loader
menu
© 2025 Eddyburg
Il ministroevidentemente non sa che l'Italia continentale e la Sicilia sono già collegateda due ottime vie, già esistenti da secoli. che si chiamano Adriatico eTirreno. Analoghe vie collegano l'intero bacino del Mediterraneo. ilSole24ore, 6 marzo 2017, con riferimenti

Il Ponte sullo Stretto o un tunnel sotto il mare? La questione è aperta e riguarda non solo l’area compresa tra Reggio Calabria e Messina ma tutto il Mediterraneo, ancora oggi tra i maggiori crocevia dei flussi dell’economia globale. Del resto, lo stesso ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio ritiene ormai che «il ponte sia una delle ipotesi, che non può essere esclusa a priori e non può nemmeno, però, diventare la principale».

Mentre si riconsiderano allora tutte le valutazioni finora avanzate per la realizzazione di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia, come naturale completamento del corridoio scandinavo-mediterraneo, che dovrà essere ultimato entro il 2030 (così è stabilito per le reti di trasporto trans-europee delineate dall’Unione Europea), si fa strada il progetto di un tunnel scavato in prossimità della Sella dello Stretto, insabbiato sotto il livello del mare: 16 km di lunghezza (in parte raccordato alle gallerie autostradali), di cui circa 3 km subalvei a una profondità di 200 metri, posizionati tra Gazirri, lungo la riva siciliana, e Punta Pezzo, sulla sponda calabrese. Previsto un costo di 1,5 miliardi di Euro. Tempi di realizzazione 5 anni.

Lo studio è stato presentato nel corso della conferenza su “Mobilità urbana e connettività strutturale fra le sponde dello Stretto, Sfida al Pil nel contesto euro” all’Accademia Peloritana dei Pericolanti dell’università di Messina che ha organizzato l’evento con il Collegio amministrativo ferroviario italiano e l’Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze ausiliarie. Giovanni Saccà, l’ingegnere che ha realizzato il progetto, prevede un’analoga soluzione per i collegamenti ferroviari, con un tunnel lungo il doppio, che unirebbe il centro della città di Messina a Reggio Calabria con un tracciato percorribile a 200 km/h. Tre miliardi il costo degli interventi, incluse le opere accessorie per servire le nuove stazioni ferroviarie. Coinvolto un team interdisciplinare di esperti, compresi geologi e biologi marini, oltre al noto patologo Cosimo Inferrera.

Il progetto si ispira all’Eurasia Tunnel di Istanbul costruito sotto il Bosforo in un’area sismicamente attiva, e costituito da segmenti collegati da articolazioni flessibili capaci di resistere a terremoti fino a magnitudo 7,25. Parametri di sicurezza elevati che il ponte sullo Stretto, ad esempio, non potrebbe garantire. Ancor meno nel caso del passaggio di treni ad alta velocità.
I tunnel sotto il mare invece tengono conto della particolare orografia dei territori, oltre che della posizione dello Stretto, terzo polo nel Mediterraneo dopo Suez e Istanbul.

Forti le implicazioni e non solo geopolitiche: «Porsi problemi di mobilità e di logistica significa anche affrontare i grandi temi della giustizia sociale, dell’innovazione, del lavoro, della riqualificazione territoriale – spiega Filippo Romeo, direttore del programma Infrastrutture e Sviluppo territoriale dell’Isag - Calabria e Sicilia devono cogliere questa sfida e approfittare della centralità strategica del Mediterraneo e delle merci che vi transitano. Il progetto è solido e rappresenta un’occasione unica per creare sviluppo e attrarre investimenti. E per ridurre fino al 25% i nostri costi per trasporti e logistica verso l’estero».

Riferimenti

Nel vecchio archivio di eddyburg trovate un’intera cartelladedicata al Pontesullo Stretto, contenente una sessantina di articoli dal 2005 al 2012. Ulterioriarticoli in date successive, non ancora classificate nel nuovo archivio, letrovate digitando le parole: “stretto di Messina” nell’apposito casella in cima a ogni pagina.

Con una carrellata sui giudizi correnti sullo stadio fiorentino ci ricordano che la mamma dei fessi è sempre incinta. E, attorno a Palazzo Vecchio, anche quella degli affaristi. la città invisibile, 14 marzo 2017

«Ancora una volta siamo di fronte ad una grossa operazione finanziaria e immobiliare che utilizza strumentalmente un bene comune»

In occasione della recente presentazione del nuovo stadio dei fratelli Della Valle a Firenze è andato in scena un vero e proprio festival del provincialismo e del servilismo.

Provincialismo, perché questo progetto, dopo decenni di frustrazione bottegaia, secondo la comunicazione dominante, potrà finalmente consentire a Firenze il meritato riscatto (ne ha davvero bisogno?) rispetto al fior fiore delle metropoli internazionali, a tal punto che «Tokyo in confronto sembrerà Sorgane», mentre i turisti «visiteranno la periferia nord fiorentina con lo stesso sguardo sognante che indossano quando passano su Ponte Vecchio», solleticati dall’aria “molto sexy” di questa arena. Chissà cosa potranno combinare: ne vedremo delle belle.

Il nuovo stadio della città, affermano, non avrà nulla da invidiare a quelli di Monaco, Bilbao, Bordeaux, Nizza. Perdinci! «Qui a Firenze non siamo secondi a nessuno» sembrano dire in coro i protagonisti della surreale vicenda.

Servilismo, perché a scorrere i commenti sembra di rileggere le trionfanti lodi alle imprese del trascorso ventennio fascista. Cosa pensare quando si legge che le “morbide volute” dello stadio gareggeranno con “le guglie aguzze” del Palazzo di Giustizia «in una gara ideale di architetture contemporanee»? «Costruiremo un tempio sopraelevato che ci permetterà di superare i nostri limiti», sarà uno “stadio da Rinascimento", mentre la “rivoluzione” comincia qui e ora con i Della Valle e la corte dei loro valletti.

I cronisti fanno a gara nel paragonare, in maniera blasfema, le forme del nuovo stadio all’ottagono del Battistero, e, visto che ci siamo, all’ottagono del tamburo della cupola del Brunelleschi e, perché no, anche a quello delle Cappelle Medicee. Per di più ricorda anche il Giglio di Firenze, così siamo tutti contenti, storici dell’arte, tifosi e concittadini mossi dal sacro furore campanilista.

Al di là della retorica roboante di questi giorni, pensiamo sia necessaria un po’ di onesta intellettuale: le cose vanno chiamate con il proprio nome.

Siamo di fronte ad una grossa operazione finanziaria e immobiliare che utilizza strumentalmente un bene comune, la nostra città, quella dei vecchi e dei nuovi abitanti, per consentire alle società coinvolte di occupare una superficie di 48 ettari, di costruire volumi edilizi esorbitanti, per ricavare alla fine un utile di circa 30 milioni l’anno. La faccenda sta tutta qui, in questo semplice calcolo economico.

Non interessa poi se, con l’avallo dell’amministrazione comunale, si mette a ferro e fuoco un intero sistema urbano, se si fa sprofondare tutta la zona ovest, da Rifredi a Novoli a Peretola sotto il peso di questa pesante speculazione immobiliare, se si alterano i delicati equilibri del rapporto tra la città, la Piana e il suo ambiente. Tanto le regole e i controlli sono saltati, si conformano ai desiderata dei privati. Anzi sembra che l’amministrazione pubblica e il suo apparato tecnico si siano trasformati in una sorta di consulenti, di facilitatori a disposizione del privato, in questo caso dei Della Valle, affinché il progetto proposto possa passare indenne attraverso le maglie della vituperata burocrazia comunale.

Altro che urbanistica liquida, qui siamo proprio di fronte all’urbanistica evaporata, evanescente, le cui “regole” sono delle finzioni senza più alcuna credibilità.

La retorica dei valletti di turno servirà poi a giustificare e a far sembrare necessarie queste operazioni.

L’ingorgo è garantito, sarà pesantissimo. Basta osservare la mappa della zona: in pochi chilometri si concentreranno questi nuovi volumi, stadio, alberghi e centro commerciale (poco più piccolo di quello dei Gigli di Campi Bisenzio), oltre alla Scuola dei Marescialli, Nuova Mercafir, Autostrada Firenze Mare e Nuovo aeroporto intercontinentale. Una micidiale successione di funzioni molto ingombranti che andranno ad intasare la principale via di accesso e di uscita da Firenze verso la Piana e l’Appennino. Un vero e proprio tappo la cui retroazione si farà sentire sull’intero sistema dei trasporti della città, appesantendolo enormemente.

I profitti saranno privati, i costi socializzati e scaricati sull’intero sistema territoriale.

Sulla localizzazione di queste funzioni grava anche il rischio di incidente aereo messo in evidenza dalla Commissione nazionale di VIA sul nuovo aeroporto di Firenze. Lo stadio e gli annessi volumi commerciali si trovano sulla direzione di sorvolo degli aerei a poche decine di metri e, stante il parere del Ministero, non sono stati valutati a sufficienza gli «scenari probabilistici sul rischio di incidenti aerei» di questa opera che, come afferma il Presidente del TAR Armando Pozzi, è «viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria, irrazionalità e illogicità».

In questi giorni abbiamo sentito impropriamente parlare di rivoluzione, vorremmo ricordare che, secondo noi, «oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza». Quella che ci viene imposta è in realtà una pericolosa involuzione culturale, politica e sociale.

In un’epoca di profondo ripensamento degli scenari economici, di nuova attenzione ai contesti ambientali e alla qualità della vita delle persone, di nuovi modelli urbani ecologici e socialmente equilibrati, i Della Valle e i loro sodali continuano a proporci progetti monstre obsoleti, vecchi, datati, testimoni della loro afasia culturale e intellettuale, incubi alla “Truman show” del tutto superati.

Invitiamo coloro ai quali sta realmente a cuore Firenze, a partire dai numerosi tifosi fiorentini, ad estendere e approfondire il dibattito sulle presunte qualità delle scelte in corso, ad adoperarsi affinché questa vergognosa operazione sia bloccata per riaffermare un’idea di città amministrata in nome dell’interesse collettivo dei suoi cittadini e non del solito dominus di turno.

La follia speculativa e la sottomissione amministrativa stanno preparando un tormentato futuro che tutti noi vorremmo evitare.

Ampia analisi critica di un libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani su
l'urbanistica romana nel quadro di una riflessione sull'intricato nodo del rapporto pubblico/privato.
casadellacultura.it, ciclo "città bene comune"10 marzo 2017 (p.d.)

L'agile libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani, Roma disfatta. Perché la capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensiona pubblica, è stato pubblicato per i tipi di Castelvecchi nel maggio del 2016, giusto un mese prima delle elezioni comunali che - dopo la traumatica interruzione della sindacatura di Ignazio Marino conclusasi in bilico tra dimissioni e defenestrazione per mano amica - segneranno la netta vittoria della candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi.
Ciò nonostante, il libro sembra volersi estraniare dalle turbolenze delle vicende politico-amministrative più immediate e controverse per svilupparsi in un gradevole dialogo tra un urbanista esperto conoscitore delle più intricate vicende tecnico-procedurali dell'urbanistica romana e un giornalista specializzato nella divulgazione di temi relativi all'architettura, l'urbanistica, il paesaggio e la tutela e valorizzazione dei beni culturali.

Il dialogo prende così uno scorrevole respiro tra Erbani che interpella e sollecita e De Lucia che, sul filo della memoria, mette in fila fatti, ricordi, analisi e riflessioni in una visione di lungo periodo che prova a fissare in brevi tratti una serie di fasi, periodi e tendenze.

Si ripercorre così il periodo che va dagli anni cinquanta fino all'amministrazione Marino, soffermandosi soprattutto sulle battaglie di tutela e valorizzazione delle zone archeologiche da parte di Antonio Cederna: un intellettuale che riuscì a far coagulare un ampio consenso su una serie di positive proposte, promosse, ottenute e realizzate (anche se spesso solo parzialmente) dalle giunte Argan, Petroselli, Rutelli e Veltroni, sino all'esplicita inversione di rotta della giunta Alemanno. Un'inversione le cui premesse, tuttavia, erano già visibili in nuce in quella filosofia del "pianificar facendo" su cui si improntò il piano regolatore promosso ed approvato dalla seconda giunta Veltroni caratterizzato da un approccio che non verrà più rimesso in discussione, neppure dalla successiva giunta Marino e dal suo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo.

Come icasticamente sintetizza De Lucia: "L'urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l'amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito il "pianificar facendo". La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dall'ultimo - e il peggiore - piano regolatore della sua storia, quello del 2008. E che nei fatti non pianificava granché, visto che prendeva atto di quel che si era già deciso e a quelle contrattazioni forniva un superiore avallo amministrativo. Il successo di Gianni Alemanno - osserva De Lucia - è stato in gran parte strappato nei luoghi in cui Roma perdeva le caratteristiche più proprie di una città". Una volta eletto, però, "Alemanno si è trovato a gestire un piano regolatore che aveva già quasi consumato le proprie previsioni edificatorie. Pressato da più parti, ha provato ad aggiungere dell'altro, ad andare oltre le dimensioni fissate in quel documento. E ha usato le norme contenute nello stesso piano e che consentivano di superarlo. Dove ha potuto, ha forzato, gonfiato ciò che spettava ai privati sottraendolo al pubblico. […] Nel programma di Ignazio Marino - prosegue De Lucia - era contenuta l'intenzione di fermare questa disseminazione del cemento nella campagna romana e di invertire la rotta mettendo mano alle aree già costruite, ma malamente. Un proposito di discontinuità con il passato di Alemanno, ma anche di Rutelli e Veltroni. Un proposito in qualche misura rispettato […] per iniziativa dell'assessore Caudo. Poi però il proposito è stato negato dalla decisione di collocare arbitrariamente a Tor di Valle il nuovo stadio della Roma [con la contestuale edificazione di tre torri alte 200 metri di terziario, per un edificazione totale di 1 milione di metri cubi, N.d.A] il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare" (pp. 10-11).

Si tratta della stessa questione, ancora irrisolta, con cui si trova ad avere a che fare oggi Virginia Raggi. Una faccenda talmente spinosa che - almeno fino al momento in cui scriviamo - pare gestita in prima persona dalla sindaca e con un ristretto staff fiduciario: per esempio nella contrattazione di una più o meno consistente riduzione delle volumetrie terziarie chieste in contropartita alla realizzazione dello stadio privato di una società calcistica proprietà dell'italo-americano James Pallotta - uno dei promotori finanziario-immobiliari dell'operazione - condotta tentando di estromettere dal processo decisionale il proprio assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini. Quest'ultimo, che - osserva De Lucia - in un suo libro del 2008, La città in vendita (Donzelli), aveva già denunciato questo modo di procedere come "la degenerazione del nuovo piano regolatore che è diventato "il piano dell'offerta", per mettere a disposizione del mercato finanziario internazionale gli affari immobiliari possibili nella capitale" (p. 46), ha invece ribadito, anche recentemente, che tutto ciò che vi si può edificare è quanto già previsto dal piano regolatore. Ha cioè cercato di stoppare in anticipo qualsiasi ipotesi di contrattazione integrativa tra proprietari delle aree o sviluppatori immobiliari e pubblica amministrazione volta ad ottenere un aumento delle volumetrie edificabili e dunque maggiori possibilità di guadagno.

Secondo De Lucia: "a spingere verso la dilapidazione del territorio [della capitale] ha contribuito l'invenzione del "pianificar facendo", l'ossimoro che ha compagnato la formazione del nuovo piano. Il "pianificar facendo" - osserva - ha legittimato interventi di ogni genere e di ogni misura, in ogni angolo del territorio comunale. [Lo stesso] Paolo Berdini, nel libro Giubileo senza città, ha documentato come, attraverso i programmi di riqualificazione e di recupero urbano (e gli altri istituti derivati dall'accordo di programma, con l'uso disinvolto della legge per Roma Capitale e di altre possibilità di deroga, già prima dell'adozione erano stati autorizzati quasi 52 milioni di metri cubi (quasi i tre quarti delle future previsioni di piano). […] Quando finalmente è stata completata le stesura del nuovo piano, non c'era molto da aggiungere alle decisioni maturate prima" (p. 36).

In altri termini - afferma Erbani - "Nella sostanza il piano non pianifica. Ratifica. Non investe sul futuro, regola i conti con il passato. Non interviene per definire l'assetto della città, non ha una visione, ma prende atto di quello che è maturato negli accordi fra l'autorità pubblica e la proprietà fondiaria e fornisce un involucro capiente. Non concepisce la città come un sistema in cui tout se tient e dove è necessario bilanciare i pesi, ma sancisce che i pesi possono distribuirsi dove capita o, meglio, dove li collocano gli interessi privati, che non si subordinano all'interesse generale, ma che si cerca in vario modo di disciplinare, come farebbe il vigile a un incrocio. È - conclude - un piano regolatore che non è generale, ma assembla tanti piani particolari. Proclama buone intenzioni, ma non le progetta" (p. 36).

Ho potuto toccare con mano questa situazione quando, tra il dicembre 2014 e il marzo 2015, (trovandomi spesso a Roma per motivi familiari e terapeutici) ho deciso di mia spontanea iniziativa di frequentare il laboratorio partecipativo promosso dall'assessore all'urbanistica Caudo per definire i dettagli dell'accordo di programma per il riuso dell'area dell'ex Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo nei pressi dell'EUR, dopo il trasferimento delle attività fieristiche nel nuovo polo di Ponte Galeria sulla Roma-Fiumicino. Contavo di potervi portare l'esperienza maturata a Milano nella critica al mancato controllo degli esiti urbanistici e progettuali relativi al riuso dell'area dell'ex Fiera di Milano anche per effetto dagli incongrui indici edificatori assegnati (1,15 mq/mq). Indici che erano stati fissati solo sulla base delle aspettative di rendita fondiaria da parte di Fondazione Fiera (250 Milioni di €) che aveva la necessità di far fronte ai costi imprevisti nella realizzazione del nuovo polo di Rho-Pero. Qui le smodate e incontrollate bizzarrie di Fuksas nel progetto della spina vetrata centrale di accesso ai padiglioni espositivi avevano determinato una serie di problemi tecnici e contribuito a una significativa lievitazione dei costi dell'opera.

La situazione dell'ex Fiera di Roma era abbastanza simile, anche se relativa a un'area grande circa un terzo di quella dell'ex Fiera di Milano: l'indice edificatorio di circa 1 mq/mq era infatti stato fissato solo in relazione all'obiettivo di coprire i debiti di bilancio accumulatisi nella gestione del nuovo polo, al più con l'aggiunta della motivazione che ciò corrispondeva più o meno al volume dei padiglioni esistenti e dismessi. Anche a non voler addentrarsi nella considerazione che - a parità di volume edificato - il peso urbanistico/insediativo dei nuovi edifici terziari e/o residenziali in previsione sarebbe stato ben superiore di quello determinato dall'uso sporadico delle attività fieristiche nei padiglioni preesistenti, feci sommessamente rilevare che l'esito sarebbe stato - come all'ex Fiera di Milano - quello di edifici molto alti e molto densi, che avrebbero gravato in modo intollerabile sugli attigui tessuti edilizi della retrostante via dell'Accademia, costituiti da palazzine di tre-cinque piani. Se proprio non si voleva rideterminare in modo urbanisticamente più congruo l'indice edificatorio, la mia proposta era quella di introdurre prescrizioni di destinazione funzionale e tipo-morfologiche che concentrassero una prevalente quota di funzioni terziarie in edifici anche molto alti e densi sul lato della Cristoforo Colombo (larga più di 80 metri), lasciando una quota minore di residenza meno densa e di altezza più contenuta verso il lato opposto, quello via dell'Accademia, una strada di modesto calibro locale.

La risposta di chi rappresentava l'amministrazione nella conduzione del laboratorio partecipativo fu di netta opposizione. Si sostenne infatti che non si sarebbe dovuto condizionare così pesantemente la libertà imprenditiva e progettuale dell'attuatore edilizio-immobiliare della trasformazione dell'area. Mi rimane il fondato dubbio - anche considerando che Fiera di Roma nelle sue varie articolazioni è espressione di una società compartecipata dallo stesso Comune di Roma! - che ciò che non si voleva condizionare era la possibilità del conseguimento del massimo di rendita fondiaria a fronte delle mutevoli condizioni economico-finanziarie del mercato immobiliare.

L'assessore Berdini, poco dopo il suo insediamento, ha completamente scavalcato quell'obiezione facendo approvare dal Consiglio comunale il sostanziale dimezzamento - in conformità a quanto previsto dal piano regolatore per le aree edificabili - dell'indice edificatorio contrattato da Marino e Caudo. Si è così garantita la realizzazione di tutti gli spazi pubblici prescritti, con densità ed altezze edificatorie compatibili con i caratteri dei tessuti edilizi attigui e preesistenti, e - quindi - senza più la necessità di preventive prescrizioni funzionali e tipo-morfologiche che ne attenuassero gli effetti perversi. La reazione di Fiera di Roma è stata un ricorso al Tribunale Amministrativo per danni economici procurati al risanamento del proprio bilancio a seguito della mancata approvazione delle bozza di intesa precedente, esattamente come fatto da FS/Sistemi Urbani nei confronti del Comune di Milano a seguito della mancata ratifica consiliare della bozza di accordo di programma sugli ex scali ferroviari.

Tutto ciò la dice lunga sullo stato dei rapporti tra aspettative di rendita delle grandi proprietà fondiarie (anche di enti pubblici istituzionali) e ruolo di indirizzo pubblico. Quest'ultimo dovrebbe essere esercitato dai comuni solo sulla base di congruità ed opportunità di interesse generale negli assetti insediativi ed urbanistici del territorio. Quando (raramente) i comuni provano a sottrarsi alla riedizione della disastrosa prassi degli anni '50/'60 delle "convenzioni senza o contro i PRG" - una pratica progressivamente tornata a diffondersi dagli anni '90 in versione finanziarizzata 2.0 e ripropostasi con le reboanti e suadenti denominazioni di programmi integrati di intervento, progetti di riqualificazione urbana, accordi di programma - la reazione delle proprietà fondiarie è ferocemente indirizzata ai punti più dolenti della difficile situazione delle finanze locali: da un lato la richiesta di enormi indennizzi per danni economici arrecati e, dall'altro, l'offerta di modeste ma immediatamente conseguibili contropartite (rispetto alla dimensione economico-finanziaria in gioco) in termini di oneri ed opere di urbanizzazione.

Insomma, anche questo esempio dimostra che ha ragione De Lucia quando afferma che a Roma "la storia dell'ultimo PRG comincia nel 1993 e dura quasi tre lustri, durante i quali il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo. Mentre a Milano, per esempio - capitale indiscussa della controriforma [urbanistica, N.d.A] - la preferenza per l'urbanistica contrattata è stata formalmente ed esplicitamente contrapposta al governo pubblico del territorio, a Roma è prevalsa invece una linea subdola, si è continuato a professare adesione alla pianificazione canonica mentre, sopra e sottobanco, si è praticata la medesima urbanistica contrattata di Milano" (p. 33).

