondere: certo che si, attraverso appunto gli strumenti della pianificazione territoriale, che servono proprio a questo. Non a caso, il centrodestra da sempre cerca di sabotare dall’interno proprio queste conquiste del secolo scorso, dove anche oltre la mediazione e discrezionalità politica trovano una camera di compensazione varie esigenze, soggetti, culture e prospettive. Ma c’è un dubbio: la pianificazione del territorio è capace di parlare alla gente? Oppure, istituzionalizzata e nascosta dietro le pareti dei propri uffici, usa un linguaggio che suona astruso, iniziatico e tutto sommato estraneo, affidandosi poi in tutto e per tutto a slogan semplicistici e fuorvianti, dalle vaghe «misure d’uomo» alle più recenti e fantasiose declinazioni sul tema della «sostenibilità».

È così che strisciante avanza ridicola la marinettiana Città Infinita, da riempire di chiacchiere e autostrade, per spostarsi poi da un centro congressi all’altro. Forse, dal piccolo borgo di Cassinetta di Lugagnano, può anche partire una nuova strategia di comunicazione.

Ambiente e territorio sono la cosa su cui appoggiamo i piedi. Un po’ sopra, senza soluzione di continuità, c’è la testa.

Cascinazza, si vende: pronta la nuova cordata

di Giuliano Da Frè

Tre mesi, e la più grossa grana urbanistica monzese degli ultimi quattro decenni non porterà più il nome di Paolo Berlusconi. Istedin lascia la Cascinazza e a comperare è una cordata formata da Brioschi Sviluppo Immobiliare Spa, uno dei maggiori gruppi italiani, e Axioma Real Estate Srl di Angelo Bassani e Gabriele Sabatini, attraverso la Lenta Ginestra Srl, cui le due società partecipano rispettiva mente per il 70 e il 30 per cento del capitale. Staccando un assegno da 40 milioni di euro, Massimo Busnelli, presidente della Lenta Ginestra, dovrebbe acquisire, entro il 15 giugno, data (data entro la quale l’accordo dovrà essere perfezionato) il 100 per cento del capitale di Istedin, la società del fratello del candidato premier, proprietaria dell'area che, da oltre 40 anni, è al centro di un braccio di ferro edilizio con l'Amministrazione comunale. Dalla Brioschi immobiliare però spiegano che i 40 milioni di euro potrebbero non essere tutti i soldi sborsati per acquistare un'area che, in passato, ha visto stimare il proprio valore tra i 30 milioni di euro indicati dall'ex Giunta Faglia, e i 90-100 indicati da Istedin, mentre in autunno una cordata guidata da Valentino Giambelli aveva offerto 92 milioni. Dipenderà da cosa si potrà costruire, in base alle indicazioni del Piano di governo del territorio da poco adottato, e di eventuali varianti. «In base all’accordo preliminare sono stati previsti 40 milioni di euro, un prezzo suscettibile di una integrazione in base all'indice di edificabilità previsto», ha spiegato un portavoce della società. Ancora troppo presto, quindi, fanno notare da Lenta Ginestra, per parlare di progetti concreti, poiché è in corso un tavolo di confronto col Comune («Molto positivo», commentano dalla società), che comprende anche il destino di un'altra area di proprietà della Brioschi immobiliare al Torneamento, di oltre 115mila metri quadrati. Cascinazza era divenuta una «amara» grana urbanistica dopo un accordo firmato nel 1962 dai precedenti proprietari, i Ramazzotti dell'omonimo amaro, col Comune, che aveva acquisito aree in cambio di un 1 milione e 600 mila metri cubi di edificabilità, poi ridotti a 388mila col Piano regolatore Piccinato del 1971. Nel 1980 i Ramazzotti avevano venduto a Berlusconi, che alla Cascinazza sognava di realizzare Monza 2, sulla falsariga della Milano 2. Un cambio di proprietà che però non ha portato a cambiamenti nel braccio di ferro con l'Amministrazione, soprattutto quando il nome di Berlusconi ha iniziato a coincidere con «grana politica», dopo la discesa in campo del fratello Silvio nel 1994. Paolo Berlusconi aveva tentato in tutti i modi di ottenere il vià libera alle ruspe dell’Istedin, avviando anche una causa risarcitoria contro il Comune, per 300 milioni di euro, chiusa nel febbraio 2007 dalla Cassazione, che aveva detto «no» al risarcimento, ritenendo valide le ragioni addotte dall'Amministrazione. Ora, la patata più bollente (e stantia) dell’urbanistica monzese, passa in un'altra padella.

Vigano: “Alla base di tutto forse c’è un accordo per spalmare su più aree i volumi che ballano in città”

Intervista all’ex assessore all’urbanistica, di Monica Bonalumi

Quei quaranta milioni di euro che il gruppo Brioschi sarebbe disposto a sborsare per l'acquisto del- l'Istedin rappresentano un acconto. Ne è convinto l'ex assessore all'Urbanistica Alfredo Viganò che commenta stupito, ma non troppo, la firma del contratto preliminare che dovrebbe portare al passaggio dell'area Cascinazza dalle mani di Paolo Berlusconi a quelle di una cordata di imprenditori lombardi.

“Ci sono dei fatti nuovi se la proprietà non pretende più novanta milioni e passa a scatola chiusa come aveva fatto fino a pochi mesi fa quando dava per scontato che non si sarebbe arrivati all'approvazione del Piano di governo del territorio - riflette il consigliere comunale della lista Faglia - Sarà interessante vedere fino a quanto salirà l’importo di questa prima tranche. A quel punto sarà possibile valutare se tra gli operatori vi siano state aspettative indotte da scelte politiche”. L'accordo a suo parere potrebbe essere una rivisitazione del tentativo di dar vita a una sorta di agenzia privata, effettuato recentemente da alcuni costruttori le cui osservazioni al Pgt sono state sì bocciate, ma inserite dalla giunta nel cosiddetto elenco speciale che dovrebbe rappresentare il punto di partenza per la stesura della Variante al Piano. “Alla base dell’intesa potrebbe esserci il tentativo di alcuni operatori di spalmare su più aree i volumi che ballano sull'intera città” afferma. Secondo l'ex assessore si potrebbe profilare quello che definisce “gioco delle tre tavolette” in cui vengo- no unite le questioni legate a terreni e società differenti, dalla Cascinazza a viale Campania per arrivare al Torneamento. “Cambiano i proprietari ma, per quel che mi riguarda, la questione non muta -aggiunge Viganò - prima di edificare nella zona Cascinazza è necessario studiare e realizzare una vasca di esondazione del fiume, In seconda battuta occorre organizzare il Parco agricolo connesso a quello del Medio Lambro e cancellare il canale scolmatore che deturperebbe il Parco e l'intera città e che consente di giocherellare poco seriamente con le fasce di rischio idraulico, in particolare in quella zona”. Ma non sarebbe ancora sufficiente a trasformare il terreno in un complesso residenziale: “Per realizzare le varianti desiderate su aree agricole o si cambia ancora una volta la Legge regionale fatta ad hoc per Monza o si cambia il Piano Territoriale della Provincia - spiega l'ex assessore - il percorso non è comunque semplice e non è detto che lo sia neppure per la maggioranza dato che potrebbe rovinare altre economie locali”.

Su eddyburg alcune informazioni qui, qui e qui. oppure digitando Cascinazza sul motore di ricerca

Il Corriere della Sera

Parchi, retromarcia della Regione

di Giovanna Maria Fagnani

Ritirata la norma contestata dagli ambientalisti. Forza Italia si dissocia

Esultano le associazioni di ecologisti e agricoltori: «Scongiurata una speculazione gigantesca»

MILANO - Non ci speravano neppure loro, tant'è vero che avevano già organizzato i comitati per la raccolta di firme per indire un referendum, se la legge fosse passata. Invece, a sorpresa, il «fronte verde » ce l'ha fatta.

Ieri, in apertura del consiglio regionale, l'assessore regionale leghista Davide Boni ha annunciato il ritiro dell'emendamento 13-bis, il cosiddetto «provvedimento ammazzaparchi ». La modifica affidava alla Regione l'ultima parola nel caso di contenziosi urbanistici fra i Comuni e le aree protette. Ora se ne riparlerà durante la stesura della nuova legge di riordino dei parchi regionali, il cui iter è appena iniziato.

«Non rinnego nulla: la norma non è mai stata un via libera alla cementificazione» ha detto Boni, che poco dopo in conferenza stampa ha spiegato le sue ragioni insieme a Milena Bertani, presidente del Parco del Ticino, che nei giorni scorsi, a differenza di altri quindici presidenti dei parchi lombardi, si era espressa a favore della nuova legge.

Alla notizia dello stralcio dell' emendamento, il presidio di protesta delle associazioni ambientaliste davanti al Pirellone si è trasformato in una festa. Esultano i Verdi e il «Coordinamento Salvaparchi», che riunisce tra gli altri Legambiente, Fai, Wwf e confederazioni agricole. «E' stata una vittoria straordinaria, dovuta alla mobilitazione di sindaci, cittadini e associazioni » spiega il portavoce Domenico Finiguerra. «Abbiamo salvato da una possibile speculazione edilizia trentotto chilometri quadrati di aree agricole del comune di Milano: con questo emendamento sarebbero diventate edificabili. Ora, però, occorre tener alta la guardia» precisa Carlo Monguzzi, capogruppo dei Verdi in Regione.

Anche l'assessore provinciale al Parco Agricolo Sud Milano, Bruna Brembilla, tira un sospiro di sollievo: la norma, secondo l'opposizione, era stata concepita proprio per favorire altri insediamenti in quest'area protetta. «In futuro invito i responsabili regionali ad ascoltare le istanze che provengono dai Comuni e dai parchi» dice la Brembilla.

«Ha vinto il buon senso — spiega, invece il consigliere regionale del Pd Franco Mirabelli — Questa legge sulla normativa urbanistica è in discussione da quasi un anno proprio per responsabilità dell'assessore, che ha voluto caricarla di argomenti che non c'entrano nulla ». Osservazione, in parte, condivisa anche da Stefano Galli, capogruppo della Lega Nord, che pur negando spaccature interne («Si è trattato solo di uno spostamento della questione da una legge all'altra»), precisa: «Quella norma nella legge urbanistica non aveva alcun senso».

Lo stralcio ha provocato reazioni anche all'interno della maggioranza. Giulio Boscagli, capogruppo di Forza Italia, è critico: «Appare strano che dopo quattro mesi di dibattito in Commissione l'assessore Boni, decida improvvisamente di ritirare l'emendamento, assolutamente non "ammazzaparchi" ma volto a valorizzare il territorio lombardo e a rispettare la sua specificità — sottolinea Boscagli —. Accettiamo la scelta, ma non la condividiamo. Non siamo disposti ad accettare, senza essere preventivamente coinvolti, decisioni che con tutta evidenza sono dovute assai più a dissensi e lotte interne alla Lega e non alla difesa del nostro territorio».

La Repubblica

La brezza delle elezioni

di Ivan Berni



La marcia indietro della giunta regionale sull’emendamento ammazzaparchi contiene tre buone notizie in una. La prima è che, per ora, i parchi lombardi sono salvi. Pare poco e invece è già molto, se si considera che l’emendamento dell’assessore leghista Boni svuotava, di fatto, gli enti di gestione di qualsiasi potere, permettendo ai Comuni di programmare edificazioni e alla Regione di autorizzarle in barba all’orientamento espresso dai parchi medesimi. Chiunque abbia una briciola di buon senso e buona fede non può sostenere la ragione stessa di esistenza dei parchi se gli organismi che li devono gestire non sono messi in condizione di tutelarne il perimetro e l’integrità. Da questo punto di vista il ripensamento del centrodestra va salutato davvero come una vittoria (parziale, temporanea?) della ragione sulla cieca furia cementificatrice.

La seconda buona notizia è che la battaglia contro l’emendamento Boni è stata vinta anche grazie al convinto, e all’apparenza unanime, schieramento del Partito Democratico. Non era così scontato come sembra. Il via libera ai sindaci di costruire nei parchi rappresenta infatti una di quelle tentazioni che spesso hanno fatto breccia anche a sinistra. Soprattutto quando gli oneri di urbanizzazione da incassare rappresentano una boccata d’ossigeno per casse comunali sempre più vuote.

Come sovente capita quando si tratta di infrastrutture e nuove edificazioni, la tentazione fa il ladro (in senso metaforico, s’intende) e qualche volta si trasforma in posizione politica. Si temeva, insomma, che in nome della realpolitik ci sarebbero state smagliature e distinguo da parte del Pd. Invece così non è andata, e nella regione dove il consumo di suolo è al limite della capacità di rigenerazione del territorio, il Partito Democratico si schiera in modo netto, scegliendo di stare con le associazioni ambientaliste, con le migliaia di persone che hanno sottoscritto appelli online e petizioni, ed evitando ai Verdi di rimanere l’unico referente politico di questa battaglia civile in Consiglio regionale.

La terza buona notizia, filiazione diretta delle prime due, è che finalmente l’ambiente viene riconosciuto come una priorità dal centrosinistra e che questo stesso concetto comincia a farsi largo anche nel centrodestra. È un dato di grande valore, soprattutto se si considera che siamo in piena campagna elettorale. Vuol dire che chi pensava di incassare consensi aprendo le porte dei parchi al cemento ha sbagliato i conti, o comunque ha dovuto rinculare dal proposito perché le minacce al verde e all’ambiente, lo scempio delle risorse naturali sono percepite dagli elettori per quello che sono: un intollerabile attacco alla qualità della vita. Attenzione: non una qualità della vita astratta, ma proprio quella di ciascuno dei 10 milioni di lombardi, che dei parchi sono massicci fruitori. E questo vale per gli elettori di centrosinistra quanto per quelli di centrodestra.

Per una volta sembra abbiano contato di più le ragioni della sostenibilità che gli argomenti della speculazione. Forse è merito del vento elettorale: per una volta una brezza piacevole.

La Repubblica

Boni ritira la legge ammazzaparchi

di Stefano Rossi

Ha difeso la sua posizione, ma ieri ha dovuto cedere: l’assessore regionale al Territorio Davide Boni ha ritirato l’emendamento 13 bis, "l’ammazzaparchi", stralciandolo dalla legge urbanistica. Una vittoria per gli ambientalisti, che avevano organizzato un presidio sotto il Pirellone, e per il centrosinistra. «La giunta dev’essere come la moglie di Cesare, non voglio si dica che cementifichiamo le aree naturali. Questa norma è stata strumentalizzata», abbozza Boni che però rilancia: l’emendamento tornerà in commissione, in vista di un inserimento nell’imminente nuova legge sui parchi.

Salta in Regione l’emendamento ammazzaparchi, contestato da centrosinistra e ambientalisti e difeso strenuamente dall’assessore leghista al Territorio, Davide Boni. Quest’ultimo decide di stralciare il provvedimento dalla legge urbanistica proprio mentre inizia in consiglio regionale la discussione sulla norma: l’opposizione ha pronti 409 emendamenti e associazioni come Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Fai presidiano l’esterno del Pirellone.

Il discusso emendamento 13 bis sui parchi regola i rapporti fra la Regione, gli enti parco e i Comuni all’interno dei 24 parchi regionali. Secondo l’opposizione, l’emendamento attribuisce alla giunta regionale la facoltà di approvare o respingere le varianti urbanistiche proposte dai Comuni e rifiutate dai parchi. Largo agli appetiti immobiliari, traduce insomma il centrosinistra che per Milano evoca i nomi di Ligresti e Cabassi.

Boni, sostenuto da Milena Bertani, presidente del parco del Ticino ed ex assessore regionale ai Lavori pubblici, spiega che la giunta regionale interverrebbe solo in caso di mancata risposta dell’ente parco alla richiesta di variante urbanistica del Comune. «In commissione - risponde Franco Mirabelli del Pd - è stato detto chiaramente che, se il parco si oppone, decide la giunta». E il verde Carlo Monguzzi: «Oggi se il parco dice no non si costruisce. In futuro non sarebbe più così».

Ad ogni modo, in aula Boni ha già fatto marcia indietro: «La giunta dev’essere come la moglie di Cesare, non voglio si dica che cementifichiamo le aree naturali. È vero piuttosto il contrario. Guardate com’è ridotto il parco delle Cave. O il parco delle Grigne, dove si costruisce a Olginate. Eppure non sono parchi regionali. Questa norma è stata strumentalizzata in modo incredibile».

Il 13 bis torna in commissione, in vista di un inserimento nell’imminente nuova legge sui parchi. Il 19 marzo Boni incontrerà i presidenti delle aree naturali «e fino ad allora lavoreremo su questo testo». L’assessore, così, evita la conta. Marco Cipriano di Sd aveva chiesto il voto segreto puntando sulle divisioni della Lega. L’emendamento sarebbe afflitto da «centralismo regionale», tanto che alcuni amministratori leghisti hanno partecipato alle proteste, come a Cassinetta di Lugagnano, dove il sindaco Domenico Finiguerra (Sinistra Arcobaleno) ha già all’attivo la battaglia contro la tangenziale per Malpensa.

Giulio Boscagli, capogruppo azzurro, bacchetta Boni: «Non siamo disposti ad accettare, senza essere preventivamente coinvolti, decisioni evidentemente dovute assai più a dissensi e lotte interne alla Lega che alla difesa del nostro territorio». L’assessore replica: «Qualcuno non ha letto a fondo l’emendamento. Tutti i colleghi sono degni di attenzione».

Boni incassa l’appoggio del sindaco Letizia Moratti, che parla di «sintonia e pieno accordo» e di emendamento «pensato per superare eventuali conflitti fra enti». Esulta invece il centrosinistra, che critica tuttavia la legge urbanistica passata in serata con un altro emendamento di Boni: il mantenimento o la creazione di un campo rom in un Comune subiranno il parere vincolante dei Comuni limitrofi. Sgradite anche le limitazioni per la costruzione di moschee e - in particolare a Rifondazione - il 15 per cento di volumetria in più concesso in caso di edificazione nelle aree ferroviarie dismesse.

il manifesto

L’ammazzaparchi non c’è più

di Luciano Muhlbauer

L’emendamento “ammazzaparchi” non c’è più. L’assessore Boni ha dovuto ritirarlo in aula di fronte all’opposizione della sinistra e soprattutto delle forze della società civile lombarda. La nostra soddisfazione è grande, perché è stata impedita un’ulteriore calata di cemento sui parchi lombardi. Perché questa era la ratio della norma voluta da Formigoni e dal partito degli affari.

Ma il pacchetto di modifiche della legge urbanistica regionale non prevedeva soltanto questa norma, bensì molto di più e, purtroppo, se ne’è parlato poco. Come ormai accade da oltre due anni, le continue modifiche della l.r. 12/2005 non sono ispirate al governo pubblico delle trasformazioni urbanistiche in atto, bensì alla tutela di interessi particolari, affaristici o politici. E così, ad esempio, è stata varata una norma che favorisce gli interessi dei poteri forti, concedendo un aumento delle volumetrie nella misura del 15%, per quanto riguarda gli interventi edificatori sulle aree dismesse delle Ferrovie dello Stato. E non stiamo parlando di briciole, ma di uno degli affari del secolo, cioè di un milione di metri quadrati nella sola Milano.

