Firenze ha la sventura di essere la patria di auto-adozione del Senatore (di Scandicci) Matteo Renzi e in quanto tale vittima di una serie di leggi «ad civitatem» che purtroppo si estendono come disgrazie all’intera nazione.
Dobbiamo riconoscere che dopo il Dlgs 104 del 2017– che permetteva di modificare le VIA già effettuate in accordo tra proponenti e controllori, pro nuovo aeroporto di Firenze - dopo l’emendamento al Decreto Semplificazioni, sostanziato nell’art 57 che ingloba la VAS nella VIA (sempre pro aeroporto) era difficile fare di peggio. Invece con l’emendamento sugli stadi, approvato anch’esso nel Decreto Semplificazioni, Matteo Renzi ha superato se stesso e portato l’asticella ancora più in alto. L’emendamento è un misto di insipienza architettonica, di totale ignoranza del significato di “conservazione”, di aspetti ridicoli, come la possibilità di trasferire in altro luogo gli elementi di pregio ritenuti non più funzionali; e si conclude con delle bombe finali, che a primo acchito appaiono incostituzionali. Ma su ciò decideranno i giudici, se sarà fatto ricorso alla Corte.
L’emendamento è pensato per lo stadio Franchi di Firenze, realizzato agli inizi negli anni ’30, su progetto di Luigi Nervi, già manipolato a partire degli anni ‘90, con l’abbassamento del manto erboso, l’eliminazione della pista di atletica e incongrue tribune aggiuntive. Ora, è scritto nell’emendamento che a fini testimoniali si può procedere alla conservazione o riproduzione anche in forma e dimensioni diverse da quelle originali dei “soli specifici elementi strutturali, architettonici e visuali”. Che vuole dire che si può trasformare tutto e a piacimento, secondo una nuova categoria concettuale: l’ossimoro di una conservazione basata sulla trasformazione.
Con la ciliegina che elementi di valore, ma non più funzionali, possono essere trasferiti altrove. Ad esempio, l’ingresso monumentale dello stadio potrebbe essere appiccicato a un nuovo centro commerciale e le scale elicoidali potrebbero fare da corredo a qualche grande albergo di lusso come scale di sicurezza. Che ogni architettura di pregio, ogni monumento, sia da conservare nella sua integrità, organicità e nel suo contesto è un’idea certamente non nuova, ma evidentemente sconosciuta al Senatore.
Ci si domanda, poi, come nello stadio Franchi si possano distinguere gli elementi strutturali da quelli che non lo sono. Matteo Renzi, da Sindaco di Firenze, era spesso presente alle partite della Fiorentina. In quelle occasioni ha avuto la possibilità di guardare la struttura dello stadio, ben visibile dall’esterno, e di rendersi conto che tutto il complesso, comprese le tribune che hanno il compito di collegare tra loro i pilastri, ritti e inclinati, svolge un ruolo strutturale. Se vengono demolite le tribune non vi è più solidarietà tra i diversi elementi portanti. Forse si potrebbe, oltre alle già menzionate scale elicoidali, traslocare le torre di Maratona che ha una struttura autonoma e piantarla da qualche altra parte, a concorso.
Infine le due bombe. La prima: se il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali non comunica entro 60 giorni, prorogabili a 90, quali parti siano da conservare (trasformandole per forma e dimensione) e quali da demolire o asportare, il vincolo decade automaticamente. La seconda: “il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali tiene conto che l’esigenza di preservare il valore testimoniale dell’impianto è recessiva rispetto all’esigenza di garantire la funzionalità dell’impianto medesimo ai fini della sicurezza, della salute e della incolumità pubbliche, nonché dell’adeguamento agli standard internazionali e della sostenibilità economico – finanziaria dell’impianto. La predetta esigenza prevalente rileva (?) anche ai fini delle valutazioni di impatto ambientale e di compatibilità paesaggistica dell'intervento.”
In sintesi, nell’emendamento viene reinterpretato l’articolo 9 della Costituzione dove è scritto che la Repubblica tutela il patrimonio storico-artistico della Nazione. Innumerevoli sentenze della Corte di Cassazione hanno ribadito che l’interesse della tutela è prevalente rispetto a interessi economici e funzionali. La recessività della tutela rispetto ad altri interessi non può essere generalizzata, ma deve essere valutata caso per caso, dimostrando che esistono imprescindibili necessità di salvaguardia della salute pubblica, della sicurezza, o altre forti motivazioni; e che non è possibile costruire altrove un manufatto sostituivo di quello che si vuole radicalmente trasformare. Ci si domanda perché l’attuale Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, il buon Dario Franceschini, non abbia niente da eccepire rispetto a questo autentico attentato al “patrimonio storico-artistico della Nazione” e a questa indebita interferenza nelle sue competenze ministeriali.
Una considerazione finale: non si comprende perché l’emendamento eversivo debba riguardare solo gli stadi e non qualsiasi manufatto vincolato. Applicato alle chiese si potrebbero eliminare tutte le pareti e le coperture non portanti. Esteso a Venezia si potrebbero distruggere tutte le facciate che danno sul Canal Grande che, come è noto, non hanno alcuna funzione strutturale. In una parola, l’epidemia fiorentina potrebbe estendersi a tutta l’Italia.
Olimpiadi a Firenze (e Bologna per par condicio) nel 2032. La bufala viene da Dario Nardella, Sindaco di Firenze e ha trovato l’interesse dell’omologo bolognese, nonché del Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, tornato all’ovile del PD. (segue)
Già a Firenze, subito dopo l’alluvione del 1966, il professore architetto Pierluigi Spadolini, con l’appoggio di una parte della Democrazia Cristiana e delle grandi società immobiliari romane, aveva lanciato un’analoga proposta. Naufragata, perché all’epoca il Sindaco di Firenze si chiamava Piero Bargellini e il PC non si era ancora trasformato nel partito del cemento.
E’ evidente che le probabilità che il CIO accordi le Olimpiadi estive a Bologna e Firenze sono inferiori a quelle di vincere l’enalotto giocando una sola schedina. Le ragioni sono state indicate in un articolo del Fatto Quotidiano on line dell’11 settembre. Il Comitato Olimpico chiede ai “pretendenti” di avere già una buona infrastrutturazione di base, mentre Firenze e Bologna sono a terra per quanto riguarda gli impianti sportivi, a partire dagli stadi per l’atletica, per non parlare del nuoto o del ciclismo. Inoltre, per un criterio di alternanza è difficile che dopo l’assegnazione delle Olimpiadi invernali a Milano e Cortina si voglia ancora gratificare (si fa per dire) l’Italia. Va da sé che le Olimpiadi sono state sempre rovinose per i bilanci pubblici e profittevoli solo per i costruttori che in Italia, per prassi consolidata e con costi crescenti, si lasciano dietro una marea di opere incompiute.
Se ne deduce che o Dario Nardella è uno sprovveduto o è in malafede. Propendiamo per questa seconda ipotesi. Ma allora perché lanciare la bufala delle Olimpiadi? Una risposta verrà dalle reazioni dell’establishment locale e dal partito del Pil. Già ci sembra di sentire alzarsi le voci che per dare gambe alla candidatura fiorentino-bolognese occorre realizzare al più presto il nuovo aeroporto, bucare Firenze con il sottoattraversamento Tav e chissà cos’altro. Qui potrebbe stare l’obiettivo sottostante, usare come grimaldello una proposta inattuabile per realizzare quello che viene messo in forse dall’opposizione più consapevole di sindaci e cittadini.
Bisogna dare atto a Nardella di un tocco di comicità nella sua proposta. “Perché "se Milano è la capitale finanziaria e Roma quella politica, Firenze e Bologna possono rappresentare il polo italiano delle eccellenze e del made in Italy, visto che rappresentiamo il meglio in campo alimentare, in quello della moda, dei motori, della tecnologia e dell'alta formazione universitaria" (La Nazione Firenze, 11 settembre). Cosa c’entri tutto ciò con un evento effimero e di tutto altro genere come le Olimpiadi rimane misterioso. Ma dopo la comicità viene la tragedia: intervistato dal Fatto Quotidiano Giacomo Giannarelli, il candidato del Movimento 5Stelle alle prossima elezioni regionali, afferma “che ogni iniziativa che promuova lo sport, il turismo e le relazioni internazionali è un’iniziativa da sostenere”. Ma i pentastellati non erano contro le Olimpiadi, emblema sommo dello spreco di soldi? Il no di Virginia Raggi è stato un penoso malinteso?
Tutti accomunati i nostri politici da una visione miope e retrograda del futuro delle nostre città. Fermi agli anni ’60, sono ancora convinti che le infrastrutture pesanti e il cemento siano la via maestra di un mitico “sviluppo”. Ambiente e cambiamento climatico sono slogan usa e getta.
Firenze subì nel 1966 una spaventosa alluvione (da cui, appunto, la proposta di Olimpiadi risarcitorie). Niente è cambiato da allora rispetto al rischio idraulico che corre il capoluogo e buona parte della Toscana. Invece di assecondare la natura la si vuole in ogni modo violentare. Tanto in Italia gli stupratori se la cavano con poco.
I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato. (segue)
Introduco con una parafrasi dai testi di James Hillman, psicologo biologo filosofo, in Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 1999:
I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato.
È successo con la fase di media durata del whirl-capitalism che ha man mano intensificato la lotta contro la classe operaia e, più estesamente, i lavoratori subalterni schiavizzati; ma anche verso i senza lavoro poveri o miseri destinati a servire i ricchi e i riccastri (non sempre e propriamente capitalisti ma, in ogni modo, esperti nella sottrazione di beni altrui o di risorse comuni). Sicché la massa di popolazione ha raggiunto, magari negandolo, un grado d’infelicità più alto di quello immaginato dal giovane Marx se costretta a vivere nella necessità. L’alienazione e lo sfruttamento generano sofferenza; alleviarla divenne, come la libertà, un imperativo dei comunisti. Le società precapitalistiche conoscevano le norme di un mondo etico delle istituzioni (Sittlichkeit); il capitalismo ha oltrepassato ogni limitazione e ha distrutto tutte le autorità morali. All’interno della lotta di classe il capitale ha travolto come Moloch tutti i sistemi culturali benemeriti già sottostanti all’assetto «immorale» della società: compreso i sistemi dell’architettura e dell’urbanistica. Se oggi qualcuno nell’azione politica e in qualsiasi branca sociale o culturale desse forte rilievo alla dimensione morale, non potrebbe resistere alle ondate d’odio e disprezzo che lo colpirebbero.
Non siamo riusciti (architetti, urbanisti e protagonisti di culture socialiste) a dotarci di un armamento adatto e sufficiente, in definitiva, per vincere la guerra dei settant’anni, seppur abbiamo vinto qualche battaglia. La cinquina di cui sopra è la risultante delle vicende provocate e sovrintese dai direttori capitalistici per raggiungere la più alta e mai vista accumulazione di profitti e di rendite; che, infatti, richiede distruzione del buono-felice di massa e costruzione del tempio dei chierici fedeli. Dappertutto nel mondo le disuguaglianze fra le popolazioni ed entro le popolazioni aumentano, con punte dove la miseria più nera si accompagna alle insegne del potere architettonico e urbanistico del capitalismo mondializzato, sempre come grattacieli deformati ad arte, pure immagini sacre (icone) del Moloch invincibile. La reductio ad unum delle cinque parti della realtà di cui (noi che pensiamo di non appartenere alla chiesa) siamo costretti a riconoscere la durezza e l’impossibilità o l’enorme difficoltà di modificarla, promuove il conto d’oggi e lo confronta con altri conti di altri tempi non ancora contraffatti totalmente dall’immoralità del capitalismo.
Nelle prime prove di libera progettazione e nell’insegnamento ai politecnici di Milano e di Torino (per qualche iniziativa anche all’Istituto universitario di architettura di Venezia), un gruppo di giovani architetti si muoveva lungo le seguenti direttrici: applicare la convinzione, già maturata in ambito filosofico, che le discipline fondamentali potevano rompere i propri recinti e condurre gli studiosi, qualunque fossero le loro basi prioritarie, verso più vasti orizzonti della conoscenza. L’architettura, l’urbanistica, l’arte e la storia sociale avevano bisogno l’una dell’altra. L’urbanistica, poi, doveva acquistare una nuova forza «personale» per oltrepassare la qualifica di tecnica (mediocre) e aprirsi alle scienze umane: non attraverso il contributo di esperti estranei ma per propria capacità di introdurre in se stessa l’essenziale di economia, geografia umana, sociologia … Insomma, doveva costituirsi come sapere integrato per potersi misurare con l’incessante mutamento della realtà. Tuttavia il modello non resistette a lungo se non in ridotte troppo esposte ai nemici, simili a quegli stessi che il fisico e letterato inglese Charles P. Snow accusava di voler consolidare la separazione fra cultura scientifica e cultura umanistica (C.P. Snow, Le due culture, Feltrinelli 1964, Marsilio 2005 - originale 1959, seguito 1963. Vedi L. Meneghetti, La cultura spezzata, in eddyburg 11 febbraio 2006, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006).
La realtà duratura parve configurarsi così: da una parte le rare mosche bianche di un’architettura di buona qualità, spersa nel mare della raccapricciante «architettura», totalmente bruta edilizia aziendalista; dall’altra un pezzo ristretto di urbanistica, «competente», distaccata dal consueto progetto di sfrenato espansionismo edilizio dei territori comunali («rapallizzazione»), ma propensa a pronosticare il futuro delle città e dei territori senza poterne definire la conformazione fisica. Eppure, se con la memoria retrocedessimo nel secolo breve fino al dopoguerra noteremmo il risveglio della vecchia quartieristica pubblica, ordinario incrocio fra urbanistica e architettura. Lasciando da parte il QT8 milanese con il Monte Stella, testimonianza impareggiabile di simbiosi fra piano urbano, progetto architettonico e paesaggio costruito, e ugualmente La Martella di Matera, caso particolare legato all’unicità della condizione abitativa del capoluogo, rievochiamo due quartieri Ina-Casa: a Roma il Tiburtino, a Cesate (Milano) il borgo nuovo progettato e curato fino al dettaglio costruttivo dal gruppo Albini, Gardella, Albricci e BBPR. Entrambi gli insediamenti, appartenenti al primo settennio dell’istituto, furono avviati nel 1949. Del secondo (Cesate) permane un evidente valore storico giacché il progetto urbanistico e diversi progetti architettonici (serie di case con alloggi duplex) rappresenteranno l’Italia nell’esposizione internazionale allestita al CIAM 1953 di Aix en Provence e la realtà del costruito sarà ancora oggi esempio di un’efficace manutenzione.
Il secolo macinava gli anni. Quando dal 1962 si potette applicare la legge 167 per i Piani di edilizia economica e popolare, in alcuni Comuni i progettisti sfruttarono intelligentemente le norme previste e le procedure per ottenere l’approvazione dei piani per quartieri residenziali non limitati a schemi planimetrici atti soltanto a impegnare i terreni, bensì definiti da una specifica organizzazione dello spazio e dai volumi delle case trattati secondo differenti tipologie (come dall’esperienza Ina-Casa e Gescal), prossime alle risoluzioni architettoniche. Intanto i piani di zona potevano diventare il quadro reale dell’attuazione del piano regolatore, quasi un ricupero dei principi della legge del 1942 che legavano la realizzazione del piano generale ai piani particolareggiati esecutivi. Insomma, anche in questi casi l’intervento pubblico poteva favorire l’unità fra conoscenze diverse e completezza della progettazione. La stessa maniera di interpretare la legislazione spremendone il massimo di possibilità attuative ben oltre lo zoning del piano regolatore generale riguardò in qualche comune la rappresentazione avulsa del centro storico in scala a denominatore di cinque volte inferiore, atta a presentare i provvedimenti di tutela o modifica o restauro degli spazi pubblici e dei singoli edifici.
Il Piano di edilizia economica e popolare per il centro storico di Bologna, 1973, raggiunse il punto più alto di unificazione fra le discipline necessarie per la costruzione della parte di città. Si doveva lavorare su aree un tempo edificate ma svuotate dai bombardamenti (di terra e di cielo) o da abbattimenti successivi. La ricostruzione avvenne non secondo la concezione del dov’era com’era ma attraverso un metodo definito «ripristino tipologico»: che rispettava essenziali indicazioni provenienti dalle preesistenze e proponeva soluzioni non estranee alle tipologie storiche insieme a una modernizzazione dell’abitabilità interna e alle forme architettoniche come restauro riconoscibile. L’inserimento dei nuovi manufatti dovuti al ripristino accanto alle case salve fu un successo, irrilevanti le critiche verso certi aspetti «mimetici» nei confronti degli edifici esistenti contigui. Nei comparti urbani bolognesi di San Leonardo, Solferino e San Carlo l’urbanistica, il restauro, l’architettura, la storia, l’habitat cantarono insieme come un coro a cappella l’inno della vittoria sul pensiero negativo riguardo all’unità delle arti e della scienza. Peraltro si era vinta una battaglia, non la guerra delle forze pro unione contro altre viventi e crescenti sulla divisione.
La separatezza fra urbanistica e architettura creava una condizione mai sperimentata nella storia della società e delle opere necessarie alla vita del cittadino e delle comunità. L’isolato urbano proveniva dal disegno dell’organizzazione generale degli spazi, le parti di città o la città intera. La storia mostra che la vita urbana si strutturava secondo un ordine perfetto di strade e piazze bordate da cortine architettoniche di altezza costante e forme quali dettate dalla cultura dell’epoca, differenti e coerenti, oppure simili nell’avvento di una nuova maniera.
