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Un appello delle associazioni cittadine romane per la tutela del territorio perché, prima di decidere, il sindaco Marino apra una discussione responsabile nella città su un intervento, legittimato da aberranti decisioni nazionali, che sconvolgerebbe gran parte della capitale d'Italia. Carte in regola, 30 agosto 2014


Carte in regola - per una nuova cultura delle regole è un sito e un'associazione che raggruppa numerose associazioni, comitati e altri gruppi di cittadinanza attiva che operano nel territorioromano.

Si avvicina il termine (4 settembre) in cui il Comune di Roma dovrà esprimersi sul progetto dello Stadio della Roma a Tor di Valle, dopo la “bocciatura” dello studio di fattibilità presentato a luglio da James Pallotta, presidente della A.S Roma, e dal costruttore Parnasi, e le condizioni “sine qua non” consegnate alla Newco, la settimana scorsa a New York, dal Sindaco e dall’Assessore Caudo, che dovrebbero essere state accettate dai proponenti .

Un progetto che resta fortemente osteggiato da un fronte decisamente eterogeneo, che spazia dai competitors Caltagirone e Bonifaci, che dalle colonne dei quotidiani di proprietà sparano a zero sulla proposta della A.S Roma e della Eurnova di Parnasi, ai politici soprattutto di centrosinistra, alle associazioni ambientaliste. E se noi continuiamo a non essere affatto convinti dell’operazione, dobbiamo dire che non ci convincono neanche le tante “conversioni” alla causa, a partire da quella dell’editore del Messaggero. E, come al solito, continuiamo a ragionare sui fatti e sui dati, sgombrando il dalle strumentalizzazioni, e soprattutto ponendo le domande indispensabili per capire come stanno davvero le cose.

Ma fin da ora rivolgiamo un nuovo appello al Sindaco affinchè “fermi la macchina” e sospenda la decisione sul pubblico interesse della proposta, avviando immediatamente un confronto con tutte le istituzioni – compresi i Municipi – e soprattutto con la città, intesa come cittadini e realtà dei territori. In ballo non c’è la messa in sicurezza di un impianto sportivo di provincia, ma un’operazione urbanistica e immobiliare di grande portata, che interessa una consistente fetta di territorio della Capitale d’Italia. E che è anche il primo “banco di prova” di una iniziativa legislativa del Governo Letta assolutamente inaccettabile, che consiste in due commi ambigui e generici, che sono già stati interpretati in maniera opposta da diversi esponenti della stessa maggioranza.

Un appello perché:

Chiediamo a Ignazio Marino di utilizzare tutta la sua autorevolezza di Sindaco di Roma Capitale per chiedere al Presidente Matteo Renzi di garantire l’interesse della nostra città: per regolare un progetto complesso come quello della costruzione e della sostenibilità economica di uno stadio è necessaria una legge dedicata, esaustiva e soprattutto univoca. Sul fronte dell’urbanistica, Roma ha già pagato altissimi prezzi, con focolai di insostenibilità sparsi in ogni municipio, a cui l’assessore Caudo lavora instancabilmente da più di un anno, per rilanciare un’altra idea di città. Continuiamo su questo percorso. Cambiamo tutto, insieme ai cittadini.

Riferimenti

Nel sito carteinregola potete trovare aggiornati dossier sull'argomento.

Le parole bugiarde e i fatti veri. Con lo "sblocca Italia si «confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici».Huffington post, 1 settembre 2014

Uno dei miglior talenti di Renzi è quello di azzeccare slogan e parole d'ordine. Lo «Sblocca Italia», ad esempio, è una locuzione molto efficace, corredata da alcuni leitmotiv già noti e da un impianto di sinonimie superficiali e scorrette. Tra tutte mi concentrerò su un solo esempio - il governo del territorio e del patrimonio comune - ma potremmo farne altri.

La politica messa in atto confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici. Il rischio che ne consegue, sempre più grave e urgente, è che beni demaniali, patrimonio di tutti i cittadini, diventino risorse disponibili solo a colossi finanziari e investitori privati. Per farsi un'idea precisa, basta guardare le proposta di modifica delle procedure per la riqualificazione dei beni del Demanio, incluse le caserme in dismissione, presentate nello Sblocca Italia.

Per le concessioni si introduce una norma sperimentale che cambia radicalmente il modus operandi dell'Agenzia del Demanio: il bene non sarà più offerto in concessione dallo Stato tramite una gara. D'ora in poi sarà direttamente il privato che individuerà il bene, stilerà il progetto e farà una proposta alla presidenza del Consiglio dei ministri. Il campo d'applicazione di questa proposta, così come appare nella bozza dello Sblocca Italia, è molto vasta: sono esclusi solo beni e aree a inedificabilità assoluta.

Non saranno movimenti e comitati a poter presentare queste proposte, per chiedere in concessione e valorizzare le pratiche di autorecupero del territorio, ma solo società di gestione risparmio (Sgr) e imprese, anche con la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti.

Per la vendita e la valorizzazione, Agenzia del Demanio e Ministero della Difesa individueranno gli immobili, poi entro un mese il Demanio dovrà proporre al Comune una nuova destinazione urbanistica, la quale dovrà essere approvata entro i successivi 4 mesi. L'Ente comunale riceverà una quota dei ricavi derivanti dalla vendita in maniera inversamente proporzionale al tempo impiegato per l'iter di approvazione (con ricavi che oscillano tra il 35% e il 5%). L'iper velocità delle operazioni non aiuterà certo la partecipazione alla scelta da parte della cittadinanza, né favorirà la discussione pubblica sul futuro di un bene comune da riutilizzare.

La semplificazione sulle concessioni e sulla vendita del patrimonio pubblico in disuso, con le nuove procedure per cambio di destinazione d'uso e varianti urbanistiche, con l'apertura di una corsia preferenziale per i privati che hanno progetti senza oneri per lo Stato, è una misura che favorirà la privatizzazione selvaggia. Mentre non c'è traccia di misure a favore dell'affidamento del patrimonio immobiliare in disuso a reti di cittadini e comitati che se ne prenderebbero cura senza finalità di profitto.

La guerra alla burocrazia, a cui allude l'efficace slogan di Renzi nasconde l'obiettivo di far cassa presto, per pagare debiti inestinguibili e ingiusti, svendendo pezzi d'Italia attraverso una privatizzazione senza regole, che distrugge il territorio e ci impoverisce tutti.

È una politica che procede incontrastata da decenni di liberismo, nonostante il lavoro di movimenti e associazioni, spesso senza rappresentanza politica, che tentano promuovono pratiche di valorizzazione e difesa di beni comuni. Sarebbe stato più onesto chiamarlo lo Svendi-Italia....

Pare un trafiletto di locale, forse lo è, ma di sicuro indica un possibile ribaltamento storico di tendenza: la progressiva colmata della greenbelt metropolitana non è più un dogma urbanistico. La Repubblica Milano, 27 agosto 2014, con postilla (f.b.)

È stata una piccola festa con tanto di brindisi quella che ha celebrato la fine di un contenzioso lungo 32 anni con la proprietà Ligresti e, soprattutto, l’inizio di un nuova storia che vuole scrivere Palazzo Marino. Perché, dopo tre decenni di timori che su questo pezzo di Parco Sud calasse il cemento, da ieri la cascina Campazzo è passata al Comune. Che, adesso, punta alla riqualificazione dell’edificio e alla «creazione del parco agricolo Ticinello di oltre 90 ettari».

Il cuneo verde di cui si parla è quello più a sinistra

A scrivere la parola fine è stata la decisione del Tar della Lombardia che ha respinto le richieste di sospensiva avanzate dalla proprietà dell’immobile contro due provvedimenti dell’amministrazione comunale: il decreto di esproprio dell’11 dicembre 2013 e l’avviso di esecuzione del decreto del 20 maggio 2014. «È una vittoria della città e degli agricoltori — ha dichiarato il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — resa possibile grazie alla modifica del Piano di governo del territorio: non abbiamo mai accettato di barattare questo simbolo dell’agricoltura milanese con i tentativi di speculazione sul parco, e abbiamo difeso l’attività agricola che è parte fondamentale dell’identità della nostra città».

Il Comune è già intervenuto per mettere in sicurezza la cascina, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione. Il recupero della cascina Campazzo, dove da sessant’anni vive e lavora la famiglia di Andrea Falappi, il presidente del Distretto agricolo milanese, si affianca alla realizzazione del parco Ticinello. «Finalmente giunge a conclusione una vicenda nata nel 1982. Si è fatta giustizia », ha detto il presidente di Zona 5, Aldo Ugliano.

Il terreno appena a sud della cascina. Foto F. Bottini

postilla
Se 90 ettari vi sembrano pochi, ma resterebbe una questione comunque puntuale, non fosse per il nome di Salvatore Ligresti, e il suo marchio su tante altre cose che a quei 90 ettari stanno attorno, ovvero la grande greenbelt agricola metropolitana che proprio questa superficie relativamente piccola articola in un cuneo, dall'anticamera della zona delle prime risaie a ridosso della zona urbana densa, ovvero la circonvallazione esterna distante un tiro di sasso dall'edificio della cascina. Ligresti è uno di quei tizi che dicono “a che serve il piano regolatore, noi sappiamo regolarci benissimo da soli”, e quel regolarsi da soli si è chiamato per un certo periodo urbanistica contrattata, per un altro periodo urbanistica tout court, quella del non-piano che cambiava per legge allo spuntare di un nuovo progettone degli amici degli amici che avevano la grossa idea, più o meno sempre la stessa. Il famigerato Centro Ricerche Biomediche di Umberto Veronesi starebbe sulla medesima linea di attacco alla greenbelt (60 ettari) poco più a est. Giusto in fregio ai terreni appena salvati dalla decisione del Tribunale, si profilano i palazzoni di uno di quei progetti storici che hanno fatto da modello ai successivi Piani Integrati di Maurizio Lupi, l'asse di via dei Missaglia, triste caricatura di un altro quartiere, stavolta incolpevolmente razionalista anni '50, il Gratosoglio, giusto lì di fronte, quando la fame di case era vera. Dopo la sentenza del Tar, verrebbe voglia di tirar fuori il solito Cuneo Rosso di El Lisitskij, ma qui non siamo nell'ambiente facilone di Facebook, e si auspica invece che anche gli altri progetti strampalati dell'ex deus ex machina della trasformazione urbana a vanvera non facciano troppi danni. Mentre la questione greenbelt ahimè con le ultime opere Expo si allarga a territori più vasti, ma questa è un'altra storia (f.b.)

Asili nido: NO, Difesa del suolo: NO,Trasporti pubblici locali: NO, Restauro e manutenzione dei beni culturali: NO, Salute: NO, Spazi e servizi pubblici per tutti: NO. Invece Grandi opere inutili SI, SI, SI, SI. Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2014

Stanno costruendo un cavo elettrico dal Montenegro all’Italia che passa sotto l'Adriatico, costa un miliardo di euro e di fatto ci costringe a comprare l'elettricità dai Balcani a un prezzo più che doppio di quello di mercato. Nonostante l'Italia, soprattutto nel Sud, stia producendo molta più energia di quella necessaria e non sapendo che farsene debba venderla all'estero , per esempio alla Grecia. Una grande e costosissima opera, pensata e decisa in un'altra epoca, prima che la crisi facesse precipitare i consumi di elettricità. Un'infrastruttura che produrrà all'Italia più svantaggi che vantaggi, almeno nell'immediato e nel breve periodo, regalandoci bollette più care fino al 3 per cento secondo le valutazioni dell'Autorità dell'energia, nel caso teorico il cavo fosse pagato subito e in una sola soluzione.

Nonostante queste controindicazioni, i lavori per il gigantesco elettrodotto di mille Megawatt di potenza sono in pieno svolgimento per collegare Villanova in provincia di Pescara con l’area montenegrina di Tivat-Kotor. Il cavo è lungo 415 chilometri, 390 passano sotto il mare, 15 nella terraferma italiana e 10 in Montenegro. Sul versante montenegrino i lavori sono in fase preparatoria, in Italia invece procedono spediti. Come se quel collegamento fosse ancora una priorità e un investimento vantaggioso e non indifferibile per gli italiani.

In realtà c'è chi ci guadagna con l'elettrodotto italo-balcanico: il gruppo Seci-Maccaferri di Bologna che con sorprendente tempismo è andato a costruire una decina di centrali idroelettriche proprio nei Balcani, in Serbia, a ridosso del Montenegro. L'intervento di Maccaferri è gigantesco: 800 milioni di euro per tre centrali idroelettriche lungo la Drina e altri 300 milioni per altre piccole centrali sull’Ibar. Il costo è per il 51 per cento a carico del gruppo bolognese e per il 49 per cento dalla società Eps (Elektroprivreda Srbije).