Come d’abitudine, però, la legge 12 è stata utilizzata anche per fini che con l’urbanistica non c’entrano un bel niente, ma che fanno comodo alle campagne securitarie delle destre. Ci sono dunque nuove regole , di carattere restrittivo, per l’insediamento dei “campi nomadi” e la contemporanea abrogazione dell’art. 3 della l.r. 77/89, cioè viene abrogato l’obbligo di “evitare qualsiasi forma di emarginazione urbanistica” e di “facilitare l’accesso ai servizi e la partecipazione dei nomadi alla vita sociale”.

Non manca, ovviamente, un altro “cult” leghista, con l’introduzione di una nuova regola che rende ancor più difficoltosa la costruzione di moschee. E così, dopo la norma “urbanistica” speciale del 2006, che aveva messo fuori legge pregare, senza permesso del sindaco, in un luogo non considerato ufficialmente di culto, ora si vuole ostacolare persino la costruzione di nuovi luoghi di culto regolari.

In altre parole, questioni di carattere sociale o attinenti alla libertà religiosa vengono trasformati in problemi urbanistici e, per questa via, in questioni di ordine pubblico. Insomma, il solito squallido gioco del tanto peggio, tanto meglio.

Per questo, pur essendo soddisfatti per il ritiro dell’emendamento “ammazzaparchi”, occorre essere consapevoli che la battaglia per un governo pubblico e sostenibile delle trasformazioni urbanistiche è ancora lunga. In fondo, si tratta di stabilire chi decide: o i grandi costruttori oppure i cittadini e i lavoratori che abitano i territori.

postilla

Tra le moltissime cose positive emerse anche da questo “secondo round” del conflitto fra il governo lombardo e una parte della società locale, continua in gran parte a restare sospesa nel vuoto la questione centrale: esiste un’idea di territorio del centrosinistra? Non a caso aveva facile gioco l’assessore Davide Boni solo qualche giorno fa, quando dichiarava alla stampa “se davvero non si può costruire nei parchi, qualcuno del centrosinistra mi spieghi come sono nati Ieo e Cerba ”. E sarebbe certo il caso di iniziare a risolvere questo nodo, perché uno schieramento di pura opposizione ha necessariamente vita breve, nonostante appaia in crescita la partecipazione e consapevolezza diffusa ai temi dell’ambiente e dello sviluppo. Se “ambientalismo del fare”, slogan molto in voga di questi tempi, significa poi adottare gli stessi metodi (e meriti) del centrodestra, al massimo favorendo qualche cordata concorrente di grandi interessi, non si andrà molto lontano. Come insegna anche la presa di posizione di alcuni esponenti della base leghista, a quanto pare fondamentale nel ritiro dell’emendamento, sul governo del territorio si gioca davvero la credibilità di una proposta politica. Ovvero, distinguendo tra interesse generale e alchimie fra interessi particolari (f.b.)

Contro la legge regionale anche sindaci leghisti, martedì il sit-in

di Franco Vanni

Si sono dati appuntamento per martedì, davanti al Pirellone, per un presidio di protesta. Il nemico comune è il "decreto ammazzaparchi", la parola d’ordine «resistenza». Ieri a Cassinetta di Lugagnano, nella riunione che ha tenuto a battesimo il Coordinamento regionale Salvaparchi, la scandivano i sindaci del Milanese e la ripetevano i rappresentanti di comitati e associazioni ambientaliste. A guidare il coordinamento è Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta, che dice: «L’emendamento che consente alla Regione di autorizzare costruzioni nei parchi è un rischio mortale per il verde e apre la strada alla cementificazione selvaggia».

Davanti al municipio del minuscolo Comune a due chilometri da Abbiategrasso, nel parco del Ticino, si sono detti pronti a «resistere fino alla vittoria» gli attivisti di Wwf e Legambiente, gli Amici di Beppe Grillo e persino alcuni leghisti in disaccordo con il loro assessore. L’obiettivo è fermare l’emendamento 13 bis alla legge urbanistica regionale, approvato dalla commissione Territorio del Pirellone su proposta dell’assessore al Territorio Davide Boni, che sarà votato martedì. Due le strategie concordate per quel giorno: l’ostruzionismo in Consiglio e il presidio davanti al grattacielo, con la consegna alla Regione di migliaia di impronte digitali fatte con inchiostro verde, i "pollici verdi". Se l’emendamento passerà, il Coordinamento si attiverà per chiedere il referendum abrogativo.

Al Salvaparchi aderiscono una trentina di Comuni, i consiglieri regionali Carlo Monguzzi dei Verdi e Francesco Prina del Pd, i presidenti di 15 parchi lombardi su 25 e oltre cinquanta fra associazioni e comitati. Per Paola Santeramo, della Confederazione italiana agricoltori, «è assurdo che, mentre Milano si candida a ospitare l’Expo nel 2015 sull’alimentazione, la Regione vari una legge che rischia di danneggiare la nostra agricoltura». Per Ernesto Beretta, agricoltore con un piccolo terreno a Robecco, «se si lascia briglia sciolta all’edilizia la terra aumenterà di valore e ci sarà la corsa a vendere. È così che muore la campagna». Ieri a Cassinetta c’era anche Massimo Olivares, vicesindaco leghista di Marcallo con Casone. Quando l’assessore provinciale al Territorio, Pietro Mezzi, attacca l’assessore Boni lui scuote la testa, ma tiene a precisare: «Se sono qui è perché ho a cuore i parchi, come tutti voi».

Boni: "Macché verde a rischio Sono solo polemiche elettorali"

intervista all’assessore regionale

di Luigi Bolognini

Davide Boni, assessore al Territorio, sereno in vista della discussione della legge sull’urbanistica?

«Sereno e tranquillo. Le polemiche sono montate solo da una parte politica. Siamo in campagna elettorale, non dimentichiamolo. Poi scopro che dei 12 parchi che hanno protestato in realtà 2-3 non hanno davvero firmato la lettera».

Neanche la valanga di emendamenti e ordini del giorno dell’opposizione la preoccupa?

«Perché dovrebbe? Sono un diritto dell’opposizione. Presentino quello che vogliono, ne discuteremo con tutti i tempi tecnici del caso e poi approveremo la legge».

Senza neppure aspettare l’approvazione della legge sui parchi?

«E perché? Comunque va nella stessa direzione, di governo del territorio e rispetto della natura».

Insomma, il famoso 13-bis non è un emendamento ammazzaparchi?

«Serve solo a dirimere eventuali contenziosi tra Comuni ed enti di gestione. E poi, se davvero non si può costruire nei parchi, qualcuno del centrosinistra mi spieghi come sono nati Ieo e Cerba».

Mirabelli: "Territorio indifeso c’è il pericolo speculazioni"

intervista a un consigliere PD

di Luigi Bolognini

Franco Mirabelli, consigliere regionale del Pd, a che cosa mira con le centinaia di emendamenti e di ordini del giorno che presenterà martedì sulla legge urbanistica?

«A ottenere lo stralcio dell’emendamento 13-bis, l’ammazzaparchi, dal provvedimento. Primo perché lo chiedono i presidenti dei parchi, secondo perché adesso è in discussione la legge sui parchi, ed è giusto che le norme siano coerenti e omogenee tra di loro».

Queste sono questioni di procedura. Ma nel merito che cosa non la convince?

«La proposta è che se un Comune vara una variante al piano regolatore su territorio del parco e l’ente di gestione si oppone, sia la Regione a risolvere il contenzioso. Ma se togliamo agli enti parchi anche il compito di salvaguardare il loro territorio, a che servono? E non è chiaro con che criteri la Regione possa decidere i contenziosi».

Un maligno potrebbe dire che ci sono dietro interessi di speculazione.

«Io no. Cioè, non lo so. Però è vero che una legge così può autorizzare il sospetto. E anche per questo il provvedimento va fermato».

I beni minerari vicini al mare non saranno posti in vendita ma - come già altre volte è stato detto e come è stato ribadito dal Presidente della Regione, Renato Soru - saranno trasferiti alla Conservatoria delle coste.

CAGLIARI, 29 FEBBRAIO 2008 - La notizia pubblicata oggi sulla prima pagina di un quotidiano regionale secondo la quale “le ex miniere tornano in vendita” non solo non “è stata anticipata ieri mattina dal Governatore Soru nel corso dell’incontro per l’Intesa istituzionale con la provincia di Carbonia-Iglesias” come scrive il giornale, ma è totalmente priva di fondamento.

I beni minerari vicini al mare non saranno posti in vendita ma - come già altre volte è stato detto e come è stato ribadito ieri dal Presidente Soru - saranno trasferiti alla Conservatoria delle coste. L’ipotesi della vendita riguarda esclusivamente alcuni beni di minor pregio lontani dal mare, nelle aree interne.

E’ vero che la concessione è uno strumento che si è rivelato scarsamente appetibile, e che le imprese preferiscono l’acquisto, ma la Regione continuerà a farvi ricorso anche dove sono andati deserti i bandi (come a Sant’Antioco).

La riunione di ieri tra il Presidente della Regione e gli amministratori del Sulcis-Iglesiente aveva lo scopo di accelerare i lavori di bonifica delle aree ex minerarie e di fare il punto sui progetti di riutilizzo di Monteponi, Campo Pisano e San Giovanni.

E’ stato confermato che a Masua non si costruirà più, il sito sarà bonificato e trasformato in parco naturale mentre gli alberghi potranno essere costruiti nel centro abitato di Nebida.

Dal volume in corso di stampa: Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, a cura di Rossano Pazzagli, Pisa, ETS (Collana “Le aree naturali protette”, diretta da Renzo Moschini)

Ho avuto occasione, negli ultimi mesi, di partecipare, e più di una volta, a iniziative critiche sulla gestione del paesaggio e dell’urbanistica in Toscana. Ho sottoscritto l’appello di Alberto Asor Rosa dell’ottobre 2007, quello titolato Salviamo l’Italia,che attribuisce la responsabilità della distruzione del territorio e del paesaggio soprattutto agli “orientamenti espressi dal ceto politico, anche quello di centro sinistra, il quale – in misura crescente anche nelle zone del paese considerate un tempo santuari dell’arte e della cultura, come la Toscana – ha imboccato a quanto pare senza sentire ragioni, la strada dell’investimento immobiliare speculativo e delle grandi opere a ogni costo”. Collaboro stabilmente al sito di Edoardo Salzanoeddyburg.it, che assume posizioni molto spesso di esplicito dissenso con la politica urbanistica toscana. Un esempio sono le critiche mosse al Pit - piano d’indirizzo territoriale. Che cosa si contesta al Pit? Soprattutto di aver messo in discussione la prevalenza delle scelte di tutela su quelle di trasformazione, prevalenza che è netta nella legge urbanistica regionale del 2005. Invece, secondo il Pit, ciò che la legge regionale definisce come lo statuto del territorio viene definito e adottato un’agenda. In sostanza, con un’astuzia semantica, vengono definiti, con la medesima portata di elementi statutari, sia beni non negoziabili, fondanti l’identità del territorio toscano, inteso come patrimonio ambientale, paesaggistico, e culturale, sia elementi di carattere funzionale (infrastrutture, servizi ed impianti di utilità pubblica).In altre parole, porti, aeroporti, grandi impianti tecnologici per il trattamento dei rifiuti, per la produzione o distribuzione di energia finiscono nello statuto allo stesso livello del paesaggio.

Qui m’interessa subito chiarire che mi permetto di essere critico con la Toscana, perché ammiro, apprezzo, amo la Toscana, la sua storia, il suo paesaggio. Continuo a citare la magnifica introduzione di Antonio Paolucci alla guida della Toscana del Touring, laddove ha scritto che il rispetto del territorio, in Toscana più avvertito che altrove, si “deve forse a quella cultura mezzadrile sagace e parsimoniosa che […] filtrata nel comune sentire di sindaci e di assessori, è diventata politica urbanistica”. Esistono ancora amministratori che rispondono alla descrizione di Paolucci, e ne ho avuto conoscenza diretta. E accanto a essi è obbligatorio ricordare quell’altra risorsa fondamentale del potere pubblico in Toscana che sono i responsabili tecnici dell’urbanistica di comuni e province, eccellenti e spesso coraggiosi interlocutori nell’attività di pianificazione che ho avuto la buona sorte di condurre in Toscana.

Spero che non si colga una contraddizione se da una parte ammiro la Toscana, mentre al tempo stesso sottoscrivo critiche e contestazioni. Non mi sembra che ci sia incoerenza perché purtroppo tendono a diffondersi errori, arbitrarie previsioni di crescita, ingiustificata attrazione per infrastrutture sovrabbondanti. Come si fa a non preoccuparsi e a non assumere toni talvolta anche non amichevoli? Penso che sia del tutto logico prendersela in primo luogo con chi si sente più vicino e che ci piacerebbe fosse sempre come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto.

Chi scrive queste righe è napoletano e non è difficile immaginare la sofferenza che prova in questa stagione. Dall’inizio del 2008, le montagne di rifiuti accumulate per strada a Napoli e in Campania hanno campeggiato per settimane sulle prime pagine dei giornali e sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo. E devo subito dire che non è un’emergenza, come si continua a ripetere: uno scandalo che continua da tre lustri non è un’emergenza. È un paradosso, un tragico paradosso, consistente nel fatto che, mentre le pubbliche istituzioni non riescono a smaltire la spazzatura prodotta dalle famiglie, non si è mai interrotto lo sversamento criminale – sopra e sotto i suoli di quella che fu la Campania felix – di immani quantità di materiali pericolosi e tossici provenienti in particolare dalle industrie del nord. In Gomorra, Roberto Saviano ha scritto che “nessun altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29.8 per cento, paragonabile solo all’espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni ’90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti”. Negli osservatori più attenti si colgono tratti di degradazione antropologica. La città, la provincia, la regione continuano ad arretrare rispetto ad altre realtà nazionali e internazionali in qualunque indagine relativa a criminalità, evasione scolastica, evasione fiscale, disoccupazione, abusivismo edilizio, inquinamento, condizione femminile, immigrazione, eccetera. La corruzione è diffusa ovunque: il bar già simbolo del rinascimento napoletano non rilascia ricevuta fiscale. Tutto ciò è la conseguenza di una gravissima crisi morale, politica e istituzionale, sociale e ambientale. Che però è vissuta, e non solo a Napoli, come una fatalità ineluttabile. Il resto d’Italia guarda a Napoli con disincanto. Come altre volte negli ultimi anni, il commissario straordinario nominato dal governo ha sollecitato le altre regioni a farsi carico di una parte dei rifiuti della Campania, ma la risposta è stata deludente, Liguria, Veneto e Friuli hanno rifiutato. In Sardegna ci sono stati disordini contro il presidente Renato Soru. Il Veneto, per non perdere i turisti tedeschi, ha proposto una campagna pubblicitaria con la parola d’ordine: “Non siamo Napoli”. Sembra passato un secolo da Napoli siamo noi, il libro di Giorgio Bocca del 2006.

L’abisso che separa la Toscana dalla Campania non dovrebbe indurre a stemperare le critiche, a essere indulgenti, condiscendenti con la Toscana? In tanti, nelle ultime settimane mi hanno fatto riflettere sul punto. Che senso ha la richiesta di più rigore in Toscana, mentre a sud del Chiarone, e non solo in Campania, il territorio è a soqquadro, l’abusivismo continua imperterrito, la campagna non è più il mondo della natura e della produzione agricola ma il recipiente adatto a raccogliere di tutto? Ma penso che sarebbe sbagliato se facessimo così. Non otterremo certo, additando la Toscana a esempio virtuoso, un miglioramento della situazione meridionale, obiettivo di tempo lungo, irraggiungibile senza un profondo rinnovamento della politica e dei dispositivi di formazione delle classi dirigenti. Otterremo piuttosto il risultato contrario, e cioè un rallentamento della tensione che invece, secondo me, deve continuare a esercitarsi a favore della qualità ambientale e paesaggistica della Toscana.

Soprattutto a me sembra che possa e debba essere importante l’assunzione diretta da parte della Toscana di una responsabilità nazionale riguardo alle questioni di cui stiamo trattando. Che intendo per responsabilità nazionale della Toscana? Mi riferisco, per esempio, al dibattito in corso sull’ultima stesura del Codice del paesaggio, quella curata dalla commissione ministeriale coordinata da Salvatore Settis. Rispetto ai testi precedenti, molto convincente è, tra l’altro, la nuova definizione di paesaggio[1], dove si assume come indiscutibile ed esclusivo il ruolo dello Stato. Merita di essere sottolineata la differenza con l’impostazione della cosiddetta Convenzione europea del paesaggio, secondo la quale il paesaggio è, invece, “una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio “costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e “può contribuire alla creazione di posti di lavoro”.

Altrettanto importante è la nuova norma del Codice[2], che ripristina l’impegno diretto delle strutture centrali del ministero nella predisposizione di indirizzi per la formazione dei piani paesaggistici.

Sul testo cosiddetto Settis l’opposizione della Regione Toscana è stata netta, irriducibile. Il presidente Claudio Martini ha dichiarato che si sta facendo “un micidiale passo indietro che ci condanna all’arretratezza”. L’assessore Riccardo Conti ha lanciato un durissimo messaggio nei confronti dei propri referenti politici nazionali affinché intervengano contro la visione “centralistica” propugnata dal Codice, a meno che non vogliano rischiare un “impoverimento politico e culturale” che una regione “dotata di autonomia” come la Toscana potrebbe essere tentata di attivare. Per me è difficile intendere le ragioni di tanta ostinazione. Qual è l’autonomia regionale che la Toscana sente minacciata? Quale danno potrebbe derivare dalla individuazione statale di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale”? Niente cambierebbe, nella sostanza, per la Toscana e le altre regioni che da anni operano nell’attività di conoscenza, di tutela e di valorizzazione delle proprie risorse paesaggistiche. Un grave danno sarebbe, al contrario, se dal Codice fossero depennate le norme ricordate sopra. Continuerebbe la latitanza delle regioni, chiamiamole apatiche (quelle meridionali soprattutto), che solo i binari fissati dallo Stato potrebbero indurre a un impegno attivo nella tutela. È qui, secondo me, che dovrebbe rivelarsi la responsabilità nazionale della Toscana alla quale prima ho fatto cenno e che invece è negata da un esasperato, irragionevole egoismo regionalista.

Concludo queste brevi, sommarie e disordinate riflessioni sul paesaggio toscano riportando in sintesi due osservazioni di Paolo Baldeschi che condivido del tutto e che spero aiutino a intendere anche il mio punto di vista. In primo luogo, secondo Baldeschi, ciò che nel Pit sembra più apprezzabile sono “le scorie di una vecchia cultura urbanistica che ancora galleggiano come relitti nel corso di un nuovo indirizzo”. La seconda osservazione che mi pare meritevole di essere ripresa riguarda il peso dei tanti comitati che in Toscana si aggregano in difesa di interessi comuni. Può darsi – osserva Baldeschi – che vi sia una componente elitaria nelle associazioni ambientaliste di livello nazionale. Ma certamente i comitati non sono fatti da signori in villa (come sostiene una polemica volgare), ma da gente normalissima, da impiegati, operai, persone che sacrificano il loro tempo libero non per difendere un interesse particolare o il cortile di casa, ma un territorio che amano e rispetto al quale provano un senso di appartenenza. Se i nostri politici avessero occhi per vedere e orecchi per sentire riconoscerebbero una riattualizzazione della vecchia base del partito comunista, quella base che, finito il lavoro, si ritrovava nelle sezioni convinta di lavorare per il bene comune.

