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Assediato da 2,5 miliardi di euro di debiti, l’immobiliarista Luigi Zunino si arrende ai creditori (le banche): l’area ex Falck di Sesto San Giovanni e probabilmente anche Santa Giulia a Rogoredo sono in vendita al miglior offerente. Una trattativa è già ben avviata, con il fondo Dubai Limitless, per l’area di Sesto San Giovanni ridisegnata da Renzo Piano, mentre per la città di Norman Foster nella zona Sud Est di Milano le manifestazioni di interesse sono numerose. E Zunino non ha ancora perso le speranze di riuscire – con i proventi della cessione dell’area Falck – a condurre in porto il progetto Rogoredo. Il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini mette le mani avanti: «I futuri proprietari non tocchino il progetto di Renzo Piano. E il Comune vuole continuare ad avere un ruolo da protagonista».

Anche gli imperi costruiti sui mattoni rischiano di sgretolarsi per il peso dei debiti. E così Luigi Zunino, professione immobiliarista, che lo scorso anno è entrato nel salotto più buono di Milano, vale a dire nel consiglio di sorveglianza di Mediobanca, si trova in balia dei creditori e potrebbe essere costretto a vendere alcuni dei gioielli della sua Risanamento per saldare il conto con le banche. Dopo un tourbillon di indiscrezioni, il suo gruppo Risanamento è stato costretto - dalla Consob - a confermare che il consiglio di amministrazione ha dato via libera alle trattative con il fondo Dubai Limitless Lcc che ha offerto circa 1,5 miliardi per le aree Falck di Sesto San Giovanni e Santa Giulia a Rogoredo. La Borsa, ovviamente, ha festeggiato con uno spettacolare rialzo del 46%.

A fine marzo Risanamento aveva accumulato 2,5 miliardi di debiti, tanti in valore assoluto e troppi rispetto ai canoni percepiti dagli affitti. Se il patrimonio del gruppo ha un valore stimato di ben 5 miliardi, sono infatti pochi i palazzi che sono stati messi a reddito. Su questa mole d’indebitamento Zunino paga interessi superiori rispetto ai canoni che riscuote dai palazzi di via Bigli e di corso Vittorio Emanuele a Milano, dal grattacielo di Madison Avenue a New York, per finire con gli edifici parigini sugli Champs-Elysées e in Avenue Matignon. Nel primo trimestre di quest’anno Zunino ha infatti pagato alle banche 41 milioni di interessi sui debiti, e ne ha riscossi 48 dagli affitti e dalle plusvalenze per la cessione di alcuni asset immobiliari.

Ma c’è di peggio. Perché la specialità di Zunino è quella di portare avanti importanti progetti di riqualificazione e in particolare quello dell’area un tempo occupata dalle industrie Falck di Sesto San Giovanni e quella a Sud Est di Milano di Santa Giulia. Per entrambi, Zunino si è avvalso di alcuni tra i più famosi architetti al mondo: per l’area Falck Renzo Piano, per Santa Giulia Norman Foster. Tuttavia, forse l’eccesso di ottimismo tipico degli imprenditori, ha portato Zunino a mettere troppa carne al fuoco, senza fare i conti con un mercato immobiliare che dopo anni di boom inizia a scricchiolare anche per colpa della crisi finanziaria legata ai mutui ipotecari americani. E così lui, che fino a qualche mese fa era in gara per ogni asta immobiliare e per tutti i principali appalti (ha partecipato anche all’asta per Citylife, stata vinta da Generali e Ligresti) ora è costretto a vendere anche i progetti che gli stanno più a cuore per far fronte alle pendenze con i creditori. Prima fra tutti l’area della Falck, sui cui la sua Risanamento ha intrapreso una trattativa in esclusiva con il fondo di Dubai, che a breve dovrebbe formalizzare un’offerta. Ancora prima di ricevere le autorizzazioni per costruire e posare la prima pietra a Sesto San Giovanni, Zunino si è infatti indebitato sull’area Falck per circa 260 milioni. Inoltre Risanamento ha bisogno di nuova liquidità per portare avanti il progetto di Santa Giulia, che pur essendo già stato approvato deve ancora essere sviluppato in toto, tranne per l’edificio che diventerà la sede di Sky che da solo ha un valore stimato in circa 300 milioni.

Ma adesso a determinate condizioni Zunino potrebbe vendere anche il progetto di Santa Giulia, proprio perché tra gli investimenti che devono essere ancora fatti e i debiti che la società ha già accumulato, sarà difficile per il gruppo immobiliare portare a termine i lavori in queste condizioni finanziarie. E per Santa Giulia sarebbero arrivate a Risanamento una serie di offerte. Oltre al fondo Limtless, anche il gruppo olandese Multi e la Colony Capital di Tom Barrack, uno degli uomini più ricchi al mondo e affittuario di Zunino nel palazzo sulla Madison a New York che è di proprietà di Risanamento.

Oldrini avvisa i futuri proprietari "Il progetto di Piano non si tocca" (intervista al sindaco di Sesto San Giovanni)

di Rodolofo Sala

Per il sindaco di Sesto non si tratta di un fulmine a ciel sereno. «Da tempo - dice Giorgio Oldrini - eravamo al corrente delle difficoltà economiche del gruppo Zunino».

Siete preoccupati?

«Non possiamo certo impedire che sull’area Falck sbarchi un nuovo proprietario. Ma in questa partita naturalmente vogliamo dire la nostra, per continuare a svolgere un ruolo da protagonisti. Anche perché su quest’area realizzeremo un progetto per la produzione di energia pulita con una società che abbiamo costituito assieme ad A2A».

Insomma, ponete delle condizioni?

«Voglio essere chiaro: per noi è irrinunciabile mantenere nella sua unitarietà il progetto elaborato da Renzo Piano».

Temete lo spezzatino?

«Quello di Piano è un progetto enorme e complesso, che interessa un’area di oltre un milione e 300mila metri quadri dove sorgerà una città nella città. Università, centri di ricerca, residenze di pregio e case popolari, la nuova stazione».

E se la nuova proprietà dovesse decidere di rinunciare al progetto di Piano?

«Per esaminarne uno nuovo avremmo bisogno di moltissimo tempo. Non certo perché siamo pigri, ma perché gli interventi sull’area sono immensi e complessi».

È un messaggio ai nuovi acquirenti?

«I tempi lunghi non convengono a nessuno. Il progetto Piano è pronto, a primavera potremmo già cominciare gli scavi. Noi abbiamo tutto l’interesse a fare tutto in fretta e bene».

La società di fondi di Dubai è avvertita...

«Noi sappiamo che quella è solo una delle ipotesi in campo. E che sotto il profilo economico e finanziario il pallino ce l’ha Banca Intesa, il maggior creditore di Zunino».

Questi altri potenziali acquirenti vi garantirebbero di più?

«Di certo non siamo indifferenti: per noi un compratore non vale l’altro».

Ricordate la "variante Laika" di San Casciano in Val di Pesa? Si tratta del progetto - a nostro giudizio dissennato - di seppellire sotto 326000 metri cubi di cemento un pezzo di grande pregio del territorio toscano, progetto che vede concordi istituzioni locali e imprenditori, immobiliaristi e sindacati, tutti egualmente dimentichi del valore durevole e imprescindibile (anche in termini banalmente economici) del paesaggio, tutti alla disperata ricerca di "opere" i cui unici parametri di valutazione - paradossalmente in positivo - sono la dimensione e il costo. Dall'ormai lontano Settembre 2006, ne abbiamo parlato a più riprese in queste note e sul nostro web, su cui abbiamo anche pubblicato un appello il cui primo firmatario è il nostro Presidente e un dossier storico estremamente circostanziato sulla spinosa vicenda.

Ebbene, il Tribunale Amministrativo della Toscana ha di recente emesso una sentenza sul ricorso presentato, avverso la variante, dal pool di comitati e associazioni ambientaliste con cui si è schierata anche la Rete; nella quale non si è pronunciato a proposito di ben 5 sulle 7 contestazioni presentate, eccependo sulla legittimità dei proponenti "a poter porre questioni in merito a scelte urbanistiche che non tocchino direttamente aree o beni vincolati dalla legge come 'beni ambientali'".

Si tratta di una disfatta gravissima non solo per la vicenda particolare, ma per tutta la nostra cultura: con questa eccezione, infatti, il TAR limita implicitamente la giurisdizione dei cittadini su ambiente e territorio a situazioni del tutto marginali quali i parchi, i monumenti e le zone protette, negando i risultati del lavoro pluridecennale di un movimento che - fino a prova contraria - rappresenta l'unico vero spunto di avanguardia in tutto il panorama politico e culturale del nostro Paese; applicando questo principio, si legge nel comunicato stampa appena diramato dai ricorrenti, si arriverebbe a non poter contestare un programma di edificazione selvaggia in area verde in quanto i cittadini che vi abitano "non sono specie protetta". A dire il vero, questo - che cioè i cittadini non siano protetti da nessuno - in effetti lo avevamo capito da tempo; non cesseremo, però, di dolercene.

Paolo Baldeschi Le emergenze in Toscana

Relazione al convegno della Rete dei comitati toscani per la difesa del paesaggio, 28 giugno 2008. Con postilla

Premessa

Possiamo chiamarle emergenze quelle documentate nella ‘mappa’? La parola ‘emergenza’ evoca il concetto di eccezionalità, una malattia che ha raggiunto un momento di crisi, ma pur sempre temporanea, Ma l’emergenza rifiuti in Campania è una malattia di un organismo politico-amministrativo sano, o è profondamente connessa proprio alla natura e al funzionamento di questo organismo? E le emergenze toscane sono il risultato di una congiuntura, l’inevitabile scoria che accompagna il passaggio dal vecchio sistema gerarchico di controlli al nuovo governo del territorio o sono invece dovuti a mutamenti strutturali dell’economia toscana che si combinano con le modalità del nuovo governo? E, in quest’ultimo caso, sono una patologia curabile del sistema o derivano dal funzionamento fisiologico di un apparato legislativo e di pianificazione - di un sistema di governo - che per sua natura produce emergenze? In una parola, sono un problema di malfunzionamento amministrativo o dipendono da scelte politiche?

Rispondere a queste domande ha un’importanza fondamentale, perché se fosse vera la seconda ipotesi, il ruolo dei comitati non può avere una natura meramente difensiva e non può neanche limitarsi a fornire delle proposte caso per caso, ma deve prospettare, oltre a proposte alternative, anche un nuovo modo di governare il territorio, più aperto alla partecipazione dei cittadini, meno opaco di quello attualmente praticato, in una parola una politica diversa; paradossalmente una politica più aderente agli obiettivi espressi nei documenti ufficiali della Regione, la legge di governo del territorio e il Piano di indirizzo territoriale (PIT) in primis.

Tre categorie di emergenze

Le emergenze toscane possono essere classificate in tre categorie. Una prima in cui l’azione dei comitati ha una natura seccamente oppositiva. Sono operazioni che non si devono fare e basta, perché non solo danneggiano irreversibilmente il patrimonio ambientale e paesaggistico della regione, la ricchezza di tutti, ma oltre tutto non sono funzionali allo sviluppo dell’economia toscana (beninteso se non si equipara lo sviluppo alla cementificazione). La seconda categoria, che comprende per lo più le opere pubbliche – strade, infrastrutture di trasporto su ferro, impianti di produzione di energia o di smaltimento di rifiuti - non vede opposizioni di principio. Qui i comitati si oppongono piuttosto a specifici progetti, e allo stesso tempo propongono progetti alternativi, meno impattanti sul territorio, meno costosi (ma forse quest’ultima caratteristica è proprio quella che ne definisce uno specifico handicap).

Vi è, infine, una terza categoria, quella delle attività estrattive dove le emergenze sono dovute all’inadeguatezza del piano regionale; un piano che è la sommatoria delle richieste dei privati e che spesso di risolve in uno sfruttamento oltre il lecito delle risorse di cava e nella sostanziale inosservanza dei progetti di recupero.

In questa relazione sulle emergenze toscane sarà trattata solo la prima categoria, le operazioni diffuse e pervasive contro l’ambiente e il paesaggio toscano. Questa scelta dipende dal fatto che trattare con un minimo di documentazione e in modo non sommario le operazioni che entrano nelle altre due categorie avrebbe comportato la necessità di un tempo e di uno spazio non consentito in questa sede. Ma, soprattutto, perché si tratta di operazioni non generalizzabili, ma che devono essere esaminate progetto per progetto, caso per caso. Rimando perciò a questo proposito alle specifiche relazioni che seguiranno e saranno svolte da coloro che hanno competenza ed esperienza in proposito. Quindi, anche se le considerazioni e le proposte conclusive riguardano tutte le categorie di emergenze, qui l’attenzione sarà rivolta soprattutto ai casi che si iscrivono nella metafora Monticchiello.

Le operazioni contro il paesaggio e l’ambiente

Monticchiello, è stato definito – a volte a mezza voce, a volte apertamente – dai politici toscani ‘un caso risibile’. Siamo d’accordo: Monticchiello è risibile se confrontato con tanti altri casi, avvenuti o in corso. In fin dei conti, a Monticchiello vi era un la giustificazione di offrire abitazioni alla popolazione locale, un problema reale che riguarda zone di alta appetibilità turistica dove la gente del posto non può competere nel mercato delle abitazioni. Un problema cui è stata data una risposta viziata da un eccesso di localismo e sbagliata da un punto di vista economico. Tuttavia, se le case di Monticchiello non fossero state costruite come pretenziose villette proprio ai piedi del castello, ma come normali abitazioni in qualche luogo più adatto, in un contrasto non stridente con l’edificato storico, si poteva discutere sulla qualità architettonica, ma la cosa finiva lì.

Ma che dire di tante operazioni concluse o in cantiere o progettate che ripetono in termini moltiplicativi la pur deprecata (a parole) lottizzazione di Monticchiello senza alcuna giustificazione se non la promessa di ‘sviluppo’ alle comunità locali? Basta muoversi nelle colline o nell’entroterra costiero toscano, magari percorrendo qualche strada secondaria, per notare un abnorme proliferazione di ville e villette, lottizzazioni poste in luoghi di alta visibilità, spesso accanto a qualche centro storico o a complessi edilizi monumentali (la grancia di Cuna, ad esempio), con un impatto paesaggistico devastante La ‘mappa’ segnala decine di queste operazioni in corso, rivolte al mercato delle seconde o terze case o al mercato turistico e tuttavia i casi segnalati nella mappa sono solo la punta dell’iceberg: operazioni come quelle in corso a Casole d’Elsa, a Campagnatico, sul Monte Argentario, a Rimigliano (S. Vincenzo) a Capoliveri e a Marina di Campo nell’Elba, a Salivoli (Piombino), a Monticiano, a Monte San Savino, a Serravalle Pistoiese sul Montalbano, a Magliano, a Lucca (le serre trasformate in residenze), tanto per citarne alcune, alcune finite sulle cronache dei quotidiani per palesi episodi di illegalità. Ma su quest’ultimo punto tornerò più avanti, perché anche l’illegalità rischia nel sistema di governo toscano di diventare fisiologica e non più patologica.

L’opposizione dei comitati al depauperamento del paesaggio toscano è quindi pienamente giustificata: si tratta della proliferazione di veri e propri scempi, promossi da politici e amministratori locali che coagulano a loro volta gli interessi di costruttori, proprietari, professionisti, e li traducono in operazioni dove spesso gli uffici tecnici comunali svolgono il ruolo di catalizzatori più che di controllori. All’opposizione di comitati, le amministrazioni e i blocchi locali del mattone oppongono il consueto argomento dello sviluppo, una parola magica che ricorre in tutti i documenti politici, da quelli regionali fino a quelli dei comuni più piccoli. Lo sviluppo come panacea che mette tutti d’accordo; lo sviluppo che chiede inevitabilmente il sacrificio di qualche valore secondario; lo sviluppo che prevale per forza di cose su ambiente e paesaggio.

Un falso sviluppo

Proviamo ad esaminare allora la qualità e la reale consistenza di questo sviluppo. Costruire case produce reddito una tantum, un reddito che va ai costruttori in forma di profitti, ai proprietari dei suoli in forma di rendite e agli addetti come retribuzione del lavoro. Si tratta di redditi che generalmente non vengono spesi localmente e hanno breve durata. Ciò che è stato costruito a sua volta produce reddito, ancorché figurativo, se si tratta di prime case. Ma la lottizzazione della campagna toscana non produce quasi mai prime case. La stragrande maggioranza dei cittadini della nostra regione sono già proprietari delle case in cui abitano e coloro che cercano abitazione – giovani e immigrati – non possono certamente acquistare immobili che per prezzo e caratteristiche sono destinate ad acquirenti ben più ricchi.

A proposito di sviluppo e incremento del reddito locale, un dato mi sembra interessante: riguarda l’isola d’Elba, un territorio particolarmente aggredito da lottizzazioni legali e illegali, dove la presenza dell’ente parco dell’arcipelago toscano viene sentito con particolare fastidio da amministratori e costruttori. Un recente studio dell’Irpet (Toscana Economia - n. 4 - 18 giugno 2008) afferma che “... se il turismo porta ricchezza (all'Elba il Pil è per il 21% più alto rispetto alla media regionale), quel reddito in buona parte se ne va altrove: molti acquisti si fanno sul continente, i lavoratori stagionali arrivano da fuori, i proprietari delle strutture turistiche spesso non sono del posto. Di conseguenza il reddito disponibile - e non quello prodotto - è di circa il 4% più basso della media regionale. Aumentano poi le spese generali (smaltimento rifiuti, consumi idrici, trasporti): ogni 100 euro che un turista spende - ha calcolato l'Irpet - le entrate per gli enti locali crescono di 9 euro ma le spese generali di 14.

Ciò che vale per l’Elba vale a maggior ragione per l’intera regione. I comuni non costituiscono sistemi chiusi: profitti e rendite alimentano ulteriori investimenti edilizi, in altre parti della Toscana o in altre regioni, i redditi dei lavoratori hanno breve durata e sono spesi in altri luoghi. L’offerta turistica più che aggiuntiva finisce per essere sostitutiva di quella esistente; ne fanno fede due fenomeni di facile osservazione. Da un parte l’ingente quantità di sfitto turistico anche nei mesi di alta stagione come luglio e agosto; interi residences che sono vuoti o occupati solo per brevi periodi, non certamente rimunerativi dell’investimento, ma in realtà una specie di bene rifugio. Dall’altra la tendenza delle cosiddette residenze turistico-alberghiere a diventare residenze e basta, dopo avere goduto di particolari agevolazioni normative e fiscali. Si tratta quest’ultimo di un fenomeno diffuso che ha visto più volte l’intervento sanzionatorio delle procure della repubblica.

I motori di uno sviluppo basato sull’edilizia

Ciò che appare come distruzione irreversibile di risorse territoriali viene promosso e alimentato da un riposizionamento in atto di parti consistenti dell’economia toscana. Molti imprenditori operanti in settori soggetti alla concorrenza del mercato globale – come tessile e moda – anche penalizzati dalla debolezza valutaria dei paesi dove sono esportatori[1], stanno riconvertendo i loro capitali dalle attività manifatturiere all’edilizia, soprattutto nel settore turistico, ma anche nel mercato delle abitazioni. E’ significativo a questo proposito che i prezzi delle abitazioni residenziali siano cresciuti nel periodo che va dal 2000 al 2006 quasi del 50% (fonte ANCE, Quinto rapporto sul mercato immobiliare toscano, ott. 2006), mentre i prezzi degli immobili per uffici o nello stesso periodo siano cresciuti del 16% e degli stabilimenti industriali del 10% (meno, cioè, dell’inflazione). Ma il dato forse più interessante sulla composizione strutturale dell’economia toscana e sulle sue direzioni di cambiamento viene dal rapporto annuale del 2005 della Banca d’Italia, a proposito degli impieghi bancari di medio e lungo termine. Nel 2005, in Toscana si è investito in costruzioni più di 10 miliardi di euro, di cui 4 miliardi in abitazioni, meno di 4 miliardi in investimenti direttamente produttivi (macchine, attrezzature, mezzi di trasporto, ecc.), mentre più di 17 miliaerdi sono stati destinati all’acquisto di immobili[2]. Ancora più significativi i dati tendenziali. A fronte di un incremento degli investimenti in costruzioni (non comprendente le opere pubbliche) medio annuale del 18% nel biennio 2003-2005 sta un decremento degli investimenti produttivi che nel 2005 ha registrato un meno 7,5% rispetto all’anno precedente. In sintesi, l’economia toscana a fronte delle difficoltà che incontrano i suoi settori tipici si sta riconvertendo verso il mattone, dagli alberghi di extra lusso, ai villaggetti turistici e ai residences destinati agli acquirenti più modesti. Il settore immobiliare ha assunto il ruolo di volano per il trasferimento di capitali da settori in crisi per concorrenza a settori che godono di rendite oligopolistiche: dalla produzione manufatturiera all’edilizia, utilizzando come materia prima il territorio, il ‘made in Tuscany’ non soggetto alla concorrenza ma non riproducibile. E poiché il territorio toscano, per la sua unicità e per il suo appeal richiama anche numerosi investitori stranieri, nonché capitali di origine dubbia se non chiaramente malavitosa, si può comprendere come sia in atto un assalto generalizzato alle parti più pregiate della regione; un assalto che i comitati possono solo denunciare non certo contrastare da soli.

Uno sviluppo durevole

La miscela fra le tendenze in atto dell’economia toscana e comportamenti amministrativi, sollecitati quest’ultimi anche dalla crisi delle finanze comunali, alimenta un modello di falso sviluppo, distruttivo del territorio. Qui stanno due obiettivi fondamentali che chiedono una politica diversa da parte della Regione. In primo luogo uno sviluppo durevole e che – differenza di quello edilizio – non si esaurisca nel prodotto stesso. In secondo luogo uno sviluppo che utilizzi il territorio come fattore di innovazione e di modernità; che incorpori cioè la qualità e unicità del territorio toscano come ‘qualità del prodotto’, senza distruggerlo.

Se guardiamo all’isola d’Elba, per tornare all’esempio precedente, vediamo un territorio di straordinarie opportunità che viene utilizzato per attività turistiche poco più di due mesi l’anno; dove invece che servizi si offrono immobili; dove i diversi operatori non fanno sistema; dove chi alloggia in un residence non è sicuro di trovare un posto sulla spiaggia; dove, in sintesi si offrono cose a caro prezzo, per lo più case, ma non servizi. Altra cosa sarebbe un turismo prolungato per almeno sei mesi l’anno, un’offerta complementare di alloggi, servizi, eventi, prodotti tipici, come avviene in un mercato moderno. Se in questo modello virtuoso di sviluppo si dovessero costruire anche delle strutture ricettive, ben inserite nel paesaggio sarebbero benvenute. Quanto vale per l’Elba vale anche per il resto della Toscana.

In definitiva, i comitati si oppongono a una distruzione di paesaggio e territorio che avviene senza che alla base vi sia un progetto di sviluppo durevole e sostenibile. Sono certamente a favore di progetti che utilizzino il territorio in senso opposto, in un reale processo di modernizzazione dell’economia toscana. Agli inizi del terzo millennio, modernizzazione e sviluppo significano ricerca, innovazione, istruzione, formazione professionale, servizi alle imprese, produzioni tecnologicamente avanzate, ospitalità qualificata e orientata - una serie di beni, prevalentemente immateriali, che trovano nel nostro territorio e nel nostro paesaggio un supporto di eccellenza. Questi valori dovrebbero stare alla base del patto politico fra diversi livelli istituzionali e fra istituzioni e cittadini, e se tutto ciò comporta un limitato consumo di nuovi suoli, anche in posizioni delicate, cioè se i progetti edilizi sono realmente finalizzati a una modernizzazione correttamente intesa, possono essere tranquillamente accettati e sostenuti fatta salva ovviamente la qualità dei progetti.