Ciò che sorprende nell'acuta disamina della vicenda romana condotta nel dialogo tra De Lucia ed Erbani è che via via che ci si avvicina alle vicende più prossime - come si è detto, con l'esclusione forse voluta di quelle di più immediata attualità elettorale - sembra manifestarsi una sorta di presbiopia. Mi chiedo cioè come sia possibile che le ricostruzioni siano precise, puntuali e dettagliate su nomi, fatti e circostanze degli episodi più lontani e, invece, nella pur estremamente pertinente critica alla fase del "pianificar facendo" ci si limiti a citare il nome e la responsabilità dei sindaci che l'hanno avallato politicamente e non quello di coloro che l'hanno teorizzato, giustificato e praticato sul piano culturale e tecnico nella redazione del piano regolatore generale di Roma. Non si tratta di un fatto secondario, perché se è vero che nelle pratiche di pianificazione e governo del territorio ci sono le responsabilità politiche di quanti governano la cosa pubblica, è altrettanto vero che non possiamo dimenticare le responsabilità tecniche, o meglio culturali, in questo caso ascrivibili a quegli urbanisti che hanno messo a punto il piano, ovvero a Giuseppe Campos Venuti e al suo delfino accademico e professionale Federico Oliva. Dico questo per amore di chiarezza e verità storica, ma devo anche dire che la mia preoccupazione principale è di natura culturale e riguarda il destino, non dei pianificatori, ma dell'urbanistica italiana. Il piano di Roma ha infatti legittimato l'assunzione diffusa, anche da parte di amministrazioni locali tradizionalmente attente a praticare una pianificazione ad indirizzo pubblico, di quel particolare modo di intendere la pianificazione. Se non si porta la critica alla radice di questo atteggiamento rinunciatario alla definizione di un'idea di dimensione pubblica del progetto della città, difficilmente sarà possibile indicare una strada che proponga un'alternativa all'indefinita prosecuzione di singole contrattazioni sul futuro di parti di città.

Invece, la sola indicazione che negli ultimi capitoli del libro viene da parte degli autori per ritrovare un destino di dimensione pubblica della capitale è quella del rilancio strategico del suo ruolo turistico e culturale attraverso la ripresa del Progetto Fori e del parco dell'Appia Antica come "colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di "Roma moderna", (...) la vera "Roma futura"" (p. 124). Pur riconoscendo che la dimensione, anche territorialmente rilevante, dell'ambito archeologico-turistico-culturale continuerà sempre più a rappresentare un fattore determinante della forma urbana ed insediativa della Capitale, non posso non rilevare come - rispetto alla dimensione complessiva del problema urbano ereditato dalle vicende ripercorse nel libro e così ben rappresentato nelle mappe che ne illustrano l'estensione - ciò costituisca un'indicazione che, in questa prospettiva, appare parziale e riduttiva. È forse questo senso di incompiutezza del ragionamento, questa mancanza di una propositività complessiva sui destini di Roma che più si coglie concludendo quella che, pur con questi limiti, rimane un'interessante e piacevole lettura.

P.S. Tra la stesura di questo commento e la sua pubblicazione sono intervenute due novità rilevanti: le dimissioni dell'assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini – che riteneva troppo arrendevoli gli orientamenti della sindaca Raggi favorevoli a una parziale riduzione delle edificazioni non connesse alle attività calcistiche – e l'annuncio da parte della sindaca di un accordo raggiunto con la proprietà dell'area per il dimezzamento delle volumetrie inizialmente previste e l'eliminazione delle tre torri da 200 metri di altezza. La Raggi e il M5S vantano come un positivo compromesso il dimezzamento delle volumetrie e la contestuale riduzione di opere di trasporto pubblico e accesso all'area, ma sia la versione “estremistica” dell'ex assessore Caudo (che riteneva indispensabili tutte le opere pubbliche da lui previste e che per questo era disposto a concedere qualunque edificazione fosse in grado di sostenerne l'onere) sia quella “compromissoria” di Raggi/M5S sono pur sempre conseguenze della logica dell'urbanistica contrattata: se mi fai fare di meno, ti do di meno. Invece, il criterio corretto sarebbe: se servono molte opere per rendere accessibile e sicura l'area e l'intervento ammissibile non è in grado di sostenerne il peso economico è bene non farlo lì, ma da un'altra parte. Come mi capita spesso di far osservare non è affatto detto che il 50% di una follia sia qualcosa di ragionevole: talvolta è mezza follia, ma assai più spesso è addirittura una follia e mezza!


Con il voto della Commissione Ambiente della Camera dei deputati del 9 marzo 2017 deve considerarsi virtualmente conclusa – salvo improbabili miracoli – un’aspra battaglia durata otto anni tra un fronte che ha tenacemente inteso introdurre alcune modifiche di fondo alla legge quadro 394 del 1991 sulle Aree Protette e non ha mai flettuto da questa intenzione e un fronte che a tali modifiche si è opposto in modo generoso e motivato spiegando come esse stravolgessero la legge invece di migliorarla e mettessero a rischio il futuro stesso delle aree protette come istituzioni qualificate di tutela ambientale.

Nonostante ci fosse un’ampia discussione in corso da almeno un anno con la quasi totalità dell’ambientalismo italiano schierato contro le modifiche, nonostante ci fossero state delle mediazioni interessanti e decisamente migliorative, il 7 marzo il presidente della Commissione Ermete Realacci (si: Ermete Realacci) con quello che può essere definito un colpo di mano ha imposto la votazione immediata del testo nella sua versione peggiore in modo tale che entro fine marzo la Camera possa approvare il provvedimento mettendolo al riparo da qualsiasi rischio di calendario.

Il testo che è passato in Commissione conferma tutti i punti “qualificanti” per i quali la maggioranza bipartisan Forza Italia-Pd ha cominciato a battersi sin dal 2009 con l’entusiastico sostegno della dirigenza di Federparchi e il particolare del suo presidente Giampiero Sammuri. Su tutto questo si è dibattuto a lungo e approfonditamente in questi anni per cui non è necessario tornare nel dettaglio su tutti i passaggi e su tutti i particolari. Basti ricordare che mentre le aree protette italiane languono in una situazione di sottofinanziamento cronico, di dotazioni di organico disperatamente inadeguate, strangolate da modalità burocratiche che le paralizzano, la “riforma” si è concentrata soprattutto su alcuni indirizzi che non hanno possibilità alcuna di incidere su questi nodi ma che tuttavia sono in grado di cambiare in profondità la fisionomia delle aree protette italiane così come era stata immaginata dalle molteplici forze che avevano voluto e fatto approvare la 394. Questi indirizzi si dicono in breve: presidente dei parchi di nomina partitica, direttore di nomina presidenziale senza più alcuna necessità di competenze naturalistiche, consigli direttivi spogliati della componente scientifica ma in compenso “arricchiti” di lobbies come quella degli agricoltori, possibilità di svolgere attività impattanti nei parchi mediante compensazione monetaria. Le aree protette italiane, in nome di interessi di bottega e di una visione schiettamente neoliberista dell’economia e della società, sono insomma messe nelle mani di apparati partitici - ora, a differenza che in passato, in modo pienamente legittimo - e di portatori di interessi che una volta in maggioranza faranno prevedibilmente passare la conservazione della Natura in secondo piano o la elimineranno di fatto dalle priorità istituzionali dei parchi.

E’ questa un’altra pagina oscura della storia delle politiche ambientali degli ultimissimi anni, l’ultima di un rosario che si è sgranato clamorosamente con la fine - di fatto - del Parco nazionale dello Stelvio e con l’eliminazione dell’autonomia e della specificità del Corpo Forestale dello Stato. Ed è letteralmente sconvolgente che questa deriva sia regolarmente sotto l’egida di figure che considerate da sempre come “fondatrici” dell’ambientalismo italiano e nella pressoché totale vacanza del Ministero dell’Ambiente.

E’ facile prevedere che queste norme faranno sentire presto i suoi effetti nefasti sul corpo delle aree protette italiane che già versano in pessime acque. La resistenza alla riforma è stata tuttavia forte, tenace, articolata e ricca di intelligenze: ci si può solo augurare – ci si deve augurare – che da qui riparta un ambientalismo che sappia mettere un argine al degrado e aprire prospettive diverse alla protezione della natura in Italia.

«Un puntuale confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma». Il Fatto Quotidiano online, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

Come cambia il progetto dopo l'intesa tra la giunta M5S e la società giallorossa? Ecco un confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma. La prima prevedeva 16 treni/ora con il prolungamento della metro B e aumento dell'offerta sulla Roma-Lido. Ora, stando alle dichiarazioni della sindaca, la Roma realizzerà la nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi, ma nulla più. Così dovrà intervenire la Regione, che ha già finanziato per 180 milioni il restyling della linea. Il Ponte di Traiano, in origine a carico dei privati, verrà costruito con 140 milioni già stanziati dal Cipe per il Ponte dei Congressi .

Un fine accordo politico o un regalo ai costruttori? La partita dello stadio della Roma è tutt’altro che chiusa. Virginia Raggi, dopo l’intesa di massima raggiunta con i vertici della società giallorossa e dell’Eurnova Spa di Luca Parnasi, dovrà lavorare per il prossimo mese per trasformare il procedente progetto in un piano compatibile con la visione politica del M5S e sostenibile dal punto di vista dei trasporti e dei servizi alla città.

La sindaca oggi è stretta fra due fuochi: da una parte i sostenitori del vecchio progetto, con a capo l’ex primo cittadino Ignazio Marino, che le rinfacciano di aver sacrificato opere pubbliche fondamentali per recuperare cubature verticali (le famose torri di Libeskind) che non consumano suolo; dall’altra, gli oltranzisti del M5S, che avrebbero voluto l’annullamento completo della delibera-stadio e la proposta di un nuovo sito (Pietralata o Tor Vergata), continuando a considerare il nuovo accordo una “mera speculazione edilizia”. Il Fatto Quotidiano.it ha passato al setaccio la delibera di Marino e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As – confermata in più punti dal vicepresidente della commissione capitolina Mobilità, Pietro Calabrese – confrontando punto per punto il “prima” e il “dopo”, tenendo sempre presente che si tratta di un piano informale ancora suscettibile di modifiche.

Impianti sportivi

Delibera Marino – Partiamo dalla parte sportiva, quella essenziale. Nella delibera del 2014 si prevede lo stadio vero e proprio da 60.218 posti, con il campo da calcio e l’area sottostante per i servizi (uffici, reception, sala conferenze, ecc). L’impianto è previsto al posto dell’attuale ippodromo, la cui tribuna, realizzata dall’architetto Julio Lafuente nel 1959, è interessata da un’istruttoria di vincolo da parte del Ministero Beni Culturali. Di fianco, c’e’ la cosiddetta Nuova Trigoria, con i campi di allenamento, la Hall of Fame giallorossa e altri servizi utili alla società. Quindi, tutte le opere a supporto, come la connettività interna, i parcheggi pubblici in standard Coni e gli altri servizi minimi come fognature ed elettrodotti.

Bozza accordo Raggi – La modifica più importante potrebbe riguardare il numero dei posti a sedere, che scenderebbero a quota 55.000: lo Juventus Stadium ne conta 41.507. Basteranno? Quest’anno la Roma ha fatto registrare appena 18.000 abbonati, contro i 23.000 della stagione 2015/2016 e i 26.000 del campionato 2014/2015, numeri però “drogati” dalla contestazione anti-barriere all’Olimpico. Seppure siano lontani i tempi del record dei 48.687 nell’annata 2002/2003, una squadra molto competitiva e un impianto accogliente potrebbero spingere tranquillamente il numero dei tesserati oltre quota 30.000. Inalterato il progetto della Nuova Trigoria con i campi e il museo. Prevista anche una contestuale lieve riduzione dei parcheggi. Lo stadio non dovrebbe essere spostato rispetto al progetto precedente.

Business park e commerciale
Delibera Marino – La parte più controversa di tutta la vicenda. Come si evince dalla cronologia della delibera 132/2014, il carico di cubature verticali fu proposto dalla giunta Marino alla Eurnova Spa per aumentare le opere civili da realizzare a suo carico e giustificare l’interesse pubblico dell’opera. Da questo presupposto nascevano le tre torri disegnate dall’archistar Daniel Libeskind, alte 100 metri e “ispirate a Piranesi”, le quali andavano a comporre una parte dei 336.000 mq (contro i 49.000 mq della parte sportiva) destinati ad un’area commerciale situata a nord dell’impianto.

Bozza accordo Raggi – Come noto, le torri di Libeskind sono state cancellate di netto dal progetto. Questo ha permesso alla giunta Raggi di recuperare il 50% delle cubature totali, il 60% se consideriamo solo l’area business. Di gran lunga inferiore il risparmio sul consumo del suolo, dato che al posto delle torri dovrebbero essere realizzati tre edifici da massimo 10 piani, in linea con la definizione di “skyline” vigente nella Capitale, che non vuole strutture più alte della Cupola di San Pietro. Il taglio, comunque sia, dovrebbe permettere al progetto di rientrare nel limite di edificazione di 300.000 mq previsto dal piano regolatore generale per l’area di Tor di Valle, considerando che anche i parcheggi e gli altri servizi (non dovendo servire più grattacieli da decine di piani) saranno ridimensionati.

Trasporto su ferro

Delibera Marino – Previsto il potenziamento dell’offerta di trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città con frequenza di 16 treni/ora nelle fasce orarie di punta, attraverso il prolungamento della linea B della Metro fino a Tor di Valle – costo stimato di 50,45 milioni di euro – e contestuale potenziamento della ferrovia Roma-Lido, “prevedendo tutti gli interventi di ammodernamento e di attrezzaggio necessari al raggiungimento del livello di esercizio di cui sopra”, con l’adeguamento della nuova stazione di Tor di Valle e la realizzazione di un collegamento ciclo-pedonale con la stazione ferroviaria di Magliana sulla linea FL1 (costo stimato di 7,5 milioni di euro). Da valutare, in una fase successiva, anche un ulteriore prolungamento della Metro B fino alla stazione della FL1 di Muratella.

Bozza accordo Raggi – Salta completamente il prolungamento della linea B: ciò vuol dire che per raggiungere lo stadio in metropolitana bisognerà scendere a Piramide e poi prendere la Roma-Lido. Il trenino per Ostia ora è il vero nodo. Stando alle dichiarazioni congiunte Raggi-Baldissoni, la Roma assicurerà la realizzazione della nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi. Non molto. La Roma-Lido è la peggiore tratta pendolari d’Italia (dati Legambiente) e dovrà portare 30mila persone allo stadio. Di vitale importanza, a questo punto, diventa il progetto della Regione Lazio che ha già finanziato per 180 milioni il completo restyling della linea: il piano esecutivo, non collegato al progetto-stadio, sarebbe dovuto partire a maggio con un bando di gara, ma pesa sulla vicenda il ricorso della società francese Ratp, che si è vista bocciare il project financing in conferenza dei servizi. Dall’entourage di Nicola Zingaretti assicurano di essere in grado di alzare la frequenza fino 12 treni/ora (uno ogni 5 minuti). “Il primo stanziamento di 180 milioni per trasformare la Roma Lido in metro di superficie – spiega Calabrese – opera su cui vigileremo con la massima attenzione, fa parte di un programma più ampio che arriva fino a 400 milioni e che modernizzerà la linea per chi va allo stadio, ma soprattutto per i 300mila romani che vivono nel X Municipio”. Allo stato attuale, tra l’altro, non risulta compreso nell’accordo il collegamento ciclopedonale con la stazione ferroviaria di Magliana, che a sua volta serve il treno regionale per l’aeroporto di Fiumicino (difficile da potenziare): un’opera poco costosa – appena 7,5 milioni – ma fondamentale, che però non dovrebbe avere difficoltà ad essere reinserita. “Il ponte ciclopedonale rimane – assicura ancora il consigliere M5S – come rimangono tutte le altre realizzazioni minori, e le clausole, fra cui il completamento delle opere pubbliche prima delle private, così come peraltro previsto per legge”.

Viabilità stradale

Delibera Marino – La giunta di centrosinistra aveva imposto ai privati l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare – le due strade sono parallele e adiacenti – fino al raccordo con il GRA, per un costo stimato di 38,6 milioni, più interventi per la messa in sicurezza nel tratto urbano fino al nodo di Marconi. Inoltre, si pretendeva la realizzazione di un nuovo tratto di raccordo tra l’autostrada Roma-Fiumicino (viadotto della Magliana) e Via Ostiense/Via del Mare, con un nuovo ponte sul Tevere (cosiddetto Ponte di Traiano), compreso lo svincolo di connessione con la Roma-Fiumicino, costo stimato di 93,7 milioni di euro. Il nuovo ponte sarebbe andato ad aggiungersi al Ponte dei Congressi, distante un paio di chilometri e già finanziato dal Cipe per 140 milioni di euro.

Bozza accordo Raggi – Resta sicuramente l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare, pare però solo fino alla zona dello stadio: è possibile che il Comune debba addossarsi il costo dei restanti 2 km. Ipotesi rigettata da Calabrese: “L’adeguamento delle vie del Mare/Ostiense, che nella delibera Marino era previsto dal Gra solo fino a Tor di Valle, è stato esteso al nodo Marconi”. Per quanto riguarda i collegamenti con l’altra riva del Tevere, non è stato nominato nelle priorità lo svincolo del viadotto della Magliana. Ciò vuol dire che toccherà alla parte pubblica accollarselo. Il Comune di Roma ha intenzione chiedere al Cipe di rinunciare ai 140 milioni stanzianti per il Ponte dei Congressi – che ha ricevuto parere favorevole, ma che deve essere quasi riprogettato per via delle numerose prescrizioni – e di destinare quei fondi al Ponte di Traiano, il cui progetto verrebbe “regalato” dalla Roma. “In base a varie simulazioni sui flussi – spiega il consigliere – verrà realizzato un solo ponte sul Tevere. Abbiamo già appurato che con le economie sul ponte dei Congressi si potranno realizzare altre opere per rendere adeguato il sistema della mobilità pubblica su ferro nella stessa area”. Il problema è che l’opera finirebbe nella cosiddetta “Fase 2” a cui ha accennato Virginia Raggi, non vincolata al primo calcio d’inizio nel nuovo impianto.

Collegamento fluviale

Delibera Marino – Nella previsione di rendere il Tevere navigabile, la giunta Marino aveva chiesto alla Roma di prevedere anche la realizzazione di due attracchi per imbarcazioni fluviali gestite da un’azienda comunale, uno a servizio del nuovo Parco Fluviale e uno a servizio dello stadio.

Bozza accordo Raggi – L’approdo fluviale è stato stralciato dal nuovo accordo, anche in relazione alle controindicazioni poste dall’Autorità di Bacino del Tevere.

Parco del Tevere

Delibera Marino – La delibera 132 impone alla Roma di realizzare un “landscape plan” per “tutti i 34 ettari di parco che circondano l’area e si affacciano sul Fiume Tevere”. L’idea è di creare un parco fluviale con un importante sistema di videosorveglianza a copertura di tutta l’area.

Bozza accordo Raggi – Il progetto del parco fluviale è stato confermato ma il Comune di Roma, se lo riterrà necessario, dovrà provvedere autonomamente alla videosorveglianza.

Rischio idraulico

Delibera Marino – La delibera prevede un investimento di 5 milioni per la messa in sicurezza idraulica del Fosso di Vallerano e il consolidamento dell’argine del Tevere nei pressi della confluenza del fosso. L’opera è fondamentale perché oggi l’area dove dovrebbe sorgere lo stadio fa da “bacino” per le acque piovane e di esondazione del fiume, le quali altrimenti provocherebbero l’alluvione del quartiere di Decima.

Bozza accordo Raggi – L’opera è stata confermata e messa in cima alle priorità del nuovo patto.

Rischio idrogeologico
Delibera Marino – Negli atti ufficiali approvati in Campidoglio non c’e’ traccia di alcun rischio idrogeologico inerente i terreni dove sono previsti lo stadio e il business park.

Bozza accordo Raggi – Durante la conferenza dei servizi in Regione Lazio, le associazioni ambientaliste hanno più volte fatto presente il rischio di tenuta degli edifici previsti rispetto a un’area alluvionale nell’ansa del Tevere. Un rischio, tuttavia, mai certificato da alcuna prescrizione tecnica in merito. L’argomento era stato ripreso, in parte, dal leader del M5S, Beppe Grillo, che nelle ore immediatamente precedenti all’accordo aveva anche ipotizzato uno spostamento del progetto stadio da Tor di Valle. Comunque sia, lo stralcio delle torri di Libeskind ha mitigato anche i timori dei più “diffidenti”.

Ecocompatibilità edilzia

Delibera Marino – All’ultimo punto delle prescrizioni contenute in delibera, si afferma testualmente che “per tutte le opere relative al progetto di realizzazione dello stadio e del complesso edilizio ad esso connesso, è obbligatoria l’adozione di materiali da costruzione ecocompatibili e di tecnologie, le più avanzate messe a disposizione dalla ricerca scientifica, per l’ottenimento del massimo dell’efficienza e risparmio energetico, con il ricorso alle fonti rinnovabili e agli apparati tecnologici di ultima generazione”.

Bozza accordo Raggi – Il concetto è stato confermato e ribadito da Virginia Raggi a margine del nuovo accordo. “Stiamo trattando per ottenere tutti gli edifici in categoria Casa Clima A – conferma Calabrese – spazi aperti con standard qualitativi massimi, e in convenzione sarà fondamentale stabilire i criteri progettuali propri dell’architettura bioclimatica e della permacultura”.

Proprietà dello stadio

Delibera Marino – Come noto, l’impianto non sarà di proprietà dell’As Roma Spa, ma di una società chiamata Stadio Tdv Spa, partecipata As Roma SPV LLC – con sede nel Delaware (Usa), partecipata da James Pallotta, Michael Ruane, Thomas Dibenedetto e Richard d’Amore – e dall’Eurnova Spa di Luca Parnasi. L’ “utilizzo” – quindi non la “gestione” – dell’impianto, tuttavia, è concesso “in modo prevalente per la durata di anni 30 alla AS Roma S.p.A.” seppur “opponibile a terzi in caso di vendita”. Si precisa che “l’impianto sportivo dovrà essere sine die vincolato a tale destinazione, garantendo la strumentalità” e che “i suddetti accordi e impegni dovranno essere formalizzati prima della stipula della convenzione urbanistica che ne dovrà dare atto”. Una nota del 2014 di Mark Pannes, Ceo della Stadio Tdv, ha precisato ulteriormente che vi sarà “il riconoscimento di un diritto di prelazione in favore della Società sportiva in caso di trasferimento dello Stadio e la partecipazione della As Roma S.p.A. agli utili generati dall’impianto”.