Quando anni fa apparvero sui giornali le notizie che davano conto dell'operazione Maccaferri, il significato di quell'investimento non fu capito. Il gruppo bolognese, invece, sapeva ciò che stava facendo, avendo probabilmente avuto fin da allora l'assicurazione da chi poteva darla che l'Italia avrebbe sicuramente comprato quell'elettricità prodotta così lontano dai confini nazionali. Il calcolo si è rivelato esatto. In forza di accordi internazionali con la Serbia, il cavo trasporterà in Italia l'elettricità serba di Maccaferri a 155 euro al Megawatt, più del doppio rispetto ai 63 euro del costo medio rilevato alla Borsa elettrica italiana nel 2013. Quelle intese portano le firme di due ministri di governi di centrodestra, entrambi assai vicini a Silvio Berlusconi: Claudio Scajola nel 2009 e Paolo Romani nel 2011. Dopo aver riposato nel cassetto di qualche ufficio, forse anche a causa dei numerosi cambi di governo, quei trattati vengono ripescati proprio nel momento in cui partono i lavori del cavo sottomarino e ora si trovano in Senato per la ratifica. La discussione riprende a settembre. Una volta approvate, quelle intese diventano operative e vincolanti. E il grande affare dell'elettricità balcanica inarrestabile.

La storia del cavo Montenegro-Italia era cominciata in un'altra stagione politica: 2007, secondo governo Prodi, ministro dello Sviluppo Pier Luigi Bersani che nel dicembre di quell'anno volò in Montenegro a firmare un accordo per l'elettrodotto. Di cui allora forse c'era davvero bisogno. A Terna, la società pubblica per la trasmissione dell'elettricità che materialmente sta realizzando l'opera, spiegano che il cavo serve per “magliare” il Centro e soprattutto il Sud. Per evitare cioè che quelle zone d'Italia restino svantaggiate, meno sicure e rifornite di elettricità rispetto al resto del Paese. L'ok alla costruzione del cavo è stato dato dal ministero dello Sviluppo per tre anni di fila (2009, 2010 e 2011).

Anche l'Autorità per l'energia ha detto sì, anche se ora sono diventati assai titubanti. Fino al punto di chiedere al Consiglio di Stato perché mai l'Italia si debba svenare pagando perfino la parte di cavo che si trova in territorio montenegrino.

Una lezione di territorio e di storia: e sulla storia, sul suo legame col territorio, sull'insegnamento che ciò che ci sta intorno fornisce a chiunque di noi abbia ben aperti gli occhi della mente. Il Fatto quotidiano, 25 agosto 2014

Il tempo liberato dell'estate permette di viaggiare: nello spazio, e dunque anche nel tempo. Usciamo dalle nostre città, anche se solo per qualche giorno, ed abitiamo in luoghi che conosciamo un po' di meno. E che quindi riescono a tenere viva la nostra curiosità, la nostra voglia di imparare. Quante storie raccontano i paesi di mare, che attraversiamo di corsa, cercando la spiaggia!

In Maremma, per esempio, a pochi chilometri, nell'interno, da uno dei più famosi luoghi di mare toscani (Castiglion della Pescaia) sorge la minuscola Vetulonia. Nel 1840 – quando questo paesino si chiamava Colonna di Buriano – fu ritrovato a Cerveteri (non molto più a sud) un bassorilievo romano che rappresentava la città etrusca di Vetulonia.

Era stata una città famosa, quella: gli storici antichi dicevano che alcuni simboli del potere imperiale romano, li avevano inventati proprio i re etruschi di Vetulonia. Tra di essi il fascio littorio (simbolo della giustizia, ma destinato a un futuro terribile) e la sella curule, una specie di sgabello pieghevole che oggi si chiama faldistorio, anche se lo usa ancora quasi solo il papa.

E allora, dov'era finita Vetulonia, che gli etruschi chiamavano Vatl? Ebbene, il 27 maggio del 1880 Isidoro Falchi (un medico col pallino dell'archeologia) visitò Colonna, e capì che proprio quel paesino maremmano sperduto poteva essere stato una delle città più famose dell'antichità. I suoi scavi lo dimostrarono anche agli increduli: e nel 1887 «Umberto I re d'Italia rese a Colonna l'antico nome di Vetulonia», come ricorda ancora oggi una lapide.

Ma cosa colpì la fantasia di Falchi, in quel giorno decisivo del 1880, quando mise piede a Colonna per la prima volta? Certo furono le mura formate da enormi blocchi di pietre: tanto grandi che sembravano costruite dai ciclopi, mitici giganti dell'antichità. Un tratto di quelle mura è nel cuore del paese, sulla cima del colle più alto. Oggi si pensa che non fossero mura di difesa, ma che si trattasse del basamento di un tempio, che sorgeva proprio dove ora è la chiesa. Quel muro di pietre enormi fu probabilmente costruito proprio quando Alessandro Magno conquistava il mondo con le armi e Aristotele scriveva libri che l'avrebbero conquistato per sempre. E su quelle mura antichissime e ciclopiche oggi sorgono case normali, dove abitano persone normali. Questa è la meraviglia dell'Italia: che non è un museo, ma un corpo vivo che deve solo ritrovare la memoria di sé. E anche a questo può servire un lungo agosto piovoso.

Chi riuscirà a diventare più ricco e potente sfruttando gli errori compiuti da amministratori pubblici incapaci e impunibili? Non c’è che da aspettare e vedere. Il Fatto quotidiano, 21 agosto 2014

Cercasi masochista con fisico bestiale, grande pazienza e soprattutto tanti soldi, per lavare il peccato originale di Expo. È stato lanciato il bando per il dopo-Expo: l’esposizione, bene o male, si farà; tutta da decidere è invece la sorte dell’area, dopo che nel 2016 saranno smontati i padiglioni. Che cosa farne? Arexpo, la società pubblica che ha comprato i terreni e li ha messi a disposizione di Expo Spa, ora deve trovare a chi rivenderli, per far rientrare i soldi sborsati dai soci (Comune di Milano, Regione Lombardia, Fondazione Fiera, Provincia di Milano, Comune di Rho) e prestati dalle banche. Ecco dunque il bando preparato da Arexpo che lancia una gara pubblica per scegliere il compratore. Le offerte dovranno essere consegnate entro il 15 novembre 2014. Una commissione indipendente sceglierà la migliore entro il 30 novembre.

Non ci sarà, prevedibilmente, una folla di pretendenti né una corsa per arrivare primi. Perché le condizioni sono buone per il bene comune, ma praticamente improponibili per un privato. Secondo il bando, avrà l’area l’operatore (o il gruppo di operatori) che ci metterà almeno 315,4 milioni di euro, non un centesimo di meno, gradita qualche cosa in più. Poi però non potrà farci quello che vuole: dovrà lasciare a parco metà dell’area (440 mila metri quadrati); quanto al resto (480 mila metri quadrati, comunque sufficienti a costruirci l’ennesimo quartiere), dovrà edificare il meno possibile, mischiando residenza, uffici, spazi produttivi e negozi (ma non un grande centro commerciale: al massimo 2500 metri quadrati). Preferite opere di uso pubblico, tipo il nuovo stadio del Milan, la cittadella dello sport, un nuovo centro di produzione della Rai e attività che abbiano a che fare con il tema Expo, cioè il cibo, l’agricoltura, l’ambiente.

Non solo: dovrà pure aspettare che, nel 2016 o nel 2017, siano i Consigli comunali di Milano e Rho ad approvare – se e come vorranno – i piani urbanistici. Più che un operatore, si cerca un santo. Disposto a lavare a sue spese il peccato originale di Expo: quello di essere stato localizzato (dall’ex sindaco Letizia Moratti e dall’ex presidente Roberto Formigoni) su un’area privata. Pagata a caro prezzo da Comune e Regione, con la necessità, a cose fatte, di far rientrare i soldi (nostri). Si poteva fare su un terreno pubblico? Sì: sull’area Porto di Mare, o alla Bovisa. Invece Formigoni ha imposto quell’area sbilenca a nord-ovest di Milano chiusa tra due autostrade, il carcere di Bollate e il cimitero di Musocco. Perché? Perché era in gran parte della Fondazione Fiera (ai tempi della scelta controllata dai ciellini formigoniani) che aveva i conti in rosso: con l’operazione Expo li ha sistemati.

A questo proposito, bisogna dire che alla conferenza stampa di presentazione del bando si è distinto proprio il rappresentante della Fiera, Corrado Peraboni (ieri leghista, oggi forse ex leghista, sempre certamente peraboniano). Mentre il vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris, si è laicamente appellata all’ottimismo della volontà (abbiamo ereditato questa situazione, dobbiamo cercare di uscirne vivi) e il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto trapelare un certo distacco (stiamo a vedere che cosa succederà), Peraboni è venuto a farci la morale, sostenendo che deve prevalere l’interesse pubblico: proprio lui che rappresenta la Fondazione che è all’origine di questo pasticcio e che, in pieno conflitto d’interessi, ha venduto a se stessa (in quanto socio di Arexpo) le sue aree per rimettere in sesto i conti disastrati. È come se Diabolik facesse uno spot contro i furti di diamanti. O se Schettino fosse chiamato, che so, a far lezione all’università.

Che cosa c'è dietro lo scontro tra rabbia e repressione a Ferguson City; e, per chi sa leggere la città d'oggi, anche altrove. Millennio urbano, 20 agosto 2014

Dal sito Millennio urbano riprendiamo questo articolo (pubblicato originariamente da CBS News, 19 agosto 2014, col titolo: Hit by poverty, Ferguson reflects the new suburbs) scelto tradotto e commentato in calce da Fabrizio Bottini.

Il violento confronto fra polizia e cittadini a Ferguson, Missouri, evidenzia lo sconvolgimento demografico che interessa le fasce suburbane, dove oggi abita la maggioranza della popolazione povera del paese. Nelle 100 principali aree statistiche metropolitane si è assistito a un drastico impennarsi dei poveri nel suburbio, secondo le ricerche della Brookings Institution. La quantità di zone dove oltre il 20% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà federale è più che raddoppiata dopo il 2000. Non solo cresce, questa povertà, ma si concentra in aree specifiche. Nel 2012, il 38% dei poveri suburbani stava in quartieri con oltre il 20% di povertà, secondo i calcoli della Brookings. Per quanto riguarda i poveri neri, è il 53% ad abitare zone con tassi di povertà oltre il 20%.

“All’inizio degli anni 2000 le cinque circoscrizioni censuarie in cui si articola la zona di Ferguson registravano tassi di povertà oscillanti fra il 4% e il 16%” commenta l’analista della Brookings Elizabeth Kneebone in un post recente. “Ma nel periodo 2008-2012 quasi tutta Ferguson supera la quota del 20% e iniziano ad emergere gli effetti negativi della povertà concentrata”. Effetti che comprendono scarse possibilità di trovarsi un lavoro o di avere assistenza sanitaria, scuole di bassissimo livello, elevati tassi di criminalità. “Rileviamo come i quartieri suburbani poveri siano più propensi al tracollo sociale di quanto non avvenga in equivalenti contesti urbani, specie per quanto riguarda la possibilità di migliorare” scriveva l’anno scorso in una relazione Alexandra Murphy del National Poverty Center all’Università del Michigan.

Ferguson è emblematica di questo impatto della povertà sul suburbio americano. Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato, da meno del 5% nel 2000 a più del 13% nel 2010-12. Secondo l’ufficio censimento nel 2012 un abitante su quattro era al di sotto della soglia di povertà federale (ovvero viveva con meno di 23.492 dollari in una famiglia di quattro persone), e il 44% era ben due volte sotto quella soglia. Il reddito pro capite di Ferguson di 21.000 dollari la colloca all’ottantottesimo posto fra le 140 circoscrizioni cittadine del Missouri, secondo i calcoli del sito BiggestUSCities.com, mentre il reddito medio familiare con 36.645 dollari è al centotreesimo.

“Per chi abita a Ferguson e ha un lavoro, il reddito reale è stato falcidiato di un terzo dall’inflazione” aggiunge Kneebone della Brookings. “Il numero delle famiglie che usano i buoni casa federali è salito più o meno da 300 nel 2000 a oltre 800 alla fine del decennio”. Oltre alla crescita della povertà, si aggiunge un cambio nella composizione razziale di parecchi suburbi Usa. Un cambio che non trova corrispettivo nelle classi dirigenti locali. Gli scontri di Ferguson avvengono dopo l’uccisione di Michael Brown, nero disarmato a cui ha sparato un poliziotto. E sia l’amministrazione cittadina che la polizia qui sono in stragrande maggioranza bianche, con una popolazione afroamericana al 67%.

Secondo una ricerca dell’American Communities Project alla American University, “Nel 2000 i suburbi erano al 67% bianchi e non ispanici, al 12% afroamericani, al 13% ispanici. Nel 2012, la popolazione bianca non ispanica era scesa al 59%, l’afroamericana cresciuta al 13% e la ispanica circa il 18%”. A livello nazionale i poveri mostrano bassi livelli di partecipazione al voto, e ciò si conferma a Ferguson. Gli abitanti sono 15.000 maggiorenni, ma per le ultime votazioni al sindaco lo scorso aprile si sono espressi solo in 1.350, confermando senza alcuna opposizione James Knowles III. Alle elezioni consiliari del 2013 i voti sono stati 1.500. Nel 2011 un consigliere si è insediato per un totale di 72 consensi.