In pieno XIX secolo fu il Plan Cerdà per Barcellona, noto da allora anche agli studenti spagnoli delle scuole elementari, a rappresentare la città nuova costituita dalle strade e dagli isolati. Ciò che avrebbe potuto completare il modello reale, i lati (qualcuno lasciato aperto) del quadrilatero saldamente unitari nella costruzione delle case (non uguali) e la corte interna libera, semmai destinata a giardino, non ha retto di fronte all’aggressività della rendita fondiaria. Nondimeno la forza straordinaria dell’insieme urbano ha resistito e funzionò secondo la concezione dell’autore: la vita della città deve riconciliare lo stare (il risiedere) e il muoversi.
Avanzando il secolo verso i due ultimi decenni, si affermerà il primo piano regolatore milanese, dovuto a Cesare Beruto, ingegnere di reparto all’ufficio tecnico del Comune di Milano. Il disegno non nega l’espansione urbana come un gonfiotto uniforme dalla circonvallazione «spagnola» all’esterno, eppure anch’esso costituisce un discreto esempio d’integrazione fra urbanistica e architettura nella parte dove il complesso di isolati e strade, con impianto nettamente ippodamico, sostiene la continuità delle cortine edilizie. Naturalmente, vien da dire, la possibilità di destinare i campi interni a verde invece che lasciarli al mercato edilizio non ebbe l’approvazione del passaggio del tempo (salvo qualche eccezione).
È al principio del XX secolo che il più grande architetto-urbanista della modernità, Hendrich Petrus Berlage raggiunge col progetto per Amsterdam Sud (e la sua realizzazione) il livello più alto di compartecipazione fra urbanistica e architettura. Ho cercato di dimostrarlo nell’articolo, 1917-2017. Centenario del piano di Berlage per Amsterdam Sud… (et al.). I blocchi cooperativi residenziali con le case in cortina unitaria lungo i bordi degli isolati definenti le strade, l’interno a parco frequentato anche dai cittadini residenti altrove, l’architettura della Scuola di Amsterdam incorporata nell’urbanistica secondo il principio basilare del messaggio e dell’attività stessa del maestro: tutto l’insieme organico della parte di città sarà magari, come scriverà Giedion alfiere dei razionalisti, una riforma ancora legata alla tradizione e non una rivoluzione; proprio per questo ci parla oggi della possibilità di ribaltare la sconfitta (ancora in atto) subita dalla cultura dell’unità contro quella della separatezza.
La prima amministrazione di una grande città italiana a ritrarsi dal compito di protagonista (obbligatorio) della pianificazione urbanistica sarà quella di Milano. In eddyburg si è commentato più volte il caso, celebre, dell’espansione gigantesca alla Bicocca sui terreni liberati dagli insediamenti industriali Pirelli, non prevista da un piano generale e senza alcuna motivazione della priorità rispetto alla miriade di domande della società urbana. Un accordo diretto fra sindaco ed ex padrone delle ferriere sancisce il dominio dell’interesse privato sull’utilità pubblica: insieme al paradosso, questa volta, che l’architettura, controllata in approssimativa coerenza al disegno di isolati e strade, riempia l’urbanistica privata, garanzia del miglior modo di produrre rendita.
Esaurite le forze del secolo breve in grado di sostenere il progetto di unità, la divisione divenne il modo normale di condurre le trasformazioni urbane e territoriali. L’architettura era già isolata e in crisi riguardo alla tradizionale o antica capacità di raggiungere in sé il valore di opera d’arte; intanto, l’urbanistica preminente esibiva da una parte il disinteresse per l’architettura, dall’altra i pochi successi (specie in pianificazione strutturale) insieme alla certezza d’essere oltre che indispensabile autosufficiente. Non si accorgeva di aver raggiunto la soglia della controrivoluzione privatistica, d’altronde preparata da due decenni di vergognoso cedimento della pianificazione pubblica alla pratica della negoziazione/contrattazione/accordo di programma…, sempre attenta alle proposte private, anzi nettamente piegata su di esse (l’INU maestro). Questa soglia infine è stata varcata nel secondo decennio del nuovo millennio specialmente per opera di amministratori e urbanisti professionisti proprio nelle regioni e nei comuni in cui, durante il secolo breve, s’era instaurato un modo esemplare di disegnare il piano generale e di progettare-realizzare coerenti insediamenti quantomeno prossimi all’architettura. Ancora una volta Bologna sorprendente, ma al contrario: l’urbanistica d’oggigiorno, con l’amministrazione di fatto neo-liberista, consiste nell’alienare la pianificazione e qualsiasi progetto ai detentori della rendita fondiaria e dell’edificazione senza regole; l’ente pubblico garantisce in anticipo l’approvazione e persino ogni facility per veloci attuazioni.
Milano al principio del XXI secolo apre la porta della città ad architetti vogliosi di intrappolarla in un’espansione, spettacolare per brutalità, costituita da costruzioni in forma di grattacielo. È raggiunto il massimo grado di defezione da qualsiasi presupposto o controllo urbanistici e, come spesso denunciato anche in questo sito, da contesti sociali e urbani riconosciuti nella loro capacità di far confluire diverse materie nel «fare città». La madre di questa nascita è la dubbiosa vicenda del concorso per Ground Zero, dominata da stolti esibizionismi personali, tutti sotto la bandiera del Guinness dei primati e tutti mancanti di moderatezza espressiva. Ce lo aspettavamo, ha vinto il grattacielo più alto, di Daniel Libeskind, che a Milano contribuirà alla costruzione di City Life – cosiddetta – nel luogo dell’ex Fiera Campionaria, dispensando insieme agli altri due progettisti, Arata Isozaki e Zaha Hadid, insensatezza e tristezza urbana.
Ad ogni modo, nei non-luoghi dove edifici di ogni genere non c’entrano con la costituzione di un habitat umano, alla superficiale veste del grattacielo non importa se ci sia o cosa sia l’interiore. Piccoli oggetti, soprammobili posati qui e là sui tavoli o altri arredi casalinghi, per esempio di legno pieno, modellini di 10-20 cm di altezza: potremmo moltiplicarli quante volte ci piaccia, otterremmo «architettura»?
A Milano esiste un centro privato per presentazioni e discussioni pubbliche intorno all’architettura, all’urbanistica, alla politica… et al. È l’atelier dell’architetto Emilio Battisti, già professore ordinario di composizione al Politecnico. Gli incontri sono ben organizzati, la partecipazione è sempre numerosa e comprende personaggi noti della cultura milanese, talvolta un componente dell’amministrazione comunale. Tutto il dibattito è registrato, quindi diffuso con larghezza. In generale il soggetto è un singolo edificio nuovo giudicato «interessante» dall’ospite, mancano soggetti di architettura urbana complessa (pezzi di città) poiché non ne esistono di attuali anch’essi «interessanti». Quasi sempre ci si può rivolgere all’autore presente.
Dall’esame delle Residenze Carlo Erba, prossime alla zona di Città Studi, sostituzione totale dell’onesta edilizia residenziale e di un corpo della Rinascente (con obbligo – stupido – richiesto dalla sovrintendenza di conservarne una facciata), è derivata una discussione (sera del 7 maggio 2019) il cui termine è caduto come il parmigiano grattugiato sul risotto milanese, ossia sulla nostra difesa e riconquista della città fatta di isolati e strade, case in cortina coordinate lungo i lati e spazi interni a giardino (si è visto, soprattutto in Berlage nostra guida). Il progetto è dell’architetto newyorkese Peter Eisenman (assente), collaboratore Lorenzo degli Esposti (presente). Il lotto in causa, privo della chiarezza di figure geometriche elementari, presenta il massimo sfruttamento mediante una forma della pianta come un grasso biscione che s’insinua dappertutto lungo l’irregolarità del terreno.
Riassumiamo dalla registrazione. La Commissione del paesaggio aveva imposto di raccordare il corpo dell’edificio con il filo stradale, invece la costruzione si stacca dai confini del lotto contrassegnati da una massiccia inferriata. Secondo Battisti, gli interventi architettonici che sostituiscono i vecchi isolati con edifici perimetrali non solo nascono arretrati dalla strada ma sono inavvicinabili. Così è compromessa seriamente la tradizionale spazialità urbana di Milano «fatta di strade e piazze delimitate da edifici che si possono materialmente toccare». Dovrebbe competere alla normativa urbanistica e edilizia prescrivere l’allineamento delle facciate degli edifici lungo i limiti dell’isolato. Sorprendente l’intervento di Jacques Herzog: «Milano è una città con un’impronta urbanistica molto specifica: l’isolato che definisce i corsi, le vie , le piazze. Ogni edificio è parte di questo principio urbano e determina il proprio ruolo all’interno di questo schema. È il concetto urbanistico quasi ostinato dell’isolato che fa la bellezza e l’unicità di Milano. Perché dovremmo cambiarlo?». Disgraziatamente il Comune e altri potentati pubblici e privati l’hanno già cambiato in molti casi, o stanno cambiandolo. Difenderlo dove persista e rilanciarlo ovunque altre «Nuove Milano» si apprestino a negare la tradizione è un dovere di architetti, urbanisti, storici, sociologi, artisti: alleati contro il disfacimento liberista.
Il giorno dopo il dibattito, una lettera a Degli Esposti dello studio De Agostini Architetti svela la realtà di una speculazione fondiaria e edilizia enorme, nascosta dietro la presunta eccellenza architettonica e la consuetudine odierna di impiegare il parametro mq/mq per misurare e giudicare la volumetria. 3 mq/mq, difatti, corrispondono, notano i De Agostini, a dieci volte l’indice del piano. Traducendo la verifica, come si faceva in altri tempi, utilizzando la cubatura, risulta una densità di 90-100.000 mc/ha, un’entità incredibile mai richiesta nemmeno dai peggiori liberi speculatori degli anni Sessanta, fermi alla pretesa massima di 60.000 mc/ha.
L'argomentata denuncia non è soltanto una corretta analisi e una preoccupata valutazione di un attentato alle più consolidate esperienze di tutela delle qualità storiche, artistiche e sociali dei centri storici. E' anche un grido di allarme per il precedente gravissimo che l'Ordinanza del Consiglio di stato costituisce. (e.s.)
Qui l'articolo del Gruppo urbanistica perUnaltracittà.
Le reazioni dei sostenitori dell'aeroporto alla sentenza del Tar confermano la malafede del progetto, la cui strategia è proprio quella di eludere norme e prescrizioni urbanistiche e ambientali ben sapendo che la proposta è già sulla carta in contravvenzione delle stesse. Con riferimenti. (i.b.)
La sentenza con cui il Tar per la Toscana ha accolto il ricorso per l'annullamento del decreto del Ministro dell'Ambiente sulla compatibilità ambientale del nuovo aeroporto di Firenze è importante sia sul piano giuridico sia su quello politico. Sul primo punto il pronunciamento del tribunale, se non sarà rovesciato da un Consiglio di Stato più sensibile ai venti politici, farà giurisprudenza. Il Tar toscano infatti ha stabilito che “La documentazione presentata nell’ambito del procedimento urbanistico conferma come in sede di Via sia stato presentato un progetto parziale e comunque insufficiente a consentire una compiuta valutazione degli impatti ambientali, essendosi rinviato detto giudizio alle fasi progettuali successive, devolvendo le attività di verifica della corretta esecuzione delle prescrizioni al costituendo Osservatorio Ambientale”.
Questo il succo della sentenza, esaurientemente spiegato nell’articolo del Gruppo Urbanistica per un'Altra Città pubblicato su eddyburg. Una sentenza che non solo azzera la strategia finora seguita dai proponenti – Enac e Toscana Aeroporti – ma di fatto vanifica il Dlgs 104/2017 nel suo obiettivo principale: consentire che la Via venga svolta su progetto di fattibilità, volutamente nebuloso, affinché le scelte fondamentali siano rinviate al progetto esecutivo.
Se il gioco fosse leale, i proponenti dovrebbero prendere atto delle motivazioni della sentenza, fare mea culpa per aver voluto a ogni costo aggirare la legge e presentare un progetto conforme; in fondo che senso ha rimandare approfondimenti necessari e studi su opere che comunque devono essere fatte? A meno che il gioco non sia fin dall’inizio truccato e celi il proposito di non eseguire quegli approfondimenti che potrebbero risultare negativi e, meglio ancora, di non fare le opere più onerose e problematiche.
Un gioco elusivo, la cui mossa finale è stato il trasferimento della competenza di controllo dell’opera dalla commissione Via (cui spetterebbe per legge) a un Osservatorio da costituire ad hoc presso il Ministero dell’Ambiente: con una variante presentata ex post da Enac e sancita dall’ing. Antonio Venditti, coordinatore nella Direzione Via, affinché nell’Osservatorio non siano rappresentati i Comuni più direttamente interessati; e con lo stesso Venditti - già protagonista nell’istruttoria tecnico-amministrativa del procedimento di Via, già coestensore del Dlgs 104/2017- autonominatosi presidente dell’Osservatorio, dove partecipa Enac e, sia pure senza diritto di voto, Toscana Aeroporti, entrambi in clamoroso conflitto di interesse. Cui si aggiunge come pseudo-rappresentante degli interessi locali, Dario Nardella – del quale peraltro si ignorano le specifiche competenze tecniche - sindaco della città metropolitana, anch’esso strenuo sostenitore dell’opera.
La strategia del cartello pro nuovo aeroporto è chiarissima: un Master Plan lacunoso con prescrizioni non “precettive” ma “esortative”, la cui ottemperanza è rimandata a nebulose fasi successive, dove il controllo sarà esercitato da un gruppo di amici del progetto. Strategia, tuttavia, messa in crisi dalla sentenza del Tar. Ma invece di fare buon viso a cattiva sorte (da loro stessi procurata) ecco che - riporta il Corriere della Sera nelle pagine locali - scoppia l’ira di Marco Carrai, presidente di Toscana aeroporti, evidentemente dotato di poteri di ultravista, o altrimenti comico, quando afferma che “il giudice in un’ora, senza avere un consulente, ha deciso che 146 elaborati progettuali, 399 elaborati tecnici ambientali (tra cui anche uno studio sull’obesità infantile in Toscana, ndr), tre università (ma non quella di Firenze, ndr), la commissione Via, direttori generali dei ministeri con tre governi diversi, non fossero sufficienti”. Mentre Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di Commercio fiorentina, consigliere di amministrazione di Toscana Aeroporti, già deciso a non concedere finanziamenti per Firenze Fiera (di cui è presidente) senza il nuovo aeroporto, taccia di ideologismo, non si sa su quali basi, la sentenza del Tar.
Anche il Presidente della Regione Toscana, la butta in politica, dimenticando di avere ribaltato il parere negativo del suo nucleo di valutazione regionale. “Si deve con amarezza prendere atto - dice Rossi - come il grillismo sconfitto nelle urne sia una malattia invasiva della cultura politica odierna … mettendo in secondo piano l’interesse collettivo, il lavoro e persino il rispetto dell’ambiente”.
Sbaglia completamente Rossi, quando taccia di “grillismo” dei sindaci che, fino a prova contraria appartengono tutti, salvo uno, al Pd, di nuovo il suo partito. Dovrebbe invece congratularsi con il Movimento 5 stelle, che a quanto pare, in questo frangente come in altri casi, ondeggia in direzioni contrapposte senza una bussola né tecnica, né politica. Infatti, nonostante che a livello locale per anni i politici grillini si siano sbracciati contro il nuovo aeroporto, ora leggiamo che “nel ricorso si è costituito il Ministero dell’Ambiente della Tutela del Territorio e del Mare (Sergio Costa, Movimento 5 stelle), unitamente al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Alberto Bonisoli Movimento 5 stelle) e all’Enac, (oltre alla Regione Toscana), contestando le censure dedotte e chiedendo il rigetto del ricorso”. Vedremo se il Movimento 5 stelle farà un ulteriore retromarcia, ricorrendo con i suoi ministri contro la sentenza del Tar presso il Consiglio di Stato. Se ciò avvenisse, dovremmo prendere atto che i grillini al governo sono sostenitori del nuovo aeroporto e passo dopo passo, presumiamo saranno favorevoli alla linea Tav sotto Firenze e perché no, alla Torino-Lione con lo sventramento della Val di Susa. Chiedendosi, poi perché i voti si siano dimezzati nell’ultima tornata elettorale e rischiando un’ulteriore dimezzamento alle prossime elezioni politiche.
Riferimenti
In eddyburg si trovano diversi articoli di critica a questa grande opera inutile. Per un'introduzione al tema si legga No al nuovo aeroporto di Firenze, di Ilaria Boniburini, che include anche le ragioni del no dei comitati toscani. Si rimanda inoltre ai precedenti articoli di Paolo Baldeschi sul tema: Aeroporto Firenze. Responsabilità ora a Enrico Rossi (3 gennaio 2018), L'aeroporto di Firenze e il mito dello sviluppo (22 luglio 2018), Oscure manovre attorno all’aeroporto di Firenze (9 giugno 2017). Sulla sentenza si legga Il Tar e l’Aeroporto di Firenze. Una sentenza fondativa per le vertenze contro le grandi opere e Troppe prescrizioni per l’aeroporto di Firenze, il Tar boccia la Via già pubblicati su eddyburg.