Questa gente, queste popolazioni dentro o fuori i comitati, sono sostanzialmente impotenti. Di fronte hanno un blocco sociale e politico (spesso capeggiato dalla Regione) che si presenta come una corazzata di fronte a fragili barchette. La loro unica risorsa, oltre alla conoscenza del territorio è il rispetto della legalità. Mai come in questo caso la legalità è il potere dei senza potere.

[1] Qui di seguito i primi tre commi dell’art. 131 del Codice: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali. 3. Le norme di tutela del paesaggio, la cui definizione spetta in via esclusiva allo Stato, costituiscono un limite all’esercizio delle funzioni regionali in materia di governo e fruizione del territorio”.

[2] Qui di seguito il 3° comma dell’art. 145 del Codice: “3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette.

L’intensa attività edilizia di questi anni sta riscrivendo la geografia di Padova e del suo hinterland metropolitano. Purtroppo, ciò avviene senza una chiara visione del futuro della città e con un enorme spreco di territorio. Con conseguenze assai pesanti per la salute ed il benessere dei cittadini ed in relazione all’impronta ecologica della città. In assenza di un reale coordinamento delle politiche urbanistiche a scala comprensoriale, ogni comune – in concorrenza con i vicini – ha cercato in tutti i modi di attrarre investimenti per l’edilizia residenziale, commerciale ed industriale, rendendo estremamente “flessibili” i propri piani regolatori, con continue varianti e accordi di programma in deroga alle previsioni di piano. Il risultato è stata una inverosimile frammentazione urbana, una occupazione a pelle di leopardo di tutto il territorio che ha generato distruzione di paesaggio e risorse agricole, predominio incontrastato della motorizzazione privata, inquinamento dell’acqua, dei suoli e dell’aria oltre ogni limite immaginabile.

Tra il 1991 ed il 2006 la popolazione del Comune di Padova è diminuita di 4.836 abitanti, ma nel solo decennio 1991-2001 i dati del Censimento Istat ci dicono che si sono costruite più di 6.600 nuove abitazioni. Nei comuni della cintura tra il 1991 ed il 2006 gli abitanti sono aumentati di circa 33.000 unità, ma il corrispondente incremento di edilizia residenziale è stato quasi doppio rispetto al fabbisogno.

Per favorire l’attività edilizia ed immobiliare (uno dei pochi settori economici che non ha conosciuto crisi in tutti questi anni) la precedente Giunta comunale di centrodestra di Padova approvò una Variante di PRG che trasformava quasi tutte le aree un tempo destinate a verde pubblico (4,7 milioni di mq) in aree di perequazione urbanistica. Con le nuove cubature edilizie regalate ai privati, si sosteneva, il Comune avrebbe ottenuto in cambio, gratuitamente, una quota parte delle aree da destinare a verde e servizi urbani. Nel programma del Sindaco Zanonato vi era l’impegno alla revoca di detta Variante (non ancora, all’epoca, approvata dalle Regione), ma tale impegno dopo le elezioni venne clamorosamente disatteso. Solo a seguito della dura protesta di Legambiente e di alcune componenti di sinistra della nuova Giunta di centrosinistra, alcuni indici edificatori sono stati ridotti. Pur con qualche correttivo, la Variante venne quindi alla fine confermata, sparpagliando ville e condomini privati in tutte le residue aree aperte del territorio comunale, senza alcuna connessione con la rete dei trasporti collettivi e con le reali esigenze dei quartieri, ottenendone in cambio assai ridotti benefici per la comunità. Giardinetti e frammenti di aree verdi, anziché parchi e reti ecologiche.

In pendenza dell’entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, anche la Giunta Zanonato ha d’altra parte continuato ad approvare programmi di “recupero urbano” d’iniziativa privata in variante al PRG vigente con notevoli aumenti di cubatura, quale quello famoso delle “Torri di San Carlo” nel cuore del quartiere dell’Arcella, fortunatamente respinto a seguito dell’indizione di un apposito referendum richiesto a gran voce dagli abitanti e da Legambiente.

La nuova legge urbanistica regionale ha imposto l’elaborazione di nuovi Piani Regolatori (oggi PAT) e, novità importante, la costruzione unitaria dei PATI – Piani di Assetto Territoriale Intercomunali. Per il PAT di Padova si è avviato – su richiesta delle associazioni ambientaliste e con i meccanismi di Agenda 21 – un interessante processo partecipativo, che in qualche misura sembra poter condizionare le scelte strategiche di piano. Il problema è che i tempi previsti sono slittati oltre ogni ragionevole attesa. Nel frattempo l’Amministrazione continua ad operare secondo le vecchie logiche del giorno per giorno e del caso per caso, preoccupata soprattutto di non interrompere il flusso di capitali privati che continuano abbondantemente a riversarsi nell’edilizia e nella speculazione immobiliare. Quando si arriverà ad adottare il nuovo PAT (che dovrebbe introdurre una nuova normativa per le aree già sottoposte a perequazione e che deve decidere del futuro di aree strategiche per le trasformazioni urbane quali quelle della ex Zona Industriale, dell’Ospedale, di cui è previsto il trasferimento in altro settore urbano, della Stazione ferroviaria e della Fiera, le cui attività sono per molti aspetti obsolete data l’attuale localizzazione, di tutta la fascia ovest del Centro Storico, attualmente occupata da caserme di cui è prevedibile la prossima dismissione, del quadrante di nord-est e di San Lazzaro, …) sarà probabilmente troppo tardi, perché molte di queste aree potrebbero già essere compromesse dalle decisioni “urgenti” nel frattempo operate senza alcun disegno strategico.

Ma le questioni più importanti a scala territoriale e per il futuro stesso della città (sistema ambientale, infrastrutture per la mobilità, localizzazioni produttive e commerciali, infrastrutture di servizio di livello metropolitano,…) dovrebbero di fatto essere affrontate dal PATI. Non appare quindi affatto casuale che a questa scala della pianificazione Provincia e Comuni non abbiano nemmeno fatto finta di avviare un processo partecipativo con le forze sociali e le associazioni ambientaliste. Da tre anni tutto sta avvenendo e si sta concordando nel chiuso degli assessorati e degli uffici tecnici competenti. Un’occasione sprecata, anche perché solo un aperto dibattito e confronto pubblico avrebbero forse consentito di superare le logiche localistiche manifestate dalle diverse amministrazioni comunali.

L’autore è Presidente di Legambiente Padova

Le ex miniere tornano in vendita

di Giuseppe Centore

IGLESIAS. Riemerge l’ipotesi della vendita per gli immobili dei siti minerari dismessi del Sulcis. Nei bandi internazionali per la riqualificazione delle aree minerarie non si parlerà più di affitto ma di cessione. La notizia è stata anticipata ieri mattina dal governatore Soru nel corso dell’incontro per l’intesa istituzionale con la Provincia di Carbonia-Iglesias. La Regione inoltre metterà sul piatto anche la bonifica delle aree: il costo totale sarebbe di 800 milioni di euro. Di fatto la Regione rilancia la vecchia strategia visto che si è resa conto della scarsa appetibilità della concessione. All’acquisto erano interessati imprenditori del calibro di Barrack, Ligresti e Tronchetti Provera. Cauto il commento del sindaco di Iglesias Carta: voglio capire meglio i contenuti.

Siti minerari, niente più affitto: si torna ai bandi

Il «commissario» Soru ribadisce la vecchia strategia: la locazione è poco appetibile

IGLESIAS. Non c’è ancora la delibera, ma la decisione della giunta è chiara, e soprattutto è stata resa esplicita nel corso dell’incontro per l’intesa istituzionale con la Provincia di Carbonia-Iglesias. I bandi internazionali per la riqualificazione delle aree minerarie dismesse conterranno nuovamente l’ipotesi della vendita degli immobili e non più del loro affitto. La Regione metterà sul piatto anche la bonifica delle aree direttamente interessate ai siti minerari.

Il ragionamento del presidente si è sviluppato su due direttrici: la prima riguarda la poca appetibilità di qualsiasi gara sia pure internazionale con la concessione dei beni minerari: prolungare da 50 a 75 anni l’uso dei beni non avrebbe cambiato molto gli scenari. La seconda riguarda la necessità di offrire quegli immobili e quei volumi in condizioni ambientali neutre, cioè non inquinate. Ma un inquinamento globale di tutti i siti minerari, hanno fatto notare dalla presidenza della giunta, comporterebbe un impegno finanziario superiore qualsiasi disponibilità regionale, nazionale o comunitaria che fosse. Calcoli non precisi ipotizzano, per la bonifica di tutte le aree minerarie del Sulcis-iglesiente, un impegno di spesa vicino agli ottocento milioni di euro. L’impossibilità di procedere alla concessione delle aree per lungo periodo e di realizzare una bonifica completa dei siti spingono così la Regione a una nuova strategia: cessione dei beni, e bonifica minimale dei perimetri degli stessi.

In quest’ottica si spiega una decisione assunta mercoledì. I vuoti di miniera dell’area di Acquaresi, vicino Nebida, saranno riempiti con i residui delle lavorazioni che adesso sono all’aperto. Allo stesso modo si spiega la decisione di coprire con un film plastico e poi con essenze vegetali autoctone i tradizionali fanghi rossi di Monteponi. Nell’area alle porte di Iglesias, oltre all’Università andranno allocati alberghi, abitazioni e attività imprenditoriali a basso impatto ambientale. L’impossibilità di rimuovere quelle montagne di scorie inquinanti ha fatto optare Soru, nella veste di commissario di governo alle bonifiche, per una soluzione radicale, sicuramente concordata con lo studio svizzero Herzog&De Meuron (lo stesso studio autore dello progetto per lo stadio Olimpico di Pechino) che tra un mese presenterà il progetto esecutivo dell’area di Monteponi. Resta da vedere se la Soprintendenza ai beni ambientali che nel passato aveva tutelato quelle montagne di rifiuti industriali ritenendole patrimonio storico-ambientale dell’isola, avrà qualcosa da ridire, ma probabilmente proprio l’incarico di commissario di governo consentirà a Soru di by-passare il probabile parere contrario del ministero dei beni ambientali.

La strategia della Regione non si è ancora appalesata in un bando internazionale, ma le singole azioni intraprese in queste settimane, e annunciate da Soru agli enti locali, vanno tutte nella stessa direzione: riqualificazione delle antiche aree minerarie di pregio, attraverso una bonifica specifica, e poi vendita. Accade a Nebida, a Masua, a Normann, piccolo gioiello storico-urbanistico lungo la strada che da Iglesias arriva a Gonnesa, ma anche a Buggerru, e a Ingurtosu. Prima bonificare quanto basta e poi vendere. Certo privarsi dei gioielli di famiglia, come Soru definisce questi immobili non è una scelta che il presidetne vuol far a cuor leggero, ma i contatti informali di questi mesi hanno fatto ritenere al capo dell’esecutivo che adesso questa strada, a differenza delle altre, sia la più praticabile. La vendita dei siti più che a fare cassa di per sé servirà ad attivare quel volano produttivo che dovrebbe nel giro di pochi anni produre effetti benefici, a cascata su tutto il territorio. La strada per arrivare alla vendita però è ancora lunga, se non altro perché non si conoscono le intenzioni dei possibili, eventuali acquirenti. «La cultura della concessione dei beni immobili, anche per lungo periodo non fa ancora parte del patrimonio dei nostri imprenditori - è il senso del ragionamento di Soru - ecco perché la vendita è l’unica strada». Una frase sibillina. Sarà un “italiano” ad aggiudicarsi i gioielli architettonici del sudovest dell’isola?

Altra corsa all’acquisto?

L’interesse di Ligresti, Barrack e Tronchetti

IGLESIAS.Ligresti, Barrack, Tronchetti Provera. L’elenco dei possibili candidati all’acquisto si compone di nomi che già in passato hanno visitato di persona i siti minerari, suscitando le ire dell’opposizione in consiglio regionale e le perplessità del sindacato.

Lo spirito del nuovo bando internazionale prevede comunque la riqualificazione urbanistica ed edilizia a fini ricettivi di alcuni compendi per destinarli a strutture alberghiere, con centri di benessere, strutture sportive e per il golf, miglioramenti ambientali, naturalistico e di forestazione.

La Regione continuerà a chiedere progetti rispettosi delle condizioni del bando e in grado di intervenire non solo sul versante della costa, ma anche nelle vicine aree interne, nel caso del compendio di Masua, si tratta di prevedere interventi nell’area di monte Agruxau.

Masua e Nebida dovrebbero diventare le punte di diamante per riconvertire un’economia estrattiva e passare a un turismo culturale basato sulla valorizzazione delle vecchie miniere, con i gioielli della storia industriale dell’800 come la galleria Henry, Porta Flavia, la spiaggia di Masua, Portu Banda, Pan di Zucchero, Grotta Santa Barbara e le spiagge di Fontamanare e Fluminimaggiore-Buggerru.

Dopo lo “schiaffo” di un anno fa, quando la gara internazionale andò deserta, il bando venne riformulato, senza Masua, ma anche in quel caso pretendenti credibili non ce ne furono. L’ipotesi della concessione, avanzata successivamente al fallimento della strategia della vendita, non fece cambiare parere agli imprenditori. E così si è fatto un passo indietro, tornando all’antico, alla vendita dei beni, con un pacchetto di infrastrutture funzionali al sistema turistico.

Gli ambiti territoriali dovrebbero rimanere identici, nei due compendi. Il primo è quello di Masua e Monte Agruxau, su una superficie di circa 318 ettari, dove sarebbe stato consentito il recupero e la realizzazione della volumetria esistente sino al limite massimo di 120mila metri cubi per Masua e 40mila per Monte Agruxau, per un totale massimo di 160mila metri cubi. Il secondo riguardava Ingurtosu, Pitzinurri e Naracauli, per una superficie di circa 329 ettari. In questo sito sarebbe stato consentito il recupero e la realizzazione della volumetria esistente sino al limite massimo di 30mila metri cubi per Ingurtosu e 70mila per Pitzinurri e Naracauli, per un totale di 100mila metri cubi. Nella predednete gara l’importo a base d’asta era di 32 milioni e 520mila euro per Masua e Monte Agruxau e di 11 milioni di euro per Ingurtosu, Pitzinurri e Naracauli.

L’incertezza allora riguardava anche le bonifiche, su cui la Regione avrebbe dovuto aver comunque voce in capitolo attraverso Igea. Nel nuovo possibile bando le bonifiche, in chiave minale e dedicata al recupero turistico, saranno invece a carico della Regione, che rimane intenzionata ad aprire un contenzioso con Eni, responsabile delle attività minerarie sino all’addio del 1993. Per legge era Eni a dover effettuare le bonifiche.

Non lo fece allora, con la complicità silente di buona parte della classe politica sarda, e non sarà certo intenzionata a farlo adesso. La recente vicenda delle bonifiche dell’area ex-Alumix di Portoscuso, con i commissari liquidatori obbligati dopo quindici anni a eseguire gli interventi di ripristino pur in presenza di un socio subentrante gli impianti (in questo caso Alcoa) potrebbe costituire un interessante precedente. (g.cen)

La Maddalena

«Manovre immobiliari»

LA MADDALENA. «Mattoni, cemento e grandi firme - protestano gli ambientalisti - dopo che l’Us Navy ha ammainato la bandiera sono iniziate le grandi manovre immobiliari sull’arcipelago della Maddalena».

Gli scenari che si prospettano in vista del G8 preoccupano le associazioni Amici della terra e Gruppo d’intervento giuridico che adombrano il pericolo che il summit sia solo un alibi immobiliare.

«Parco nazionale, tutela paesaggistica, sito di importanza comunitaria - dice Stefano Deliperi - ma sembra proprio che le normative di salvaguardia ambientale di un arcipelago unico al mondo possano essere interpretate un disinvoltamente in nome del G8». «Così come abbiamo avversato il raddoppio della base militare - aggiunge il portavoce delle associazioni ambientaliste - ci opponiamo alla speculazione immobiliare. Ribadiamo ancora che vi sono numerose strutture che possono essere ristrutturate senza riversare su ambienti delicatissimi nemmeno un metro cubo di cemento in più. Basta volerlo. Né i grandi nomi dell’architettura né il ricorso alla bioedilizia possono far dimenticare che cemento e mattoni sono tutti uguali. E le disposizioni del Ppr non possono esser derogate».

Il riferimento è tutto per l’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri che ha nominato quale commissario Guido Bertolaso e ha dettato disposizioni straordinarie per lo svolgimento del vertice internazionale. Carta bianca, cioè, per derogare nel nome dell’emergenza, agli strumenti di pianificazione urbanistica vigenti, a cominciare proprio dal piano paesaggistico regionale.

Continua la campagna per la difesa della necropoli di Tuvixeddu

La singolare sentenza del TAR che boccia la tutela di un bene impareggiabile criticata duramente, mentre Renato Soru resiste e affila le armi. La Nuova Sardegna, 24 febbraio 2008

Soru non cede: «Tuvixeddu alla Regione»

Il Governatore annuncia che sarà acquisito come bene di utilità pubblica

Su Tuvixeddu il presidente Renato Soru non si arrende e rilancia: «La Regione acquisirà l’area dopo averla dichiarata di pubblica utilità». Il governatore della Sardegna lo ha affermato ieri mattina durante l’incontro promosso da Legambiente in difesa dell’allargamento del vincolo a tutto il colle. Il presidente ha ribadito che si opporrà alla sentenza del Tar chiedendo al Consiglio di stato la sospensiva dei lavori. Durante il simposio è stato precisato che il paesaggio di Tuvixeddu non è un valore economico ma un bene di tutti, «non commercializzabile». Intanto il mondo universitario di Cagliarai e di Sassari si è mobilitato in favore della Regione e del vincolo su tutto il colle.

La Regione acquisirà l’area di Tuvixeddu dopo averla dichiarata di «pubblica utilità». Lo ha affermato ieri mattina Renato Soru, presidente della Regione, chiudendo l’incontro promosso da Legambiente in difesa dell’allargamento del vincolo a tutto il colle. Dopo che il tribunale amministrativo regionale (Tar) ha accolto i ricorsi presentati dagli imprenditori (Coimpresa e società Cocco) e dal Comune, a giorni il governo dell’isola presenterà l’opposizione al Consiglio di Stato. «Chiederemo la tutela dell’area in attesa del giudizio di merito», ovvero la domanda di sospensiva dei lavori.

Il governatore è stato ottimista: «Più di una volta è capitato, anche su cose importanti, che una sentenza del Tar sia stata ribaltata da parte del Consiglio di Stato». La Regione, insomma, va avanti e «il privato sarà risarcito per i suoi diritti». Nel passato La Marmora bloccò la distruzione della Grotta della Vipera. «Oggi - ha precisato Soru - non c’è più un vicerè che interviene, ma la pubblica amministrazione può dire ancora che cosa ritiene importante dal punto di vista del paesaggio, della cultura e dell’interesse pubblico? Io penso di sì».