Commento
Vedi anche Michela Barzi Nuove povertà suburbane, Millennio Urbano 22 dicembre 2013; e del resto il tema della povertà suburbana, sempre ufficialmente messo in secondo piano, è all’ordine del giorno da quasi un decennio come si deduce anche da questi primi studi della Brookings Institution datati 2006, Cfr. I sobborghi sempre più vecchi e poveri, Mall 20 agosto 2006

Cresce l’opposizione al devastante progetto di sventrare la Laguna di Venezia per consentire ai Giganti del mare di scaricare miriadi di turisti “mordi e fuggi”. Articoli dal Gazzettino di Venezia e dal Corriere del Veneto, 19 e 20 agosto 2014

Il Gazzettino, 19 agosto 2014
Grandi navi, il Pd "silura" il Pd
di Michele Fullin

Quattordici esponenti dei circoli della cittá storica e delle isole contestano la linea dei vertici del partito

La base avverte i segretari e i futuri candidati sindaco: «Dovranno dire cosa ne pensano e agire» Le grandi navi diventano terreno di scontro politico interno al Pd. La base, infatti, si ribella alla linea finora tenuta dal partito e dall'amministrazione comunale sul tema, ritenendola troppo morbida e invita (ma suona come una minaccia) chiunque si proporrà a guidare la città tra il 2015 e il 2020 a tenerlo ben presente. «Chi pensa di candidarsi o di candidare qualcuno al governo di Venezia - il riferimento è soprattutto ai vertici del partito - per le amministrative della prossima primavera dovrà ben dire cosa pensa e cosa si propone di fare su questi temi». Il "manifesto" che invita il partito che governa la città da decenni è stato sottoscritto da 14 componenti dei circoli locali della città e delle isole: Alberto Bernstein, Antonio Rusconi, Cecilia To-non, Enzo Castelli, Federica Travagnin, Francesco Pedrini , Gilberto Scarpa, Giorgio Nardo, Luciana Mion, Marco Zanetti, Monica Da Cortà Fumei, Raimondo Ruzzier, Roberto Vianello, Serena Ragno. Si tratta di un documento che non le manda a dire a nessuno e che porta un po' di aria nuova rispetto alle note ufficiali del partito, ritenute eccessivamente ecumeniche. «Il "capitano di lungo corso" Paolo Costa - dicono - è riuscito ad ammutolire pure il maggior partito della città, il Pd, che solo una ventina di giorni prima della decisione del Comitatone sullo scavo del Contorta aveva preso posizione mettendo in primo piano la salvaguardia della laguna e chiedendo il confronto di tutte le alternative in campo e che sia garantita informazione e partecipazione del pubblico». Questo, fanno notare, a differenza di Italia Nostra che ha chiesto subito le dimissioni del ministro dell'Ambiente, reo di aver fatto passare il progetto in Comitatone. Tuttavia, ci sarebbe poco da stare tranquilli, persino per i fautori dello scavo del canale Contorta Sant'Angelo. «La decisione - afferma la base del Pd veneziano - non ha risolto un bel niente, come ha osservato anche il presidente di Confindustria, Gianfranco Zoppas: costi e tempi di realizzazione sono ancora incerti e il sistema decisionale assomiglia troppo a quello di un nuovo Mose».

Corriere del Veneto, 20 agosto 2014
Firme dall'Europa contro il Contorta
E il nuovo canale divide i democratici
di G.B.

Firme raddoppiate, in nemmeno due giorni le adesioni alla petizione contro lo scavo del canale Contorta sono passate da 400 a 965. Mentre è bufera all'interno del Partito democratico, perché un gruppo di militanti si è schierato contro la decisione del Comitatone. «La scelta non ha risolto un bel nulla — si legge nella lettera sottoscritta da 22 attivisti —, il sistema decisionale assomiglia troppo a un nuovo Mo se, la politica si è sottratta alle sue responsabilità cedendo al piglio di un capitano di lungo corso come Paolo Costa, già rettore, sindaco, ministro e ora presidente del Porto». I toni sono severi e accusano il Pd di essersi ammutolito. «Chi pensa di candidarsi o candidare qualcuno al governo di Venezia dovrà ben dire cosa pensa e si propone di fare sulle navi», concludono i 22 tra cui ci sono l'ex presidente di Avm Giorgio Nardo, l'ex consigliere provinciale Serena Ragno, l'ex presidente di Municipalità Enzo Castelli, il docente di luav Antonio Rusconi, Marco Zanetti e William Pinarello, attivi nelle lotte ambientaliste del Lido. La petizione invece, lanciata su Facebook dal neonato gruppo «Per l'isola di Sant'Angelo e la nostra laguna» e sul portale «change.org» dal Gruppo 25 aprile sta ottenendo adesioni da ogni angolo d'Italia e dall'Europa, tutti indignati per una scelta che sarebbe contraria alla tutela ambientale di Venezia. L'obiettivo iniziale era di arrivare a mille firme per inviare quindi il documento al premier Matteo Renzi ma è facile che il numero sia abbondantemente superato. Tra i firmatari anche lo scrittore Alvise Zorzi: «Aderisco con entusiasmo all'appello che spero possa salvare dalla cecità dei politici la nostra Laguna e di riflesso la nostra Venezia».

La Repubblica, 18 agosto 2014

Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi di Riace sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, esposizioni commerciali e altri “grandi eventi”, dove — vuole la leggenda — innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. facendo così dimenticare a politici e banchieri assai sospettosi dell’Italia il debito pubblico, la recessione, la disoccupazione, la devastazione dei paesaggi, l’evasione fiscale, il declino della scuola, dell’università, della ricerca.
L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità, per esempio il Davide di Donatello, trascinato qualche anno fa alla Fiera di Milano. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi che, deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8, sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti.

In restauro per anni, i Bronzi di Riace sono stati visibili poco o niente, e solo da qualche mese sono di nuovo in vista: ragione sufficiente per non smuoverli dai loro piedistalli antisismici, nonché per rinnovare strategie espositive e attrattive. Di fronte alle proposte di spedirli a Milano per l’Expo, Franceschini parla di una commissione ad hoc: ma il suo ministero ha un organo tecnico, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che è in grado di fornirgli domattina tutta la documentazione necessaria (e che già si oppose ad altre peregrinazioni dei Bronzi). Ma quel che l’Istituto (o qualsivoglia commissione di esperti) dirà è scontato: sono tanto preziosi e vulnerabili che meno si muovono meglio è.

Eppure non è tutto qui. Davanti a una sgangherata industria delle mostre, chiediamoci: dato che ogni movimento comporta rischi, quando vale la pena di muovere un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare. Anche se ci hanno già pensato in molti, per esempio Quatremère de Quincy, con la sua folgorante osservazione (1796) che perfino un quadro di Raffaello, se fuori contesto, non dice nulla, perché non è una reliquia, come un frammento della Croce, che possa «comunicare le virtù legate all’insieme ». Le mostre servono solo se creano trame di relazioni accostando opere normalmente lontane. Servono se nascono da un progetto, da una ricerca; se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico.

Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale. È ingranaggio essenziale di un diritto alla cultura oggi mortificato in ogni suo aspetto, dalla scuola al teatro. Inutile, anzi controproducente usare i Bronzi come paravento per nascondere l’indifferenza dei governi ai temi della cultura. Se davvero vogliamo avere qualcosa di cui vantarci all’Expo, meno icone e più fatti. A Franceschini auguriamo che riesca davvero, come ha dichiarato a Repubblica , a raddoppiare i finanziamenti al suo ministero nella prossima legge di stabilità. Non si farebbe che tornare ai livelli del 2008, quando Tremonti li dimezzò, fra grandi proteste della sinistra, che però finora non vi ha posto alcun rimedio. Proprio perché vetrina d’Italia, l’Expo può essere l’occasione di investire sul nostro patrimonio, e non di sbandierare icone.

Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2014

Roma. “Palazzinaro amaro sei un palazzinaro baro per tutto il male fatto a Roma adesso paghi caro al funerale del tuo centro commerciale è bellissimo vedere il nostro lago naturale”.

Cantano così gli “Assalti Frontali” con “Il Muro del canto”, insieme a migliaia di attivisti, cittadini e comitati. I Comitatini di tutta Italia, tanto cari a Renzi e ad i suoi predecessori, sbeffeggiati, derisi e spesso manganellati.

Cosa c’entra l’underground con le buone pratiche? C’entra. C’entra molto. Perché le buone pratiche, spesso, nascono dal basso, dai movimenti, da chi spinge per migliorare la qualità della vita senza ricoprire cariche amministrative o politiche. Da chi scrive canzoni come Militant A, voce degli Assalti Frontali.

Sull’area dismessa della ex fabbrica tessile Snia Viscosa,10 mila metri quadri dove hanno lavorato negli anni migliaia di persone, si erano posate le mire della solita speculazione edilizia. Capirai! Pieno centro di Roma! Tra Termini e Porta Maggiore! Rendita Urbana. Quella che un tempo si definiva “parassitaria”. Una prassi consolidata. Protagonista indisturbato: il partito del cemento.

Ma ironia della sorte, “in mezzo ai mostri de cemento” è spuntato un lago naturale, di acqua minerale. E sono state proprio le ruspe che iniziarono a scavare a provocare la formazione del lago. Volevano gettare le fondamenta di un bel centro commerciale ed invece hanno liberato l’acqua con le bollicine. I proprietari dell’area hanno cercato di rimediare, pompare l’acqua, nascondere. Ma ormai quel lago era già diventato un bene comune. Una risorsa della città, di Tor Pignattara.

Così sono iniziate vent’anni di battaglie. Ambientalisti, comitato di quartiere e Centro Sociale Ex Snia si sono opposti con tenacia alla realizzazione dell’ennesima colata di cemento ed in difesa del nuovo ecosistema. Mobilitazioni, manifestazioni, gite con canotto e canoa in mezzo ai pilastri dell’ex fabbrica, con cormorani e martin pescatori. La richiesta incessante ed insistente: lago per tutti e cemento per nessuno .
Il Comune si è mosso. Il proprietario si è opposto. Ma questa volta la battaglia la vincono i cittadini, i comitati, i cantanti. Il Campidoglio ha aperto il varco sulla via Prenestina avviando di fatto l’esproprio del terreno e del lago. E come canta Daniele Coccia, “In mezzo ai mostri de cemento st’acqua mò riflette er cielo, È la natura che combatte, e sto quartiere è meno nero, In mezzo ai mostri de cemento il lago è ‘n sogno che s’avvera, È la natura che resiste, stanotte Roma è meno nera”

Il fatto quotidiano, dai blog, 16 agosto 2014

“Il colmo è che si bloccano i lavori perché si trovano dei reperti archeologici. Questo è un paradosso. In tutto il mondo le risultanze degli scavi archeologici permettono ai passeggeri delle metropolitane di godere di cose delle quale altrimenti non avrebbero potuto vedere. Torino, Roma con l’operazione della linea C, e Palermo sono realtà che accederanno al finanziamento delle linee metropolitane”. Renzi lo ha dichiarato a Napoli nel bel mezzo del suo tour al Sud. L’ormai famoso Decreto sblocca-Italia passa anche da questo. E’ ormai chiaro. Le Soprintendenze dovranno dare l’autorizzazione paesaggistica in tempi certi o scatteranno procedure sostitutive. Non solo. Per la conferenza di servizi si sta mettendo a punto una norma che superi il dissenso e la definizione in termini di validità per la raccolta degli atti. Con questo capitolo l’Italia delle opere ferme al palo scatterà in avanti. Si sistemerà quanto già iniziato. Soprattutto, si creeranno le condizioni perché i tempi previsti per i cantieri non siano solo un auspicio destinato ad essere deluso.

Il programma di Renzi non ammette intoppi. Le lungaggini vanno superate con un decisionismo improntato al “tutto e subito”. Vanno spezzate catene che hanno impedito per troppo tempo di avanzare nel cambiamento. Di produrre futuro. Troppi cantieri dal Veneto alla Sicilia hanno subito le politiche imposte dalle Soprintendenze. Con il risultato che indagini archeologiche, nelle intenzioni preliminari, hanno finito per diventare scavi interminabili. Che hanno comportato non solo la sospensione dell’opera di turno da realizzare, ma anche una lievitazione senza misura dei costi. Renzi ritiene che queste siano le procedure che in tanti casi hanno decretato il “non finito” che si vede in ogni angolo d’Italia. Questo il dato certo. A differenza di quel che riguarda gli elementi che debbono avergli suggerito questa posizione, per così dire, critica.

Perché è vero che si possono richiamare esempi di situazioni nelle quali le Soprintendenze, a partire da quelle archeologiche, hanno assunto un atteggiamento oltremodo intransigente. Verrebbe da dire, zelante oltre misura. Ma è pur vero che quei casi estremi costituiscono un numero ben esiguo rispetto a quelli nei quali si è solamente tentato di non far cancellare, impunemente, testimonianze di estremo rilievo. Senza contare le circostanze, tutt’altro che episodiche, nelle quali l’archeologia, a dispetto di quanto identificato, è stata trattata senza alcun riguardo. Necropoli e singole tombe, strade basolate e semplici tracciati “battuti”, edifici termali e impianti produttivi, villae e luoghi di culto, vaste opere di bonifica idraulica e più modesti sistemi di smaltimento e/o irregimentazione delle acque. Non esiste città italiana o parte di territorio che non abbia sacrificato frammenti della sua Storia alla costruzione di nuovi quartieri e infrastrutture viarie.

A Roma, la realizzazione di Tor Bella Monaca ha cancellato quasi completamente il popolamento antico del centro di Collatia, noto attraverso le ricerche di Lorenzo Quilici e più recentemente la stessa sorte è toccata a la Bufalotta, costruita su una parte di territorio dell’antica Fidenae. Che dire poi dei Colli Albani, zona residenziale a breve distanza da Roma, nella quale il fenomeno soprattutto delle seconde case, ha fatto quasi tabula rasa del sistema di insediamenti sviluppatosi in età romana? Per decenni i ritrovamenti occasionali, hanno costituito un trascurabile “spauracchio”.