Bozza accordo Raggi – L’argomento non è stato ufficialmente trattato, ma è possibile che si chieda a James Pallotta e ai suoi di fornire maggiori rassicurazioni alla società sportiva e ai tifosi giallorossi circa il futuro dell’impianto e, magari, di aumentare ulteriormente il periodo di tempo di “utilizzo prevalente”.

Consuntivo costi pubblico/ privato
Costo privato - L’investimento iniziale su tutto progetto-stadio da parte della Roma era di circa 1 miliardo e 657 milioni di euro totali, ma con tutte le modifiche ipotizzate il costo dovrebbe scendere a quota 700 milioni. La Roma risparmierà circa 600 milioni di euro sui 626 milioni previsti per la costruzione delle torri di Libeskind, questo perché restano comunque gli edifici bassi e l’albergo. Inoltre salteranno tutta una serie di opere, fra cui quelle più costose sono il ponte carrabile (42 milioni), lo svincolo autostradale (47 milioni) e il prolungamento della linea B (54 milioni di euro). Andranno quindi ricalibrate le opere standard, come i parcheggi, facendo scendere il conto dai 154 milioni iniziali ai circa 100-110 milioni del nuovo accordo. Da limare al ribasso anche i costi sulle opere confermate (stazione Tor di Valle, Via del Mare/Ostiense) e da scorporare le opere minori (sottopassaggio, videosorveglianza, pontili sul Tevere).

Costo pubblico - Come detto, la Regione Lazio si occuperà dell’efficientamento della Roma-Lido (180 milioni) mentre il Cipe, se accoglierà la richiesta del Comune, finanzierà con 140 milioni – già comunque destinati al Ponte dei Congressi – lo svincolo sulla Roma-Fiumicino con contestuale Ponte di Traiano. Va ribadito che si tratta di opere che sarebbero state realizzate comunque. Non è ancora chiaro se il Campidoglio dovrà sborsare i 7,5 milioni per il ponte ciclopedonale che collega alla stazione Magliana della ferrovia regionale (opera comunque importante). Salvo quest’ultima voce, il Comune potrebbe non essere costretto a flussi di cassa in uscita, sebbene si debbano registrare i mancati introiti per alcune decine di milioni di euro derivanti dagli oneri concessori che la Roma avrebbe pagato per realizzare i grattacieli.

Tempistiche e iter burocratico

Delibera Marino – Con l’ok definitivo della Conferenza dei Servizi, la Roma sperava di poter dare giocare la prima partita nel nuovo stadio nell’estate del 2019. Soprattutto, la delibera voluta da Ignazio Marino e Giovanni Caudo vincolava il primo calcio d’inizio al completamento di tutte le opere di servizio previste, al fine di evitare quanto accaduto nella Capitale negli anni precedenti, ovvero l’edificazione privata senza le collegate opere di urbanizzazione.

Bozza accordo Raggi - Entro fine marzo il proponente dovrà presentare un secondo progetto, che dovrà passare in Assemblea Capitolina affinché venga approvato di nuovo l’interesse pubblico (il dibattito nella maggioranza M5S e’ molto serrato). A quel punto, si tornerà in conferenza dei servizi il 5 aprile, in Regione Lazio, dove c’e’ il rischio di dover ricominciare da capo, analizzando soprattutto la questione trasporti e viabilità. Difficile che si possa far scendere in campo i giallorossi per una gara ufficiale prima del 2020. Non solo. Le opere finanziate da parte pubblica, come la Roma-Lido e il ponte sul Tevere, saranno slegate dal progetto-stadio: sulla prima vige il classico “cauto ottimismo”, nonostante incomba il ricorso della Ratp che potrebbe rallentare l’iter, mentre sulla seconda i tempi potrebbero allungarsi a dismisura, tanto da portare Virginia Raggi a inserire l’opera nella cosiddetta “seconda fase”.

«Siamo una cittadina di provincia, con reati in calo e criminalità sotto controllo. Cosa dovrebbero fare allora a Milano o Torino: mettere un fossato con le mitragliatrici?”». La Stampa online, 4 marzo 2017 (p.s.)

Un quartiere-bunker a due passi dal centro storico: è il villaggio “Borgo San Martino”, a Treviso, difeso da un muro alto quasi tre metri. Una zona esclusiva e inaccessibile, dove abitano prevalentemente liberi professionisti: un progetto che sarebbe stato un orgoglio all’epoca del sindaco-sceriffo Gentilini.

Per ora ci sono 21 case, ma solo una è ancora acquistabile. Ai nastri di partenza un ampliamento con altre sette villette a due piani, nell’ambito di una lottizzazione che arriverà a 50 edifici complessivi. Il costo non è proibitivo: per 150 metri quadrati si parte da 320 mila euro, per giungere fino a 410 mila. Da non sottovalutare le spese di gestione, comprese quelle per la piscina comune. Per ora, niente guardie giurate, ma video-sorveglianza per ogni singolo alloggio: quando il compendio immobiliare sarà concluso, si pensa ad una figura ibrida tra portiere e vigilante.

Il fortino è però finito nel mirino di Italia Nostra, che ha accusato il Comune di aver autorizzato una costruzione che non rispetta la normativa urbanistica. «Il Veneto è la terra delle deroghe e delle proroghe - ha ricordato il presidente provinciale dell’associazione ambientalista Romeo Scarpa -, quindi nessuno stupore particolare. Inoltre, vanno stigmatizzate queste iniziative che si basano sul livello di percezione della sicurezza, non su quella reale. Siamo una cittadina di provincia, con reati in calo e criminalità sotto controllo. Cosa dovrebbero fare allora a Milano o Torino: mettere un fossato con le mitragliatrici?».

«Sicuramente la nostra idea non è quella di quartieri ‘fortificati’ o ‘murati’, Treviso è una città sicura e di certo non ha bisogno di ‘alzare barriere’ - gli ha fatto eco il sindaco Giovanni Manildo -. Rispettiamo e promuoviamo il diritto di ciascuno alla protezione e alla privacy. In realtà, la ditta aveva fatto una richiesta di poter realizzare una protezione acustica, una barriera antirumore, per la quale avevamo rilasciato le autorizzazioni del caso. Chiederemo che intervenga per rendere più verde la struttura».

Alla società che ha ideato il villaggio blindato si fregano le mani per l’eco che la polemica sta garantendo: «I telefoni squillano in continuazione - conferma il titolare Remo Berno, emigrante italo-australiano - e la richiesta è pressante. C’è desiderio di privacy e i nostri residence la garantiscono. Il polverone sollevato a Treviso è strumentale: c’è un villaggio gemello a Castelfranco Veneto, ma lì nessuno dice nulla. E nemmeno a Jesolo, dove queste lottizzazioni impenetrabili sono presenti da tempo. Ad Arese esistono addirittura dagli anni Settanta».

«La sicurezza è intesa a 360° - fa sapere una giovane mamma che abita nel “Borgo”-: vicini di casa selezionati, un clima famigliare, bimbi che possono giocare negli spazi comuni senza il rischio di venire investiti dalle auto. Circa i malintenzionati, sono disincentivati dalla presenza della barriera perimetrale».

Quello di San Martino non è l’unico muro invalicabile: a fianco c’è quello della casa di riposo e pochi passi più in là quello del carcere. Da lì, però, i malfattori vorrebbero andarsene più che cercare di entrare.

Vent'anni di lavori di bonifica di un'area preziosa per il futuro della città completamente inutili?Siamo davvero alla vigilia sull'orlo di una catastrofe ecologica? Difficile da credere. la Repubblica, ed. Napoli blog "Orazio post", 2 marzo 2017
E’ veramente difficile non cedere allo sconforto, leggendo le anticipazioni di stampa sulla super perizia commissionata dal Tribunale di Napoli, che doveva dire una parola definitiva sulla conduzione della bonifica di Bagnoli. Le conclusioni cui i periti giungono sono raggelanti: le operazioni di bonifica, anziché migliorare lo stato ambientale dei luoghi, ne avrebbero addirittura compromesso la possibilità d’uso futura, rendendo comunque necessaria una nuova attività di caratterizzazione, di messa in sicurezza, bonifica.

“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, avrebbe sbrigativamente concluso Bartali. Considerato che le prime attività di caratterizzazione risalgono al 1997, il senso della perizia è che abbiamo perso un ventennio, oltre a una barca di soldi, e la prospettiva è ora quella di ricominciare da capo, rituffandoci in un brutto sogno che non vuole finire mai.

Un incubo che non riguarda solo noi, perché il fallimento di Bagnoli è solo un capitolo di una storia più vasta, se in Italia in un quarto di secolo siamo riusciti a portare a termine meno dell’un per cento delle bonifiche previste nei Siti di Interesse Nazionale. Insomma, le bonifiche sono una pagina nera della storia della Repubblica, e questo fatto merita una riflessione seria, lasciando da parte le fumisterie specialistiche, l’atmosfera esoterica, da iniziati più che da addetti ai lavori, che ammanta solitamente queste cose.

C’è, innanzitutto, una difficoltà di governance, perché le competenze alla fine sono distribuite lungo tutta la filiera istituzionale, dallo Stato centrale al Comune, e la cooperazione tra i diversi organi dell’Amministrazione non è mai stato il nostro forte, con una inclinazione piuttosto al rimbalzo di responsabilità. In più c’è l’instabilità istituzionale: nella pluridecennale vicenda di Bagnoli si sono succeduti quattordici governi centrali, cinque amministrazioni regionali, e quattro diversi sindaci, con momenti di stallo e incomunicabilità che si sono pure verificati, soprattutto quando ai diversi livelli sedevano amministrazioni di differente segno politico.

A complicare ulteriormente le cose, c’è stata poi l’evoluzione legislativa, nel caso di Bagnoli le leggi di riferimento sono cambiate ben due volte, con la difficoltà, che si è puntualmente verificata, di dover decidere se e come adeguare i piani di bonifica, faticosamente approvati in conferenza dei servizi, alle nuove regole e ai nuovi standard.

Esiste poi senz’altro un problema di comunicazione e partecipazione pubblica, che alla fine conta, e fa la differenza. Nei paesi che queste cose le sanno fare, con approccio sobrio e in tempi rapidi, proprio la consapevolezza della delicatezza di questo tipo di operazioni, che toccano nel vivo interessi economici rilevanti, ma anche la vita dei cittadini, il diritto alla salute, la qualità degli ambienti di vita, spinge le amministrazioni a sollecitare la partecipazione pubblica, con la produzione di rapporti periodici sullo stato di avanzamento dei lavori, la possibilità di visitare i cantieri, tutte cose che rafforzano la credibilità e la fiducia nelle istituzioni, e che aiutano gli stessi attuatori a non smarrire la rotta. A Bagnoli tutto questo è mancato, l’area è stata di fatto negata alla città per un lungo ventennio, il muro di cinta ha funzionato da limite invalicabile, e nessun racconto, nessun rendiconto è stato fatto alle comunità, con l’effetto di alimentare il disamore, la diffidenza, il distacco.

Ora, con la super perizia, sembra giunto il momento della verità, della resa dei conti. Come altre volte è successo in Italia, la risposta di ultima istanza ad un fallimento politico-amministrativo è di tipo giudiziario, ma anche qui bisogna mantenere i nervi saldi, e intendersi. Perché dopo una lettura attenta della perizia, e della minuziosa ricostruzione tecnico-amministrativa che essa contiene, è possibile e doveroso sottoporre le conclusioni cui giungono gli esperti ad un vaglio critico, con tutto il rispetto dovuto al poderoso lavoro svolto.

Tra le diverse cose che i periti hanno fatto, c’è stato lo scavo e il campionamento di quindici trincee nelle aree funzionali del Parco dello Sport e del Parco urbano, con il prelievo di una quarantina di campioni di suolo. Ebbene, il 90% dei campioni prelevati nel Parco urbano, e il 45% dei campioni prelevati nel Parco dello Sport, hanno evidenziato un contenuto di inquinanti organici (IPA e idrocarburi nel Parco urbano, IPA e PCB nel Parco dello Sport), superiori agli obiettivi di bonifica che erano stati previsti. Questo sia nello strato profondo, di riempimento con materiali più grossolani, sia nello strato superiore, a granulometria più fine, servito a ricostruire il suolo superficiale.

Sulla base di questi dati, gli esperti giungono alla conclusione che “… gli interventi di bonifica certificati, così come realizzati abbiano compromesso la futura fruibilità dei luoghi, perlomeno quelli a destinazione d’uso residenziale, arrivando talora a incrementare le concentrazioni esistenti prima della bonifica. Tale compromissione determina la necessità di una nuova attività di caratterizzazione e di bonifica/messa in sicurezza, finalizzata a rendere tali luoghi a tutti gli effetti conformi ai sensi di legge, nei termini di un’analisi di rischio”.

Ora, se è senza dubbio deprecabile il fatto che una bonifica costosa e complessa non abbia condotto, foss’anche solo nei punti di campionamento interessati dalla perizia, alla risoluzione dei problemi iniziali di contaminazione, è sul giudizio netto di “compromissione dei luoghi” che non è possibile essere d’accordo, proprio perché, alla luce della procedura prevista dalla legge, esso può essere legittimamente espresso solo dopo aver realizzato ad un’analisi di rischio sito-specifica, la stessa chiamata in causa dai periti, i quali però, nell’ansia di giungere comunque a un verdetto netto e definitivo, sembrano incorrere in un curioso loop logico.

Quello che si vuole affermare è che “compromissione dei luoghi” significa una cosa ben precisa, e cioè che quei luoghi non possono essere utilizzati dalle persone in condizioni di sicurezza, senza che ci siano ragionevoli rischi per la salute, dovuti all’esposizione concreta a sostanze pericolose, per contatto, inalazione o ingestione. Per sapere questo occorre l’analisi di rischio.

Resta il fatto, che i dati epidemiologici di scala comunale, pure citati dalla perizia, dicono che la mortalità per tumore è più bassa a Bagnoli che nel resto della città, mentre le analisi effettuate dall’ABC hanno evidenziato come le acque di falda risultino pulite anche a monte della barriera idraulica, e questa è la migliore conferma che i potenziali contaminanti presenti nei suoli hanno una bassissima mobilità, e non se ne vanno in giro per l’ambiente.

Alla fine, anche la perizia deve riconoscere, seppur con formula involuta, che “non sono emersi elementi che ci permettano di concludere con certezza che esiste un rapporto fra inquinamento ed eventuale danno alla salute nel caso specifico, poiché mancano dati epidemiologici e dati di monitoraggio biologico, che esprimono la reale dose assorbita.”

Insomma, se sono stati fatti errori devono essere perseguiti, ma l’insieme delle cose che oggi sappiamo su Bagnoli ci dice che, per grazia di Dio, la catastrofe ecologica e il disastro ambientale, non abitano qui. E’ un pezzo di città da mettere a posto, ed è a questo punto assolutamente necessario che le attività di caratterizzazione e analisi del rischio, recentemente decise nel tavolo istituzionale tra Governo, Regione e Comune, procedano il più velocemente possibile, per dare risposta ai dubbi e alle inquietudini che la perizia ha lasciato in sospeso.

«Quali forme e funzioni alternative a quelle puramente decorative possono essere immaginate per le aree verdi che fanno parte dello spazio pubblico e come esse possono adattarsi ai bisogni e alle diverse modalità di fruizione della città?» Millennio urbano, 1 marzo 2017 (c.m.c.)

Una filosofia del verde urbano è questione seria ed essa ha innanzitutto bisogno di un glossario per inverarsi sia nella sua declinazione amministrativa che nella percezione collettiva della parte non edificata delle città. Vale la pena tornare quindi sulla polemica delle palme messe a dimora nelle aiuole di piazza del Duomo a Milano e farlo a partire da alcuni concetti sulla cui confusione spesso indugiano gli amministratori.

Partiamo quindi dalla nozione di giardino pubblico, al quale appartiene l’aiuola che di esso è una versione spazialmente limitata e preclusa alla pubblica fruizione. Sorvoliamo qui sulla storia dell’apparizione dei giardini pubblici nello spazio urbano per concentrarci solo un attimo sui loro aspetti progettuali e sulle relazioni di questi ultimi con gli elementi naturali.

Rispetto allo scandalo delle palme a Milano ciò che qui interessa sottolineare è che i giardini, in ogni loro forma e manifestazione aiuole comprese, sono un consolidato esempio di globalizzazione botanica e l’arte della composizione delle differenti specie vegetali ha storicamente cercato di essere qualcosa di distinto dalla rappresentazione della natura circostante. Segno di questo scostamento dalla imitazione della natura può essere colto da ciò che scriveva nel 1838 lo scozzese John Claudius Loudon in The Suburban Garden. Piantare alberi e arbusti non autoctoni era l’unico modo per fondare un’arte del giardinaggio altrimenti impossibile, dato che la semplice imitazione della natura non ha di per sé qualità artistiche. A partire dalla metà del XIX secolo il principio dello stile gardenesque, che ha influenzato tanto i giardini privati quanto quelli pubblici, si è andato via via consolidando come un vasto repertorio di piante esotiche.

Di esse fanno parte le palme cinesi (Trachycarpus fortunei) piantate nell’aiuola tripartita di piazza del Duomo che hanno stupidamente fatto gridare all’africanizzazione di Milano. A ragione il progettista del recente allestimento sponsorizzato da Sturbucks ha affermato che non c’è da meravigliarsi dell’uso delle palme e dei banani, perché soprattutto le prime, nella versione cinese climaticamente più adattabile, sono presenti da oltre un secolo anche nei giardini lombardi. L’esotismo della composizione vegetale, che sta per essere completata di fronte al monumento che di Milano è il simbolo, non ha quindi di per sé nulla di scandaloso ed è una solenne stupidaggine rivendicare il primato delle piante autoctone negli allestimenti delle aiuole.

Eppure nel precedente allestimento della piccola area verde di piazza del Duomo, realizzato grazie ad un differente sponsor nel 2014, un insieme di alberi, arbusti e piante erbacee “autoctone della pianura Padana” aveva sostituito i “fiorellini laccati e cavolfiori ornamentali nel luogo simbolo di Milano”. “ La natura entra in città. E lo fa dalla porta principale”, era la perentoria affermazione che accompagnava la descrizione giornalistica della nuova filosofia milanese del verde urbano, che«non asseconda il gusto del momento con fiori che durano una stagione, ma preferisce specie perenni, nella loro forma spontanea, che rappresentano il territorio».

Qui sta lo scandalo, almeno nel significato etimologico di inciampo: solo tre anni fa l’obiettivo era la rinaturalizzazione delle aree verdi, con conseguente risparmio sui costi di gestione, e ora si dà via libera ad una interpretazione decisamente artificiale dell’aiuola che fa parte della pavimentazione della piazza simbolo di Milano. Quanta confusione, quindi, tra i carpini del 2014 e le palme del 2017, riguardo la funzione ecosistemica e simbolica del verde urbano.

Le palme dello scandalo, al di là del dibattito sul valore estetico del nuovo allestimento dell’aiuola, potrebbero fornirci l’occasione per interrogarci sulla funzione di quel fazzoletto di verde non fruibile a chiusura di una piazza che è ormai anche uno dei centri nevralgici dei flussi turistici globali. Rispetto poi al fatto che non vi è dubbio che un’aiuola abbia eminentemente una funzione ornamentale c’è però da chiedersi cosa significhi questa infinitamente piccola mimesi della estremamente grande diversità botanica del pianeta modificata ogni tre anni per iniziativa dello sponsor di turno con l’alternanza di flora locale e globale. Quali forme e funzioni alternative a quelle puramente decorative possono invece essere immaginate per le aree verdi che fanno parte dello spazio pubblico e come esse possono adattarsi ai bisogni e alle diverse modalità di fruizione della città?

A questo riguardo una riflessione può essere fatta a partire dalla foto del 1943 che fa da testata a questo articolo. Durante l’ultima guerra la necessità di trovare spazi per la produzione di cibo in una città ridotta alla fame non aveva risparmiato l’aiuola di piazza del Duomo, dove al posto delle piante ornamentali fu seminato il grano. In anni più recenti Renzo Piano e Claudio Abbado avevano pensato a quell’area per mettere a dimora una piccola parte dei 90.000 alberi che avrebbero dovuto costituire il rimedio principale ai mali ambientali di Milano secondo la provocatoria proposta del grande direttore d’orchestra.

Essa aveva sicuramente il pregio di considerare il verde urbano molto al di là della funzione decorativa da mero compendio vegetale delle composizioni architettoniche tipico della tradizione Beaux-Art. Tra la decorazione vegetale, la produzione di cibo e la valenza ecosistemica si snoda tutta l’indeterminatezza del concetto di verde urbano, che include una certa quantità di usi diversi del suolo: dalle aiuole spartitraffico alle aree agricole e boschive interne alla città, passando per i parchi pubblici, le aree cani, i giardini privati e persino le terrazze e i balconi.

Il passaggio dalla gestione pubblica a quella sponsorizzata di quella porzione di verde urbano rappresentata dall’aiuola di piazza del Duomo dovrebbe quindi farci riflettere su quanto sia fondato continuare a considerarla tale. Tanto le piante autoctone quanto quelle esotiche vengono temporaneamente messe a dimora in una scenografia di elementi vegetali che diventa un episodio del paesaggio urbano. Se la sua funzione è simile a quella che hanno le fioriere sui balconi degli edifici, essa avrà necessariamente poco a che fare con il concetto di “area verde” inteso come spazio non edificato e non impermeabilizzato.

Se è così lo scandalo delle palme non deve sorprendere, ma invece deve meravigliare la confusione che regna sul concetto di verde urbano. Esso viene continuamente sbandierato come elemento cruciale di concetti quali la sostenibilità, la resilienza e l’equità sociale delle città, finendo così per far parte della ulteriore confusione che attorno ad essi gravita. Spesso utilizzato per operazioni di creazione preventiva del consenso delle politiche pubbliche, esso viene infine assimilato all’idea di bene comune che piace tanto agli amministratori in virtù della sua genericità.

Se si vuole affrontare seriamente una nuova filosofia del verde urbano che lo sottragga innanzi tutto alla mera funzione decorativa, diventata economicamente insostenibile per le casse pubbliche, si deve prioritariamente far uscire il concetto dalla vaghezza con il quale lo si evoca quando di mezzo ci sono questioni importanti come il rapporto tra pubblico e privato nella gestione delle città.

Riferimenti

L. De Vito,Orti perenni e prati fioriti la nuova filosofia del verde inizia da piazza Duomo, La Repubblica, 4 luglio 2014.

«I prefabbricati sono costati 6,5 milioni, cade l'idea di usarli per allestire un villaggio della solidarietà e ospitare i senzatetto, dopo il no netto della Regione alla possibilità di utilizzarli per i profughi. Verrà ceduto a chi paga le spese per smontarlo». la Repubblica, ed Milano, 27 febbraio 2017 (p.s.)