Il territorio e la politica dichiarata della Regione Toscana

Quanto detto finora sulla qualità dello sviluppo toscano e sulle tendenze in atto è confermato dal Piano di sviluppo regionale (PSR) 2006-2010, dove si afferma che “in ambito economico-sociale, l’analisi della distribuzione del reddito e della ricchezza segnala uno spostamento progressivo dalla retribuzione del lavoro a quella della rendita, e dai settori produttivi a quelli finanziari e immobiliari. Mentre a proposito del settore terziario del tempo libero - che in gran parte equivale ad attività turistiche - sempre nel PSR viene detto che “è necessario sviluppare competitività attraverso la valorizzazione del patrimonio ambientale, paesaggistico, culturale, e ridurre le rendite di posizione” e di seguito, sempre il PSR sostiene che nel ridisegno del sistema toscano “risultano favorite ... le aree turistico-rurali, dove un nuovo modello di sviluppo, ma anche il meccanismo della rendita e dell’investimento immobiliare, ha creato significativi flussi di reddito, non accompagnati però da livelli occupazionali stabili e qualificati. Risultano, invece, sfavoriti i sistemi produttivi locali basati sull’attività manifatturiera(PSR 2006-2010, p. 7).

Ma i principali documenti programmatici e strategici della Regione Toscana, vale a dire PSR e PIT sono condivisibili non solo per molti aspetti analitici, ma anche per quelli propositivi. In particolare per quanto riguarda il territorio, nel PSR ci si propone di “far emergere il valore immateriale rappresentato dal territorio, contrastando tutte le forme delle rendite di attesa; promuovere anche attraverso le politiche territoriali l’innovazione, salvaguardare e rafforzare il valore delle colline e delle coste e di tutte le altre eccellenze presenti sul territorio; generare coesione, dinamismo e governance territoriale cooperativa tra tutti i livelli istituzionali presenti” (PSR p. 31).

Un territorio che secondo il PIT deve essere inteso come “patrimonio ambientale, paesaggistico, economico e culturale della società toscana. Ma anche “un ‘veicolo’ essenziale con cui la nostra comunità regionale parteci­pa alla comunità universale dell’umanità e si integra nei suoi destini”. E ancora: il territorio è “un fattore costitutivo del capitale sociale di cui dispone l’insieme di antichi, nuovi e potenziali cittadini della nostra realtà geografica. Perciò, quale che sia la titolarità dei suoli e dei beni immobili che vi insistono, il territorio – nelle sue componenti fisiche così come in quelle culturali e funzionali – è comunque e pregiudizialmente il nostro patrimonio pubblico: che pubblicamen­te e a fini pubblici va custodito, manutenuto e messo in valore[3](Documento di piano, pp. 21, 22).

Potremmo aggiungere molte altre importanti affermazioni del PSR e del PIT che sono completamente condivise dai comitati. I comitati non solo sono d’accordo con queste analisi e questi obiettivi, ma intendono collaborare in quello spirito di partecipazione ‘bottom-up’ che deve integrare la componente ‘top-down’ delle decisioni.

Il territorio e la politica reale nella regione Toscana

Le dichiarazioni di principio di PSR e PIT sono importanti; ma sono anche impegnative? E se sono impegnative come sono tradotte in una prassi concreta?

Qui si situa una fondamentale discrasia fra fini e mezzi che deriva da una precisa scelta politica della Regione. La discrasia consiste nel fatto che l’adesione degli enti locali, dei Comuni in primis, agli obiettivi della politica regionale riguardante il territorio si colloca su un piano meramente volontaristico. Questa scelta è dichiarata e ribadita nel PIT al di là di ogni possibile dubbio. Cito fra le tante affermazioni: “Nessun Comune deve sentirsi sotto tutela.... E' un punto su cui la chiarezza dev’essere massima, a costo della ridondanza. Così come la ge­rarchia anche l’età del principio di conformità - quale chiave delle relazioni intergovernative - è de­finitivamente sepolta”. (Documento di piano, p. 82).

In sintesi, secondo il PIT, “perché la governance non scada a mero rito negoziale”, perché, cioè, si realizzi quel patto istituzionale e politico necessario affinché gli obiettivi del PIT non rimangano sulla carta, occorrono due pilastri fondamentali. Il primo pilastro è costituito da un’adesione, più ancora che politica, ‘etica’ alle finalità del PIT[4]. L’altro pilastro è la valutazione integrata che dovrebbe costituire il lato tecnico e ‘oggettivo’ della governance. (“la valutazione integrata è lo strumento indispensa­bile per dare sostanza alla governance territoriale, trasformando la sussidiarietà e l’autonomia lo­cale, che ne sono il presupposto, in cooperazione attiva invece che in tentazioni di isolamento par­ticolaristico o municipalistico ..... E dia testa e gambe a quel nuovo ‘patto’ che il Pit vuole rappresentare”[5]). E ometto molte altre citazioni che rafforzano questa posizione sostanziale che costituisce l’essenza della politica di governo del territorio della Regione Toscana.

Di fronte a una così palese contraddizione fra obiettivi politici e strumenti amministrativi viene da chiedersi se i nostri governanti abbiano perso ogni senso della realtà? Si immaginano forse che i comportamenti degli amministratori locali – fatto salvo il comportamento di tanti sindaci che operano con sostanziale correttezza siano rivolti esclusivamente al bene comune e che non vi giochi alcun altro tipo di interesse, né di politica personale, né economico? Che non sia possibile alcuna collusione fra politica e affari? Che le forze della rendita si facciano ammansire dalle buone parole? Poiché i governanti della Regione Toscana non sono così ingenui da credere di vivere in un mondo incantato, dove non esistono capitali leciti e illeciti in cerca di occasioni speculative, un mondo dove non esistono collusioni fra amministratori e il blocco del mattone, un mondo dove non esiste la corruzione, dove lo statuto del territorio, ancorché costituito da soli indirizzi, è la fonte e il parametro etico, di quel “senso del limite” con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio (il territorio) tanto prezioso, quanto delica­to” (Documento di piano, p. 26); poiché, dicevamo, i nostri governanti, forse non sono in questo momento particolarmente sensibili alla tutela del paesaggio, ma certamente non ingenui, dovremmo pensare che gli obiettivi politici del PIT siano di altra natura rispetto a quelli dichiarati e che mirino ad una consensuale spartizione del governo del territorio fra Regione e Comuni, finalizzata alla conservazione di poteri collettivi e personali, con le Province relegate nel ruolo di convitati di pietra.

Una seconda risposta cui ci piacerebbe aderire (ma va dimostrata nei fatti) nasce dalla constatazione in parte condivisibile che le politiche di piano, le “politiche regolative” e in particolare la loro strumentazione giuridica non si realizzano senza un diffuso consenso; consenso che non può essere ottenuto ritornando a sistemi di pianificazione gerarchica, ma deve coinvolgere tutte le istituzioni. Questa secondo punto di vista anche se sottovaluta la potenza dei cambiamenti strutturali che abbiamo ricordato e delle conseguenti spinte ad un’utilizzazione privatistica del territorio, mirata allo sfruttamento di rendite di posizione, deve essere precisata e integrata sul piano degli attori cui viene sollecitato il consenso. Torneremo su questo punto che è centrale nelle conclusioni.

Di fatto in questi ultimi anni, già a partire dalla legge di governo del territorio del 1995 (che non differisce nelle finalità da quella attuale), le cose sono andate in tutt’altra direzione e non bastano certamente le esortazioni del PIT o del PSR a ribaltare corposi e consistenti interessi economici che si sono intrecciati con gli interessi politici di non pochi amministratori locali. L’affermazione che l’efficacia del piano regionale (di cui abbiamo già ricordato i virtuosi obiettivi) è affidata alla “capacità politica” dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano. (Documento di piano, p.26), suona come ‘parola di re!’, dove la ‘capacità politica’, assurge a suprema garanzia del patto fra istituzioni e cittadini.

[…]

Nota

Il testo integrale della relazione di Baldeschi, comprese le note, è scaricabile in formato .pdf, adoperando il collegamento qui sotto.

Della relazione ci sembra che meritino particolare evidenza quattro aspetti.

1. Il progressivo spostamento degli interessi economici dalle attività produttive a quelle della “valorizzazione immobiliare”, che costituisce l’ambito di riferimento delle politiche territoriali del sistema delle istituzioni.

2. La sottolineatura della profonda ambiguità del PIT, delle leggi urbanistiche e dell’intera politica del territorio. In particolare, il gigantesco scarto tra le intenzioni enunciate, le denunce espresse, gli obiettivi dichiarati, e le concrete azioni mediante le quali si effettuano, si promuovono o si tollerano azioni di segno radicalmente opposto.

3. L’accento posto sulla questione del mancato rispetto della legalità: si va dall’ossimoro delle “Varianti delle invarianti” (sic), approvate da molti comuni, al mancato rispetto, nei “regolamenti urbanistici”, delle prescrizioni dei “piani strutturali”. L’unica possibilità di imporre il rispetto delle procedure di corretto governo del territorio diventa quindi il ricorso alla magistratura.

4. La precisione con la quale si definiscono sinteticamente le caratteristiche che dovrebbe avere un’azione di tutela, conforme al Codice del paesaggi, che voglia essere efficace: il piano deve essere prescrittivo e non di mero indirizzo; deve essere garantita la conformità degli strumenti urbanistici; deve essereverificato l’effettivo adeguamento delle strutture tecniche comunali.

Il piano regolatore

Dalla fine degli anni ’70, e successivamente in modo più accelerato, sono intervenute a Torino modificazioni radicali nella struttura industriale della città che dai luoghi della produzione hanno investito l’assetto territoriale e la composizione sociale della popolazione. Queste trasformazioni hanno comportato, per Torino come per altre città non solo italiane, la chiusura di impianti e di scali ferroviari, spesso collocati in posizioni centrali, considerati non più adeguati alle nuove esigenze della produzione, e il trasferimento di grandi complessi come la Dogana e i Mercati generali.

L’insieme di queste trasformazioni si è inserito in un contesto politico-ideologico caratterizzato dal prevalere di teorizzazioni e di scelte operative, improntate all’esaltazione del mercato come al discredito della programmazione e della pianificazione a tutti i livelli. Queste impostazioni hanno destrutturato le basi culturali, su cui si fondava tradizionalmente l’azione della sinistra (il Grande balzo all’indietro di Serge Halimy). Ma non si è trattato solo di segnali culturali: in Inghilterra, negli Stati Uniti, ma anche in Italia si sono affermati indirizzi di governo coerenti con quei principi.

Nel nostro paese, sono entrati progressivamente in crisi i grandi disegni riformatori di riassetto economico e sociale tracciati da alcune regioni e dal sistema delle autonomie, le cui premesse politiche e culturali risalivano agli anni ’60; in particolare quelli concernenti la riforma dei suoli. Già all’inizio del 1980 la Corte Costituzionale, malgrado quanto statuito dalla legge 10 del 1977, sancendo l’illegittimità della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare., ha colpito al cuore il potere degli enti locali di decidere dove, come, quando trasformare la città, nonché di determinare i costi di acquisizione delle aree espropriabili per esigenze generali. Anche in questo caso le conseguenze per la sinistra sono state nefaste. Il controllo della acquisizione privata della rendita urbana era stato un cavallo di battaglia per molti anni (dal secondo dopoguerra) di un fronte assai composito di forze politiche e sociali: dalle masse operaie sindacalizzate, che nel ’69 scioperarono per rivendicare costi ridotti delle abitazioni e quindi tagli radicali della rendita fondiaria, alla sinistra DC (il progetto Sullo è dell’inizio anni ’60), alle componenti della cultura cattolica più avvertita nei campi dell’economia (Siro Lombardini) e dell’urbanistica (Giovanni Astengo e la sua rivista Urbanistica). Con la sentenza dell’80 quel fronte politico-culturale si è sfaldato e la questione è stata completamente lasciata cadere dalla forze politiche e culturali di centro-sinistra.

Come si ricorderà, negli anni ’70 e ’80 la proprietà della casa si era estesa a ampi strati della popolazione, grazie non solo all’aumento dei redditi delle famiglie, ma anche per gli effetti prodotti da una legge dai contenuti improvvisati: la legge cosiddetta dell’”equo canone”. La carenza di interventi a favore dell’edilizia pubblica a basso costo (esempio unico nei paesi industrializzati d’Europa), aveva costretto molti a ricorrere alla proprietà, essendo scomparsa dal mercato l’abitazione in affitto. Questo fatto agli occhi ormai annebbiati di larga parte della sinistra, generò il silenzio più assoluto sui processi di formazione ed acquisizione privata della rendita fondiaria.

E’ in quel contesto che il Comune di Torino, fra il 1986 ed il 1995 ha portato a compimento il Piano regolatore, con una convergenza politica e culturale pressoché unanime, improntata alle seguenti scelte fondamentali:

- la scelta di ricercare un nuovo assetto urbano, conseguente all’abbandono di ogni politica di integrazione regionale o comunque di area vasta. Il nuovo disegno della città previsto dal Piano si fonda in primo luogo sull’espansione del settore dei servizi per le imprese e le famiglie [1], nel tentativo di ampliarne l’area di influenza delle attività di comando, insediate nel cuore di Torino (tradizionalmente riferite alla dimensione regionale), fino a comprendere il settentrione d’Italia e l’Europa;

- la scelta di ricercare investimenti per le infrastrutture della mobilità, finalizzati a privilegiare ristrette aree cittadine, cui affidare il compito della qualificazione e della specializzazione terziaria;

- la scelta di ricercare l’alleanza strategica con la proprietà fondiaria, individuata nelle maggiori industrie torinesi (Fiat, Michelin, Savigliano, ex Teksid) e nelle Ferrovie dello Stato, a loro volta alla ricerca della massima valorizzazione dei compendi immobiliari investiti dalla disattivazione produttiva o dalla obsolescenza degli impianti.

In conseguenza di quelle scelte il piano regolatore di Torino, approvato dalla Regione nell’aprile del 1995, contiene le seguenti linee principali:

- Il sostanziale azzeramento delle aree industriali. Le aree di trasformazione in senso residenziale e terziario, in gran parte già occupate da industrie, ammontano a poco meno di 9 milioni di metri quadrati. Esse comprendono le aree della cosiddetta “Spina Centrale”, estesa su 3 milioni di metri quadrati. Mentre il piano azzera le aree industriali nella città, nei comuni della provincia, soprattutto in quelli più prossimi a Torino, per quella destinazione si offre una disponibilità per circa 30 milioni di metri quadrati. [2]

- L’individuazione del corridoio mediano della città, costituito dalla Spina Centrale. Questa è percorsa da nord a sud dal cosiddetto “boulevard”, ricavato a copertura del tracciato ferroviario interrato, quale luogo privilegiato per l’insediamento di 23 mila abitanti e 32 mila addetti del settore terziario, dislocati con densità elevate e in forme che testimoniano la rilevanza eccezionale assegnata agli interventi previsti. E’ con riferimento a quel luogo che oggi si discute della opportunità e delle altezze dei vari grattacieli, già individuati dal Piano regolatore e successivamente esaltati da specifiche iniziative: gli uffici di Intesa–San Paolo; gli uffici regionali; il grattacielo Ligresti, etc. In sostanza le aree della Spina sono considerate dal Piano come il luogo in cui concentrare funzioni e forme caricate di rilevanza simbolica da esibire (e da far fruttare economicamente) sul piano non solo locale, ma nazionale e internazionale.

- L’indifferenza con la quale il piano tratta le condizioni ambientali della città, in particolare quelle dei quartieri di più antica formazione prossimi alla Spina (Centro 1; Crocetta 3; San Paolo 4; Cenisia - Cit Turin 5; San Donato 6; Aurora – Rossini 7; Barriera di Milano18), molto popolosi (350 mila circa), caratterizzati da forti densità edilizie e da attività soprattutto terziarie (7,5 milioni di metri quadrati costruiti), ma assolutamente carenti di spazi per servizi sociali. Si direbbe che sul tavolo da disegno della progettazione urbanistica il ritaglio delle aree della Spina sia arrivato del tutto separato dal resto del contesto urbano, per essere riempito con elementi (di qualità e quantità) estranei alla realtà urbana e riassumibili nello slogan: “ concentrare funzioni rare nel settore centrale della città”.

- La scarsa attenzione prestata ai beni culturali, che pure nella storia della città hanno caratterizzato molti degli insediamenti industriali [3]. Il Piano ha tutelato la città barocca ed i beni di maggiore rilievo, purché riconducibili alla tipologia della residenza e dei servizi collettivi, abbandonando alla demolizione o alla radicale trasformazione esempi pregiati di architettura industriale, degni di maggiore attenzione, essendo stata la destinazione produttiva di fatto bandita dalle aree industriali dismesse. Quanto è stato faticosamente salvato è il frutto di iniziative benemerite, intraprese a Piano approvato, non sempre però coronate da successo (come dimostra la vicenda delle Officine Grandi Motori di Corso Novara), che hanno teso a sottrarre al piccone demolitore architetture prestigiose.

L’intervento della proprietà privata sull’assetto del territorio.

Delineati contenuti e ragioni del Piano di Torino, conviene accennare ad alcune vicende, emblematiche del prevalere nel contesto locale di una rendita immobiliare in grado di imporre alle assemblee elettive decisioni improntate alla propria visione dello sviluppo urbano e alle proprie convenienze e non all’interesse collettivo.

La tendenza non è specifica né del torinese né della Regione Piemonte, tanto che, nella legislatura 2.001–2.006, essa stava per essere consacrata a norma, attraverso il nuovo “Testo della legge sul governo del territorio”, approvato soltanto da uno dei due rami del Parlamento, nel cui ambito si è profilato un atteggiamento non pregiudiziale da parte di ampi settori del centro-sinistra. In questa chiave, sembrano significativi alcuni casi concreti riguardanti il contesto locale, che vanno sotto il nome di Mondo Juve, Bor.Set.To, Millenium Canavese, tutti riconducibili alla prevalenza del “particulare” sull’interesse generale.

Al proposito è opportuno rammentare che un ente, persona fisica o giuridica, quando debba reperire somme consistenti, disponendo di proprietà immobiliari, può, nella comprensione generale, rivolgersi in primo luogo a quelle disponibilità, sapendo che su di esse nel tempo si accumulano plusvalenze fondiarie potenziali, traducibili in ricchezza reale, a condizione che le regole, gestite dagli enti locali, consentano interventi edilizi adeguati. Ove questo non si dia non resta che muovere i passi giusti per modificare le regole che si frappongono all’acquisizione delle plusvalenze, agitando accortamente presso l’opinione pubblica in alcuni casi il miraggio del possibile rilancio di una qualche iniziativa economicamente o moralmente benemerita, in altri la minaccia del dissesto economico, e quindi la falcidia della manodopera eventualmente impiegata.

La modifica delle regole consiste sostanzialmente in un’operazione cartacea: si tratta semplicemente di variare un qualche segno, di aggiungere o rimuovere un qualche articolo di una norma astrusa, contenuta in un piano regolatore in genere difficile da comprendere e ignoto ai più. E poi quella modifica così decisiva, ha questo di bello: non costa nulla; al pari delle riforme a costo zero produce solo ricchezza, che in realtà nessuno paga; quindi nei confronti di quella modifica, venuta meno la presenza vigile dei partiti (almeno di alcuni), nessuno più ha interesse ad opporsi.

Mondo Juve

Si tratta di una vicenda collegata con le esigenze di risanamento di bilancio della “ Juventus Football club s.p.a”.

L’operazione riguarda l’Ippodromo, sito nei Comuni di Nichelino e di Vinovo, su un’area di 50 ettari circa; l’Ippodromo si trova in quella ubicazione dai lontani anni ’50 del secolo scorso, trasferito a sua volta dal settore sud di Torino, dal cosiddetto Quartiere Ippodromo (QUIP), prossimo alla Fiat Mirafiori. Su quell’area sorge ora un bel quartiere ad alta densità, che ha sostituito le aree verdi, allora occupate dall’Ippodromo. L’area dell’Ippodromo ora in Vinovo, incalzata per la seconda volta dall’espansione urbana, si trova a fruire delle seguenti condizioni:

- è ai margini del Parco di Stupinigi, quindi in un intorno di indubbio prestigio ambientale;

- è lambita dal nuovo tracciato della SS 23 di collegamento con il pinerolese e più oltre con il comprensorio del Sèstrière; la Statale a sua volta si innesta nella Tangenziale, immediatamente a nord dell’area in questione;

- è lambita dalla ferrovia Torino Pinerolo, per la quale sono previsti piani e programmi regionali di potenziamento e comunque di inserimento del tracciato nella rete regionale, con i conseguenti vantaggi di appartenenza al “ passante” di Torino. E’ prevista l’istituzione di una fermata, in prossimità delle aree dell’Ippodromo, che alcuni vorrebbero spostare proprio in corrispondenza del “ parco commerciale Mondo Juve”;

- è estesa e ben ubicata, non da oggi è inserita in un settore ampio e popoloso della zona sud dell’area torinese.

Come si vede si danno tutte le condizioni perché l’area in questione per le potenzialità geografiche di cui fruisce, per le infrastrutture esistenti o previste, possa essere utilizzata per destinazioni di rango più elevato, più redditizie, rispetto alle attuali. Di qui la proposta della Società Mondo Juve di trasformare l’area dell’Ippodromo in “ parco commerciale”, integrato con altre destinazioni. La proposta, avanzata dalla Società, fatta propria dai Comuni di Vinovo e Nichelino, è stata oggetto di varianti di piano regolatore, felicemente approvate dalla Regione.

Bor.Set.To. [5]

La vicenda, che va sotto il nome di Bor.Set.To (acronimo di Borgaro, Settimo, Torino), rappresenta uno dei casi più emblematici di prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici.

La vicenda ha radici lontane: inizio anni ’60. La Società per azioni “Urbanistica Sociale Torinese”, controllata dalla “Società Generale Immobiliare” (Sogene), allora con partecipazione del Vaticano, acquistata una grande estensione di terreni agricoli nel settore nord di Torino, propone di costruire una “ città satellite” per 60 mila abitanti. La proposta raccoglie adesioni e contrasti, ma non passa. All’inizio degli anni ’90, fallita la Società Sogene (abbandonata nel frattempo dal Vaticano), la proprietà dei terreni (oltre 3 milioni di metri quadri) passa alla neo costituita Bor.Set.To., formata dalla Cooperativa Antonelliana, dalla COGEDIL (Ferrero Acciaierie), Valorizzazioni edili (Ligresti), Deiro ed altri.

Nel 1996 la Regione Piemonte, la Provincia e i Comuni interessati, coordinati dall’allora Assessore provinciale Luigi Rivalta, conducono avanti un tentativo, fallito, di acquistare tutte le aree per 30 miliardi di lire.

Nell’aprile del 1999 il Consiglio Provinciale di Torino adotta il Piano Territoriale di Coordinamento che, per essere operante, abbisogna per legge della approvazione Regionale. Quel piano disegna le linee di trasformazione del territorio provinciale e indica, per quanto qui interessa, i seguenti obiettivi/vincoli:

1. la tutela del territorio agricolo e dunque anche delle aree Bor.Set.To, dotate di elevata fertilità, al fine di preservare le poche aree ancora libere nella conurbazione torinese, soggetta ad intensa urbanizzazione;

2. coerentemente il settore Borgaro–Settimo (e dunque le aree Bor.Set.To.) non risulta compreso fra le direttrici di ulteriore espansione sia per residenze che per attività;

3. il Piano, adottato dal Consiglio Provinciale nella primavera del 1999, in conformità alle disposizioni di legge, avrebbe dovuto entrare in “salvaguardia” a tutela dei contenuti, affinché i comuni non potessero formare piani in contrasto con il Piano Provinciale stesso, fino all’approvazione regionale, o almeno per tre anni dall’adozione.

Adottato nell’aprile del 1999, il Piano arriva in Regione per l’eventuale approvazione. Qui sorgono problemi e difficoltà. Intanto si scopre che per un banale refuso della legge (la legge regionale urbanistica) non è possibile applicare la salvaguardia a favore del Piano provinciale. Invece di risolvere l’errore mediante un’immediata e modestissima correzione della legge regionale, la questione resta senza soluzione per otto anni, fino al gennaio 2007 [6]. Non solo. Malgrado la legge regionale limiti a 90 giorni il periodo entro il quale la Regione deve approvare o respingere il Piano Territoriale, la decisione formale viene assunta dopo 4 anni, nell‘agosto 2003, dopo 1.460 giorni.

Mentre la Regione “valuta”, su proposta dei Comuni di Settimo, Borgaro, Leinì e Volpiano, prende avvio il cosiddetto “ URBAN Italia”. I programmi URBAN sono finanziati dal Fondo europeo, a favore dello sviluppo sostenibile (termine usato ed abusato) di città e di quartieri soggetti a crisi. Nel caso specifico le indicazioni di URBAN Italia hanno smentito totalmente le linee del Piano Territoriale provinciale, in quanto hanno configurato un comprensorio industriale di centinaia di ettari, una barriera urbanizzata in barba alla tutela delle aree agricole. Dormiente il Piano Provinciale, URBAN Italia ha tutto il tempo di essere approvato (27 maggio 2002) dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti.