Ora il prossimo passaggio è il Consiglio di Stato, ma il governo dell’isola andrà avanti in ogni caso. E il motivo, ha affermato, si chiama Piano paesaggistico regionale (Ppr). Il Tar ha annullato il nuovo vincolo (allargato a tutto il colle) e ripristinato la vecchia situazione. Nelle sentenza il tribunale amministrativo fa riferimento in particolare all’accordo di programma, per la lottizzazione integrata su Tuvixeddu-Tuvumannu, firmato nel 2000 da Regione, Comune e Coimpresa. Quel documento sanciva sia la realizzazione di un parco archeologico di venti ettari (per la necropoli punico-romana), sia la possibilità di una edificazione, presso via Is Maglias (in un’altra parte del colle) di un complesso di circa quattrocento abitazioni e costruzioni per l’Università ai lati del colle di Tuvumannu.

Ma noi, ha spiegato il presidente Soru, «sulla base della convenzione internazionale sul paesaggio e del Codice Urbani siamo intervenuti con il Ppr. Subito dopo le elezioni abbiamo bloccato per tre mesi l’edificazione nelle coste che avrebbe creato la città lineare - ha precisato - e poi ridato una norma di tutela. In sintesi il Ppr dice che non tutto può essere mercificato e/o venduto. E così abbiamo cancellato milioni di metri cubi di edificazioni che erano già diritti acquisiti». Ma nella fascia costiera c’è anche Cagliari, «così abbiamo messo un vincolo anche su Tuvixeddu. Allora non c’era ancora la concessione edilizia, quindi noi pensavamo che, visto il vincolo, non si sarebbe costruito». Ma poco dopo, «in tempi rapidissimi sono state date una serie di concessioni edilizie. Allora quando mi sono accorto che si iniziava a costruire a Sant’Avendrace, a ridosso di alcune tombe romane, sono intervenuto». Inizialmente «sì, abbiamo fatto degli errori, poi ci siamo corretti con la commissione. Ma se si fosse rispettato il Ppr, non avremmo avuto la necessità di intervenire in fretta». Primo blocco l’11 gennaio del 2007, poi l’istituzione della commissione al Paesaggio e il vincolo allargato in agosto.

Infine una stoccata all’accordo di programma del 2000: «In Giunta, allora, passarono due fogli in cui si parlava - ha continuato Soru, mostrando il documento - di un finanziamento di sei miloni e di un terreno sul colle che la Regione avrebbe dovuto cedere per il parco. Niente allegati. Dopo un funzionario delegato andò in Comune a firmare l’accordo di programma. Un documento sulla cui correttezza si dovrebbe indagare». In ultimo, dopo aver ribadito che la Regione acquisirà l’area, una citazione ispirata da Giovanni Maria Angioni: «La percezione del senso di patria è la difesa del bene comune».

Legambiente: «Intervenga il ministro»

Enrico Corti: «Il Codice Urbani giustifica l’allargamento del vincolo»

CAGLIARI. Dopo la sentenza del tribunale amministrativo che ha stracciato le procedure che hanno portato all’allargamento del vincolo su Tuvixeddu, ieri è stata la giornata della riscossa. Legambiente ha mobilitato, nella sala del palazzo Viceregio, i maggiori studiosi del settore: archeologi e storici (da Giovanni Lilliu a Enrico Atzeni, da Marcello Madau ad Attilio Mastino, da Simonetta Angiolillo ad Alberto Coroneo, sino a Paolo Scarpellini), geologi (Felice Di Gregorio) e urbanisti (Enrico Corti). Tutti uniti nel difendere l’operato della Regione e l’allargamento del vincolo a tutto il colle (deliberato nell’agosto del 2007).

Vincenzo Tiana, responsabile regionale dell’associazione ambientalista ha precisato, in apertura, che la sentenza del Tar è stata un arretramento «dal punto di vista culturale» e informato di aver chiesto «un incontro col ministero per fare presente la situazione». E informato che su Sant’Avendrace «l’impresa Cocco ha già ripreso i lavori. Noi non entriamo nel merito tecnico della sentenza, ma di quello che significa in termini di ritorno indietro in rapporto all’importanza del paesaggio, come stabilito dal Codice Urbani». Aspetto, questo, spiegato anche da Corti (che, tra l’altro, ha firmato il nuovo piano regolatore del comune di Cagliari). L’urbanista, pur senza entrare nel merito tecnico, ha contestato alcune considerazioni contenute nel pronunciamento del tribunale amministrativo. In particolare quella in cui si afferma che non sarebbe intervenuto niente di nuovo, in termini di ritrovamento archeologico, da giustificare l’allargamento del vincolo. Ma il problema, ha sottolineato Corti, è che «dal 2000, anno della firma dell’accordo di programma, a oggi sono sopravvenuti alcuni fatti molto importanti: il consiglio d’Europa ha portato all’attenzione degli Stati membri l’importanza del paesaggio (come valore politico e culturale per le identità dei popoli); indicazione poi tradotte nel codice Urbani». Impostazione che nega «il principio della produttività del bene paesaggistico, che non deve entrare nel meccanismo economico in quanto viene prima: è un bene culturale che non si possiede in quanto appartiene a tutti».

Discorso analogo è stato fatto dall’archeologo Alfonzo Stigliz che ha ricordato la battaglia di Antonio Cederna per la difesa dell’Appia antica, a Roma, poi sancita con un atto d’imperio dell’allora ministro Mancini, che cambiò il piano regolatore di Roma. Paolo Scarpellini, già direttore (all’epoca delle decisioni su Tuvixeddu) delle sovrintendenze regionali e oggi responsabile in Calabria, ha ricordato l’assenso dato dal ministero all’intervento su Tuvixeddu. E pricisato che «l’accordo di programma è comunque subordinato al vincolo paesaggistico». Aspetto, questo, sottolineato anche da Carlo Dore, avvocato civilista, che ha fatto riferimento a una sentenza della Corte costituzionale di fine 2007 in cui si afferma che il bene paesaggistico è «un valore primario e assoluto».

Giovanni Lilliu, decano degli archeologi sardi, impossibilitato a muoversi per l’età, ha fatto pervenire il suo appoggio al convegno tramite un video in cui ha ribadito «il grosso ingombro» che costituirebbe la lotizzazione prevista dall’accordo di programma. E rammentato quando, sin dagli anni Ottanta, chiedeva un grande parco per Tuvixeddu.

Ma che strada seguire per salvare il colle? «Occorre puntare alle acquisizioni delle lottizzazioni previste - ha affermato Graziano Milia, presidente della Provincia - a suo tempo mi diedero del provocatore. Ma se lo avessimo fatto avremmo risparmiato molti soldi. Ora costruiamo un percorso concreto e possibile, che permetta di salvare il colle». Ipotesi, l’acquisizione (con relativo rimborso del privato), che ora propone (vedasi articolo di apertura) anche il presidente Renato Soru. (r.p.)

Il Friuli Venezia Giulia è stato la prima Regione italiana a dotarsi di uno strumento di pianificazione territoriale d’area vasta, con il Piano Urbanistico Regionale Generale (PURG) del 1978.

Si trattò, per allora, di un piano d’avanguardia: basti dire che venivano di fatto prefigurati, con il sistema delle aree protette (76 “ambiti di tutela ambientale”, a tutela delle parti più preziose del territorio regionale e 14 parchi naturali regionali a rappresentare il “connettivo” tra i primi), i “corridoi ecologici” che soltanto molti anni più tardi alcuni strumenti di pianificazione avrebbero cominciato ad individuare.

Purtroppo, questa esperienza avanzata fu ben presto contraddetta dalla pratica urbanistica degli anni successivi, appiattita sulla gestione – spesso assai discutibile - delle scelte a livello comunale.

Abortito ben presto il disegno ambizioso del sistema delle aree protette, immiserito in una miriade di “piani di conservazione e sviluppo” parcellizzati e totalmente inefficaci dal punto di vista protezionistico (produttivi quasi soltanto di “parchi di carta” e di più o meno laute parcelle agli estensori), per quasi un trentennio di piani d’area vasta non si parlò più, e tanto meno a quella scala si pianificò.

Venne persa, per precisa ed esplicita volontà della classe politica e della struttura tecnica regionale, anche l’occasione offerta dalla legge “Galasso” n. 431 del 1985: si riuscì infatti a far accettare al ministero dei beni culturali la tesi che il PURG del ’78 avesse valenza di piano paesaggistico e non era pertanto necessario procedere alla stesura di un piano ad hoc.

Caso certamente unico di preveggenza in campo urbanistico-territoriale, che con un piano del ’78 si potesse attuare una legge del 1985!

La legge urbanistica n. 52 del 1991, delegando da un lato l’approvazione dei piani regolatori ai comuni medesimi, immiseriva ulteriormente il ruolo pianificatorio della Regione, pur prevedendo che il PURG venisse sostituito da un Piano Territoriale Regionale Generale (PTRG), il quale peraltro – malgrado una considerevole mole di studi ed analisi preliminari, non fu mai adottato.

Il mondo nel frattempo cambiava e anche in Friuli Venezia Giulia si affacciavano nuovi fenomeni e pressioni sul territorio, spesso ingigantiti da una gestione urbanistica ristretta (politicamente e culturalmente) entro l’orizzonte dei confini comunali.

Oltre alla macroscopica proliferazione dei centri commerciali e delle zone produttive industriali-artigianali, in molte aree della pianura e della costa si manifestavano sempre più aggressive le spinte alla villettizzazione disordinata, preferibilmente lungo le vie di comunicazione.

A tutto ciò, negli ultimi anni si sono aggiunti i progetti di infrastrutture di trasporto ed energetiche di grandi dimensioni, con i conseguenti rilevanti problemi nei rapporti con le comunità locali, a livello di enti (comuni in primis) ma ancor più di cittadinanza organizzata in comitati ed associazioni.

Una delle critiche principali avanzate dagli oppositori (comuni, associazioni ambientaliste, comitati di cittadini) delle tante grandi opere pubbliche e private, ad elevato impatto ambientale, proposte negli ultimi tempi in Friuli Venezia Giulia, è infatti la mancanza di un quadro di riferimento programmatico, di un piano che le prevedesse e ne dimostrasse la necessità. E questo tanto a livello statale, quanto a livello regionale.

Così per la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Venezia-Trieste-Lubiana (parte del “Corridoio 5” Lisbona-Kiev), per i terminali di rigassificazione del GNL (due progetti proposti in Friuli Venezia Giulia), per gli elettrodotti di importazione da Austria e Slovenia, per la nuova autostrada prevista tra la Carnia e il Cadore, e così via.

Il PTR di Illy

Ora il “quadro di riferimento” c’è: è il Piano Territoriale Regionale (PTR), adottato dalla Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia nell’ottobre 2007, e “figlio” della nuova legge urbanistica regionale n. 5/2007 che ha definitivamente soppiantato la vecchia 52/1991.

Va detto che l’urbanistica non compariva affatto nel programma di Riccardo Illy, eletto presidente della Regione nel giugno 2003, né per quanto concerne la riforma della legislazione in materia, e tanto meno per quanto riguarda la predisposizione di un piano generale d’area vasta.

L’esigenza di occuparsi di questa materia sorge improvvisamente agli inizi del 2005 e poterà alla fine di quell’anno all’approvazione della L.R. 30/2005, che sancisce alcuni principi “ideologici” fondamentali: in primo luogo l’”equiordinazione” tra finalità prettamente economiche (nel senso di uno “sviluppo” del tutto tradizionale, naturalmente) e finalità di tutela del territorio e del paesaggio.

Cuore autentico della legge era però da un lato l’introduzione di norme per il recepimento d’imperio, negli strumenti urbanistici comunali, dei progetti di nuove opere ed infrastrutture “di interesse regionale” (dichiarato tale da un atto politico della Giunta), dall’altro dichiarava essere la pianificazione territoriale – anche sovracomunale! – competenza del Comune, in nome dei principi di “sussidiarietà e adeguatezza”.

Che cosa avesse spinto la Giunta Illy a dotarsi di un simile strumento legislativo appariva ben chiaro dalla prima formulazione del disegno di legge, poi diventato la L.R. 30/2005, laddove si citavano esplicitamente alcuni dei progetti di “interesse regionale”: la tratta di TAV compresa nel “ Corridoio 5”, alcune strade, ecc.

La nuova legge, tuttavia, non sostituisce ancora la vigente normativa urbanistica (L.R. 52/1991), pur annunciandone una futura revisione/sostituzione, così come indica alcuni contenuti ed elementi del Piano Territoriale Regionale, nonché la procedura per la sua approvazione. Il tutto condito da ripetuti riferimenti alla procedura VAS e alle metodologie di Agenda 21.

Comincia così la stesura del documento preliminare del PTR, divulgato nella primavera 2006, di cui il WWF produce un’ampia disamina, assai critica.

Su questo documento viene imbastito un cosiddetto “processo partecipativo”, dal quale scaturiscono alcuni obiettivi (e conseguenti azioni di piano), che si vorrebbe fossero stati assunti poi alla base della stesura del PTR vero e proprio. Il che non è, se non in minima parte, vuoi per la genericità di tali obiettivi, vuoi per il fatto che alcuni contenuti fondamentali del PTR non trovano alcun riferimento negli indirizzi, bensì derivano da input di altra natura (di cui non peraltro difficile individuare l’origine nella stessa Giunta regionale e nei gruppi di interesse economico dalla stessa rappresentati).

Il PTR dovrebbe altresì avere valenza di piano paesaggistico ai sensi del D.Lgs. 42/2004 (con il che viene implicitamente ammessa l’autentica truffa compiuta quando fu dichiarata la valenza paesistica del PURG del 1978…). A tal fine, nel dicembre 2006 era stata stipulata un’Intesa interistituzionale tra la Regione ed i ministeri dei beni e attività culturali e dell’ambiente.

Quanto alle scelte strategiche, va detto subito che il PTR contiene tutto, ma proprio tutto quello che vogliono i “poteri forti”, cioè le categorie economiche (industriali in testa).

Cominciando dalla montagna, sono previsti, per citare soltanto gli elementi principali:

1. un elettrodotto di importazione – una cosiddetta merchant line - tra l’austriaca Wurmlach e Somplago, caldeggiata da tempo da alcune importanti industrie friulane;

2. una moltitudine di impianti di risalita, piste da sci e strutture ricettive, di cui peraltro non si precisano le caratteristiche (il PTR recepisce infatti automaticamente i programmi di sviluppo della società a controllo regionale “Promotour” per i poli sciistici di Piancavallo, Forni di Sopra, Sella Nevea, Ravascletto-Zoncolan e Tarvisio ed inoltre il progetto di sviluppo infrastrutturale e ricettivo per il polo di Pramollo-Nassfeld, deciso in base ad un accordo diretto tra Illy ed il governatore del Land Carinzia, Jörg Haider);

3. l’autostrada di collegamento tra l’A 23 e l’A27, cioè tra la Carnia e il Cadore (frutto di un accordo politico stipulato nel 2004 tra Illy, Galan e Lunardi).

In pianura invece:

1. la linea TAV Venezia-Trieste-Divaccia (parte del “Corridoio 5” Lisbona – Kiev);

2. gli elettrodotti tra Redipuglia e Udine Ovest e tra Redipuglia e Divaccia (quest’ultimo verrebbe inserito all’interno del “cunicolo esplorativo” scavato sotto il Carso per le gallerie della TAV);

3. un mega-centro golfistico tra Bicinicco, Castions di Strada e Mortegliano;

4. un parco tematico attrezzato (stile Eurodisney, par di capire) a Latisana.

Quanto alle infrastrutture energetiche, interessante l’indicazione relativa ai terminali di rigassificazione: dovranno essere collocati “negli ambiti portuali industriali individuati ai sensi della L. 84/94”. Il che equivale a dire Trieste (l’unico progetto di terminale GNL presentato in un porto industriale è quello di Gas Natural a Trieste-Zaule), ma dev’essere mancato il coraggio.

Semplicemente, le previsioni di una pluralità di soggetti, pubblici, privati o misti che siano, sono inserite nel PTR e per ciò stesso diventerebbero “legge”: ai Comuni il compito di adeguarsi, ai cittadini quello di accettare.

Altre perle: sono 21 (ventuno!) le “espansioni della grande distribuzione commerciale” previste, di cui sette intorno a Udine, ma tra queste non appare – stranamente – il mega-centro previsto dalle Coop nell’ex Silos presso la stazione centrale di Trieste.

Ancora: vengono consentite sia l’apertura di nuove cave, sia l’ampliamento di quelle esistenti all’interno di SIC e ZPS (aree di grande importanza naturalistica, individuate in ottemperanza a Direttive europee).

Gli aspetti naturalistici sono, dal canto loro, ridotti alla mera ricognizione dei perimetri delle aree protette esistenti (senza che non ne venga proposta alcuna nuova), mentre i “corridoi ecologici” sono ridotti ad un’indicazione quanto mai sommaria riferita per di più alle “direttrici” di tre sole specie faunistiche (capriolo, orso e lince), rinviandone l’individuazione puntuali a studi specifici da produrre a livello di pianificazione comunale (!).

E si potrebbe continuare a lungo.

Sconcerta soprattutto che la necessità e la sostenibilità della congerie di opere e insediamenti previsti siano date per scontate a priori, ancorché la giustificazione – possibilmente argomentata con dati oggettivi - delle scelte compiute sia ovviamente il cuore di un qualsiasi piano. Lo prescrive del resto la specifica Direttiva europea 2001/42/CE, sulla Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) di piani e programmi: le previsioni in questi contenute – e le possibili alternative - devono essere motivate e analizzate nelle loro conseguenze ambientali. Il tutto deve avvenire nell’ambito di un processo partecipato con i cittadini, che deve cominciare prima dell’adozione del piano, proseguire fino all’approvazione e coinvolgere anche gli Stati e le Regioni confinanti.

Nulla di tutto ciò nel PTR: il Rapporto Ambientale per la VAS, malgrado le sue 672 (!) pagine, non analizza affatto le conseguenze sull’ambiente delle previsioni di piano e men che meno le alternative, neppure accennate. Inoltre la procedura V.A.S. è stata avviata soltanto dopo l’adozione del piano, né vi è traccia del coinvolgimento di Veneto, Carinzia e Slovenia.

Alla faccia delle tante chiacchiere sulla trasparenza, la democrazia partecipata e l’integrazione con i vicini nell’Euroregione: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare!

Il PTR ribadisce ad ogni piè sospinto, infatti, l’obiettivo di contenere il consumo di suolo e promuovere lo “sviluppo sostenibile”, salvo non mettere in campo nessuna misura concreta per contrastare il primo fenomeno e ridurre il secondo a mero slogan. Basti dire che da un lato si afferma la necessità di disincentivare gli insediamenti industriali-artigianali isolati, ma dall’altro viene ammessa l’estensione delle zone produttive (già troppe e irrazionalmente disperse sul territorio) “anche se non contigue all’esistente”. Non molto diverse le previsioni per le zone residenziali, di fatto lasciate all’arbitrio dei Comuni.