Poi con l’archeologia preventiva le cose sono un po’ cambiate. Ma il suo potere, generalmente, ha continuato ad essere oltremodo marginale. Come detto, a parte pochi, circoscritti, casi. Semmai è vero che in non poche occasioni l’archeologia è diventata una sorta di pretesto. Il parafulmine sul quale scaricare ogni colpa. Il sistema italiano ha prodotto l’infinità di cantieri avviati e mai terminati. Non certo il potere dell’archeologia. Se non fosse così la lista di strade e ponti, palazzetti dello sport, teatri, parcheggi e ospedali e molto altro sarebbe risultata meno lunga. Se non fosse così nel capitolo “Territorio e reti” del Rapporto 2013 del Censis, una parte importante non sarebbe stata dedicata “ai ritardi ed alle incompiutezze ed al lungo travaglio dei grandi progetti urbani all’epoca della crisi”.

Il rapporto descrive ventidue casi esemplari, dimenticandone altri importanti come quello romano di Acilia, in cui i lavori non sono mai partiti o si sono interrotti o i progetti sono rimasti sulla carta. In quei casi nessun ritrovamento archeologico è intervenuto a sovvertire cronoprogrammi o a mandare fuori controllo le risorse stanziate. Così appare fuorviante ritenere che la linea C della metro romana viaggi tra ritardi ed incertezze a causa delle indagini archeologiche. Che, a parte il caso di piazza Venezia dove si sono scoperti i resti del cosiddetto auditorium di Adriano, non risulta abbiano costretto a sostanziali modifiche del progetto iniziale. Nonostante in alcune circostanze i rinvenimenti siano stati tutt’altro che trascurabili. Come accaduto per esempio nel cantiere di via La Spezia.

Renzi ha ragione a sostenere che solo grazie agli scavi per la Metro quei documenti del passato sono riapparsi. Ma non si può negare che ogni scavo è a tutti gli effetti un’operazione distruttiva. Proprio per questo motivo sembra improprio voler intervenire sulle modalità e i tempi delle indagini. Senza contare che tutto questo sembra essere in contraddizione con una delle norme che dovrebbero entrare nello sblocca-Italia. La disciplina per agevolare la valorizzazione dei beni archeologici che vengono ritrovati durante gli scavi o i lavori di opere pubbliche. Il timore che la valorizzazione non preveda che una tutela parziale di quanto ritrovato, è forte. Una tutela peraltro nella quale il discrimine tra bene da conservare e quello da consegnare alle ruspe appare indefinito. La sensazione è che, aldilà delle nuove regole, a difettare sia la cultura del Paese. La capacità di decidere con uniforme serietà.

Alcuni giorni fa, in un’intervista al Financial Times, l’ex sindaco di Firenze, ha dichiarato, “Il Paese non l’ho distrutto io, non faccio parte del sistema”. In questi decenni nei quali il Paese si è arricchito di ponti sospesi nel nulla, di ospedali completati ma mai entrati in funzione, di dighe interrotte a metà, della Salerno-Reggio Calabria un cantiere mai finito, il “sistema”, secondo la definizione del segretario del Pd, si è quasi uniformemente schierato contro l’archeologia. Additando nelle ricerche scaturite dai rinvenimenti, il motivo di ritardi e interruzioni. Per essere davvero “un uomo solo”, come si definisce Renzi, il suo un atteggiamento, almeno in questo settore, appare abbastanza allineato.

La Repubblica, 15 agosto 2014 (m.p.r.)

Roma.
Gli storici dell’arte che liquidano la sua riforma della cultura come “macelleria culturale”? «Dimostrano che è una vera riforma».

L’accusa di voler trasformare musei e siti in macchine per far soldi? «La valorizzazione del nostro patrimonio artistico è la condizione per tutelarlo meglio».

I contrasti con Renzi sulla riforma? «Leggende metropolitane».

Dario Franceschini da 5 mesi guida il ministero dei Beni culturali e del Turismo tra successi e polemiche. Ha cacciato le bancarelle dai monumenti, ha incentivato il privato, ha aumentato le domeniche gratuite nei musei, ma ha tolto i biglietti gratis agli over 65. E ora affronta la madre di tutte le battaglie, quella con le sovrintendenze, che lo accusano di consegnare i musei a manager interessati solo al marketing. Lui tira dritto, anzi rilancia. E, alla vigilia di una manovra fatta tutta di tagli, apre una nuova sfida sul tavolo del governo: raddoppiare la spesa per la cultura nella prossima legge di stabilità. Una richiesta che motiva, con una punta di malizia, appellandosi alla filosofia renziana.
Franceschini, vuole aprire una guerra anche con il ministro dell’Economia?
«Quando ho giurato al Quirinale dissi che mi sentivo chiamato a guidare il ministero economico più importante. Sembrava una provocazione, ma è proprio così. Ogni Paese deve trovare la sua vocazione: l’Italia è quello con più siti dell’Unesco e il maggior patrimonio artistico del mondo. Forse è arrivato il momento di investire sulla sua bellezza. Può essere un fattore decisivo per uscire dalla crisi ».
E come si propone di invertire la tendenza?

«La cultura viene da 15 anni di tagli. I governi Letta e Renzi li hanno fermati. Ma è arrivato il momento di investire. Al punto 63 della prima Leopolda c'era l'obiettivo di portare la spesa per la cultura all’uno per cento del Pil. Ci vorrà qualche anno per farlo. Nel 2015 mi basterebbe raddoppiare lo 0,10% attuale, avvicinarci almeno allo 0,24 della Francia. Voglio applicare le idee di Matteo».
La sua riforma della cultura viene contestata per l’accorpamento delle sovrintendenze e soprattutto per il fatto che la gestione dei musei sarà affidata a dei manager. Vuole fare business con l'arte?
«Le proteste dimostrano che questa riforma è una vera svolta. Perché separa tutela e valorizzazione. Le sovrintendenze continueranno ad occuparsi della prima, allargandosi alla ricerca in connessione con le università, mentre creiamo dei poli museali per la valorizzazione. Non ci sono solo i 20 più grandi, gli Uffizi, Brera o Pompei, ne esistono altri 400 con potenzialità enormi ma allestimenti di 60 anni fa e magari neanche un bookshop. E a guidarli non arriveranno i manager della Coca Cola, ma storici dell’arte, architetti, specializzati in gestione museale. Del resto i primi passi fatti in questa direzione hanno avuto successo. Con le domeniche gratuite e orari allungati, incassi e visitatori sono aumentati
in un mese di
oltre il 10%».
Ma non è più di sinistra dare priorità alla tutela piuttosto che al commercio?
«Questa è una grande sciocchezza. Il Louvre fa tutela, ricerca, formazione ma anche marketing. E lo fa quando la Francia è governata dalla sinistra e quando è governata dalla destra. La tutela è un dovere, la valorizzazione è la condizione per tutelare meglio».
Lei ha detto che questa è la riforma più renziana. Eppure è ferma nell’anticamera di palazzo Chigi. Si dice perché il premier vorrebbe un ridimensionamento ancora più radicale delle sovrintendenze. E così?
«In questa stagione politica le polemiche, gli scontri interni, non hanno più molto spazio. E quindi si inventano leggende metropolitane per abitudine. Ma non c’è nessun contrasto con Matteo. La riforma sarà approvata in uno dei prossimi Consigli dei ministri».
È stato criticato per il tentativo di coinvolgere i privati nella valorizzazione del patrimonio artistico. Finiremo con una Pompei che pubblicizza un paio di scarpe?
«Pubblico e privato non sono in contrapposizione. Il patrimonio è pubblico ma i privati possono contribuire integrando, e non sostituendo, le risorse statali. Ora in Italia c’è un incentivo fiscale tra i più forti d’Europa, una detrazione del 65%. Ma viene concessa ad atti liberali non a sponsorizzazioni o a gestioni, che sono altra cosa».
Si è ipotizzato anche per Pompei l’intervento di un privato, come per Ercolano. C’è già qualche contatto?
«A Pompei non abbiamo un problema di risorse, la sfida è utilizzare quelle della Ue nei tempi fissati, altrimenti si rischia il commissariamento. Tuttavia a me piacerebbe che una grande impresa italiana si facesse carico di un progetto di illuminazione per consentire l’apertura anche notturna del sito. Penso per esempio all’Enel. Ma lancio una proposta anche per la Domus Aurea: con 30 milioni in quattro anni si può riaprire tutta l’area sovrastante, oggi chiusa, e far tornare il sito interamente fruibile».
A parte Pompei le bellezze artistiche del sud sono quasi ignorate dai grandi tour. Non sarebbero le prime da valorizzare?
«L’85% dei visitatori stranieri non va più giù di Roma. L’Italia è il quinto paese al mondo per numero di visitatori, ma è il primo che tutti vorrebbero visitare. Abbiamo potenzialità enormi. Ovunque, anche fuori dai grandi itinerari, si trovano bellezza e creatività. Ma torniamo al punto di partenza: è ora di investire più risorse».

Riferimenti: si veda su eddyburg di Tomaso Montanari Franceschini alla Cultura sulle orme di De Michelis e Dario Franceschini. La cultura non cambia verso, Riforma dei Beni culturali: Renzi contro Franceschini. La posta in gioco e la rassegna Rendere ogni luogo uguale a ogni altro: così qualcuno diventa più ricco con gli articoli di Davide Vecchi e Montanari. Col cerca numerosi altri scritti nella cartella Beni culturali

Il manifesto, 14 agosto 2014 (m.p.g.)

«La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze presenta Giardini del Granduca. Una nuova eau de toilette». Con un po' di autoironia, il profumo avrebbero potuto chiamarlo Pecunia olet: il Polo museale fiorentino è da tempo l'avamposto della mercificazione del patrimonio culturale. Cristina Acidini, la soprintendente che lo guida, ha dichiarato che «attraverso questo profumo, composto sapientemente con note ispirate alla coltivata natura dei giardini storici di Firenze e Toscana, si entra in contatto diretto con la memoria della dinastia dei Medici».

Il marketing è la specialità della casa: il Polo Museale Fiorentino è noto per il tariffario con cui noleggia ai ricchi il proprio inestimabile patrimonio, dalla sfilata di moda agli Uffizi (per celebrare il neocolonialismo!) alle cene sotto il David di Michelangelo, a infiniti altri eventi letteralmente esclusivi. E gli Uffizi sono perennemente invasi da una folla due o tre volte superiore ai limiti di sicurezza: un irresponsabile azzardo che dipende anche dal fatto che la bigliettazione del museo è stata data in appalto al gruppo Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (quello della sovraordinata Associazione Civita è Gianni Letta). E anche il portavoce della Acidini è un dipendente di Civita: un giornalista già del «Giornale» nell'edizione della Toscana (proprietà di Denis Verdini).Il creatore di questo opaco ipermercato del patrimonio culturale è Antonio Paolucci, predecessore e mentore di Cristina Acidini. Il quale, dopo aver rivendicato la creazione del sistema delle mostre blockbuster (autodefinendosi il «movimentatore massimo» di opere d'arte), dirige oggi – commercialissimamente – i Musei Vaticani. Da ministro per i Beni culturali del governo Dini, fu proprio Paolucci (col decreto legge 41/1995) ad allargare a dismisura i servizi aggiuntivi che la Legge Ronchey aveva da poco permesso di dare in concessione ai privati, includendovi l'editoria e l'organizzazione di mostre. Iniziò così la vera privatizzazione della storia dell'arte: e oggi Paolucci presiede il comitato scientifico del primo concessionario italiano (sempre Civita), nella migliore tradizione lobbista dello scambio di ruoli.

A molti piace così: pochi giorni fa perfino il presidente di Italia Nostra ha invitato Dario Franceschini a tener giù le mani dall'«attuale assetto del Polo Museale Fiorentino ... esempio mirabile di tutela, valorizzazione e di gestione alla luce degli importanti risultati - 20 milioni di euro di incassi all'anno». La riorganizzazione del Mibact si propone, infatti, di smontare i lucrosi luna park dei poli museali, e di restituire ai musei la capacità di fare da soli tutto ciò che Paolucci affidò ai privati. Non a caso il primo nome sotto l'appello che cerca di fermare il ministro è proprio quello di Paolucci.Ma la difesa dello stato delle cose ha preso una via anche più cinica. I giornali fiorentini hanno scritto che Acidini avrebbe fatto notare a Matteo Renzi che la riforma non taglia affatto le unghie alle soprintendenze territoriali (e dunque non sblocca affatto l'Italia, nel senso cementizio e maniliberista caro al premier), ma rischia invece di uccidere la gallina fiorentina dalle uova d'oro. E se Renzi dice che «gli Uffizi sono un macchina da soldi», è perché è questo che egli ha imparato dal modello fiorentino: i conflitti che da sindaco l'hanno opposto ai vertici del Polo furono dovuti ad una competizione per la gestione della slot machine, non certo ad una divergenza ideologica.