Se URBAN Italia costituisce lo strumento (il bastone), che sconvolge i contenuti del Piano Provinciale, nello stesso periodo viene varata l’iniziativa (la carota), tendente a qualificare il territorio prossimo alle grandi infrastrutture stradali di Torino, denominato “tangenziale verde”.

Tra fine 2002 e inizio 2003 si danno le condizioni perché finalmente, dopo oltre 40 anni di traversie, si possa risolvere l’annosa vicenda delle aree già Sogene. Le condizioni al contorno sono le seguenti:

1 il Piano Provinciale attende l’approvazione regionale. A scanso di sorprese la Regione ha “consigliato” e la Provincia accettato di fare proprie correzioni al Piano che rendono assai meno incisivi i vincoli originari;

2 sono diventati operanti i documenti, che danno alle previsioni di espansione delle aree Bor.Set.To. il carattere dell’ufficialità e del prestigio;

2 il Comune di Borgaro Torinese ha approvato una variante al proprio Piano Regolatore, che trasforma la destinazione di una parte delle aree Bor.Set.To. da agricole a servizi per parchi urbani e territoriali. Questa destinazione, per legge, dovrebbe comportare l’esproprio delle aree relative. Ma da tempo, grazie all’apporto qualificato della migliore cultura urbanistica, vige la linea della cosiddetta “ perequazione”, in base alla quale a fronte di espropri costosi per la collettività e invisi alle proprietà, si può praticare una strada più “civile”, concordare con la proprietà una sorta di “do ut des”, grazie alla quale il Comune concede possibilità di costruire su parte dei terreni, in cambio della cessione gratuita della restante proprietà. Questa è la strada che si profila come migliore e più conveniente anche per le aree Bor.Set.To., dato che sarebbe una incongruenza, figlia ormai di un passato lontano e superato, imboccare la strada dell’esproprio sulle aree destinate a parco.

Queste sono le condizioni che rendono possibile e opportuno il Protocollo d’intesa fra i Comuni di Borgaro, Settimo e Torino con la partecipazione di Provincia e Regione. Il Protocollo stabilisce l’edificabilità per le diverse destinazioni (270.000 metri quadrati di superficie edificabile per residenze, industrie, terziario) da realizzare nei tre comuni; stabilisce altresì quali e quante aree (2,6 milioni di metri quadrati da destinare a parchi, sevizi sociali, strade) si debbano cedere come contropartita per i Comuni, nei quali ricadono le aree Bor.Set.To.

Il 1 agosto 2003, dopo oltre quattro anni di elaborazioni e verifiche assai impegnative, la Regione approva il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino. Dopo quaranta anni di traversie, giustizia è fatta!

Millenium Canavese

Nella piana, estesa a sud-est di Ivrea, in prossimità dell’abitato di Albiano, su un’area di 60 ettari circa, disposta in fregio all’autostrada Santhià–Ivrea, nasce alla fine degli anni ’90 il progetto “ Millenium Canavese”. Il progetto prevede la realizzazione di un complesso “ polifunzionale”, comprendente un parco a tema, un albergo, un’area commerciale, spazi di ristorazione, servizi, per un investimento stimato in 170 milioni di euro. E’ prevista la frequentazione di un milione e seicentomila visitatori all’anno per il parco a tema e dieci milioni per l’area commerciale. E’ previsto inoltre che l’impianto dia lavoro a settecento addetti. L’ubicazione dell’intervento trae origine da due elementi fra loro collegati:

1. la proprietà dell’area, originariamente in capo alla Società Olivetti, confluita nella Società Mediapolis, a formare una quota di partecipazione, rispetto ad altre, detenute da finanziarie italiane ed estere;

2. la facilità di accesso da un bacino di utenza potenziale di ampie dimensioni, costituito dalle popolazioni di Milano, Torino, Genova, servito magnificamente dalle autostrade Milano–Torino; Voltri–Sempione; Torino– Aosta, connesse a loro volta dalla “bretella” autostradale Santhià–Ivrea.

L’iniziativa, promossa dalla Società Mediapolis, ha ottenuto tutte le approvazioni necessarie e vinto tutte le controverse giunte fino al Consiglio di Stato.

La data di approvazione (giugno 2003) dello strumento urbanistico non può passare inosservata. E’ certamente per pura combinazione che anche nel caso della vicenda Millenium Canavese (al pari di quanto accaduto per la vicenda Bor.Set.To) l’approvazione del Piano Territoriale sia avvenuta proprio all’indomani della conclusione della variante del piano regolatore di Albiano, che ha consentito di mutare destinazione dell’area interessata da agricola in “ parco a tema”. Senza quella fortuita combinazione infatti le indicazioni del Piano Territoriale avrebbero impedito o almeno seriamente ostacolato l’approvazione regionale della variante al piano di Albiano

Conclusioni

In tutti i casi citati l’iniziativa prende le mosse dall’interesse privato. Il leitmotiv consiste nel presentare l’operazione come occasione irripetibile per assicurare un vantaggio per la collettività, in termini di sviluppo economico e/o di acquisizione di patrimoni fondiari da destinare a servizi sociali di rilievo locale o sub regionale.

Nel settore del governo del territorio l’interesse privato ha costituito da sempre il risvolto concreto delle decisioni assunte dalla mano pubblica. Al centro delle trasformazioni e delle iniziative si stagliano la formazione e l’acquisizione privata della rendita urbana, nella duplice forma di rendita assoluta e di rendita differenziale; la prima derivante dallo sviluppo economico e dalla crescita della ricchezza in una determinata località; la seconda derivante dalla entità e dalla concreta distribuzione sul territorio degli investimenti infrastrutturali e dalla generale valorizzazione dell’ambiente urbano.

Nei tempi andati l’ente pubblico tentava spesso, con alterna fortuna, di reagire a quelle tendenze attraverso alcune linee di azione e grazie a risorse interne oggi indisponibili:

1 la spinta culturale e politica, rivolta a riportare, per quanto possibile, la ricchezza prodotta dalla collettività alla collettività stessa. Questo principio, divenuto prevalente negli anni ’60 del secolo scorso con la partecipazione della cultura più avvertita e di un ampio schieramento politico, ha trovato attuazione in atti legislativi specifici rivolti a far acquisire alla mano pubblica una parte consistente della rendita urbana;

2 la formazione di strumenti di pianificazione, soprattutto comunali, i quali, pur entro il vigente sistema di formazione e acquisizione privata della rendita, avevano lo scopo di modellare le città in modo da attenuare le disfunzioni più vistose, create dalla rendita stessa, attraverso politiche redistributive (la politica della casa, dei trasporti, dei servizi etc.), riservando alla collettività il potere di decidere dove, quando, in che modo dare corso alla trasformazione urbana;

3 l’utilizzo di un principio affermato a tutte lettere già dalla legislazione urbanistica, emanata in epoca fascista (1942), in base al quale, si doveva evitare di trasferire a vantaggio dell’interesse privato le plusvalenze fondiarie, derivanti da mutamenti di destinazione del suolo resi necessari dallo sviluppo della città.

Questi indirizzi sono stati bensì oggetto di provvedimenti non sempre lucidi e determinati: nel passato non mancano esempi di operazioni contraddittorie o culturalmente inadeguate. Oggi però la situazione è radicalmente mutata: nessuna forza né politica né culturale si propone di elaborare strumenti amministrativi o provvedimenti legislativi per controllare la rendita urbana. Nella legislazione italiana non esiste più, perché abrogato, il principio della indifferenza del valore dei suoli rispetto alle scelte di piano regolatore, affermato a suo tempo dall’articolo 38 della legge urbanistica del ’42. Troppo spesso si ricorre a questioni di rilievo formale–ambientale, trascurando ragioni di ordine strutturale. E’ il caso degli argomenti, con cui di recente si è cercato di contrastare la costruzione del grattacielo Intesa-San Paolo: ci si oppone a quell’edificio in quanto esso si porrebbe in competizione con l’altezza della Mole Antonelliana (180 metri contro 150), quando le ragioni di fondo per contrastare quella iniziativa andrebbero ricercate nelle scelte strutturali del Piano regolatore, riguardanti sia la natura e la distribuzione delle funzioni, sia le densità abnormi che quelle funzioni richiedono.

E’ a questa realtà che occorre acconciarsi? Non ne sono ancora convinto.

Raffaele Radicioni è architetto ed è stato assessore all'urbanistica del Comune di Torino durante la giunta Novelli.

[1] Giuseppe De Matteis, Anna Segre “Da città – fabbrica a città – infrastruttura”, in “Spazio e Società” n. 42 aprile – giugno 1988.

[2] Provincia di Torino – Assessorato alla Pianificazione Territoriale. “PTC. Ricerca sul Sistema Produttivo della Provincia” a cura di Emilio Barone e Sergio Conti. Febbraio 1999.

[3] Si veda in particolare il lavoro svolto dal Politecnico di Torino, Dipartimento Casa – Città dal titolo “Beni culturali ambientali nel Comune di Torino”, edito dalla Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino nel 1984.

[4] Il Parco Naturale di Stupinigi è stato istituito con Legge Regionale 14 gennaio 1992, n.1.

[5] L’esposizione fa ampio riferimento al “Libro Bianco Bor.Set.To” a cura del Coordinamento per la difesa delle Aree Bor.Set.To e dintorni, pubblicato nel marzo 2005.

[6] L’errore è stato corretto avendo avuto la fortuna di essere ripreso nella legge regionale n. 1 del 26/01/2007, nata con ben altri obiettivi, essendo rivolta a la “Sperimentazione di nuove procedure per la formazione e l’approvazione delle varianti strutturali ai piani regolatori generali. Modifiche della legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo)”.

Filtrata senza ulteriori conferme, in attesa di maggiori e ufficiali informazioni – e soprattutto delle motivazioni – la notizia è importante: il Consiglio di Stato avrebbe respinto il ricorso della Regione Autonoma della Sardegna avverso alla sentenza del TAR Sardegna ( vedi gli articoli precedenti), che annullava l’estensione del vincolo apposto su Tuvixeddu da Renato Soru mediante una commissione nominata a norma del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e velocemente formalizzata. Proprio la mancanza di sufficienti passaggi formali (a quanto pare, soprattutto di un congruo provvedimento di legge) sarebbe stata la motivazione che – assieme ad una non piena consultazione di Cagliari nell’ambito del precedente Accordo di programma – ha portato il Consiglio di Stato a respingere il ricorso di Renato Soru.

Riservandoci di intervenire anche in maniera straordinaria fra questo ed il prossimo numero laddove arrivassero notizie ufficiali, appare evidente come si producano diverse indicazioni di rilievo. Vediamone alcune.

Innanzitutto la salvaguardia, Partendo dal presupposto che la tutela dell’area di Tuvixeddu - eccezionale la necropoli punica, quella romana, e l’insieme dei valori storici, artistici e di paesaggio urbano sino alla modernità - sia una priorità assoluta, e che le motivazioni per il vincolo allargato proposto dalla Regione Autonoma siano assai solide (persino contenute rispetto all’importanza dell’area), l’opportuna notizia anticipata deve far porre immediatamente in essere provvedimenti che sanino i difetti censurati dal Consiglio di Stato. In tempi assai rapidi, perché ruspe e abusi sono tradizionalmente molto veloci ed efficaci.

La battaglia per la difesa del Colle – sostenuta da un fronte assai ampio di studiosi e appassionati guidati da Giovanni Lilliu – deve ricevere dalla Regione Autonoma un trattamento adeguato, e con esso le persone che l’hanno istruita e sostenuta. Archeologi, cittadini, uomini di cultura che hanno a cuore il nostro patrimonio dovranno essere disposti a scendere in campo, se è necessario proteggere con una catena non solo di pensiero ma fisica, umana, le aree in pericolo. A guardare tutto con mille occhi, potenziando quelli già efficaci che hanno disvelato danni e abusi.

La seconda riguarda gli strumenti da mettere in atto: va detto con chiarezza che non sono più ammissibili errori (su Tuvixeddu la Regione ne ha fatti qualcuno di troppo) che mettano a rischio l’area e vanifichino impegno e dignità professionale delle persone.

La terza, ad essa collegata, è politica: il decisionismo soriano, che pure ha prodotto importanti e apprezzabili risultati, talora tratta passaggi democratici e giuridici importanti come impedimenti noiosi o subordinate. Non si tratta di una modalità solitaria di Renato Soru, perchè essa gode di un supporto ideologico e gruppi di riferimento, in alcuni casi persino più responsabili o, se preferite, più irresponsabili. Si impone una revisione critica di tali errori e una maggiore cautela negli stessi pareri tecnici, ai quali non giova fretta, fastidio delle regole, obiettivi ristretti ed accelerazioni autonomistiche che poi si trasformano in rallentamenti reali per la stessa autonomia. Smettiamola di perseguire radicali passaggi di competenze per migliorare la pur grave carenza di fondi e strutture, e magari sognare un dorato futuro regionale. La tutela non deve per questo porsi al di fuori dello Stato, né al di sopra di esso. Il nostro patrimonio cultruale e paesaggistico, anche perchè immenso, ha bisogno di azioni comuni.

La quarta è istituzionale, pubblica: la crisi nelle regole e nella realizzazione della stessa tutela, che avviene anche per cause oggettive, non tutte negative, come quella del ruolo accresciuto degli Enti Locali e delle Associazioni, è acutissima: abbiamo Soprintendenti che esprimono pareri diversi e contrastanti senza comporli ma accentuando la conflittualità; tendenze a sovrapporre le norme urbanistiche a quelle proprie dell’ordinamento dei beni cultuali e del paesaggio, indebolimento mediante accorpamenti delle Soprintendenze in Sardegna, nomine e trasferimenti rutelliani che Bondi ha poi cancellato. Quali sono, e con che mandato, oggi i Soprintendenti in Sardegna? Cosa tutelano? La classe dirigente e professionale esistente deve declinare con forza quel senso dello Stato che ha costituito la parte migliore della storia della tutela nel nostro Paese, farsi sentire.

Infine, nuovamente un aspetto politico: la battaglia per difendere Tuvixeddu non sarà semplice, ora che la speculazione ha una rappresentanza politica forte sia localmente che a livello nazionale. Ma sappiamo che esse non sono assenti dalla stessa maggioranza di centro sinistra. La difesa di Tuvixeddu rappresenta perciò una prova importante di unità democratica, meglio delle tristi pseudo-primarie in atto: sarà anche la voglia di battersi per la difesa piena e ampia di un’area di eccezionale importanza a farci capire se la sinistra, e in modo più ampio il centro-sinistra, avrà la capacità di scegliere da che parte stare.

Qui

Quella che si è verificata nelle ultime due settimane ha costituito una formidabile e per molti aspetti inaspettata esperienza di partecipazione democratica: 1.000 firme inviate in pochi giorni al nostro sito da parte di cittadini e organizzazioni contattate per catene selettive per chiedere a chi governa in Regione Lombardia di cestinare l’emendamento alla legge di governo del territorio che avrebbe consentito di urbanizzare i parchi regionali!

Il risultato praticodella nostra iniziativa è noto: per ora le ipotesi di riforma delle legge sono accantonate.

Certamente il risultato ottenuto non è frutto soltanto della nostra raccolta di firme. Altrettanto importanti per contrastare l’emendamento proposto dall’Assessore al Territorio Davide Boni sono stati l’impegno dei consiglieri regionali dell’opposizione e la mobilitazione delle associazioni ambientaliste.

Ma pensiamo di poterlo affermare con orgoglio: eddyburg.it ha funzionato come catalizzatore e acceleratore di iniziative. Forse perché eddyburg non ha nel suo Dna un ruolo “politico” in senso stretto; forse perché nel suo archivio è possibile trovare il meglio della riflessione della cultura urbanistica nazionale e internazionale sui nuovi modi di governo del territorio; forse perché gli accessi al nostro sito hanno avuto un sensibile incremento, riteniamo di aver svolto un ruolo importantein questa mobilitazione della società civile non solo lombarda, ma soprattutto lombarda e milanese.

Si tratta di una vittoria parziale: la riproposizione di modifiche alla legge regionale è stata annunciata per il prossimo gennaio…probabilmente quando si saranno calmate le acque e, quando, in particolare, alcune decisioni cruciali saranno state ormai prese. Naturalmente il riferimento diretto e contingente riguarda l’aggiudicazione del progetto per l’Expo del 2015 a Milano: come si sarebbe potuto accreditare presso il BIE l’immagine di una amministrazione locale lungimirante e vocata all’ambiente e, nel frattempo, approvare una ennesima disposizione deregolativa contro le ormai scarse riserve di territorio non compromesso della nostra regione, e soprattutto della sua principale area metropolitana, quella milanese? Come si sarebbe riusciti a “non dare nell’occhio” con una così vistosa mobilitazione della società civile?

Ma sullo scriteriato emendamento proposto dall’assessore Boni, e sui suoi sponsor politici ed economici, molto abbiamo scritto su questo sito e molto è stato evidenziato nei comunicati stampa emessi in questo periodo dai gruppi di opposizione, dalle associazioni ambientaliste e dagli organi di stampa.

Qui vogliamo invece provare a raccontare brevemente come ha preso forma e forza quello che noi consideriamo un importante processo di “partecipazione dal basso”; un processo che ha assunto dimensioni che sono andate ben al di là delle nostre aspettative e che ha rischiato anche di sommergerci…e lo facciamo in particolare per tutti coloro chi ci hanno dato la loro generosa e pronta adesione.

La vicenda ha inizio nei primi giorni di novembre, quando ci giunge la notizia dell’intenzione dell’assessore Boni di presentare alla Commissione V, fra le già numerose criticabili modifiche proposte dalla maggioranza alla LR 12/2005, anche un emendamento pericolosissimo che mette a rischio la sopravvivenza del territorio dei parchi regionali.

Questa proposta non solo rappresenta un’ulteriore pesante ipoteca per il territorio della Lombardia, ma appare come una autentica aggressione a Milano, già provata dall’urbanistica derogativa e dai grandi progetti meramente speculativi approvati dalla Giunta, e al suo territorio ancora non urbanizzato.

La proposta viene inoltre presentata quando è da poco tempo stata presentata la proposta di revisione del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Milano che ha lanciato un preciso allarme sugli ingenti consumi di suolo per urbanizzazione in atto sul territorio milanese, indicando come priorità una giudiziosa densificazione e, in particolare, la salvaguardia perenne di quella preziosa e residuale risorsa territoriale ed ambientale costituita dal Parco Sud Milano.

Eddyburg , che da molto tempo ha fatto del tema dei consumi di suolo e del controllo dello sprawl un momento centrale delle proprie riflessioni, si interroga sul che fare.

Si parte in sordina, con qualche scambio di opinioni all’interno della redazione, e si decide di “fare qualcosa”.

Una volta ricevuta conferma che l’assessore Boni intende sottoporre ad approvazione l’emendamento nella seduta della Commissione V programmata per il 21 novembre, si decide di lanciare attraverso il nostro sito un appello dal titolo “Lombardia vergogna d’Europa?” per chiederne il ritiro e di farlo circolare al nostro indirizzario: con un po’ di preoccupazione per il carico di lavoro che inevitabilmente ci dovremo sobbarcare, ma anche con la consapevolezza che occorre impegnarsi in questa ennesima battaglia per la difesa del territorio, così come l’avevamo fatto con successo per scongiurare l’approvazione della famigerata “Legge Lupi”.

Inizialmente utilizziamo appunto i nostri indirizzari di amici, prevalentemente frequentatori di eddyburg. Si tratta di qualche decina di nomi (prevalentemente urbanisti, accademici e amministratori locali) che ricevono il nostro appello a partire dal 13 novembre, quando si dispone del testo definitivo dell’Art. 13 bis. Subito dopo inseriamo lo “strillo”, con il link all’appello, nella homepage di eddyburg, dove aggiorniamo quotidianamente il numero delle adesioni.

Da quel momento si attiva immediatamente una sinergia fra eddyburg e alcune associazioni ambientaliste; decidiamo di non affidare la raccolta di firme a un sito web specializzato checertamente ci risparmierebbe molto lavoro organizzativo, ma avrebbe il difetto di rendere le adesioni forse più numerose, ma certamente molto più generiche e non rappresentative.

La risposta al nostro appello risulta da subito molto superiore alle aspettative: prima della riunione del 21 novembre della Commissione V raccogliamo 450 firme che provvediamo a inviare agli indirizzi di tutti i componenti la Commissione V, al Presidente della Regione, al presidente della Provincia di Milano e all’assessore al territorio della Provincia di Milano.

Vista la reazione dei cittadini, la Commissione V decide di rinviare la decisione alla settimana successiva.

A questo punto pensiamo che il nostro compito sia terminato.

Ma la informazione continua a circolare: alle iniziative diffuse di raccolta di adesioni al nostro appello, si aggiungono i comunicati stampa di alcuni partiti e consiglieri regionali dell’opposizione, gli articoli sulla carta stampata ed anche una trasmissione di Report, già da lungo tempo programmata, che ha il merito di far conoscere a tutti in maniera chiara e documentata lo scempio urbanistico che il connubio fra amministratori e grandi cordate immobiliari sta perpetrando a Milano.

In quella settimana di attesa della nuova seduta della Commissione V si è verificato un evento che non avevamo previsto: il ritmo delle adesioni al nostro appello anziché attenuarsi è diventato incalzante; ma, soprattutto, è cambiata sensibilmente la provenienza delle adesioni: non più soltanto le adesioni di specialisti, accademici, militanti delle grandi associazioni ambientaliste, ma sempre più invece adesioni che provengono dal più ampio spettro delle professioni, da semplici cittadini, da molti pensionati, da comitati spontanei locali.

La sera precedente la seconda riunione della Commissione consiliare, che si è tenuta il 28 novembre, siamo stati in grado di inviare ai suoi Componenti la notizia che avevamo raggiunto le 1.000 firme! E molte se ne sono aggiunte, e continuano ad aggiungersi, anche successivamente.

Come già sottolineato, un primo risultato è stato raggiunto: la discussione sul pacchetto di modifiche alla legge 12 è stata rinviata genericamente a gennaio.

Ma la massiccia mobilitazione dei cittadini ha certamente prodotto un altro risultato: ha indicato che “la partecipazione serve”.

Altrove, soprattutto nelle regioni economicamente più avanzate (e la maggioranza che governa la Regione e il Comune capoluogo continua a farsi un vanto di annoverarsi fra le regioni “locomotiva d’Europa”) il territorio dei parchi regionali è considerato risorsa ambientale preziosa e severamente tutelata . Altrove, nelle più ricche regioni europee, le leggi urbanistiche non vengono modificate in maniera discrezionale per singoli capitoli o articoli sulla base delle aspettative di grandi interessi privati contingenti e senza avere dimostrato, attraverso processi formalizzati e trasparenti di discussione pubblica, il valore aggiunto in termini di vantaggi collettivi di una eventuale revisione. Altrove, leggi ad personam o emendamenti ad personam, come quelli di cui trasuda l’attività legislativa in materia di governo del territorio della Regione Lombardia, avrebbero già provocato la delegittimazione e il discredito della sua classe dirigente.

Non sappiamo fare previsioni su come andranno le cose in Regione dopo gennaio; ma invitiamo tutti a tenere alta l’attenzione.

Grazie dunque ancora a tutti i cittadini e associazioni che hanno firmato (presto inseriremo l'elenco completo delle adesioni) e…leggete in questo file alcuni dei messaggi con cui avete prospettato ai decisori, con le vostre riflessioni critiche e propositive, quale sarebbe la giusta rotta da seguire.

E grazie di cuore anche a Davide Boni, che interpretando nel modo piuttosto diretto ed esplicito le indicazioni di alcuni interessi, nello stile caratteristico della sua parte politica, ha messo in luce in modo molto chiaro e comprensibile quali fossero gli orientamenti della maggioranza di governo regionale. È anche grazie alla sua goffaggine, che tutti abbiamo capito benissimo. E reagito.

A presto

Prologo

Cassinetta di Lugagnano (MI) è un comune del Parco Lombardo della Valle del Ticino, riserva della Biosfera UNESCO. Nel mezzo di una bella pianura irrigua, una mezzaluna fertile, che va da Melegnano a Legnano.