E anche l'ultimo tentativo del Comune di "salvare" il campo base di Expo trasformandolo in un "villaggio dell'accoglienza " per sfrattati e senzatetto è fallito. Alla fine Palazzo Marino si è arreso. Con l'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino che accusa la Regione di «atteggiamento ottuso». Il motivo? «Finora non ci hanno risposto: mi pare evidente che non vogliano aiutarci e a questo punto non possiamo perdere più tempo ». Corsa terminata, si torna alla casella di partenza. E al bando che i liquidatori di Expo spa pubblicheranno già in questi giorni. Obiettivo: vendere al miglior offerente, che dovrà anche smontarle a proprie spese, le palazzine prefabbricate con 576 alloggi, ma anche uffici, un edificio utilizzato come mensa e un magazzino.

Sembra una storia senza fine, quella dell'ex campo base. Una piccola città sorta a Rho, a un chilometro in linea d'aria dal sito, per accogliere durante la corsa contro il tempo del cantiere gli operai che hanno costruito i padiglioni e, durante i sei mesi dell'Esposizione, le forze dell'ordine che hanno vigilato sull'evento. Una sorta di Fortezza Bastiani, poi. Rimasta intrappolata dalle polemiche politiche, come quelle che hanno diviso i partiti e le istituzioni sulla possibilità di accogliere i migranti.

Un "no" alla presenza dei profughi, che la Regione ha continuato a ribadire. Ricordando come gli accordi originari tra Expo spa e il Comune di Rho imponessero lo smantellamento delle costruzione e la trasformazione dell'area in una zona verde. Il Comune con questo ultimo tentativo avrebbe voluto utilizzare gli spazi per l'emergenza abitativa. «Ma anche in questo caso - dice Majorino - se Regione lo avesse chiesto, non avremmo mai potuto accettare un vincolo discriminatorio che escludesse persone senza casa di origine straniera».

Un rischio concreto, per il Comune. Che alla fine ha abbandonato l'idea. Passando a quello che l'assessore chiama "il piano B". Eccolo: «Gli alloggi per 300 persone che in via Lombroso dovevano restare in piedi per qualche settimana saranno aperti per sei mesi. Se quell'area dovesse servire, poi, discuteremo con Sogemi (la società comunale che gestisce l'Ortomercato, ndr) per trovarne un'altra in zona».

A questo punto, però, il progetto si allargherà e sarà destinato non solo a clochard, ma anche «a persone senza casa e a richiedenti asilo». E il campo base? Dopo quasi due anni dall'inizio di Expo, andrà all'asta. Con i liquidatori che già lo scorso novembre avevano preparato il bando e hanno la necessità di "valorizzare i cespiti aziendali". Si prova almeno a risparmiare i 2,2 milioni che servirebbero per smontare tutto. E a non buttare via beni pagati con soldi pubblici: i prefabbricati hanno un valore di 6,5 milioni e in tutto, tra recinzioni e fondamenta, ne sono stati spesi 9 per far sorgere il villaggio.

Il bando dovrebbe essere pubblicato già domani e le eventuali offerte potranno essere presentate fino al 31 marzo. Expo spa si rivolge a «enti pubblici e a operatori economici e non», come "società e associazioni". Potranno acquistare il campo base a pezzi. A parte i tre moduli che la Regione ha voluto destinare alle popolazioni colpite dal terremoto, tutto il resto va sul mercato. A cominciare dalle 16 palazzine su tre livelli, con 576 camere: ognuna, grande otto metri quadrati, ha un bagno privato, l'aria condizionata ed è arredata.

Nel giorno dell'assegnazione degli Oscar, vi raccontiamo una storia di un cinema abbandonato. Ha un lieto fine, per quanto provvisorio e affidato esclusivamente alla buona volontà dei cittadini. (m.b.)

Era un cinema, andò bruciato
Lo prese il comune, fu ristrutturato
Finirono i soldi, fu abbandonato
Non ci volle molto, fu vandalizzato
Lo chiesero in tanti, non fu riassegnato
Finché un bel giorno, fu occupato
E senza permesso, risistemato.

A Catania, da qualche mese, è stato occupato il vecchio cinema San Cristoforo-Midulla, ristrutturato negli anni novanta come centro polifunzionale grazie ai fondi speciali del programma "Urban", e poi abbandonato per mancanza di risorse ordinarie. E' una storia piuttosto comune, nel sud Italia e non solo, provvisoriamente a lieto fine grazie all'iniziativa della cittadinanza attiva.

Sul sito del Labsus (Laboratorio di sussidiarietà) potete conoscere i dettagli dela storia dell'ex Cinema Midulla. Sul sito degli Attivisti per il Medulla trovate il resoconto delle cose fatte nel primo mese di attività.

Nota

A Pistoia, durante la scuola di eddyburg, parleremo delle strutture culturali di prossimità. Proveremo a capire se e in che modo, attraverso i piani urbanistici e l'iniziativa delle amministrazioni locali, si possano scrivere storie a lieto fine, possibilmente senza passare attraverso ristrutturazioni effimere, chiusure e degrado, occupazioni con o senza sgomberi. A seguire, si svolgeranno i quattro giorni di incontri pubblici dell'iniziativa Leggere la città, quest'anno dedicata al tema Cultura è comunità. Sul sito della scuola, sono disponibili le informazioni per partecipare. Vi aspettiamo (m.b.).

Prosegue il bailamme. Una cosa è chiara: hanno perso tutti. Articoli di Mauro Favale, Marina della Croce, Giuliano Santoro, da la Repubblica/Roma e il manifesto, 26 febbraio 2017 (c.m.c.)

la Repubblica/Roma
STADIO: PRIMA PIETRA NEL 2017
MA LA REGIONE AVVISA RAGGI «SERVE UNA NUOVA DELIBERA»

di Mauro Favale

«“Spieghino dove sta la pubblica utilità. Vigileremo su trasporti e ambiente” La Lazio torna alla carica: “Ora un impianto anche per noi. E non al Flaminio”»

Virginia Raggi, l’altra sera, al termine dell’incontro, ha chiamato Nicola Zingaretti per avvisarlo dell’accordo con la Roma. Ieri, però, l’assessore regionale ai trasporti, Michele Civita, ha sottolineato come, per ora, «non si conoscono le opere e le infrastruture per garantire la mobilità, il miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana.

Su tutto ciò la Regione eserciterà il ruolo e la funzione di sua competenza ». E non solo: mentre è scontato che la conferenza dei servizi subisca un nuovo slittamento di 30 giorni (stavolta su richiesta della Roma), sempre la giunta Zingaretti avvisa il Campidoglio che, sebbene consideri l’accordo «una buona notizia perché fa compiere un importante passo in avanti e supera le incertezze degli ultimi 7 mesi», è comunque necessaria una nuova delibera da approvare in Aula Giulio Cesare.

«L’attuale conferenza dei servizi — ricorda Civita — è incardinata sulla delibera approvata dal consiglio comunale che ha riconosciuto il pubblico interesse al progetto presentato nel 2014. Se il progetto cambia bisognerà richiedere una nuova valutazione tecnica e un nuovo pronunciamento da parte dell’Aula». A questo servirà il mese in più, prima della riapertura della conferenza dei servizi, il 3 aprile e non più il 3 marzo.
Entro quella data, la maggioranza dovrà approvare il nuovo atto che autorizza la costruzione a Tor di Valle 500 mila metri cubi anziché il milione previsto inizialmente. Comunque 5 volte in più rispetto al piano regolatore. «Abbiamo condotto il lavoro con fermezza e compattezza», rivendica il capogruppo M5S in Comune Paolo Ferrara.

Silenziato il dissenso interno, con la deputata Roberta Lombardi, spesso critica, che rende merito a Virginia Raggi: «Stracciato il progetto iniziale — scrive su Twitter — dimezzate le cubature extra-stadio. Nessun grattacielo. Questo è uno stadio fatto bene. Brava Virginia». E pazienza se nel nuovo disegno il ponte sul Tevere e la bretella sulla Roma- Fiumicino verranno realizzate in un secondo momento rispetto all’arena. Restano, invece, le opere di messa in sicurezza del fosso di Vallerano, gli interventi sulla via del Mare e il potenziamento della Roma-Lido.

Il giudizio di Legambiente rimane molto critico: «Si conferma l’errore dell’area scelta, che rimarrà irragiungibile con la metropolitana». Negativa anche la posizione di Verdi e Radicali. Il Pd, invece, si dice soddisfatto ma chiede che la giunta chiarisca «iter amministrativo, impegni finanziari e opere pubbliche». E mentre l’iter del vincolo sulle tribune dell’Ippodromo va avanti (superabile, con ogni probabilità, dal parere unico dello Stato in Conferenza dei servizi), anche la Lazio chiede «par condicio» per la costruzione del suo stadio. Lo fa per bocca del suo presidente Claudio Lotito che però avverte la giunta di «non ricorrere allo stratagemma dello Stadio Flaminio che non ha alcun requisito e condizione oggettiva per essere lo stadio della Lazio».

il manifesto
STADIO «IRRAGGIUNGIBILE».
I TIMORI DI AMBIENTALISTI E REGIONE LAZIO

di Marina Della Croce

«Calata di cemento. Le infrastrutture dovrebbero essere realizzate in tempi diversi ma per ora non c’è alcuna certezza. La Pisana: "Controlleremo"»

Il fischio di inizio della prima partita nel nuovo stadio della Roma a Tor di Valle è fissato per il 2020. Resta da capire se quel giorno i tifosi potranno sostenere la propria squadra del cuore dagli spalti oppure no. Come sarà possibile raggiungere il nuovo impianto è infatti uno dei punti ancora da chiarire dell’accordo siglato la scorsa sera in Campidoglio. «Forse in funivia», ha ironizzato ieri l’esponente del Pd romano Giovanni Zinola.

Il taglio delle opere pubbliche concesso dalla sindaca Virginia Raggi rischia infatti di mandare definitivamente in tilt un’area della città già pesantemente congestionata dal traffico. Qualche chiarimento in più dovrebbe essere contenuto nella nuova delibera che la maggioranza capitolina dovrà approvare una volta che il documento sarà stato esaminato dagli uffici competenti, e che andrà a sostituire quella varata dalla precedente amministrazione guidata da Ignazio Marino. Il tutto dovrebbe avvenire nell’arco di un mese ma nel frattempo va avanti l’iter del vincolo sull’ippodromo di Tor di Valle avviato dalla soprintendenza.

L’accordo raggiunto prevede infatti la realizzazione di opere per complessivi 500 mila metri cubi, la metà del milione di metri cubi contenuti nel progetto precedente ma molti di più rispetto ai 350 mila previsti dal piano regolatore dell’area. La legge sugli stadi esclude però dal conteggio la struttura sportiva e gli spogliatoi, rendendo così fattibile il progetto che comunque non comprende più a realizzazione delle tre torri previste inizialmente.

Il problema riguarda le infrastrutture che verranno realizzate. Un particolare che preoccupa anche la regione lazio. «Mentre è stato detto chiaramente che le attuali cubature saranno ridotte in modo significativo – ha detto l’assessore regionale Michele Civita annunciando controlli – non si conoscono a oggi le opere e le cubature che l’accordo reputa indispensabili per garantire la mobilità sia pubblica che privata, i miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana, decisivi per lo sviluppo sostenibile di quel quadrante della città».

In realtà ieri qualche particolare in più dell’accordo si è saputo, non abbastanza però da rendere ingiustificate le preoccupazioni espresse finora. Secondo quanto si è appreso, infatti, il piano di opere pubbliche dovrebbe essere realizzato in due fasi. Le opere propedeutiche allo stadio, e quindi da realizzare subito, sarebbero il potenziamento della Roma-Lido, gli interventi sulla via del Mare e la messa in sicurezza idrogeologica del fosso di Vallerano, nell’area di Decima.

In seguito, ma non è specificato quando, dovrebbero essere realizzati il ponte aggiuntivo sul Tevere e la bretelle sulla Roma Fiumicino. Salta il prolungamento della metropolitana B, al quale i 5 Stelle si sono sempre detti contrari. «Resta in piedi la farsa del raddoppio della via del Mare, solo per il breve tratto iniziale, che aumenterà l’effetto imbuto gravando pesantemente sulla viabilità», ha spiegato ieri l’urbanista Raimondo Grassi. «Quanto alla stazione di Tor di Valle anche qui si prendono in giro i romani: la stazione già esiste ed è attualmente oggetto di riqualificazione».

Preoccupazioni espresse ieri anche da Legambiente, per niente convinta dell’area scelta per realizzare l’opera. «Rimarrà irraggiungibile con la metropolitana, visto che il progetto sembra finanziare solo la riqualificazione della stazione di Tor di Valle, ma continueranno a passare solo i vecchi treni di una linea che funziona malissimo e non emerge alcun finanziamento pubblico che preveda il potenziamento della linea», ha spiegato il vicepresidente nazionale Edoardo Zanchini.

La firma dell’accordo è servita almeno a riportare una pace apparente in casa grillina. «brava@virginiaraggi» ha scritto ieri in un tweet Roberta Lombardi, non proprio un’amica della sindaca. «Abbiamo dimostrato che quando lo Stato fa lo Stato non si inchina davanti ai costruttori, ai palazzinari. Lo stadio d farà, ma si farà secondo le nostre regole», ha esultato invece il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio guardandosi bene però dal rispondere alle preoccupazioni di quanti si interrogano sul futuro di Tor di valle.

Intanto, come era prevedibile, adesso anche la Lazio reclama un suo impianto. «Cara sindaca raggi – ha fatto sapere ieri il presidente Claudio Lotito – ci aspettiamo che applichi par condicio nei confronti degli innumerevoli tifosi biancocelesti e consenta la creazione di un nuovo impianto della Lazio»

il manifesto
RAGGI-PARNASI,
«UN COMPROMESSO CHE HA IL SAPORE DELLA SCONFITTA»
di Giuliano Santoro

«I malumori della base grillina. L’accordo verbale annunciato dalla sindaca non soddisfa molti consiglieri comunali»

Dopo l’annuncio di Virginia Raggi sullo stadio della Roma a Tor di Valle con (ridotta) cementificazione annessa, tutti aspettano di vedere concretamente in cosa consiste il ridimensionamento delle cubature. Tra addetti ai lavori, attivisti e tecnici, il leit motiv è uno solo, scandito con mal celata disillusione: «Bisogna vedere le carte, al momento c’è solo un accordo orale».

Dalla base del m5s,la stessa che nei giorni scorsi aveva manifestato in Campidoglio contro l’intesa e che aveva costretto Beppe Grillo fino alla quasi negazione di ogni margine di trattativa, trapelano motivi di amarezza, quando non di risentimento. Il gruppo del Movimento 5 Stelle al municipio VIII, quello interessato dalla grande opera, aveva annunciato un incontro assieme al Comitato contro il cemento a Tor di Valle e alla Carovana delle periferie. Mestamente, quell’assemblea è stata annullata. «Non c’è più motivo di discutere pubblicamente, almeno per adesso – ci spiegano – Di sicuro, al momento pare proprio che comandino sempre gli stessi, con le stesse logiche». Le voci sugli incontri preparatori segreti tra costruttori e amministratori per arrivare all’accordo non aiutano i sostenitori della partecipazione dal basso.

Poco si sa del compromesso annunciato da Raggi. Si conoscono i problemi che esso solleva. Il primo è quello relativo alle opere di urbanizzazione. Giovanni Caudo, assessore all’urbanistica nella giunta di Ignazio Marino e regista della prima fase dell’accordo, aveva puntato tutto sull’investimento dei privati in opere pubbliche, in una sorta di logica di riduzione del danno. Il cuore del lodo Raggi-Parnasi pare invece battere il ritmo opposto: il costruttore rinuncia a una parte di cubature ma al tempo stesso il suo impegno sulle spese di compensazione viene meno.

Traballa il rafforzamento della ferrovia Roma-Lido, si allontana il prolungamento della metro B, vacilla il ponte sul Tevere. Caudo risponde dall’estero: «Non conosco i dettagli del progetto attuale», dice. Poi aggiunge con una punta di sarcasmo: «Nessuno regala niente a nessuno, ma se davvero ci fosse una diminuzione di cemento a parità di opere pubbliche sarei contento come tutti».

Le opere pubbliche previste nell’accordo contemplano due fasi. La linea Roma-Lido, la via del Mare e le opere contro il dissesto idrogeologico da realizzare prima dell’apertura dello stadio. Il ponte sul Tevere e lo svincolo della Roma-Fiumicino in un secondo momento. Fuori resterebbe il raccordo con la metropolitana. Preoccupa soprattutto la seconda parte, temporalmente troppo lontana e da realizzare quasi «fuori tempo massimo». «Mentre è stato detto chiaramente che le attuali cubature saranno ridotte – fa notare l’assessore regionale al territorio Michele Civita – non si conoscono a oggi le infrastrutture per garantire la mobilità, il miglioramento dell’ambiente e della qualità urbana».

I prossimi giorni, da questo punto di vista, saranno decisivi. Gli uffici comunali già da lunedì lavoreranno a un testo di delibera che assorbirà anche la variante al Piano regolatore necessaria per autorizzare almeno 150 mila metri cubi in più, rispetto ai 350 mila del Prg vigente. Parallelamente alla delibera, il Campidoglio e la Roma dovrebbero lavorare anche sullo Schema di convenzione. Dal 3 marzo tornerà a riunirsi la Conferenza dei servizi. Una riunione che in teoria avrebbe dovuto essere l’ultima, quella decisiva, ma che nei fatti invece dovrebbe concludersi con la concessione di una ulteriore dilazione dei tempi richiesta dai proponenti.

Almeno altri 30 giorni per permettere all’amministrazione capitolina di scrivere un nuovo testo, e al consiglio comunale di votare, una nuova delibera. Si arriverebbe così al 3 aprile. Fino a ieri, si contavano una decina di consiglieri M5S critici sul progetto. Ora la posizione vacilla, dopo che anche Roberta Lombardi ha accolto la linea dei vertici e sposato l’ipotesi di compromesso: «Stracciato il progetto iniziale. Dimezzate le cubature extra-stadio. Nessun grattacielo. Questo è uno #StadioFattoBene, brava Virginia Raggi», ha twittato.

Parole concilianti arrivano anche da Cristina Grancio, una delle consigliere più critiche: «In politica nessuno asfalta nessuno, ma il sospetto di un pareggio che accontenta tutti mi viene. Allora incominciamo con il dire che senza la vigorosa fermezza dell’azione di contrasto, cara Virginia, non avremmo portato a casa il ‘nuovo e più contenuto progetto’. Lo confesso, giocavo per vincere e non per pareggiare. Ma come si usa dire proprio nel calcio ‘la partita finisce quando l’arbitro fischia’».

Gli accadimenti di questi giorni rischiano di far dimenticare un impedimento non da poco: la procedura di vincolo avviata dalla soprintendente Margherita Eichberg sull’ippodromo di Tor di Valle. L’iter dura 120 giorni, Parnasi e Pallotta potrebbero richiedere quattro mesi di proroga alla Conferenza dei servizi, scommettendo su una futura bocciatura da parte del Ministero della cultura della richiesta di vincolo. Beppe Grillo era calato a Roma per annunciare che lo stadio sarebbe stato opera di costruttori e non di palazzinari.

La via di mezzo individuata da Virginia Raggi rischia di imboccare la strada opposta: se prima una cementificazione imponente (e largamente discutibile) imponeva opere pubbliche e impegni verso la città, questo accomodamento potrebbe svincolare la cittadella dello stadio da ogni opera pubblica. Questo è quel che appare dai primi rilievi. Nei prossimi giorni, vedremo le carte.

«Campidoglio. Dopo un ricovero per un malore, Raggi incontra i proponenti a Palazzo Senatorio per l’intesa: dimezzate le cubature della cittadella» È davvero un miglioramento? il manifesto, 25 febbraio 2017, con postilla

«L’accordo c’è: lo stadio si farà a Tor di Valle ma senza le torri». Virginia Raggi dà l’annuncio alle 22.30, dopo una giornata burrascosa e al cardiopalma cominciata con un malore da stress che l’ha costretta a nove ore di ricovero presso l’ospedale San Filippo Nieri.

Il dg giallorosso Mauro Baldissoni, il costruttore Luca Parnasi e il project manager della sua società Parsitalia, Simone Contasta, accompagnati da Gianluca Comin, responsabile della comunicazione per il progetto di Tor di Valle – il business park con annesso stadio della Roma – entrano finalmente in Campidoglio alle 21.30 circa per l’atteso incontro con la giunta pentastellata.

I proponenti dell’opera hanno analizzato le proposte dell’amministrazione Raggi per ore, mentre attendevano che la sindaca facesse il punto preliminare con gli esponenti della sua maggioranza. E alla fine hanno deciso di accettare i paletti imposti dalla giunta: abbattimento del 50% delle cubature, sostanzialmente le tre torri di Libeskind e rifacimento del progetto, tenendo conto del rischio idrogeologico dell’area di Tor di Valle.

La sindaca Raggi, malgrado la giornata decisamente pesante, ne è uscita soddisfatta, determinata com’era a chiudere la «vertenza stadio» il più velocemente possibile, anche perché incombe la deadline della conferenza dei servizi fissata al 3 marzo. In mano aveva una carta in più: il parere dell’avvocatura capitolina che sarebbe comunque favorevole all’annullamento (senza conseguenze pecuniarie) della «delibera Marino» sulla pubblica utilità dell’opera.

Dunque la trattativa è arrivata al punto – l’unico per salvare capra e cavoli, sia per la giunta a 5 Stelle che per gli impresari Luca Parnasi e James Pallotta – della modifica del progetto originario di Tor di Valle. Già respinto duramente dal presidente di Eurnova e proprietario dei terreni lo spostamento ad altra location, l’unica possibilità rimasta era quella di una riperimetrazione del progetto, con spostamento di qualche centinaio di metri, pur rimanendo nell’area di Tor di Valle, di una riduzione sostanziosa delle cubature, (secondo quanto promesso, sostanzialmente senza le tre torri), e una serie di modifiche dei materiali e delle tecniche da impiegare per adeguarsi al rischio idrogeologico dell’area.

La sindaca, al termine del vertice con la Roma, è apparsa sorridente accanto al dg della società Mauro Baldissoni. «Le cubature saranno dimezzate, in un nuovo progetto ecocompatibile, con una nuova fermata della Roma-Lido e la riqualificazione viaria tra Ostiense e via del Mare. L’As Roma sarà nostra alleata». Baldissoni concorda e ringrazia la sindaca visibilmente soddisfatto: «Si inizia, è una giornata storica. Abbiamo adattato i piani alle esigenze della nuova giunta. Siamo sicuri che sarà un progetto che renderà orgogliosi non solo i tifosi romanisti ma tutti i romani».