E infatti il premier ha appena rinviato, per l'ennesima volta, l'arrivo della riforma in consiglio dei ministri, di fatto rimandando a settembre un umiliatissimo Franceschini: colpito dal fuoco opposto e incrociato del suo presidente del Consiglio e degli storici dell'arte, archeologi e architetti che (in circa trecento) hanno seguito Paolucci.Contro la riorganizzazone si sono pronunciati anche l'Associazione Bianchi Bandinelli, Vittorio Emiliani, Pier Giovanni Guzzo e, su queste pagine, Alberto Asor Rosa: l'accusa principale è quella di «smantellare le soprintendenze». Ma, a leggere il testo, di un simile smantellamento non si trova alcuna traccia: ed è proprio per questo che Renzi (che ha scritto: «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario italiano») non si decide ad approvarla.
Carlo Ginzburg (che ha firmato l'appello subito dopo Paolucci) ha scritto su «Repubblica» che «il presidente del consiglio, insiste — così ci viene detto — perché nel decreto legge venga inclusa una clausola che gli sta particolarmente a cuore. Essa dovrebbe consentire ai Comuni di aggirare l’eventuale divieto di costruzione formulato dalle soprintendenze appellandosi a una commissione generale che dovrà decidere in termini brevissimi. Il silenzio di queste commissioni, che è facile immaginare sommerse da una marea di richieste e di ricorsi, verrà interpretato come assenso». Ora, tutte le bozze circolate dicono esattamente il contrario. Le varie amministrazioni locali potranno, sì, chiedere la revisione dei provvedimenti delle singole soprintendenze: ma acommissioni regionali formate dagli stessi soprintendenti della regione, compreso colui che ha emanato l'atto contestato. E se non lo chiedono entro dieci giorni, il provvedimento è confermato. Si tratta, cioè, di una collegializzazione del potere monocratico dei soprintendenti: si potrà non essere d'accordo, ma non c'è nulla di ciò che scrive Ginzburg.

Un altro punto contestatissimo è l'unificazione delle soprintendenze architettoniche con quelle storico-artistiche. È un passo impegnativo, ma la direzione è giusta, perché mira ad evitare quello scollamento amministrativo che fa sì che – per dire – si restaurino gli affreschi di una cupola prima di rifarne la copertura esterna (è accaduto, per esempio, a Sant'Andrea della Valle a Roma). I miei colleghi storici dell'arte si oppongono per ragioni corporative: temono che le soprintendenze uniche saranno guidate solo da architetti. Ciò non deve succedere, ma non ci si può opporre ad un provvedimento giusto perché si teme che venga gestito male.

Personalmente ho, dunque, un giudizio moderatamente positivo della riorganizzazione: ma non sono un giudice neutrale, perché ho fatto parte della commissione che preparò la riforma voluta da Massimo Bray, la quale è stata in buona misura ripresa e sviluppata da quella di Franceschini. Quest'ultima ha il grandissimo limite di essere a costo zero, e non mancano punti discutibili (per esempio l'ipertrofia del quartiere generale romano): ma ha anche aspetti felicemente innovativi (lo svuotamento delle direzioni regionali, l'autonomia di alcuni grandi musei, l'unificazione delle soprintendenze architettoniche e storico-artistiche), e perfino tratti sorprendentemente di sinistra (la creazione di una direzione per l'educazione al patrimonio, e di una per le periferie urbane).
Comunque la si pensi, infine, trovo singolare che chi dovrebbe aver interiorizzato gli strumenti della filologia scriva di un testo senza averlo letto, o senza comprenderlo. Il risultato è questa imbarazzante alleanza tra gli amici delle soprintendenze e il loro massimo nemico, Matteo Renzi. Un'alleanza che ha un sapore strano: anzi, che ha il profumo dei Giardini del Granduca.

Mentre il Comune spazza strade e nasconde rifiuti per apparire pulito al passaggio mediatico del Principe (ai più vecchi torna alla mente il percorso di trionfante cartapesta che allietò il passaggio di Hitler e Mussolini nel 1938), qualcuno ricorda una storia di usurpazione di bene pubblico per il quale il popolo si batte dai giorni del Rinascimento napoletano. Il Mattino, 14 agosto 2014

È stato occupato ieri il cantiere di Corporea a Città della Scienza: un gruppo di manifestanti del Comitato “Una spiaggia per tutti” ha protestato contro la firma dell’accordo per la ricostruzione di Città della Scienza e la bonifica di Bagnoli, prevista per questa mattina in occasione della visita a Napoli del premier Matteo Renzi. Sulle impalcature sono stati affissi degli striscioni con le scritte: “Renzi and Co 'Stateve a Casa” e “Stop Speculazioni e privatizzazioni a Bagnoli”. Mentre un gruppo di manifestanti si è arrampicato sulle impalcature, altre persone hanno effettuato un volantinaggio per spiegare le ragioni della protesta. “Non si può ricostruire sull’area destinata a spiaggia pubblica - dicono Massimo Di Dato dell’Assise per Bagnoli e Domenico di Bancarotta, centro sociale poco distante dal cantiere Corporea - Città della Scienza va trasferita come prescrivono le leggi, i piani urbanistici e la delibera firmata da 13mila napoletani e approvata due anni fa dal consiglio comunale”. Tra i motivi della protesta anche le modalità della firma, che avviene alla vigilia Ferragosto cosa che, a loro avviso, avviene “senza una discussione in Consiglio, che la Giunta ci ha rifiutato”.

se arrivassero soldi pubblici meglio adeguare l'Aurelia". Il manifesto, 14 agosto 2014

Nella inter­mi­na­bile par­tita a scac­chi sull’autostrada tir­re­nica, le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste bat­tono il ferro fin­ché è caldo. A Festam­biente pre­sen­tano un nuovo docu­mento, teso a dimo­strare l’insostenibilità, anche eco­no­mica, della grande opera. In dire­zione osti­nata e con­tra­ria rispetto a un governo che in par­la­mento, per bocca del mini­stro Lupi, ha con­fer­mato l’impegno a tro­vare risorse pub­bli­che nello “Sblocca Ita­lia” per dare gambe al maxi pro­getto. In ballo ci sono ben 270 milioni di euro chie­sti dalla con­ces­sio­na­ria Sat (Società auto­strade toscane), che lamenta cre­scenti dif­fi­coltà, e però non ancora tro­vati dall’esecutivo gui­dato da Mat­teo Renzi. “A que­sto punto – lan­cia l’idea il patròn di Festam­biente, Angelo Gen­tili — se finan­zia­mento pub­blico deve essere, que­sto serva per met­tere in sicu­rezza e ade­guare l’Aurelia da Anse­do­nia a Gros­seto sud”.

Sul tema dell’autotirrenica l’associazionismo ambien­ta­li­sta è da sem­pre com­patto. Con Legam­biente, rap­pre­sen­tata anche da Edoardo Zan­chini, ci sono Ste­fano Lenzi del Wwf, Valen­tino Pode­stà della Rete dei comi­tati a difesa del ter­ri­to­rio, Anna Donati di Green Ita­lia, e ancora il Fai, l’associazione Bian­chi Ban­di­nelli e il marem­mano “Comi­tato per la bel­lezza”. Forte di un con­senso popo­lare mai sce­mato negli anni, e con l’appoggio delle forze poli­ti­che di sini­stra, da Sel a Rifon­da­zione, il fronte anti-autostrada ha dalla sua anche la forza dei numeri: “I dati di traf­fico reali sul per­corso, dimi­nuiti rispetto al 2010 a causa della crisi eco­no­mica e tor­nati circa ai livelli del 2000, non giu­sti­fi­cano in alcun modo la rea­liz­za­zione di una auto­strada, anche con la pro­spet­tiva di una ripresa eco­no­mica che invece ancora non c’è”. A seguire la cifre: “Nel 2010 il pro­getto pre­sen­tato dalla Sat par­tiva da un traf­fico gior­na­liero medio esi­stente di 19.900 vei­coli al giorno. Ma dai bilanci della con­ces­sio­na­ria sco­priamo che nel 2011 il ‘Tgm’ è stato di 18.298 vei­coli al giorno, che nel 2012 è calato in modo note­vole a 16.974, e che è ancora calato nel 2013 a 16.816”.

Di qui la richie­sta di fondi pub­blici da parte della con­ces­sio­na­ria. Una Sat che invece si era impe­gnata a rea­liz­zare la grande opera con soli fondi pri­vati (due miliardi di euro), a patto di poter espro­priare alla col­let­ti­vità l’attuale variante Aure­lia a quat­tro cor­sie da Cecina a Gros­seto sud, e poter incas­sare i pedaggi fino al 2043, ipo­tiz­zando un traf­fico in costante aumento (fino a 28.300 vei­coli gior­na­lieri nel 2036). Stime mise­ra­mente nau­fra­gate, di fronte alle quali gli ambien­ta­li­sti hanno buon gioco a osser­vare: “L’odierna richie­sta di fondi pub­blici, e imma­gi­niamo quelle future se l’opera venisse rea­liz­zata inte­gral­mente, e quindi l’ammissione che i conti non tor­nano, deve indurre a un serio ripen­sa­mento sull’utilità dell’opera. Viste anche le scar­sis­sime risorse dispo­ni­bili, e i dram­ma­tici pro­blemi della finanza pubblica”.

Le cri­ti­che delle asso­cia­zioni sono con­fer­mate anche dalla len­tezza con cui pro­ce­dono i lavori. In tre anni Sat ha speso 55 milioni sul lotto di soli quat­tro chi­lo­me­tri fra Rosi­gnano e San Pie­tro in Palazzi, il solo già in eser­ci­zio, e ha impe­gnato 155 milioni per il tratto, in can­tiere, da Civi­ta­vec­chia a Tar­qui­nia. “Non può che pre­oc­cu­pare il fatto che, pur in assenza di un nuovo piano eco­no­mico e finan­zia­rio e con tratte ancora da appro­vare, già si richieda un robu­sto con­tri­buto pub­blico. E’ come una pre­messa a quello che acca­drà costan­te­mente negli anni a venire, se l’opera venisse realizzata”.

Le con­clu­sioni degli ambien­ta­li­sti sono nette: “Appare senza senso la deci­sione del governo di stan­ziare un così rile­vante numero di risorse pub­bli­che per un’opera che doveva essere finan­ziata da pri­vati. Occorre rive­dere il pro­getto con un con­fronto ade­guato, pub­blico e tra­spa­rente”. Una posi­zione cui si alli­nea il demo­crat Ermete Rea­lacci: “Ho sem­pre pen­sato che la solu­zione migliore sia quella dell’adeguamento dell’Aurelia. Con la crisi, è chiaro che il pro­getto auto­stra­dale di Sat risulta anti­e­co­no­mico e non giu­sti­fi­ca­bile rispetto agli attuali flussi di traffico”.

«Il patron frenato da Marino e Zingaretti. Ma anche dalle risse tra costruttori e banche. E si scopre che sarà di Pallotta ma non della società quotata in borsa». Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2014

Solo una cosa è davvero chiara nella farsa intitolata “Il nuovo stadio della Roma”. Al presidente italoamericano della “Maggica”, James Pallotta, da due anni una corte dei miracoli di politici, palazzinari, agenti di calciatori, sensali, banchieri e impostori vari da un paio d’anni danno il tormento, indicandogli la strada maestra per fare soldi in Italia. Ma nessuno ha fatto vedere “Totò truffa ‘62”. Viene normalmente citato per l’archetipo di una tendenza nazionale, la scena di Totò e Nino Taranto che vendono la Fontana di Trevi a un italoamericano. Pallotta non sa che gli sceneggiatori Castellano e Pipolo scrissero un finale feroce per il suo predecessore Decio Cavallo, preso per matto e internato quando rivendica il suo buon diritto.

Ecco, Pallotta deve stare attento a non ripetere l’errore. Non dica che la sua idea di dotare la Roma di un nuovo ed efficiente stadio di proprietà l’ha discussa già due anni fa con l’allora sindaco di Roma, l’ex ministro Gianni Alemanno, che si dichiarò entusiasta. Non spieghi che la scelta dei terreni in località Tor di Valle, in un’ansa del Tevere a rischio inondazione, lungo il raccordo autostradale per l’aeroporto di Fiumicino già normalmente intasato - nei feriali dal traffico di chi corre a imbarcarsi e nei festivi da chi torna dal mare – è stata caldeggiata da Unicredit, seconda banca italiana. Glissi sullo scivoloso dettaglio che quei terreni sono di Luca Parnasi, il costruttore romano più odiato dal re dei costruttori romani, Franco Caltagirone, proprietario del Messaggero e di Leggo, le due corazzate dell’informazione capitolina.

E si metterà comunque nei guai se crederà alla leggenda renziana (e prima ancora berlusconiana), secondo cui chi viene dall’estero a investire in Italia viene messo in fuga da una burocrazia asfissiante e corrotta e dalle ubbie Nimby della potente (?) lobby ambientalista. Gli esponenti di Legambiente sono diventati potenti perché i giornali di Caltagirone dedicano loro interviste fluviali quali sul Messaggero si erano viste solo per il genero del padrone, Pierferdinando Casini. Caltagirone, come tutti i costruttori romani, aveva anche lui il terreno pronto per lo stadio, in zona Tor Vergata. Ma Parnasi è nel cuore di Unicredit. La bancona si trovò in pancia la Roma come eredità del crac di Franco Sensi, strafinanziato quando i cuori di banca e imprese romane battevano andreottianamente all’unisono. Anche i Parnasi furono riempiti di prestiti a pressione, e adesso il giovane rampollo Luca ha oltre 400 milioni di debiti (su 150 di fatturato). Una prima boccata d’ossigeno gliel’ha data la provincia di Roma ai tempi del presidente Enrico Gasbarra, impegnandosi a pagargli 260 milioni per un palazzo dove mettere gli uffici di un ente già morto.