Il Consiglio di Stato blocca la pessima Variante al Regolamento urbanistico di Firenze che introduce la ristrutturazione edilizia come categoria di intervento sugli immobili notificati, e tante altre nefandezze. Fino alla sentenza i cantieri sugli edifici storici sono congelati. Una sconfitta per il candidato sindaco Nardella ma una vittoria per associazioni e movimenti che l'hanno osteggiata. (a.b)
Fermate le speculazioni sugli edifici monumentali del centro città e delle colline e le vendite di immobili storici di proprietà pubblica. Legittimata l’azione della magistratura.
L’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato di ieri blocca la norma urbanistica recentemente varata dal Comune di Firenze, la Variante all’art. 13 delle NTA del Regolamento urbanistico. “La variante è un vero e proprio regalo agli “investitori”, agli immobiliaristi, ai parassiti della rendita. Ed è stata perciò a lungo avversata dall’opposizione, dai movimenti e dalle associazioni, tra le quali Italia Nostra, che ha presentato il ricorso. Di questo siamo soddisfatte”, hanno detto le candidate in consiglio comunale per Potere al Popolo Francesca Conti (capolista) e Ilaria Agostini, docente di urbanistica.
La variante ora sospesa introduce una norma che elimina il vincolo di restauro dagli edifici storici e ne indebolisce drammaticamente la tutela. Il variato art. 13 introduce inoltre la “ristrutturazione edilizia” tra gli interventi ammissibili sul patrimonio edilizio storico notificato ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Una categoria troppo ampia, quella della “ristrutturazione edilizia”, che prevede persino la demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione in forme diverse da quelle originali.
Per Conti e Agostini “si tratta, perciò, di una variante urbanistica che regala il centro storico all’economia estrattivista del turismo globale; che apre la strada a nuove speculazioni sugli edifici monumentali del centro città e delle colline; che agevola la vendita di immobili storici di proprietà pubblica; e che infine legittima le speculazioni bloccate dal sistema giudiziario”.
Conti e Agostini, attive nel laboratorio politico perUnaltracittà, concludono ricordando come proprio questo tema sia stato al centro della loro azione “ne abbiamo scritto articoli di approfondimento sulle pagine de “La Città invisibile”, un appello internazionale e collaborato alla realizzazione di una trasmissione su Radio Wombat”.
Dietro la facciata niente. Firenze dimentica il restauro
di Ilaria Agostini
L’assalto al patrimonio storico architettonico di Firenze. A chi giova?
di Antonio Fiorentino
Florence 2018: goodbye to the restoration of architectural monuments
del Gruppo urbanistica PUC
Una variante per la degenerazione urbana
Continua senza pudore a Milano la farsa della consultazione dei cittadini sui ‘grandi progetti’ di rigenerazione urbana. (segue)
Che la Giunta Sala abbia molto più a cuore gli accordi con i grandi proprietari di aree e con la finanza immobiliare che l’ascolto dei cittadini è ben noto; che le buone pratiche di coinvolgimento civico non facciano parte della tradizione del nostro paese è altrettanto tristemente noto. Ma in questo caso si sta sfiorando il grottesco: per tempi, modi, assoluta passività dell’amministrazione nella privatizzazione delle più rilevanti, e ultime, risorse territoriali disponibili nella città.
Due articoli pubblicati su arcipelagomilano.org fanno il punto della situazione: un editoriale lucidamente polemico del suo direttore proprio nel merito della partecipazione in salsa milanese e dal divertente sottotitolo “meno gente c’è, più si va via spicci”; e "Città Studi. Una questione ormai sotto traccia", un aggiornamento sul silenzio assordante dell’amministrazione nei confronti delle lettere e delle richieste di ascolto in merito al progetto di deportazione delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale da Città Studi all’area ex Expo da parte di una cittadina in prima linea nel comitato Che ne sarà di Città Studi.
L’insostenibile leggerezza del ruolo dei cittadini nei grandi affari urbanistico/edilizi milanesi è confermata una volta di più, anche se oggi è arrivata la notizia che la Procura Generale ha chiesto la condanna del Sindaco Sala per la vicenda della Piastra EXPO.
Firenze Smart City. E’ questa l’idea centrale del programma del Sindaco di Firenze in vista delle prossime elezioni amministrative dove, appunto, l’aggettivo “smart” ricorre per ben 27 volte. Un programma di 119 pagine, in tipico stile renziano.
Firenze Smart City. E’ questa l’idea centrale del programma del Sindaco di Firenze in vista delle prossime elezioni amministrative dove, appunto, l’aggettivo “smart” ricorre per ben 27 volte. Un programma di 119 pagine, in tipico stile renziano, dove la connotazione è, se non tutto, gran parte e ha l’obiettivo di dare un’idea di attualità e di un futuro à la page. Un programma diviso in 52 paragrafi, un mare di parole il cui leitmotiv sono le buone intenzioni: a volte meritevoli ma non tali da suscitare l’entusiasmo dei cittadini i quali preferirebbero scelte precise e programmi attuabili su cui esprimere consenso o dissenso.
Un segnale della pletorica affabulazione del programma nardelliano è la difficoltà che incontrano gli organi della stampa, pur così benevoli verso il Sindaco, a darne una sintesi comprensibile ai lettori: qualche riga o poco più, in cui la principale notizia è l’intenzione di realizzare la linea 5 della tramvia metropolitana, quando la numero 2 è appena entrata in esercizio e la 3 e la 4 sono in fase di progettazione preliminare; e, per ‘par condicio’, l’interramento del traffico veicolare in due piazze lungo i viali di circonvallazione, sotto le quali si trovano i gangli vitali delle infrastrutture progettate nell’800 da Giuseppe Poggi - speriamo che ciò non costituisca, come al solito, una sorpresa a scavi iniziati.
Alcuni dei punti del programma centrano delle questioni reali, come il fatto che la popolazione fiorentina sia molto più anziana della media nazionale e con una bassa natalità o l’impatto negativo del turismo, ma le azioni proposte non colgono gli aspetti strutturali dei problemi, sono superficiali e spesso contraddittorie. Una popolazione anziana avrebbe bisogno di una politica di ricupero e valorizzazione dello spazio pubblico esistente e di costruzione dello spazio pubblico dove questo manca come nelle recenti periferie; che implichi una riduzione del traffico automobilistico e una conseguente pedonalizzazione della città, soprattutto nelle zone dove piazze e strade sono diventate parcheggi di superficie; che non obblighi a spostamenti in macchina per gli acquisti quotidiani; quando, invece le politiche delle amministrazioni – passate e presente – si sono mosse in senso contrario, permettendo e incentivando la trasformazione del centro storico in una vetrina di lusso dove è impossibile trovare un negozio di uso domestico; estendendo l’area pedonale nel quadrilatero magico a scapito delle periferie, penalizzate, oltretutto, dall’occupazione delle strade da parte delle linee della tramvia.
Per incentivare la natalità, nel programma si promette un bonus (di berlusconiana memoria) “fino a 2000 euro”, ma non sono contemplati servizi sociali a favore delle donne o investimenti negli asili nido o orari differenziati. Le criticità del turismo sono circoscritte a quelle provocate dal “mordi e fuggi” nel centro storico, ma si tace sulle pesanti trasformazioni che questo provoca nell’economia e nella società fiorentina. Si riconosce la carenza di case per famiglie bisognose ricordando i 52 milioni di euro stanziati nel 2018 per il Piano Casa, ma tutti gli edifici pubblici dismessi appartenenti al Comune o al demanio pubblico sono destinati, con il Sindaco promotore, a diventare residenze o alberghi di lusso in un business miliardario.
Molto peso viene dato nel programma alla sicurezza e al controllo del territorio come tentativo di risposta alle proteste di residenti e dei comitati che segnalano casi di microcriminalità e lamentano gli schiamazzi notturni della ‘movida’. Il problema esiste, ma è grandemente enfatizzato, e le risposte come “il vigile di quartiere”, “la video sorveglianza”, il “controllo di vicinato”, nonché 450 nuove telecamere, sembrano più che altro iniziative per non farsi scavalcare dal candidato leghista. Un centro storico svuotato di cittadini per forza si presta occupazioni e attività incompatibili o contro l’abitare.
Tuttavia, quello che più colpisce nel programma elettorale è ciò che non c’è. Sono le omissioni dei grandi progetti che dovrebbero cambiare l’assetto della città e che in tutti questi anni sono stati sostenuti tenacemente (anche se con qualche contraddizione) da Nardella: evidentemente gli spin doctor del programma hanno suggerito di tacere o di mettere sotto tono i temi più controversi. Poche parole sul sottoattraversamento della linea dell’alta velocità, minimizzando l’inutile e costosissimo scavo della stazione sotterranea ai Macelli, per l’occasione rinominata di Belfiore (cioè in una posizione più vicina a quella centrale). Forse temendo che qualcuno possa ricordare a Nardella, ora diventato strenuo sostenitore del progetto, le parole pronunciate nel giugno del 2016, testualmente: “questo progetto di alta velocità [...] appare inspiegabile. E' un grande spreco di denaro pubblico. Perché stiamo parlando di un miliardo e mezzo di euro, per risparmiare due minuti. [..] Svuota Santa Maria Novella … Quindi ci sono molti elementi che ci portano a dire che quel progetto è vecchio prima ancora di essere realizzato. […] Insomma è un progetto nato male e che sta andando ancora peggio.”
Nessuna parola sulle pesanti criticità del progetto del nuovo aeroporto, già indicato come il motore di un nuovo rinascimento fiorentino; nessuna consapevolezza che l’aeroporto sia stato pensato per farvi atterrare i voli low cost, gonfiando proprio quel turismo di cui la città non ha bisogno. Ma l’omissione più clamorosa riguarda il quadrante nord-ovest della città dove si dovrebbe concentrare gran parte degli investimenti e dei metri cubi del piano regolatore a volumi zero (un ossimoro). Secondo la Variante al PRG approvata nel 2018, l’attuale Mercato ortofrutticolo dovrebbe trasferirsi nella zona ancora inedificata di Castello; completando la grandiosa impresa di occupare l’unica area verde di collegamento tra Peretola e le colline insediate dalla ville medicee, oltre che con il tappo dell’orribile scuola dei carabinieri, anche con il nuovo Mercafir: cioè con funzioni non accessibili al pubblico e non certo smart.
Tace il programma sul fatto che al posto del Mercato ortofrutticolo dovrebbe sorgere la Cittadella Viola con il nuovo stadio, un grande outlet, di cui nessuno sente il bisogno, oltre al solito mix di direzionale e negozi, un progetto finora sbandierato come il fiore all’occhiello dell’amministrazione Nardella. Con una squadra che va male, i tifosi infuriati, è prudente tacere su un’operazione che non ha alcun senso economico e le cui conseguenze urbanistiche sarebbero disastrose. Meglio, quindi, evitare i temi controversi e spinosi e riempire le pagine del programma di opzioni meno impegnative. I fiorentini potranno così gioire di alcune innovazioni come, la Smart City Control Room, il Biciplan, le politiche di Road Pricing, lo Smart Parking. Insomma un programma che renderà Firenze veramente una Smart City, una città intelligente. O piuttosto, per tutto quello che il Sindaco si propone di fare e quello che omette di fare, una “Smarting City, vale a dire una Città Sofferente?
Il rogo della cattedrale di Notre Dame richiama ancora una volta l'attenzione su un problema endemico della nostra società: il valore attribuito al nostro patrimonio culturale e la sua cura. Occorre riconoscere che senza le radici della storia l’albero della civiltà non può sopravvivere e quindi bisogna impiegare risorse per mantenere questo inestimabile patrimonio, sottraendole al bilancio statale per la produzione di armamenti e la retribuzione di eserciti. Cominciamo con il trasferire 20% delle risorse destinate alla guerra alla manutenzione del patrimonio storico e artistico. (e.s.)
In occasione del quarantennale del Progetto Fori, riprendiamo dall'archivio di eddyburg un estratto della postfazione al libro di Antonio Cederna "Mussolini urbanista" in cui si ripercorrono la storia, le speranze e il tradimento.
L’urbanistica del ventennio torna d’attualità
"Mussolini urbanista" viene pubblicato in un momento particolare per Roma, nel quale storie passate, cronache del momento e destini della città si intrecciano nuovamente (21). Luogo di incontro è il Foro Romano, la cui sistemazione impressa in epoca fascista con la costruzione della via dei Fori Imperiali (22) è direttamente chiamata in causa allorché, il 21 dicembre del 1978, i giornali riprendono un appello del soprintendente ai beni archeologici, Adriano La Regina, riguardante le «gravissime condizioni» in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale.
L’incipit dell’appello è memorabile: “Una serie di accurati rilievi e controlli sui monumenti del centro di Roma hanno dimostrato che, senza ombra di dubbio, nel giro di pochi decenni, perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana” (23).
La corrosione dei marmi antichi è la conseguenza diretta dell’inquinamento dell’aria dovuto alle industrie, al riscaldamento delle abitazioni e ai gas di scarico delle automobili. Per capire come si era giunti ad una tale situazione, occorre ricordare che le sistemazioni dell’epoca fascista avevano mutato radicalmente l’assetto dell’intera città. Via dei Fori Imperiali era divenuta nel secondo dopoguerra l’apice di una consistente direttrice d’espansione e l’area dei fori, da periferica qual’era nel 1870, si era venuta a trovare al centro di un nuovo grande quadrante urbano, sempre più soffocato dal traffico e perciò inquinato. Negli anni in questione si calcola che oltre 50.000 veicoli, lo stesso numero di automobili che oggi interessa l’autostrada del Sole nel tratto fra Bologna e Firenze, percorrano quotidianamente via dei Fori Imperiali, aggirando il Colosseo, ridotto a gigantesco spartitraffico (24).
“Via del Mare e via dell’Impero [oggi via dei Fori Imperiali, ndr]... due strade che hanno rovesciato tutto il traffico dei quartieri meridionali di Roma, dai colli e dal mare, su piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo e quindi sul corso Umberto (cioè su una strada tracciata venti secoli prima), congestionando tutto il centro di Roma fino alle inverosimili parossistiche condizioni attuali di completa paralisi della circolazione” (25).
Il rammarico per ciò che è accaduto prelude, come d’abitudine, ad un’indicazione sul diverso indirizzo che deve essere impresso alle politiche urbanistiche, nazionali e locali. “È un problema che coinvolge tutta la politica nazionale, stato regioni comuni, purché ci si renda conto che la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico può essere garantita solo da un governo del territorio, dell’ambiente che sia finalmente nell’interesse pubblico” (27).
Nel concludere l’appello, il soprintendente è altrettanto esplicito: la conservazione dell’area archeologica non richiede una semplice opera di salvaguardia, bensì una più complessa modifica dell’assetto urbano. “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città” (28).
Torna così d’attualità la proposta, nata nel secolo precedente, di costituire un grande parco archeologico che comprenda l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo e si protenda verso la campagna romana, lungo il tracciato della via Appia (29).
Rispetto all’originaria ideazione, il «parco archeologico più grande e più importante del mondo» (30) acquista necessariamente un significato più ampio: elemento di attrazione per turisti e visitatori da tutto il mondo, museo di se stesso, possibile luogo di incontro per i romani, area verde di incommensurabile valore per una città priva delle dotazioni minime, elemento unificante il centro storico, la periferia e la campagna circostante. Gli interventi principali riguardano:
“- lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e quindi l’esplorazione archeologica per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano, ampliando il centro storico e arricchendo Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città;
- il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane [...];
- la creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra-moenia del parco archeologico centrale”. (31)
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali (32) e di parte delle strade circostanti il Colosseo mette in discussione l’assetto viario a scala urbana, sollecitando un deciso decentramento delle funzioni attrattrici di traffico, dal centro storico verso il settore est della città, in un’area appositamente dedicata dal piano regolatore (33). La portata del problema e i termini della sfida travalicano di gran lunga l’archeologia e la conservazione dei beni culturali e richiedono un ripensamento complessivo e una forte azione di governo della città.
Alla guida del governo cittadino, per la prima volta nel dopoguerra, c’è un’amministrazione di sinistra, guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte. Argan, e ancor più il suo successore Luigi Petroselli, funzionario del partito comunista, percepiscono la possibilità di mutare il volto della capitale attraverso il progetto Fori. Roma si può affrancare dalla sua immagine degradata, al centro come in periferia, per proporsi al mondo ed essere vissuta dai propri cittadini in modo completamente diverso, realizzando così una sintesi tra la sua connotazione popolare e il rango di metropoli internazionale cui essa aspira. Nei giudizi di alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, si coglie l’ampio respiro delle proposte.
Così si esprime Antonio Cederna: “Col grande parco da piazza Venezia all’Appia antica, la cultura, l’archeologia diventano determinanti per l’immagine di Roma: l’urbanistica moderna riscopre la funzione strategica dei vuoti, degli spazi liberi dell’ambiente paesistico” (34).
Così l’urbanista Italo Insolera: “Il progetto Fori propone una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’antico non vi è più inteso come “monumento” né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare” (35).
Così il soprintendente Adriano La Regina: “Il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già... e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. [...] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”(36).
Così l’assessore alla cultura Renato Nicolini: “Tutto al contrario di quello che credono i superficiali e i dogmatici, la difesa attiva del patrimonio storico e dell’identità culturale di una città, può coincidere con la sua affermazione come metropoli. [...] Questo è, secondo me, il senso vero del progetto Fori, almeno nella forma che aveva assunto per la giunta Petroselli. Al centro di Roma, proprio a rendere evidente la trasformazione della città, da città burocratico-industriale in qualcosa d’altro, città di servizi, metropoli postindustriale, non ci debbono più essere i ministeri, ma il grande parco archeologico che partendo dall’Appia Antica arriva fino al Campidoglio” (37).