Ma come tutti i comuni a sud della grande metropoli milanese, è sottoposto ad una fortissima pressione a costruire. Infatti, il sud-ovest Milano, con il solo 19% di territorio urbanizzato, è il naturale luogo dove sfogare l’ “incontinenza” edilizia della grande metropoli e dove realizzare grandi infrastrutture, dettate dal modello di sviluppo che ha già creato Malpensa e che ci porterà (forse) Expo2015 e tutte le sue conseguenze.

Elezioni

Quando nel 2002 il sindaco Domenico Finiguerra è stato eletto, con il 51% alla guida dell'amministrazione comunale di Cassinetta di Lugagnano, il programma elettorale al capitolo “urbanistica” prevedeva in maniera molto chiara ed esplicita la volontà di:

- non procedere a nessun nuovo piano di insediamenti residenziali se non attraverso il recupero di volumi già esistenti

- puntare sulla valorizzazione del centro storico e del patrimonio artistico ed architettonico (il Naviglio Grande, le sue ville, i parchi ed i giardini)

- salvaguardare l’agricoltura

- promuovere la qualità ambientale e il turismo

- opporsi alle grandi infrastrutture legate all’aeroporto di Malpensa.

Crescita Zero

La scelta del risparmio del suolo e l’adozione del principio ispiratore cosiddetto della “crescita zero” per tutta la politica urbanistica dell’amministrazione derivava dalle seguenti convinzioni/constatazioni:

- non è sostenibile un modello di sviluppo che prevede il consumo sistematico del suolo, l’impoverimento delle risorse naturali, la progressiva ed inesorabile urbanizzazione e conurbazione tra diverse città e paesi;

- non è più sostenibile il meccanismo deleterio che spinge le amministrazioni a “utilizzare” il territorio come risorsa per finanziare la spesa corrente.

La decisione

La decisione di adottare la “crescita zero” quale faro della politica urbanistica, anche se già ampiamente prevista dal programma amministrativo, è stata confermata successivamente anche attraverso assemblee pubbliche aperte a tutta la cittadinanza.

Nell’ambito del procedimento partecipato di elaborazione del PGT il dilemma da sciogliere è stato sostanzialmente il seguente: “per finanziarie le opere e i servizi necessari alla comunità, la comunità stessa preferisce:

- ricorrere al finanziamento delle opere necessarie per mezzo di nuove lottizzazioni (e conseguente incremento di popolazione, e conseguente necessità di nuovi servizi, e conseguente necessità di nuove lottizzazioni, e via così fino all’esaurimento delle aree libere);

- oppure, ricorrere al finanziamento per mezzo di accensione di mutui con conseguente ricaduta sulla fiscalità locale?

Dal dibattito che ne è sortito, non c’è stata nessuna levata di scudi in nome del motto “giù le tasse”, anzi, le considerazioni più ricorrenti sono state: “vogliamo mantenere integro il territorio e non vogliamo crescere”, oppure “siamo scappati dall’hinterland milanese e abbiamo scelto Cassinetta di Lugagnano per la sue qualità ambientale”.

L’amministrazione, pertanto, con grande sorpresa anche degli urbanisti incaricati ha ritenuto giusta e confermato la decisione di non prevedere nessuna zona di espansione.

Il bilancio comunale

Fin dall’insediamento, la politica di bilancio è stata improntata al massimo rigore, puntando alla realizzazione di un importante e strategico obiettivo: “l’emancipazione” del bilancio dagli oneri di urbanizzazione. Progressivamente, a partire dal 2002, è stata ridotta fino allo 0 (zero) % (obiettivo raggiunto contestualmente all’approvazione del PGT) la quota di oneri di urbanizzazione destinata al finanziamento delle spese correnti.

Inoltre, anche sul lato delle spese in conto capitale (investimenti) si è proceduto con una intensa e faticosa ricerca di contributi provinciali, regionali e statali a fondo perduto.

Il Comune di Cassinetta di Lugagnano, nell’ultimo quinquennio ha realizzato opere per circa 4 milioni di euro grazie a contributi della Regione Lombardia e della Provincia di Milano.

I pochissimi interventi di recupero dei volumi esistenti o alcuni micro-interventi sono stati autorizzati dall’amministrazione a fronte di ingenti opere pubbliche (a titolo di esempio, con il recupero di una villa del ‘500 e di annesso fienile a fini abitativi, l’amministrazione si è vista realizzare opere aggiuntive per 400 mila euro; la costruzione di una nuova farmacia privata è stata accompagnata alla realizzazione del nuovo polo sanitario).

Moltissime sono state le iniziative realizzate per mezzo di sponsorizzazioni (si cita a titolo di esempio la sponsorizzazione del Piano Colore allegato allo stesso PGT da parte di Caparol).

La scuola materna è stata costruita accendendo un mutuo finanziato con l’incremento di un punto dell’ICI sulle attività produttive.

L’ICI sulla prima casa è rimasta ferma al 6 per mille e l’addizionale Irpef al 2%. La tariffa rifiuti prevede il recupero del 100% a carico dei contribuenti. Ma la raccolta differenziata è oltre il 73%.

Si fa notare che se non avesse scelto l’opzione crescita zero, l’amministrazione avrebbe potuto ridurre, e di molto, la pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese.

L’offerta di servizi sociali, educativi e culturali è aumentata e non è stato fatto nessun taglio alla spesa per servizi alla persona.

Piano di Governo del Territorio

Il PGT del Comune di Cassinetta di Lugagnano è stato approvato definitivamente nel mese marzo 2007, alla vigilia delle elezioni amministrative. Non prevede nessuna zona di espansione. E’ incentrato sul recupero e sulla valorizzazione del patrimonio esistente ed è corredato di un dettagliatissimo Piano del Colore.

Conclusioni

Riassumendo arrivare ad un PGT a crescita zero è possibile, ma sono necessarie le seguenti condizioni:

1. solidità della maggioranza e impermeabilità alle pressioni esterne che spesso pongono l’amministratore di fronte a offerte difficili da rifiutare: “se mi fai realizzare questo intervento edilizio, ti sistemi il bilancio, fai tante opere pubbliche utili senza sforzo e vieni rieletto oppure fai carriera”.

2. forte condivisione della scelta da parte della comunità e continua partecipazione della stessa (i bambini, le associazioni, i gruppi informali, i singoli cittadini) alle decisioni assunte dell’amministrazione

3. seria politica di bilancio che renda indipendenti sia le spese correnti che quelle in conto capitale dagli oneri di urbanizzazione dovuti a nuovi insediamenti e che ricerchi risorse alternative

4. utilizzo ed incentivo al recupero di tutti i volumi esistenti

Una postilla

Alle ultime elezioni amministrative del 2007, la lista civica (rosso-verde) è stata riconfermata con oltre il 63% dei voti, in netta controtendenza rispetto a tutta la provincia di Milano, dove il centrosinistra ha perso in comuni importanti come San Donato Milanese, Rho, Pieve Emanuele, Buccinasco, Monza.

La Rete dei Comitati per la difesa del Territorio, di recente costituitasi in Associazione, fin dalla sua origine ha considerato l’ambiente, nella sua accezione più vasta di territorio, paesaggio, beni culturali, centri urbani, condizioni di vita individuale e collettiva, come un bene primario da tutelare e arricchire a beneficio della collettività. L’attività della Rete, derivante dall’azione dei 180 Comitati nati su singole specificità territoriali ma riconosciutisi in alcuni principi generali, ha evidenziato gli effetti negativi di pratiche di governo del territorio che riguardano sia il livello nazionale che quello delle amministrazioni locali. La Regione Toscana, che vantava in passato un primato nella difesa del bene pubblico contro i particolarismi, si è incamminata oggi verso un modello di gestione del territorio in cui trovano spazio gli interessi speculativi e la rendita immobiliare a scapito della tutela ambientale. La riconversione in atto dell’economia toscana, dalla produzione manifatturiera all’edilizia, ha contribuito a una cementificazione diffusa, scollegata da emergenze abitative, mentre le grandi infrastrutture non sembrano tener conto di quel rapporto tra costi e benefici per la collettività che dovrebbe essere il parametro essenziale per ogni grande opera. Quanto alle politiche energetiche, vengono promossi obsoleti e pericolosi impianti ad alto rischio, anziché sostituirli con fonti energetiche rinnovabili, per le quali è necessario comunque attivare la procedura di VIA; come, per la gestione dei rifiuti, si insiste con un piano che prevede l’incenerimento e il conferimento in discarica anziché avviare una responsabile politica fondata su riduzione, raccolta differenziata spinta, riciclaggio, e impianti di trattamento a freddo, utilizzando pratiche già altrove collaudate con ottimi risultati.

Per fare il punto della situazione sul territorio toscano la Rete ha promosso il Convegno “Le emergenze in Toscana. Crisi di un modello regionale di sviluppo”.

A fianco di relazioni che hanno evidenziato la mancanza di una visione culturale e politica che tenga in debito conto i livelli di attenzione con cui le Istituzioni devono guidare le trasformazioni del territorio, e di interventi che hanno proposto soluzioni alternative ad alcune scelte sbagliate ma anche di recente ribadite come essenziali (tirrenica, nodo fiorentino tav, rigassificatore, inceneritori, tramvia fiorentina, geotermia nell’Amiata…), dopo aver evidenziato alcuni specifici casi territoriali, è stata presentata una “Mappa delle emergenze” nella quale sono registrati i luoghi in cui si verificano aggressioni al patrimonio territoriale della Regione, con segnalazioni provenienti dai Comitati stessi. Si tratta di un lavoro in progress che la Rete mette a disposizione di chiunque voglia conoscere lo stato effettivo della situazione toscana, al di là della retorica dello sviluppo di qualità e delle buone intenzioni enunciate nei documenti ufficiali. Un Osservatorio permanente, arricchito a latere da una analisi di scempi sui quali non sono ancora nati specifici Comitati, che costituisce una denuncia circostanziata della sofferenza in cui versa il nostro territorio e insieme la base per le ipotesi alternative di cui la Rete è portatrice; un libro bianco sui danni già compiuti e un richiamo forte al rispetto di quei principi costituzionali che sanciscono all’art. 9: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Infine, la Mappa vuole essere un appello alle istituzioni e, anche in vista delle prevedibili conseguenze relative alla mancata applicazione del “Codice del paesaggio”, un possibile terreno di confronto, aperto e trasparente, con chi non sostenga solo a parole la difesa dell’interesse presente e futuro della collettività.

In calce è scaricabile un’ampia rassegna stampa, diffusa dalla Rete all’indomani del Convegno. Qui la " Mappa delle emergenze". Altre informazioni sul sito della Rete. Qui la relazione di E. Salzano, fra poco anche quella di Paolo Baldeschi. Alberto Asor Rosa ha parlato a braccio.

Centonove vicende di maltrattamenti, distribuite in tutta la Toscana, con una concentrazione nell'area fiorentina e ad esclusione di due sole zone, la Garfagnana e il Casentino. La Rete dei comitati coordinati da Alberto Asor Rosa ha stilato una mappa degli scempi del territorio toscano, dalle espansioni edilizie agli stabilimenti industriali. I comitati hanno organizzato per oggi un convegno a Firenze (Circolo Vie Nuove, via Donato Giannotti 13). Partecipano, fra gli altri, Asor Rosa, Salvatore Settis, gli urbanisti Edoardo Salzano, Paolo Baldeschi e Giorgio Pizziolo, l'agronomo Mauro Agnoletti.

La Toscana si conferma una regione a elevata conflittualità ambientale, da quando, due anni fa, esplose la vicenda delle case costruite sotto la rocca di Monticchiello. Da allora sono sorti molti comitati di tutela. Che, con quelli già esistenti e con le associazioni ambientaliste, hanno costituito una rete. Un'antica abitudine alla partecipazione ha alimentato forti passioni e stimolato competenze e analisi. Sull'altro fronte le istituzioni regionali e molte locali, si sono impegnate a difendere una lunga storia di buongoverno. La mappa disegna una regione puntellata da inestimabili luoghi di pregio a fianco dei quali figurano località inghiottite dal cemento. «Le emergenze territoriali nella Toscana», spiega Claudio Greppi, geografo dell'Università di Siena e autore del dossier che accompagna la mappa, «non sono smagliature occasionali, come dicono gli amministratori pubblici. Sono le conseguenze di come viene applicata la legislazione regionale. E gli effetti delle norme si vedono solo ad alcuni anni di distanza». La mappa raccoglie le segnalazioni dei comitati. Fra le realizzazioni più discusse il grande albergo di Poggio Murella, a Manciano, progettato da Paolo Portoghesi; o gli insediamenti di Campagnatico, di Monte Argentario e di Capoliveri all'isola d'Elba, sui quali pendono inchieste della magistratura. A Casole, sul colle di San Severo, vista mozzafiato sulla Val d'Elsa, c'era un piccolo podere con un casale in pietra, una stalla e qualche annesso: ora spuntano dieci villette con cinquanta appartamenti e persino un laghetto artificiale. Un villaggio turistico dovrebbe sorgere invece a cinquecento metri dalla Rocca di Campiglia Marittima: se il minuscolo borgo occupa sul cocuzzolo 50 mila metri quadri, ai suoi piedi il villaggio si estenderà su un'area grande più della metà dell'abitato medievale. Ottantaquattro sono invece le villette contestate nella zona di Palaia, a Greve in Chianti. Un altro caso ancora, Castelfalfi, piccolo borgo di origine longobarda inserito in una vasta tenuta, con campo da golf e con edifici in parte già trasformati in residenze turistiche. La proprietà è stata acquistata da Tui, un gigante tedesco del turismo, che progetta nuove edificazioni per 140 mila metri cubi, un albergo da 240 posti letto, un villaggio per altri 400, e piccoli borghi dove oggi ci sono isolati casali, oltre all´aumento del campo da golf da 68 a 162 ettari. Fra le emergenze si segnalano stravolgimenti nel centro storico di Fiesole, ma anche l'ampliamento dell'aeroporto di Ampugnano, vicino a Siena, e la costruzione dei 110 chilometri di autostrada da Civitavecchia a Grosseto. Ma complessivamente è sotto accusa tutta la politica urbanistica attuata in vaste zone della regione. Spiega Edoardo Salzano: «L'azione di tutela non è semplice conservazione, ma amorevole accompagnamento e guida che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, degli equilibri che la qualità di paesaggi urbani e rurali hanno costruito e mantenuto fino a oggi".

"Ma il cemento non è dilagato"

Intervista a Claudio Martini di Francesco Erbani - la repubblica, 28 giugno 2008

«Fra i comitati è prevalsa una politica di contrapposizione. Hanno vinto istanze estremiste e per certi aspetti regressive». Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, non potrebbe essere più secco. Con i comitati ogni dialogo è interrotto. «Qualcuno ha anche detto che dietro le scelte urbanistiche c'è odore di tangenti. E a questo punto per me il discorso si chiude».

I comitati accusano la Regione di aver favorito una politica di espansione edilizia.

«Sono scandalizzato a sentir parlare di Toscana infelix. Nella regione avvertiamo la presenza di interessi speculativi, che dopo aver aggredito le coste si spostano nelle zone interne. Ma chi sostiene che ci saremmo consegnati a essi non fa i conti con la realtà».

E la realtà qual è, secondo lei?

«Ci sono problemi e possiamo anche discuterne. Ma con la nuova legislazione regionale l'insediamento di Monticchiello non sarebbe stato possibile. E poi non è vero che dovunque spuntino ecomostri».

Lei non crede che il cemento stia dilagando in Toscana?

«Non ci credo. A breve avremo nuove rilevazioni sull'urbanizzazione. Ma posso anticipare che negli ultimi dieci anni in Toscana il fenomeno è stato inferiore alla media italiana e inferiore anche al dato del decennio precedente».

Vi accusano di aver lasciato mano libera ai Comuni, troppo deboli rispetto a certi interessi.

«Se non ci fosse stata l'opera di salvaguardia dei comuni toscani non avremmo avuto la salvaguardia di teatri, castelli, siti archeologici. In ogni caso, con la nuova legge regionale, i Comuni non sono lasciati da soli. È prevista una pianificazione del territorio in accordo con la Regione e anche con le soprintendenze. Ma il problema è che i comitati hanno un'idea dello sviluppo improponibile. Loro contestano anche ospedali, impianti di energia eolica e geotermica. Non vogliono campi da golf. Protestano se uno stabilimento industriale chiede un ampliamento, senza il quale è costretto ad andare in Germania».

È passato qualche lustro da quando mi capitò l’onore - un po’ anche l’onere - di partecipare contemporaneamente a due “travagliati parti” di un certo interesse per lo studio della disciplina urbanistica: quello delle biografie degli urbanisti, e quello della formalizzazione dei primi archivi di piani regolatori con una relativa accessibilità pubblica. Dato che, appunto, è passato un po’ di tempo da allora, credo di potermene essere formato un’opinione abbastanza serena. Ebbene: si tratta di due innovazioni potenzialmente dirompenti, soprattutto se usate con senno e padronanza del mestiere. Il quale mestiere è quello del metodo scientifico, ovvero del riuscire a separare (almeno, provarci in buona fede) i propri anche radicati idoli o tabù, dal canto delle carte. Sempre che le carte cantino, naturalmente.

Riboldazzi le carte le conosce bene, e sa come farle cantare. Ci si è cimentato a lungo come ordinatore, conservatore, classificatore. E parallelamente ha familiarizzato con gli strumenti della critica, quelli che consentono di conferire alle carte pesi relativi differenziati, applicando il coefficiente di moltiplicazione degli apporti esterni: di tutto quanto cioè la documentazione centrale dello studio ha a sua volta e a suo tempo acquisito, respinto, forse del tutto ignorato.

L’aveva già ben dimostrata, questa maturità di metodo, nell’antologia Cesare Chiodi: scritti sulla città e il territorio – 1913-1969 che ora, col senno di poi, possiamo considerare una tappa intermedia di avvicinamento all’ultima fatica: Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo (Polipress, 2007). In cui le potenzialità dell’approccio biografico e archivistico/urbanistico, così come le ho accennate sopra, emergono in tutta la loro potenziale dirompenza.

Dirompenti perché, forse anche molto oltre le intenzioni dirette dell’Autore, il volume è una fonte inesauribile di spunti, che grazie anche alla singolare personalità del protagonista iniziano a far intravedere con chiarezza qualcosa di sempre sospettato, a volte percepito, puntualmente sfuggito come acquisizione consolidata: gli anni ’20 per l’urbanistica italiana, milanese, romana, ecc., sono un nodo cruciale, le cui conseguenze pesano notevolmente ancora oggi. Un peso equamente distribuito ad esempio fra le modalità di legittimazione pubblica della disciplina, relativi strumenti di visibilità e percezione diffusa, ruolo relativo della pubblica amministrazione, della libera professione, dell’accademia, degli “interessi costituiti”.

Chiodi, come Riboldazzi ben sa e ancor meglio racconta, è un testimone più o meno privilegiato, sempre però ben attento, di tutti questi aspetti, e la sua trasversalità per quanto imperfetta aiuta a mettere in luce ancora meglio i caratteri specifici delle altre componenti. C’è in primo luogo il percorso più tradizionale e mainstream di un ceto tecnico-amministrativo cresciuto all’ombra delle amministrazioni locali almeno dall’unità nazionale in poi. C’è il rampante mondo degli architetti, che con l’affermarsi del fascismo vedranno da un lato aprirsi rapidissimamente nuovi orizzonti di visibilità e legittimazione, dall’altro sapranno gestire molto bene la quasi totale sostituzione, in un arco di tempo assai ridotto, delle figure tradizionali di gestione del territorio. Infine, il permanere più o meno sottotraccia di tutti questi “altri”, che si manifesta in varie forme.

La più vistosa e conosciuta, a Milano, è il ruolo centrale e determinante, almeno nelle scelte di piano, assunto dall’Ufficio Urbanistico municipale guidato con piglio assai personalistico da Cesare Albertini. Il quale, specie se confrontato con la linea più equilibrata (diciamo, meglio documentata) del Chiodi, per una città “policentrica” non solo nell’organizzazione fisica ma anche nella distribuzione dei poteri, dei vantaggi del piano, dei suoi oneri, appare sicuramente una pessima sintesi di decisionismo, arbitrarietà, discrezionale dispotismo nelle scelte spaziali, di massima così come di dettaglio.

Ma la vicenda del concorso di piano regolatore per Milano del 1926-27, anche nella lettura tutto sommato a tesi, per quanto inequivocabilmente documentatissima, di Riboldazzi, restituisce almeno abbastanza nitidi i tre grandi filoni riassunti sopra, che in misura e miscela diversa emergono nei tre progetti primi classificati: il prepotente affermarsi degli architetti liberi professionisti anche in campo urbanistico; il ruolo comunque centrale della decisione politico-amministrativa nella distribuzione dei vantaggi del piano; l’enorme potere degli interessi costituiti, anche sul lungo e lunghissimo periodo, nel determinare l’esito concreto di qualunque opzione.

Quella raccontata dal libro, almeno come spina centrale attorno a cui si dipanano i vari possibili spunti di lettura, è la precisa scelta di Cesare Chiodi, di respingere col suo piano Nihil Sine Studio 2000, quella che molti anni più tardi il suo allievo Luigi Dodi chiamerà sulle pagine di Urbanistica “la città mastodontica, fitta, omogenea”, che invece ad esempio la coppia vincente Portaluppi-Semenza nello schema Ciò Per Amor vorrebbe esorcizzare soprattutto con l’ausilio della tecnologia più moderna applicata ai trasporti, a scala di regione metropolitana.

Chiodi, coerente col suo percorso culturale e professionale, nonché con la matrice affatto “rivoluzionaria” del suo approccio ai temi urbani, tenta una interpretazione di alto profilo tecnico internazionale, cauta sul versante delle grandi enunciazioni quanto evidentemente mal collocata nella logica dei concorsi italiani fra le due guerre, di cui quello di Milano costituisce in qualche modo una anticipazione. La città policentrica è una sorta di schema di espansione a sobborghi giardino compatti, organizzati attorno ai nuclei storici dei comuni limitrofi aggregati nel 1923, con un articolato sistema di green wedges a separali, e con la relativa autosufficienza di una spartana polifunzionalità, scandita soprattutto dalla residenza operaia e dalle attività produttive. Siamo, banalizzando molto, dalle parti di una sorta di piccola Social City howardiana, letta da un liberale e declinata sul contesto milanese.

Banalizzando un po’ meno, di ciascuna scelta, di massima e/o dettaglio, Riboldazzi traccia una precisa genesi nella formazione e nei riferimenti culturali del Chiodi, e last but not least in quanto avvenuto nel periodo “istruttorio” delle vicende che portano al concorso, ovvero nella sua esperienza di assessore all’Edilizia nell’ultima amministrazione non fascistizzata della città. Ed emergono, ancora, convergenze e divergenze rispetto a questo o quell’aspetto della cultura internazionale, come il vago “rimprovero” che qui e là chissà perché l’Autore rivolge a Chiodi, quando ignora o contraddice qualcuno dei principi del Movimento Moderno che, non dimentichiamolo, all’epoca in Italia si esprime soprattutto in dichiarazioni di principio e formalismo architettonico, senza il relativo radicamento socio-culturale che invece ne caratterizza la vicenda e l’ampia gamma delle realizzazioni in altri contesti nazionali.

Senza dilungarmi qui troppo sui numerosissimi e assai interessanti passaggi del libro riguardo a fatti e opzioni specifiche sullo spazio e le attrezzature urbane, di Nihil Sine Studio 2000 e/o dei suoi “concorrenti” (rinviando ovviamente in parte all’auspicabile lettura diretta, in parte alla bella recensione di Lodo Meneghetti dal sito della facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano, che riporto di seguito), vorrei invece concludere con una piccola critica ad alcuni orientamenti dell’ultimo capitolo, dedicato agli esiti del concorso.

Dove, apparentemente assai attenuato il riferimento costante alla figura del Chiodi, che sinora aveva fatto da solido ormeggio alla pur complessa ma avvincente narrazione, gran parte del racconto inizia a convergere su un personaggio che pare essersi attirato l’antipatia di intere generazioni di studiosi, urbanisti, semplici curiosi. E nemmeno Renzo Riboldazzi sembra insensibile a questa sorta di richiamo della foresta: prendersela con Cesare Albertini.