E adesso tocca a Pallotta. Lo stadio deve farsi a Tor di Valle, dicono i maligni, per salvare i soldi di Unicredit. La legge sugli stadi prevede che il privato, dotando a sue spese la città di una nuova arena sportiva, ha diritto di risarcirsi costruendo un po’ di metri cubi. Nel caso della Roma, Parnasi ha già progettato un milione di metri cubi, che comprendono due alberghi e uffici per 15mila posti di lavoro. In un Paese dove gli uffici tendono a restare sfitti, l’unica spiegazione dell’affare è che Unicredit abbia convinto qualche altra banca di impiombarsi con Parnasi al posto suo. Tutto può essere.

Entro poche settimane il comune di Roma dovrà votare il parere definitivo che toccherà al sindaco Ignazio Marino comunicare a Pallotta. È chiaro che non tutto andrà liscio, e anche il Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha già fatto le sue obiezioni a un progetto zoppicante. Infatti ieri il giovane presidente del Pd romano, Tommaso Giuntella, ha detto che “stiamo facendo semplicemente una figura grottesca come città e come Paese. Questa vicenda, le lungaggini, i tira e molla, la poca chiarezza, le piccole e grandi arroganze, dimostrano perfettamente perché gli investitori stranieri fuggono dal nostro Paese”. E a stretto giro Augusto Panecaldo, coordinatore della maggioranza in Campidoglio (chissà se a Pallotta hanno spiegato cos’è il coordinatore di una maggioranza che è tale perché Marino ha vinto con premio di maggioranza l’elezione diretta del sindaco), ha replicato: “Nessuna figura grottesca. Semmai il contrario. Si sta cercando di rendere accettabile un progetto al quale, a condizioni date e in un altro Paese, si sarebbe dovuto semplicemente dire di no”. E perché non hanno detto di no?

Molte cose deve ancora imparare Pallotta dell’Italia. E una invece dovrebbe spiegarla lui agli italiani. Visto che lo stadio della Roma lo costruisce attraverso un’altra società alla quale la squadra di Totti dovrà pagare l’affitto vita natural durante, e che sarà Pallotta costruttore a trattare con Pallotta patron della Roma il canone, non è che gli azionisti di minoranza di una società che è quotata in Borsa dovrebbero un po’ preoccuparsi anche loro del destino del loro investimento in Italia?

«La rinuncia al numero chiuso non significa a lasciare le cose all’improvvisazione, ma richiede una politica turistica molto precisa e un soggetto dotato di visione in grado di implementarla, nell’interesse della collettività». La Nuova Venezia, 13 agosto 2014 (m.p.r.)

L’affermazione di Costa sulla “Nuova Venezia” che la sua Giunta era vicinissima all’introduzione del numero chiuso fa davvero tenerezza. La sua memoria risente evidentemente del caldo afoso di questi ultimi giorni. In realtà, il suo “superassessore” al Turismo, Perez, con l’ausilio del grande Tsuropolis, factotum di Costa, non solo era riuscito a smantellare quel poco che l’assessore-gentleman Cortese aveva, con santa pazienza, messo in piedi, ma anche a distruggere in pochi mesi un certo consenso intorno alle misure da attuare per iniziare a gestire meglio il turismo veneziano che si era creato. Ma basta ricordi e torniamo alla propostona di Costa.

Per diversi motivi, credo fermamente che il numero chiuso non risolverà mai il problema dell’eccessiva pressione turistica sul centro storico di Venezia. In primo luogo, qualsiasi numero chiuso, e pertanto anche quello applicato a una destinazione turistica, lede alcune libertà fondamentali che tutte le Costituzioni, compresa quella europea, cercano di garantire. Inoltre, mi chiedo chi esattamente possa decidere quando chiudere Venezia? E poi come selezionare chi lasciare fuori e per quale motivo? Infine, il numero chiuso (così come un ticket d’ingresso) contrasta con l’idea di Venezia intesa sia come città da vivere e lavorare che come patrimonio dell’umanità. La sua seconda affermazione che con l’avanzare delle nuove tecnologie l’introduzione del numero chiuso sarebbe ancora più semplice, invece, è una stupidaggine ancora più grande.
Il problema dell’insostenibilità dello sviluppo turistico non è mai stato e non è tuttora un problema di tipo tecnologico, anche se le nuove tecnologie possano aiutare, ma innanzitutto un problema di tipo organizzativo. Anche perché la rinuncia al numero chiuso non significa per nulla lasciare le cose all’improvvisazione, ma anzi richiede una politica turistica molto precisa e un soggetto dotato di visione in grado di implementarla, nell’interesse della collettività e non solo di alcuni operatori turistici, dei piccoli o grandi tangentopolari, oppure di alcuni fondamentalisti antituristici.
L’obiettivo di tale politica dovrebbe essere quello di ridurre il numero di visitatori mordi e fuggi, a cominciare dagli escursionisti crocieristici così cari a Costa, probabilmente poiché il continuo aumento del loro numero è l’unica nota positiva della relazione annuale del non-porto che presiede, e di spalmare meglio il rimanente flusso durante l’intero anno e nel centro storico e altrove. L’ingrediente principale di questa politica è presto detto: rendere Venezia prenotabile offrendo una città più economica e facile da visitare per chi prenota e più cara e più difficile a chi non lo fa. Tecnologicamente parlando, chiunque potrebbe creare un sistema di prenotazione simile. Molto più difficile, invece, è riuscire a far convergere tutti i pezzi del sistema intorno a questa idea.
Ed è proprio questo aspetto che richiede una forte capacità organizzativa, una visione chiara e leadership a livello locale, nazionale e internazionale. Insomma, ci vuole governance. Ci ho messo trent’anni per capire perché soluzioni come queste, tutto sommato poco costose e basate sostanzialmente su nuovi metodi organizzativi, non trovino attuazione, mentre quelle complesse, costose e rigide sembrano piacere di più a chi ci amministra. Ospedali, passanti, dighe mobili, Olimpiadi, canali per le grandi navi, terminali offshore, parchi scientifici, terze piste, e linee del tram… tutti progetti mastodontici e a volte privi di pubblica utilità che hanno trovato finanziamenti anche in tempi di razionalizzazione della spesa pubblica. Qualche beneficio intrinseco per qualcuno dovrà pur esserci.
Jan Van Der Borg è Docente di Economia e Politica del turismo all’Università Ca’ Foscari

La drammatica cronaca di Enrico Tantucci sulla quotidiana invasione di turisti a Venezia, e l'articolo di Vera Mantengoli che riporta la lucida analisi di Jan Van Der Borg sulle azioni da porre in campo per regolamentare i flussi e le riflessioni di Mara Manente (Ciset), Jan Van Der Borg (Ca’ Foscari), Angela Vettese (ex assessore) e Gianni De Checchi (Confartigianato). La Nuova Venezia, 10 luglio 2014 (m.p.r.)

«NUMERO CHIUSO D'INGRESSO. UNA SOLUZIONE ESTREMA»
di Vera Mantengoli

Venezia. Che Venezia sia unica è un dato di fatto, ma non basta. Urge una gestione capace di amministrare tanta bellezza con dei fatti e non solo a parole. Venezia è sempre più insofferente al turismo: «Purtroppo vedo molti nani e pochi giganti in grado di gestire questa città», ha detto Gianni De Checchi, segretario della Confartigianato. «Ormai è evidente che si impone un controllo sui flussi e Venezia potrebbe essere all’avanguardia per avviare un progetto di autodifesa, ma dove sono le personalità politiche in grado di fare scelte così coraggiose?
Dai nostri studi si evince che la gente che vaga non equivale a più ricchezza, se non a incentivare una bassa qualità commerciale e la chiusura dei negozi di artigianato. Ogni periodo storico ha la sua classe politica e la nostra è decapitata perché non c’è ricambio all’interno dei partiti. Lavorare sul numero chiuso potrebbe essere un primo passo per coagulare le forze in campo e fare davvero qualcosa». Non tutti vedono nel numero chiuso un punto di partenza, come Mara Manente, direttrice del Ciset: «Imporre una soglia limite di visitatori sarebbe come ridurre la città a un vero museo dove si paga il biglietto e si entra», ha detto l’esperta, «quando invece si potrebbe prima provare a sperimentare le varie ipotesi che negli anni si sono presentate, ma che non mi risulta siano state mai concretizzate. Il numero chiuso è la soluzione estrema».
Di proposte in effetti ne sono state fatte, come quelle del docente di Ca’ Foscari Jan Van Der Borg: «Le soluzioni», ha spiegato, «ci sarebbero: incentivare la prenotazione con dei vantaggi, riducendo il biglietto dei trasporti o dei musei. Bloccare il turismo crocieristico. Realizzare dei terminali sulla gronda lagunare e trasportare i turisti a Venezia, anche in maniera lenta con delle imbarcazioni, per informarli durante il tragitto della particolarità del luogo in cui si stanno recando. A volte si dice che i turisti sono ignoranti, ma nessuno si occupa davvero di educarli. Infine, c’è un punto fondamentale: bisogna investire nella venezianità perché è solo così che si evita il degrado».
Un progetto era iniziato, ma è stato bloccato dallo tsunami Mose: «Non è mai stata fatta una ricognizione della segnaletica», ha detto l’ex assessore alla Cultura e al Turismo Angela Vettese, «e anche se non lo farò io, qualcuno deve riprendere questo lavoro che avevamo iniziato perché in giro ci sono cartelli vecchissimi con scritto Itinerario 1 o 2 che non si sa più a che percorsi facciano riferimento. Ormai il 40% della gente usa la tecnologia e grazie ai QR Codes (i quadratini dove puntare lo smartphone e ricevere informazioni) si possono indicare ai turisti itinerari diversi dai soliti».
I veneziani si sentono abbandonati: «C’è bisogno di regole», ha detto Irina Freguia del Vecio Fritoin», con le liberalizzazioni sono stati equiparati i bar ai ristoranti, il che significa che un cuoco vale come un microonde e un cibo congelato come un piatto di alimenti freschi. Non c’è un criterio di qualità ed è triste vedere chiudere i negozi, anche al mercato dove vado per aiutare anche chi ha un’attività. Se compro i surgelati chi aiuto? Rischiamo di diventare uguali a tutti i sobborghi». Insomma, se non si agisce il rischio è di fare la fine di Narciso che, a forza di specchiarsi nell’acqua, sprofonda nella sua immagine.

VENEZIA ABBANDONATA A SE STESSA.
INVASIONE DI TURISTI SENZA REGOLE
di Enrico Tantucci

Venezia. È la “fiera” dei giornalieri. Quello che è in corso a Venezia in questi giorni e ormai da alcune settimane - per proseguire almeno fino a settembre, con l’arrivo della Mostra del Cinema - è un vero e proprio “assalto” turistico di massa alla città. Portato, però, ancora più che nel passato, non quel turismo stanziale, interessato e pronto a calare in laguna per qualche giorno per conoscere e visitare la città, usandola come tale. Del resto, ormai da anni, la permanenza media di un turista che arriva in albergo a Venezia è di poco più di due notti, anche se ormai l’offerta di posti-letto, tra alberghi, bed & breakfast, locande e appartamenti turistici in affitto, sfiora quota trentamila.
Ma quel turismo invece costituito dai gruppi allargati o familiari che sbarcano a Venezia dalla mattina alla sera, intasandone le calli e bivaccando, se possono, tra San Marco e Rialto. Sono quelli che si fermano a sedere sui ponti, in cui non vedono più una struttura di passaggio, ma solo un belvedere per la sosta o la fotografia di rito. Che camminano nelle calli occupandole interamente nel senso della larghezza, non concependo che altri possano passare in senso opposto, come avverrebbe in una città normale. Che sui vaporetti intasano l’uscita alle varie fermate e non si spostano, perché tanto si va tutti a san Marco, no? Arrivano dalle spiagge del litorale - più in forze se c’è brutto tempo - o anche da quelle della riviera romagnola. Oppure affluiscono dalla terraferma, inserendo Venezia in un rapido “tour” italiano, che siano cinesi (o taiwanesi) diretti a San Marco e persino, ormai, donne arabe in burqa, visto che è Venezia è sempre più un crocevia del turismo mondiale.
La quota di turisti stranieri in arrivo supera ormai il 70 per cento del totale - con gli americani che hanno ripreso la loro leadership, ma con uno sbarco massiccio anche di new entry come quella dei russi, assieme a cinesi e brasiliani - ma la stragrande maggioranza di essi “pascola” per le poche ore del soggiorno tra l’area marciana e Rialto, ignorando di fatto il resto della città. I dati in calando nell’ultimo anno dei visitatori del circuito di Chorus - la meritoria “rete” legata alle principali chiese cittadine ricche di capolavori d’arte che consentono la visita con il pagamento di un biglietto d’ingresso per finanziarne così la manutenzione - confermano che a Venezia il turismo “diffuso” anziché aumentare diminuisce, di fatto rinunciando a visitare la città.
Ma intanto i “giornalieri” sono in costante aumento. Lo conferma anche l’Actv. «Registriamo un aumento della vendita dei biglietti turistici in questi mesi estivi», conferma l’amministratore delegato dell’azienda, Giovanni Seno, «che avrà effetti positivi anche sul nostro bilancio». Ma intanto la confusione regna sovrana, anche perché la città è di fatto “sgovernata” - dopo il cataclisma politico e amministrativo seguito all’inchiesta sul Mose - e la preoccupazione, legittima, del commissario straordinario Vittorio Zappalorto è quella di chiudere al più presto il “buco” di bilancio del Comune. Non certo di occuparsi del controllo e della regolamentazione dei flussi turistici in arrivo in città.
Un problema di fatto ignorato da tutte le ultime amministrazioni comunali, compresa quella Orsoni, nella convinzione neppure troppo nascosta che porre un freno o un sistema di controllo dei flussi turistici in città sia un rischio per la sua economia. Anche se i benefici non vanno certo ai residenti ormai sotto quota sessantamila, ma alla filiera delle categorie turistiche che ci campano, dai gondolieri in su. E se l’Unesco minaccia di declassare Venezia dai suoi siti tutelati se il Governo italiano non fornirà entro febbraio un piano credibile di controllo dei flussi turistici in arrivo in città e quindi della sua tutela fisica e monumentale, in laguna a pochi importa. Nessuno può fermare l’orda dei “giornalieri”.
A meno di non riflettere seriamente sulla possibile adozione di un numero chiuso o programmato d’ingresso che dir si voglia». C’è chi non ha paura di dirlo come ha già fatto il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, già presidente del Fai, il Fondo per l’ambiente Italiano a riproporre il controllo degli accessi turistici a Venezia. «So che mi attirerò i commenti negativi di qualcuno», ha dichiarato, «ma Venezia è un fragilissimo museo a cielo aperto e una città che sta morendo. Per questo, visto che la massa dei turisti in città è destinata ad aumentare in modo insopportabile nei prossimi anni, non mi scandalizza affatto l’idea dell’istituzione di un biglietto d’ingresso alla città, il cui ricavato serva anche al suo mantenimento. Venezia va difesa, migliorando contemporaneamente la qualità del turismo che la frequenta». E lo stesso presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa ha detto a sua volta di recente: «La pressione turistica su Venezia è troppa, deve essere normata. Quando ero sindaco, si iniziò a lavorare sul progetto del numero chiuso. Ora, con tecnologie più moderne, ci vorrebbe niente a realizzarlo».