Il sindaco Luigi Petroselli è colui che più di tutti coglie l’importanza della posta in gioco e comprende «la ricerca e la possibilità di conquista e di riconquista di una nuova identità cittadina e insieme [...] di unificazione della città intorno a nuovi valori» (38).
2. Dalla discussione all’abbandono della proposta
Per quanto ampia, l’adesione di urbanisti, archeologici, storici dell’arte, architetti e altri uomini di cultura non si rivela tuttavia sufficiente per costruire il necessario consenso attorno alla proposta (39).
Mentre il degrado dei monumenti aveva acceso lo sdegno di tutti e favorito un altrettanto unanime consenso sulla necessità di intervenire urgentemente, né il progetto di sistemazione dell’area archeologica, né tanto meno l’idea di trasformazione della città ad esso legata vengono compresi appieno e condivisi. Al contrario, un lungo e acceso dibattito accompagna l’elaborazione dei progetti.
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali, perno dell’operazione, diventa ben presto il punto attorno al quale si coagula il dissenso. Nonostante il successo della chiusura domenicale al traffico, avvenuta per la prima volta il 1° febbraio 1981, il dibattito sul destino della strada aperta da Mussolini prende una piega indesiderata: la demolizione è ritenuta un provvedimento troppo radicale, inessenziale al recupero dei monumenti e foriero di conseguenze indesiderabili sul traffico e sulla vita quotidiana della città (40).
Comincia ad insinuarsi l’idea che la rimozione della strada nasconda una sorta di rivalsa o di accanimento nei confronti di quanto realizzato sotto il fascismo42. Il quotidiano «Il Tempo» lancia una campagna di forte opposizione, dando risalto alle polemiche sollevate da alcuni studiosi che si richiamano al Gruppo dei Romanisti (43).
Non è solo la diatriba ideologica ad alimentare il dissenso. Altrettanto decisivi sono il mancato appoggio del mondo della cultura e il sostanziale disinteresse della politica nazionale. L’acme del dibattito si raggiunge nei primi mesi del 1981, in concomitanza con alcune iniziative di grande significato prese dall’amministrazione comunale che fanno presagire un’accelerazione degli eventi in favore della costituzione del parco e della rimozione di via dei Fori imperiali: nel dicembre del 1980 si dà inizio allo smantellamento di via della Consolazione e si approva la chiusura parziale di piazza del Colosseo; nel febbraio, come detto, comincia la chiusura domenicale di via dei Fori Imperiali. Diversi archeologi, storici dell’arte, architetti e giornalisti esprimono le proprie perplessità (46).
La nuova amministrazione guidata da Ugo Vetere si muove inizialmente in sostanziale continuità con la giunta precedente, ma gradualmente si fa strada l’idea che sia preferibile ricondurre il progetto Fori nell’alveo strettamente conservativo assicurando, grazie ai finanziamenti statali, gli interventi di manutenzione del patrimonio archeologico e rimandando tutte le altre operazioni ad un tempo successivo che non verrà mai. Le proposte della Soprintendenza e del Comune divergono progressivamente: il percorso congiunto si conclude con il Progetto per la valorizzazione dell’area dei Fori imperiali e dei Mercati Traianei, elaborato nell’ambito del Coordinamento settore archeologico, presentato pubblicamente dal sindaco Ugo Vetere il 12 gennaio 1983 (49).
La Soprintendenza prosegue lo sviluppo dell’idea iniziale. Incarica un gruppo di esperti coordinati da Leonardo Benevolo di elaborare una proposta definitiva. Benevolo si avvale della collaborazione dei funzionari della Soprintendenza, coordinati da Francesco Scoppola, nonché di progettisti di eccezionale valore: lo studio Gregotti per la parte più strettamente architettonica, Guglielmo Zambrini per la parte trasportistica, Ippolito Pizzetti per il verde. Cederna e Insolera sono esplicitamente ringraziati da Benevolo per la «lunga consuetudine di lavoro comune». Contestualmente Italia Nostra promuove la redazione di una proposta di Piano per il Parco dell’Appia Antica, curata da Vittoria Calzolari. Le due proposte vengono presentate al pubblico ma rimangono prive del necessario sostegno amministrativo e urbanistico: per la loro realizzazione infatti devono essere finanziati e coordinati interventi statali e comunali, raccordando tra loro politiche dei trasporti e pianificazione urbanistica (50).
L’amministrazione comunale, impegnata su un numero impressionante di fronti (lavori pubblici, periferie abusive, case popolari, completamento della metropolitana), prende tempo. Si consolida la posizione di quanti negano che la trasformazione dell’area archeologica centrale sia l’indispensabile premessa per una riqualificazione complessiva della città. L’assessore al centro storico Aymonino ritiene che la «complessità culturale e le difficoltà di gestione» del «più importante problema di scienza urbana che si sia presentato in Italia dal dopoguerra» rendono indispensabile un tempo lungo (51).
3. Gli sviluppi successivi
Nei vent’anni che separano il 2006 dagli avvenimenti sopra ricordati, nessun amministratore ripropone il progetto Fori al centro della politica urbanistica comunale. Non lo fanno i sindaci delle giunte a guida democristiana (Signorello, Giubilo) e socialista (Carraro), né quelli di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni, attualmente in carica). Con il passare del tempo si consolida la convinzione che «l’utopia di una renovatio urbis»54 basata sul progetto Fori sia destinata a rimanere tale, per le troppe resistenze che essa incontra e per l’impegno, economico e amministrativo, che essa richiede. Non è un caso isolato: a Roma come in tutto il resto d’Italia, con rare eccezioni, si registra il “progressivo appannarsi di ogni «progetto per la città»: inteso questo non come disegno redatto a tavolino o sommatoria di singoli progetti, ma come idea generale capace di assommare le singole volontà e mobilitare al meglio le varie spinte particolaristiche, come insieme di norme comportamentali fissate per assicurare un migliore uso dell’aggregato urbano e sole capaci di dare contenuto al concetto stesso di convivenza”(55).
È in questa prospettiva che la Soprintendenza ripresenta, nel 2005, una nuova proposta di sistemazione, affidata all’architetto Massimiliano Fuksas. Diversamente dal passato, non si prevede l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, tuttora presente e utilizzata dalle auto, sebbene crescano di anno in anno le limitazioni alla circolazione a causa dell’inquinamento atmosferico (59). Come aveva ipotizzato anche Cederna, gli scavi sono potuti proseguire per anni senza creare alcun problema, e questo ragionevole compromesso avrebbe lasciato aperta ogni soluzione, se il Ministero per i beni e le attività culturali, il 20 dicembre 2001, non avesse apposto un vincolo di tutela all’insieme delle sistemazioni viarie operate durante il fascismo tra piazza Venezia e le mura aureliane, riconoscendovi un valore culturale. Quali ragioni hanno portato a conferire al simbolo della «maccheronica romanità» un valore storico, al pari di molte altre realizzazioni della prima metà del Novecento che certamente lo possiedono, considerandolo come un elemento intangibile da restaurare e curare con attenzione? Certamente hanno avuto un peso coloro che riconoscono un valore all’insieme delle opere realizzate nel ventennio, giudicate il tentativo di conferire a Roma «il volto di una capitale»: capitale laica per Giorgio Ciucci, politica, morale e culturale (sic!) per Vittorio Vidotto (60). Un’importanza non secondaria deve essere anche attribuita al fatto che, sebbene nata come «macabra scenografia», via dei Fori Imperiali si è trasformata nel dopoguerra in un importante teatro di manifestazioni pacifiche e democratiche (61). Probabilmente, più di ogni altra cosa, ha prevalso un certo spirito di conciliazione con il passato, lasciando in secondo piano le considerazioni urbanistiche, una volta di più incomprese o ritenute inessenziali (62).
La conclusione di questa vicenda lascia un velo di amarezza. La politica e la cultura non hanno compreso il messaggio contenuto in Mussolini urbanista. È stato abbandonato progressivamente, senza nemmeno un esplicito rifiuto, il progetto che più di ogni altro poteva trasformare il volto della capitale attraverso la pianificazione urbanistica in modo esemplare per il resto della nazione. Tuttavia, se è vero che «non c’è futuro senza memoria del passato» e «nulla di peggio dell’assuefazione agli errori commessi», i moniti e i ragionamenti, i sarcasmi e le proposte di Cederna continuano ad essere un riferimento, tanto attuale quanto indispensabile.
Giovedì 28 febbraio, ore 18.00, a Milano presso l’auditorium Stefano Cerri di via Valvassori Peroni si tiene un importante incontro pubblico per discutere dell’inaccettabile progetto di svuotamento di Città Studi: con Salvatore Settis, Paolo Berdini e Serena Vicari Haddock. (m.c.g.) Qui il link all'evento
La Lucania o Basilicata è la terra di mezzo tra la Puglia, la Campania e la Calabria. Una terra di mezzo fatta da territori diversificati, dunque complessa. E’ anche la terra di un tempo più lento, di lunghi silenzi, forse perché si compone di solamente 131 comuni di cui solo le due province Potenza e Matera raggiungono i 60 000 abitanti. Dunque la regione dai due nomi si caratterizza di tanti piccoli paesi. La dimensione del paese è una realtà che lascia poco spazio ai giovani. E’ quella realtà stretta che spezza il respiro, troppo apprensiva per capire la voglia di cambiamento che morde l’animo di un giovane adolescente. Così si cresce con un unico sogno di riscatto: andarsene. Una concezione, cresciuta e pasciuta negli animi dei giovani lucani perché si sono sempre sentiti ripetere: “qui non c’è niente”.
La città però lascia un senso di inquietudine a volte, soprattutto quelle grandi città fatte di palazzi e strade ed auto, certe volte provocano un non so che di disturbo. Il passo svelto che non permette neanche di osservare, capire i luoghi, ma si corre perché il tempo è dettato dalla tirannia di un orologio che è sempre troppo svelto rispetto al proprio di ritmo, lieve e pacato, al proprio di ritmo che sia dettato dalla propria volontà e mai da quella del flusso a cui necessariamente ci si deve adattare. Così si possono fare scelte contro corrente, per studiare non si sogna di andare in chissà quale grande città, ma restare in un luogo non troppo lontano così da poter ritornare quando la nostalgia chiama. Matera, in tempi decisamente non sospetti, era quella realtà non troppo lontana, una realtà che risultò una scoperta perché per i lucani del Sud era una realtà estranea, pur essendo della medesima terra. Matera, città strana nel bel mezzo di una terra arsa e brulla, che si affaccia su gole cupe, che se si è abituati a distese di larghe vallate, ci si sente chiusi in una claustrofobica realtà di un paesaggio estraneo. Matera era nell’immaginario una città pugliese e lo era soprattutto nei suoi colori, il tufo tanto diverso dalle pietre di fiume di cui sono fatte le case dei paesi a meridione. Ma un tratto comune pure lo si ritrovava, nella Matera di allora tutto era fermo e veramente non c’era molto. A passeggiare in un umida sera di febbraio di quell’ormai lontano 2010 non un’anima viva, non un locale aperto sino all’ora di dopo cena e non pareva molto diversa come realtà da quella di un paesino lucano sperduto sul Pollino.
Vivere a Matera per 8-9 anni ha significato vederla cambiare con i suoi abitanti arresi e ormai rassegnati, tifare per un nuovo spiraglio di futuro. Chi la città ha cercato di studiarla dalla facoltà di Architettura, la osservava e vedeva capovolgersi delle concezioni fino ad allora immutate: i Sassi e la loro vergogna che oggi sono il riscatto e i nuovi quartieri il riscatto di ieri che oggi sono le periferie lasciate a sé stesse, è un andare a passo di gambero che capovolge il progresso in regresso e il regresso in progresso?! Come la si voglia leggere o interpretare resta il fatto che all’indomani del titolo di Capitale Europea della Cultura qualcosa nell’aria è cambiato, le strade sono più affollate e pian piano, senza neanche accorgersene qualcosa è cambiato. Molti lo hanno creduto, tanto che il proliferare di negozietti ed attività è diventata una realtà così consolidata che l’apertura di un nuovo locale ormai non stupisce più nessuno. Un dato allarmante però resta, camminando per le sue strade sono più i canuti che gli sbarbati. Oggi, nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura però, una domanda dovremmo anche porcela per un futuro diverso: quali possibilità occupazionali, dunque di futuro, offre la città ai suoi giovani e nella fattispecie a quelli che ha formato?
Dunque se Matera non accoglie come dovrebbe, o meglio non trattiene come dovrebbe si ritorna alle origini, al piccolo paese di montagna vicino alla fine estrema della regione, si ritorna a Cersosimo. La scelta di ritornare è costosa, è faticosa e ha non poca rabbia dentro. Lo si ama il proprio paese natale, di un amore viscerale anche inspiegabile forse, ma si hanno anche alcune consapevolezze che non lasciano molto spazio all’ottimismo. Oggi si ritorna e gli amici di un tempo non ci sono più, tutti sparpagliati altrove, un altrove fatto di emigrazione. Ci si può opporre con ostinazione a rimandare questo triste giorno, ma il paese è lento poiché è popolato prevalentemente da anziani e i giovani sono una specie unica quanto rara! Così rispolverando certi ricordi, certe speranze, che ora acquistano un certo sapore di utopia se si lascia spazio alla consapevolezza di oggi e pur avendo ben chiaro nella mente le unicità della propria terra natale, una triste consapevolezza tiranneggia sulle proprie convinzioni: l’assenza di politiche atte a creare concrete possibilità di sostentamento, di miglioramento e di sviluppo.
I giovani del mio paese e più in generale del meridione sono dipinti in un modo che li denigra, li etichetta ma che non mette in evidenza la realtà difficile che si vive. Paradossalmente si hanno molti più mezzi, ma anche molte meno possibilità. Condannati eternamente ad essere “ragazzi”, cimentandosi al massimo in attività che vengono spacciate per volontariato ma che per il dispendio di impegno che necessitano meriterebbero il giusto riconoscimento e compenso. Una vita precaria e senza possibilità di programmazione alcuna, che nei piccoli centri è affiancata da altri aspetti: la solitudine, la mancanza di confronto e quindi la possibilità di crescita. Mai come in questo periodo storico, i giovani sono una minoranza e in quanto minoranza subisce le decisioni di una maggioranza che sceglie in base alle proprie di esigenze e che dunque hanno il respiro di un tempo limitato. Non vi è un’ottica di prospettiva a lungo termine tipica di una giovane età, ci si pone nella condizione di guardare all’oggi e mai a quello che potrebbe essere. Si è persa quella immaginazione che è salvifica soprattutto in territori dimenticati come i nostri piccoli centri.
Il dibattito dell’abbandono e dei paesi fantasma è comune a molti territori della nostra penisola. All’interno della strategia dello sviluppo delle aree interne si punta proprio a invertire questa tendenza. Gli approcci messi in campo, però, sono sempre gli stessi, restano invariati da almeno trent’anni. Non è dunque solamente parlandone con convegni e dibattiti, spesso anche auto-referenziali, che si può avere la presunzione di invertire la tendenza e risolvere uno dei grossi problemi del nostro secolo e cioè lo squilibrio di popolamento che c’è tra alcune aree del nostro pianeta. E’ pura demagogia questa? I territori periferici e più interni ne risultano notevolmente svantaggiati. Bisognerebbe partire da quello che potrebbe essere il vero problema di fondo e cioè l’assenza di scenari di futuro non sui territori, ma nella testa di chi li vive quei territori. Dunque chi è rimasto, conscio della propria sconfitta cerca di non reiterare l’errore e spinge i propri figli a non tornare, investendo per loro altrove. Le soluzioni per risolvere uno scenario desolante e così difficile non le si hanno in tasca, ma dicerto non le si possono ricercare solamente trovando un Caprio espiatorio rappresentato nella poca volontà dei giovani ad invertire la tendenza.
Se si parla di periferia urbana, bisognerebbe cominciare a parlare anche di periferia territoriale, soprattutto dove non si ha un territorio metropolitano a cui far riferimento. Volendo provare a non arrendersi al nichilismo ci si scontra con una triste realtà, che è matrigna, l’assenza di numeri cioè di utenza porta a rendere del tutto fallimentare qualsiasi iniziativa. Dunque quale potrebbe essere la strada per non arrendersi a un destino già segnato? Come si potrebbero ridisegnare nuovi scenari nella mente di cittadini arresi? Basterà veramente uno sporadico evento che vedrà uno di questi 131 comuni Capitale per un giorno a riportare ai suoi monti, alle sue vallate ed ai suoi fiumi la vita? In che modo si potrebbero esplorare nuove forme di residenza? Attenzione “residenza” e non “cittadini temporanei”, come piace al Dossier definire i turisti che momentaneamente si trovano, se si è fortunati a visitare i nostri territori. In che modo si possono metter su delle strategie politiche atte a fare in modo che questi territori ritornino in auge come un modello alternativo di vita che possa essere però al passo con i tempi? Non solo da Capitale Europea della Cultura, non solo perché è trendy, ma perché la Lucania, a partire da Matera, merita un futuro diverso, quello che non è mai stato concesso, fatto di una libertà che possa dare la possibilità di non diventare un grande luna pack, o un museo della civiltà contadina, un mero luogo pittoresco, oggi i paesi lucani sono vuoti e soffrono di tante vite assenti:
Come si può far riconoscere il valore e le potenzialità di un territorio, se non si ha conoscenza del proprio territorio? L’auspicio è che si possano spendere le molteplici professionalità che oggi i giovani lucani, in loco o fuori loco, hanno acquistato per indagare e poi costruire una visione di Basilicata. Ma per far questo non si può demandare tale compito a un sistema altro, ma è necessario partire dalla costruzione di un vero Sistema Culturale che riesca ad approfondire, fare ricerca e coinvolgere prima e poi riattivare i territori, nella propria lettura e poi nel far conoscere i tanti contenuti che una storia ricca come quella che caratterizza il territorio lucano. Non bisogna dimenticare la geografia dei luoghi e quella lucana è una geografia baricentrica che pone la regione al centro del bacino del Mediterraneo, dunque bisognerebbe riflettere sul ruolo geo-politico che una tale posizione investe sia sul suo contesto Nazionale che su quello internazionale. Il contatto con l’Europa che può passare sia in senso fisico solo se si creano adeguate infrastrutture, che in senso più immateriale, attraverso la ricostruzione di nessi e fili interrotti o logori della storia, soprattutto recente.