Il quale, pur potente responsabile dell’Ufficio Urbanistica comunale, forse ancor più libero di muoversi a piacimento grazie proprio a questo inedito ruolo amministrativo-disciplinare, non si avvicina neppur lontanamente, che so, alle grandi figure internazionali di “cattivo in città” alla Robert Moses. Certo i toni di certe affermazioni possono essere discutibili, ma siamo pur sempre di fronte a un funzionario puntualmente costretto a mediare, oltre tutto in assenza di solidi riferimenti normativi, fra quegli stessi interessi costituiti forse un po’ troppo sottovalutati anche dal Chiodi, che pure voleva esserne interprete progressivo.

Del resto anche un saggio abbastanza recente molto citato da Riboldazzi, quello di Silvano Tintori sull’inerzia di lungo periodo delle convenzioni coi privati, sottolinea come anche e soprattutto a Milano accada quanto il Giovannoni così riassumeva nel decalogo dell’urbanista: “non sono gli ingegneri o gli architetti a dai vita ad un piano regolatore … ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico” (1928).

Albertini, come ha notato chi si è dato la pena di soffermarsi un po’ (es. Di Leo, Zucconi, Morandi) sulla sua figura, andando oltre il rancore degli architetti milanesi dell’epoca e quello di seconda mano dei loro allievi, certo ha dei limiti e dei torti. Ma leggerne il ruolo senza tener conto del fatto che si tratta di un funzionario comunale, e non di un accademico, di un libero professionista, ecc., non aiuta certo a comprendere uno dei nodi che citavo sopra, e che nel concorso del piano regolatore di Milano trovano un primo punto di manifestazione. Ovvero la sostanziale “uscita” dell’urbanistica, almeno negli aspetti di riflessione critica e ricerca, dalla culla originaria della pubblica amministrazione, per trasferirsi altrove.

Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia. Distinta, se pur legata a doppio filo, a quella bellissima e ricca di vere e proprie “rivelazioni” che racconta Renzo Riboldazzi nella sua seconda puntata di quella che spero proprio sia una trilogia dedicata a Chiodi.

Per il terzo capitolo, mi permetterei di suggerire tra l’altro, ehm … la messa in rete della relazione e delle tavole di Nihil Sine Studio 2000. Sarebbe un bel colpo, e in fondo una conclusione logica.

p.s. 12 giugno 2008, dopo aver letto la recensione, Renzo Riboldazzi mi ha fatto avere la Relazione di Nihil Sine Studio 2000: lo ringrazio moltissimo per la disponibilità, e naturalmente la metto a disposizione dei lettori (f.b.)

Lodovico Meneghetti,

Una città policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo

Polipress, Milano 2008, di Renzo Riboldazzi

Prosegue la ricostruzione, se così si può dire, della figura di Cesare Chiodi (1885-1969), a lungo dimenticata dopo la morte e ora oggetto di ricerche di sorprendente interesse. Ne spetta il merito soprattutto a Renzo Riboldazzi, attivo nel Politecnico di Milano come coordinatore delle attività dell’Archivio Piero Bottoni (di urbanistica architettura designa e arte) e insegnante a contratto nell’area delle discipline urbanistiche alla Facoltà di architettura.

Nella recensione alla raccolta Cesare Chiodi. Scritti sulla città e il territorio 1913-1969 curata da Riboldazzi per Unicopli nel 2006 (recensione in “Territorio”, nuova serie, n. 41, settembre 2007, pp. 108-109) notavo la sua straordinaria capacità di entrare nei più riposti significati dell’attività pubblicistica dell’ingegnere. Lo mostrano anche le 714 note, scrivevo, non una esibizione di acribia ma un’offerta al lettore di allargare la propria comprensione della storia urbanistica di Milano, e non solo di questa. Ora il talento analitico e critico dell’autore si trasferisce dagli scritti alla molteplice attività di Chiodi in un periodo cruciale della sua vita e della vita della sua amata città.

Anche questa volta la notazione (1062 numeri), lontana da ogni cavillosità o barocchismo, deve essere acquisita per comprendere appieno la funzione di Chiodi in quegli anni come amministratore e progettista, come protagonista della cultura politica e dell’urbanistica non solo milanesi. A questa stregua il titolo del libro, incentrato sul progetto per il concorso del piano regolatore di Milano del 1926-27, sembra restrittivo. La prima parte del saggio, La formazione di una coscienza urbanistica moderna (1903-1926), non è soltanto un’ampia dissertazione di vita e opere, si apre a un affidabile commento critico relativo ai cambiamenti nell’economia e nella politica che si ripercuoteranno fortemente nel corso successivo della storia di Milano e del paese.

Molto avvincente il racconto del periodo in cui l’ingegnere, assessore nella giunta Mangiagalli, esprime la propria vocazione ad affrontare i problemi con grande competenza tecnica e distinzione politica dal punto di vista che un rappresentante della migliore borghesia milanese deve (può) detenere, vale a dire il punto di vista liberale.

Mi limito a due citazioni. La prima: il problema della casa non può essere risolto affidandosi all’ente pubblico, agli istituti autonomi, ai Comuni e così via; deve essere l’imprenditoria privata a provvedervi, anche riguardo alle case popolari, grazie alle convenienze economiche assicurate da specifici provvedimenti dell’amministrazione: in primo luogo agendo con la leva fiscale, poi rinunciando alla politica della proprietà indivisibile inalienabile e rivendicando la funzione civile della proprietà privata e dell’assegnazione di alloggi a riscatto. La seconda: la costruzione o ricostruzione della città deve contare in ogni modo sulla buona pianificazione urbanistica, su piani particolareggiati conformi. L’intervento delle imprese edili potrà esprimersi al meglio, anche in questo caso, garantendo la convenienza degli investimenti. Di qui la propensione di Chiodi a condividere (né potrebbe essere diversamente in quegl’anni e in quella situazione politico amministrativa) la realizzazione di nuove parti della città secondo progetti che vorremmo giudicare pesantemente distruttivi di begli spazi milanesi retaggio della storia, essendo incontestabile il ruolo della rendita fondiaria, se non sapessimo che senza la presenza dell’assessore Chiodi, sensibile al richiamo dei paesaggi naturali e del paesaggio urbano delle strade e piazze, lo sfondamento della città sarebbe stato assai più rovinoso.

Il Policentrismo. I due capitoli sul progetto di Chiodi, Merlo e Brazzola per il concorso del 1926-27 e i suoi esiti, 1927-38, entrano vorrei dire a vele spiegate nella storia del pensiero e della critica moderni sulla città metropoli.

Il policentrismo per Chiodi è un modello necessario, la sua cultura in questo senso procede da Ebenzer Howard e dalla città giardino, risale fors’anche a William Morris la cui semi-utopia era però vissuta nella prospettiva socialista. Diciamo modello ma noi milanesi e lombardi sappiamo che il territorio foggiato da città e centri urbani grandi e piccoli spaziati da larghe fasce di campagna lo rappresenta nella realtà territoriale storica della rivoluzione economica e della modernità fino a oltre la metà del Novecento, come costituzione concreta magnificamente funzionale in ogni senso e benefica per gli abitanti.

Il disegno dei tre progettisti (terzo premio), non potendo che riferirsi al territorio milanese, non riesce ad affrontare il problema alla scala dell’area metropolitana vasta ma evita giustamente di inventare poli nuovi secondo un howardiano schema geometrico astratto e sceglie come cardini i piccoli borghi esterni alla città compatta.

Semmai sembrano troppo ampie le aree di espansione previste sia per questi che per le zone di connessione con la periferia interna.

Il disegno della città, all’interno di uno studio generale di pianificazione migliore di quelli destinatari del primo premio (Portaluppi e Semenza) e del secondo (Club degli urbanisti) non appare molto diverso riguardo al principio dell’urbanesimo come rappresentazione degli interessi privati, fondiari per primi. Ma è molto meno “piano di tracciati stradali” di quanto non lo siano i progetti dei vincitori e dei secondi premiati, caratterizzati da una spropositata (per noi e non per proprietari e costruttori) tela di ragno che pare voler già definire in dettaglio la distribuzione della rendita fra gli isolati e i lotti.

Un’ultima osservazione in merito ai trasporti in relazione al sistema insediativo. Chiodi è un convinto assertore del decentramento industriale per quanto possibile in una Milano che conserva comunque fior di industrie nel suo corpo. Se si decentra la produzione è bene decentrare anche la riproduzione, ossia è bene dislocare il lavoro e l’abitazione operaia. Se poi la complessità del sistema generale organizzativo di entrambi, nonché del movimento delle merci, rende impossibile garantire immediata vicinanza fra l’uno e l’altra, sarà un razionale, coerente sistema di trasporto radiale centro periferia, periferia centro, e circolare di connessione di tutti i poli a garantire la produttività degli investimenti e delle persone stesse. Tutto questo è necessario e doveroso anche per salvaguardare la città dell’habitat privato di alto e medio livello, delle belle strade e piazze, dei monumenti e delle case di buona architettura.

Non è scandaloso, è l’epoca. La borghesia italiana meno gretta, quella milanese, liberale in economia, equamente antisocialista nel pensiero politico e sociale, non vien giù dall’illuminismo francese.

Del resto deve fare i conti col fascismo: non liberalismo conservatore, ma puro autoritarismo reazionario.

Titolo originale: Tired Milan Plans A Green, Young Future – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

MILANO – Un ottimista potrebbe definirlo l’attimo Tour Eiffel di Milano.

L’Expo universale, che ha lasciato a Parigi il suo simbolo nel 1889, arriverà a Milano nel 2015, portando investimenti per ridare un po’ di brio a un’economia apatica, e ha trasformato la città natale chiusa su sé stessa di Silvio Berlusconi n uno dei più grandi cantieri d’Europa.

Per molti milanesi era una cosa che ci voleva da molto: la capitale italiana della moda e degli affari invecchia, e soffre da lungo tempo dell’immagine di una città grigia di smog, traffico, scure superfici asfaltate.

Ospitare l’Expo fra cinque anni rappresenta una grossa scommessa, in grado di ricostruire o distruggere l’immagine della città, e lo stesso vale per le sue casse.

Oltre a Parigi, il cui skyline si è imposto globalmente grazie a quel monumento a gambe divaricate costruito per l’Exposition Universelle, ci sono Siviglia che ha avuto una grossa spinta economica con l’Expo del 1992 o Lisbona, che ha trasformato un’area industriale abbandonata per l’edizione del 1998.

Ma nel 2000 a Hanover, un evento considerato la più grande e migliore fiera mondiale di tutti i tempi, ha suscitato il ridicolo nei mezzi di comunicazione e offeso il contribuente tedesco con le perdite per oltre un miliardo di dollari.

“Spero davvero che questa Expo 2015 possa dare a Milano una piccola scossa elettrica” commenta la sua cittadina Paola Antonelli, che lavora a New York al Museum of Modern Art e ha collaborato a un libro sull’architettura delle esposizioni mondiali.

Coi costi che già tendono ad impennarsi in un’epoca di rallentamento economico – la crescita stagna e in maggio l’inflazione ha toccato la punta del 3,7% - qualcuno avverte che questa scossa potrebbe rivelarsi solo finanziaria.

“Non è davvero chiaro quanto costerà l’Expo, e quanto del costo totale ricadrà su Milano. L’esperienza di altre città mostra che ci saranno sicuramente delle sforature” commenta Raffaele Carnevale, analista a Fitch Ratings.

Carnevale spiega che il debito a Milano è già il doppio del reddito, ma che il governo prevede una maggiore flessibilità nell’uso delle imposte da parte delle amministrazioni locali, che potrebbe lasciare Milano una maggiore quota della notevole ricchezza prodotta in città.

Il piano si rivolge a un centro finanziario ora inquinato – che ospita tra l’altro il teatro lirico della Scala, una galleria commerciale del XIX secolo, e il primo albergo a sette stelle d’Europa – per un ritocco urbano che possa renderlo un po’ più verde e aggiornato.

La prospettiva è di circa 20 miliardi di euro di investimenti fra pubblici e private, che possano ridefinire il modesto skyline milanese, realizzare parchi, migliorare le infrastrutture, costruire uffici di alta qualità e case più accessibili per le giovani famiglie.

Il governo italiano darà a Milano 575 milioni di euro fra il 2009 e il 2011 a sostegno degli investimenti per l’Expo, come ha dichiarato la sindaco Letizia Moratti la scorsa settimana.

La città, con 1.300.000 persone, mira a contenere l’espansione urbana realizzando poli secondari di trasporto e servizi. Chiede al governo una speciale autonomia per accelerare i progetti dell’Expo aggirando un famigeratamente lento sistema burocratico.

Ringiovanire

“È un punto di svolta importante che abbiamo atteso a lungo, questo degli investimenti per l’Expo 2015” commenta Carlo Masseroli, responsabile dell’amministrazione di Milano per le trasformazioni urbane, che aggiunge come la città sia pronta a ringiovanire.

Solo uno su quattro milanesi nel 2006 aveva meno di trent’anni, contro il quasi un terzo nel 1991, una netta diminuzione dovuta sia al calo delle nascite che agli elevati costi dell’abitazione che spingono fuori città le giovani coppie.

Relegata ai livelli europei più bassi per quanto riguarda la superficie verde per abitante, Milano prevede anche di aggiungere 11 milioni di metri quadrati di parchi e altri spazi aperti.

Non tutte le costruzioni hanno un rapporto diretto con l’Expo, che attirerà circa 30 milioni di visitatori. Javier Monclus, professore di architettura al Politecnico di Barcellona, spiega come i piani per Milano siano in linea con quelli delle altre città che hanno ospitato l’evento, per quanto riguarda l’ammodernamento delle infrastrutture e il verde.

“Tutti pensano alle esposizioni ... in quanto strumenti di trasformazione urbana, e dunque la strategia è quella di aggiungere un altro attrezzo per il cambiamento della città” dice Monclus, che ha studiato l’impatto delle esposizioni nei vari casi.

Le trasformazioni architettoniche saranno le più radicali per Milano dagli anni ‘50, quando la snella sagoma progettata da Gio Ponti del Pirelli prese il suo posto come unico grattacielo in città. Coi suoi 216 resta l’edificio più alto d’Italia.

Le realizzazioni previste comprendono anche il progetto CityLife: tre impressionanti torri negli spazi dell’ex fiera: una colonna contorta, un grattacielo dalla porzione superiore inclinata, e un’altra torre, più alta del Pirelli.

Alcuni critici, fra cui Berlusconi, hanno commentato che il piano CityLife, progetti degli architetti Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Arata Isozaki, non tiene conto dello stile più discreto di Milano, del suo celare la ricchezza dietro pesanti portoni e finestre chiuse.

Ma molti milanesi vedono questo progetto come necessario per ridare impulso al cuore dell’industria italiana, e per ravvivare un panorama urbano privo di carattere.

Una indagine del 2007 fra gli alti operatori d’affari condotta dall’agenzia di consulenza immobiliare Cushman and Wakefield colloca Milano al dodicesimo posto fra 33 città europee, in quanto luogo per collocare un’attività, grazie anche alla vicinanza al centro del continente.

Ma poi la mette al ventiquattresimo posto per il valore dell’investimento, anche a causa del parco uffici obsoleto.

“É un’ottima occasione per una Milano più moderna, dato che l’Italia è ancora un po’ in ritardo su tutto quanto è moderno” commenta Marco Siciliano, studente sedicenne, mentre osserva i progetti in mostra in Galleria. “L’Italia è bella dal punto di vista artistico, ma avrebbe bisogno di una spinta per andare avanti”.

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Bobo ha fatto il miracolo. L’altro giorno l’impegnatissimo ministro Maroni, resocontando la sua visita a Milano, tra militari agli angoli delle strade, poliziotti di quartiere, ronde padane e armamentari vari, è riuscito a ricordarsi del Leoncavallo, collocandolo, insieme con la moschea di viale Jenner, nel capitolo «emergenza legalità», inaugurando così l’epopea gloriosa degli sgomberi e «dell’aria che cambia».

Ci saremmo aspettati di tutto, persino Borghezio commissario «ai musulmani, quelli che pregano con il culo in aria», per citare alla lettera il volitivo e ingombrante eurodeputato. Non ci saremmo mai aspettati invece il Leoncavallo: per il centro sociale di via Watteau non sembrava proprio il caso di riscomodare per l’ennesima volta la parola «sgombero» e tanto meno la parola «legalità». Perchè il vecchio Leonka era da tempo giunto alla maturità dell’età adulta e dei compromessi, giusto per la tranquillità di tutti e per un sereno avvenire. Invece, girando al contrario il film della vita, in virtù del ministro Maroni, si torna a recitare di «sgombero» e naturalmente, come è giusto, in contrapposizione, di «presidio». Perchè questa mattina, alle ore sei (poche ore dopo insomma la fine della partita della nazionale proiettata in diretta, come le altre partite degli Europei, accompagnate tutte dalla degustazione dei vini dei coltivatori del consorzio, naturalmente alternativo, della Terra Trema), si darà il via al “presidio contro lo sgombero”, per fare, come spiega Daniele Farina, tra i primi del Leoncavallo ed ex parlamentare di Rifondazione, quello che si fa in questi casi: «Ci opporremo con i nostri corpi». Il Leoncavallo ha, per questo, chiamato i milanesi alla «ribellione» e francamente non sappiamo quanti vogliano rispondere, tornando dalla gita al mare o in montagna. La città, nella sua calura, è un deserto di sentimenti: a questo è ridotta e rimotivarla all’impegno, alla solidarietà, alla politica è impresa titanica.

Secondo Daniele Farina, che ha tenuto il conto, sarebbe il quindicesimo presidio contro il quindicesimo sfratto. Una vita. In questo caso non vi sarebbe neppure contrasto tra i leoncavallini e i proprietari dell’area (la famiglia dei Cabassi, i sabiunatt, quelli che, per capirci possiedono la maggior parte delle aree sulle quali sorgeranno grattacieli e capannoni di Expo 2015), ma inadempiente sarebbe il comune che dovrebbe traslare i diritti dei Cabassi dall’area di via Watteau a una qualsiasi altra area di loro proprietà. Una permuta, uno scambio pacifico, insomma. Va a finire che anche il Leoncavallo si mette nelle mani degli avvocati: «Stiamo studiando un esposto da presentare alla procura della Repubblica». Contro la signora Letizia Moratti. Insomma, altro che barricate. Piuttosto aule di giustizia per cause civili. La normalizzazione continua, nella storica anormalità del Leoncavallo, che ormai è patrimonio milanese, degno dell’Ambrogino d’oro, se il sindaco avesse un filo di sensibilità e di lungimiranza. Perchè il Leoncavallo la sua fatica di organizzatore e mediatore culturale l’ha sempre sopportata con coraggio, perseveranza, intelligenza. E con moderazione. Rivendicando la propria anomalia, la propria voglia di cultura in autosufficienza.

Reggerà un’altra volta all’urto il Leoncavallo? Probabilmente sì, continuando a recitare la sua parte, come da trent’anni, dopo la prima recita, 18 ottobre 1975. Bisognerebbe tornare a quegli anni, per immaginare ragazzi che saltano i muri di un’ex officina, in via Leoncavallo, dietro il deposito dei tram, al Casoretto. In quelle strade, trent’anni fa, si consumò un delitto, ancora senza colpevoli: vennero assassinati due giovani, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci. Due giorni prima era stato rapito Aldo Moro. Il Leoncavallo divenne Centro sociale Fausto e Iaio. Più di prima divenne il luogo di una alternativa, faticosa e pericolosa, alla politica delle istituzioni. Di sinistra e d’ultra sinistra, autonomi o riformatori di un certo stampo (il primo nucleo del Leo si educò alle future imprese in un oratorio allestendo una scuola popolare), preglobalisti, uniti nella vocazione pedagogica, allestendo gruppi di intervento sull’istruzione, contro la repressione, sul carcere, sulla parità, sul lavoro, sull’ambiente, sulla Palestina, sull’apartheid, su tutto. Più la mensa e la birra. Più i murales, che in Italia nascevano lì, su quei muri scrostati, tenuti in piedi dalla generosa manovalanza dei militanti. Dentro le mura del Leoncavallo si moltiplicava la fantasia, che si esercitava in forme che si volevano socialmente utili: contro lo spaccio, ad esempio, o per gli sfrattati.

A un certo punto il Leoncavallo fu chiamato ad esercitare la sua fantasia anche «contro il terrorismo», perché nell’ombra del Casoretto, nella disposizione di chi non voleva sbattere porte in faccia a nessuno, i terroristi si fecero vivi. Si cadde nell’ambiguità dei «compagni che sbagliano». Ci fu anche qualche arresto da quelle parti e fu un colpo, che diede fiato alle trombe degli oppositori, al grido rituale di battaglia: «sgomberare il Leoncavallo». Toccherà alla giunta guidata da un socialista, Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi, sgomberare il Leoncavallo: nel 1989, il giorno dopo ferragosto, nell’anno del muro di Berlino, cadrà anche il Leoncavallo. Risultato: ventisei arresti e cinquantacinque denunce. Risultato a distanza: la rioccupazione del Leoncavallo. Poi arrivò Formentini sindaco, «Sono dei randagi». Arrivò Bossi, «Se non ci pensa il governo manderò un’ondata di uomini decisi fino al secondo piano». Il Leoncavallo trovò un’altra sede, alla Baia del re, di fronte all’autoparco della mafia. Un passaggio durato centottanta giorni. Nel settembre 1994, sperimentò un’altro sgombero e una occupazione, per così dire, consensuale. Questa volta i leoncavallini si ritrovarono in via Watteau, in quella terra dismessa, terra di nessuno, ma di proprietà del signor Cabassi, che li accolse in attesa della permuta. Quattordici anni fa e in attesa di un altro tentato colpo contro una minoranza che ha la colpa di rivendicare un pezzo di autonomia culturale.

Il Tar blocca il Dal Molin

Orsola Casagrande

La nuova base militare americana al Dal Molin non si può fare. Il giudizio del Tar del Veneto arrivato ieri mattina è netto, e sospende i lavori in attesa che sul prevedibile ricorso si pronunci il Consiglio di Stato. I comitati cittadini esultano: è la vittoria della società civile, di una città che non ha mai smesso di lottare. La sentenza del Tar ha accolto in toto il ricorso presentato dal Codacons, dal coordinamento dei comitati dei cittadini contro la base e da altre associazioni. Nel ritenere «illegittima» la decisione del governo Prodi il Tar sostiene che è mancata la consultazione della popolazione interessata, nonostante fosse prevista dal memorandum Stati uniti-Italia. Ma denuncia anche di non aver riscontrato alcuna traccia documentale di sostegno «sull'atto di consenso presentato dal governo italiano a quello degli Stati uniti, espresso verbalmente nelle forme e nelle sedi istituzionali». Questo consenso, scrivono i giudici, «pertanto risulta espresso soltanto oralmente» e per questo motivo «appare estraneo ad ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem. Tale dunque da non essere assolutamente compatibile con l'importanza della materia trattata con i principi tradizionali del diritto amministrativo e delle norme sul procedimento, in base ai quali ogni determinazione deve essere emanata con atto formale e comunque per iscritto». Un giudizio pesantissimo, dunque, sull'operato del governo italiano il cui assenso, insistono i giudici, «risulta essere stato formulato, del tutto impropriamente, da un dirigente del ministero della difesa, al di fuori di qualsiasi possibile imputazione e competenze e di responsabilità ad esso ascrivibili in relazione all'altissimo rilievo della materia».

Ma il Tribunale amministrativo regionale non si ferma qui. Infatti nella sentenza ribadisce che ci sono anche «altri profili di illegittimità, alla luce della normativa nazionale ed europea». In particolare si sottolinea che l'autorizzazione è stata data «non solo per quanto riguarda l'insediamento delle nuove strutture della base militare, ma anche per la realizzazione delle relative opere, senza procedere alla verifica ex ante, del rispetto delle condizioni esplicitamente apposte». I magistrati aggiungono che sul bando di gara già effettuato per la realizzazione delle opere non sarebbero state rispettate le «normative europee e italiane in materia di procedure ad evidenza pubblica per l'assegnazione di commesse pubbliche». Il Tar quindi ricorda che per disposizione del commissario straordinario Paolo Costa «era stata prevista come condizione la redazione di un progetto alternativo, relativo in particolare agli accessi alla base». Peccato che di questo progetto «non è riscontrabile alcuna menzione nella autorizzazione». La bocciatura del Tar sulla nuova base militare Usa al Dal Molin è davvero su tutti i fronti.