Il dispositivo della decisione del "comitatone" non è ancora noto, e quindi non è chiara la forza E GGLI STRUMENTI che saranno necessari a chi contrasta la volontà di distruggere la Laguna di Venezia. Una cosa è chiara. La volontà proterva di passare col rullo compressore su ogni ragionevole critica pur di favorire gli "affari". Il manifesto, 9 agosto 2014
Blitz nel “Comi­ta­tone” di palazzo Chigi: Vene­zia (senza più sin­daco…) diventa merce di scam­bio e terra di con­qui­sta delle stesse lobby che incar­nano in con­ces­sione unica il «sistema Mose».
La car­to­lina da sven­to­lare in pub­blico è il bacino di San Marco final­mente libe­rato dalle Grandi Navi. Ci pensa il gover­na­tore Luca Zaia a bru­ciare tutti sul tempo con il tweet isti­tu­zio­nale delle ore 15.29: «Deci­sione una­nime, navi oltre 40 mila t fuori da bacino San­Marco e canale Giu­decca». Pec­cato che il com­mis­sa­rio Vit­to­rio Zap­pa­lorto abbia pre­fe­rito aste­nersi da un voto poli­tico per conto del Comune. E che gli ammi­ni­stra­tori di Mira (il vice sin­daco Nicola Cri­vel­laro e l’assessore all’urbanistica Luciano Claut) abbiano boc­ciato la solu­zione della nuova rotta per le cro­ciere in laguna.

Il super-tavolo isti­tu­zio­nale per Vene­zia ha par­to­rito, in realtà, il via libera al canale Con­torta e spo­sato gli inte­ressi del Porto pre­sie­duto da Paolo Costa (il demo­cratico inos­si­da­bile dall’Ateneo al muni­ci­pio, da Bru­xel­les a Mar­ghera). Un «inchino» su misura gra­zie all’intesa sus­si­dia­ria che passa dal sot­to­se­gre­ta­rio ren­ziano Gra­ziano Del­rio al ciel­lino Dop Mau­ri­zio Lupi, fino a coin­vol­gere i mini­stri Dario Fran­ce­schini e Gian Luca Gal­letti e il leghi­sta Zaia con Roberto Daniele in qua­lità di pre­si­dente del Magi­strato alle acque.

Si applica due anni dopo il decreto Clini-Passera (che vie­tava il tran­sito alle città gal­leg­gianti per turi­sti), ma si spiana la laguna al pro­getto di 4,8 chi­lo­me­tri di scavo già pro­get­tati dal “giro” dei pro­fes­sio­ni­sti legati al Con­sor­zio Vene­zia Nuova e can­tie­ra­bili dalle imprese di fidu­cia (250–300 milioni di appalti). Non basta, per­ché sullo sfondo si intrav­vede di nuovo il pro­ject finan­cing da 2,5 miliardi del temi­nal por­tuale d’altura che Costa vuole varare ad ogni costo…

Alla vera sal­va­guar­dia della laguna restano le bri­ciole dell’ormai ex Legge Spe­ciale can­ni­ba­liz­zata dal Mose: il “Comi­ta­tone” ha asse­gnato a Vene­zia 35 milioni per il trien­nio 2014–16. Ogni altro inter­vento dovrà misu­rarsi con la legge di stabilità…

Insomma, il sum­mit di palazzo Chigi si rivela una «por­cata» come sin­te­tizza Beppe Cac­cia. E Gian­franco Bet­tin rin­cara la dose: «Come vole­vasi dimo­strare. Il blitz di Fer­ra­go­sto si è con­cluso come, da facili pro­feti, ave­vamo denun­ciato: con la scelta di sot­to­porre a Valu­ta­zione di impatto ambien­tale il solo pro­getto dello scavo del Canale Contorta-Sant’Angelo. Una scelta com­piuta in assenza di una demo­cra­tica rap­pre­sen­tanza del Comune. Mini­steri ed Enti che sono stati fino al collo con­di­zio­nati dalla cricca del Mose deci­dono ancora una volta sulla testa della città. Si rea­lizza così il sogno di certi poteri forti e di tutti i poteri marci: coman­dare su Vene­zia senza media­zioni, con­fronti o controlli».

È il metodo delle lar­ghe intese rifor­mi­ste appli­cato al Veneto orfano di Galan & C. Uno schiaffo più che sim­bo­lico e insieme una spe­cie di espro­prio pre­ven­tivo delle Comu­nali 2015. Così Sil­vio Testa, por­ta­voce del Comi­tato No Grandi Navi, non fa troppa fatica a pre­ve­dere: «Se qual­cuno vuole tra­sfor­mare la laguna di Vene­zia in una Val di Susa que­sta è la strada. La lezione del Mose non ha inse­gnato niente a nes­suno. E anche nel con­te­sto vene­ziano Renzi svela il suo volto antidemocratico».

L’8 luglio all’Arsenale al pre­mier “euro­peo” era stato con­se­gnato — per inter­po­sto addetto al ceri­mo­niale — l’appello a girare pagina rispetto alle Grandi Opere tar­gate Man­to­vani & coop come allo scem­pio del turi­smo a bordo dei mostri supe­rin­qui­nanti. Un mese dopo il governo Renzi annun­cia la «libe­ra­zione» del Canal Grande, ma rimette in gioco le stesse lobby inqui­ste dalla Pro­cura della Repub­blica.

Esulta Costa per tutti: «Il solo pro­getto capace di allon­ta­nare le navi da San Marco man­te­nendo l’eccellenza cro­cie­ri­stica vene­ziana è il canale Contorta-Sant’Angelo su cui si avvia da domani la pro­ce­dura di valu­ta­zione ambien­tale, imma­gi­nando di poterlo rea­liz­zare nell’arco di 18 mesi». È il dispo­si­tivo della deli­bera numero 11 del 26 set­tem­bre 2013 (con­trari Alfiero Fari­nea e Luciano Claut) con cui l’Autorità por­tuale cas­sava ogni altra alter­na­tiva all’approdo in Marit­tima. Da ieri è la rotta san­cita dal “Comi­ta­tone”, dal governo e dalla Regione: Vene­zia deve solo alzare ban­diera bianca?

«La bassa densità di popolazione cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie». La Nuova Sardegna, 8 agosto 2014 (m.p.r.).

Se facessimo oggi una fotografia per sapere com'è distribuita la popolazione nell'isola, risalterebbe quella grande area centrale spopolata. Perché in questi giorni siamo quasi tutti – abitanti e turisti – concentrati ai bordi. E stanotte a Semestene, a Soddì o a Baradili – tra i piccoli comuni sempre più piccoli – si conteranno meno presenze di quelle registrate in un medio albergo vista mare.

Poco cambierà nelle altre stagioni: per Semestene – 160 abitanti, circa 650 alla fine dell'Ottocento – non ci sono speranze di lunga vita nonostante l'orgoglio civico esibito nel sito del Comune. Secondo la diagnosi del demografo stanno male almeno 70 paesi sardi, tutti in aree interne, la metà dei quali si svuoterà nell'arco di un trentennio (fonte RAS 2013). Elementare: se non ci nasce nessuno e qualcuno ogni tanto ci muore o se ne va, saranno le case vuote a documentare la magica secolare resistenza di quel centro, abitato da chissà quante generazioni.

Ormai più che un trend circoscritto a qualche caso disgraziato, è il ribaltamento dell'antico ordine che ancora nel secolo scorso sembrava congenito. Motivo di sconforto per Vittorio Amedeo II che fantasticava sulla Sardegna militarizzata prima di sapere dei suoi lidi sguarniti, dai quali si tenevano alla larga i 300mila abitanti.

La bassa densità di popolazione (67 ab/km²) cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie. Ma sembrava tempo perso assistere contadini e pastori disarmati, meglio investire ingenti risorse nei programmi di poli industriali (Il Sole24ore ha stimato che per Ottana si sono spesi 6 miliardi di euro). Sembrava tanto facile, la palingenesi della chimica che ci avrebbe fatto dimenticare la grama vita nei campi.

È andata così. E cosa c'è di più tragico della scomparsa di un comune su cinque, in una regione con indici di disagio altissimi? Non è imminente come quando si annuncia la chiusura di una fabbrica. Quindi nessun corteo o scalate di campanili, e neppure l'onore di una task force che si invoca per ogni contrattempo.

Ci aspetteremmo un piano adatto all' emergenza: un terzo del territorio regionale è a rischio di tenuta e non basta dire che occorre “fare sistema” – l'auspicio molto evasivo in voga da un po' di anni. C'è, evviva, il progetto di Fabrizio Barca (presentato a Ales e a Teti) e vedremo se ce la farà ad atterrare prima che sia tardi.

Per tenere su il morale si sovrastimano suggestive previsioni (immigrati che prima o poi si compreranno le case vuote in Goceano o in Marmilla, flussi di vacanzieri a caccia di conferme dei pittoreschi racconti sulla “Sardegna vera”, o sedotti, in caso di disfatta, dallo spettacolo delle ghost town).

Vista dalle spiagge questa rarefazione è incomprensibile. Difficile spiegarsi il deserto che avanza da chi, immerso nella sfrenata densità di cose e persone, combatte per trovare posto a un ombrellone o un tavolo in pizzeria. In fondo la disgrazia sta pure in questo divorzio, nella doppia faccia dell'isola, come la spiegano i valori di mercato: due metri quadri di veranda nelle riviere vip costano quanto una casa a una quarantina di chilometri.

Un insostenibile squilibrio, la Sardegna che balla per due mesi divorando paesaggi, e la Sardegna che stenta a sopravvivere. E non potrà farcela da sé, senza un progetto speciale e molte risorse, (più di quelle previste nel Programma di sviluppo rurale finanziato dall'Europa). Serve una “grande opera” finalizzata a rinnovare le ragioni per abitarle quelle terre in crisi, moltiplicando il sostegno al lavoro di agricoltori e allevatori industriosi, potenziando i servizi, non eliminandoli. È il presupposto per mantenere e attrarre abitanti. Ci conviene e non ci sono scorciatoie.

La sconfessione di Pinocchio. Una limpida e sferzante contestazione delle bugie, a proposito del MoSE e dei nuovi canali per l'accesso a Venezia dei mostri del mare. Un salutare svelamento delle parole mentitrici che, pronunciate da presunti tecnici e avallate da chi occupa alti scranni, determinano un pensiero corrente incapace di vedere la realtà e di comprendere gli eventi. La Nuova Venezia, 8 agosto 2014

Leggendo le lettere o le interviste di Paolo Costa si sobbalza sempre sulla sedia per come la realtà che pare offrirsi in un modo ai nostri occhi possa venire interpretata in modo molto diverso dal presidente dell'Autorità portuale. Non ci si può meravigliare se un accanito sostenitore del Mose, qual egli si è sempre dichiarato, possa ancora insistere nel separare la vicenda giudiziaria - e le responsabilità di molti, che tutti sospettavamo - dalla realtà stessa dell'opera: «Si sa di avere a che fare», dice Costa, «con una grande opera di ingegneria ambientale della quale gli italiani possono andare fieri nel mondo».