Una consapevolezza, però dovrebbe restare al centro come un perno per qualsivoglia strategia di sviluppo territoriale:
il futuro di un territorio è nelle possibilità che vengono date ai propri giovani di far progredire quel territorio, altrimenti si è già perso, ancor prima di cominciare.
Vedremo se questo anno da Capitale possa gettare le basi per una rinascita culturale all’insegna della ricerca delle radici di una terra unica e complessa come la Lucania.
Finalmente il Ministro Bonisoli decreta la tutela del Monte Stella, memoriale contro la guerra e isola verde pubblica frequentatissima dagli abitanti e al tempo stesso blocca i lavori di presunta riqualificazione. Il comune di Milano insorge e minaccia di procedere per via legali. Qui Un articolo di Graziella Tonon sul devastante progetto. (i.b.)
Con il progetto del comune di Milano si vuole distruggere questo importante spazio pubblico «sacrario civile costituito dalle macerie della città devastata dai bombardamenti» progettato da Piero Bottoni, che lo ha pensato come un oasi di pace fruibile da tutti gli abitanti.
Si legga l'articolo su Arcipelago Milano di Graziella Tonon Il giardino dei giusti non può essere ingiusto per comprendere come questo progetto non solo stravolge l'idea originale, ma trasforma uno spazio verde in un susseguirsi di spazi lastricati.
ArcipelagoMilano.org, 5 febbraio 2019. Una legge dello stato consentirebbe di recuperare parte della rendita da trasformazione urbana a vantaggio della collettività. Ma è completamente disattesa. (m.b.)
Gli oneri urbanistici, come è ben noto, costituiscono lo strumento più adeguato per la tassazione delle rendite emergenti dalla trasformazione urbana e per fornire ai comuni le risorse per il miglioramento delle città: essi vengono imposti nel luogo e nel tempo in cui la rendita di trasformazione si manifesta nonché sotto la diretta responsabilità e il controllo delle amministrazioni pubbliche. Purtroppo gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività[1].
Fortunatamente, ma in modo inaspettato, una importante riforma degli oneri di urbanizzazione è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 17 del DL 12.9.2014 n. 133, cosiddetto “Sblocca Italia”, e integrata nel Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (DPR 6.6.2001 n. 380, art. 16(L) comma 4.d-ter): esso introduce, al di là degli oneri tradizionali per le urbanizzazioni, un “contributo straordinario” sul maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso (…) in misura non inferiore al 50%”[2]. Si tratta di una norma che finalmente e potenzialmente porta il paese nella schiera dei paesi avanzati e moderni, fortemente federalista e non ambigua. La critica che è stata mossa, di operare un aumento della già elevata tassazione generale o di infierire su un settore, quello edilizio, ancora toccato gravemente dalla crisi, non ha alcuna rilevanza economica: la disposizione opera su un “paradiso fiscale” moralmente illegittimo e iniquo rispetto ad altri settori produttivi e, quanto alla crisi – che è crisi di domanda e non di profittabilità del settore edilizio – essa anzi ne favorisce il superamento in quanto la tassazione viene utilizzata direttamente e totalmente per incrementare la domanda di opere pubbliche e infrastrutture, in un contesto che chiamerei win-win fra settore pubblico e privato.
Alcuni hanno poi subito rilevato che la materia urbanistica ed edilizia è soggetta alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (che nel testo del DL viene esplicitamente menzionata) e dunque allo Stato resta solo la possibilità di esprimersi su principi fondamentali. Tuttavia appare del tutto lecito affermare che proprio di un principio generale si tratti, confermato dal fatto che la legge dice esplicitamente che le Regioni possono intervenire solo sul quantum della ripartizione p/p e sulle modalità di versamento e utilizzo del contributo[3]. In mancanza di leggi regionali successive alla legge nazionale, si applica quest’ultima (comma 4bis e 5 del TU).
Ho recentemente avviato una raccolta delle decisioni legislative e regolamentari delle Regioni, ancora da completare e verificare, con risultati del tutto sconfortanti. Elenco qui di seguito alcuni principali risultati. Ad oggi mi sembra che le sole regioni che hanno legiferato in modo (quasi) appropriato siano la Liguria (LR 15/2017, con la percentuale del 50%), le Marche (LR 17/2015)[4] e il Piemonte con delibera di Giunta 8 febbraio 2016[5]. La Regione Toscana, con la L.R. 65/2014 aggiornata nel 2017, all’art. 184 afferma: «Con deliberazione della Giunta regionale (…) vengono definite altresì le modalità di attuazione delle disposizioni introdotte con l’articolo 16 del d.p.r. 380/2001» ma non aggiunge alcuna disposizione attuativa. I Comuni sono lasciati soli: alcuni non recepiscono la legge nazionale, altri ci provano con buona volontà definendo criteri propri, altri ancora vanno in senso contrario riducendo gli oneri attuali (Empoli). Un comportamento bizzarro e ambiguo. La Regione Umbria (L. R. 1/2015) cita un contributo straordinario (non quello della legge nazionale), ma lo lega, al di là di ogni immaginazione, alla “adesione volontaria da parte del proprietario alla applicazione di norme premiali”.
La Regione Emilia-Romagna, con la nuova legge urbanistica del dicembre 2017, si rimangia una sua circolare favorevole del 2014 e all’art. 8c1a afferma: «Il contributo straordinario di cui all’art. 16 …. non trova applicazione all’interno del territorio urbanizzato …». Seguono tre pagine di incentivi, sconti sugli standard, premialità volumetriche, riduzione «fino alla completa esenzione» di contributi di costruzione, assegnazione in diritto di superficie di aree pubbliche, abolizione di limiti di densità e di altezza, .…! Il tutto mi pare illegittimo, ridicolo e irresponsabile nei confronti della finanza locale.
Trovo queste posizioni, assecondate dal silenzio della cultura, inquietanti a voler essere minimalisti.
La sera della cerimonia di apertura |
arcipelagomilano.org, 14 gennaio 2019.
La Storia si ripete puntualmente, la Storia non insegna. (m.c.g.)
Quando al principio del nuovo secolo gli studiosi attenti ai cambiamenti delle relazioni fra l’urbanistica, l’economia e i proprietari fondiari ammonirono che la disciplina era entrata a pieno titolo nel libero mercato come qualsiasi altra merce, dovevano sapere che essa nel secolo breve apparteneva già in qualche modo al mercato. Anzi, in un processo alla rovescia era il mercato a essersi introdotto nell’urbanistica poiché lì c’erano territorio (terreni), piano (progetti), regole (eccezioni)… Con altre parole: la nuova condizione proveniva da lontano. Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta amministratori pubblici e urbanisti, spregiudicati gli uni e gli altri, ritenevano ordinaria utilità proporre a imprenditori e a proprietari di aree destinate a verde pubblico dal piano regolatore la cessione di metà della superficie vincolata, concedendogli sull’altra una cubatura da calcolare, da contrattare, magari fino al limite massimo implicante l’intera area secondo l’indice di edificazione previsto per la zona. Sicché la densità di costruzione sarebbe risultata doppia nella parte neo-edificabile privilegiata, per di più beneficata dalla presenza del confinante verde pubblico. Secondo loro non esisteva altra possibilità di realizzare giardini comunali, ancorché dimezzati rispetto alle previsioni.
Era una negoziazione sui generis, fra persone appartate ignote alla vita della città; originale vocazione proveniente da germi corruttivi già presenti allora nei partiti. Ad ogni modo non era caso di mercato «libero»; mancava la concorrenza stante la preesistenza della proprietà immobile o, nel caso dell’imprenditore, il legame con la proprietà e talora la collusiva alleanza precostituita con l’amministrazione pubblica. Tuttavia, quando questa vecchia maniera di mercanteggiare si allargava ai diversi quadranti della città poteva nascere un vero commercio urbano contraddistinto da una specifica situazione topografica e fondiaria, una specie di gara (quasi-concorrenza) delle proprietà vincolate e relative imprenditorie: per ottenere la priorità del contratto fra cessione del fondo e «diritto di cubatura», se così si può dire. Quale tramestio, inoltre, poteva nascondersi fra le quinte di tale rappresentazione con attori privati e pubblici?
In seguito il mercantilismo, se non il mercato come lo si intende oggi (anche in modo capzioso), ha dominato il territorio e il relativo pensiero comprendente derivati economici, urbanistici, edilizi (come nei famigerati titoli finanziari) gravidi di squassanti conseguenze sui rapporti sociali. La vittoria degli immobiliaristi e della rendita non fu messa in discussione neppure da un certa ripresa del profitto (anni dopo la sconfitta causata dal contratto all’Alfa Romeo del 1963), né da qualche infortunio nella speculazione finanziaria del minus habens fra quelli.
Mercato concorrenziale o monopolistico o oligopolistico, oppure offerto ai mercanti dalla stessa autorità pubblica, la compravendita si estendeva all’intero suolo nazionale. Si impiega (o si dovrebbe impiegare) il termine «libero», nel significato di aperto confronto fra domanda e offerta, di chiara trattativa in ogni specie di possibile scambio, materiali o prestazioni, corpi o anime quando niente di esterno la ostacoli o nessuna autority ne detti qualche regola a difesa di eventuali compratori deboli. Era dunque un’altra cosa il mercato del e nel territorio di allora? Un mercato bloccato? Non lo era, bloccato, se ha potuto esprimersi attraverso la gigantesca ampiezza che conosciamo; tanto, appunto, da costituire quasi in ogni anno dal dopoguerra la fetta maggiore o comunque troppo grossa della torta degli investimenti totali.
Qualche impedimento alla privatizzazione liberista e conseguente sottrazione della terra nazionale alla società dei cittadini esisteva al tempo (quasi preistoria) di un relativo funzionamento anti-speculativo dei demani (terreni e costruzioni civili). Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, quasi per naturale contraddizione rispetto ai comportamenti disonesti, fu approvato qualche Piano regolatore contenente aree di riserva demaniale, cioè intoccabili. Poi un precipizio si è aperto in questa resistita crosta; amministratori e politici intossicati dal bacillo liberista vi gettarono i beni patrimoniali della collettività insieme al proprio doppio dovere: di osservatori critici del mercato privato urbanistico-edilizio e di promotori e attori del progetto pubblico. Del resto negli anni Trenta le amministrazioni milanesi avevano ceduto buona parte del ricco demanio fondiario a gerarchi fascisti, a imprenditori amici, a finanzieri speculatori.
Dunque oggi niente di nuovo sul fronte nazionale dopo il Novecento e l’avvento del secondo millennio? Eh, purtroppo una novità spaventevole. Il neo-liberismo non vige soltanto nella realtà del territorio e nella gestione urbanistica di molti comuni e regioni. Il mercato «libero liberista libertario» del territorio e della stessa pianificazione (come, da prima, processo edilizio e progettazione architettonica) è diventato pensiero duro e forte fissato come una spessa piastra di titanio nel cervello dei politici e degli amministratori pubblici, mentre si conformava come profondo basamento e impenetrabile diaframma delle postazioni tenute dai rappresentanti della sinistra e degli urbanisti a loro collegati (succubi o maestri …). La negoziazione, vantata per prima dalla proposta del ciellino milanese Maurizio Lupi, assessore nella giunta del sindaco Gabriele Albertini (1997-2006), rilanciata inopinatamente dall’Istituto nazionale di urbanistica, non avrà bisogno di appartenere a un nuova legge approvata dal parlamento. Una pragmatica abitudine di enti pubblici e società private a contrattare fuor di ogni legittimazione democratica si consoliderà attraverso una miriade di episodi susseguitisi sempre più velocemente e costituirà essa la riforma legislativa dell’urbanistica.
A partire dalla vecchia madre di tutti gli accordi, la grande espansione di Milano sui terreni della Bicocca (chi avrebbe potuto immaginarla prima?) concessa da un sindaco a un «padrone delle ferriere» deciso a passare dal dovere capitalistico del profitto alla pacchia possessoria della rendita fondiaria, l’applicazione della nuova urbanistica privata intaccherà man mano ben più malamente città e territori. E cagionerà la trasformazione culturale anche dell’ultima classe resistente di intellettuali, in senso opposto ai bisogni e diritti della maggioranza dei cittadini, vale a dire della società tout court: termine sentimentale proveniente dall’analisi sociale dei maestri del socialismo. Un punto d’arrivo tanto più sorprendente del punto di partenza sarà impiantato a Bologna, la città leggendaria per i risultati ammirevoli raggiunti al suo tempo nella pianificazione pubblica, con realizzazioni esemplari anche a scala di piano particolareggiato.
Ah! Il famoso modello bolognese. Gli amministratori pubblici lo hanno capovolto in armonia con un’esagerazione masochistica dichiarata: la pianificazione e tutti i progetti siano alienati ai padroni della rendita fondiaria e della produzione edilizia, l’ente pubblico anticiperà l’approvazione e il supporto, magari oneroso. Così siamo pervenuti a un intreccio culturale ultraliberista, letteralmente reazionario. Parafrasando Marx: assistiamo a nuovi trionfi dei signori della terra, del capitale, della spada sui cittadini (vedi M. Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, Einaudi 2018, p.122, IV capoverso).
Intanto a Milano l’ultima narrazione costituita dal negoziato con FS per il riutilizzo dei sette scali ferroviari liberati dalla vecchia funzione è sfociata in un lungo silenzio. Cosa ne sappiamo ora? Dopo le discussioni pressapochiste, le commesse progettuali inutili giacché illegali, il rifiuto dei concorsi, restano gli scartafacci del più importante problema urbanistico della metropoli nell’ufficio dell’assessore polivalente Maran. Tuttavia ci ha pensato il sindaco, invece di far ordine nelle carte e ritornare al confronto con FS da una posizione meglio costruita, forte, atta a rappresentare davvero il bene della popolazione e dei frequentatori, a rivolgere un invito stravagante alla controparte circa la destinazione del milione e 300 mila metri quadrati in causa. Mi sembra che pochi l’abbiano saputo, a me invece è capitato di ascoltare l’intervista ritrasmessa da Radio Popolare il 12 dicembre. Premessa di Sala: «Noi non facciamo case popolari». Seguito: «Le Ferrovie facciano quello che vogliono. Basta che il trenta per cento sia riservato a edilizia convenzionata» (sottolineatura mia). Così la richiesta, data l’identità sostanziale della convenzionata con l’edilizia corrente, non è altro che consentimento alla cementificazione dell’intera superficie.
Di Genova si sa poco e niente. Si parla del ponte, ma non della città sottostante, la cui forma - quella di un uomo a terra con le braccia allargate - riflette la condizione attuale. Dalla rivista La Città, n. 6/2018 (m.b.)
Cinquant’anni fa Eugenio Montale scriveva, in un libro dell’Italsider, alcune pagine fondamentali sulla sua città. adottando la prospettiva dell’esule e rievocando tempi già allora lontani:
«Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le villes d’art del mondo; una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di caruggi che giungeva fino al porto». E ricorrendo al repertorio zoologico (e architettonico) ne sintetizza l’immagine così: «Genova era una città fatta a chiocciola, con un centro unico abitato dai ricchi e dai poveri». Poi, intervenuti tanti cambiamenti, usa per il presente in cui scrive un’altra similitudine animale, destinata a diventare famosa: «Una città che è una striscia di venti chilometri, da Voltri a Nervi, e a mezza via il grosso nodo centrale. Vista da un aereo deve sembrare un serpente che abbia inghiottito un coniglio senza poterlo digerire».
Oggi, dopo la tragedia del 14 agosto, come appare Genova? Messe da parte immagini da bestiario medievale, forse come una T rovesciata: un uomo a terra con le braccia allargate, rispettivamente, ad est e ad ovest delle due Riviere, la testa e il tronco reclini sul centro e le gambe unite distese verso l’interno della Val Polcevera. Lugubre? Irrealistico? Forse. Ma ben risponde – come tragedia alla farsa – a quanto s’è visto dopo il crollo del ponte Morandi: i selfie con i politici del rinnovamento ai funerali di Stato; il plastico da Vespa con Toninelli sorridente; il passaggio di Conte a Genova con il suo numero da commedia dell’arte («fogli bianchi, questi? No, pieni di parole che saranno fatti!»); la tiritera del decreto e poi i suoi, quanto meno eterogenei, contenuti.