Va detto che il PTR incorpora anche uno schema della Rete di Ciclovie di Interesse Regionale, indicandone i tracciati di massima. Visto il quadro complessivo, è probabile che – se saranno realizzate – queste consentiranno istruttivi giri turistici … tra una selva di capannoni e villette.

Il PTR non è un piano paesaggistico ma solo un “piano delle opere”

E il paesaggio? Il PTR non rispetta le disposizioni fondamentali del D. Lgs. 42/2004. Non vengono infatti perimetrate le aree ex art. 142 del decreto (cioè le aree vincolate “ex Galasso”), mancano norme di salvaguardia, né vengono adeguatamente individuati i fattori di rischio paesaggistico (neppure una parola, ad esempio, sulle devastanti previsioni di molti piani regolatori comunali), sono del tutto insufficienti le prescrizioni per la tutela dei beni paesaggistici, ecc.

Il PTR “scarica” in sostanza la materia ai Comuni, ai quali impartisce soltanto alcune vaghe e lacunose “prescrizioni”, che tali poi non sono, per i Piani Strutturali Comunali, attraverso i quali dovrebbero effettivamente attuarsi le disposizioni a tutela del paesaggio (ma anche quelle sul recepimento delle nuove infrastrutture, ecc. essendo tutte queste finalità “equiordinate”!).

Finirà che ogni Comune sarà di fatto padrone assoluto sul proprio territorio (fatti salvi naturalmente i grandi interventi di cui sopra, che la Regione gli impone di accettare).

Viste le esperienze recenti, con le tante porcherie ammesse – e spesso fortemente volute – dai piani regolatori comunali, è lecito aspettarsi il peggio, cioè l’assalto indiscriminato al territorio. Anche perché dalle cementificazioni, com’è noto, arrivano tanti soldi nelle casse municipali: attraverso l’ICI e gli oneri di urbanizzazione (ora destinabili per il 75 per cento alla copertura delle spese ordinarie dei Comuni).

Di conseguenza, il PTR del Friuli Venezia Giulia, lungi dall’essere (ad onta della mole di elaborati che lo compongono) un vero strumento di pianificazione d’area vasta, e tanto meno un piano paesaggistico, si rivela in definitiva una sorta di “piano delle opere”, infrastrutturali e non, che politicamente la Giunta ha deciso essere “strategiche” per lo “sviluppo” della Regione.

Insomma, il PTR persegue – sepolto sotto un diluvio di parole – il vecchio disegno di uno “sviluppo” identificato con la mera crescita economica (del PIL), alla quale il territorio ed i suoi valori vengono tranquillamente sacrificati.

Ormai da tempo c’è chi mette in discussione questo modello distorto di sviluppo e l’uso ipocrita e strumentale del termine “sostenibile”: c’è per esempio chi, anche a livello accademico, parla di decrescita. Tutto ciò, però, non ha avuto diritto di cittadinanza nel nutrito gruppo di lavoro che ha redatto il PTR (dove spicca – con un ruolo determinante - l’ing. Ondina Barduzzi, ex assessore all’urbanistica ai tempi di Illy sindaco a Trieste) e tanto meno nella Giunta regionale che lo ha adottato.

La (brutta) politica vincerà di nuovo?

Adottato dalla Giunta regionale nell’ottobre 2007, il PTR è stato fatto oggetto di numerose osservazioni, sia pure nei limiti alquanto restrittivi previsti dalla nuova legge urbanistica regionale, che legittima a presentare osservazioni (cfr. art. 10, c. 5)soltanto alcuni soggetti: a) enti e organismi pubblici; b) associazioni di categoria e soggetti portatori di interessi diffusi e collettivi; c) soggetti nei confronti dei quali le previsioni del PTR adottato sono destinate a produrre effetti diretti.

Merita sottolineare che la Giunta regionale procederà all’approvazione definitiva del PTR “tenuto conto delle osservazioni di cui al comma 5” (art. 10, c. 6), senza cioè che vi sia neppure l’obbligo di controdedurre puntualmente ai contenuti delle osservazioni stesse, come peraltro prevede la stessa legge citata per le osservazioni sui piani comunali….

Malgrado ciò, molte sono le osservazioni formulate, tra le quali quelle del WWF Friuli Venezia Giulia, che si possono riassumere nei punti seguenti:

1) contrasto tra l’impostazione del Piano e quella prescritta dal D.Lgs. 42/2004 per i piani paesaggistici, per la mancata individuazione delle aree vincolate ex art. 142 del D.Lgs., l’inadeguata individuazione dei fattori di rischio paesaggistico, l’insufficienza delle prescrizioni per la tutela dei beni paesaggistici contenute nelle schede degli AP, l’inesistenza di norme di salvaguardia in attesa dell’approvazione dei piani comunali di adeguamento al PTR;

2) disomogeneità e grave lacunosità della base analitica del PTR, rappresentata dal “quadro delle conoscenze e delle criticità”, scoordinata con le azioni di piano e le previsioni normative;

3) assoluta inadeguatezza – anche in termini di scala (1:150.000!) – e incompletezza dei supporti grafici;

4) contraddittorietà nell’impostazione delle Norme di Attuazione del PTR, tanto vaghe e generiche per quanto concerne le prescrizioni a tutela del territorio e del paesaggio, quanto precise e cogenti nell’imporre alla pianificazione subordinata il recepimento di scelte infrastrutturali, non motivate né valutate;

5) incompletezza delle schede degli Ambiti Paesaggistici, con la sistematica omissione dei fattori di rischio paesaggistico rappresentati dalle previsioni dei PRGC vigenti e la mancata considerazioni di molti elementi di grande valenza paesaggistica;

6) stravolgimento della procedura V.A.S. sul Piano, rispetto a quanto previsto dalla Direttiva europea in materia, con la contestuale inadeguatezza del Rapporto Ambientale e l’insufficienza degli indicatori per il monitoraggio.

Il WWF rileva altresì come il P.T.R. risenta, al pari della L.R. 5/2007 dalla quale discende, di un’impostazione di fondo culturalmente errata, in base alla quale obiettivi territoriali e paesaggistici – per di più spesso confusamente espressi e sviluppati – sono stati intrecciati ed “equiordinati” con finalità di ordine economico (lo “sviluppo”), laddove è pacifica da decenni anche a livello giurisprudenziale la superiorità gerarchica dei valori paesaggistici (e quindi della tutela degli stessi) rispetto ad ogni altro interesse che esprima attraverso gli strumenti urbanistici (cfr. anche la sentenza n. 367/2007 della Corte Costituzionale).

Valutazioni analoghe sono contenute anche nelle osservazioni formulate da Italia Nostra e Legambiente.

Invano ci si sarebbe attesi una presa di posizione su tale obbrobrio da parte delle forze politiche, comprese quelle della cosiddetta “sinistra radicale” (che peraltro sostengono la Giunta Illy, hanno quasi tutte compatte votato la pessima L.R. 5/2007 e si apprestano a rinnovare l’alleanza con Illy ed il PD alle elezioni regionali del prossimo 13 e 14 aprile).

Invano ci si sarebbe attesi una reazione critica visibile da parte degli “addetti ai lavori” (urbanisti singoli ed associati, ordini professionali, mondo accademico regionale, ecc.).

L’iter del PTR andrebbe sospeso e, previa completa rielaborazione, riavviato da capo in conformità alle disposizioni statali (sul paesaggio) ed europee (sulla V.A.S.) platealmente disattese. Il WWF, come altre associazioni ambientaliste, lo ha chiesto.

La Giunta regionale, invece, pare stia cercando di accelerare l’iter di approvazione del piano, per poterlo sbandierare nella campagna elettorale già iniziata.

Tuttavia, per il riconoscimento della valenza paesaggistica del piano, occorre come detto l’avallo statale (ministeri dell’ambiente e dei beni culturali). E’ lecito sperare che gli organi ministeriali facciano valere le proprie prerogative senza essere condizionati da ragioni politiche, come purtroppo in altri casi – si veda la sconsolante conclusione della vicenda della Baia di Sistiana - è accaduto.

Dario Predonzan è Responsabile settore territorio ed energia del WWF Friuli Venezia Giulia. Le osservazioni del WWF sul P.T.R. sono disponibili nel sito regionale dell’associazione, nella sezione “documenti”, mentre gli elaborati del Piano si trovano nel sito della Regione Friuli Venezia Giulia nella sezione “Urbanistica infrastrutture e trasporti”.

Un severo commento della Orribile legge urbanistica del Friuli - Venezia Giulia è, in eddyburg , tra gli scritti di Luigi Scano

CAGLIARI. C’è il via libera della Regione alla costruzione delle ville principesche disegnate dalla matita di Massimiliano Fuksas e ai due lussuosi hotel della ‘Is Molas spa’, controllata dalla ‘Immsi’ di Roberto Colaninno. Mentre resta un piccolo punto interrogativo sul nuovo campo da golf ‘Gary Player’ e sui lavori idraulici che riguardano il Rio Tintoni, il corso d’acqua naturale destinato ad essere modificato per dare acqua al green e agli spazi verdi del resort da 130 milioni di euro ha già scatenato la reazione del Gruppo di Intervento giuridico e degli Amici della Terra che annunciano nuovi ricorsi: per questi interventi la Regione ha imposto la valutazione di impatto ambientale.

Tecnicamente la delibera segna la conclusione della procedura di verifica sul ‘completamento della lottizzazione convenzionata Is Molas’. Di fatto stabilisce che le ville e gli hotel possono essere costruiti senza valutazione di impatto ambientale perchè «il complesso costituisce una rivisitazione con standard di qualità dal punto di vista architettonico e dell’inserimento paesaggistico-territoriale di livello superiore rispetto a precedenti iniziative già assentite e non portate a compimento». Mentre, indicate una serie di prescrizioni da rispettare rigorosamente nella fase di realizzazione delle opere, la Regione esprime qualche preoccupazione sul nuovo green che la società di Colaninno vuole mettere a disposizione dei suoi prossimi ospiti. Secondo il servizio Savi - l’ufficio che verifica le ricadute ambientali degli interventi - esistono «potenziali impatti significativi negativi, non mitigabili in sede di screening». Per questo «è necessario sottoporre gli stessi interventi a valutazione d’impatto». Il riferimento della delibera è soprattutto per il sistema idraulico del campo di golf, che prevede modifiche al Rio Tintoni e lo sfruttamento intensivo del suo apporto idrico. La Regione chiede di accertare fino a che punto sarà utilizzato il torrente e se esistano fonti di approvvigionamento alternative.

Sul caso del progetto ‘Is Molas’ indaga anche la Procura della Repubblica dopo un esposto degli ecologisti e un rapporto della Guardia Forestale: il pm Andrea Massidda non ha ravvisato alcun abuso, anche perchè nulla finora è stato costruito. L’inchiesta, oggi congelata, potrebbe riaprirsi solo se la società immobiliare non dovesse rispettare a puntino le prescrizioni regionali e se - come sostiene la Forestale - il cemento interessasse anche le aree colpite in passato da alcuni incendi. Il difensore della ‘Is Molas spa’ Luigi Concas ha precisato che «le indagini sul problema degli incendi riguarderebbero in ogni caso la precedente proprietà, perchè l’acquisto della società da parte della Immsi è successivo agli eventi denunciati dagli ecologisti».

Per Massimiliano Levi, dell’ufficio stampa di Immsi «il progetto ideato dall’architetto Massimiliano Fuksas caratterizzerà Is Molas come uno dei resort turistico-residenziali di più alto livello in Europa, grazie alle ricercate qualità architettoniche e paesaggistiche». Per Levi «il nuovo campo da golf richiamerà i più grandi giocatori del mondo e porterà Pula nel ristretto novero dei green di interesse internazionale». Is Molas spa - secondo l’ufficio stampa - è «orgogliosa di aver superato i controlli puntigliosi della Regione, che ha riconosciuto la qualità del progetto» e garantirà «lavoro alle imprese sarde».

Quando una città cresce e si espande sente il bisogno affannoso di reperire nuove aree edificabili; e le cerca nelle immediate vicinanze, occupando senza scrupoli i terreni ancora liberi, sotto la spinta di una miope ed esclusiva ricerca di speculazione. Analogamente, una tribù di selvaggi, quando cresce di numero, occupa violentemente nuovi territori limitrofi, sotto la spinta di una impellente necessità di sopravvivenza. Una stessa legge della giungla domina due comportamenti ugualmente violenti. Tuttavia, mentre una città retta dal "buon governo" padroneggia la sua espansione e la inquadra in piani di razionale sviluppo urbanistico, volti a conseguire un auspicabile bene comune; al contrario una città retta dal "mal governo", come quello che amministra oggi Milano, allunga i tentacoli della sua espansione su qualsiasi territorio a portata di mano, evitando deliberatamente di accertarsi se questi territori abbiano un valore ambientale o storico, o monumentale. Nei programmi del "malgoverno" non esiste il concetto di bene comune, esiste soltanto l’interesse ed il tornaconto dei singoli gruppi privati, cioè delle lobby.

In questi giorni sta per essere presa dalla Regione Lombardia una iniziativa offensiva e sciagurata; una offensiva che modifica la attuale legge urbanistica e peggiora sensibilmente le norme di protezione dei parchi naturali. I parchi naturali, quando si trovano ai margini della città, vengono comprensibilmente valutati, da parte di costruttori avidi e di amministratori poco scrupolosi, come tesori rari ed inestimabili. Una edificazione interamente collocata nel verde acquista infatti un invidiabile pregio e garantisce un altissimo profitto.

Con la precedente legge regionale era stata ottenuta una lodevole conquista, culturale e civica allo stesso tempo: il paesaggio, sia naturale che monumentale, veniva considerato come un bene di assoluta proprietà collettiva, un bene da salvaguardare gelosamente in nome di comuni e generali principi etici ed estetici; principi analoghi a quelli invocati dall’Unesco quando si impegna a salvaguardare luoghi di particolare valore, definiti "patrimonio dell’umanità". La nuova legge regionale calpesta questi principi e apre la porta a una distruzione dei parchi naturali, selvaggia e indiscriminata. Ipocritamente presentata come una occasione di abbellimento del territorio lombardo, la nuova legge in realtà apre le strade alla distruzione di quella parte di territorio ancora verde posto a Sud di Milano, e sopravvissuto alla edificazione caotica del dopoguerra; mentre dalla stessa edificazione è stata irrimediabilmente sfigurata la parte posta a Nord, la (un tempo) amena Brianza. Con una subdola norma, che può sembrare innocua ed è invece letale, la nuova legge demanda alla Regione il potere di concedere nuove edificazioni all’interno dei parchi, anche contro il parere dei Comuni interessati, cioè dei primi ufficialmente autorizzati a deliberare, perché inclusi nei confini del Parco e costituenti di questo parte integrante. "Allarme cemento nei parchi", diceva ieri, con enfasi appropriata, questo quotidiano; si dovrebbe aggiungere oggi, con toni angosciati, "Allarme, eccidio del paesaggio".

Firmate contro l'obbrobrio !

L' università si schiera con la Commissione per i fatti di Tuvixeddu. Avevano temporeggiato un pò. Volevano valutare, documenti alla mano, il contenuto della sentenza del Tar. Ora da Cagliari prendono posizione, allineandosi a quanto espresso qualche giorno fa dai colleghi sassaresi. Una quarantina di professori hanno sottoscritto il documento col quale si esprime totale sostegno alla decisione della Commissione regionale del paesaggio. Lo ntani dall 'esprimere un giudizio tecnico sull'operato del Tribunale, nell'atto, evidenziano alcune valutazioni sul concetto di “bene ambientale e culturale”. La sentenza del Ta r che annulla il provvedimento con cui la Regione aveva esteso il vincolo paesaggistico all'area di Tuvixeddu, non tiene conto di «un fatto realmente nuovo che imponeva e impone una revisione della situazione precedente». La novità è intervenuta nel 2004 quando, col cosiddettoCodice Ur bani (codice dei beni culturali e del paesaggio) è stato introdotto «il concetto radicalmente innovativo del bene paesaggistico come“ unità ambientale” all'interno della quale si trovano diverse categorie di beni culturali: naturalistici, storici, archeologici....». Fatta questa premessa la posizione dei giudici che si basa sulla «mancanza di nuovi ritrovamenti archeologici che giustif ichino il vincolo, privilegia la vecchia idea del bene cultur ale così come prevista prima della Urbani». In base alla nuova legge, proseguono: «deriv a la possibilità di restaur are il paesaggio con il ripris tino della sua unità ambientale». Questo significa non un ritorno alle origini, che sarebbe impossibile. Piut tosto una restituzione alla condizione precedente «a una serie di interventi più o meno recenti che l' hanno compromessa pur non cancellandone la memoria». Se quegli inter venti danneggiano l'unità ambientale, così come definita dal codice Urbani, è illogico pensare che la situazione sia irre versibile. Soprattutto se - proseguono i professori - quell'area destina ta al pubblico viene consegnata ad un uso totalmente privato. «Questo va contro l'obiettivo fondamentale: l'unità ambientale Tuvixeddu - Tuvumannu - Is Mirrionis rimanga oritorni a essere patrimonio della collettività». La Commissione nell'aver riconosciuto l'unità di notevole interesse pubblico, ha bene interpretato il senso del codice Urbani. Su questa base sostengono che da una parte l' imposizione di quel vincolo fosse legittima econtemporaneamente che i privati che su quell'area hanno avviato legittimamente dei lavori possano aver diritto ad un risarcim ento. «La sentenza pecca di lungimiranza, perchè si limita a ribadire la legittimità di quanto programmato e intrapreso prima della modifi ca, viceversa recepita e fatta propria dalla Commissione».

Il sempre più folto «partito» degli anti-Civis ora è nelle mani della Soprintendenza. A non nascondere alcune perplessità attorno al progetto del filobus a guida ottica è il neo-direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici, Luciano Marchetti. Perplessità che affondano tra gli articoli del Codice dei Beni Culturali in vigore dal 2004. Esattamente come sostenuto ieri sul Corriere dall'architetto Pier Luigi Cervellati: «Il codice legislativo — ha scritto — prescrive la tutela dei centri storici, non solo dei monumenti, ma anche delle sue strade». Colare l'asfalto in vie medievali come Strada Maggiore e Rizzoli, caratterizzate ancora oggi dalla tradizionale pavimentazione in pietra, al fine di consentire il passaggio del Civis, potrebbe essere valutato come un intervento contrario al concetto di «tutela» espresso dalla legge.

«Con quali argomenti la Soprintendenza non ha applicato il Codice?», la domanda posta da Cervellati. «Le vie e le piazze vanno salvaguardate come le chiese e i monumenti — concorda Marchetti — A questo punto, è necessario capire se il Civis sia compatibile o meno con la tutela di questi luoghi». Il nuovo direttore regionale per i beni culturali si è insediato solo a gennaio e ancora non ha avuto modo di approfondire i dettagli del progetto. Ne discuterà presto con l'assessore alla Mobilità, Maurizio Zamboni, e con la Soprintendente, Sabina Ferrari. In programma, un appuntamento tra una decina di giorni. «Il Codice vieta gli interventi dannosi — spiega l'ingegner Marchetti — In generale, ho perplessità sullo stravolgimento del centro storico, anche se ritengo opportuno farlo vivere e non trasformarlo in un museo. Il giudice ultimo è comunque la Soprintendenza. Su questo progetto in particolare, vedremo di trovare la soluzione migliore».