Per il Codacons «la motivazione espressa dal Tar è ancora più soddisfacente di quanto ci si poteva aspettare, poichè i giudici sono entrati nel merito dell'intero procedimento, contestandolo pezzo per pezzo come il Codacons chiedeva». Il presidente Carlo Rienzi ribadisce che si tratta di «una sentenza di importanza estrema e che rappresenta una vittoria di tutti i cittadini. I giudici infatti non solo hanno riconosciuto le tesi sostenute dalla nostra associazione ma hanno ribadito con fermezza l'importanza dell'opinione dei cittadini in merito a questioni che riguardano direttamente il territorio e l'urbanistica». Il Codacons aveva presentato ricorso contro la nuova base al Dal Molin contestando tra le altre cose la violazione dell'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra e degli articoli 80 e 87 sull'obbligo di ratifica con legge dei trattati internazionali di natura politica, nonché la violazione dei trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Anche dal presidio no Dal Molin parole di gioia per questa sentenza che «dimostra - dice Marco Palma - quanto fondate sono le tesi dei cittadini che da due anni si oppongono alla realizzazione dei progetti statunitensi. Il Tar, infatti, riconosce i pericoli ambientali e urbanistici legati alla realizzazione dell'opera. Chi ha tentato di prendere in giro la cittadinanza, ora, è stato smascherato». Il presidio si impegna a vigilare sull'osservanza di questa sentenza, che nei fatti è una sospensiva e blocca qualunque lavoro «per difendere la legalità che più volte hanno tentato di calpestare i promotori dell'opera». Il presidio ha organizzato tre giornate di mobilitazione, a partire da oggi con dei banchetti informativi in centro. E poi giovedì prossimo con una presenza in piazza dei Signori in contemporanea al dibattito del consiglio comunale e il 30 giugno con una mobilitazione.

Il sindaco di Vicenza, Achille Variati, ha ribadito che la giunta proporrà nella seduta del consiglio di giovedì prossimo il referendum cittadino, che dovrebbe svolgersi a ottobre. Sulla sentenza Variati dice che «si tratta della vittoria delle ragioni di un territorio: avevamo sempre denunciato la mancanza di informazioni, di una vera discussione e di una legittimazione della procedura avviata». Mentre per il presidente dell'Ecoistituto del Veneto, il verde Michele Boato, «Davide ha fermato Golia. Sembra incredibile, ma è successo, dopo due udienze interlocutorie nei mesi scorsi, il dibattimento di mercoledì si è concluso con la sospensiva di tutte le strane autorizzazioni con cui il governo Prodi prima (commissario Paolo Costa) e quello Berlusconi poi permettevano all'esercito degli Stati uniti di calpestare le norme dello stato italiano». «No comment» invece dal commissario Paolo Costa come dal governo Berlusconi e dagli Usa.

Carta straccia

di Gianfranco Bettin

Sarebbe stato contento, il vecchio grande sergente Mario Rigoni Stern di questa sentenza del Tar del Veneto, che boccia seccamente l'iter fin qui seguito per raddoppiare la base statunitense di Vicenza presso l'aeroporto DalMolin. C'è da giurare che, nel piccolo cimitero sull'altopiano dove riposa da pochi giorni, se per qualche via misteriosa ha potuto saperlo, sorriderà. Un anno fa, intervistato dal mensile Lo Straniero, definì l'operazione «vergognosa», mera opera di «venditori ». Costoro, in effetti, sembravano aver prevalso, presenti sia nel centrodestra che nel centrosinistra, con questi ultimi, anzi, ad aver detto la parola che, fino a ieri, sembrava definitiva.

Invece, essa appare oggi carta straccia, «estranea a ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem» e tale, scrive il Tar, «da non essere compatibile con l'importanza della materia trattata, con i principi tradizionali del diritto amministrativo» Accogliendo il ricorso del Codacons e, nella sostanza, le obiezioni avanzate con precisione e tenacia dal Comitato «No DalMolin» e dalla stessa nuova amministrazione comunale di Vicenza guidata da Achille Variati, appena eletto sindaco grazie anche alla sua contrarietà al raddoppio della base, il Tar dichiara inoltre illegale l'autorizzazione rilasciata e illegittimo il bando di gara. Non limitandosi a obiezioni formali (che pure, in questa materia, sono sostanza), si sofferma sull'impatto ambientale e urbanistico del progetto, sui rischi di danneggiamento delle falde acquifere e accoglie i dubbi espressi da più parti sulla Valutazione di Incidenza Ambientale della Regione Veneto. Insomma, una bocciatura globale che rappresenta anche una dura lezione politica a chi, nella passata amministrazione vicentina di centrodestra, d'intesa col Berlusconi 2001-2006, nell'attuale giunta regionale, nel governo Prodi 2006-2008, ha inteso calpestare il diritto dei vicentini a decidere sulla loro città e, in senso generale, il diritto dell'Italia a essere sovrana e non subalterna al potente alleato Usa.

Dura per tutti, la lezione è particolarmente aspra per il centrosinistra di Romano Prodi, certo ricattato dalle più ottuse componenti atlantiche della coalizione e certo sottoposto a pesantissime pressioni diplomatiche e politiche, e tuttavia arrendevole fino all'inanità verso tali pressioni e ricatti e arrogante oltre ogni limite verso la città e la popolazione. Nella vicenda Dal Molin, per vari aspetti, si poteva già leggere la triste parabola dell'Unione, la pervicacia della sua ala destra e l'impotenza della sua ala sinistra, oltre alla stoltezza dei suoi principali reggitori. Nella clamorosa riapertura odierna della questione forse c'è l'annuncio che una stagione nuova di iniziativa e di partecipazione politica, di movimento reale sul territorio e di lavoro istituzionale più trasparente e democratico, si sta forse per aprire.

L'ordinanza del TAR Veneto è scaricabile qui

Il 14 Giugno a Bergamo si è costituita la “Rete lombarda dei Comitati per la difesa del territorio e dell’ambiente”: al nuovo organismo di coordinamento hanno aderito, sino a ora, 114 comitati locali da tutte le province. La Rete è costituita da realtà territoriali e persone.

Ad ognuno, pur nella tutela della propria identità e autonomia, viene proposto di mettersi in rete per costituire un collegamento tra le varie iniziative locali. Si tratta di un primo nucleo che conta di estendersi e coordinarsi su tutta la regione e mantenere rapporti con reti analoghe (come quella piemontese, emiliana e toscana presenti con i loro portavoce Becarelli, Gavioli, Asor Rosa).

Le forme flessibili di coordinamento e di relazione tra reti sono fin dall’inizio aperte e saranno da precisare e condividere nel dibattito e nel funzionamento reale. Si è compilato un indirizzario regionale che si svilupperà per adesione libera e che verrà già nei prossimi giorni distribuito a tutti gli attuali registrati e messo in chiaro sui siti web di comune interesse. La Rete lombarda dei Comitati ambientali si muoverà su sei aree tematiche: pianificazione urbanistica, energia, beni comuni, parchi, centri commerciali, infrastrutture e mobilità, che si daranno comitati tecnico- scientifici di riferimento.

In Lombardia la situazione di degrado e di crisi ambientale non è solo conseguenza quantitativa dell’alta densità degli insediamenti produttivi e residenziali, o dei modelli di consumo e del congestionamento del trasporto individuale. E’ anche e soprattutto il frutto di una politica orientata all’abbandono di strumenti di programmazione e di governo del territorio e a dare preminenza all’interesse privato rispetto all’interesse pubblico. Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad una prassi di saccheggio fondata su un’idea di crescita senza limiti, rivolta a rilanciare la nostra Regione come “territorio della competizione e del consumo”, con lo sfruttamento dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni.

Questo è il rischio cui è esposto il progetto di Expo 2015, che mette al centro i temi agroalimentari e energetici, ma che per Formigoni e la Moratti sarà il paravento dietro cui nascondere una nuova ondata di speculazioni.

Di contro, si sono costruite nel corso degli anni una molteplicità di iniziative di denuncia e di mobilitazione. Iniziative ambientali e pratiche di partecipazione per lo più agite sul piano locale, rivolte a difendere i propri territori dalla devastazione e dalle privatizzazioni.

Metterle in rete corrisponde a quanto si era fatto con i Consigli di fabbrica, quando dai reparti e dagli uffici si ricostruiva il ciclo di produzione completo attraverso i delegati: nel caso in questione si cerca di ricostruire il ciclo di messa a profitto del territorio attraverso la rappresentanza dei singoli comitati. Come per le vertenze sull’organizzazione del lavoro, puntiamo alle vertenze sull’organizzazione del territorio.

Queste pratiche e iniziative territoriali rappresentano un potenziale di cambiamento, la possibilità di un altro modo di fare economia e di interagire positivamente con i cicli ambientali. Un’idea che parte da ridurre e recuperare rifiuti, fermare la cementificazione e le grandi opere speculative, affermare il diritto alla mobilità superando l’auto individuale e qualificando il trasporto pubblico, riprogrammare il fabbisogno energetico, attuare una politica di riuso urbano e di difesa dei beni comuni e contrastare i cambiamenti climatici, visto che la Lombardia produce un quinto di tutte le emissioni italiane di CO2.

E’ in corso il tentativo di marginalizzare le richieste di controllo popolare sugli interventi che riguardano il territorio, mentre è forte la domanda di nuove modalità di convivenza e di una democrazia partecipata. Una sinistra che si riunifica dal basso non può trascurare prospettive come questa in maturazione, dato che occorre uscire dalla frammentazione e collegarsi e comunicare per promuovere un’idea comune di socialità e per passare dall’opposizione alla proposta.

Le realtà associative che operano sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente e che attuano una politica di prossimità, possono rappresentare - laddove la politica tradizionale segnala una sua crisi profonda di rapporto con l’insediamento sociale - un terreno di ricostruzione di una nuova stagione di partecipazione. Credo che in questo momento una prospettiva per la sinistra possa giungere anche dall’aggregazione delle realtà che lavorano a contatto con il territorio e che superano nelle loro rivendicazioni l’astrattezza di posizioni identitarie che spesso dividono. In questo senso l’iniziativa di Bergamo è un contributo su cui dovrebbero riflettere i congressi in corso, troppo rinchiusi al loro interno per rispondere alla sfida che la destra porta ai fondamenti della libertà e della democrazia.

Qui i documenti d'avvio della Rete dei comitati lombardi, e qui il resoconto dell'iniziativa di eddyburg coinbtro la "legge mangiaparchi"

CIRCA 200 professionisti hanno lavorato al sistema di regole che si chiama «piano regolatore». Molti fra i migliori d’Italia: archeologi, paesaggisti, geologi, dottori in agraria, trasportisti, giuristi hanno prodotto un grande apparato di conoscenze sulla città. Le sovrintendenze hanno collaborato alla sistematizzazione

La trasmissione di Report del 4 maggio scorso è un esempio di diffamazione per mezzo della televisione la cui portata va al di là dell'evento, apparentemente limitato nel tempo. La trasmissione ha mescolato artatamente vere e proprie false affermazioni, interviste tagliate, interventi faziosi senza contraltare, immagini di avvenimenti spacciati per altri avvenimenti, in un quadro complessivo di superficialità ed incompetenza, sotto la parvenza di giornalismo d'assalto.

Per le contestazioni puntuali, tutte documentate, si può fare riferimento al fascicolo di risposta prodotto sulla base dei testi della trasmissione, e consegnato ai giornalisti nella conferenza stampa del 6 giugno nella quale Roberto Morassut ha esposto le ragioni della sua querela.

Ma qui mi preme ricordare quale esempio di devastante inciviltà sia alla base della iniziativa.

Si afferma di parlare del nuovo piano regolatore di Roma, ma nella maggior parte della trasmissione si parla d'altro, facendo credere che si parli del piano.

Non si dice che il piano, come deve essere, è un sistema di regole che vale per tutti, ma si dice che è una coperta per le peggiori nefandezze. Guarda caso lo si dice appena il piano è approvato. Forse ai giornalisti autori del servizio o agli intervistati danno fastidio le regole uguali per tutti?

Roma, ha scelto da tempo di dotarsi di un nuovo piano regolatore. Ha dovuto produrre - senza il sostegno di alcuna moderna legislazione né nazionale né regionale, e a differenza di altre grandi città che hanno potuto far conto su leggi regionali più avanzate - un piano che affrontasse e risolvesse dall'interno i problemi di una metropoli contemporanea. Lo ha fatto dando un sostanziale contributo all'aggiornamento della disciplina urbanistica, trovando concrete soluzioni per i più spinosi problemi di governo del territorio. Il controllo pubblico di tutte le trasformazioni, la sostenibilità ambientale, l'equità di trattamento, il rapporto tra pubblico e privato con procedure di evidenza pubblica, il rinnovo dei tessuti edilizi esistenti, la regolamentazione delle innovazioni per il recupero ambientale ed il risparmio energetico.

Il piano di Roma ha prodotto un apparato di conoscenze di base che non ha eguali a livello nazionale. La classificazione dei tessuti della città esistente e la salvaguardia dei valori spaziali storici, architettonici ed ambientali sono garantiti da una quantità elevatissima di dati certi e documentati. Le soprintendenze di Stato, che hanno contribuito consistentemente alla raccolta ed alla sistematizzazione dei dati, sono ben lontane dall'avere nella sua interezza questo patrimonio, che raccoglie e valuta dati dalla protostoria ad oggi, su tutto il territorio comunale. E tutto questo in una visione dinamica che consente un costante aggiornamento.

Il sistema di regole che si chiama "nuovo piano regolatore" oggi finalmente approvato è il frutto di un impegno costante durato 14 anni: preceduto dalla conclusione di provvedimenti generali come la "variante di salvaguardia" e il "piano delle certezze", ispirati ai suoi stessi principi, è stato concretamente avviato nel 1998 ed è stato elaborato da circa duecento professionisti che, nel corso di dieci anni (1998-2008), hanno prestato la loro opera per ottenere questo risultato.

Molti sono tra i migliori professionisti d'Italia, professori universitari di chiara fama, urbanisti più giovani, esperti in ingegneria dei trasporti, paesaggisti, storici dell'arte, storici dell'architettura, archeologi, biologi vegetali, zoologi, geologi, dottori in agraria, esperti nelle discipline informatiche, esperti in economia urbana, demografi, esperti in valutazioni economiche, esperti in valutazioni ambientali, esperti giuristi.

Tra loro naturalmente la validissima squadra dei giovani e dei meno giovani delle strutture di supporto tecnico del Comune, la STA prima e Risorse per Roma poi. Sono tutti elencati con nomi e qualifiche negli atti pubblici prodotti e disponibili da molti anni sul sito del Comune di Roma.

Questa formidabile squadra di tecnici ha avuto il sostegno di tutta la amministrazione comunale, dai dirigenti dei vari settori a tutti i funzionari ed a tutti i dipendenti a vari livelli impiegati.

Senza naturalmente dire della dedizione e dell'impegno dei Sindaci, delle giunte, degli assessori e di tutti i consiglieri comunali e municipali, nelle assemblee elettive e nelle commissioni rinnovate per ben quattro volte durante il lavoro, che hanno sempre perseguito e raggiunto l'obiettivo con valutazioni largamente favorevoli.

Bisogna anche ricordare le centinaia di assemblee pubbliche, le settemila osservazioni scritte presentate. A tutti è stato dato ascolto ed a tutti è stata data risposta.

Alla fine il prodotto approvato dal Consiglio Comunale è stato valutato, in un consesso comune (la conferenza di copianificazione), con gli esperti urbanisti e giuristi della Provincia di Roma e della Regione Lazio.

Tutte queste persone hanno prestato la loro opera, che fossero dipendenti del Comune o di altri Enti, o che avessero incarichi specifici, con tutte le loro capacità ed energie, orgogliosi e convinti di partecipare ad un evento di alto valore civile.

Naturalmente non significa che il piano sia perfetto, perché tutto è sempre migliorabile, ma il lavoro, quando produce un patrimonio per tutti, merita rispetto. Un rispetto neppure lontanamente accennato nella trasmissione.

Tutti succubi dei nuovi re di Roma? Tutti ignoranti e deficienti?

Forse l'origine sta solo nell'ignoranza del tema trattato , nelle piccole ambizioni personali di alcuni giornalisti apologhi del "purché sia scoop", nutriti da un minuscolo gruppetto di vecchi oppositori del piano che hanno accumulato un astio sempre crescente, protetto da corazze di ideologie ormai corrose.

Resta il fatto che è stata offerta l'occasione di avvelenare uno dei più significativi risultati ottenuti dal ciclo dei governi cittadini di centrosinistra.

Un avvelenamento che ha dato un immediato sostegno a chi, per gli interessi derivati dai nuovi assetti politici, cerca di rimettere in discussione le regole introdotte con il nuovo Piano e, nel cavalcare l'onda, afferma che molto è sbagliato e che ora si dovranno sistemare le cose.

Il risultato ottenuto è una devastante opera di distruzione, qualunquista nella peggiore delle accezioni.

Come architetto ed urbanista, responsabile negli ultimi anni dell'ufficio che ha redatto il nuovo Piano, che ha firmato gli elaborati assumendone la responsabilità professionale, anche se mai citato, come nessuno degli altri protagonisti di questa battaglia di lungo periodo, mi ritengo oggettivamente coinvolto. Credo però di rappresentare un comune sentire, sulla base della straordinaria esperienza condivisa, di tutti coloro che, hanno contribuito alla redazione del piano.

Ognuno ha lavorato per costruire qualcosa di nuovo e di buono ed ha contribuito per la sua parte. Nascondersi più o meno vigliaccamente lasciando che il tema sia affrontato solo dal punto di vista politico, vuol dire avere paura della solidità e della correttezza delle tecniche e delle discipline. Non può esistere un risultato della portata del Piano di Roma senza il cosciente contributo di tutte le competenze professionali.

In questo senso ci sentiamo tutti diffamati. Per non essere stati neppure interpellati, sulla base del preconcetto che fosse inutile. Infatti saremmo tutti succubi dei "politici rapinatori". Ed ancora diffamati nel merito, perché le poche cose dette sul piano sono false, e falsamente rappresentate.

Postilla

Riportiamo l’articolo del Direttore dell’Ufficio del Nuovo piano regolatore di Roma durante le giunte guidate dal sindaco Walter Veltroni per puro desiderio di completezza d’informazione. Non troviamo argomenti che meritino di essere contraddetti. Non ci sembra una garanzia della correttezza politica e sociale del piano il fatto che, nel corso di 14 anni, vi abbiano lavorato duecento esperti di varie discipline. Non ci sembra che l’ampiezza dei dati accatastati sia una prova della validità delle scelte del piano. Non ci sembra un merito di questo specifico PRG il fatto di essere, in teoria, un sistema di regole uguale per tutti (e vorrei vedere che le norme fossero “personalizzate”!).

Mentre l’Unità pubblicava questo articolo, eddyburg ne pubblicava uno di Paolo Berdini (il giorno dopo comparso su il manifesto ) che costituisce un’utile puntualizzazione di fatti che Modigliani si guarda bene dal contraddire.

Risale a quarant’anni fa il processo intentato dalla potentissima Società generale immobiliare contro l’Espresso di Arrigo Benedetti per la campagna di denuncie di Manlio Cancogni sul sacco di Roma. Qualche giorno fa, l’ex assessore all’urbanistica di Roma ha querelato Report di Milena Gabanelli per il servizio sull’urbanistica romana firmato da Paolo Mondani.

Nella lunga memoria che accompagna la querela si affrontano molte questioni con una singolare premessa. Si contesta nel metodo la trasmissione perché affermava esplicitamente di voler parlare del nuovo piano regolatore e ha fatto invece vedere vicende precedenti al 2006, anno di approvazione del nuovo piano. Eppure è lo stesso assessore ad affermare che il nuovo Prg “è stato già attuato al 77%”. Evitiamo in questa sede di chiedere attraverso quali misteriosi poteri un piano appena approvato sia già pressoché concluso. Stupisce però la contestazione: per quindici ininterrotti anni ci siamo sentiti ripetere che il pianificar facendo era la chiave di volta della nuova urbanistica romana, poiché ogni intervento anticipava il nuovo disegno urbano. E ora che una breve trasmissione fa vedere il disastro urbanistico della città ci si offende perché non si è parlato del futuro! E’ il presente, purtroppo, che spaventa.

Nella stessa memoria si continuano inoltre a citare come straordinari successi cose assolutamente inesistenti. Vediamo. Si dice che le cubature previste nelle centralità urbane sono state ridotte in modo drastico. Non c’è stato nessun regalo alla rendita fondiaria, dunque. Ma non è affatto vero. Le due più grandi centralità ancora da attuare, Romanina e Madonnetta, avevano una destinazione pubblica nel precedente piano regolatore. Servivano insomma per costruire un liceo o un ospedale. Il nuovo piano regolatore ha trasformato quelle cubature da pubbliche a private. Le volumetrie sono state diminuite ma era il minimo che si dovesse fare e comunque sono state garantite enormi fortune private. Del resto, è lo stesso proprietario di Romanina a confessare a Report di aver acquistato nel 1990 l’area per 160 miliardi e che essa ne vale oggi 5 o 6 volte di più. Analoga vicenda vale per la centralità della Bufalotta. Anche in questo caso si afferma che le cubature sono state ridotte senza pietà per la proprietà fondiaria. Grazie tante. In quell’area si potevano fare soltanto capannoni e magazzini. E’ solo con uno degli infiniti accordi di programma che quelle stesse cubature –diminuite di poco- sono diventate ben più remunerative destinazioni commerciali e residenziali. Il fatto è che a Roma ci sono stati in questi anni due assessori all’urbanistica. Uno è quello “ufficiale” che oggi si avventura in una temeraria querela. L’altro era addetto agli accordi di programma e ne ha concretizzati molte decine, sempre in variante e sempre con il consenso di tutta la giunte municipale.

Eppure, si continua ad affermare che in questi anni alla rendita immobiliare sono stati inferti colpi devastanti. Negli anni del sacco di Roma è invece avvenuta un’inedita affermazione dei costruttori e immobiliaristi romani. Francesco Gaetano Caltagirone oltre a possedere Il Messaggero e il Mattino di Napoli siede nel cda del Monte dei Paschi di Siena. Un esponente della famiglia Toti siede nel consiglio di amministrazione di Rcs. Bonifici ha rilanciato e potenziato il quotidiano Il Tempo. Un costruttore romano, infine, è a capo dell’associazione di categoria nazionale. La rendita ha dunque trionfato. E non poteva essere altrimenti, perché negli anni del precedente governo Berlusconi, Roma insieme all’Istituto nazionale di urbanistica ha appoggiato convintamene la devastante legge Lupi che consegnava alla proprietà immobiliare il destino delle città.

Ancora. Per giustificare il diluvio di cemento che è stato inflitto alla città (70 milioni di metri cubi per una città che non cresce demograficamente!) abbiamo ascoltato in questi anni fino all’ossessione che eranostati vincolati per sempre 88 mila ettari di preziosa compagna romana”. Stavolta il falso era stato svelato dallo stesso comune di Roma. Fin dal 2002 l’assessorato ai lavori pubblici aveva infatti pubblicato uno studio sullo stato della città che certificava che erano rimasti liberi 80 mila ettari sui complessivi 129 mila. Eravamo in una data precedente all’approvazione del nuovo piano regolatore e dunque già si partiva da una quantità di campagna romana ben più piccola di quella sbandierata. A seguito della edificazione dei previsti 70 milioni di metri cubi di cemento verranno consumati non meno di 15.000 ettari di suolo. Resteranno vincolati a campagna romana 65.000 ettari di territorio: 23.000 in meno di quelli spudoratamente sbandierati.

Ma il cemento non vola via con i mantra, e i romani, mentre ascoltavano gli effetti annuncio di un futuro di verde, vedevano quotidianamente spuntare le gru del delirio di cemento armato che ci è stato propinato. Così hanno voltato le spalle a questa dissennata urbanistica. Molta parte della sconfitta elettorale sta qui. Basta guardare il voto in luoghi come Finocchio, dove a uno dei furbetti del quartierino è stato permesso di fare tutto ciò che voleva. O quello della Bufalotta, illusa di un meraviglioso destino e poi lasciata cinicamente nelle mani del mercato.

E infine. Nella periferia metropolitana di Roma, sono stati aperti in pochi anni ventotto giganteschi centri commerciali. Gran parte di essi sono sorti in deroga al piano regolatore utilizzando il grimaldello dell’accordo di programma. Sono dislocati per lo più lungo il grande raccordo anulare e impoveriscono le periferie perchè cancellano quel tessuto di piccolo commercio che è il principale connotato della vita urbana.