«Ho lasciato l'ospedale. Sto bene. Grazie a tutti per l’affetto. Ora sono in Campidoglio a lavorare per la città», è il post su Fb con cui Virginia Raggi poco dopo le 18 annuncia di aver superato il malore. Per tutto il pomeriggio è rimasta in contatto telefonico con il suo ufficio e con Beppe Grillo, preoccupata per la riunione sul bollente «dossier stadio» che avrebbe dovuto svolgersi nel primo pomeriggio. I suoi, dal blog di Grillo, la incitano con un «#ForzaVirginia, giornalisti restate umani», per chiedere ai media di rispettare la privacy della sindaca. Un abbraccio caloroso le arriva pure dalla deputata Roberta Lombardi che twitta: «Forza Virginia, rimettiti presto. Ti siamo vicini!». E dal gruppo del Pd, dal leader della Lega Matteo Salvini e da Fdi giungono «i più sentiti auguri di una pronta guarigione».

In piazza del Campidoglio intanto i tifosi giallorossi (pochi, a dire il vero), che hanno risposto al tam tam mediatico, srotolano lo striscione «Sì allo stadio, basta melina» e seguono la ola catastrofista lanciata dal presidente Pallotta scandendo: «Un solo grido un solo allarme: sì a Tor di Valle, sì a Tor di Valle» e «Famolo, famolo sto stadio, o Virginia famolo sto stadio». Attendo una «buona notizia» e invece apprendono quella spiacevole della Digos che ha già iniziato ad identificarli, uno per uno, dai video registrati in piazza, perché il loro assembramento non era autorizzato. Con loro, anche l’ex candidato sindaco e vicepresidente della Camera Roberto Giachetti che si autodenuncia: «Qualunque iniziativa verrà presa nei confronti dei tifosi – annuncia l’esponente del Partito radicale – deve essere presa anche nei miei, e da subito annuncio che rinuncio a qualunque immunità parlamentare».

postilla

A qualcuno potrà sembrare un buon compromesso. Invece il rimedio è peggiore del male. La soluzione della Giunta Marino accettava la scelta sbagliata dello stadio della Roma in quel luogo migliorando il progetto presentato dai padroni del vapore e ottenendo in cambio consistenti vantaggi per un vasto settore della città. Scelta, sosteniamo, sbagliata anche perché non si contrattano volumi edilizi non necessari in cambio di benefici per la città. Ma la scelta della sindaca e dei suoi supporters non riduce il danno e in più riduce il vantaggio per la città. Ci domandiamo: era impossibile per la Giunta Raggi cancellare la dichiarazione di "interesse pubblico" con gli stessi poteri con cui la giunta Marino" l'aveva approvata? Se non lo ha fatto, è evidentemente perché era disposta fin dall'inizio a mettere lì lo stadio e gli annessi. Tanto più che, come ricorda Eleonora Martini nel suo articolo, «il parere dell’avvocatura capitolina sarebbe comunque favorevole all’annullamento (senza conseguenze pecuniarie) della "delibera Marino" sulla pubblica utilità dell’opera».

Una lettera alla sindaca Raggi trasmessa, con preghiera di pubblicazione, a eddyburg da un gruppo di esperti, ricercatori e docenti dell'Universitè Paris-est, che evidentemente conoscono bene Roma, l'urbanistica romana e le sue recenti vicende


Cari redattori di Eddyburg,
25 docenti, ricercatori ed esperti delle questioni urbane di lingua francese hanno firmato una lettera aperta alla sindaca di Roma Virginia Raggi, al fine di interpellarla sulle dimissioni di Paolo Berdini e sul progetto del nuovo stadio della Roma (in allegato).
Saremmo molto felici e onorati se la vostra rivista accettasse di pubblicare questa lettera; tanto più che questa vicenda è recentemente stata oggetto di molti articoli sul sito.

Rimango a vostre disposizioni per ogni informazione. Aurélien DELPIROU (Per il collettivo di autori)


Noi, studenti, dottorandi, ricercatori, professori e professionisti della pianificazione territoriale, dell'urbanistica, dell’architettura e del paesaggio di lingua francese abbiamo tutti scelto di studiare le dinamiche, i problemi e le sfide della Roma contemporanea.

Questo interesse per la città di Roma ci porta a seguire con attenzione i recenti sviluppi della vita politica romana e a reagire a uno degli ultimi episodi: le dimissioni dell’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini a causa di un disaccordo con la sindaca Virginia Raggi circa il progetto del nuovo stadio dell’AS Roma nella periferia sud della città.

Deploriamo questa decisione e vogliamo attirare l’attenzione della Sindaca sulle incertezze che, in seguito all’uscita di scena dell’assessore Berdini, gravano sia sulla città che sul Comune di Roma.

La periferia romana devastata dalla speculazione edilizia

Abbiamo potuto, nell’ambito delle nostre ricerche, condividere alcune delle battaglie di Paolo Berdini, in particolare quella a favore di un nuovo e diverso sviluppo urbano per la capitale d’Italia: uno sviluppo al servizio dell’interesse generale e non della somma di interessi dei singoli che da troppo tempo influenzano, determinano e anche dominano l’azione pubblica nella città. Moltissime ricerche hanno messo in luce la responsabilità di tali interessi privati sul degrado della città.

È innegabile, a nostro avviso, che le recenti rivelazioni di Paolo Berdini alla stampa siano state fatte in modo goffo e inopportuno. Sarebbe un’inutile perdita di tempo supporre un complotto nei suoi confronti. Ma sarebbe un’ingenuità ridurre le sue dimissioni a un ennesimo episodio della “telenovela” politico-mediatica che purtroppo scuote il comune di Roma da 8 mesi. Al di là del gossip, si tratta in questo caso di escludere dalla Giunta un assessore la cui legittimità non è mai stata contestata e che è sempre stato totalmente indipendente, in lotta e denuncia dei circoli di influenza, gruppi di potere e lobby legate all’onnipotente settore fondiario e edilizio romano.

Sono questi stessi gruppi che, nonostante la lunga fase di stagnazione economica e demografica della città di Roma, hanno continuato a costruire enormi “cattedrali” abitative e commerciali nel cuore dell’agro romano: tra il 2001 e il 2013, 38 nuovi centri commerciali sono stati creati, per lo più in zone già maltrattate da decenni di speculazioni edilizie.

Il casus belli del nuovo stadio della Roma

In questo senso, l’opposizione di Paolo Berdini alla costruzione del nuovo stadio dell’AS Roma a Tor di Valle incarnava, più degli altri impegni presi, il suo rifiuto di consegnare ancora una volta la periferia romana nelle mani della speculazione edilizia. Come recenti progetti fortemente contestati (“OL Land” a Lione), si tratta in realtà di un vasto complesso sportivo, ludico e terziario di 130 ettari, che include tre torri di 150 a 200 metri di altezza, per un totale di 900.000 metri cubi - ben al di là delle previsioni del Piano Regolatore Generale.

Il progetto originale è stato significativamente migliorato nel 2014 grazie all'azione energica dell’ex assessore Giovanni Caudo. Tuttavia, in qualità di storici della città, geografi, architetti, urbanisti, paesaggisti, vogliamo ribadire che ci sembra ancora inadatto ai bisogni e alle problematiche attuali del territorio romano: nuove costruzioni piuttosto che recupero urbano; primato accordato al miglioramento dell’accessibilità su gomma (130 milioni di euro di investimenti) piuttosto che quella su ferro (40 milioni, non in grado di garantire l'ipotetico prolungamento della linea B della metropolitana); deficit di democrazia partecipativa; programmazione impostata sulle strutture di divertimento e del commercio piuttosto che su una vera diversificazione funzionale; costruzione di grandi edifici quando la domanda per nuovi spazi nel settore terziario è molto limitata a Roma - senza dimenticare che tanti edifici in centro come in periferia restano miseramente vuoti!

Insomma, il progetto del nuovo stadio contribuisce a dare ancora una volta l’immagine di una città che continua a costruire il nuovo lasciando marcire il vecchio - le sue strutture urbane, le sue periferie, gli stadi: Roma ha già due stadi! Nonostante il cattivo stato di manutenzione, potrebbero entrambi divenire l’oggetto di trasformazioni innovative con costi e tempi contenuti.

Infine, questo progetto è il simbolo delle derive causate dalla finanziarizzazione del calcio: diverse ricerche hanno già evidenziato che i veri beneficiari dei nuovi stadi non sono né i clubs (lo stadio della Roma sarà infatti autonomo ed indipendente rispetto alla Società) né i fans (i tifosi romanisti, tra i quali quasi tutti i firmatari, subiranno l’aumento dei prezzi dei biglietti), bensì le ambizioni speculative dei loro proprietari, per i quali il calcio è diventato un investimento come tanti altri.

Alla luce di tali problemi, gli argomenti dei sostenitori del nuovo stadio appaiono deboli: alcuni si meravigliano che gli investitori privati debbano sostenere gli oneri di urbanizzazione, comprese le infrastrutture di mobilità e la sistemazione degli spazi pubblici circostanti. Ma questa non è una contropartita minima a fronte degli ingenti guadagni che otterranno dal futuro stadio? E che tipo di investitore avrebbe lasciato i suoi uffici isolati nel bel mezzo della campagna romana?! Altri sottolineano l'impatto positivo del futuro stadio sull'economia romana e sul quartiere, afflitto da un crescente degrado sociale e urbanistico. Questa doppia retorica dei “benefici” per la città e degli “effetti strutturanti” sulle periferie era già al centro della creazione delle nuove “centralità” del PRG del 2008. Fortemente contestata da molti ricercatori, è stata totalmente smentita dai fatti, come si può constatare osservando quanto avvenuto a Bufalotta, Ponte di Nona o Romanina. E come si può credere seriamente che un intervento puntuale, quale la costruzione di uno stadio e di tre torri firmate da “archistar”, possa far tornare gli investitori stranieri a Roma, in primo luogo scoraggiatati da una serie di carenze strutturali?

Per un’urbanistica al servizio del bene comune

Per gli esperti in questioni urbane come per i semplici visitatori che atterrano a Fiumicino, il paesaggio che si dipana lungo il tragitto dall’aeroporto alla stazione Termini è la dimostrazione lampante del degrado delle periferie romane, in totale contrasto con lo splendore della città antica, rinascimentale e barocca: è un paesaggio fatto di palazzi e spazi pubblici all'abbandono, cimiteri di gru, stazioni fantasma, passerelle che minacciano di crollare, strade distrutte, cumuli di immondizia. In questo contesto, un’azione pubblica rivolta verso il bene comune non può avere come punto cardinale di favorire la costruzione di un nuovo stadio di calcio, che soddisferà in primo luogo le ambizioni del manager di un hedge fund statunitense associato a uno dei più potenti gruppi di costruttori italiani.

L’uscita di scena di Paolo Berdini, che giustamente incarnava agli occhi di molti Romani competenza e indipendenza, costituisce un segnale inquietante per il seguito del mandato elettorale. Noi speriamo senza polemica che la sindaca Raggi continuerà a combattere le battaglie del suo ex-assessore e a portare la speranza di una Roma democratica, trasparente, moderna e adatta alle sfide del XXI secolo.

Non siamo qui per “fare la morale” venendo dall’Estero: siamo anche noi quotidianamente confrontati alle difficoltà sociali, economiche e politiche che colpiscono le nostre città. Tuttavia, noi che abbiamo dedicato tutta o parte della nostra vita professionale allo studio di questa città unica al mondo, proviamo nei sui confronti, come i suoi abitanti, tanto una passione incondizionata quanto un immenso desiderio di cambiamento.

I PRIMI 25 FIRMATARI

Dott. Julien ALDHUY, Professore associato, École d’urbanisme de Paris, Université Paris-Est Créteil
Dott. Fabien ARCHAMBAULT, Professore associato, Université de Limoges
Dott.ssa Sarah BAUDRY, Dottoranda, Université Paris Diderot
Prof. Denis BOCQUET, Professore ordinario, Ecole nationale supérieure d’architecture de Strasbourg
Eléonore BULLY, Studentessa di Laurea specialistica, Ecole d’urbanisme de Paris Dott.ssa Hélène DANG-VU, Professore associato, Université de Nantes
Dott. Aurélien DELPIROU, Professore associato, École d’urbanisme de Paris Adeline FAURE, Studentessa di Laurea specialistica, Ecole d’urbanisme de Paris Dott. Vincent GUIGUENO, Ricercatore, Ecole Nationale des Ponts et Chaussées Dott. Maxime HURE, Professore associato, Université de Perpignan Via Domitia Dott. Antoine LEBLANC, Professore associato, Université du Littoral Côte d’Opale Dott. Giulio LUCCHINI, Ricercatore indipendente
Dott. Fabrizio MACCAGLIA, Professore associato, Université de Tours Dott.ssa Charlotte MOGE, Ricercatrice, Université Jean Moulin Lyon 3
Dott. Stéphane MOURLANE, Professore associato, Université Aix-Marseille Dott.ssa Hélène NESSI, Professore associato, Université Paris Nanterre Dott. Arnaud PASSALACQUA, Professore associato, Université Paris Diderot Dott. Thomas PFIRSCH, Professore associato, Université de Valenciennes Dott. Clément RIVIÈRE, Professore associato, Université Lille 3
Prof.ssa Dominique RIVIÈRE, Professore ordinario, Université Paris Diderot Dott.ssa Victoria SACHSE, Dottoranda, Université de Strasbourg
Dott.ssa Annick TANTER-TOUBON, Ingegnere di ricerca, Ecole des hautes études en sciences sociales (Paris)
Arch. Laure THIERREE, Paesaggista
Dott.ssa Céline TORRISI, Dottoranda, Université de Grenoble
Prof. Serge WEBER, Professore ordinario, Université Paris-Est Marne-la-Vallée

«... la metamorfosi dell’urbanistica in ragioneria» Accurata analisi della svendita dl patrimonio pubblico a Firenze, e del quadro nazionale. ReTe territorialmente online, 22 febbraio 2017 (c.m.c.)



«Il testo è la trascrizione dell’intervento al convegno promosso dall’Assemblea dei Comitati Fiorentini e dalla ReTe dei Comitati per la Difesa del Territorio, "Città pubblica vs città oligarchica. Vita immaginata e desiderata, politica subìta", Firenze, 11 febbraio 2017, Teatro dell’Affratellamento».

A Firenze, l’alienazione degli edifici monumentali pubblici e di appartamenti destinati a residenze sociali sottrae alla cittadinanza le migliori occasioni per la riqualificazione dell’habitat urbano. E l’urbanistica si riduce a esercizio da contabili.

Un po’ di storia

Da decenni, i programmi politici evitano l’elaborazione di un’idea di città alternativa al modello economicista, che vuole la città smart, creative, ridotta a brand da impiegare nell’agone della competizione globale. L’aspetto sociale non fa cassa e perciò è stato obliterato. A questo svuotamento di senso delle politiche urbane hanno contribuito, nell’Italia neoliberista, alcuni provvedimenti legislativi – giunti da destra e da sinistra – di matrice squisitamente economica, attinenti cioè a mere questioni di bilancio degli enti locali o dello Stato. E che hanno relegato la gestione della città e del territorio a pratiche di ragioneria.

Sia chiaro, ciò non discolpa l’urbanistica. Nell’abbandono delle finalità sociali e nell’impoverimento della città pubblica, l’urbanistica ha avuto infatti il suo ruolo in commedia, rispondendo senza pudore ai richiami della sirena del libero Mercato. Se non altro con i suoi silenzi e le sue elusioni. Anche a Firenze.

Ripercorriamo alcune tappe della metamorfosi.

Un importante impulso iniziale proviene dal varo della L 386/1991 (Trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali ed alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica) che rende possibile la conversione degli enti pubblici in Società per Azioni. Con la privatizzazione e finanziarizzazione degli enti, servizio pubblico e beni urbani e territoriali fanno ufficialmente il loro ingresso in Borsa.

Nel frattempo, la L 537/1993 – legge finanziaria del governo Ciampi – predisponeva il campo, prevedendo l’emanazione di norme dirette ad alienare intere classi di beni pubblici (art. 9).

Dopo sei anni – siamo nel gorgo della (sinistra) ristrutturazione dell’ordinamento amministrativo a firma Bassanini – è varata l’Agenzia del Demanio (DL 300/1999) avente ad oggetto l’amministrazione dei beni demaniali (pubblici), con «modalità organizzative e strumenti operativi di tipo privatistico».

Il successivo passaggio è compiuto sotto la guida di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia nel Berlusconi bis: la L 410/2001 istituisce la “Società per la Cartolarizzazione degli Immobili Pubblici”: SCIP Srl, nomen omen. L’impiego del lessico finanziario – cartolarizzazione, ossia trasformazione dei crediti in titoli negoziabili sul mercato – è parte atttiva nella “transustaziazione” del bene pubblico in rendita privata.

Un anno dopo, un Tremonti non sazio affianca allo SCIP la “Patrimonio dello Stato SpA” con finalità di «valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato». Si noti che la L 112/2002 mette la Patrimonio SpA (art. 7) in stretta relazione con la istituenda “Infrastrutture SpA” (art. 8): un meccanismo che travasa i proventi della vendita del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato – ivi compresi i beni culturali – nel finanziamento delle infrastrutture.

Bisogna attendere il 2008 per registrare, con i Piani di Alienazione, la deflagrante incursione della ragioneria nell’urbanistica comunale. La L 112/2008 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica) dà infatti facoltà agli Enti locali di redigere un elenco degli immobili pubblici posti in vendita – il Piano delle Alienazioni –, da allegare al bilancio di previsione dell’ente stesso.

Corre l’obbligo di richiamare l’attenzione sul fatto che il Piano delle Alienazioni «costituisce variante allo strumento urbanistico generale» (art. 58): consente cioè automaticamente il cambio della destinazione d’uso di un immobile (o di un fondo) presente nell’elenco. Proprio sul cambio di destinazione urbanistica, come tutti sanno, si incardina la rendita fondiaria e immobiliare; non solo nel caso classicamente inteso – quello da Mani sulla città – che vede l’agricolo tramutarsi in “murativo”, ma anche nel passaggio, ad esempio, da “attrezzatura militare” a “turistico-ricettivo”: una caserma venduta come potenziale albergo diventa ben più appetibile per il mercato. Non c’è bisogno di spiegare perché.

Una sentenza della Corte costituzionale, la n. 340/2009, ha riportato nell’alveo democratico tale automatismo, imponendo il passaggio della variante in Consiglio comunale. L’art. 58 della L 112/2008 toglie comunque di mano agli urbanisti un importante strumento regolativo e progettuale.

Per concludere la descrizione di questo quadro desolante (dopo aver ricordato il DL 85/2010 detto del “federalismo demaniale” che dà l’avvio al trasferimento a titolo gratuito di beni demaniali agli enti territoriali al fine di «ampliare il proprio portafoglio immobiliare»), occorre soffermarsi sul funesto DL 173/2014. Meglio noto come “Sblocca Italia”, all’art. 26 il decreto renziano prevede che quota parte dei proventi delle vendite degli immobili pubblici del demanio militare sia destinata proprio a quegli enti territoriali che hanno contribuito alla conclusione del procedimento di vendita, ossia a quegli enti che hanno vestito i panni di agenti immobiliari.

Firenze. Le occasioni perdute

I Piani delle Alienazioni rappresentano l’elenco delle occasioni mancate nella “rigenerazione” urbana che gli amministratori professano di perseguire. A dispetto di pratiche urbanistiche consolidate ed esemplari, infatti, le politiche urbane neoliberiste (anche fiorentine) rifiutano il progetto di città imperniato sulle potenzialità offerte dagli immobili pubblici. E proprio attraverso le alienazioni esse sottraggono alla città il fondamento materiale del progetto collettivo.

Un solo illustre esempio. Bologna, anni ’70: il piano per il centro storico, tutt’oggi indicato a livello internazionale come ricetta valida per contrastare i fenomeni di gentrificazione, era fondato sulla restituzione all’uso collettivo degli edifici di valore monumentale che, oltre a comporre la scena urbana, furono il luogo del potere e dei soprusi. Palazzi, carceri e caserme – liberàti – vengono riconsegnati alla cittadinanza, sia come centri di quartiere sia come contenitori di funzioni rare, ma comunque ad alta socialità.

In tema di trasmutazione dell’ente locale in piazzista, a Firenze si assiste forse al caso più luminoso. Sul sito del Comune è ancora disponibile (e quindi, immaginiamo, ancora attuale) il catalogo Florence city of the Opportunities (sic, 2014) che illustra, a mo’ di catalogo commerciale, una serie di 59 edifici in vendita, dei quali ben 42 sono privati o di enti pubblici diversi dal Comune (Ferrovie, CNR, Poste etc.).

Del catalogo, presentato nel 2014 dal sindaco in persona alle fiere della speculazione immobiliare, sono stati venduti alcuni bocconi pregiati: via Bufalini (già proprietà Cassa di Risparmio, 18.800 mq di SUL, superficie utile lorda) alla Colony Capital di Tom Barrack, «close friend of President Donald Trump»; alla stessa compagnia statunitense vanno gli 89.000 mq della Manifattura Tabacchi. L’ex collegio della Querce (13.400 mq), a un magnate indiano «che ne farà un “sette stelle” extralusso», parola di Nardella. Lo Student Hotel nel Palazzo del Sonno aprirà a settembre.

La vendita di tre importanti edifici di proprietà comunale, presenti in catalogo, è avvenuta secondo un medesimo copione (che evidenzia la forza del legame Firenze-Roma). Il Teatro Comunale viene comprato dalla Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP), pochi giorni prima della chiusura del bilancio comunale: siamo nel dicembre 2013, Renzi è in ascesa verso palazzo Chigi. (Per inciso, CDP diventa società per azioni nel 2003, tradendo il suo mandato di Banca di Stato nata per elargire prestiti alle amministrazioni locali, finalizzati ad opere di pubblica utilità). Lo stesso salvataggio del bilancio avviene l’anno successivo con l’acquisto di palazzo Vivarelli Colonna, ancora da parte della CDP. E nel 2015 con palazzo Gerini.

L’ultimo piano comunale delle alienazioni, approvato nei giorni scorsi con il bilancio preventivo 2017, offre in pasto al libero mercato:

– la rinascimentale Villa di Rusciano, posta in vendita malgrado la clausola testamentaria che ne vincolerebbe l’uso. Si noti che per trasferire la Direzione Ambiente (che ora ne occupa i locali) ed altri uffici comunali, è stato autorizzato l’acquisto dalla “FS Sistemi Urbani-Società a responsabilità limitata”, di due immobili in viale Fratelli Rosselli per 9.828.520 euro. Tale acquisizione viene giustificata con l’argomento dei «fitti passivi». Ma perché investire 10 milioni di euro con tanti immobili vuoti di proprietà comunale? I 6-7 milioni stimati come base d’asta per la vendita della villa di Rusciano non porterebbero l’operazione in pareggio. Forse non è solo una scelta di bilancio;

– il palazzo Vegni, che ospita una delle sedi della facoltà di Architettura;

– la palazzina Grilli (Scuola di Polizia) nel Parco delle Cascine;

– il deposito del tram a Varlungo;

– il Nuovo conventino, per cui si prevede la demolizione con ricostruzione;

– il Padiglione 37 a San Salvi;

– le Gualchiere di Remole, documento di archeologia industriale medievale;

– la scuola di via di Villamagna. Un inciso: a questo edificio, sede storica del CPA (Centro Popolare Autogestito Fi-Sud), potrebbe essere applicato qualcosa di simile alla famosa delibera “per l’ex Filangieri” di Napoli (n. 400/2012, cfr. anche la recente 446/2016). Come è noto, la delibera napoletana fa leva sulla categoria giuridica di «bene comune» e riconosce ad alcune esperienze di riappropriazione in autogestione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche. Quando con alcuni comitati proponemmo qualcosa di analogo nelle osservazioni al RU 2014, per l’area del CSA-Next Emerson di via di Bellagio, assessore e ufficio tecnico rigettarono la proposta come «non pertinente». Un caso di lungimiranza urbanistica.