Al momento, al Comune e ad Atc è stata data indicazione di realizzare una pavimentazione mista nelle strade medievali del centro interessate dal tracciato: asfalto rosso lungo la guida del Civis, basoli ai lati. «È un'ipotesi possibile. L'altra è cercare di mantenere i basoli anche là dove passa il mezzo», sostiene il direttore regionale. E sulla scelta di far attraversare al filobus a guida ottica il cuore della città, alza i toni: «Avrei preferito mezzi più piccoli. Verificheremo. Potremmo anche decidere di non farlo passare attraverso le strade più strette». Tra le fila degli anti- Civis, spunta anche il critico d'arte e assessore milanese alla cultura, Vittorio Sgarbi: «Sono perfettamente d'accordo con Cervellati — osserva — Opere come il Civis vanno fermate. Altrimenti perché si fanno le leggi? Il potere competente in questa materia è la Soprintendenza, che non deve arrivare a mediazioni con l'amministrazione comunale. Il centro storico di Bologna è un luogo nobile che non va sfregiato. Sarebbe come decidere di asfaltare il Canal Grande, solo perché così attraversarlo sarebbe più comodo».

A difesa dell'autenticità della pavimentazione del centro storico anche Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza: «Dal punto di vista estetico, sarebbe davvero un pugno in un occhio — commenta — E pensare che Bologna è forse una delle città finora meglio conservate del Paese. Purtroppo, a volte, le Soprintendenze esprimono pareri positivi su opere davvero discutibili. Sarebbe giusto sottoporre la questione ai cittadini con un referendum, come a Firenze e come si farà a Torino per il Grattacielo di Renzo Piano. I bolognesi devono poter esprimere le loro volontà su un progetto che potrebbe modificare tanto la città». Referendum che, tra gli altri, non disdegnano neppure i Verdi: «La consultazione popolare sul Civis è condivisibile », afferma Daniela Guerra, capogruppo dei Verdi in Regione, che si rendono disponibili alla raccolta delle firme necessarie. «Un referendum che sarebbe opportuno allargare al quadro generale della mobilità cittadina, metrò e people mover inclusi».

la Repubblica

Un duro conflitto appena cominciato

di Paolo Hutter

«La nuova legge permette di operare per una Lombardia ancora più bella». La dichiarazione è del presidente della commissione Territorio, il forzista Marcello Raimondi. È da incorniciare quell’"ancora".

È segno di orgoglio lombardo, anzi di sguardo velato da compiacimento verso la megalopoli di villette e capannoni che è colata da tutte le parti negli ultimi decenni. Bisognerebbe invertire la rotta, non andare "ancòra" avanti nella direzione del cemento, delle ruspe e del mattone. E invece la legge contiene proprio quell’emendamento che gli ambientalisti uniti hanno cercato di respingere e hanno battezzato "ammazzaparchi". Si tratta di una questione che al momento, si presenta solo come attribuzione di potere, ma dietro la quale si agitano le pressioni a edificare, soprattutto nel Parco Sud Milano. Finora un Ente Parco, che poi è composto dai Comuni, non da marziani verdi, poteva bloccare, a maggioranza, giudicandole incongrue col parco, delle iniziative edilizie in un singolo comune. Con il testo della nuova legge, la giunta regionale si attribuisce un potere a senso unico. Le associazioni ambientaliste sono state audite, ma il loro parere è stato scavalcato. Tutte le forze di centrosinistra si oppongono, in questo caso unite. Forse il conflitto sta solo cominciando. Il tema del consumo del suolo sta diventando sempre più caldo in Europa e in particolare nella densa Italia, e lo sta diventando per ragioni sia climatiche che energetiche che paesaggistiche. È vero che a livello locale ci possono essere esigenze diverse difficili da comporre ma in termini generali l’opinione pubblica si sta spostando verso la salvaguardia, anzi la ri-estensione delle aree verdi e agricole. Chissà se qualcuno ne terrà conto, anche nella campagna elettorale che si sta aprendo.

la Repubblica

L’affare mattone nella zona sud

di Stefano Rossi

Con l’emendamento Boni approvato in Regione vengono resi edificabili 38 milioni di metri quadrati di Parco Sud entro i confini di Milano, 38 chilometri quadrati su un totale di 182. Oltre un quinto del territorio cittadino.

Non si vuole dire che su questa enorme serie di aree a ferro di cavallo, da sud-ovest a sud-est, da domani si vedranno ruspe e cantieri. È vero però che «d’ora in poi il sindaco, non la giunta o il consiglio comunale - dicono i verdi Carlo Monguzzi e Paolo Lozza - potrà di sua iniziativa proporre al parco di trasformare tutte le aree che ricadono nei suoi confini amministrativi. Fino a ieri il parco diceva di no. Domani deciderà la Regione». E ci sono circa 60 Comuni nel perimetro del parco Sud, 400 dentro i parchi dell’intera Lombardia.

A metà marzo la Provincia esaminerà le richieste di modifica dei confini del parco Sud da parte dei Comuni inclusi. Le motivazioni sono le più svariate, dalla correzione di errori cartografici alla richiesta di sviluppo urbano e industriale. Se venissero accolte tutte le istanze, il consumo del territorio, vale a dire la parte "popolata" del suolo (case, uffici, strade, parcheggi), aumenterebbe di 8 punti percentuali. Arriverebbe al 42 per cento del totale contro il 34 attuale, che peraltro è un dato medio. E a contenere la media finale, il parco Sud contribuisce in modo significativo, con un 19 per cento di consumo del territorio.

Si diceva che il Comune non edificherà su tutte le aree «liberate» dall’emendamento Boni. Anzi, l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, si difende: «Non abbiamo megaprogetti nel cassetto, non siamo cementificatori». Il Comune vuole assegnare a ogni area vincolata a uso agricolo un indice di edificabilità, che sarà aggiunto ai diritti di costruzione dello stesso proprietario su altri terreni. Per i grandi immobiliaristi come Ligresti, Cabassi, Zunino, si aprono prospettive interessanti di utilizzo, sia pure indiretto, di terreni improduttivi, finalmente in grado di generare altrove cubature di costruito. Per Masseroli il bilancio rimarrà in equilibrio grazie al fatto che le aree agricole protette, spogliate dei loro diritti edificatori, passeranno in proprietà al Comune con destinazione a parco. Mentre ora, così come sono, rimangono abbandonate: «I contenziosi generano paralisi e degrado delle aree protette, dunque la norma regionale è corretta. Con la Provincia (guidata dal centrosinistra, ndr) stiamo facendo un ottimo lavoro per rendere fruibili grandi pezzi di parco dentro la città».

Andrà così? Non moltissimi anni fa il parco delle Groane, visto dall’alto, si confondeva con il tessuto agricolo circostante. Oggi è ben individuabile, delimitato dall’urbanizzazione. «Il Comune di Senago da tempo vuole costruire dentro le Groane un grosso insediamento residenziale, il quartiere Mascagni - racconta Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - e sarebbe un bel morso alle zone protette. C’è un’aspettativa enorme di edificazione sui parchi, che finora hanno resistito alla ondata immobiliare più potente del Nord Italia».

Ora l’argine scompare. Un altro esempio? La futura cittadella dell’ingrosso cinese al Gratosoglio. È prevista su un’area industriale, ma dove sono gli spazi per allargare le strade e accogliere il maggior flusso di camion? Su aree di Ligresti, nel parco Sud. Il Comune ha un interesse forte e giustificato e la Regione difficilmente dirà di no, quand’anche il Parco si opponesse. Maria Grazia Fabrizio, consigliera regionale del Pd, ha chiesto «cosa potrebbe succedere al parco di Trenno o all’ippodromo di San Siro, che sono nel parco Sud? Chi garantisce contro l’idea, molto redditizia, di farci delle belle villette?». Marco Cipriano di Sd si augura che in aula «la maggioranza si divida. L’emendamento è presentato dall’assessore leghista Boni, però Boni non è tutta la Lega. Ad altri nel partito potrebbe non piacere». Ma gli ambientalisti non ci sperano troppo: «Come tanti anni fa, il vero sindaco di Milano è Ligresti».

la Repubblica

Allarme cemento nei parchi

di Andrea Montanari

Nuovi edifici nei parchi lombardi, tutto il potere al Pirellone. Tra le proteste dell’opposizione di centrosinistra, Fai, Italia nostra, Legambiente e Federparchi, la commissione regionale Territorio ha approvato l’emendamento dell’assessore leghista Davide Boni dà il potere alla Regione di decidere sulle controversie tra comuni e le amministrazioni dei parchi sulle nuove costruzioni nella aree protette. Ora la battaglia si trasferisce in consiglio regionale. Per il Pd e la Sinistra «sarà la cementificazione dei parchi». Ribatte il Pirellone: «Non è vero, così finalmente si potrà decidere».

Il via libera della commissione regionale Territorio all’emendamento dell’assessore lombardo all’Urbanistica Davide Boni, della Lega, che attribuisce solo alla Regione l’ultima parola sull’edificazione anche nei parchi e nelle aree verdi, è arrivato ieri. Ed è giunto nonostante il parere negativo ribadito sempre ieri a chiare lettere, durante la loro audizione, da Fai, Wwf, Italia Nostra, Legambiente, rappresentati da Costanza Pratesi, e Federparchi presente con il suo presidente Agostino Agostinelli. La modifica della legge urbanistica, che da ora in poi assegnerà solo al Pirellone e non più ai comuni ogni decisione, e toglierà ai responsabili dei parchi il potere di veto, è stata approvata dal voto compatto di tutta la maggioranza di centrodestra, che nel frattempo ha approvato tutta la legge 12: un "sì" a poche settimane dal varo della giunta del nuovo piano regionale del territorio, destinato a cambiare il volto e soprattutto il paesaggio della Lombardia nei prossimi anni. Ora la battaglia per l’approvazione definitiva si sposterà in aula, a partire dal 4 marzo.

Nella nuova legge, fortemente voluta dal Carroccio, sono comprese, tra l’altro, nuove norme restrittive sulla realizzazione in Lombardia di nuove moschee e l’insediamento di campi rom solo con il consenso di tutti i comuni limitrofi, e quelle più permissive che, ad esempio, consentiranno di costruire anche nelle "aree standard" come nel caso ormai noto della Cascinazza, a ridosso del parco di Monza. Per l’assessore provinciale al Territorio Pietro Mezzi, dei Verdi, è a rischio l’integrità delle zone protette. «Quello che lo scorso novembre era stato impedito da una vasta mobilitazione - denuncia - si è purtroppo verificato. Con l’approvazione dell’emendamento Boni, anche in presenza di un "no" dei parchi a progetti comunali di insediamento, un parere della Regione potrà consentire comunque l’intervento». Pronta la replica dell’assessore regionale all’Urbanistica Davide Boni, che spiega: «Sono tranquillo come lo ero due mesi fa. Perché questa norma non dà alcuna possibilità a nessuno di edificare dove non si può. Io sono per salvaguardare l’ambiente il più possibile, ma non per salvaguardare i 1900 euro al mese che guadagna ogni presidente di parco. Dopo il via libera della giunta al nuovo piano regionale del territorio è arrivato il momento di decidere». Dello stesso avviso il presidente della commissione Territorio del Pirellone, Marcello Raimondi di Forza Italia: «Le nuove norme tutelano il territorio e i cittadini. Si prospetta così il disegno di una Lombardia ancora più bella. Con questa legge, ad esempio, tutte le strade e le infrastrutture di mobilità dovranno prevedere adeguate opere di mitigazione ambientale». «Finalmente», esulta anche il capogruppo di An in Regione, Roberto Alboni.

Di parere diametralmente opposto tutto il centrosinistra. «La maggioranza è stata sorda al richiamo del buon senso» attacca Franco Mirabelli del Pd. «La Cdl ha fatto carta straccia degli emendamenti dell’opposizione, che comunque si è duramente opposta all’emendamento ammazzaparchi, e dei pareri contrari di urbanisti e associazioni ambientaliste - aggiunge Luciano Muhlbauer di Rifondazione comunista - si tratta di un provvedimento inaccettabile».

Corriere della Sera

Parchi, nuove norme al via Fronte verde contro la Regione

di Laura Guardini

«Sì» della commissione Territorio del Consiglio regionale della Lombardia alle modifiche alla legge urbanistica

MILANO — Da una parte la Regione: «Le nuove norme urbanistiche tutelano territorio e cittadini. E permettono di lavorare per una Lombardia più bella » assicura Marcello Raimondi, presidente della commissione Territorio che ieri ha votato le modifiche alle legge del 2005. Dall'altra ambientalisti e gestori delle aree protette, che hanno battezzato appunto «ammazzaparchi » il nuovo assetto legislativo. In commissione, ieri, sono stati ascoltati. Ma poi, come si aspettavano, l'emendamento 13 bis è passato: la norma contesa, intorno alla quale le polemiche si susseguono da mesi.

Il meccanismo: la legge regionale del novembre 1983, oltre a istituire parchi e aree protette e a classificarli a seconda delle caratteristiche, affidava sostanzialmente ai parchi stessi — formati dai Comuni interessati — la pianificazione territoriale. Una delle modifiche alla legge urbanistica — predisposte dall'assessorato al Territorio guidato dal leghista Davide Boni, mentre l'assessore alla Qualità dell'Ambiente Marco Pagnoncelli, Forza Italia, prepara la revisione alla legge sui parchi che andrà in commissione a partire dal 29 febbraio — prevede ora che i Comuni possano chiedere varianti al piano territoriale del parco. E se il parco stesso dice no, la richiesta può essere sottoposta alla giunta regionale. «La Regione sarà garante di ciò che avviene nei parchi, non vedo perché questo debba essere preso come un via libera alla cementificazione », ha detto e ripetuto l'assessore Boni.

Ma, nel preannunciare ancora battaglia quando, il 4 marzo, la legge urbanistica andrà in consiglio regionale, verdi e Federparchi rincarano la dose. «Provvedimento inaccettabile, che può segnare la fine dei parchi lombardi — dicono i consiglieri Carlo Monguzzi (Verdi), Marco Cipriano (Sd) e Luciano Muhlbauer (Prc). E ricordano che, nel Parco Agricolo Sud — quello sul quale sembrano soprattutto incombere voglie di edificazione — il Comune di Milano ha 38 chilometri quadrati di verde: la superficie totale del territorio municipale è di 182 chilometri quadrati. «Ma a preoccuparci non è tanto una criticità localizzata quanto la voragine che si sta per aprire: l'ordine gerarchico degli strumenti urbanistici viene stravolto », dice Attilio Dadda, presidente di Federparchi Lombardia.

E aggiunge: «Con queste regole qualsiasi Comune può mettere davanti i propri interessi di campanile. Così si cancella la legge del 1983, innovativa, moderna, che metteva davanti l'interesse collettivo». Che è «tutela del paesaggio, ma anche della salute»: Dadda ricorda lo studio dell'Istituto dei tumori che, a causa dell'inquinamento atmosferico, ha stimato che gli abitanti della Pianura Padana vivano 36 mesi meno degli altri italiani.

«La legge è rispettosa dei parchi — ribatte Marcello Raimondi. — . Per evitare dissidi inconcludenti abbiamo previsto una novità importante costituita dal ruolo di arbitrato assegnato alla Regione per risolvere conflitti tra ente parco e singoli Comuni».

«L'avevo definito emendamento vergogna e confermo questo giudizio», replica da Palazzo Isimbardi Pietro Mezzi, assessore al Territorio della Provincia di Milano. «Alla Regione viene assegnato un potere sostitutivo decisionale», protesta per il Pd Maria Grazia Fabrizio e Franco Mirabelli aggiunge che il centrodestra «è stato sordo al richiamo del buonsenso », mentre dal Wwf la segretaria lombarda Paola Brambilla parla di «ritorno del furore cementificatore». Con Fai, Italia Nostra e Legambiente, il Wwf ha promesso di «portare all'attenzione del Bureau International des Expositions quello che sta succedendo, perché in netto contrasto con le linee di sostenibilità ambientale espresse dalla candidatura di Milano per l'Expo 2015 e supportate dalla Regione».

Nota: L'emendamento andrà adesso in Consiglio, dove passerà lo stesso. Si può comunque aderire ancora alla campagna contro l'emendamento al sito http://www.piccolaterra.it a sostenere il lavoro dell'opposizione istituzionale e stimolare una crescita e visibilità del movimento di opinione civile (parola assai adeguata, di fronte a certe scimmie nude elette e non)

L´assessore all´urbanistica Virginio Merola parla per la prima volta di «ecomostri»: «Il Piano Regolatore dimostra il fallimento della pianificazione basata su vincoli ed espropri». Merola, alla viglia dell´approvazione del Piano Strutturale Comunale (prevista per settembre), risponde all´inchiesta di Repubblica e si interroga sui risultati del Prg dell´85. «C´è stata una rinuncia alla pianificazione urbanistica intesa come visione coerente del territorio. Decisioni prese per caso, edifici isolati e fuori dal contesto». Una urbanizzazione «a macchia di leopardo» troppo spesso incentrata sulla cementificazione. «Oggi dobbiamo cercare una terza via».

«Il Piano regolatore del 1985 è la dimostrazione del fallimento della pianificazione urbanistica basata sui vincoli e sulle espropriazioni. Oggi gli espropri si fanno a valore di mercato, il Comune non se le può permettere e quindi quelle previsioni sono saltate. Da questo però si è passati a uno sviluppo a macchia di leopardo, basato sulla cementificazione».

Virginio Merola è alla vigilia dell´approvazione del nuovo Piano strutturale comunale, al voto in Consiglio comunale in settembre, che disegna la città nei prossimi 15 anni. Eredita una città che sull´urbanistica ha fatto scuola ma che oggi si interroga sui risultati perlomeno sconcertanti di quella pianificazione.

L´assessore all´urbanistica si trova così, mentre sta per inaugurare la piazza intitolata al «Liber Paradisus» nella nuova sede del Comune, a tracciare un bilancio di due «fallimenti», in cerca di una terza via per lo sviluppo della città.

Assessore Merola, gli urbanisti illustri che hanno firmato il Prg del 1985 prendono oggi le distanze almeno da alcune zone disegnate da quel piano. Gli architetti indicano nell´edilizia contrattata del Pru 2003 il grosso difetto di una città che cresce disordinatamente nel cemento. Lei cosa ne pensa?

«Alcuni esempi riportati da Repubblica, i così detti "ecomostri", sono un caso evidente di incapacità di ascolto e di attenta decisione politica. C´è stata una rinuncia alla pianificazione urbanistica intesa come visione coerente del territorio, che ha portato all´urbanistica contrattata degli ultimi anni. Decisioni prese caso per caso, edifici isolati e fuori dal contesto. Dalla aspirazioni del Prg si è passati alla «macchia di leopardo», con un uso della densità edilizia mirato alla quantità, alla fattibilità economica degli interventi in cambio di oneri e servizi pubblici e di alloggi convenzionati».

Può fare qualche esempio?