A questo s’è aggiunta, quasi a beffa delle vittime della tragedia e della sorte degli sfollati, una gran dose di retorica. Nostrana e foresta: tempi di ricostruzione privi di ogni fondamento; odi alla risurrezione, funzionali a un rito consolatorio clamorosamente inutile; ripristino del mito polveroso della Superba; e proclami del solito ministro che, come in un fumetto, dice che «il super-commissario agirà alla velocità della luce». Una nebbia di stereotipi, di frasi fatte, di atti linguistici scorretti («io prometto» non equivale a dire «piove» ma è già un fare o, se resta senza seguito, un non fare irresponsabile) che ha messo in sordina realtà, considerazioni, domande su cui si gioca il futuro della città. Intanto, al di là di chi per ragioni umane ed economiche è rimasto coinvolto nel disastro, c’è qualcuno a cui importa davvero di Genova? A Roma ma anche nella stessa Genova?
In una città che, negli ultimi anni, ha fatto della separazione delle sue realtà urbane, e dei ceti sociali e delle varie economie, la sua insegna? Il crollo del ponte, in fondo, non ha fatto che sancire quanto era già nello stato delle cose: periferie abbandonate a sé stesse e viste con aria di sufficienza da chi sta al ‘centro’; piani di recupero monchi o mai realizzati; aree industriali dismesse da anni; scoordinate operazioni di lifting diventate dall’oggi al domani fatiscenti.
C’è un dato linguistico in proposito eloquente più di ogni discorso. Si sente sempre parlare di città spaccata in due, come se Genova esistesse solo su un asse orizzontale con Nervi e Voltri agli estremi. Ora, dovrebbe essere evidente che in realtà Genova è spaccata in tre (e in tanti altri pezzi). Zone rossa e arancione sono sia parte di Sampierdarena che sbocco e ingresso della Val Polcevera.
Se la seconda è sempre stata, con la sua storia passata di raffinerie e quella pre sente di grandi insediamenti commerciali e cittadine in basso e di borghi in alto, altra dalla città, Sampierdarena è un caso ancora più istruttivo: all’Ansaldo s’è sostituita la Fiumara ma nel cambio il quartiere non ci ha guadagnato e anzi s’è impoverito; la ‘piccola città’ d’un tempo ha patito dell’epidemia di sale-giochi e compra-oro – in perfetta sintonia tra loro – e di fenomeni di criminalità, giovanile e no; tante le saracinesche abbassate; e il valore degli immobili precipitato mentre è aumentata l’intollerabilità del traffico.
C’è chi resiste difendendo spazi di civiltà e d’integrazione in un contesto che è, insieme e paradossalmente, caos e deserto. A dimostrare come nella realtà – e non nelle ‘narrazioni’ delle macchine della persuasione – l’ossimoro sia la figura più ricorrente. E quella dal gusto più amaro.
Ora, tutto ciò è avvenuto perché le logiche particolari di gruppi e caste di una Genova neofeudale si sono sempre sottratte a un pensiero in fondo assai semplice: che una città vera è come un corpo o un organismo e che è pericoloso lasciar atrofizzare alcune sue parti a scapito di altre o trattarle come luoghi di scarto o porzioni solo fastidiose o superflue. A far questo, una città rischia di diventare, tutta, una sola periferia. La periferia dell’idea che ha di sé stessa e quindi un’invenzione, un paranoico esercizio retorico, una coroncina del rosario dai grani staccati. Ripiegata su di sé e poco interessata a prepararsi un passato da ricordare in futuro. Una realtà urbana spezzata. Il suo complessivo e unitario paesaggio umano e sociale si potrà vedere – come scriveva Montale – «solo in sogno perché i suoi abitanti lo hanno reso irriconoscibile». Ma sarà il sogno di chi dorme da esule nella sua casa.
Intervento all’istruttoria pubblica del 13 novembre 2018 sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini per fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. Con commento e riferimenti (m.c.g)
É stato un grande evento partecipativo – anzi, secondo Piero Cavalcoli, la prima manifestazione di massa su di un tema urbanistico negli ultimi 50 anni a Bologna - l’istruttoria pubblica sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini che, con le loro firme, hanno consentito un ampio dibattito critico cui hanno partecipato tecnici e semplici cittadini, il parroco e i rappresentanti dei vari condomini che si affacciano sull’area. Si trattava di fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ (edilizia residenziale con le solite briciole per l‘housing sociale, terziario e l’ennesimo centro commerciale) che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. I Prati costituiscono un ecosistema naturale localizzato a 550 metri dal centro storico che svolge (come ha sottolineato anche il FAI che sta raccogliendo firme per eleggerlo a ‘luogo del cuore’) una funzione ambientale cruciale in una delle zone più inquinate della città. Pubblichiamo l’intervento critico di Piero Cavalcoli, un urbanista che ha contribuito a fare la storia, per decenni esemplare, dell’urbanistica bolognese, e che è stato chiamato ad intervenire sul progetto per conto di Coalizione civica - il raggruppamento di sinistra che, alle ultime elezioni amministrative comunali, ha ottenuto l’8% dei voti. L’intervento evidenzia le gravissime responsabilità politiche e le non meno gravi aporie tecniche dell’amministrazione locale (con qualche accento ironico da grande maestro!). (m.c.g.).
Cosa si propone per questa area strategica il POC, il Piano Operativo che attua il Piano Strutturale? E dunque che idea si ha, di conseguenza, del futuro della città? Lo dice una disposizione sintetica delle Norme del POC: “Un intervento di sostituzione integrale dell’edilizia esistente e la creazione di un nuovo impianto urbano con la realizzazione di residenze, centri direzionali e commerciali, scuole, parcheggi e un parco di 20 ettari” (Norme, art.11, comma2)
Dunque un nuovo quartiere residenziale, ma quanto grande? Anche questo è noto: 181.810 mq di Sul (Superficie Utile Lorda), pari a 1.164 alloggi, di cui 873 “libera” e 291 di “edilizia sociale” (133 pubblica e 158 privata) (art.11, comma 2 delle Norme e Relazione pag.27), più “eventuali ulteriori quote di capacità edificatorie per la realizzazione di attrezzature e spazi collettivi…. nella misura massima del 10% della Sul complessiva” (Norme, art.11 delle Norme). In definitiva, un nuovo quartiere urbano formato da circa 200.000 mq di Sul, ospitanti un numero di alloggi pari a circa due volte il “Virgolone” del Pilastro.
Ha bisogno Bologna di questo “nuovo impianto urbano” in questa “area strategica”?
NO, ma non lo dico io, lo dice la stessa Relazione del POC (pag.12): “Questo approccio si distacca dall’ipotesi di un dimensionamento del POC legato a un fabbisogno: come si evince dal Documento Programmatico per la Qualità Urbana (documento di base del PSC, ndr), il lieve aumento tendenziale della popolazione nella città non richiede previsioni insediative come quelle che vengono messe in gioco dal POC”
Ma allora? E qui sta la giustificazione più straordinaria “La ragione per rendere possibili interventi di tale dimensione dipende…. dalla volontà di mettere in gioco l’offerta del PSC che ha maggiori possibilità di segnare il futuro della città, incidendo sulla stessa quantità della domanda (inducendo cioè una domanda oggi non presente) oltre che sulla qualità”. Dunque: di un quartiere di queste dimensioni non c’è proprio bisogno, ma se lo facciamo, magari progettato da un Archistar, senza dubbio una domanda oggi inesistente sboccerà di incanto. Si contraddicono in questo modo, oltre a quelle dell’urbanistica, che vorrebbe che si stabilissero le destinazioni dei suoli in base ai fabbisogni, anche le più elementari leggi del mercato e si stabilisce che sarà l’offerta a generare la domanda. Qualcuno dovrà spiegarmi, perciò, per quale ragione la pancia delle banche è piena di alloggi invenduti.
Per la verità l’Assessora Orioli ci dice che i dati più recenti hanno fatto cambiare parere al Comune: oggi (a distanza di soli 2 anni e mezzo dall’approvazione del POC) si registrerebbe un fabbisogno di circa 6.000 alloggi.
Ma benedetta ragazza! A un vecchio urbanista verrebbe da chiedere che cosa insegnano oggi all’Università. Il fabbisogno di alloggi è da sempre composto da segmenti di domanda, derivanti dalla diversa capacità economica degli strati sociali che la caratterizzano. La consistente quantità di invenduto non è il segnale di totale assenza di domanda, ma semplicemente segnala che è sazio quel segmento di domanda che può permettersi i costi degli alloggi che sono sul mercato. Ciò naturalmente non vuol dire che in assenza, ormai da decenni, di una politica pubblica della casa, non esista domanda. I seimila alloggi che oggi sarebbero necessari, rappresentano la credibile richiesta di trent’anni di assenza di edilizia pubblica!
Ma riprenderò questo punto, quando tenterò, in conclusione di “volgere in positivo”, come si dice.
E ora mi chiedo, al di là del fatto che lo stesso Comune non lo giudichi necessario, ciò che viene proposto è almeno sostenibile sotto il profilo funzionale?
NO, e di nuovo non lo dico io, lo dice di nuovo lo stesso POC: “Si è verificato e valutato, attraverso gli studi di carattere trasportistico… che hanno preceduto la redazione del POC, che esistono attualmente le condizioni di sostenibilità per circa il 30% dell’intera capacità edificatoria” (Valsat, pag 21; Relazione, pag.12). Dunque, per rendere sostenibile sotto il profilo funzionale quanto complessivamente proposto sarà indispensabile “…l’adeguamento infrastrutturale necessario, la cui realizzazione potrà determinarsi sia in base all’iniziativa degli operatori interessati alla trasformazione delle aree sia in base all’iniziativa del Comune qualora riuscisse a garantirsi altrimenti le risorse finanziarie” (Relazione, pag.12).
Ottimo, impariamo così altre due cose: primo, che gli Accordi pattuiti con la proprietà non contemplano alcun impegno finanziario relativo al completamento della rete infrastrutturale necessaria per completare l’intero insediamento e, secondo, che, qualora non si manifestasse “l’iniziativa degli operatori interessati”, ci penserà il Comune.
Ma almeno, siamo a posto sotto il profilo della sostenibilità ambientale?
Relativamente: sul tema dell’aria e dell’inquinamento atmosferico la Valsat si occupa esclusivamente di tutelare i futuri abitanti del quartiere e non fa cenno al contributo che l’aumento del traffico generato dai nuovi insediamenti scaricherà sulle generali condizioni dell’aria dell’intera area urbana, mentre, sul tema dello smaltimento delle acque superficiali, ci si dimentica di sottolineare l’aspetto principale del problema, che risiede nel contributo alla impermeabilizzazione dei suoli che gli interventi progettati inevitabilmente genereranno. Al proposito ci si limita a prescrivere che l’indice di permeabilità territoriale debba essere almeno pari al 50% della Superficie Territoriale. Ma quale è adesso l’indice di permeabilità dell’area? Aumenterà o diminuirà dopo gli interventi? Non è dato sapere, con buona pace del Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, adottato dallo stesso Comune proprio mentre adottava il POC e finanziato dall’Europa (Life, “Blue Ap”), che indicava come primo obiettivo dell’amministrazione la scelta di minimizzare la crescita del territorio impermeabilizzato.
Fa un certo effetto certificare, proprio in questi giorni, queste cadute di attenzione.
In sintesi, e in definitiva, pare ragionevole considerare quanto proposto dal POC scarsamente motivato, contraddittorio, inefficace e infine, lasciatemelo dire, in fondo anche un po’ banale, impropriamente dedicato a un’area che è a ragione considerata strategica.
Scarsamente motivato, come ammette anche il Comune, che nega ogni relazione con il fabbisogno.
Contraddittorio, in quanto la Valsat nega la fattibilità del 70% di quanto previsto negli Accordi.
Inefficace, perché contrastato da numerose prescrizioni (per fortuna!) che ne proiettano la realizzazione in tempi difficilmente prevedibili: un impegnativo piano di indagini, da svolgere con Arpa sulla qualità dei suoli, la conseguente “condizione escludente, cioè la possibilità di escludere l’utilizzo delle aree” (Relazione, pagg.11/12) qualora risultassero necessarie bonifiche difficilmente operabili o costose, l’utilizzo solo parziale (30%) delle realizzazioni concesse, in attesa del completamento delle opere infrastrutturali necessarie, a carico di non si sa chi.
Debole e banale, infine, perché, in fondo, anche se il progetto fosse firmato da un’Archistar, si tratta comunque di un ordinario intervento di sviluppo urbano che, anche se non collocato in area agricola, mantiene tutte le caratteristiche della passata e criticabile stagione edilizia, a lungo operata a partire dal PRG dell’85 del secolo scorso che, in nome di una riduzione delle occupazioni di suolo in area agricola, ha operato, con le medesime finalità e caratteristiche, in area urbana, nelle famose “aree interstiziali”. Sottraendo, in nome dell’obiettivo della “città compatta”, circa il 50% delle previsioni a verde pubblico.
Che fare allora? Bisogna avere il coraggio di cambiare strada, correggendo il POC.
É necessario un progetto forte e condiviso, capace di segnare una distanza con la perdurante debole attenzione alle questioni ambientali, che sappia raccogliere le voci, che pur si sono manifestate nel corso stesso della redazione del POC (penso alle prescrizioni della Valsat e ai risultati di importanti progetti europei, da Blue Ap a Gaia) e soprattutto quelle dei cittadini. Se questi ultimi abbracciano gli alberi e nessuno ha mai abbracciato la Meridiana a Casalecchio o l’Unipol di via Larga una ragione ci sarà.
Forte vuol dire anche simbolico ed evocativo, questo sì capace di segnare il futuro. Un progetto che contrasti la tentazione di costruire muri, ostacoli, fratture, che richiami la nostra tradizione di attenzione al nuovo e di rispetto del passato.
A questo si pensa quando si parla di un bosco urbano, un progetto che sappia trovare continuità con la tradizione di questa città, che non ha mai semplicemente nascosto le rovine e le testimonianze di ciò che è stato seppellendolo sotto pezzi anonimi di “sviluppo urbano”, ma ha saputo conservare la memoria del passato reinterpretandolo con il senso del presente. Penso alla Montagnola, ai Giardini Margherita, al Guasto, alla Manifattura Tabacchi. E, in fondo, penso a tutto il centro storico e alla collina.
Un bosco per la pace, ad esempio, in un luogo adibito così a lungo alle armi. E un bosco evocativo della necessità dell’accoglienza e delle relazioni tra gli uomini, in un luogo che connette stazioni, ferrovie e aeroporti e che ha anche visto cosa può determinare l’indifferenza e l’incuria, dimostrando quanto ancora siamo incapaci di accogliere e integrare i più deboli.
Si può fare?
Per rispondere a questa domanda è necessario prendere spunto dall’esperienza dei Prati e allargare il campo delle considerazioni, ponendo domande alla politica urbanistica in generale, bolognese e nazionale.
Il caso dei Prati è infatti significativo di un ulteriore degrado della politica urbanistica, che ha al centro un tema decisivo e in qualche misura nuovo: il ruolo dello Stato nei processi di riqualificazione urbana. L’interlocutore delle esigenze locali di riqualificazione è profondamente cambiato negli ultimi cinque anni: i primi Accordi erano da costruire faticosamente con Generali dell’Arma ed alti dirigenti delle Aziende di Stato, soggetti che, nel panorama multiforme del potere, erano interessati solo al mantenimento del proprio. Ora è diverso: il caso dei Prati ci chiarisce che ora gli Accordi si sottoscrivono con un soggetto del tutto integrato nella attività di speculazione fondiaria e finanziaria: i terreni dei Prati sono di INVITIM.
Cosa è INVITIM?
E’ una “società di gestione del risparmio del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha ad oggetto la prestazione del servizio di gestione del risparmio realizzata attraverso la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e la gestione di fondi comuni di investimento immobiliare” (Wikipedia). Dunque una concorrente di Maccaferri, interessata all’investimento immobiliare e alla cosiddetta “rigenerazione urbana” nella misura in cui essa sia fonte di rendita urbana.
Una questione nuova perciò per l’urbanistica, che ha avuto sempre a che fare con una rendita urbana la cui natura era incontestabilmente di carattere privato. Una questione su cui l’urbanistica ha fino ad ora risposto con il fumo della “rigenerazione urbana” a prescindere dai soggetti, dagli operatori, dai fabbisogni, dalle generali condizioni di fattibilità e sostenibilità.
E dunque cosa cambia?
La prima delle novità è che evidentemente tendono a mutare le relazioni istituzionali: una richiesta di solidarietà istituzionale avanzata nei confronti di una società finalizzata a trarre il massimo di profitto ha poche speranze, soprattutto se il rapporto tra i pesi dei contraenti gli Accordi è così sbilanciato in favore dei proprietari delle aree. Il Comune si accontenterà dell’elemosina: una scuoletta, qualche alloggio popolare, un parco lungo e stretto a ridosso del Ravone. Il Comune (e i cittadini!!) dovranno così affrontare tutto il peso che deriverà da una speculazione immobiliare (pubblica!!!), paradossalmente finalizzata, a quanto viene sostenuto, a ripianare i debiti dello Stato. Indicative, in questo senso, le voci che indicano in un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare dello stato per 17 miliardi, la promessa all’Europa sulla sostenibilità della manovra finanziaria. Distrutti i patrimoni dei Comuni, si passa così a distruggere il patrimonio dello Stato.
Altra novità è dunque che il cortocircuito logico di questa finalità (diminuire il debito pubblico vendendo il patrimonio dello Stato, e cioè perseguire finalità benefiche generali attraverso misure malefiche a livello locale) non trova alcun contrasto se non quello dei cittadini, che denunciano la assoluta illogicità degli Accordi pattuiti e dei conseguenti strumenti urbanistici. Non una parola dalla disciplina. Non una parola dalla politica.