Nel piano delle alienazioni comunale, infine, è messa in vendita una sessantina di appartamenti. Tra di essi, l’immobile di via del Leone in cui da anni è portata avanti una sperimentazione sociale che ravviva il quartiere di piazza Tasso (anche per questo edificio varrebbe l’argomento dello «sviluppo civico» contenuto nella delibera napoletana).

Nella lista troviamo inoltre, non senza disapputo, gli appartamenti di via dei Pepi: si tratta di case «storicamente» utilizzate con «finalità sociali proprie dell’edilizia residenziale pubblica» (LRT 96/1996, art. 2) e gestite da Casa SpA, cioè dal Comune. Esse, quindi, come tali – scrive il Movimento di Lotta per la Casa – sarebbero «alienabili solo con i piani di vendita dell’edilizia residenziale pubblica che ne vincola i proventi a reinvestimenti per le stesse finalità». Questo provvedimento di alienazione va ad inserirsi in un quadro di disagio abitativo assai esteso e, purtroppo, in progressiva espansione, che vede a Firenze oltre 12.000 famiglie organizzate in 160 comitati di autogestione, vessate dai regolamenti sempre più restrittivi per l’assegnazione degli alloggi. Famiglie che lottano contro l’impoverimento e il furto operato in città dalla privatizzazione di beni e servizi.

Per favorire il ripopolamento dei quartieri storici, per contrastare la sostituzione degli abitanti, e per calmierare la rendita posizionale, sarebbe opportuno invece un rilancio dell’edilizia residenziale pubblica che potrebbe far perno sugli appartamenti pubblici in area centrale (come lo fu nel citato piano bolognese). Ma niente da fare. Il Comune prosegue in una strategia di fallimentare gestione urbana: allentare le maglie dei regolamenti urbanistici, ammutolire il progetto sociale, dismettere l’idea di uguaglianza urbana, e quindi favorire l’acquisizione di interi pezzi di città da parte del mercato di lusso e del turismo globale.

Il piano delle alienazioni fiorentine comprende anche la concessione pluridecennale a privati: i 10.800 mq dell’ex Tribunale di San Firenze (il contratto è stato sottoscritto a fine 2016 con Zeffirelli per un «Palazzo delle Arti e dello Spettacolo»); l’ippodromo delle Mulina, al centro di un’indagine della Magistratura, che vede coinvolti esponenti del giglio magico (“il Fatto quotidiano”, 20 dicembre 2016); l’ex ristorante Le Rampe; porzioni di villa Favard; e l’«ex» Mercato ortofrutticolo di Novoli: la concessione è legata al project financing per la realizzazione del nuovo stadio e strutture annesse che troveranno sede proprio sull’area Mercafir; ma di questo abbiamo già scritto.

Neanche la Città metropolitana mette in pratica politiche più illuminate. Nel suo piano delle alienazioni sono presenti:

– il complesso di Sant’Orsola, 17.500 mq centralissimi da attribuire con concessione a lungo termine: si ventila l’ipotesi della Bocelli Academy, esclusiva scuola di arti liriche di cui proprio il quartiere non riusciva a fare a meno;

– la fattoria di Mondeggi: sede di un’esperienza rilevante di neoagricoltura e autogestione di terreni demaniali; villa e poderi sono ora in vendita in unico lotto;

– ex ospedale di Bonifacio sede della Questura di Firenze;

– la caserma dei pompieri, in via La Farina.

Passiamo alla Regione. In questo caso il lusso – luxury – è pervasivo, sia nel messaggio che nel vettore comunicativo. Il sito Invest in Tuscany si propone ai mercati stranieri con un’aura da real estate magazine d’alto bordo. Tra gli edifici pubblici immolati al mercato: villa Basilewsky (900 mq e 3.000 di giardino, alla Fortezza); villa Fabbricotti (1.800 mq, in quasi 4 ettari di parco pubblico in piena città); ex Meyer (2.500 mq); ex sede regionale di via Pietrapiana, 1600 mq «di straordinaria qualità» e 650 mq di giardino, a cinque minuti dal Duomo; villa Larderel sulle colline di Pozzolatico (11.800 mq con sette ettari di parco).

Alcuni edifici di competenza regionale, già destinati ad usi sanitari e perciò situati in quota, costituiscono il fronte collinare di aggressione alla città pubblica: il sanatorio Luzzi, 6.800 mq con 29 ettari di terreno; il sanatorio Banti a Pratolino (13.000 mq, 4 ettari e mezzo di terreno); l’ospedale di Fiesole in via Vecchia Fiesolana, 4000 mq ancora in uso.

Su Invest in Italy Real Estate, l’omologo statale del sito toscano, troviamo l’avviso di vendita della vasta area centrale delle Officine Grandi Riparazioni. 54.000 mq di superficie utile lorda, con base d’asta di 16 milioni e mezzo, sono messi in vendita da FS Sistemi Urbani e Società Rete Ferroviaria Italiana. Nell’area sono previsti: «Edifici residenziali (32.400 mq), turistico-ricettivi (8.100 mq), commerciali (4.860 mq), direzionali e servizi per studenti (8.640 mq)» (cfr. RU, scheda ATa 08.10).

Altro, non secondario, capitolo è quello delle ex caserme.

Le caserme, oggi vuote, si presterebbero – per qualità intrinseche – ad un progetto di accoglienza provvisoria di rifugiati, richiedenti asilo, senza tetto e profughi dello sviluppo, resosi urgente dopo l’ultima vittima nell’incendio del capannone Aiazzone. Le caserme sono edifici adatti all’ospitalità del “popolo nuovo”, non solo per la loro conformazione architettonica, ma anche per la loro localizzazione per lo più nella città consolidata, talvolta ubicate proprio in quei settori del centro cittadino nei quali risulta evidente una situazione di disagio sociale e abitativo. Da questa immissione demica i quartieri potrebbero trarre le forze per la loro rinascita.

Un’ottima occasione di riscossa è però andata persa con la vendita della caserma di costa San Giorgio all’argentino Lowenstein (lo stesso che ha acquistato la villa-fattoria medicea di Cafaggiolo). Merita ricordare che per il complesso della ex caserma (15.230 mq), stretto tra i bastioni michelangioleschi di San Miniato e il giardino di Boboli, la proprietaria CDP in vista della vendita presentò osservazioni al RU (2014) che lo faceva ricadere parte in zona G (“Servizi pubblici di quartiere”), parte in zona F (“Attrezzature pubbliche di interesse generale”). Le osservazioni erano «finalizzate ad ottenere che la futura destinazione urbanistica dell’immobile preved[esse] destinazione ricettiva, residenziale e commerciale, secondo un mix funzionale da definire e comunque con destinazione prevalente ricettiva». Non stupisca che la proposta trovò pronta disponibilità presso gli uffici tecnici, e fu accettata (cfr. RU, scheda AT 12.05).

Questo l’elenco delle caserme (proprietà del “Fondo Investimenti per la Valorizzazione” della CDP) in trasformazione o in vendita nel centro cittadino:

– ex ospedale militare San Gallo, oggetto di un concorso bandito dalla stessa CDP «per la definizione della normativa urbanistica» (sic) da «sottoporre all’esame dell’Amministrazione comunale ai fini dell’elaborazione di una variante al Regolamento Urbanistico» (Bando progettosangallo.it, p. 6), Regolamento Urbanistico che, per i 16.200 mq in pieno centro storico, ha elaborato la stringente destinazione a «mix funzionale da definire» (RU, scheda AT 12.43);

– ex Scuola dei Marescialli, di fronte alla Stazione di Santa Maria Novella. 4.400 mq dell’ex convento sono destinati dal Comune a raddoppiare la sede museale. Per i rimanenti 16.000 mq dell’ala ottocentesca, malgrado la carenza di spazi per gli uffici comunali, non esiste ancora un progetto (la consigliera Amato, di Alternativa libera, vi proponeva: «anagrafe, cultura, polizia municipale, altri eventuali servizi sanitari e pubblici, e housing sociale»);

– ex caserma Ferrucci a fianco della chiesa brunelleschiana di Santo Spirito (6.200 mq in Oltrarno, occupati al 25%); il complesso, rassicura Invest in Italy, «non sarà alienato dal Ministero della Difesa ma verrà assegnato, mediante concessione d’uso»;

– ex caserma Redi nel convento del Maglio – 4.560 mq oggi parzialmente occupati dal Dipartimento di Medicina legale Militare – diverrebbe la sede del «politecnico del restauro», ERihs European Research Infrastructure for Heritage, grazie a dieci milioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze (cfr. “Corriere fiorentino”, 17 gennaio 2017);

– nella ex caserma Cavalli, 6.225 mq in «fase di liberazione», la Fondazione CR «farà nascere l’incubatore di imprese», così afferma Nardella; ma nel sito della CDP ancora si legge essere destinata alla «vendita con trattativa privata».

Discorso a parte per la ex caserma dei Lupi di Toscana, 53.000 mq di SUL ai confini comunali. Passata nelle mani del Comune di Firenze grazie al federalismo demaniale, la caserma è attualmente oggetto di concorso internazionale. Il concorso è partito prima della conclusione della consultazione pubblica che, adattando ai tempi il dettato di La Pira, portava il titolo: «Non case, ma città 2.0». Senza il plauso dell’Unione inquilini.

Ulteriori edifici concludono, per ora, il lungo elenco delle occasioni vanificate per ricostituire la città pubblica. A ciascuno di essi, il sito della CDP da cui li ho tratti, attribuisce possibili destinazioni, nel segno del lusso (residenza, turismo, rappresentanz):

– villa Banti (1.335 mq, proprietà del Ministero della Difesa, nei pressi di piazza Donatello);

– villa Sepp, di proprietà CREA-Consiglio per la Ricerca e l’Analisi dell’Economia Agraria: 2.200 mq affacciati su piazza D’Azeglio;

– complesso Bardini (via dei Bardi, 2.141 mq) ed «Eredità» Bardini (via San Niccolò 78, 1.234 mq), entrambi di CDP Investimenti SGR SpA, in vendita con trattativa privata;

– villa Tolomei a Marignolle, in vendita con trattativa privata, 4.303 mq con 18 ettari di terreno, è un caso emblematico: villa privata, poi scuola pubblica poi comando dei Carabinieri, ora – in concessione dallo Stato – resort di super lusso (qualcuno disse che doveva diventare il modello per la gestione di Pompei).

Quanto al palazzo in via de’ Benci prospiciente il Museo Horne (proprietà: CDP Investimenti SGR Spa), l’offerente opera un significativo cortocircuito tra slancio del desiderio e vincolo urbanistico. Nell’edificio, si legge sul catalogo, «secondo lo strumento urbanistico adottato, le funzioni private sono liberamente insediabili, pur con alcune limitazioni». Sembra il minimo.

[]

«Una città in cui la povertà e le disuguaglianze sono impresse nella superficie sgualcita degli spazi pubblici, nelle periferie come nel centro, ha bisogno di altro».massimocomunemultiplo, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)

Il progetto del Nuovo Stadio di Tor di Valle, come già le Olimpiadi Roma2024, in questi giorni monopolizza il dibattito perfino più del gossip sulla Sindaca e delle vicende giudiziarie. Si fronteggiano molti interessi e due passioni: quella per la propria squadra dei romani romanisti e quella di tanti cittadini e comitati che in quei tre grattacieli che irromperebbero nello skyline della Capitale vedono l’ennesima resa della città al potere del cemento. Eppure meriterebbe per un momento cambiare lo sguardo sulla vicenda , come in quei disegni in bianco e nero dove lo sfondo rivela altre figure.

Perchè i rendering dello Stadio e delle torri si sono presi il centro della scena, spingendo nel back stage la città reale, sovrapponendo un luminoso futuro a un irrisolto presente, come nel gioco del “prima e dopo”, cancellando nobili architetture non più desiderate e spazi incolti per sostituirli con un ordine virtuale adatto a visitatori felici e impiegati modello.

Eppure è proprio lo sfondo che ci può dire molto sulla nostra città. Basta scorrere quell’elenco di opere – impianti e strutture per la mobilità e non solo – che la delibera capitolina di Marino e Caudo hanno messo come condizione per il pubblico interesse all’operazione e che sono pagate con il surplus immobiliare di un Business center (i tre grattacieli di uffici e il centro commerciale), per capire che qualcosa non va.

Perchè molte sono infrastrutture indispensabili per la qualità della vita – ma forse sarebbe più giusto dire per la sopravvivenza – dei cittadini, che in altre metropoli europee sono di ordinaria amministrazione pubblica, mentre nella Capitale d’Italia devono invece essere racimolate nelle maglie delle operazioni del “business privato”, come in questo caso, o di grandi eventi come le Olimpiadi. Faccio tre esempi.

Primo quadro: cosa si vede in questa mappa del rischio idraulico del PAI (Piano Assetto Idrogeologico) dell’area di Tor di Valle e Torrino/Decima? Qualcuno vi trova i motivi per non realizzare lo Stadio, altri, come l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere, i motivi per inserire la messa in sicurezza del Fosso del Vallerano tra le condizioni per realizzare lo Stadio (3). Anche perchè, secondo il PAI l’area di Tor di Valle è a rischio R3 (area azzurra), mentre l’area rossa, quella che secondo le Norme Tecniche di Attuazione del PAI è classificata come R4, cioè a massimo rischio, riguarda una zona densamente abitata . E viene da chiedersi: da quanti anni quella zona è esposta a un rischio così grave? E come mai in questo florilegio pluriennale di Vele di Calatrava, Nuove Fiere di Roma, Nuvole di Fuskas, piscine poi mai finite o finite male per i Mondiali di nuoto, nessuno ha pensato di investire soldi pubblici per mettere al sicuro gli abitanti della zona?

Secondo quadro: da vari anni ad ogni tornata elettorale i candidati si premurano di ricordarsi dei pendolari della Roma Lido, promettendo di trasformare la linea in Metropolitana leggera, trasferire al Comune la linea (oggi della Regione gestita da ATAC), potenziare i treni, aumentarne la frequenza. L’ha detto Veltroni, l’ha detto Alemanno, l’ha detto Marino. E tutto è rimasto uguale. Un servizio che è più degno di una città del quarto mondo che della Capitale d’Italia. E che (forse) potrebbe essere adeguato se si fa lo Stadio. Ma la domanda è: e se lo Stadio non si fa, ciccia?

Terzo quadro: stesso discorso per l’unificazione della Via Ostiense con la Via del Mare, una delle tratte urbane più trafficate e con più vittime per incidenti stradali. Non sappiamo se i benefici dell’intervento, che interessa il tratto dal Nodo Marconi al raccordo anulare, non rischino di essere annullati dall’aumento del flusso automobilistico per lo Stadio e per il Business center.

Si può scoprire facilmente attraverso i relativi studi trasportistici. Ma possiamo ancora una volta chiederci se nei decenni passati, prima di fare gli investimenti sopra elencati, non sarebbe stato il caso di occuparsi della sicurezza stradale dei cittadini romani. E anche se, nel caso che il progetto dello Stadio fosse cancellato o la sforbiciata alle cubature comportasse anche la sforbiciata di questa come di altre infrastrutture della mobilità, per quanto tempo rimarrebbe ancora questo micidiale status quo.

E se trovo inacettabile l’operazione Tor di Valle soprattutto a causa di quelle torri, che a mio avviso sono l’ennesima riproposizione dello scambio tra servizi pubblici indispensabili e cubature ai privati, che lo Stadio si faccia o non si faccia, sarà sempre una sconfitta o, meglio, una resa. Quella di chi, anche con le migliori intenzioni, per mettere in cantiere opere che il pubblico non può pagare (ma anche questo è tutto da dimostrare) continua a cercare di approfittare di occasioni che – ce lo dice la storia della città – troppo spesso perdono poi per strada ogni utilità collettiva. Anche perchè troppo spesso nessuno fa patti chiari prima, controlli durante e verifiche dopo.

Ma anche se si rispettassero fino in fondo le prescrizioni sulle opere e sui tempi, non mi convince la solita “narrazione” dei posti di lavoro e dello sviluppo economico che la nuova centralità annessa allo Stadio porterebbe alla città. E’ un discorso lungo, ci sono anche studi dell’università, ma quello che voglio dire è che, anche in questo caso, mi sembra che si continui ad inseguire una modernità che non è moderna per niente.

Perchè continua a puntare su un modello che sta implodendo, che continua a mettere avanti il settore edilizio e a proporre nuovi centri direzionali e commerciali in una città in cui gli uffici non trovano affittuari e i negozi di prossimità come le grosse catene chiudono i battenti per mancanza di clienti.E una città in cui la povertà e le disuguaglianze sono impresse nella superficie sgualcita degli spazi pubblici, nelle periferie come nel centro, ha bisogno di altro.

In questi giorni è tornata al centro del dibattito anche Mafia Capitale. Per molti si è trattato di un’esagerazione, o non è mai esistita. Eppure basta cambiare sguardo e se ne possono vedere le tracce in ogni anfratto della nostra città, nelle strade senza manutenzione, nelle aree verdi non curate, negli autobus scalcinati, negli abusi edilizi, nella gente che dorme in macchina , nei tavolini che occupano illegalmente i marciapiedi, nelle liste d’attesa per un esame medico urgente. E anche nel “si salvi chi può” del cittadino arreso, che difende il suo spazio da chiunque, senza solidarietà e sguardo al futuro. Neanche per i suoi figli.

E quelle tre torri svettanti in scenari notturni con ponti e passerelle luminose sembrano un’astronave aliena atterrata provvisoriamente in un pianeta tornato allo stato selvaggio.

«L’intervento della tanto denigrata “burocrazia” della soprintendenza sta rendendo al futuro della città e al bene comune uno straordinario servizio». la Repubblica ed.Roma, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)

Dialogando amabilmente con Matteo Salvini, Maria Elena Boschi si era impegnata in diretta televisiva (a Porta a Porta, il 16 novembre scorso) a chiudere le soprintendenze («io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo») dopo la vittoria del Sì al referendum costituzionale. Sappiamo com’è finita: e, per ora, le soprintendenze ci sono ancora. E dunque le amministrazioni comunali non possono fare proprio quello che vogliono del territorio e del patrimonio culturale delle loro città.

È così che un paletto molto ingombrante, o addirittura esiziale, per la mega speculazione Parnasi è stato piantato proprio dagli uffici periferici del Ministero per i Beni Culturali. Il vincolo che ieri sera è stato firmato dalla soprintendente di Roma Margherita Eichberg non solo impedisce la distruzione dell’Ippodromo di Tor di Valle, tutelando un edificio importante (e, ironia della sorte, anche la memoria storica delle Olimpiadi romane del 1960), ma, bloccando praticamente i lavori in tutta la famosa particella 19, costringe la Conferenza dei servizi sullo Stadio a fermarsi.

E ora si aprono due possibilità. La prima è che tutto il progetto si fermi, e che gli attori internazionali di questa speculazione migrino altrove, secondo le logiche rapaci della creazione del denaro dal cemento. La seconda è che invece si sia disposti a rivedere, correggere, riscrivere il progetto, sostituendo un vero parco all’attuale colata di cemento. Mille ragioni — dall’assetto idrogeologico di Tor di Valle al sistema dei trasporti — renderebbero preferibile la prima, più radicale soluzione: ma in ogni caso l’intervento della tanto denigrata “burocrazia” della soprintendenza sta rendendo al futuro della città e al bene comune uno straordinario servizio.

È impossibile non rilevare la singolarità della situazione. Pochi giorni fa, la magistratura ha sequestrato il cantiere di un villaggio turistico che massacrava il meraviglioso paesaggio e il patrimonio archeologico di Punta Scifo, in Calabria, motivando quell’atto anche con «l’inerzia della Pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni [soprintendenza compresa] coinvolte nell’iter autorizzatorio, che. .. non ha mai inteso compiere le dovute verifiche ed eventualmente esercitare il potere-dovere di autotutela».

In questo caso calabrese la soprintendenza è venuta completamente meno ai suoi doveri, mentre il Movimento 5 Stelle è stato invece determinante nel sostegno ai comitati civici che si battino da tempo contro quel cemento. A Roma, invece, abbiamo la situazione esattamente opposta: la soprintendenza fa coraggiosamente la sua parte (rispettando in toto il parere radicale del comitato tecnico scientifico, e non curandosi delle superiori indicazioni che consigliavano una linea morbida da ‘pecora morta’), e mette le mani in un fuoco incandescente, proprio mentre la giunta 5 Stelle sembrava apprestarsi a varcare la linea d’ombra del cemento.

È questa la contraddizione che sta infiammando in queste ore la base del Movimento, non dimentica che una delle famose 5 stelle rappresenta proprio l’ambiente.

«La relazione del procuratore regionale Cabras : "Riscontrati fenomeni corruttivi e mala gestione della cosa pubblica. Metropolitana, 230 milioni assolutamente ingiustificati". Nel 2016 condanne per oltre 35 milioni». la Repubblica, ed Roma, 17 febbraio 2017 (p.s.)

«Un'istruttoria assai rilevante e complessa è stata originata da alcune segnalazioni relative alla eccessiva lievitazione dei costi di progettazione, direzione artistica ed esecuzione dei lavori del Nuovo centro congressi dell'Eur».

Così il procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei Conti, Donata Cabras, ha bacchettato lo spropositato proliferare dei costi della celebre Nuvola, leggendo la sua relazione durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2017. «La procura - ha continuato Cabras - ha individuato un danno alle pubbliche finanze pari a oltre 5 milioni di euro corrispondente al totale degli indebiti pagamenti effettuati nei confronti del progettista e alle società riferibili allo stesso professionista».

Ma il caso dell'opera dell'archistar Massimiliano Fuksas (che attraverso i suoi legali ribadisce la conformità dei pagamenti ricevuti ai contratti, all'attività svolta e ai parametri normativi) non è il solo a essere finito nel mirino dei giudici contabili. Critica anche la gestione della costruzione della linea C della metropolitana di Roma i cui costi, ha spiegato Cabras, sono aumentati in modo esponenziale: «Per una sola fattispecie riscontrata nelle nostre indagini ci sono 230 milioni assolutamente ingiustificati».