«L´urbanistica contrattata comporta che si ottengono usi pubblici con il meccanismo dell´aumento degli indici. Per costruire di più, si offrono in cambio servizi. Il Prg dal canto suo è la dimostrazione del fallimento della pianificazione dei vincoli, a un certo punto l´amministrazione pubblica non si è più potuta permettere di espropriare e quindi non è stato concretamente possibile realizzare le previsioni del 1985. Oggi dobbiamo cercare una terza via».

Qual è la sua ricetta?

«Un piano strutturale per fissare gli indirizzi, un piano operativo che stabilisce l´attuazione. Agli espropri si sostituisce la perequazione urbanistica: ogni privato avrà un indice alla pari con gli altri, ma è il piano che stabilisce dove si concentrano gli indici. I diritti edificatori valgono cinque anni, se non attuati si perdono e non alimentano la rendita fondiaria».

Anche lei è del parere che il Prg abbia fallito lo scopo di frenare le rendite? Il suo Psc ci riuscirà?

«Il Prg non ci è riuscito, l´urbanistica diventa impotente se le si attribuiscono temi che non le competono. Il Psc non ci riuscirà, ma non se lo pone come obbiettivo. Bisogna prendere atto che non si freneranno le rendite senza un piano nazionale sulla casa. Per quanto riguarda l´espansione, io credo che di cemento ne abbiamo anche troppo, adesso è il momento di riqualificare le aree urbane, in quelle abbandonate c´è il costante rischio, secondo i presidenti di quartiere, di veder "spuntare" un ecomostro».

Secondo lei quali sono le caratteristiche degli ecomostri,?

«L´ecomostro è un edificio che nasce fuori dai riferimenti del territorio, senza sforzi di ricerca e progetto. Sul singolo gesto architettonico, invece, bisogna lasciare la massima libertà, osare l´architettura contemporanea in una città un po´ "allergica". Ad esempio la nuova sede del Comune progettata dall´architetto Mario Cucinella è un oggetto urbano interessante».

Le piace la nuova sede dei servizi del Comune?

«Sì, valorizzerà il quartiere della Bolognina, e creerà una nuova piazza urbana. Piazza che abbiamo deciso di intitolare al "Liber Paradisus", che contiene uno dei primi atti al mondo ad abolire la schiavitù, emesso proprio a Bologna 750 anni fa».

Parlando di qualità, come si può assicurare ai nuovi edifici che sorgeranno?

«Nel nuovo Psc i concorsi di architettura sono obbligatori, un´architettura contemporanea illustrata nei laboratori di urbanistica ma che non dovrà mai essere sottoposta a referendum, perché per immaginare la città del futuro ci vuole coraggio».

Forse lo «shock» prodotto dalle espressioni più recenti di architettura è anche dovuto a un difetto di comunicazione. I cittadini vedono sorgere in pochi mesi palazzi enormi, magari previsti in un piano di 20 anni fa di cui hanno perso memoria. Non c´è un difetto di democrazia?

«Ci sono delle trasformazioni che richiedono tempi lunghi, è normale che i cittadini poi si dimentichino i dettagli di un progetto presentato anni prima. La risposta non può che essere quella di usare i cantieri come centri di comunicazione, cioè aprirli e renderli più leggibili ai cittadini con grafici, dati, disegni della costruzione che sta sorgendo».

Le famose «gocce» sarebbero dovute servire a questo scopo: un Urban center per mostrare i progetti per la città. Pensa di chiudere quell´esperienza?

«L´Urban center verrà spostato in Sala Borsa e il contenitore, lo spazio sotterraneo cui si accedeva tramite le Gocce, tornerà a disposizione del settore cultura. Anche se si tratta di uno spazio molto difficile da usare, perché non ci si può restare per più di 4 ore di seguito. Noi puntiamo sulla partecipazione dei laboratori di urbanistica e su internet, oltre al piano di comunicazione che abbiamo elaborato con la facoltà di Scienze della Comunicazione».

Lei ha citato il modello delle torri come riferimento per lo sviluppo della zona Fiera. I grattacieli saranno quindi la cifra della città del futuro?

«Le torri oggi possono essere tipologie edilizie innovative, con un recupero di terreno permeabile e di spazio pubblico. Il grattacielo è un´immagine un po´ fuorviante, fa pensare a alla densità urbana delle metropoli, Bologna è una città media che vuole rimanere tale. Di sicuro escluderei per il futuro le «villettopoli», casette a schiera che abbondano in provincia, uno spreco energetico e di territorio».

Ivan Berni, Quanti dubbi sull’Happy End, la Repubblica, 20 febbraio 2008

Soluzione trovata e tutti contenti. Basterà avere soltanto un po’ di pazienza: entro 30 mesi i grossisti cinesi si trasferiranno al Gratosoglio, e i residenti della zona Paolo Sarpi ritroveranno la tranquillità e la vivibilità perduta del loro quartiere. Naturalmente c’è da augurarsi che davvero vada a finire così, tuttavia sull’happy end di questa vicenda pesa un interrogativo grande perlomeno come Chinatown, forse più: che ruolo ha avuto il Comune di Milano? E soprattutto, che ruolo avrà quando dall’intesa sulla carta si passerà ai fatti? L’impressione ricavata ieri è che Palazzo Marino sia soltanto il notaio di una scelta operata esclusivamente da privati e benedetta, assai impropriamente, dal console della Repubblica popolare cinese Limin Zhang. Privato è, infatti, l’importatore Luigi Sun che capeggia la cordata che darà vita al nuovo centro. Privato è l’imprenditore italiano Piero Moccarelli che venderà alcune sue aree al Gratosoglio. Privato è, infine, il "mediatore" Angelo Ou, indicato come rappresentante della comunità cinese. Insomma, se la mina Chinatown verrà disinnescata, lo si dovrà alla lodevole iniziativa di un gruppo di persone che sono riuscite a coniugare i loro affari con l’interesse generale della città. Tutto bene, salvo i problemi che d’ora in poi si apriranno e che chiamano in causa, fin da adesso, Palazzo Marino. Per esempio si apprende che dall’operazione il Comune dovrebbe incassare 20 milioni di oneri di urbanizzazione. Cosa intende farne?

La domanda non è per nulla peregrina. Chi ha dato un’occhiata all’area del Gratosoglio ha notato che la viabilità è del tutto insufficiente per sostenere il traffico generato da 400 grossisti. Però nessuno, finora, ha parlato di potenziamento delle strade d’accesso e di infrastrutture dedicate. Ancora: Gratosoglio è noto come una periferia "enclave" nella città, attraversata da tensioni sociali e soggetta a un controllo del territorio da parte della criminalità. L’arrivo dei grossisti cinesi potrebbe generare altre tensioni o aggravare quelle esistenti. Non è detto e nessuno se lo augura, ma per evitarlo è necessario, come minimo, un forte coinvolgimento delle associazioni, del consiglio di zona, del tessuto civile, informando, spiegando e, se caso, modificando il progetto. Cosa che nessuno ha fatto e nemmeno ha annunciato di voler fare.

Infine, chi può assicurare che le cose vadano davvero come promette l’intesa di ieri? I privati coinvolti rispondono dei propri comportamenti e dei propri interessi e non di quelli delle centinaia di grossisti cinesi attivi in zona Sarpi. Che potrebbero aderire formalmente al progetto ma poi, fra due anni, restare dove sono. Come loro permette la legge. Si dirà: c’è la parola del console. Ma che c’entra il rappresentante diplomatico di Pechino con una questione di quartiere, di rispetto del codice della strada e delle regole base di convivenza civile? Nulla naturalmente. Altra storia sarebbe stata se il Comune avesse trattato con rappresentanti eletti della comunità, portatori di un mandato di rappresentanza che avrebbe riassunto diritti e doveri dei cittadini cinesi a Milano. Diritti e doveri esigibili. Ma questo della democrazia è un tasto che non piace al console. E nemmeno alla giunta di Palazzo Marino, se si parla di immigrati.

Stefano Rossi, Hotel, 400 negozi e un museo così sarà la nuova Chinatown, la Repubblica, 20 febbraio 2008

Edifici a due-tre piani con spazi commerciali ed espositivi su 43mila metri quadrati, per 5-600 attività commerciali, collegati fra loro da passerelle aeree, dotati di interni con box vetrati e soppalchi, uffici e servizi (3mila metri quadrati), parcheggi (20mila). E ancora la torre di un albergo (6mila), un residence (4mila), aree verdi. Un museo della Cina e iniziative culturali. Ecco l’Asia trading Milan center destinato a sorgere fra due anni e mezzo al Gratosoglio, fra via dei Missaglia e via Selvanesco, sul sito della demolita Cartiera di Verona e alle spalle del Car world center dell’imprenditore Piero Mocarelli. Questi è in parola per vendere - l’affare non è ancora concluso - un’area di 53.000 metri quadrati a un gruppo di otto grossisti cinesi guidati dai principali rappresentanti della comunità, i sino-italiani Angelo Ou e Luigi Sun, importatori di alimentari. La lunghissima querelle fra italiani e cinesi di via Paolo Sarpi va dunque verso una soluzione, con un accordo fra privati favorito dal console Zhang Limin e dal Comune. Come ha detto ieri nel presentarlo l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, «si avvia un percorso importante, che è anche un segno forte di integrazione».

La strategia cinese del sorriso d’acciaio si è rivelata vincente. Come i proverbi distillati da una cultura millenaria. Prima si è cercato di far capire al Comune che la vis punitiva, dopo la rivolta della comunità in strada, non avrebbe portato lontano: «L’uomo virtuoso è incline agli accordi, quello vizioso vuole un colpevole». Poi che l’ipotesi Arese non era praticabile, e pazienza se a Palazzo Marino si arrabbiavano: «Due persone che diventano amiche facilmente non lo restano per tutta la vita». Però un buon compromesso le farà felici entrambe. Soprattutto ricordando che «chi ha una solida presa non lascia facilmente ciò che possiede».

Ecco, soprattutto questo. I cinesi sono proprietari di negozi comperati a caro prezzo e, come ha detto ieri il console, «non esiste una legge italiana che vieti il commercio all’ingrosso». E poi ha coniato un proverbio di suo: «Il problema che non è stato creato in un giorno non può essere risolto in una notte». Ancora più chiaro, Angelo Ou: «I cinesi possono restare finché gli pare». Morale: il Comune non può fare la voce grossa, perché in ogni momento i cinesi possono dire xie xie e zhai jian, grazie e arrivederci. E mandare tutto a monte.

Ci vorranno, si diceva, due anni e mezzo. Nel frattempo sarà fatto, a un chilometro di distanza, il nuovo svincolo della Tangenziale Ovest. C’è il tram (il 15), la metropolitana (stazione Abbiategrasso della linea verde), la Milano-Genova a poca distanza. Però andranno allargate le strade e Gratosoglio già protesta per l’aumento del traffico e l’erosione delle aree circostanti, di proprietà di Ligresti e dentro il parco Sud. Per gli oneri di urbanizzazione si stima, al momento, una spesa di 20 milioni.

Forse ci saranno sgravi fiscali per chi trasloca (ma Masseroli non ha preso impegni), altri incentivi potrebbero giungere dalla comunità. Ieri sera i cinesi si sono riuniti per discutere. L’ipotesi Gratosoglio non è l’unica, ve ne sono altre, anche più veloci, come capannoni già pronti tra l’Ortica e Linate. E trattative sull’area del Girasole a Lacchiarella e l’ex Motta a Cornaredo. Fra i grossisti c’è chi tentenna, specialmente se ha comperato in Paolo Sarpi da poco e sta pagando i debiti. Luigi Sun si augura che «giunga un aiuto dalle istituzioni, il percorso non è facile». Angelo Ou, invece, già progetta di proporre a Mocarelli, dopo cinque anni dallo start up, la cessione di un altro pezzo dell’area «per un ulteriore sviluppo». E propone agli interessati di entrare con una quota nella costituenda società che farà il business, offerto per ora a banche e società di export della madrepatria. Sui cinesi si può contare, è il messaggio. E non sarà un Biscione a mangiarsi il Dragone.

Stefano Rossi, Franco Vanni, Cinesi in assemblea "Niente Ztl in Sarpi o la trattativa salta"

Applausi tiepidi, sì con riserva a discutere del trasloco a Gratosoglio, no deciso alla Ztl in Paolo Sarpi «o la trattativa salta». Duecento grossisti cinesi si sono riuniti ieri sera nel teatro dell’oratorio di via Verga per ascoltare la proposta di trasferimento dal rappresentante della comunità, Angelo Ou. «La zona a traffico limitato ci taglierebbe le gambe - ha detto Ou - Dobbiamo dare tutto il nostro aiuto a chi all’interno dell’amministrazione comunale non vuole applicare la Ztl. Se la nostra mobilità verrà limitata la trattativa salterà. Ma dobbiamo anche impegnarci a rispettare le regole. Una volta ultimato il trasloco il quartiere Sarpi diventerà come tutte le Chinatown del resto del mondo, vivibile, con negozi e ristoranti».

Pierfranco Lionetto, il presidente di ViviSarpi, l’associazione di residenti che ha chiesto lo spostamento «delle attività all’ingrosso, e non dei cinesi», mantiene molte perplessità. E le manifesta all’assessore Masseroli: «Quali garanzie ci sono - chiede Lionetto - che l’operazione andrà a buon fine? Abbiamo visto insediarsi nuove attività il mese scorso, e ancora questo mese, mentre le trattative per l’area di via dei Missaglia erano in corso. Il console ci invita ad avere pazienza. Noi siamo pazienti dal 1999, coscienti del fatto che non si trasloca dall’oggi al domani. È bene che sia stata fissata una data ma nel frattempo non stiamo fermi, procediamo con la Ztl».

«Sulla Ztl deve votare il consiglio comunale», risponde Masseroli. Il 28 febbraio è in calendario la discussione in aula di una mozione bipartisan Lega-Pd che chiede di istituirla, come d’altronde previsto da una delibera di giunta già approvata. «Si deve fare», taglia corto il leghista Matteo Salvini. «È inimmaginabile lasciare l’area Sarpi-Canonica nelle condizioni attuali», aggiungono per il Pd Pierfrancesco Majorino e Aldo Ugliano. Il Pd sollecita il Comune a tutelare il Gratosoglio dall’impatto del nuovo insediamento, richiesta condivisa da Carlo Fidanza e Marco Osnato di An: «Il Gratosoglio non va abbandonato, serve un presidio della polizia locale. E la Ztl in via Paolo Sarpi si faccia non presto, ma prestissimo». Angelo Ou ricorda che la Ztl, e la successiva completa pedonalizzazione, non sono all’ordine del giorno: «Di questo si occupa il vicesindaco. Lui ci ha sempre assicurato che non ci sarebbe stata Ztl prima del trasferimento. Anche altri commercianti italiani sono contrari alla pedonalizzazione. Non credo che il Comune voglia far vacillare il progetto che abbiamo messo in cantiere». A rappresentare i commercianti dissidenti è Franco Marini, presidente della Ales, Associazione liberi esercenti Sarpi: «La Ztl sarebbe deleteria mentre finalmente si vede una iniziativa seria, che necessita di tempi adeguati». Si ripropone la spaccatura fra italiani, residenti e negozianti. Questi ultimi, in maggioranza, prima della Ztl vogliono i parcheggi promessi da tempo dal Comune.

Paolo Berizzi, Gratosoglio è sul piede di guerra "Non siamo la pattumiera di Milano", la Repubblica, 20 febbraio 2008

Sarà la paura del nuovo. Sarà il riflesso condizionato prodotto dai grandi numeri (i grossisti cinesi sono 350). Sarà l’ansia di non sapere ancora quando e come. E forse anche il gazebo della Lega montato per l’occasione... Ma il Gratosoglio è inquieto. Sta di fatto che al Gratosoglio dicono che «stiamo diventando una Napoli 2», il riferimento alla monnezza è puramente voluto.

Dicono che «va bene tutto, però adesso anche i cinesi no, eh... «. La gente passa in bicicletta in via Selvanesco, pieno parco Sud. Adesso sembra poco più di un sentiero di campagna. Di spazzatura ce n’è, ma siamo lontani dai cumuli partenopei. Quando allargheranno la strada, perché la devono allargare, diventerà una specie di rampa d’accesso per centinaia di furgoni cinesi. «Chinatown? Forse pensano che siamo la terra di conquista di Milano. Zona Sud, avanti tutti», dice ironico Vincenzo Arnaud che abita in una delle torri di Ligresti dette anche i "grattacieli bianchi". Li mette in fila, Arnaud, gli ospiti indesiderati: in ordine sparso. I due depuratori. Il nuovo inceneritore che verrà. Il campo nomadi - che sta proprio su via Selvanesco. Il Sert di via Boifava, vicino all’Esselunga. La mitica "Casa gialla" di via Saponaro, che prima era una scuola e oggi è un dormitorio per i clochard un tempo ospitati dalla chiesa di San Francesco in via Moscova.

«Tutte cose nobili, per carità», ragiona Claudio Mozzana, consigliere di zona 5 per il Pd, «ma mi chiedo: perché tutte da noi? Ho l’impressione che i ricchi, i signori spostino qui tutto quello che dà fastidio a loro. Il mio partito porta avanti la politica dell’accoglienza e dell’integrazione. D’accordissimo. Da cittadino però dico che tra i doveri di un’amministrazione, forse, c’è anche quello di distribuire in modo ragionato e razionale sul territorio le cose "scomode"».

Pare di intuire che il battito cardiaco del Gratosoglio, quartiere già in sofferenza, sia un po’ accelerato. E il fiato s’accorcia. Il trasloco del commercio cinese fa paura: non perché arriverà un’orda di chissà quali criminali. Ma perché, è questo il timore principale, la zona potrebbe collassare. «Il problema più importante, al di là del fatto che la gente è già sotto pressione per altre scelte fatte dalle ultime amministrazioni, è la viabilità - spiega l’architetto Ettore Brusatori, consigliere di zona per la lista Fo - Dall’uscita della tangenziale a piazzale Abbiategrasso, in certi orari, ci sono code micidiali. Cosa succederà quando la babele commerciale cinese accenderà i suoi motori? L’assessore Masseroli ha parlato di effetti positivi per il quartiere. Di investimenti importanti. Per ora sono solo belle parole. Attendiamo verifiche».

L’area su cui sorgerà la nuova Chinatown insiste su un terreno di proprietà del titolare del Car world center, Piero Mocarelli. Forse l’unico, e si capisce, a parte gli abitanti italiani di Paolo Sarpi, a gioire per il Grande Esodo programmato per il 2010 massimo 2011. Laggiù, alle spalle dell’ex Cartiera di Verona, nella landa che collega via dei Missaglia a via Ripamonti, resistono qualche rottamaio e una mezza decina di vecchi capannoni industriali. Nella trincea disegnata da via Selvanesco ora ci sono gli abitanti del Gratosoglio. «Già me lo vedo cosa succederà - dice un ex consigliere di zona che chiede l’anonimato - I cinesi saranno il pretesto per cementificare a destra e a manca. Qui si pensa a costruire e basta. Come se la riqualificazione di una zona fosse legata al mattone. Politiche sociali qua non ne vedo. Dopo le otto di sera non si vede in giro un vigile né un poliziotto. Mi sta bene che si voglia sgravare Paolo Sarpi, ma non mi sta bene che il Gratosoglio diventi il confine del mondo che, per la sua collocazione geografica, deve sopportare di tutto».