É forse possibile un’altra strada? Può il Comune pretendere la restituzione di quella parte della rendita che gli appartiene?
Basterebbe che ciascuno facesse il proprio mestiere. Lo Stato che si dedicasse, ora che ha risolto i problemi della povertà, a risolvere quelli dell’evasione fiscale, incamerando così le risorse che occorrono per risolvere i problemi di fabbisogno di edilizia pubblica che ci ricorda Orioli. E rinunciando alle mire di valorizzazione e speculazione fondiaria e finanziaria. E il Comune richiedesse allo Stato quella solidarietà e sostegno che è costituzionalmente dovuto. E riscrivesse gli Accordi intesi alla riqualificazione dei terreni di proprietà dello Stato situati nei Comuni dell’area metropolitana.
Ma si chiede dunque l’impossibile?
A parte l’esperienza che ci ha dimostrato che chiedere l’impossibile è l’unico modo per ottenere il possibile, va ricordato che questo è il momento: una nuova legge urbanistica regionale che, almeno a parole, enfatizza la riqualificazione urbana e la sostenibilità, le elezioni regionali all’orizzonte, anche se cariche di presagi non confortanti, i segnali invece confortanti di resistenza, come quelli della comunità dei Prati.
Possibile è innanzitutto pretendere coerenza dagli enunciati enfaticamente pronunciati dal legislatore regionale. Si tratta di una pessima legge, lo abbiamo sostenuto in diverse sedi e occasioni. Ma si deve cogliere in pieno l’occasione che essa pure ci offre: la formazione in contemporanea, in questi tre anni (uno è già sostanzialmente trascorso) del nuovo Piano Regionale e dei principali Piani dei Capoluoghi.
Possibile è dunque pretendere che il Piano Regionale, dialogando con quelli dei Capoluoghi, affronti in modo sistematico e sostenibile il tema delle aree statali, ponendo in modo autorevole il tema della solidarietà istituzionale e della volontà dei cittadini, così rimangiandosi la tentazione sino a qui perseguita di scimmiottare le richieste di autonomia proprie di strategie politiche che non trovano asilo nella nostra tradizione e nella nostra cultura.
Ricordiamolo: la nostra regione vanta la pianificazione territoriale più antica del mondo. Un asse di siti urbani di impianto romano che i duemila anni seguenti non hanno mai avuto la forza e la necessità di negare. Un asse su cui le civiltà susseguite hanno continuamente aggiunto una propria modernità, senza mai contrastare i segni del passato: la via Emilia, la ferrovia, l’autostrada, l’Alta velocità. E ciò è avvenuto sapendo ogni volta interpretare, con regole nuove, le esigenze di nuova configurazione delle città disposte lungo questo nastro in continua evoluzione. Così, il disporsi delle manifatture lungo la ferrovia prima e lungo l’autostrada poi, a nord dell’abitato, pone a tutti i Capoluoghi la stessa esigenza: quella di un disegno comune, del recupero delle aree dismesse con regole comuni e finalità comuni, regole che solo un nuovo Piano regionale, attento alle volontà dei cittadini e dell’ambiente, può e deve predisporre.
A noi il dovere di pretenderlo, insieme a nuovi e solidali Accordi con lo Stato, proprietario di quelle aree.
Ma, si dice, due ostacoli si frappongono alla volontà di cambiare strada, ridiscutendo le scelte del POC
Il primo consisterebbe proprio nell’impossibilità di denunciare gli Accordi sottoscritti con l’Agenzia del Demanio e con l’INVIMIT, proprietari delle aree in questione, accordi che sarebbe opportuno rispettare sia per correttezza istituzionale che per evitare qualsiasi possibile richiesta di risarcimento; il secondo consisterebbe nelle disposizioni della recente nuova legge urbanistica regionale che, nel previsto periodo transitorio di avvio dell’applicazione delle diposizioni di legge, impedirebbe ogni diversa determinazione o variante dei vigenti strumenti urbanistici.
Per quanto attiene l’inopportunità dell’eventuale denuncia degli Accordi, non credo che essa possa essere presa in alcun modo a pretesto per evitare di mettere mano a una sollecita modificazione del POC e delle scelte descritte. Si tratta semplicemente di mettere in atto quanto previsto all’art.5 dell’ultimo Accordo, sottoscritto il 2 marzo 2015, contenente l’impegno del Comune ad elaborare il POC fino a qui commentato.
L’articolo recita: “La durata del presente Accordo è stabilita in due anni, decorrenti dalla data della sua sottoscrizione, rinnovabili su accordo delle parti. Nell’ipotesi in cui le previsioni del presente Accordo non potessero trovare integrale attuazione, le parti potranno sciogliersi dagli impegni assunti, mediante comunicazione scritta per raccomandata con avviso di ricevimento. In tal caso, le Parti si impegnano a verificare la possibilità di rimodulare obiettivi e finalità dell’Accordo, ai fini della sua attuazione, anche parziale, ovvero a regolarizzare le situazioni medio tempore verificatesi”.
Dunque, nulla osta, se c’è volontà politica, a denunciare o riformulare l’Accordo, stante il fatto che, per quanto so, non ci sono situazioni “medio tempore” da regolarizzare.
Per quanto poi riguarda il presunto impedimento che nascerebbe da una corretta applicazione delle disposizioni contenute nella nuova legge urbanistica, va richiamato quanto enunciato nel capitolo IV° della lettera che il legislatore regionale ha inviato ai Comuni nel marzo di quest’anno: “Nel corso della prima fase triennale del periodo transitorio, i Comuni possono avviare e approvare i procedimenti indicati all’art.4, comma 4, ossia i procedimenti relativi a: a) varianti specifiche agli strumenti urbanistici vigenti….. ma anche varianti ai POC vigenti…. Ovvero POC “tematici” diretti alla pianificazione di specifiche tipologie di insediamenti”. Inteso che le suggestioni appena abbozzate in precedenza sul possibile destino dei Prati possono in pieno riconoscersi in “varianti tematiche al POC”, assieme a quanto è puntualmente proposto dal citato Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, pare dunque non sussistere alcun impedimento amministrativo a quanto invocato e richiesto da migliaia di cittadini.
Dunque, la decisione torna al Comune e ai suoi attuali amministratori: vorranno essere ricordati come coloro che per 1.200 appartamenti invenduti hanno distrutto un bosco di più di quaranta ettari, nel cuore della città? O viceversa pretenderanno coerenza da un presunto “Governo del cambiamento”, richiedendo nuovi Accordi, consoni al dovere di solidarietà istituzionale e rispettosi della volontà dei cittadini?
L’Istruttoria Pubblica sui Prati di Caprara e la politica urbanistica di Bologna. Come il Comune di Bologna, contro l’opinione di migliaia di cittadini attivi, ha posto le basi della cementificazione di un bene straordinario che abbandono e natura hanno donato alla città.
I Prati di Caprara sono una grande area (45,7 ha) a ovest del centro storico di Bologna a poca distanza dalle mura, interclusa tra le espansioni urbane novecentesche, l’Ospedale Maggiore e i fasci di binari che portano alla stazione centrale e all’ex scalo ferroviario Ravone.
Dismessa da decenni dopo aver conosciuto utilizzi diversi e come ultimo quello militare, si presenta rinaturalizzata in un rigoglioso bosco spontaneo scrigno di biodiversità, che può costituire un prezioso polmone ecosistemico per l’intera città, ma che l’Amministrazione comunale, dopo molte promesse di trasformazione in parco pubblico, ha inserito in un piano di valorizzazione immobiliare.
Foto P. Rocchi |
Foto dal sito del Comitato Regenerazione No Speculazione |
Periodicamente le catastrofi del territorio ci ricordano che abbiamo abbandonato la cura della stessa sua struttura idro-geologica. Ecco i risultati dell'assenza di rispetto per l'ambiente in cui viviamo e dell'abbandono degli strumenti che erano stati inventati per controllarne e regolarne le trasformazioni: la pianificazione territoriale e urbanistica. Qui un elenco dei disastri di questi giorni (e.s.)
ll bilancio delle vittime è dunque a otto, anche se si cerca ancora un disperso, mentre decine sono stati i feriti tra i quali si contano anche diversi vigili del fuoco. Più di 5mila gli interventi compiuti dai pompieri chiamati da cittadini in difficoltà: per 3500 chiamate si è trattato di alberi caduti o pericolanti, la causa principale degli incidenti mortali. Vento record si è registrato in Liguria, con la punta massima a 180 chilometri orari rilevati dall'anemometro a Marina di Loano, nel savonese. Sempre sorvegliati speciali i fiumi, soprattutto in Veneto e Friuli, ma anche in Lombardia c'è allerta.
Ieri due persone in auto sono state schiacciate da un albero nel Frusinate, un altro a Terracina, un giovane di 21 anni morto nello stesso modo a Napoli, un'anziana di 88 anni colpita da parti del tetto di un condominio ad Albisola (Savona), e una persona morta travolta da un albero durante un temporale che si è abbattuto in serata a Feltre (Belluno).
A Terracina una fortissima tromba d'aria ha provocato diversi feriti.
Scuole chiuse e disagi da nord a sud
Molte le scuole sono rimaste chiuse, anche a Roma e in Toscana. Sono state riaperte questa mattina l'autostrada e la statale del Brennero.
Tragedia nel crotonese: 4 morti
Domenica 28 ottobre a Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese, tre operai e un noto imprenditore della zona, sono morti inghiottiti dal terreno che è franato sotto i loro piedi mentre riparavano una fogna. Oggi i funerali.
Cade albero nel Frusinate: due morti
Due persone sono morte a Castrocielo, in provincia di Frosinone a causa della caduta di un albero su una Smart. Il tratto di strada tra il bivio per il casello autostradale di Castrocielo e Roccasecca è stato interdetto alla circolazione. Sul posto Vigili del Fuoco ed i Carabinieri della Compagnia di Pontecorvo
Veneto
L'alta marea sale velocissima a Venezia, e nel pomeriggio ha raggiunto i 160 centimetri sopra il medio mare. Il centro storico è allagato per il 70%. Intanto il premier Conte ha firmato la dichiarazione dello stato di mobilitazione del Servizio nazionale della protezione civile, accogliendo la richiesta arrivata nella serata di ieri dal presidente della regione Veneto Luca Zaia. "Siamo preoccupati per l'indicazione del pomeriggio e della sera, con 400 mm per metro quadro di pioggia", ha detto il governatore.
Sardegna
Ha raggiunto già i 160 chilometri orari il vento di libeccio che da ieri notte sta soffiando sulla Sardegna accompagnato da piogge e temporali. Il picco è stato registrato questa mattina a Capo Carbonara. Una tromba d'aria si è registrata tra Narcao e Villaperuccio, dove sono stati strappati i tetti di alcune abitazioni. Discorso analogo a Nuoro nelle prime ore di di questa mattina.
Liguria
Prorogata l'allerta meteo rossa in gran parte della Liguria, dove Val di Vara, Cinque Terre e Spezzino sono state le zone al momento più colpite dalle forti piogge, con un picco a Monterosso di 140 millimetri da mezzanotte. Si temono mareggiate con onde di 6-7 metri. Esondato, intanto, il torrente Gravegnola nei pressi di Rocchetta Vara nello Spezzino e sono state chiuse le strade provinciali, fuori dall'abitato, dove si sono verificati allagamenti ed erosioni delle sponde. Un pezzo della diga del porto turistico Carlo Riva di Rapallo è crollato.
Trentino Alto Adige
Domani chiuse tutte le scuole del Trentino, mentre saranno regolari le lezioni all'università. La Protezione civile ha invitato i cittadini a muoversi con i propri mezzi solo se strettamente necessario, dal pomeriggio di oggi a tutta la giornata di domani, "vista la possibilità che sulle strade si verifichino smottamenti che costringano ad interrompere la viabilità".
Calabria
Ha un nome e una nazionalità l'uomo, che risulta disperso, proprietario della barca a vela finita ieri contro uno dei moli del porto del quartiere Lido di Catanzaro. Si tratterebbe di un cittadino di nazionalità turca titolare anche di un sito web. Ancora senza esito le ricerche degli eventuali dispersi a bordo del natante che batteva bandiera canadese.
Toscana
A causa del forte vento e delle mareggiate sono fermi i traghetti per l'Isola del Giglio, per quella di Giannutri e da Piombino e Livorno verso l'Isola dell'Elba. Problemi sul lungomare di Porto Ercole all'Argentario dove la polizia municipale è stata costretta a chiudere la viabilità per una forte mareggiata. Il Comune di Castiglione della Pescaia ha diramato un avviso alla popolazione invitando a non uscire di casa per il forte vento. Due persone disabili sono state evacuate in maniera precauzionale nel Livornese.
Lazio
Un albero si è schiantato su un'auto a Terracina, morta la persona al suo interno. Oggi a Roma le scuole sono chiuse. Nella Capitale si registrano disagi a causa del maltempo e del vento forte. Problemi alla circolazione per i numerosi rami caduti a terra in quasi tutti i quartieri. La ferrovia locale Roma-Lido, che collega il centro con il litorale, è rimasta chiusa per 15 minuti per la presenza di un ramo sui binari a Tor di Valle. Chiusa la tratta della metro B tra Piramide e Laurentina. Predisposta la chiusura anche di cimiteri e ville. Problemi anche ai Castelli e a Ciampino. Chiuso il tratto dell'A24 Tivoli-Castelmadama per telonati a caravan.
Lombardia
Quattrocento persone, tra bambini e personale, sono state fatte evacuare da un asilo di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, per infiltrazioni d'acqua dal tetto.
Campania
Il forte vento di scirocco che sta soffiando su Napoli e su buona parte della sua provincia hanno provocato, in diversi punti della città, la caduta di rami dagli alberi. I vigili sono impegnati in numerosi interventi sia in città che in Comuni dell'area metropolitana. Ancora interrotti i collegamenti con le isole. Un ragazzo di 21 anni della provincia di Caserta è morto schiacciato da un albero che gli è crollato addosso mentre camminava in via Claudio, nel quartiere Fuorigrotta di Napoli.
Abruzzo
Chiuse le scuole in numerosi comuni della Marsica e dell'Alto Sangro a causa dell'allerta rossa. A Villetta Barrea la situazione è tornata sotto controllo dopo che ieri il fiume Sangro era esondato in alcuni punti.
Friuli Venezia Giulia
Le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Pordenone resteranno chiuse anche domani. Dalle autorità anche un appello alla prudenza e ad evitare gli spostamenti, se non strettamente necessari.
Valle D'Aosta
Il Centro funzionale regionale ha prorogato almeno sino alla mattinata di domani su tutto il territorio della Valle d'Aosta l'allerta 'gialla' (livello 1 su 3) per criticità idrogeologica e l'avviso meteo per precipitazioni forti, scattati ieri. Per il pomeriggio i tecnici valuteranno, in base alle condizioni, se decretare la fine dell'allerta.
La presidente del Senato Casellati: commissione d'inchiesta
"Quante frane, quante alluvioni, quanti morti ci dovranno ancora essere prima di mettere seriamente mano al problema del dissesto idrogeologico, di un territorio reso ancora più fragile dai cambiamenti climatici? Se non fossi il Presidente del Senato, domani stesso presenterei un disegno di legge per la costituzione di una Commissione d'inchiesta su tale drammatico specifico problema.
È ora di dire basta". Così in una nota la presidente del Senato Elisabetta Casellati. "Che ciascuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità di fronte a tali tragedie che toccano la vita delle persone e la identità stessa dei territori, mi auguro che la mia idea venga raccolta dai senatori in carica senza alcuna distinzione di appartenenza politica", aggiunge la presidente del Senato Casellati.
casa della cultura, 5 ottobre 2018. Riprendiamo la replica del nostro opinionista alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura su Salvatore Settis. Un excursus che documenta come Settis prosegua la battaglia di Cederna.
Chi non ha potuto conoscere il territorio italiano prima che la classe dirigente e quasi un intero popolo adulto si apprestassero a «distruggere il bel paese - sventramento dei centri storici, lottizzazione di foreste, cementificazione di litorali, manomissioni del paesaggio» (A. Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton Editori, Roma 1991), non sa di aver perduto un paradiso, per giustezza e bellezza di città e campagne, di paesaggi marini e montani; per stupefacenti lasciti della storia archeologica e artistica, integri o restituiti all’autenticità grazie al lavoro di pochi specialisti o amatori. Chi, ora vecchio, lo ha potuto, dunque ne ha vissuto le sensazioni mentali spirituali fisiche, ha rinunciato al ritorno e quando non lo ha fatto ha provato dolore disgusto e rabbia dinnanzi alle devastazioni di ogni sorta. I giovani, invece, se non aiutati a comprendere il presente mediante il racconto storico, accettano le profanazioni come dato oggettivo.
Quando andai a Paestum per la prima volta, il paesaggio archeologico era intatto, la pianura agraria e la foce del Sele incontaminate. Ma bastarono pochi anni per accertare in un secondo viaggio che dovevo cancellare il luogo dai programmi di futuri ritorni. Era stato avviato uno sconquasso con lo sviluppo edilizio-turistico. Davanti al quale il giovane neo-laureato architetto non reagisce sdegnato. Ciò che vede è normale, è l’esistente indiscusso, è in regola; non prova turbamento perché al tempo della sua adolescenza il paese, come un gigante brutale con gambe d’elefante, aveva percorso buona parte del tragitto che avrebbe condotto man mano alla rovina del territorio. Così le generazioni da me distaccate accettano ignari il paradiso perduto, pezzi di limbo o di inferno come cittadelle assediate, infine violate e distrutte dall’opera dell’uomo inumano. (Questo passaggio trova maggior ampiezza di trattazione nel libro dello scrivente Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, 2000, cap. Il viaggio in un senso).