Nella sua relazione, Cabras ha sottolineato che «la lievitazione esponenziale del prezzo contrattuale è avvenuta attraverso il ricorso sistematico all'iscrizione di riserve che, a breve distanza di tempo dall'avvio dei lavori per la realizzazione delle opere, ha raggiunto cifre esorbitanti». Cabras ha evidenziato che i 230 milioni si riferiscono a una sola delle fattispecie e, quindi, la somma di questi costi potrebbe essere superiore. «Alcune indagini in proposito hanno riguardato l'affidamento dell'appalto con il sistema del contraente generale in cui si è assistito alla lievitazione esponenziale del prezzo contrattuale», ha concluso.

In generale, secondo il magistrato, «il 2016, come già gli esercizi precedenti, è stato caratterizzato dal moltiplicarsi dei fenomeni corruttivi e di mala gestio della cosa pubblica». Cabras ha precisato che «nel corso dell'anno una particolare attenzione è stata riservata ai casi di assenteismo o di indebito riconoscimento di benefici retributivi o di carriera, che hanno riguardato funzionari e dipendenti pubblici». Ci sono state poi «numerose istruttorie a carico di soggetti che hanno illecitamente utilizzato finanziamenti e contribuzioni pubbliche, cui è conseguita la chiamata in giudizio per avere distolto le somme erogate dal fine al quale erano normativamente destinate». Inoltre, «i magistrati dell'ufficio sono stati costantemente impegnati nelle indagini relative a fattispecie di danno derivanti dalla violazione delle disposizioni che regolano la materia dei lavori pubblici».

«Il sistema dei rapporti illeciti si è sostanziato in attività di tipo corruttivo e collusivo nell'assoggettamento della funzione pubblica rivestita al servizio dei privati», ha spiegato poi Cabras, parlando in particolare del sistema criminale denominato "Mafia Capitale" che ha arrecato diversi danni patrimoniali allo Stato: «Un primo danno per 9 milioni di euro per la lesione del principio delle norme a tutela della concorrenza con riflessi in termini di maggiore costo per l'amministrazione», a cui si vanno ad aggiungere un danno dello stesso importo per il disservizio dell'azione amministrativa, uno da oltre 1 milione e 800mila euro come conseguenza diretta delle indagini, più un altro ancora da 1 milione di euro per la maggiore spesa e i costi per il personale per le ore di straordinario.

Infine, Cabras segnala la «grande indignazione» suscitata dalla «vicenda di assoluta attualità sulla la gestione dei profughi e delle somme destinate ai migranti. Il giudizio già pervenuto a sentenza ha riguardato le sovraffatturazioni e la distrazione dei fondi veicolati, illecitamente utilizzati per remunerare prestazioni di diversa natura e finalità».

Prima dell'intervento del procuratore regionale, era stata la presidente della sezione, Piera Maggi, a prendere la parola per relazionare sull'attività svolta nel 2016. «Sono state emesse condanne per danni per oltre 35 milioni di euro per le sole fattispecie verificatesi nel Lazio - ha detto Maggi - ma si deve ritenere che tale cifra costituisca solo la punta dell'iceberg del pregiudizio derivante dalla mala gestio, se si considerano le ipotesi di carenza di giurisdizione, di colpa non grave, di mancato e insoddisfacente raggiungimento della prova, delle ipotesi che sfuggono per mancanza di notitia damni specifica e concreta, di problemi procedurali, di prescrizione o di particolare astuzia degli artefici nell'occultare le fattispecie dannose. Tanto dà misura dell'enorme pregiudizio che l'erario subisce».

«Articoli di Mauro Favale, Ignazio Marino, Antonello Sotgia e Enzo Scandurra da la Repubblica e il manifesto 16 e 17 febbraio 2017 (c.m.c.)


la Repubblica
STADIO, A RISCHIO LE OPERE PUBBLICHE
di Mauro Favale

Sullo stadio della Roma a Tor di Valle, «non c’è alcun accordo », sostiene Virginia Raggi. C’è però una «delicata trattativa », per la quale la sindaca di Roma mantiene «il massimo riserbo ». E non solo «per evitare strumentalizzazioni », come lei stessa scrive sul blog di Beppe Grillo.

La prima cittadina, in questo momento, non può dire che al tavolo con la Roma e il costruttore Luca Parnasi, il tema della discussione non sono solo le cubature del “business park” da ridurre (forse del 20%, c’è chi dice meno) e le torri di Daniel Libeskind da abbassare. Quello che la sindaca non dice è che la trattativa verte anche sulle opere pubbliche che Ignazio Marino e il suo assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo vollero inserire nella delibera che, a fine 2014, assegnò lo standard di “interesse pubblico” al progetto dell’arena a Tor di Valle.

Quattro prescrizioni che la Roma si impegnò a realizzare per agevolare soprattutto la mobilità in quella zona, pena l’annullamento dell’interesse pubblico del progetto. Che, ricorda oggi Caudo, «sta proprio nelle opere esterne e non certo nello stadio ». Si va dal potenziamento del trasporto pubblico su ferro al ponte pedonale verso la stazione ferroviaria di Magliana, all’adeguamento della via del Mare fino allo svincolo con il Grande raccordo anulare passando per alcuni interventi per limitare il rischio idrogeologico che insiste su Tor di Valle e per un nuovo ponte sul Tevere che collegherà l’area all’autostrada Roma-Fiumicino. Un’opera, quest’ultima, che sul totale pesa per quasi 94 milioni di euro e che, secondo indiscrezioni dell’ultima ora, potrebbe essere l’infrastruttura destinata a saltare. O a essere modificata.

Con effetti pesanti non solo sulla circolazione in quella zona durante le partite casalinghe della squadra giallorossa, quanto sull’intera tenuta del progetto. Il perché lo ricorda proprio Caudo: «Se anche solo una di queste opere contenute nella delibera del 2014 venisse meno si ricomincia tutto da capo».

Di più: l’ex assessore aggiunge che finora è stato raccontato lo stallo tra un ex assessore (Paolo Berdini) «che voleva tagliare le dita agli speculatori e i palazzinari che volevano portare avanti il progetto». Per Caudo, invece, il discorso è diverso: «La stasi si è creata tra un ex assessore che non ha compreso a pieno la nostra delibera e la Roma che non vuole ricominciare da capo l’iter del progetto».

Dopo le dimissioni di Berdini, due giorni fa, l’accordo sembra essere più vicino. Anche se vanno ancora individuati gli strumenti tecnici per il via libera al progetto. La Regione ieri ha fatto filtrare la sua posizione: «Siamo in attesa degli atti ufficiali da parte del Comune alla ripresa della Conferenza dei servizi, il 3 marzo». Per quella data il Comune dovrebbe approvare, prima in giunta e poi in Aula, la variante al Piano regolatore, correggendo quella bocciatura “con prescrizioni” inviata in Regione a inizio febbraio. Intanto c’è da completare la convenzione urbanistica con la Roma, all’interno della quale trasferire tutte le disposizioni del progetto, opere pubbliche comprese.

«Leggo che a scriverla è il privato — attacca Caudo — ma mi pare assurdo che i grandi paladini della trasparenza e della lotta al cemento lascino scrivere il contratto alla Roma». E aggiunge: «Al di là del gioco dei “cubi”, se venisse tagliata anche solo un’opera pubblica, si fa un favore al privato che all’inizio voleva costruire solo lo stadio. Se finirà così, l’obiettivo di massimizzare i profitti verrà raggiunto proprio grazie agli “anti-cemento”».

la Repubblica
GUAI A TRADIRE IL PATTO CON I COSTRUTTORI
L’intervento.la lettera dell'ex-Sindaco Ignazio Marino

Caro direttore, il dibattito intorno allo Stadio della Roma ha prodotto un fiume di parole confuse, per cui è necessario ripartire dai fatti.

La delibera della mia Giunta, votata in Assemblea Capitolina il 22 dicembre 2014, dichiarò il pubblico interesse all’opera, condizionandolo, ovviamente, non allo stadio privato, sul quale legittimamente la società sportiva conta per accrescere la propria competitività, ma alle opere connesse all’impianto sportivo e utili alla qualità della vita delle romane e dei romani.

In particolare venne previsto: 1. il potenziamento del trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città, con frequenza di 16 treni l’ora nelle fasce di punta e un nuovo ponte pedonale verso la stazione FL1 di Magliana (costo a carico del privato: 58 milioni di euro); 2. l’adeguamento di via Ostiense/via del Mare, di cui si parla da decenni, fino allo svincolo con il Grande Raccordo Anulare (costo a carico del privato: 38,6 milioni di euro); 3. il collegamento con l’autostrada Roma Fiumicino attraverso un nuovo ponte sul Tevere (costo a carico del privato: 93,7 milioni di euro); 4. l’intervento di mitigazione del rischio idraulico e di messa in sicurezza dell’area (costo a carico del privato: 10 milioni di euro).

Se verrà a mancare anche una sola di queste opere di interesse pubblico la delibera recita testuale: “(...) il mancato rispetto delle su esposte condizioni necessarie, anche solo di una, comporta decadenza ex tunc del pubblico interesse qui dichiarato e dei presupposti per il rilascio degli atti di assenso di Roma Capitale e della Regione Lazio, risoluzione della convenzione, con conseguente caducazione dei titoli e assensi che dovessero essere stati medio tempore rilasciati”. In sostanza, se si cancellano le opere pubbliche esterne allo stadio, viene meno il pubblico interesse e si deve riscrivere una nuova delibera. È questo lo stallo in cui si è impantanato lo stadio.

A Roma non c’è uno scontro tra voraci palazzinari e quelli che invece vogliono tagliare le unghie alla speculazione immobiliare. Sembra esserci più che altro un gioco, tra chi non vuole, avendo sbagliato percorso, perdere la faccia e chi, il proponente privato, chiede semplicemente certezze.

Molti commentatori pur ammettendo di non aver letto le carte hanno gridato alla speculazione. Bisogna giudicare il progetto nel suo insieme, comprese le torri di Daniel Libenskid, che hanno una forza non solo architettonica, ma saranno in grado di attrarre grandi gruppi internazionali, creando migliaia di posti di lavoro e sostenibilità economica al progetto.

Si è lanciato l’allarme per le inondazioni cui sarebbe sottoposta l’area dello stadio ma anche qui le carte dicono una cosa diversa. Il rischio esondazione c’è ed è reale, ma interessa una porzione di città esterna all’area di Tor di Valle che è già oggi abitata da moltissimi cittadini, quella del quartiere di Decima. Nessuno si era occupato di loro e il fatto che il progetto dello stadio approvato dalla mia Giunta preveda, ancora una volta a carico del privato, la messa in sicurezza del fosso rendendo più sicura la vita di quei cittadini, è un fatto, ma lo si omette.

Si preferisce invece l’immagine del conflitto tra buoni e cattivi, per alimentare i discorsi vuoti di chi, forse, non si sente in grado di entrare nel merito del progetto.

L’amministrazione Raggi ha davanti un bivio: o porta avanti il progetto originario con il massimo rigore e serietà nel presidiare il pubblico interesse preteso dalla mia Giunta o, se decide di cambiarlo, deve illustrare quali sono gli ulteriori vantaggi pubblici e concreti per la vita dei cittadini del nuovo indirizzo.

il manifesto
L’URBANISTICA DIVENTA CONTRATTATA , AL SERVIZIO DI INTERESSI PRIVATI
di Antonello Sotgia

«Stadio della Roma. Si sta ribaltando il concetto di "rispetto": le regole fissate a giochi fatti »

Daniel Libeskind, l’architetto polacco-americano chiamato a rimpolpare con tanto «altro» lo stadio della Roma di Tor di Valle, presentando i suoi tre grattacieli gettati nell’ansa del Tevere ha dichiarato d’aver preso, disegnando i suoi blocchi dorati squadrati, quale riferimento formale l’opera di Giovan Battista Piranesi. Ma i suoi sgraziati monoliti, a differenza della sublime solidità costruttiva propria alle opere d’invenzione dell’architetto veneto, non hanno resistito molto.

Tagliuzzando spazi tra un piano e l’altro, abbassando di qualche metro l’altezza fissata a 200 metri, cucendo e scucendo metri tra corridoi e pianerottoli, la giunta Raggi, ha scelto non di rigettare quel progetto, ma di cucinare con i resti. Sembra essere riuscita a mettere insieme quella manciata di superficie che consente adesso di affermare a Luigi Di Maio: «È tutta un’altra cosa, siamo di fronte ad un progetto sostenibile e rispettoso dei valori del Movimento 5 Stelle».

Una volta erano le città a richiedere e ottenere per loro rispetto, che attraverso le regole dell’urbanistica veniva riportato a chi la città abita. È stato proprio rispettandosi e riconoscendosi l’un l’altro come abitante, ritrovarsi sotto il medesimo cielo, a fare della città la costruzione collettiva per eccellenza. Da quest’atto deriva l’abitare. Anche quando assume la forma del conflitto. A questo serviva l’urbanistica. A far sì che gli interessi dei pochi non prevaricassero su quello dei molti. Questo, nei casi in cui ci si è riusciti, è la massima forma di rispetto possibile. Ora è il contrario. Le «regole» si fissano dopo aver sistemato il progetto. Una volta ascoltato e autorizzato senza battere ciglio quello che i proponenti vogliono fare.

L’urbanistica contrattata, che trova in Roma la sua indiscussa capitale e che è stata tenuta a balia dal disinvolto Piano regolatore veltroniano, con lo stadio conosce ora una nuova disciplina: il rispetto del proponente. Nel caso del cosiddetto stadio della Roma è difficile individuare il proponente in una sola figura. È la società sportiva, o questa è solo il veicolo necessario a far partire l’operazione immobiliare che poco ha a che fare con lo sport?

È il tycoon americano suo presidente, o questo è solo l’imprenditore che ha come obiettivo esclusivamente d’incrementare il patrimonio della società di cui è il maggiore azionista e poi magari venderla impreziosita di un «titolo edilizio» stimato ben oltre il valore attuale della società? È quel costruttore che si fa chiamare ora «sviluppatore», o questo è solo il suo ultimo disperato tentativo di poter salvare quel che resta del suo patrimonio tentando di coinvolgere la banca, vero padrone del suo asset societario, costruendole, con questo progetto e la sua futura gestione, l’acquisizione infinita di plusvalenze basate sulla estensione coatta del debito a tutti i soggetti interessati e allentare così (forse) il pesante peso debitorio?

Per questo proponenti e amministratori, anche se sembrano essersi accordati tra loro e trovata un’intesa, hanno ancora il problema di trovare una legittimazione al loro operato. Hanno bisogno dell’urbanistica che, cancellata, si ripresenta chiedendo di sottoporre quelle carte ad un voto del consiglio comunale dove il sistema bancario e i proponenti non saranno presenti. Sarà presente chi dovrà alzare la mano per autorizzare il tutto. E alzando la mano sarà costretto a far vedere la sua faccia.

il manifesto
L’URBANISTICA CONTRATTATA E L'ULTIMA TROVATA
di Enzo Scandurra

Il grande progetto Tor di Valle (che con lo stadio ha poco o niente a che vedere e, per favore, diciamocelo) cambierà Roma?
Roma sarà più moderna? Somiglierà di più a Milano e alle altre grandi città globali, come Londra, Barcellona, Dubai?

Al termine di una visita turistica ai Fori, a piazza Navona, a piazza Campo de’ Fiori, ci sarà la gita fuori porta a Tor di Valle per ammirare i grattacieli che si specchiano sul Tevere? E i borgatari di Ponte di Nona, di Tor Bella Monaca, del Laurentino saliranno sui torpedoni turistici per andare ad ammirare quel pezzo della loro città per scoprire bellezze a loro sconosciute, così da dire, al termine della gita: sono orgoglioso di vivere in questa città?

Non so se corrisponde a verità, ma ho letto che nella miracolosa sforbiciata destinata a ridurre la colata di cemento, c’è anche una riduzione dei posti del nuovo stadio: da 60 mila a 52 mila! Se è così, dentro l’amministrazione Raggi ci deve essere qualche mago che conosce cose sconosciute a tutti, ovvero che quegli 8 mila tifosi erano fasulli e tanto valeva tenerne conto. O forse a dimostrare che lo stadio, in quel faraonico progetto, da soggetto è diventato una variabile dipendente.

Tutto questo passa, nella testa di chi difende questo progetto, come modernizzazione, innovazione, stare al passo con i tempi, che poi sono i tempi di un capitalismo trasformatosi in pensiero comune, diffuso, molecolare: l’ideologia neoliberista che azzera la storia come inutile fardello.

E l’urbanistica? Di chi è la città, avrebbe detto Lefebvre?

Povera disciplina che pure in passato ha avuto qualche momento di sussulto, qualche bella stagione (chi si ricorda più di nomi di Olivetti, La Pira, Doglio, Sullo?). Ora a questa parola è stato aggiunto il qualificativo di contrattata, un po’ come è avvenuto alla democrazia che qualcuno vuole partecipata, perché a chiamarla semplicemente democrazia si rischia di non dire niente, semplice banalità, vecchio arnese arrugginito dal tempo.

Contrattata da chi? E con chi? Non certo con gli abitanti della città né col popolo delle periferie né con tutte quelle associazioni che quotidianamente si impegnano, e si battono, per avere una città semplicemente più decente. Contrattata con i soliti noti: quei poteri forti che a Roma, dai tempi di Pasolini, si chiamano impropriamente costruttori e che la bonaria ironia dei romani ha ribattezzato come palazzinari. I famosi palazzinari con al seguito banche creditrici e investitori hanno sempre segnato il destino di questa città.

È l’ultima scoperta del M5S; perché loro non sapevano, ai tempi della competizione elettorale per eleggere il sindaco, che a Roma di re non ce ne sono stati solo sette, ma che quella dinastia ha continuato a tenere botta. Così cacciato Berdini che, a detta di Raggi, parlava troppo e faceva niente, adesso sarà lei, la sindaca Raggi, improvvisata urbanista, a contrattarli, assicurandoci che non ci sarà una nuova colata di cemento. Su Tor di Valle pioverà manna dal cielo e Roma riprenderà a splendere più bella che pria.

È giorno di lutto per questa città, per i suoi abitanti e anche per quei tifosi che allo stadio certo ci tengono ma non a qualsiasi costo; anche loro vorrebbero una città più decente. Da domani ri-inizieremo a parlare di buche, di autobus che si fermano per la strada, di dove deve andare quella misteriosa metropolitana che sembra essersi persa nel sottosuolo romano, di tavolini selvaggi nel centro, e magari, perché no, di quegli insignificanti territori che si chiamano periferie abitati da cittadini che si chiamano tali solo il giorno delle elezioni.

E di Tor Bella Monaca, di Corviale, del Laurentino, che ne facciamo? Ora lo sappiamo: potremmo costruire altrettanti stadi così da riqualificare quei luoghi miserabili e diseredati con tanti grattacieli, magari ecologici, magari un po’ storti come si addice ai tempi moderni.

. T. Montanari, la Repubblica, F.Q., il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2017 (p.d.)




la Repubblica
LA LEZIONE DEL PARTENONE:
C'E' CHI DICE NO
di Tomaso Montanari

Ieri le agenzie hanno battuto una notizia che riconcilia con l’umanità: la Grecia ha detto no alla Gucci, che aveva chiesto di realizzare, e filmare, una sfilata di moda sull’Acropoli. Il particolare che rende clamorosa questa notizia è che la Gucci aveva offerto in tutto 56 milioni di euro (tra affitto e diritti televisivi). Come ogni fiorentino immediatamente comprende, questa notizia ci riguarda: anzi, parla di noi. Non solo perché la Gucci è fiorentina: ma perché è fiorentinissima, purtoppo, la mentalità che ha indotto la griffe ad avanzare quella richiesta. E allora leggiamo le motivazioni di quel no. La Commissione Archeologica greca cui spettava la decisione ha scritto che: "Il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo". E il direttore del Museo dell’Acropoli Dimitris Pantermalis ha aggiunto: "Non abbiamo bisogno di pubblicità. Il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come ‘sfondo’ per una sfilata di moda".

Su un giornale di ispirazione moderata - Kathimerini, che esce in inglese con l’edizione internazionale dell’Herald Tribune - il poeta Pantelis Boukalas ha commentato la decisione con parole altissime. Parole che, lette da questa Firenze, fanno sanguinare il cuore: "Il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. Il valore simbolico del Partenone è stato minacciato anche quando è stato recentemente chiuso al pubblico in occasione della visita del presidente americano Barack Obama, ma il danno sarebbe esponenzialmente più grande se il monumento fosse usato come fondale di un evento commerciale. L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto».

Insomma: c’è chi dice no. Ed è commovente che questo ‘no’ venga da Atene, culla di ogni idea di democrazia. Da un’Atene in tali condizioni economiche da rendere ancora più ammirevole la dignità di questo no. E la “nuova Atene” (così si alludeva alla Firenze del Magnifico)? La nostra povera Atene è già in vendita da un pezzo, e per cifre incredibilmente ridicole, al confronto con i 56 milioni inutilmente offerti dalla Gucci. Non solo Matteo Renzi, Dario Nardella o Eike Schmidt, ma temo molti fiorentini, non riescono a pensare Ponte Vecchio, a Santa Maria Novella o a Palazzo Pitti come ad un patrimonio dell’umanità che non può essere sottomesso a interessi commerciali senza svilirlo, e, in ultima analisi, eroderlo irreparabilmente.
Ma non è mai troppo tardi per invertire la rotta.
il Fatto Quotidiano online
AGRIGENTO, DOPO IL NO
DI ATENE AI SOLDI DI GUCCI
IL SINDACO PROPONE LA
VALLE DEI TEMPLI
Atene non vuole i milioni di Gucci? E allora si fa avanti Agrigento. Nei giorni scorsi il Consiglio archeologico centrale greco (Kas) ha rifiutato un sostanzioso contributo economico offerto dalla casa di moda per poter organizzare a giugno una sfilata sull’Acropoli che sovrasta la capitale. Così Calogero Firetto, sindaco della città siciliana, ha pensato di candidare la Valle dei Templi, che nulla ha da invidiare alle bellezze della penisola ellenica. “Eventi riservati a pochi ospiti sono oggetto di un regolamento del Parco archeologico della Valle dei Templi - ha spiegato il primo cittadino all’Adnkronos - e, in linea con le norme nazionali, sono stabiliti canoni e diritti di immagine“. Agrigento ha già ospitato molti eventi importanti come il Google Camp, ora potrebbe essere la volta della passerella dello storico marchio italiano comprato dai francesi di Kering.

“Penso che la Valle dei Templi, scelta per altri eventi privati di carattere internazionale, possa essere uno scenario anche più suggestivo dal punto di vista della qualità dell’immagine e della resa pubblicitaria”, ha aggiunto Firetto, sottolineando come l’area archeologica, che vanta una serie di templi dorici del periodo ellenico, abbia appena vinto il Premio nazionale del Paesaggio e sia candidata per l’Italia allo stesso premio del Consiglio d’Europa. “Per Agrigento e per Gucci sarebbe un’opportunità: il reciproco vantaggio è abbastanza ovvio - ha detto il sindaco - inoltre la casa di moda potrebbe rispettare la sua volontà di realizzare una sfilata tra i templi greci, in un luogo che è patrimonio dell’Umanità dichiarato dall’Unesco“.