La signora Mirella Montanari usa una metafora affilata: «Non ho niente contro i cinesi, ma, le dico la verità, mi sto preparando alla tortura della goccia cinese: ogni giorno una, finché sei sfiancato. Esagero? Stiamo a vedere, io spero di sbagliarmi, ma temo che ci avrò preso».

L’ultimo monito arriva da una chiesa. Quella della parrocchia di Madre Maria delle Grazie. Lui è don Eugenio Brambilla, uno di quei preti sociali da periferia difficile. «Spero che alla conferenza stampa di ieri segua una serie di incontri con i cittadini. Il Comune deve ascoltare le esigenze del quartiere, altrimenti si rischia che un’operazione complessa come questo trasloco porti altri problemi in un quartiere che complesso lo è già di suo».

postilla

Anche dalla descrizione sommaria del progetto, emerge evidente per chi ha seguito le vicende del Cerba più di una analogia: l’emergenza (qui urbana-ambientale-sociale, là di prestigio per l’Expo e l’immagine della città), la localizzazione nel medesimo settore urbano – in effetti basta fare in bicicletta l’ex via rurale Selvanesco per passare da una zona all’altra – a ridosso della Tangenziale e ai margini estremi dell’insediamento compatto, infine, ciliegina sulla torta, la collocazione nel Parco Sud e la proprietà di Salvatore Ligresti (che proprio da queste parti in via dei Missaglia col Piano Casa in epoca craxiana mise a segno uno dei suoi colpi grossi). Col polo dei grossisti si crea evidentemente un punto di pressione insediativa, che potrebbe definitivamente esplodere una volta eliminato l’ostacolo della pianificazione territoriale di area vasta, così come vuole il ripresentato “emendamento Boni”: se un comune ha contrasti con l’ente parco per problemi di “sviluppo del territorio” interviene la Regione con procedura abbreviata, e a favore del comune. Non ci vuole un immaginazione lisergica, per ipotizzare nuove “emergenze” commerciali, produttive, sociali come quelle che emergono già dalla proteste del quartiere Gratosoglio, ed ecco là all’orizzonte già pronto il nuovo svincolo della Tangenziale, per cui già sarà necessario intervenire su qualche porzione del Parco … Beh, il meccanismo è ovvio e collaudato. Noi possiamo solo chiedere di continuare a FIRMARE l’APPELLO contro il sabotaggio degli Enti Parco, che si discute proprio oggi (f.b.)

Si manifesta in bici a Quarto Oggiaro,Bovisa, Niguarda. Si fa unpresidio informativo a Crescenzago,nel quartiere Adriano. Con Legambientee Ciclobby, continua latrentennale lotta dei cittadini organizzatinel Coordinamento deiComitati contro la Gronda Nord.

Lo scorso 16 febbraio, giorno dedicato a “Mal’Aria”: all’indomani del tragico incidente stradale nel cuore di Milano. E nell’anniversario del protocollo di Kyoto. In un’Italia che non solo non lo rispetta, ma addirittura aumenta il suo trend di emissioni di polveri e veleni.

Con 670 automobili ogni 1.000 abitanti, il nostro paese è il secondo “regno dell’auto” al mondo, dopo gli Usa (800/1.000 ab.). Aumentano nelle nostre giungle d’asfalto urbane gli incidenti: 60 investiti dalle auto al giorno.

A Milano e nella sua area metropolitana e in Lombardia, tra le zone più intasate ed inquinate al mondo, diminuiscono i chilometri di ferrovie ed aumentano le autostrade.

Le teste dei politici e degli amministratori, di centro-destra e di centro-sinistra (poche le eccezioni), e la cultura dominante degli imprenditori e delle loro associazioni sono ossessivamente orientate a promuovere la politica stradista e cementificatrice. Che suolo e territorio non sono beni illimitati a nessuno importa? Così continuando si va verso il disastro ecologico economico civile.

La protesta in bici contiene una proposta positiva e un messaggio di civiltà: trasformare il tracciato di circa 12 km, previsto per l’autostrada urbana Gronda Nord, in un percorso verde e ciclopedonale e in un asse di trasporto pubblico su rotaia.

E’ arrivato il momento di finirla con una grottesca “storia infinita” cominciata negli anni trenta del secolo scorso all’interno del disegno del regime fascista di una “grande Milano” in espansione nel suo hinterland.

Per la prima volta nel 1953 e poi nel Piano Regolatore del 1980, si inserisce il progetto di una megainfrastruttura autostradale a sei corsie con viadotti tunnel e svincoli di collegamento tra il nodo di Gobba della tangenziale est e quello di Cascina Merlata della tangenziale ovest. Lo blocca nel 1985 la ribellione di massa dei cittadini, con 30.000 firme. Tuttavia si continua a cementificare nella fascia settentrionale infoltendo al massimo l’addensato urbano.

Con la Lega Nord a Palazzo Marino rispunta nel 1996 il vecchio progetto di Gronda. Lo si ridimensiona a quattro corsie, due per senso di marcia, ma sempre con un volume di traffico tra un minimo di 2.000 e un massimo di 5.000 auto all’ora. Si cambia nome, ma la sostanza rimane la stessa: non più Gronda Nord, che evoca la mega-autostrada, ma S.I.N. ovvero Strada Interquartiere Nord. Insistono le Giunte Albertini fino al 2006. Si spezzetta il percorso in tratti inferiori al chilometro per evitare la valutazione d’impatto ambientale. I Comitati presentano ricorsi giuridici. Il Tar dà ragione ai cittadini: il percorso autostradale, di scorrimento e non di quartiere, è unitario. Bisogna fare la V.I.A. Il Comune impugna la sentenza. Si va al Consiglio di Stato, che invia gli atti all’Unione Europea che mette in mora l’Italia. Si è oggi in attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia Europea.

Anche la Moratti insiste ed inserisce la Gronda Nord nel progetto di candidatura di Milano all’EXPO del 2015! E’ davvero ossessiva e quasi diabolica la pervicacia con cui le giunte di centro-destra ripropongono la Gronda, arrivando a sottrarre alla città - che fatica a respirare - lembi vitali di verde del Parco Nord per consentire di arrivare al pronto soccorso di Niguarda in autostrada! E non si fa una piega di fronte alla contraddizione tra qualche timidissima e limitatissima misura (come il cosiddetto ecopass) e la politica stradista!

Uno spiraglio si apre nel 2005: il Consiglio Provinciale di Milano approva il 20 ottobre un ordine del giorno contro la Gronda Nord, che non solo accoglie le istanze dei cittadini ma indica una politica della mobilità e dei trasporti diversa da quella dominante di tipo stradista e su gomma e prevalentemente privata. L’analisi coincide con quella dei Comitati: “Il sistema viario di Milano, caratterizzato da grandi assi che dividono il territorio a fette, è fondamentalmente di tipo centripeto e funzionale allo sviluppo di una metropoli monocentrica. La SINGronda nord sviluppa ulteriormente, e in senso trasversale (estovest) la logica dei grandi assi stradali urbani. Si deve invece passare ad un’altra concezione che: escluda la costruzione di nuovi assi autostradali e razionalizzi il sistema viario esistente, trasformandolo, con adeguati raccordi, in un sistema a rete”; si afferma inoltre che “tale sistema può migliorare la mobilità in tutte le direzioni se si sviluppano al massimo e prioritariamente i mezzi di trasporto pubblico, in primis quelli su ferro” sia di superficie che sotterranei, ”sviluppando la rete metropolitana su scala interurbana”. Finalmente il Consiglio Provinciale rivendica la competenza della Provincia ad intervenire in quanto la Gronda Nord “non può appartenere all’esclusiva pertinenza del Comune di Milano, ma interessa tutti i Comuni dell’hinterland e della corona urbana nord-est e nordovest”.

Si stigmatizza che “la Gronda e gli interventi sui nodi delle tangenziali, se fossero realizzati danneggerebbero irrimediabilmente sia porzioni consistenti del Parco Nord, del costituendo Parco Adriano e della media Valle del Lambro e del Parco Lambro (già spaccato dalla tangenziale), sia un rilevante patrimonio di beni ambientali, paesaggistici ed architettonici (cascine, ville, naviglio Martesana) già da anni tutelati dalla regione”. Nella parte finale dell’o.d.g. si impegna “la Presidenza della Provincia di Milano e la Giunta, dati i compiti istituzionali ed il ruolo di Ente promotore della metropoli policentrica e come socio di maggioranza della Società Serravalle, ad intervenire con urgenza, ponendo un problema di legittimità giuridico-amministrativa relativo ai progetti succitati, ad assumere e proporre un’iniziativa di grande valore: una Variante al PRG che trasformi il tracciato previsto per la Gronda Nord-SIN in un corridoio verde da utilizzare come percorso ciclopedonale e la realizzazione sullo stesso asse di una infrastruttura di trasporto pubblico su rotaia”.

Dal 2005 ad oggi nessun atto conseguente alla presa di posizione del Consiglio Provinciale di Milano è stato assunto. Presidente Penati, giunta, assessori alla mobilità e trasporti (Matteucci), al territorio (Mezzi), all’ambiente (Brembilla), se ci siete battete un colpo.

E i consiglieri della maggioranza di centro-sinistra aspettano, continuano ad aspettare invano? Si vuole predicare bene e razzolare male? Si vuole approfondire ulteriormente le distanze tra le istituzioni e la società civile?

gronda nord

Lavori realizzati al 50%. «Ma prima di riprendere le opere dovremo coordinarci con i tecnici di Nuova Iniziative Coimpresa». Dopo Tuvixeddu, riapre anche il cantiere del tunnel di Tuvumannu: un altro progetto bloccato, dopo i vincoli archeologici sul colle voluti dalla Regione, e riabilitato dalla sentenza del Tar dello scorso 8 febbraio. Gli uomini della Gecopre, la società che sta realizzando la galleria, si sono limitati negli ultimi giorni ad una messa a norma del cantiere: un anno di stop si è fatto sentire anche qui, come per Nuova iniziative Coimpresa. Gli operai hanno recintato gli scavi e verificato le condizioni di sicurezza. Prima di una ripresa vera e propria bisognerà attendere ancora un paio di settimane: «Dobbiamo ancora coordinare i lavori con Coimpresa», spiega Paolo Zoccheddu, dirigente comunale dell'area gestione del territorio. «È un passo obbligato, perché devono intervenire anche a Tuvumannu, con delle opere strettamente collegate alle nostre. Quindi prima di riprendere gli scavi dovremo concordare alcuni aspetti e preparare un piano dei lavori attendibile. Dopo un anno di blocco sono cambiate alcune cose e il tempo ha avuto il suo effetto sul cantiere». Prima di tornare al lavoro bisognerà riportare l'area nelle condizioni di gennaio 2007. Una cosa è certa: «Non aspetteremo l'esito del ricorso al Consiglio di Stato». Sulla galleria si è registrato - era lo scorso aprile - l'ennesimo scontro tra Comune e Regione. «Ci hanno bloccato, segnaleremo il caso alla Corte dei Conti», accusavano i primi. «Non abbiamo disposto nessuno stop», precisavano i secondi. In mezzo, una richiesta milionaria (1 milione e 200 mila euro solo per i primi due mesi di stop) da parte della Gecopre. Ora invece c'è il via libera: il tunnel è stato realizzato al 50 per cento: 700 metri previsti, 350 già completati. Un lungo serpente sotterraneo che partirà da via Cadello, sfiorerà il rione di via Castelli e spunterà in superficie nel canyon di Tuvixeddu, dopo aver superato - ma sempre sotto terra - l'incrocio con via is Maglias. Due corsie per due sensi di marcia, ad una profondità che varierà dai 7 ai 15 metri. Servirà per alleggerire il traffico di tutta la zona via Cadello - Is Mirrionis. L'appalto di questo primo lotto è costato 7 milioni e 600 mila euro. Con la seconda e terza tranche, la strada passerà nel cuore del colle, per sbucare poi in viale Trento. Al momento è stata realizzata solo la parte centrale del tunnel. Mancano ancora la testa e la coda, cioè i pezzi più impegnativi, anche perché gli scavi andranno a incrociare i tubi dei sottoservizi di via Castelli. Ecco perché sono previsti ancora due anni di lavoro prima dell'inaugurazione della galleria. Nel frattempo, l'associazione Amici di Sardegna e il comitato Tuvixeddu Wive chiedono un referendum popolare, per decidere il futuro del colle.

L’assessore al Territorio della Toscana, Riccardo Conti, liquida le critiche avanzate da Vittorio Emiliani su ciò che accade da un punto di vista urbanistico in quella regione, con l’accusa di essere un grafomane (vedi Unità del 17 novembre) con «una visione ottocentesca dello Stato e del paesaggio». A Torino il Sindaco è stato ancor più sarcastico nei confronti di chi ha espresso riserve sulla sua vocazione per i grattacieli. Chi non la pensa come lui «vorrebbe vedere tornare le pecore in Piazza San Carlo». Ma non basta. Con il concorso dei prestigiosi progettisti (Piano e Fuskas), di due degli annunciati grattacieli (ma ce ne è già un terzo dietro l’angolo), si è scatenata da parte delle autorità cittadine e regionali una campagna «per la modernità, per lo sviluppo, per la trasformazione», contro «i retrò, il vecchiume», contro «coloro che temono il futuro» (Renzo Piano), tra innovatori e conservatori.

Conosco e stimo Renzo Piano da almeno trent’anni, da quando collaborò con l’Amministrazione di sinistra di Torino per i primi interventi nel centro storico e soprattutto per il riuso degli edifici industriali abbandonati e più precisamente il Lingotto. Fu lui ad indicarci come la deindustrializzazione, nella sua crudeltà (perdita di occupazione), poteva rappresentare un’occasione per ridisegnare la città, recuperando spazi per i servizi, per il verde, per il decongestionamento provocato dallo sviluppo selvaggio degli anni Cinquanta e Sessanta quando furono costruiti tremila edifici abusivi e vennero rilasciate, da parte delle amministrazioni centriste, ben cinquemila licenze edilizie in contrasto con il piano regolatore allora vigente.

Credo sia interessante cercare di capire ciò che sta accadendo oggi, non solo a Torino e in Toscana, ma in Italia, soprattutto negli Enti Locali governati dal centro sinistra, visto che la destra è sempre stata schierata dalla parte della speculazione fondiaria. Non avendo riserve ideologiche nei confronti dei grattacieli (fui affascinato la prima volta che vidi quelli di Chicago, molto più belli di quelli di New York) la domanda che in molti ci siamo posti è questa: la modernità di una città è rappresentata da uno o più “segni fallici”, inventati da oltre cent’anni che per Torino, tra l’altro, alterano la linea dell’orizzonte (skyline) unico al mondo con il fondale delle montagne? Ma al di là delle questioni estetiche (non dimenticando però che la Costituzione tutela il paesaggio), ci sono almeno tre questioni di fondo che sollevano perplessità. Se ne può parlare, oppure si è subito tacciati di essere dei “dinosauri o dei trogloditi”?

1) Il progetto di Renzo Piano richiede una nuova variante al piano regolatore, a pochi mesi di distanza da quella che portava l’altezza massima degli edifici da cento a centocinquanta metri. Il nuovo grattacielo sfiora i duecento metri, calcolando anche le “vele” che saranno installate in cima per tutti gli impianti tecnologici. La Mole Antonelliana, con la stella, supera di poco i centosessanta metri. Non discutiamo dei costi dell’opera: paga la Banca San Paolo-Intesa (anche se si tratta di un istituto di diritto pubblico e non di una azienda privata). Ma è peccato chiedere quali saranno i costi di gestione, la quantità di energia necessaria per tenerlo caldo d’inverno e fresco d’estate, con il petrolio a cento dollari al barile? E poi: quale sarà lo scenario energetico fra dieci-venti anni? La vera architettura d’avanguardia, innovativa, che considera anche i cambiamenti climatici possibili, è quella autosufficiente, “la casa passiva” come viene chiamata in Germania, oppure a Friburgo dove hanno già realizzato “il quartiere sostenibile”.

Renzo Piano, trent’anni fa, ci indicava come risanare le case fatiscenti del centro storico, coinvolgendo gli abitanti, senza deportarli nei nuovi ghetti della periferia. Ci entusiasmava con le sue idee sulla città moderna al servizio dei cittadini, ponendo al centro dell’attenzione dei pubblici amministratori le esigenze e le aspirazioni delle persone che vivono la città. Anche lui ha cambiato opinione?

2) Il grattacielo in questione rappresenta una gigantesca speculazione immobiliare. Se venissero applicati gli standard urbanistici fissati dal piano regolatore di Gregotti e Cagnardi, per realizzare i volumi di cubatura previsti sarebbe necessaria un’area di ottantamila metri quadrati (otto ettari!). Il presidente del San Paolo ha presentato invece l’operazione come un regalo alla città, «vuole lasciare un ricordo di sè». Un po’ di megalomania non guasta mai.

3) Contrariamente a quanto scritto da Curzio Maltese su la Repubblica del 14 novembre, non esiste a Torino contrapposto «al rumore sul grattacielo di Piano», il silenzio sull’operazione Ligresti (l’intramontabile pregiudicato uomo d’affari) che vorrebbe realizzare un nuovo villaggio residenziale ai confini della città, al posto di un parco pubblico. Addirittura si sono opposti un gruppo di esponenti dei vecchi Ds, valutando la speculazione attorno ai cento milioni di euro. Il fatto è che l’Assessore all’urbanistica di Torino considera benevolmente la rendita sui suoli purchè il frutto della speculazione venga reinvestito in città come ha promesso Ligresti. Anche questo sarebbe un segno di modernità e di sviluppo.

Ma ciò che maggiormente sconcerta è la caduta, da un punto di vista culturale, da parte del centro sinistra su questi temi. Mentre il problema della casa si fa ogni giorno più acuto per milioni di famiglie, di edilizia popolare (o convenzionata) non si sente più parlare e tanto meno di una nuova legge urbanistica sui regimi dei suoli. I piani regolatori delle grandi città attraverso le varianti a go-gò (a Torino abbiamo superato quota centosessanta) sono diventati un mercato diretto dai costruttori e dagli speculatori. L’ultima puntata televisiva di Report su Milano è stata illuminante e nel contempo agghiacciante. Nelle zone rurali fioriscono ovunque villaggi residenziali con villette e case a schiera, che continuano a mangiare fette del “Belpaese”. Ad esempio vorrei chiedere all’assessore Conti notizie dell’unico esempio che conosco personalmente della sua Regione: perchè è stato consentito lo scempio del nuovo villaggio realizzato sotto le bellissime mura del comune di Magliano in Toscana?

Non ho nostalgie per il passato, anzi considero la nostalgia un disvalore (a differenza della memoria), però “la voglia di futuro”, caro vecchio amico Renzo Piano, è per vivere meglio e non peggio. Non amo l’Italia degli outlet così ben descritta da Aldo Cazzullo nel suo ultimo libro.

Nota: sui temi dei grattacieli, e sul caso di Torino in particolare, Eddyburg ha dato spazio in questi giorni anche all'appello del Comitato " Non grattiamo il cielo" (f.b.)

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