Pochi mesi fa, un gruppo di persone che attendeva lo scuolabus è stato investito da un’auto. E’ accaduto a Fiumicino, periferia abusiva metropolitana. Non c’era neppure un marciapiede di protezione e sono morti tre bambine e due mamme. A trecento metri brillano le vetrine del “Da Vinci”, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, nato, come ovvio, attraverso accordo di programma. Centinaia di ettari di terreno agricolo sono stati destinati ad edificazione. I proprietari dell’area hanno guadagnato in un solo colpo qualche centinaio di milioni di euro. Questa immensa fortuna privata non ha neppure prodotto il miracolo di realizzare un marciapiede che avrebbe potuto salvare cinque vite umane. Sono stati accesi tanti megastore e si è spenta una città intera.

Quarant’anni fa era la più potente società dei costruttori ad intimidire la stampa. Oggi è un personaggio della politica traghettato senza traumi dalla sinistra storica al centro che se la prende con una delle più libere e autorevoli espressioni del giornalismo nazionale. E’ un segno dei tempi su cui varrebbe la pena di riflettere: in entrambi i casi c’è di mezzo il sacco urbanistico di Roma.

L'articolo è uscito su il manifesto del 17 giugno 2008, col titolo Le gru del delirio del cemento armato a Roma

Si scrive VAS ma si legge «Valutazione ambientale strategica» ed è una delle tante, proficue norme che l’Europa ha immesso nel nostro ordinamenento. Infatti con la direttiva europea 42/2001/CE, la l.r. 12/2005, si è introdotto l’obbligo di accompagnare tutti i piani attinenti l’organizzazione del territorio, tra i quali il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, con la Valutazione Ambientale Strategica. Proprio il sito della Amministrazione Provinciale di Pavia spiega che la «procedura di VAS consiste nell’elaborazione di un rapporto relativo all’impatto sull’ambiente (rapporto ambientale), conseguente all’attuazione del piano, da redigere anche mediante lo svolgimento di consultazioni e la messa a disposizione delle informazioni».

E giustamente si sottolinea sempre, da parte dell’Amministrazione Provinciale di Pavia, come il cuore della VAS sia «la partecipazione, il confronto tra l’Amministrazione e i soggetti che sul territorio rappresentano interessi diffusi.»

Il progetto di realizzazione dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara, l’opera più ingente prevista nel corso del prossimo decennio sul territorio provinciale, costituisce ovviamente il banco di prova della VAS. Non a caso nella conferenza dei servizi del febbraio 2007 i sindaci dei Comuni coinvolti hanno deliberato un ordine del giorno che impegnava Infrastrutture Lombarde e la Regione Lombardia ad avviare una Valutazione Ambientale Strategica, una VAS appunto, dell’opera.

Adesso a poche settimane dall’assegnazione, che dovrebbe avvenire a luglio, della progettazione esecutiva dell’autostrada, è stato consegnato ai sindaci il ponderoso dossier che contiene lo «studio tecnico-scientifico sugli effetti ambientali e territoriali dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara». Per chi non è un addetto ai lavori, difficile comprendere se questo documento rappresenti la VAS, prevista dalla normativa europea e di cui parla il sito provinciale, o invece ne costituisca una sorta di interpretazione secondo il rito ambrosiano officiato dalla Regione Lombardia, sotto forma di una Valutazione Ambientale Sintetica - chiamiamola VAS bis - introdotta dal Pirellone e alla quale fa riferimento Infrastrutture Lombarde nel presentare il suo vasto studio redatto da una pluralità di soggetti di peso e autorevoli esperti.

Uno studio che parrebbe dimostrare come «le criticicità siano superabili» e dunque si possa sollecitamente procedere. Da osservatori esterni, non si può che dire come ora, con questo dossier, la palla sia passata ai sindaci che, si presume, staranno girando e rigirando le centinaia di pagine del documento chiedendosi, si spera, come farne tesoro. Da un lato dovrebbero disporre, davanti alla mobilitazione di competenze e professionalità schierate da Infrastrutture Lombarde, di un contrappeso scientifico ed analitico adeguato per verificare, dal loro punto di vista, che tutto sia stato obiettivamente analizzato e valutato. Dall’altro, realisticamente, conosciamo le risorse di cui i Comuni, soprattutto i più piccoli, possono disporre.

Il confronto che sarebbe auspicabile orchestrare su questo dossier sugli effetti ambientali e territoriali della futura autostrada rischia dunque di essere un dialogo tra dei nani senza voce contrapposti a un gigante di stentoree capacità. Questa dissimmetria, e i tempi strettissimi a disposizione, rischiano perciò di vanificare quell’auspicio alla partecipazione - che costituisce il cuore della VAS, intesa come Valutazione Ambientale Strategica - che non si capisce se batte anche nel cuore della VAS bis. Ovvero della Valutazione Ambientale Sintetica.

Il timore è che la «sintesi» in questo caso si traduca - se non viene declinata anche in partecipazione effettiva - in un tagliar corto, nel tacitare suggerimenti, nello stoppare alternative che magari sarebbe proficuo per tutti soppesare. Compito dei sindaci coinvolti e soprattutto dell’Amministrazione Provinciale e del suo presidente è dimostrare a questo punto, con una mirata ed efficace opera di comunicazione verso i cittadini, che non è così. Le prossime settimane consentiranno di capire se questa, della partecipazione è la strada scelta. O se invece, pressati dalla fretta, ci si è incamminati su un altro viottolo.

Dimentichi del proverbio secondo cui «da soli si va veloci. In compagnia si va lontano».

Nota: per qualche informazione in più si veda in allegato la Reazione Tecnico-Ambientale della Provincia di Pavia sull'Autostrada; per questo progetto (e le altre devastanti trovate degli sviluppisti indigeni) abbondano naturalmente i riferimenti, in questa stessa cartella SOS Padania (f.b.)

Milano, la Milano dell´Expo 2015, non si sente grande metropoli o almeno non le interessa aderire all´Associazione mondiale delle grandi metropoli (www. metropolis. org). A dire il vero, tra le città italiane vi ha aderito c´è solo Torino mentre in tutto il mondo sono un centinaio ed in Europa tutte le capitali e molte città di primo piano. Peccato perché chi vi aderiva era invitato a partecipare alla sesta sessione del Congresso internazionale di urbistica che si è svolto ad Hammamet. L´urbistica è una disciplina nata nel 1986 al Crem (Centro ricerche energetiche) di Martigy e si è sviluppata nei Paesi francofoni - Francia, Svizzera e Canadà - ma ora è coltivata da tutte le grandi metropoli del mondo. In breve, si tratta di concepire la città come un sistema complesso fatto di edifici, strade, piazze ma anche di reti fisiche - elettricità, acqua, fogne, cablaggi, trasporti - e di cittadini e loro organizzazioni politiche e sociali: un sistema che deve essere gestito unitariamente ed in maniera integrata. Quello che gli urbisti definiscono un approccio sistemico.

In parole povere gli urbisti partono da un´idea di fondo: gli eletti e con loro chi gestisce la città hanno l´obiettivo di fornire agli abitanti ed alle imprese le risorse ed i servizi essenziali al buon funzionamento delle attività urbane. Tutto questo deve coniugarsi con una buona qualità della vita, con una forte attenzione ai problemi ambientali e di risparmio delle risorse non riproducibili a cominciare dal suolo. L´obiettivo sotteso a tutto questo è di rendere la "macchina città" affidabile e sicura: sicura da tutti i punti di vista e non solo quello caro al nostro vice sindaco. Affidabile e sicura vuol dire che non rischio di morire in un´ambulanza imprigionata nel traffico, che in agosto non ho blackout elettrici per il sovraccarico dovuto ai condizionatori, che i lavori stradali sono gestiti in modo da dare il minimo di fastidio, che una piccola epidemia d´influenza non fa collassare il sistema sanitario, che i sistemi informatici della pubblica amministrazione non vadano in tilt, che i dati d´informazione sulla città siano raccolti sistematicamente e con programmi che possano integrarsi reciprocamente. Vuol dire pensare a dei bypass per ogni importante funzione. Vuol anche dire che la città va osservata attentamente nei suoi cambiamenti sociali per evitare le emergenze (salvo che non le si voglia cavalcare), anche quelle sociali come i cinesi di Paolo Sarpi o i campi rom. Vuol dire accorgersi che gli alloggi degli studenti mancano prima che il mercato nero degli affitti li strangoli. Vuol dire avere un programma di comunicazione e d´informazione permanente con i cittadini, scambiare buone pratiche, competenze, formazione e coinvolgimento degli attori singoli e collettivi della vita della città. Vuol dire conoscere, integrarsi, ed approfittare di tutte le tecniche e di tutti i saperi ormai diffusi ma separati come sono separate e spesso contraddittorie le attività della pubblica amministrazione. Nei Paesi che dell´urbistica hanno fatto uno strumento di crescita stabile ed ordinata, questa competenza è affidata al city-manager. Vogliamo pensarci anche a Milano?

Gli architetti dovrebbero essere più attenti quando citano, per giustificare (fondare sarebbe vocabolo troppo impegnativo) le proprie scelte estetiche e le proprie inutili bizzarrie, il pensiero filosofico dell'ultimo secolo parlando a caso di nihilismo o di decostruzionismo: quest'ultimo vocabolo in particolare, sono convinto, ha suscitato grande interesse per via del riferimento alla costruzione ed all'idea di differenza ma nello stesso tempo con una scarsa capacità di comprensione della filosofia francese degli anni Settanta.

Purtroppo il dibattito intorno alle diverse teorie e fondamenti della cultura architettonica è, da qualche decennio, andato in frantumi e utilizzato sovente da parte degli architetti in modo autopromozionale, che riduce spesso i principi a slogan pubblicitari. Né bisogna dimenticare che è mutato il posto che gli architetti occupano nell'immaginario sociale (ma è anche mutata la natura della loro professione) un luogo che si è spostato verso quella categoria di successo a cui appartengono stilisti della moda, designer, parrucchieri o i protagonisti del mondo mediatico. All'equilibrio antico tra pensare, costruire e figurare l'ultimo termine ha preso il sopravvento, sospinto soprattutto dal vento del mercato e del consumo.

Altrettanto prudenti dovrebbero essere gli architetti nelle imitazioni che estetizzano i risultati delle tecnoscienze, o quelli dei metodi di altre pratiche artistiche (compresa la narrativa), tutte cose di grande interesse in cui il dialogo è però utile e possibile solo a partire dalle differenti specificità.

In queste condizioni di incertezze e confusioni è del tutto naturale che tornino a farsi sentire le vecchie resistenze conservatrici che erano state prodotte più di mezzo secolo or sono, certo con altra robustezza teorica (si vedano i celebri testi di Hans Sedlmayr) resistenze giustificate anche dal ripetitivo trasbordare nei nostri anni dei progetti e delle realizzazioni verso il grottesco, sino al limite della caricatura.

Tutto questo tenendo conto che gli esiti, sovente contraddittori, delle teorie urbane proposte dal razionalismo quali la divisione delle aree per funzioni sono state sottoposte a critica positiva da più di trent'anni, senza per questo contraddire gli ideali del progetto moderno.

Ciò che oggi non dove essere sottovalutato è anche il successo di pubblico, certamente indotto anche dalle comunicazioni mediatiche, al di là degli interessi pubblici e privati, intorno al valore di immagine di marca che viene attribuito all'edificio, in quanto oggetto ingrandito; naturalmente nel totale disprezzo per il disegno urbano e per la dialettica con il contesto che è uno degli argomenti più diffusi in questo tipo di architettura post-postmoderna.

Al di là del riferimento stilistico, prima alla storia in senso del tutto generico poi ai linguaggi dell'avanguardia (compresi i procedimenti di bricolage) ampiamente riutilizzati e la cui unica novità è il rovesciamento del senso oppositivo che li caratterizzava, è infatti proprio l'ideologia della postmodernità come cultura del tardo capitalismo (interpretata dagli architetti) che descrive appieno le ragioni della attuale scrittura architettonica di successo, compresa la progressiva disgregazione di una cultura antica capace di immaginare alternative. Si tratta cioè, per quanto riguarda la maggior parte dell'architettura di successo mediatico dei nostri anni, di una forma di rispecchiamento realista dei valori, dei comportamenti e dei desideri della nostra condizione postsociale. E non è cosa da poco.

Attuare di fronte a tutto questo una resistenza critica capace di proposte civili è difficile ma anche indispensabile, se vogliamo continuare il nostro compito di costruire poeticamente; tutto questo senza alcun interesse per inutili ritorni al passato, ma anche senza dimenticare che il terreno della storia è quello su cui camminiamo e costruiamo: anche se non ci dice nulla sul cammino da prendere per immaginare, per l'architettura e per la società, possibilità altre.

Giuseppe Boatti, col suo intervento su Eddyburg del 10 aprile ha portato all’attenzione di politici, amministratori, urbanisti ed associazioni ambientaliste la situazione allarmante per la pianificazione urbana lombarda a seguito dell’ennesima variante apportata alla legge regionale per il governo del territorio, ossia la LR 12/2005. Con le nuove disposizioni la regione disapplica il DM 2 aprile 1968 n. 1444, fatta salva, negli interventi di nuova costruzione, la distanza tra gli edifici, la quale però è derogabile all’interno dei piani attuativi! Si è trattato di un colpo di spugna col quale si è voluto mettere decisamente fine alle conquiste dell’urbanistica riformista che mirava a porre fine alla carenza di standard e ad una organizzazione caotica delle città. La vita difficoltosa di questo decreto ministeriale è nota. Sempre avversato dalle rendite immobiliari è stato via via attaccato dall’urbanistica neoliberista, unitamente al modello di pianificazione a cascata previsto dalla L. 1150/1942.

In Lombardia la sua applicazione nella legislazione regionale ha retto fino ai primi anni 2000. Il primo significativo attacco risale infatti al 2001, allorquando venne approvata la L.R. 15-1-2001 n. 1. È con questa legge infatti che la Regione, a guida Formigoni, cominciò ad intervenire in modo strutturale sulla pianificazione locale per avviare un processo di sua progressiva e radicale modifica in senso neoliberista. Tra i principi costitutivi della legge vi era l’assunzione di “metodi di valutazione ispirati a principi di libertà nella gestione del territorio, sintetizzabili nella nozione ‹‹ quello che non è espressamente vietato è ammesso›› (DGR n 7/7586 del 21/12/2001) e l’introduzione della nozione di “interesse generale” accanto a quella di “interesse pubblico” per giustificare l’ingresso formale e paritetico dei privati nella gestione del territorio e dei servizi pubblici. Essendo la nuova legge ispirata a principi del tutto nuovi, si dichiarava esplicitamente il superamento della “disciplina vincolistica” contenuta nel DM 1444/68, in particolare i disposti del decreto ministeriale in materia di standard che dovevano essere considerati “superati in toto” (Circ. 13-7-2001 n. 41 dell'Assessorato al Territorio e Urbanistica).

Si eliminò anzitutto l’obbligo dello zoning (la nuova normativa distingueva il territorio comunale in due ambiti: le aree edificate e le aree di espansione ed i lotti liberi) e si introdusse ufficialmente nella legislazione urbanistica lombarda l’obbligo del ricorso al Piano dei servizi, uno strumento che era già presente in alcune elaborazioni locali connesse ai Programmi integrati di intervento, ma che ancora non disponeva di una veste giuridica. Si deliberò così il passaggio dallo standard “quantitativo” allo standard “prestazionale” al fine di inserire “a pieno titolo nel dibattito sulla concorrenza dei territori” uno strumento appropriato per rendere competitivo il territorio, sintetizzabile nel concetto di “marketing territoriale” (DGR n 7/7586 del 21/12/2001). Si demandò dunque ai Comuni il potere di definire l’individuazione dei servizi reputabili, ai fini urbanistici, quali standard e si legiferò intervenendo sul dimensionamento del PRG, dando ad essi la possibilità di ridurre fortemente gli obblighi vigenti connessi alla quantificazione delle aree da destinare a standard. Queste modifiche furono apportate senza che nessun Comune battesse ciglio e ignorando le proteste delle Organizzazioni Sindacali degli inquilini. Anzi, molti Comuni, pur potendo mantenere nei propri PRG e nei piani attuativi dotazioni maggiori (la legge fissava i valori minimi al di sotto dei quali non si poteva scendere), hanno in genere optato per ridurre all’interno delle NTA e del Piano dei servizi, le aree da destinare a standard regalando alle rendite immobiliari significative aree per l’urbanizzazione.

Con le recenti modifiche alla legge regionale lombarda per “il governo del territorio” si aggiunge quindi un altro tassello ad un processo di delegificazione che la regione Lombardia pratica da diversi anni e che, unitamente ad una interpretazione leghista del principio di sussidiarietà, devolve ai Comuni, senza più un quadro di riferimento generale, responsabilità crescenti anche in ambito della pianificazione del territorio. Va da sé che in presenza di una pianificazione di vasta area indebolita, i Comuni, lasciati ora liberi di decidere ognuno per proprio conto, accentueranno nella pianificazione locale le spinte concorrenziali territoriali mettendo a disposizione delle infrastrutturazioni connesse al terziario e commercio (logistica e media distribuzione) e delle espansioni residenziali quote crescenti di aree non urbanizzate. E poiché al peggio non c’è mai fine, ora sta venendo avanti un progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale (Pdl 0226) riguardante le “infrastrutture di interesse concorrente statale e regionale”, in cui, oltre a prevedere il ricorso a poteri sostitutivi da parte della Regione “in caso di inerzia dei competenti organi statali e qualora il ritardo arrechi pregiudizio”, si concede ai costruttori la possibilità di finanziare le opere costruendo lungo le fasce laterali delle autostrade (art.10, comma 3) al fine di ottenere maggiori introiti e ammortizzare più facilmente gli investimenti, con buona pace del consumo di suolo (vedere articolo di Bottini - Eddyburg 15 aprile). Gli emendamenti presentati nelle Commissioni ignorano completamente questa problematica.

Ma tornando alla disapplicazione del DM 1444/68, Boatti fa presente nel suo intervento il silenzio con cui è passato in Regione l’emendamento. Vogliamo a questo proposito ricostruire anche il modo con cui la Giunta regionale lo ha imposto al Consiglio, secondo una prassi ormai invalsa di sottrarsi in Commissione a un dibattito trasparente e di calare in Consiglio testi di difficile comprensione. All’assessore, per regolamento, è consentito di presentare emendamenti direttamente in aula al testo licenziato in Commissione, mentre ai consiglieri corre l’obbligo di presentare i testi 24 ore prima, in modo che siano a tutti noti. Così, nel pieno del dibattito, sono stati calati “emendamenti tecnici” stesi in modo criptico, con citazioni di numeri e date di articoli di decreti e leggi da modificare, di cui era impossibile rilevare tutta la portata senza una indagine preventiva. L’attenzione era tutta dedicata all’”emendamento ammazzaparchi”, il cui ritiro aveva assorbito l’attenzione di tutta l’opposizione e è parso ininfluente l’”emendamento tecnico” che ha effetti così pesanti sulla normativa. E’ una disattenzione comunque colpevole, ma vorremmo qui porre i rilievo un venenum in cauda che tradisce le regole.

Come Gruppo regionale di Rifondazione comunista assicuriamo il nostro impegno affinché non venga ulteriormente peggiorata la LR 12/2005 e garantiamo che ci batteremo nelle Commissioni regionali e in Consiglio al fine di impedire che passi il progetto di legge sulle infrastrutture. Per dare forza a queste iniziative è indispensabile ancora una volta la mobilitazione di associazioni, movimenti e urbanisti. Una mobilitazione come quella che di recente ed alla quale ha dato un notevole contributo anche Eddyburg, ha permesso di impedire l’ennesimo assalto delle rendite immobiliari ai parchi lombardi. Una mobilitazione che sembra già essere in campo attraverso una petizione per il ritiro del progetto di legge n. 226/2007 che ha raccolto in breve tempo numerose adesioni e che anche noi sottoscriviamo e sosteniamo.

Per la più contestata delle opere volute dall'ex sindaco Walter Veltroni, il parking sotterraneo del Pincio — sette piani interrati nel colle, con ingresso delle auto dagli emicicli ottocenteschi del Valadier su piazza del Popolo — si profila un non-futuro. Nella migliore delle ipotesi, un ridimensionamento con varianti del progetto e riduzione dei posti auto previsti (circa 700) a causa dei recenti ritrovamenti archeologici che i responsabili della Soprintendenza definiscono «più estesi di quanto rivelato dai sondaggi » (una riunione tecnica decisiva è annunciata a giorni). In sintesi, si tratta di strutture murarie con quote di profondità ancora da capire a fondo e un criptoportico del I secolo avanti Cristo. Osteggiato in campagna elettorale dal sindaco Alemanno (An e Forza Italia votarono sempre contro l'opera quando erano all'opposizione), criticata da alcuni comitati cittadini, da molti celebri intellettuali, da «Italia Nostra», da esponenti dei Verdi, il parcheggio, secondo quanto detto dal neoassessore comunale alla Cultura Umberto Croppi, «semplicemente non si farà».

Addio al parcheggio voluto da Veltroni

Antiche strutture, muri e un criptoportico, non si sa bene ancora quanto profondi. La Soprintendenza archeologica: «I resti più estesi di quanto emerso nei sondaggi fatti quattro anni fa». Per il futuro del parking, lo stop o una considerevole riduzione del progetto

Prima ipotesi, tecnica, una variante di progetto, con «significativa riduzione dei posti auto». E a dirlo sono gli archeologi. Seconda ipotesi (ma è molto di più che un'ipotesi) uno stop definitivo del Comune all'opera più contestata — e spericolata secondo i suoi numerosi critici — dell'ex giunta Veltroni: il parcheggio sotterraneo del Pincio, 700 posti auto interrati in sette piani da scavare nel cuore del colle più famoso di Roma, con rampe di accesso per auto sugli eleganti emicicli ottocenteschi disegnati da Valadier e uscite pedonali, bocchettoni, prese d'aria ecc. sulla terrazza panoramica. Il «parking della vergogna», come recita un'enorme scritta vergata da qualche anonimo writer sulla palizzata che delimita il cantiere in corso.

Che alla nuova giunta guidata dal sindaco Alemanno non piacesse il progetto-Pincio è cosa nota. Lo stesso primo cittadino lo aveva più volte detto in campagna elettorale. Da ricordare, inoltre, che tra i più acerrimi nemici dell'opera, c'è sempre stata l'ex opposizione in Campidoglio, oggi maggioranza, compresa la pattuglia di An nel vecchio consiglio del primo Municipio, centro storico, di cui era capogruppo Federico Mollicone, oggi eletto consigliere comunale. E oggi è un assessore, Umberto Croppi, responsabile della Culturali, che in tutt'altro contesto, interpellato sul tema, a domanda ha risposto: «Il parcheggio del Pincio non si farà». Secco. La notizia non è da poco. La domanda, per sicurezza, viene riformulata. Stessa risposta: «Può tranquillamente attribuirmelo, nessun problema». Esulterà Italia Nostra, acerrima nemica di quel progetto. Esulteranno molti cittadini. E quei tanti intellettuali, urbanisti, storici dell'arte, ambientalisti, che nel corso degli anni hanno firmato petizioni e appelli (inascoltati, fino all'oggi): da Salvatore Settis a Italo Insolera, da Vezio De Lucia a Marisa Dalai Emiliani, da Anna Coliva a Fulco Pratesi. Ma a mettersi di traverso alle ruspe (operative solo dal novembre scorso) della Sac — società del costruttore Cerasi da sempre considerato vicinissimo al duo Rutelli Veltroni che vinse l'appalto — c'è anche l'archeologia.

Previsti, paventati, annunciati dalle tante «voces clamantes in deserto » (sempre minimizzate dalle istituzioni) i ritrovamenti ci sono, eccome. E oggi, a scavo avviato, risultano già «di entità ed estensione maggiore, indubbiamente, di quanto ipotizzato». Parola di archeologi. Sul tema, così interviene il soprintendente di Stato all'archeologia di Roma Angelo Bottini: «L'esito su una parte del sito è positivo. Grandissime novità non ce ne sono. Un criptoportico interrato, strutture di età imperiale, marginali per ora rispetto a un antico complesso sul Colle. Stiamo comunque approfondendo la questione, per fare un quadro completo e il punto della situazione ci sarà un incontro a giorni. Può parlare con la direttrice dello scavo per saperne di più».