“Concedere l’uso dell’Acropoli sarebbe stata un’umiliazione“, si legge in un editoriale pubblicato dal quotidiano greco ekathimerini. Firetto invece sostiene che “l’orgoglio verso il nostro passato si esprime ogni giorno in un paesaggio vivo e non imbalsamato, pronto ad accogliere tutto ciò che esprime la cultura contemporanea ad alti livelli, in Italia e nel mondo”. L’archeologia ad Agrigento “non è statica, ma pulsa di vita - ha concluso Firetto - attraverso la creatività di uomini e donne, che nell’arte, nella poesia, nella letteratura, nella scienza, nelle attività produttive, con un carattere fortemente innovativo e nel rispetto dei luoghi, riescono a legare magicamente classicità e contemporaneità”. Ora resta solo da attendere la risposta di Gucci.

Stadi di Roma e di Firenze, Tav Val di Susa, Ponte sullo Stretto: «mega progetti presentati come la panacea di tutti mali, unica prospettiva per il rilancio dell’economia, l’immagine e il futuro di un territorio. Bisognerebbe invece partire dalla manutenzione come bisogno primario per aprirsi a piani, anche ambiziosi, ma sostenibili». il manifesto, 15 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’esito del duro scontro acceso intorno alla questione del nuovo stadio a Roma, e magari le dimissioni del prestigioso assessore Berdini, non riguarda solo la capitale. È una battaglia che ha un valore simbolico per tutto il nostro paese.

È da almeno vent’anni che si discute animatamente e si lotta duramente in alcuni casi (come per il Tav in Val Susa) sulle grandi opere prospettate di volta in volta come la panacea di tutti mali, unica prospettiva per il rilancio dell’economia, l’immagine e il futuro di un determinato territorio. Purtroppo, bisogna dire che la resistenza dei movimenti ambientalisti e di una parte della sinistra (a cui negli ultimi anni si era aggiunto il M5S) non è stata finora sufficiente a bloccare questa hybris che si manifesta con più forza nei momenti di crisi economica come quello che stiamo attraversando.

Poco prima di perdere il Referendum l’ex premier ha tirato nuovamente in ballo il Ponte sullo Stretto come prospettiva realistica con cui rilanciare quest’area del nostro Sud che presenta altissimi tassi di inoccupazione giovanile ed una fuga da questo territorio che ormai è diventato un esodo. Ci piaccia o no, le Grandi Opere esercitano un fascino sulla gran parte della popolazione perché il modello di sviluppo che abbiamo visto ed interiorizzato è questo e non riusciamo a immaginarne un altro.

Uno dei migliori contributi che ci ha dato Serge Latouche, soprattutto nei suoi primi scritti, è stato appunto questo: non usciamo da questa crisi, ambientale e sociale, se non cambiamo immaginario, se non la smettiamo di ridurre tutto il mondo a merce, un paesaggio o un bosco. Che non significa abbracciare tout court una nuova religione della “decrescita”, ma essere capaci di creare posti di lavoro, di autorealizzazione, spazi vivibili e progetti/visioni del futuro entusiasmanti, senza continuare a massacrare di cemento il nostro paese. E questo vale ovviamente anche per la capitale.

Lo si può fare recuperando il già costruito e magari abbandonato, come giustamente ci ricordava Piero Bevilacqua rispetto al caso dello stadio Flaminio, lo si può fare utilizzando nuove tecnologie, dando spazio agli artisti di ogni ordine e grado.

È questo lo snodo fondamentale per costruire una alternativa a questo sistema, altrimenti non importa chi ci governa perché la forza degli interessi in gioco unendosi a questa subalternità culturale, a questa mancanza di fantasia, sarà sempre vincente. Come spesso viene ricordato la Politica come la Fisica non sopporta il “vuoto”, e quando si crea c’è sempre qualcuno o qualcosa pronto a riempirlo. E questo è vero anche per il territorio, non nel senso dello spazio vuoto, ma del vuoto culturale che lascia un territorio senza prospettive.

A Saline Joniche in provincia di Reggio Calabria venne inaugurata nel 1975 la Liquichimica, una fabbrica che doveva produrre dal petrolio proteine per l’alimentazione animale. Assunse 500 addetti, gli fece fare sei mesi di formazione con soldi pubblici, ma non un solo giorno di lavoro. Il prezzo del petrolio era salito alle stelle rendendo non competitive queste “Bioproteine” rispetto alla soia statunitense. I cinquecento andarono tutti in cassa integrazione e in queste condizioni sono andati in pensione.

Per quaranta anni si è lasciato senza manutenzione, in uno stato di penoso abbandono l’ampio spazio occupato da questo stabilimento – comprese le mega piscine per decantazione – che sorge sul mare in uno dei posti più belli della costa jonica calabrese. Ma, nel 2014 una impresa multinazionale svizzera presentò un progetto per costruire una mega centrale a carbone. Riuscì a coinvolgere (corrompere) una parte degli amministratori locali, ma non la popolazione che insorse e costrinse enti locali e governo regionale a bloccare questo folle progetto. State sicuri che se verrà lasciata ancora nell’abbandono altri progetti folli vedranno la luce e qualcuno alla fine la spunterà.

La scommessa è questa: partire dalla manutenzione come bisogno primario per aprirsi a progetti, anche ambiziosi, ma sostenibili sul piano ambientale e sociale capaci di mobilitare energie per un orizzonte comune su cui puntare.


la Repubblica economia finanza, 15 febbraio 2017 (p.s.)

La storia e la cultura non hanno prezzo. E Atene, al settimo anno di una crisi economica che si è mangiata il 25% del Pil, dice no ai soldi offerti dalla Gucci per consentire una sfilata di moda di un quarto d'ora sull'Acropoli.

La richiesta della casa di moda è arrivata nei giorni scorsi sul tavolo della Commissione archeologica della Grecia (Kas) con un'offerta - immaginavano gli estensori - difficile da rifiutare, visto lo stato di salute delle casse elleniche: un milione per l'affitto della "roccia sacra" per uno show di 900 secondi da tenere proprio di fronte al Partenone, riferisce la stampa ellenica. Più 55 milioni per i diritti a girare e promuovere in giro per il mondo il filmato della passerella. Anche se di soldi, dice la società fiorentina, non si era ancora parlato in questa fase dell'operazione.

La risposta del Kas è stata però categorica. «Il valore e il carattere dell'Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo». Punto. «Non abbiamo bisogno di pubblicità - ha rincarato la dose Dimitris Pantermalis, direttore dello splendido Museo dove sono ospitati i resti del fregio del tempio antico e le Cariatidi -. Il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come "sfondo" per una sfilata di moda».

Poveri sì, insomma, ma non abbastanza da mettere in vendita l'anima del paese. La Gucci aveva avanzato la sua richiesta ricordando come nel 1951 i marmi e le colonne del Partenone avessero fatto da palcoscenico a una sfilata di Christian Dior. Altri tempi però, la Commissione, irremovibile, ha detto no mentre il marchio della Doppia G ha confermato di avere avuto un incontro con l’autorità ellenica per presentare un progetto di collaborazione culturale a lungo termine e raccogliere l’opinione dell’autorità stessa, ma che nessuna offerta economica è mai stata formulata.

«Concedere l'uso dell'Acropoli sarebbe stata un'umiliazione» ha commentato in un editoriale il quotidiano Kathimerini. I marmi dell'Acropoli sono stati sfruttati in passato per gli spot della Coca-Cola, di Lufthansa e Verizon (che ha trasformato le colonne in cabine telefoniche) e come set per un servizio fotografico di Jennifer Lopez non autorizzato dal Kas. Ma la storia (e la dignità) della Grecia non sono in vendita. Nemmeno oggi che lo Stato è quasi in bancarotta.

«Vertice della svolta sul nuovo stadio con il direttore della As Roma e il costruttore Parnasi. L'assessore all'Urbanistica Berdini dà le dimissioni "irrevocabili"». il manifesto, 15 febbraio 2016 (p.d.)

Lo sguardo ineffabile delle radio dei tifosi giallorossi saluta l’accordo sullo stadio tra giunta capitolina e As Roma. Non c’è ancora un via libera ufficiale alla cittadella che sorgerà a Tor di Valle col viatico del nuovo impianto, ma poco ci manca. Tanto che dopo giorni di attesa, l’assessore all’urbanistica Paolo Berdini annuncia le sue «dimissioni irrevocabili». «Mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo Stadio della Roma», è il grido di dolore dell’ormai ex assessore.
Alla riunione della svolta c’è il primo in grado della Roma in Italia, il direttore generale Mauro Baldissoni. Con lui arriva il costruttore Luca Parnasi. Si apprende che la società calcistica aveva chiesto la presenza della sindaca. Lei però non si presenta. Per l’amministrazione capitolina ci sono il vicesindaco Luca Bergamo, il presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, il capogruppo Paolo Ferrara e la presidente della commissione Urbanistica di Roma Donatella Iorio, che smentisce di essere candidata a sostituire Berdini in assessorato. Dalla composizione si capisce che l’incontro è più politico che tecnico. L’ultimo di questo genere si era tenuto proprio nella sede dell’ assessorato all’urbanistica quando il padrone di casa era in pieni poteri. Questa volta ci si vede in Campidoglio. Ma colui che ha definito il progetto «la più imponente speculazione immobiliare del momento in Europa» che richiederebbe «la più grande variante urbanistica ad hoc mai approvata a Roma», non è della partita. Senza l’assessore ancora formalmente in carica (seppure «con riserva») si discute di 974 mila metri cubi di cemento che comprendono solo per un 14% lo stadio vero e proprio. Il resto contiene le tre torri disegnate dallo studio Libeskind, un albergo e centri commerciali. E poi c’è da parlare di opere infrastrutturali come ponti e uno svincolo. Berdini chiedeva appunto di tornare nell’ambito del Piano regolatore di Roma, secondo cui andrebbe costruito lo stadio e poco più.
Ai primi di febbraio, il Campidoglio aveva ufficialmente chiesto la modifica del progetto per alcune carenze. La posizione di Berdini, favorevole a un drastico taglio di cubature, si scontrava ormai da settimane con quella dell’ala dialogante del M5S, che sarebbe capeggiata dall’assessore allo sport Daniele Frongia, pronta a chiudere un accordo con una diminuzione delle cubature attorno al 20%, magari tagliando in altezza qualche edificio.
Ballano 600mila metri cubi di cemento, insomma. E dietro quelle cubature si agitano gli spettri della tradizionale speculazione edilizia assieme ai giochi fantasmagorici della finanza, con Unicredit a tenere i cordoni della borsa. Così, quando Luca Bergamo esce dalla riunione annunciando con soddisfazione che si è aperto un nuovo corso, si capisce che la fronda pro-stadio ha preso il sopravvento. «Vorrei ringraziare la Roma per aver risposto alle nostre sollecitazioni nella riunione della scorsa settimana presentandoci oggi una revisione del progetto che ha dei caratteri fortemente innovativi – dice Bergamo – I tavoli tecnici sono ancora al lavoro, faremo una valutazione di questa importante novità e ci siamo dati appuntamento alla prossima settimana». Se riusciranno a rispettare i tempi, cioè si avrà un primo via libera entro il 3 marzo? «È ovvio», risponde sicuro il vicesindaco. A chi gli chiede maggiori dettagli, come quello – decisivo per capire di che compromesso si tratta – circa l’esistenza di una variante urbanistica che passerà in consiglio, Bergamo risponde: «Di tutti questi elementi parleremo una volta completata questa primissima fase».
Anche Baldissoni si sbilancia: «Noi abbiamo sempre detto che vogliamo fare questo progetto insieme alla città. Abbiamo cercato di intercettare quali sono le esigenze e visioni della nuova giunta. Continuiamo a lavorare insieme, nel rispetto dei tempi e della sostenibilità del progetto stesso». Si vedrà se adesso quella parte di base grillina che nei giorni scorsi ha contestato il progetto, o almeno ha chiesto che la decisione venisse decisa mediante votazione online sul sito di Grillo, accetterà i termini dell’accordo.
Tutto mentre la cottura a fuoco lento di Berdini è proseguita fino a ieri pomeriggio, con la sindaca che non voleva farne una vittima e puntava a sfiancarlo. L’ultima trovata degli avvocati passati alla politica che costituiscono l’ossatura della giunta (ci si faccia caso, hanno l’abitudine di appigliarsi al cavillo e alle procedure) si chiamava «due diligence», sorta controllo degli atti finora portati avanti dall’urbanista. Solo che stavolta Berdini sbatte la porta: «Era mia intenzione servire la città mettendo a disposizione competenze e idee. Prendo atto che sono venute a mancare tutte le condizioni per poter proseguire il mio lavoro». Il consigliere pentastellato Pietro Calabrese lo accusa: «Se alle parole non corrispondono i fatti è normale che le strade a un certo punto si dividano». Raggi è gelida: «Prendiamo atto che l’assessore preferisce continuare a fare polemiche piuttosto che lavorare. Noi andiamo avanti». L’ex assessore torna al suo lavoro di urbanista, spiegando dove secondo lui la giunta ha mancato: «Dovevamo riportare la città nella piena legalità e trasparenza delle decisioni urbanistiche, invece si continua sulla strada dell’urbanistica contrattata, che come è noto, ha provocato immensi danni a Roma».

Utilizzare i meccanismi della rendita immobiliare per ricavarne le risorse necessarie per il miglioramento della città è un errore, che provoca gravi distorsioni alle regole e gli effetti del governo del territorio. la Repubblica, 14 febbraio 2017

QUANDO si ascoltano Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Virginia Raggi promettere che, sì, lo stadio della Roma si farà, viene da pensare che ci sia una maledetta linea d’ombra, nella vita pubblica italiana. Quella linea è l’elezione a una carica pubblica.Quando la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel linguaggio, nell’etica, nella scala delle priorità. Perfino nella logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un potere immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni.

La città (non solo Roma) si è disfatta, è diventata invivibile, a tratti mostruosa, perché si è smesso di pensarla e di disegnarla. Si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale: la prima ha cessato di immaginare e modellare la seconda. Il taglio delle finanze locali, l’ignoranza e la corruzione delle classi dirigenti hanno delegato a pochi grumi di interesse privato (palazzinari e banche, in sostanza) lo sviluppo delle città, secondo questa logica perversa: “io amministratore permetto a te speculatore di prenderti un pezzo di spazio pubblico, se in cambio mi fai quei servizi, quelle urbanizzazioni, quelle infrastrutture necessarie alla comunità che io non ho i soldi per fare, né la voglia di pensare”. È la fine dell’urbanistica, e dunque la fine della città pubblica. Questa abdicazione è stata compiuta indifferentemente da destra e da sinistra.

Un simbolo di questa continuità perfetta è stata la figura di Maurizio Lupi: assessore allo Sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano del Comune di Milano nella giunta di Gabriele Albertini e poi ministro delle Infrastrutture dei governi Letta e Renzi. La linea Lupi è quella della Legge Obiettivo di Berlusconi del 2001: che resuscita, peggiorata, nello Sblocca Italia di Renzi (e Lupi, appunto) nel 2014. Il motto delle due leggi era lo stesso: “padroni in casa propria”. Parole che volevano solleticare i cittadini, ma che di fatto descrivevano perfettamente le figure di amministratori che si sentono padroni del territorio solo per svenderlo ad interessi particolari. Un pensiero unico che tende ad inghiottire tutti: basti pensare ad Enrico Rossi, che mentre si candida a guidare il Pd e il Paese con idee socialiste, impone ai cittadini della Maremma un’autostrada che essi non vogliono.

Ora è il turno dei 5 Stelle. In campagna elettorale il loro slogan (sommario, ma efficace) era: riprendiamoci il governo della città. Non come 5 stelle, come cittadini. Ed è su questo che hanno avuto il voto di moltissimi romani di sinistra. La prima cosa che i vincitori avrebbero dovuto fare una volta entrati in Campidoglio era dunque ritirare la delibera 132/2014: quella con cui la giunta Marino aveva stabilito che il progetto dello stadio — un progetto della Roma (la società, non la città), che prevede un milione di metri cubi di cemento con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali — fosse “di pubblico interesse”.

Era una battaglia difficile, ovviamente: una battaglia che si poteva vincere solo spiegando molto chiaramente agli elettori la situazione, chiedendo pubblicamente l’appoggio dei romani contro chi minacciava — e minaccia — di mettere in ginocchio la città attraverso cause miliardarie. D’altra parte, tutti sappiamo che per invertire la rotta pluridecennale della privatizzazione delle città occorre una clamorosa rottura della continuità: una rottura che affermi il primato della politica e del bene comune sugli affari e sugli interessi privati. Ma è successo tutto il contrario: e ora ci si viene a dire che lo stadio si farà, vedremo con quante torri e quanta speculazione attorno.

I 5 Stelle vengono quotidianamente passati al microscopio da chi si aspetta (o magari si augura) di poterli dichiarare uguali a tutti gli altri nella corruzione. Ma quello che sta emergendo è qualcosa di diverso, forse di peggiore. E cioè che essi rischiano di essere uguali agli altri nella subalternità allo stato delle cose: in un difetto, e non già in un eccesso, di radicalità. Perché chiunque varca quella famosa linea d’ombra senza una visione, senza un progetto, senza sapere quale città e quale politica vuole, non riuscirà a cambiare niente. Anzi, ne sarà inesorabilmente cambiato.

«Una profetica riflessione del cardinale sulla metropoli, tratta dall’Opera Omnia (3° tomo) in uscita a 90 anni dalla nascita». Il Sole24ore, 12 febbraio 2017 (m.c.g.)

Mai come in questo tempo stiamo sperimentando, più ancora che la forza, la debolezza delle nostre città. Eventi drammatici che hanno toccato altre metropoli, il riproporsi recente di oscure minacce e più in generale la complessità dei processi in atto nei grandi agglomerati urbani sembrano indurre a un senso di sgomento di fronte alla difficoltà di reggere alle sfide che pone la grande città.

Eppure la città è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza di umanità da due pericoli contrari e dissolutivi: quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo, togliendogli un centro di identità; e quello della chiusura nel clan che lo identifica ma lo isterilisce dentro le pareti del noto. La città è invece luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: «cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito».

Noi avvertiamo la fatica di costruire la città del nostro tempo come un luogo insieme protettivo e aperto, come una specie di Gerusalemme celeste dalle molte porte (Apocalisse 21,12-13). Per queste porte infatti entrano e sono entrate tante differenze disorientanti. E vi sono entrate ancor prima di quelle che noi comunemente definiamo con il prefisso di extra e a cui tendiamo ad attribuire mali che sono più radicalmente epocali e culturali.

È stata infatti la società complessa a sancire la fine della unità di un costume comune e identificante. È stata la frammentazione ad essa congenita che ha polverizzato quella che prima era un’unica identità nei tanti sottoinsiemi della società, i quali aspirano ciascuno a regole particolari e diverse. Sicché l’apertura della città rischia oggi di spersonalizzarla e ogni soggetto che vi entra si sente isolato; e, d’altro canto, l’identità si rifugia, quasi per paura, nei tanti gruppi amicali paralleli che rivendicano proprie regole particolari. Così l’apertura, disarticolandosi, non arricchisce più l’identità e l’identità, parcellizzandosi, non dà senso a tutta la città.

Eppure la città conserva un ruolo visibile di manifestazione dell’umano, se è vero che diventa luogo simbolico privilegiato dove si scarica il conflitto; una cassa di sfogo di scontri ideologici e perfino di disagi comuni. Ed essa ne paga forti tributi di insicurezza e perfino di sangue. E così può nascere uno spirito di fuga dalla città, verso zone limitrofe protette, verso zone franche, per avere i vantaggi della città come luogo di scambi fruttuosi e l’eliminazione degli svantaggi di un contatto relazionale ingombrante.

È allora la città destinata a disperdersi in un nuovo feudalesimo, compensato magari dalle impersonali relazioni mediatiche? È destinata a diventare un accostamento posticcio tra una city, identificata dal censo e dagli affari, e molte diversità a cui si concede di accamparsi in luoghi privilegiati o degradati, a seconda dei casi? E però se l’antidoto alla città difficile diventa una piccola città monolitica assediata dalle mille città diverse, la città perde il suo ruolo di identità-apertura e si originerà una faglia di insicurezza che metterà a repentaglio gli insiemi. È questa, in realtà, una delle caratteristiche e uno dei limiti d’una oligarchia, non d’una democrazia, stando a Platone: «uno Stato oligarchico è non unico, ma doppio: uno dei poveri e uno dei ricchi, sussistenti entrambi nello stesso territorio, in perenne conflitto tra di loro».

Si evidenzia perciò, oggi come non mai, la difficoltà della gestione della città e del suo governo politico, e può nascere la tentazione di gestire la città limitandosi a tenere separate le parti che in essa convivono mediante una specie di paratie tecniche. Ma così la città muore e soprattutto muore il suo compito di custode della pienezza dell’umano, per cui essa era nata.

Invece, proprio in forza della sua complessità localizzata, la città permette tutta una serie di relazioni condotte sotto lo sguardo e a misura di sguardo, e quindi esposte al ravvicinato controllo etico, e consente all’uomo di affinare tutte le sue capacità. Essa è infatti sempre meno un territorio con caratteristiche peculiari, e sempre più un mini- Stato dove si agitano tutti i problemi dell'umano. È perciò palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica. E in più ha dalla sua il vantaggio di una tradizione di identità propria.

Ce l’ha in particolare Milano – e le è comunemente riconosciuta – nel ruolo del lavoro e dell’organizzazione amministrativa e di servizi, di un raccordo tra religione e strutture formative e caritatevoli, che la rendono luogo facilmente riconoscibile da chi vi sopraggiunge. Ma se si perdono le radici culturali di questa identità e si cerca solo di mantenerne vivi i vantaggi tecnici, si finisce col perdere l’anima della identità e, alla lunga, anche i suoi vantaggi.
Milano non può, nel nome dell’identità, perdere la sua vocazione all’apertura, perché proprio questa è iscritta nella sua identità, cioè la capacità di integrare il nuovo e il diverso.

L’accoglienza, come categoria generale, non è per la milanesità solo un affare di buon cuore e di buon sentimento, ma uno stile organizzato di integrazione che rifugge dalla miscela di principi retorici e di accomodamenti furbi, e si alimenta soprattutto ad una testimonianza fattiva. Per questo sono lieto che sia possibile, in collaborazione anche col comune, offrire alla città una Casa della carità che risponda alle intenzioni di un generoso benefattore milanese e rimanga come segno di accoglienza verso i più sprovveduti. (...)

La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: commune conversationis officium, dice Ambrogio: «comune è il dovere di intrattenere relazioni».

© 2025 Eddyburg