Il 10 febbraio 1970 la Domenica del Corriere presenta la Carta dei tesori d’Italia, ovvero l’Italia da salvare, risultato di un lavoro instancabile di Antonio Cederna (collaboratore il pittore Gianbattista Bertelli), aggiornamento di una versione di tre anni prima pubblicata nella rivista Abitare. Sarebbero ottantatré (dai cinquantatré precedenti) i luoghi di altissimo valore paesistico selezionati, ma già s’intravedono le minacce di deturpamento. Cederna stesso definisce il parco nazionale del Circeo «una beffa», tanto è esteso il massacro costiero apportato dalla speculazione edilizia. Negli anni successivi proseguirà l’aggiornamento della Carta, ma quando in un «Quaderno» dell’Espresso apparirà un nuovo aggiornamento (febbraio 1987), Cederna dovrà schedare numerosi beni a rischio di annientamento. Fra essi (decine) anche la Paestum di «Templi lottizzati»! Persino i più lontani dei suoi scritti statuiscono al momento una realtà di rovinio paesaggistico, urbanistico e storico architettonico che distinguerà l’intera vicenda nazionale futura. Le parole dei titoli appaiono scolpite come reductio ad unum di una critica incontrovertibile: «Brandelli…» si è visto, «I vandali in casa» (dal 1949 al 1956), «La distruzione della natura in Italia» (1975). Se è per questo, altrettanta verità (riportata nel mio incipit) trasmettono le parole di Leonardo Borgese nel titolo L’Italia rovinata dagli italiani (articoli nel Corriere della Sera dal 1946 al 1970, in Edizioni Rizzoli, 2005).
Il giornalista di Repubblica Giovanni Valentini inventa il termine Malpaese, per contrastare l’abuso di Bel Paese ormai locuzione menzognera rispetto alla condizione dell’ambiente italiano. È il 2003. Il secolo breve si è concluso lasciando diversi mucchi di macerie: concreti nel paesaggio marino, collinare, montano, urbano…; astratti nella disciplina urbanistica discesa a mera indecente contrattazione dominata dai privati, concreti in un’architettura (separata per sempre dall’urbanistica) dai conici mucchi quali figurazione di future accozzaglie edificatorie, da avviare per lo più secondo la novità milanese (City Life, inizio ante 2004) del liberismo ultrà in forma di grattacielo: la più insensata e violenta nell’in-appartenenza ai contesti storici e sociali. Non per accidente sarà proprio Salvatore Settis a dedicare un capitolo di Se Venezia muore (Einaudi, 2014) alla Retorica dei grattacieli: «Come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, così l’orpello dei grattacieli di cui Milano ha voluto agghindarsi… non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente “arretrato” e adotta frettolosamente, indossandoli come una maschera, modelli forestieri e posticci. L’antico centro storico ne viene sopraffatto e svilito».
Il 2003 è anno di Premio Viareggio. Il vincitore sarà il nostro storico dell’arte e archeologo con Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale (pubblicato da Einaudi l’anno prima). Di fronte ai tentativi berlusconiani di alienare il patrimonio culturale pubblico, di indebolire la tutela dei beni, di privatizzare i musei, questo «libro di fuoco […che] riguarda tutti noi» (Cesare Garboli, presidente della giuria) dimostra che il compito dei beni culturali e paesaggistici risiede nella Costituzione e nell’identità nazionale; la tutela del patrimonio artistico, archeologico, architettonico, paesaggistico è stata vanto del paese e ogni tentativo della politica reazionaria di demolirne l’importanza è: un crimine (dice lo scrivente).
La Costituzione sarà ancora riferimento imprescindibile nel saggio di Settis diventato da subito testo sacro per coloro che non rinunciano a contrastare le aggressioni in ogni dove e di ogni tipo al paesaggio, da intendersi lato sensu, come nelle parole di Cederna introduttive del presente articolo. Paesaggio Costituzione cemento, pubblicato da Einaudi nel 2012 non è certo un libro superato, anzi è da rileggere adesso giacché sono passati sei anni invano, se mai si coltivassero valide speranze in un cambiamento delle politiche nazionali regionali comunali riguardo al territorio. (E ancora, la Carta della nazione rappresenterà l’intero oggetto del saggio edito da Einaudi nel 2016, non per caso il titolo consisterà nella locuzione solitaria dotata di punto esclamativo, Costituzione! Lo metto da canto e proseguo).
Esistono, in quell’anno 2012, numerose recensioni d’autore, in gran parte condivisibili. Gian Antonio Stella per il Corriere, Francesco Erbani per Repubblica…(et al.). Il tema cruciale è quasi sempre quello della tutela (del paesaggio, del territorio in generale e dei centri urbani) che nel nostro paese è oggi una specie di cane senza padrone abbandonato sull’autostrada. Eppure Settis ci ricorda, circa la tutela e le istituzioni necessarie, la sorprendente continuità di pensiero fra Croce, Bottai e la Costituzione del 1948; non diversamente si muove la strana coppia Nitti e Croce, per i quali la difesa del paesaggio non poteva reggere senza la sconfitta dei grandi proprietari e degli antiquari disonesti, né senza esaltare la concezione di interesse pubblico.
Tale chiarezza nella posizione del grande storico dell’arte è Paolo Leon ad averla segnalata in «L’Indice dei libri del mese». Un critico che merita un’ampia citazione: «Sembra che Settis colga il punto di rottura che caratterizza la fuga dalla tutela nella divisione del paesaggio tra i nuovi ministeri (Beni culturali, Ambiente), nella diversificazione giuridica dei termini (territorio, ambiente, paesaggio) nella moltiplicazione delle autorità responsabili (Regioni, Comuni Province): dissennati divorzi, come li definisce brillantemente». Eppure «ci fu un non infelice inizio degli anni Ottanta quando la mobilitazione dei soprintendenti, della società civile, degli stessi partiti politici sembrava poter aprire le porte a una stagione di tutela e valorizzazione non a servizio degli interessi della rendita. […] Tutto finì col governo del «Caf» […]. Chi ha ucciso quella stagione aveva dalla sua la nuova civiltà economica: dopo Thatcher e Reagan tutto è denaro, il nodo scorsoio del liberismo è andato stringendosi intorno a ogni diritto sociale e ambientale: il paesaggio e i beni culturali sono le vittime di una pessima cultura, non solo del semplice degrado della politica. Consola, tuttavia, che Settis ricordi i nuovi movimenti per i beni comuni».
Invito a considerare una particolarità del titolo sfuggita a tutti, mi pare. Il termine cementificazione (probabilmente impiegato per la prima volta da Antonio Cederna) è sostituito da cemento, seccamente e duramente. Come non pensare a un rapporto, benché filtrato attraverso diversi strati mentali, con il libro Cemento (SE, 1990, orig. 1982) autore Thomas Bernhard, il più grande scrittore austriaco del trentennio 1960-1990? Un’opposizione irrefutabile al potere; un attacco alla corruzione che infesta l’aria; «un capestro infinito da secoli è stretto al collo di questo popolo cieco, nel quale la verità viene calpestata e la menzogna santificata». La cementificazione è un meccanismo di continuità, è un procedere verso un obiettivo di totalità non ancora raggiunta. Cementificare è un piacere, un godimento; una violazione, nel caso di paesaggi, per gratificare, con l’esperienza, sé come Moloch. Il quale infine provvede al Saoc (Sviluppo a ogni costo) riguardo al territorio, vale a dire facendogliene di tutti i colori, travolgendone i paesaggi, odiati e vilipesi se nudi d’abiti cementizi come la storia materna li ha lasciati. A ogni costo, appunto colate su colate fino a alla realizzazione finale di una nuova realtà paesistica di morte perenne, territorio in puro cemento di spessore e durezza inusitati. Così vige il Malpaese, del Bel Paese resta solo il formaggio.
A Sud, 8 settembre 2018. Un articolo da non perdere, che riassume la non volontà di affrontare il problema di questa città e la miopia dei nostri governi nel concepire il concetto di sviluppo, progresso e civiltà. (i.b.)
Che i tarantini debbano continuare a morire è una cosa che si dice dall’inizio degli anni ’70, quando appunto divenne palese che erano condannati a farlo. Quando cominciarono le denunce, le accuse di allarmismo e tutto quel teatrino che accompagna la difesa strenua dei territori da parte di chi li vive, e la rivendicazione del diritto a spolparli da parte di chi se ne appropria.
Chi scrive non è mai stato di parte rispetto a questo o quello schieramento politico, ha sempre voluto fare dei conflitti ambientali la lente per guardare a questo paese e alle sue contraddizioni, annoverando tra i buoni quelli che pensavano che chi abita un territorio debba decidere cosa ci accade, e che nulla debba ledere questo suo diritto e quello alla salute, e tra i cattivi quelli che invece si imponevano per sopraffare questi ultimi, per arricchirsi o arricchire qualcuno, sulla pelle di qualcun altro.
Non c’è nulla di complicato in questo, come non c’è nulla di complicato in quello che è accaduto a Taranto, dove si è consumata una scelta in questo senso da parte del governo, e dove si è consumato il tradimento da parte di chi aveva promesso di combattere il mostro e ha deciso poi di lasciarlo vincere, come sempre.
Una suggestione
Scrivere semplicemente di quello che sta accadendo in questi giorni a Taranto sarebbe un’operazione che lascia il tempo che trova; chi vuole sapere sa già, chi non sa, non ci capirebbe molto, senza andare a ritroso nel tempo.
Su youtube sono disponibili molti video della costruzione dello stabilimento accanto al quartiere Tamburi, e sono tutti ugualmente impressionanti. Ci sono enormi macchine che sradicano ulivi millenari e riducono in poco più che calcinacci masserie secolari, per lasciare spazio a “un’immensa prateria senza ombre né segreti, senza più canto di vento”, dove sarebbe dovuto sorgere l’altare del progresso, la più grande acciaieria d’Europa, il tempio della crescita. Sono tutti uguali, una voce cadenzata racconta di una civiltà millenaria rassegnata, lenta e sonnolenta che dal nulla si è risvegliata e come fuoco guizza ansiosa per raggiungere un domani metallico e artificiale. Il progresso è esaltato come un idolo, una divinità vera e propria, di fronte alla quale non battere ciglio nel sacrificare il proprio figlio primogenito, la propria terra.
Ma se di divinità si trattava, doveva essere una di quelle divinità pagane beffarde, incuranti delle sorti dell’uomo e forse addirittura malvagie nei suoi confronti, vendicative per chissà quale affronto. Sempre su youtube e sempre per gli appassionati del genere si può trovare un documentario del 1962 di Emilio Marsili: “Il pianeta d’acciaio”, dedicato alla nascita delle acciaierie che hanno fatto grande questo Paese, imponendo il proprio contributo al boom economico e lasciando dietro di sé una scia di morti e feriti. La solita voce narrante che racconta le immagini che si susseguono compie esattamente questa operazione: dà corpo e anima all’acciaio e lo presenta come “una creatura tremenda, veramente un mostro e per poterlo domare e trasformarlo in cose l’uomo deve farlo impazzire col fuoco”.
L’unico modo per domare il mostro è il fuoco, ma quello che il documentario di Marsili non ci dice è che il mostro si vendica, e si annida nel sangue dell’eroe che lo doma, e lo avvelena giorno dopo giorno, generazione dopo generazione.
L’acciaio i tarantini ce l’hanno nel sangue, nei polmoni, nel dna. I bambini del quartiere Tamburi hanno quoziente intellettivo inferiore alla media dei loro coetanei, apprendono meno e più lentamente. I problemi respiratori e cardiovascolari e tumorali dei loro genitori, quando non glieli portano via, accrescono il numero di ricoveri e ospedalizzazioni della città in una maniera che è così plateale che nessuno lo nega più. I cittadini di Taranto cadono come soldati in una guerra che nessuno gli ha detto che avrebbero combattuto, in una guerra in cui si sono trovati a loro insaputa, cosa che deve essere decisamente peggiore di quella di sorprendersi a possedere una casa con vista sul Colosseo.
La scelta di Achille
Eppure c’è chi dice che non è così, che i tarantini sono soldati consapevoli e che hanno scelto volontariamente di scendere in battaglia. C’è chi dice che questo è il migliore degli accordi possibile perché rispetta la volontà della città di mantenere lo stabilimento. Uscendo dalla metafora, mandando a casa i mostri e in licenza i soldati, la convinzione diffusa è che questa sia la migliore delle soluzioni possibili, che così la città sarà salva, che è questo quello che volevano gli operai che di Ilva vivono e di Ilva muoiono, che di questo ha bisogno Taranto: che l’Ilva resti in piedi, che sia designato un nuovo custode al tempio.
Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Con l’Ilva si mangia, si beve, si va in vacanza al mare e in montagna. Con l’Ilva si compra la tv, si pagano le rette universitarie di quei figli lontani, andati a studiare altrove. Si compra il guinzaglio al cane, si ricarica il cellulare e si paga la bolletta della luce. Si comprano i detersivi, si paga il canone RAI, si prenotano i viaggi per andare negli ospedali al Nord, per curarsi. Con l’Ilva si fanno un sacco di cose, e poco male se tra le tante si muore pure. Tutti dobbiamo morire, ma prima di morire dobbiamo mangiare, bere, andare in vacanza, pagare le rette eccetera.
Perché questa poi sarebbe la scelta, una contemporanea trasposizione sfigata della scelta di Achille: un duplice fato conduce i tarantini alla morte, da un lato una fine prematura e dolorosa, ma una vita vissuta quanto basta a renderla vivibile, dall’altro lasciare il campo, deporre le armi e rinunciare, condannandosi a una salute lunga e vuota, condotta nella terra dei padri, a invocare la morte perché perduto sarebbe il senso della vita.
Pazzo e criminale è chi ritiene che questa sia una scelta libera.
C'è qualcosa che non torna
E però c’è qualcosa che non torna in tutta questa vicenda, e non torna in maniera così plateale che è uno scandalo che chi lo urla non venga ascoltato. Può davvero essere tutto? Può davvero doversi chiudere così la vicenda? Questa è una storia che inizia da lontano e che in teoria è tutta da scrivere, ma ogni volta che qualcuno prende la penna in mano continua a restare invischiato nella stessa vicenda, come se non ci fosse altro modo, come se non avesse strumenti e mezzi per rompere quella narrazione e cominciarne un’altra, inventare un altro mondo. Nessuno resta mai davvero imprigionato in una storia, anche in questo caso si tratta di una scelta: è possibile una Taranto senza Ilva? Forse la risposta è che non è possibile questa Taranto senza Ilva, ma chi lo ha detto che Taranto debba essere questa?
Prima che arrivasse l’acciaio, quando ai Tamburi c’erano le rose e la gente ci andava a respirare l’aria buona per curare i problemi respiratori, quando di sera si vedevano le lucciole, quella non era Taranto? Quando nel mar Piccolo si coltivavano le ostriche, in che città si stava? E l’obiezione è che non c’era lo sviluppo? Non c’era il progresso? In quella città si produce con tecniche così vecchie e lo stabilimento è così in perdita che è un miracolo se arriverà a diec’anni di sopravvivenza da oggi. Se alle cifre che l’Ilva perde ogni giorno (un milione di euro, ogni giorno) sommassimo quelle che di Sanità si spende per curare o seppellire i tarantini, e se a queste aggiungessimo quelle delle cinquecento vite spezzate da quando lo stabilimento è aperto (sì, sono 500 i morti sul lavoro solo in acciaieria da quando esiste), e facessimo una stima di quanto potrebbero portare alla città i contributi di tutti i giovani che, appena possono, fuggono il più lontano possibile, e al calcolo imponessimo anche queste cifre, quanto colossale sarebbe l’investimento che si potrebbe fare per disegnare da capo Taranto?
E allora, in tutta questa vicenda, l'unica scelta libera è quella operata dal governo in questi giorni
L’unica verità che possiamo dire è questa: la soluzione attesa da chi aveva promesso e si era ripromesso di mettere fine al massacro che da decenni silenziosamente si è abbattuto sulla città, al solito meccanismo che arricchisce pochi, ammazza molti e mette sotto ricatto tutti, è stata semplicemente riconfermare quello che negli ultimi sei anni ogni governo, di ogni forma e colore, ha perpetuato. Ogni cosa: il ricatto occupazionale, nessun vincolo reale sulle bonifiche, nessun progetto di riqualificazione, addirittura la vergognosa clausola di immunità penale garantita dal governo Renzi a chiunque avesse ripreso lo stabilimento.
Nessuno chiedeva al governo di mettere per strada oltre 10000 famiglie: quello che si chiedeva era una soluzione politica che spezzasse il ricatto tra lavoro e salute. Si chiedeva una visione ampia, che rispondesse alle esigenze di una città senza condannarla a morte. Si chiedeva una visione altra, che puntasse alla crescita della città sviluppandola secondo le proprie capacità, mettendo fine a quarant’anni di imposizione di una vocazione industriale che Taranto non ha avuto mai. Si chiedeva di non sacrificare ancora una volta i tarantini sull’altare degli interessi politici ed economici di chi se ne sta da un’altra parte a ingrassare sul disastro. Si chiedeva di abbattere il mostro, e non divenire suoi sodali.