La direttrice dello scavo è l'archeologa Maria Antonietta Tomei, che conferma quanto detto dal soprintendente, e soprattutto chiede che siano evitati inutili clamori e anticipate decisioni ancora da prendere: «Tra qualche giorno ne sapremo di più». Sullo stato attuale dello scavo (almeno quattro gli archeologi impegnati ogni giorno nel cantiere) qualcosa aggiunge. Alla lettera: «Strutture antiche di notevole estensione, primo secolo avanti Cristo, fine età repubblicana con vari rifacimenti più tardi, ora bisogna capire quanto sono profonde, quanto si estendono, siamo in fase di interpretazione. Esiste un criptoportico, ancora non scavato. Sì, i resti sono più estesi di quanto visto e constatato anni fa dai sondaggi. Ora occorre capire come queste strutture si collocano, il piano di profondità, le quote, per ora il tutto sembrerebbe ancora compatibile con i solettoni, ma si stanno facendo verifiche. Si può adeguare il progetto, con solettoni più bassi. Ciò comporterebbe una riduzione di posti auto. Ma ancora per qualche giorno è tutto prematuro».

Breve storia del parking più odiato

Storia travagliatissima, quella del parking nelle viscere della collina del Pincio, opera che nel 2004 — 29 luglio — l'allora sindaco Veltroni, parlando di «riconquista della parte più bella di Roma», annunciò «pronta nel 2007».

Cavallo di battaglia della maggioranza nella scorsa consiliatura, considerato opera propedeutica e necessaria per una pedonalizzazione del cosiddetto Tridente, il parking è sempre stato difeso da chi lo ha voluto e pensato nonostante una marea di critiche e un'opposizione che fu, anche politicamente, trasversale. Nel 2006, ad esempio, un ordine del giorno del primo municipio (consultivo e non vincolante) per la costruzione del parcheggio fu sì approvato, ma i no arrivarono, oltre che Forza Italia, An e Udc, anche dai Verdi. All'epoca, tra le prime e più tenaci oppositrici del progetto, la giovane consigliera municipale dei Verdi Francesca Santolini, oggi assessore nello stesso municipio a guida Orlando Corsetti, che «sparigliò» la maggioranza arrivando anche, e siamo al febbraio 2008, a scrivere una lettera aperta all'allora ministro per i Beni culturali Rutelli, in procinto di candidarsi di nuovo a sindaco, contro l'opera monstre.

Ricostruire lo «storico» di quest'opera, contro la quale nel tempo si sono schierati anche, oltre a Italia Nostra, vari comitati di cittadini, «Rosa nel Pugno» e l'ex presidente del Consiglio della Provincia Adriano Labbucci (Sinistra democratica) non è cosa facile. La primogenitura del progetto, stando alle cronache, è dell'allora presidente della Sta (società per la mobilità del Campidoglio poi fusa in Atac, che è il committente dell'opera) Chicco Testa (tramontarono presto le alternative Borghetto Flaminio e piazzale Flaminio, mentre si parlava anche di un analogo parcheggio sotto il Colle del Quirinale). Tra i grandi sostenitori del progetto anche Fulvio Vento, attuale presidente di Atac spa, ex sindacalista e manager comunale vicino a Rutelli e Veltroni.

I costruttori

Gara europea vinta dalla Sac

È una delle famiglie di imprenditori considerate più vicine al centrosinistra a gestire i lavori per il parcheggio del Pincio. La gara europea bandita dall'Atac era stata vinta infatti dalla Sac di Claudio Cerasi.

L'azienda è guidata da Emiliano Cerasi, figlio di Claudio, che peraltro siede nella giunta esecutiva dell'Associazione costruttori edili romani con la carica di presidente del Comitato promotori.

Esponenti della famiglia Cerasi in questi anni non sono mai mancati alle cene elettorali di Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Fra i vari lavori hanno partecipato alla costruzione del Maxxi (insieme alla famiglia Navarra). A conferma del forte legame fra la vecchia amministrazione e la dinastia dei costruttori, il Comune di Roma, con Veltroni sindaco, qualche mese fa ha indicato come amministratore delegato della Fiera Ottavia Zanzi, moglie appunto di Emiliano Cerasi, nomina considerata in quota Margherita.

Recentemente la Sac ha vinto la gara per la realizzazione del nuovo auditorium di Firenze, opera da un centinaio di milioni di euro finanziata all'interno del programma di interventi infrastrutturali per i festeggiamenti dei 150 anni dell'Unità di Italia, programma avviato da un comitato presieduto dall'allora ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli.

Postilla

Come diceva Deng Xiao Ping, non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che prenda il topo. Siamo contenti che la giunta Alemanno abbia mangiato l’orrendo topo inventato dalla giunta di Veltroni (e dai suoi “ambientalisti del fare”). Ha avuto ragione il Corriere della sera a dare la notizia con ampiezza nella sua edizione romana, a partire dalla prima pagina. Non l’abbiamo trovata sull’edizione romana dell’altro grande quotidiano nazionale che frequentiamo,la Repubblica. L’adesione al leader del PD è così forte, nel quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, da indurlo a errori giornalistici così clamorosi? Nascondere sotto il tappeto gli errori dei propri amici non è cosa bella, né utile agli stessi che si vogliono coprire.

Costruttori che minacciano licenziamenti se non si superano le rigidità dei vincoli imposti dal Piano paesaggistico. E pratiche per il rilascio di concessioni comunali praticamente bloccate «causa Ppr». Ad un mese dallo stop degli incontri di “copianificazione” tra Regione e Comune, il caos edilizia rischia di deflagrare. Il Comune ormai riduce all'osso le autorizzazioni per non incorrere in violazioni di legge. Nell'incertezza applicativa - e in attesa dell'adeguamento del Piano urbanistico comunale - uno dei costruttori più “colpiti” dalla nuova disciplina paesaggistica, Antonio Puddu, compra una pagina del quotidiano locale L'Unione Sarda per avvertire: «Siamo costretti a licenziare 60 lavoratori su 130». Il suo progetto di realizzare due palazzi di sei piani via Caboni è fermo dal 2 gennaio per un sequestro penale: il comune aveva concesso la licenza entro la fascia vincolata dei cento metri da un bene paesaggistico, il fortino militare tra via Caboni e via Ravenna, tutelato dal Ppr. Da lì i sigilli, confermati anche da un collegio di giudici in sede di Riesame. Ma senza palazzi, niente occupazione. Da quando il tavolo tecnico Regione-Comune-Soprintendenza è fallito, il 12 maggio scorso, con la richiesta di un parere da parte della soprintendenza all'Avvocatura, nulla si è mosso. I grandi cantieri privati autorizzati in zone indicate come di pregio paesaggistico o “identitario” dallo strumento urbanistico regionale, sono sospesi, su decisione della magistratura o dello stesso comune. Oltre a via Caboni e via Ravenna, è ferma anche la ristrutturazione dell'ex Biochimico di via Dante, mentre indagini sono in corso sui lavori in via dei Falconi. Perché la magistratura ha dato un'interpretazione letterale del Piano: le opere autorizzate in zone vietate dal Ppr sono abusive, salvo modifiche al Ppr. Secondo il comune le licenze rilasciate e poi sospese dall'amministrazione sarebbero, invece, almeno sessanta. Se il dirigente del servizio Edilizia privata, Mario Mossa, interpellato sullo stop nel rilascio delle concessioni preferisce il silenzio, è l'assessore all'Urbanistica, l'architetto Gianni Campus, ad ammettere con candore: «Sapevamo che sarebbe successo: l'attività degli uffici è rallentata per forza di cose a causa della maggiore complessità della procedura scaturita dal Piano. Siamo immersi in un bagno di dubbi. Ma tra diventare responsabili di una mancanza amministrativa (non rilasciare autorizzazioni, ndr), e rilasciare concessioni che poi potrebbero costituire un illecito penale, va da sé che si sceglie la prima». Secondo i dati che il servizio Edilizia privata avrebbe fornito al costruttore Puddu (si legge sulla pagina a pagamento), nei primi cinque mesi del 2008 «il comune ha rilasciato 44 concessioni edilizie contro le 77 dello stesso periodo del 2007, e 87 in quello del 2008». Puddu cita i sigilli chiesti e ottenuti dal pm Andrea Massidda: «Il nostro cantiere di via Caboni è stato posto sotto sequestro proprio a causa di una presunta violazione delle norme del piano che ancora oggi stentiamo a capire. Quanto accaduto ha portato al fermo di quasi tutti i lavori edili ed alla sospensione di ogni decisione sul rilascio delle concessioni edilizie, tra cui alcune nostre».

Postilla

Avete un’idea di che cosa sono diventate le più belle coste della Sardegna per effetto di quelli che Antonio Cederna chiamava “gli energumeni del cemento”? Hanno svillettato i più bei paesaggi del mondo. Hanno costruito mostri più brutti del Fuenti e di Punta Perrotti (conoscete il lussuoso Cala di Volpe? andateci per inorridire). Se sapete che cosa hanno fatto e come hanno distrutto un bene prezioso dell'umanità, considererete anche voi il lamento del costruttore Puddu una buona notizia.

Sabato 14 giugno, dalle 10 alle 16, alla sala conferenze del Teatro Donizetti di Bergamo, si tiene l’assemblea costitutiva della Rete lombarda dei Comitati per la difesa del territorio e dell'ambiente. Introdurranno la manifestazione Ezio Locatelli e Mario Agostinelli, e interverrà Alberto Asor Rosa.

Come eddyburg aveva auspicato l’esempio della Rete toscana si sta estendendo. Dopo una regione il cui passato ha lasciato patrimoni considerevoli custoditi per secoli e solo recentemente abbandonati al degrado, scende in campo una regione in cui da decenni dominano ideologie distruttive.

La costituzione della Rete lombarda vede svolgere un ruolo centrale sia alle componenti storiche dell’ambientalismo di sinistra sia al recente movimento per la tutela dei parchi regionali, cui eddyburg ha fornito tutto il suo sostegno. Auguri alla nuova Rete, di cui pubblichiamo il manifesto e, in calce, le firme dei promotori.

VERSO LA COSTITUZIONE DELLA RETE LOMBARDA DEI COMITATI PER LA DIFESA DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE

Il grado di vivibilità e di sostenibilità ambientale del territorio lombardo sta notevolmente peggiorando. Questo è quanto dice tutta una serie di indicatori che attestano uno scadimento dei parametri relativi alla qualità dell’aria, sistemi di trasporto, rifiuti, qualità dell’acqua, siti contaminati, inquinamento acustico, inquinamento elettromagnetico, cementificazione.

Siamo in presenza di una situazione di degrado e di crisi ambientale che non è solo conseguenza di un dato quantitativo determinata dall’alta densità degli insediamenti produttivi, residenziali, o di modelli di consumo e di trasporto individuali. Questa situazione è anche e soprattutto il frutto di una politica orientata all’abbandono di strumenti di programmazione e di governo del territorio, di una politica orientata a dare preminenza all’interesse privato rispetto all’interesse pubblico. Ed ancora, nel corso di questi anni abbiamo assistito ad una politica di sviluppo fondata su un’idea di crescita senza limiti, rivolta a rilanciare la Lombardia come “territorio della competizione e del consumo” tramite una piena valorizzazione economica - meglio sarebbe dire pieno sfruttamento - dei fattori del territorio: ambiente, risorse naturali, beni comuni, servizi. Questo è il rischio cui è esposto, in definitiva, il progetto di Expo 2015 presentato come un progetto che mette al centro i temi agroalimentari e energetici, Expo può diventare il paravento dietro cui nascondere una nuova ondata di speculazioni immobiliari, cementificazioni, realizzazioni di grandi opere, autostrade, alta velocità.

Di contro a questo modello di sviluppo, che è causa di distruzioni ambientali sempre più vistose e visibili, si sono costruite nel corso degli anni una molteplicità di iniziative di denuncia, di dibattito, di mobilitazione. Iniziative ambientali e pratiche di partecipazione per lo più agite sul piano locale, rivolte a difendere i propri territori dal saccheggio e dalle privatizzazioni. Noi riteniamo che queste pratiche e iniziative territoriali, al di là di essere una risposta fondamentale sul terreno della difesa della qualità della vita e della salute, rappresentino un potenziale di cambiamento, la possibilità di delineare un altro modo di fare economia, di intendere lo sviluppo non più incentrato sulla crescita fine a se stessa, ma basato sulla capacità di interagire positivamente con i cicli ambientali. Un’ idea di sviluppo qualitativo capace di ridurre e recuperare rifiuti, di fermare la cementificazione e le grandi opere speculative, di affermare il diritto alla mobilità nei termini di un rilancio delle diverse forme di trasporto pubblico e collettivo, di approntare una politica energetica fondata sul risparmio e le fonti rinnovabili, di attuare una politica di risanamento territoriale, di riuso urbano e di difesa dei beni comuni, di contrastare i cambiamenti climatici, tema quest’ultimo per il quale è prevista l’importante manifestazione nazionale del 7 giugno a Milano.

I comitati, le diverse realtà associative che operano sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente possono rappresentare - laddove la politica tradizionale allo stato attuale registra e segnala una sua crisi profonda di rapporto con l’insediamento sociale - un terreno di ricostruzione di una nuova stagione di partecipazione, di vertenze in direzione di una difesa durevole delle risorse ambientali e territoriali, di un ripensamento del nostro modello di sviluppo. Unitamente al riconoscimento e alla valorizzazione piena di tutti i contributi e le sollecitazioni che sono proprie di una politica di prossimità, ci sembra altrettanto importante costruire la dimensione di una riflessione e di un intervento più a carattere regionale attraverso la condivisione di obbiettivi comuni e molteplici.

A tal proposito, come persone, comitati, organismi impegnati a vario titolo sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente, nonché della difesa dei beni comuni, proponiamo un incontro regionale per dare vita ad una rete aperta a tutti gli interessati - come già avviene in Toscana e in altre regioni - quale strumento di supporto alle forme di partecipazione, di mobilitazione, di vertenze presenti a livello locale.

Promotori

Mario Agostinelli (Consigliere regionale e Portavoce contratto mondiale energia), Ezio Locatelli (già Consigliere regionale e Parlamentare, comitati ambientalisti) Pino Vanacore (portavoce Unaltralombardia), Luigi Mara (Centro per la Salute Giulio A. Maccacaro), Domenico Finiguerra (Sindaco Cassinetta di Lungagnano), Bruno Muratore (ex Dirigente Regione Lombardia-settore Agricoltura), Ivana Brunato, (Camera del Lavoro - Varese), Giorgio Ferraresi (Politecnico di Milano), Gianni Beltrame (Professore di urbanistica), Francesco Chiodelli (dipartimento architettura e pianificazione del Politecnico di Milano), Francesco Macario (urbanista nonché assessore al Comune di Bergamo), Fausto Amorino (Assessore all’ambiente al Comune di Bergamo),Marco Caldiroli (Medicina Democratica), Andrea Di Stefano (direttore rivista Valori), Franco Morabito (Presidente Circolo Peppino Impastato Paullo), Antonio Frascone (Unaltralombardia Magenta), Paolo Cagna Ninchi (Unaltralombardia Milano), Massimo Tafi (esperto di comunicazione, Varese), Livio Muratore (Cgil Varese) Bianca Dacomo Antoni (Lista Fo), Luca Trada (No expo), Sergio Finardi (Attac Italia), Andrea Savi (Associazione ex Fornace Rho), Antonio Corbelletti, (Rete Green, Pavia), Dijiana Pavlovic (cittadina italiana, Comunità Rom), Salvatore Amura (Vicepresidente Associazione Rete Nuovi Municipi), Roberto Fumagalli (Presidente Circolo ambientale “Ilaria Alpi” Merone-Como), Nicoletta Pirotta (Territorio precario-Como), Massimo Patrignani (Forum Ambientalista), Maurizio Mazzucchetti e Marina Zanella (Comitato contro l’interporto di Montello), Matteo Gaddi (Associazione culturale Punto Rosso), Davide Biolghini (Lilliput Milano), Rolando Mastrodonato (Vivi e Progetta Milano), Amalia Navoni (Comitato San Siro Milano), Franco Azzali (Lega Cultura di Piadena), Roberto Molinari (Forum Sinistra Canegrate), Sergio Cordibella (ex Consigliere regionale), Sergio Clerici (No Polo logistico, Arese), Tronconi Pierattilio (No centrale di Bertonico), Adriano Pirotta (ingegnere, esperto in trasporti e territorio), Francesca Berardi (Comitato per l’acqua pubblica Cremona), Giorgio Simone e Stefano Zenoni (architetti), Emanuela Garibaldi (architetto), Marco Brusa (ingegnere nucleare, consulente associazioni ambientaliste), Rocco Cordì (Unaltralombardia Varese), Alessandro Moroni (Comitato promotore Parco Agricolo/Ecologico Bergamo), Giovanna Galli (Comitato Ambientalista Treviglio), Pino Timpani (Associazione per i Parchi del Vimercatese), Daniele Icari (Terra Nostra), Rete Bassa Ceru, Mattia Avigo (Collettivo uscita di sicurezza), Comitato per la salvaguardia sociale e ambientale della Martinella, Paolo Longaretti (Comitato di Levate), Alberto Scanzi (Presidente Circolo Gramsci di Bergamo), Adele Ghilardi (Comitato pendolari Romano di Lombardia), Anna e Joris Bettoni (Tavernola Democratica), Adriana Beretta (Comitato ecologico Caravaggese), Milvo Ferrandi (Comitato per Redona), Claudio Sala (Comitato contro il megacentro commerciale di Quitntano), Vittorio Armanni (consigliere provinciale di Bergamo), Luca Benedini (Codiamsa di Mantova), Partecipa Ezio Corradi (coordinamento dei Comitati ambientalisti Lombardia), Antonietta Bottini (Comitato Broni-Mortara)

«Il Campidoglio ha venduto la città ai re del mattone? Falso. Ha barattato aree verdi con milioni di euro per i servizi? Falso. Ha autorizzato una "colata di cemento" sul territorio della metropoli? Falso. Ed infine: il nuovo piano regolatore è stato approvato con "un colpo di mano"? Falso».

Dietro ai microfoni della saletta stampa della Camera di via della Missione, affollata come non mai, l'ex responsabile dell'Urbanistica ora deputato del Pd, Roberto Morassut, snocciola i diciotto punti della denuncia-querela contro l'inchiesta "I re di Roma" della trasmissione Report condotta da Milena Gabanelli, che ha suscitato a sua volta un'inchiesta della magistratura. È mezzogiorno. Due ore prima aveva depositato in Procura le mille pagine del suo esposto.

Ad ascoltarlo ci sono gli ex assessori Silvio Di Francia, Giancarlo D'Alessandro, Lia Di Renzo, Jean Leonard Touadi, Gianni Borgna, Domenico Cecchini; il portavoce dell'allora sindaco Veltroni Walter Verini, il capogruppo del Pd Umberto Marroni, la deputata Marianna Madia, il senatore Lionello Cosentino; il portavoce romano del Pd Riccardo Milana, l'assessore regionale Daniela Valentini, Michele Meta. E anche il costruttore Claudio Toti.

«Da parte mia» dice Morassut sottolineando le parole «è un atto dovuto per difendere l'onore di un'intera amministrazione e di tanti tecnici, professionisti, consulenti, che hanno contribuito a redigere il nuovo piano regolatore con intelligenza e onestà». Al suo fianco l'architetto Daniel Modigliani, lo storico direttore del Piano regolatore, e Luca Petrucci, l'avvocato che sosterrà la causa.

«Il Prg - precisa l'ex assessore - non è stato un atto clandestino, è stato discusso per dieci anni, votato tre volte dal Consiglio Comunale, ha ricevuto 7000 osservazioni che hanno avuto risposta, è stato oggetto di discussione con cittadini, ambientalisti, imprenditori. Il risultato è uno strumento importante, criticabile, correggibile, ma che costituisce una svolta per la città e che Alemanno deve attuare».

Poi snocciola i punti. «Report parla di "colata di cemento? Noi abbiamo tagliato 60 milioni di metri cubi dalle previsioni del vecchio prg, tutelato a verde 87.800 ettari pari al 68% di tutto il territorio». Ma l'attacco più duro è all'accusa di aver scelto le nuove centralità in base ai terreni di proprietà dei grandi costruttori. «Noi non abbiamo mai trattato con i costruttori. Non solo. Dal 2001 al 2008 non è stata avviata nessuna centralità su terreni privati. Ma, soprattutto, nel 2000, quando sono state scelte, erano quasi tutte di proprietà pubblica, da Acilia a Magliana. Erano private solo Lunghezza, Eur Castellaccio e Bufalotta. Alcuni terreni, dopo, sono passati di mano. Ma questo è il mercato».

Ancora: «È falso che a Bufalotta trasformeremo in edilizia privata le cubature degli uffici. Abbiamo ritirato la delibera dal Consiglio. È falso che lì non c'è il verde: ci sono i 120 ettari dati al verde che si stanno cominciando ad allestire. È falso che Romanina era un'area verde: era destinata a servizi pubblici. Abbiamo tagliato a Scarpellini 700 mila metri cubi. È falso che ad Acilia non andrà il campus dell'università. E Ponte di Nona e Grottaperfetta erano state approvate prima della giunta Rutelli. A Tor Pagnotta abbiamo tagliato 4 milioni e mezzo di metri cubi». Morassut è un fiume in piena. Afferma di aver rifiutato «dieci minuti di replica offerti da Report». In sala c'è anche il cronista di Report Paolo Mondani: «Siamo tranquilli, ci vedremo in tribunale. Le nostre stesse tesi le hanno sostenute compagni di partito dell'ex assessore come Tocci e Pasetto» (Ma Tocci e Pasetto replicheranno: «Non condividiamo l'inchiesta di Report»). E poi: «Morassut voleva prima 15 minuti di replica fatta girare da lui con un service. Una soluzione bulgara che abbiamo rifiutato. Alla fine ha chiesto 30 minuti». «Dopo un'ora di diffamazioni» ribatte Morassut «mi sembrava il minimo». In sala anche uno dei "re del mattone di Roma", Claudio Toti. «Volevo capire» ha detto «come Morassut controbattesse alle inesattezze trasmesse da Report. In realtà non c'è stato nessun favoritismo».

Postilla

La reazione, più volte preannunciata, dell'ex assessore Morassut sottolinea ancora una volta che il prg rappresenta uno degli snodi non solo dell'urbanistica capitolina, ma dell'intero “Modello Roma” nel senso politico più ampio del termine. Alla presenza degli stati generali dell'establishment PD romano a far fronte comune, Morassut ha rivendicato ancora una volta “l'importanza” del suo prg. L'insieme delle repliche a difesa, in realtà, non pare affatto scalfire l'impianto dell'inchiesta di Report e ci si limita a limare cifre e percentuali per di più paragonandole alle previsioni di un piano regolatore di quarant'anni fa: è con la situazione della capitale così come si è venuta a costituire in questi ultimi lustri, nell'assenza di regole e di una visione complessiva della forma e dell'uso urbano che si doveva confrontare il nuovo piano. Invece di proporre un'inversione di tendenza rispetto a questa deriva che aveva condotto sia il centro storico che le periferie, con modalità diverse, ma ormai dirompenti in entrambi i casi, a livelli preoccupanti di degrado e di invivibilità, il prg di Morassut&C si è limitato a sancire tutte le linee di tendenza in atto al momento della redazione che, fatalmente, non potevano che rispecchiare le volontà speculative di lobby cresciute, in questi anni, in ricchezza, influenza e potere, senza che la mano pubblica pensasse minimamente di rivendicare per sé – e quindi per la collettività che l'aveva eletta – un ruolo di verifica, controllo e, si licet, contrasto.

L'elevatissimo numero delle osservazioni ricevuto dal suo prg, sbandierato da Morassut come elemento di democraticità, è il sintomo, al contrario, dell'ostilità diffusa dei cittadini ad un piano sentito in contrasto con aspirazioni ampiamente condivise e che, non avendo mai esercitato strumenti di partecipazione effettivi, si è limitato a calmierare alcune previsioni senza saper o poter correggere l'impianto complessivo.

E così, all'affermazione più volte ribadita dal giorno della trionfale approvazione, che si tratti di uno strumento di importanza storica, tautologicamente comprovata sulla base della semplice esistenza (“è bello perchè c'è”) ai cittadini non è rimasto che rispondere, sinteticamente, ma inequivocabilente, il 27 e 28 aprile. (m.p.g.)

Sul PRG romano, in eddyburg

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