Chetatasi un po' la buriana giudiziaria, o meglio abituatici ormai ad essa, ecco che riemerge "l'opera salvifica", orgoglio dell'ingegneria italiana, che tutela il "bene culturale Venezia". Corre l'obbligo di ricordare che altre opere ingegneristiche rappresentative delle competenze italiane una decina d'anni fa erano state proposte per la regolazione delle maree, in alternativa al Mose. Giudicate migliori, più affidabili ed economiche del Mose da una commissione scientifica istituita dal Comune di Venezia, erano state scartate dal governo senza essere prese in considerazione. Prodi e Di Pietro avevano già deciso.
Vale la pena di menzionare quel che sostiene l'ingegner Vielmo, progettista della paratoia a gravità (opera alternativa al Mo-se, che ne sfruttava i punti deboli, letteralmente rovesciando il progetto): «II Mose è nato 30 anni fa e non tiene assolutamente conto dell'evoluzione dell'ingegneria off shore». Altre linee progettuali alternative erano sicuramente altrettanto interessanti, come il progetto Arca, che constava in barriere removibili stagionalmente e dai costi inferiori (un ventesimo!) rispetto al Mose. Sappiamo tutti (o ce ne siamo dimenticati?) come andò a finire: Prodi (che Andreina Zitelli in una recente intervista definisce "lo sdoganatore del Mose") si impose, facendo votare il governo in Comitatone con un voto unico, favorevole, e impedendo così ai ministri contrari di esprimere il loro dissenso. E a proposito sempre dei prodigi dell'opera, meglio ricordare la relazione dei giudice della Corte dei conti che ricorda l'«assenza di un confronto tecnico ed economico tra diverse possibili soluzioni progettuali»: in parole povere un reale confronto fra Mose e i progetti alternativi più moderni e meno costosi non vi fu.
Il Governo impose la sua decisione contro la città stessa e la sua amministrazione. Sempre da uno scritto di Costa apprendiamo inoltre, sbigottiti, di una «valutazione di impatto ambientale positiva che il progetto Mose ha conseguito nel 1998 e che i suoi detrattori cercano di dimenticare». Mi pare che qui a essere dimenticato è il fatto che la Valutazione di impatto ambientale emessa dalla Commissione nazionale "Via" nel 1998 era irrimediabilmente negativa. In modo tombale. II decreto attuativo che nel seguì (Ronchi-Melandri), venne impugnato di fronte al Tar del Veneto dal presidente della regione Galan, e annullato per vizi formali, senza inficiare la validità del pronunciamento della Commissione.
Forse a distanza di anni la memoria inganna il nostro presidente dell'Autorità portuale: positivo non era il giudizio della commissione Via, ma quello di un Collegio di esperti di livello internazionale che nello stesso anno approvò il Mose, pur avanzando dubbi seri sul suo comportamento dinamico, e cioè la possibilità dell'insorgere di un'«indesiderata risonanza tra gli elementi delle barriere». Tale eventualità fu poi confermata dallo studio effettuato dalla società francese Principia, leader mondiale per la tecnologia off shore, cui il Comune di Venezia aveva chiesto una consulenza. E così il prodigio ingeneristico che tutto il mondo ci invidia non si sa se potrà fronteggiare alcune condizioni di mare che qui si verificano non infrequentemente.
Quel che colpisce negli scritti del presidente dell'Autorità portuale è la determinazione che mostra nel considerare opere di grande impatto (come Mose o Contorta) rispettose dell'ambiente o anche restitutive di un equilibrio compromesso. Ancora il Mose è, per Costa, fondamentale, «contribuendo anche alla salvaguardia ambientale e paesistica». Se si pensa alla monumentale isola artificiale di fronte al Bacan, o alla quantità di zinco altamente inquinante che il Mose rilascerà in mare ogni anno (12 tonnellate), c'è di che dubitare. Ma ciò che appare ancor più incredibile è quanto va sostenendo per l'escavo del Contorta, definito «una grande opera per il riequilibrio della laguna».
È ormai noto a tutti che è stato il canale dei Petroli a distruggere i caratteri morfologici della laguna centrale: le onde che si creano a ogni passaggio di nave per il canale si frangono sui bassifondi adiacenti erodendoli. II canale Contorta sarebbe un Canale dei petroli bis, portato più verso il cuore della citta. I fenomeni che innescherebbe sono ben noti, perché sotto gli occhi di tutti da cinquant'anni sono gli effetti esiziali del Canale dei Petroli. Su ciò non si discute. Solo una mente brillante poteva trovare una via di uscita, un po' contorta (nomen omen?) per la verità: i cinque milioni di mc di sedimenti che si scaverebbero per realizzare il nuovo canale Contorta verrebbero destinati - secondo Costa - «per costruire barene di protezione e fermare la perdita dei sedimenti in mare». Come, come? Si escava un canale destinato a distruggere ulteriormente la laguna ancor più e con i sedimenti dragati si creano opere per fermare l'erosione indotta da quello stesso canale? C'è da non credere. C'è invece solo da sperare che tali controsionismi dialettici vengano ben compresi dal governo, e dai rappresentanti del Ministero di beni culturali.
Un'ultima osservazione: concordiamo invece con Costa quando sostiene la necessità del «rapporto Mose-porto»: è per il porto che si è scelto e voluto il Mose e a quelle profondità che avebbero consentito alle grandi navi commerciali di entrare comunque in Laguna. Ma il diavolo è sempre peggiore di come lo si pensa, e le profondità delle bocche portuali, incompatibili con la preservazione della Laguna che il Mose sancisce e fissa, solo dopo qualche anno non bastano più. Nemmeno la conca di navigazione di Malamocco basta più. Così - a detta di Costa - si rendeva necessario «"un patto ambientale" che scambiava approfondimenti della conca e dei canali portuali entra lagunari, ai quali il porto rinunciava, con la realizzazione di una piattaforma portuale di altura».
Peccato che i canali di grande navigazione entro la laguna erano stati già ampiamente dragati: nel 2004 venne istituito un "commissario delegato per l'emergenza socio economico ambientale relativa ai canali portuali di grande navigazione della laguna di Venezia" con il compito non di por rimedio, come ci si poteva aspettare, alla rovina della Laguna ma di escavare i canali che la distruggono. Tra il 2004 e i12012 oltre 7 milioni di mc di sedimenti sono stati escavati dai grandi canali industriali e dal Canale del petroli. II porto, dalle parole di Costa, non vuole rinunciare a nulla: escavo del Contorta per fare entrare in Laguna e a Venezia le grandi, sempre più grandi navi croceristiche e porto offshore per far attraccare le navi commerciali sempre più grandi che proprio non possono più entrare. Ma entrerebbero invece grandi chiatte che dal porto offshore condurrebbero i container a Marghera, incrementando in modo drammatico il moto ondoso che erode e distrugge la Laguna. In conclusione, il problema è a monte.
Si tratta di riflettere una volta per tutte sul futuro di Venezia e della Laguna: come negli anni Sessanta l'unica prospettiva era lo sviluppo industriale, poi fallito, ora sembra essere il porto. Ma destinare la gronda lagunare a immenso stoccaggio di container, invece che a parco scientifico tecnologico (sull'esempio di Trieste, ad esempio), e la laguna centrale a immenso svincolo "stradale" appare un'operazione di retroguardia, alla lunga perdente.
Lidia Fersuoch è Presidente di Italia Nostra, sezione di Venezia

Prime (buone) notizie dal fronte “caserme dismesse”: intenzioni da Milano, Torino, Roma. Se sono rose fioriranno. La Repubblica, 8 agosto 2014
Una città dei bambini, un museo della scienza, una foresteria universitaria là dove prima c’erano armi e soldati. I tre sindaci di Roma, Milano e Torino si sono messi subito al lavoro per trasformare in risorse per le loro città il milione di metri quadri di caserme dismesse ricevuto ieri dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. Hanno dodici mesi di tempo per concludere i processi di conversione urbanistica, e non sono molti. Se non ci riusciranno, quegli immobili torneranno alla Difesa e al Demanio. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, vuole reinventare il futuro delle prime tre caserme dismesse con la creazione di aree verdi, servizi e case in housing sociale. Un grande parco è il progetto che riguarda l’area più vasta, la Piazza d’Armi di via Forze Armate: si tratta di 300mila metri quadrati abbandonati da anni - confinano con la caserma Santa Barbara, nella periferia Nord Ovest di Milano - dove un tempo le Forze Armate svolgeva le esercitazioni e dove oggi, invece, la vegetazione sta crescendo spontaneamente.

Almeno la metà del terreno potrebbe essere lasciata a verde. La caserma Mameli di viale Suzzani è un complesso di 100mila metri quadrati che il Comune vorrebbe utilizzare per interventi di edilizia convenzionata e case. Una parte delle strutture vincolate dalla Sovrintendenza potrebbe essere recuperata per servizi sociali o per iniziative culturali. E il sindaco Giuliano Pisapia lancia anche un’idea: realizzare in una di queste aree una Città dei Bambini.

A Torino piace al sindaco Piero Fassino l’idea di mettere gli studenti nelle ex camerate dei militari trasformando le caserme in residenze universitarie. È allo studio anche una quota di nuovi alloggi, oltre a servizi pubblici, come biblioteche di quartiere o nuove materne. Non manca al progetto la creazione di aree verdi, spazi culturali per mostre. Torino non s’accontenta delle quattro ex caserme ricevute ieri, e sta già trattando per ottenerne altre due, la “Aimone” e il complesso tra corso Lepanto, dove i torinesi sono andati per decenni a fare la visita di leva, e corso Unione Sovietica. Oltre alle destinazioni universitaria e residenziale, si sta studiando il trasferimento negli ex immobili militari di uffici comunali.

Il sogno di Ignazio Marino di «rigenerazione urbana» delle ex aree della Difesa è già iniziato con il progetto della Città della Scienza, che sorgerà nelle ex caserme di via Guido Reni. E proseguirà ora con l’acquisizione di altre sei strutture. «Per attuare i progetti - ha precisato l’assessore alla Trasformazione Urbana, Giovanni Caudo - coinvolgeremo i cittadini, come è ormai consuetudine di questa Amministrazione sulle grandi scelte che trasformano la Capitale». Secondo i primi progetti, nell’area del Forte Trionfale sarà trasferita la sede del Municipio XIV, attualmente in affitto. Nei locali del Forte Boccea potrebbe essere trasferito il mercato di via Urbano II. Nell’area della Caserma di Viale Angelico si pensa alla realizzazione di parcheggi.

WWF-Italia notizie, 5 agosto 2014, con postilla

Quella ‘Grande Bellezza’ che confina col mare in 25 anni cancellata in più parti dal cemento: pur mantenendo angoli suggestivi e intatti, la visione di insieme fornita dall’ultimo Dossier del WWF “Cemento coast-to coast: 25 anni di natura cancellata dalle più pregiate coste italiane” restituisce, con schede sintetiche e foto da satellitari a confronto, l’immagine di un profilo fragile e bellissimo martoriato da tante ferite. Il dossier analizza con schede sintetiche l’evoluzione della situazione delle regioni costiere, mettendo a confronto i dati di oggi con quelli di 25 anni fa, con il supporto di immagini tratte da Google Earth e il quadro d’insieme è una vera e propria trasformazione metropolitana delle coste italiane.

Il WWF segnala 312 macro attività umane che hanno sottratto suolo naturale lungo le nostre ‘amate sponde’ per far spuntare dal 1988 a oggi villaggi, residence, centri commerciali, porti, autostrade, dighe e barriere che hanno alterato il profilo e il paesaggio del nostro paese facendo perdere biodiversità e patrimonio naturale. Un pezzo strutturale della nostra economia è stato così mangiato dal cemento, a scapito di un’offerta turistica balneare (soprattutto in aree di qualità) che coinvolge migliaia di aziende. Dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli occupata poi da un mega villaggio turistico alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Simeto in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata sono alcune delle ‘case history’ illustrate in una simbolica foto gallery regione per regione. Le più ‘colpite’ Sicilia, Sardegna e soprattutto la costa adriatica che rappresenta il 17% delle coste italiane ma dove meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Persino le aree costiere cosiddette protette non sono state risparmiate: su 78 SIC o ZPS difesi dalla Rete Natura 2000 europea il WWF ha censito 120 interventi “antropici” tra cui darsene, villaggi, etc. Dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10 % sono artificiali e alterate dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali ed industriali che rispecchiano l’intensa urbanizzazione di questi territori in continuo aumento e dove si concentra il 30% della popolazione. Finora le aree protette costiere si sono rivelate ottimi strumenti per contenere questa pressione e per valorizzare correttamente i territori, ma si tratta di ambiti limitati in un sistema disordinato e non gestito.

E a peggiorare le cose, il fatto che di tanta meraviglia non esista un ‘custode’ unico visto che ad oggi nessuno sa chi realmente governi le nostre coste: la gestione è ‘condivisa’ a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali) con una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo. Dalla legge sulla "Protezione delle bellezze naturali’ del 1939, all’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, passando per la Convenzione Ramsar sulle zone umide del 1971, senza dimenticare la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo e la Convenzione sulla diversità biologica di Rio del 1992, non mancano certo le leggi a tutela delle coste ma nonostante questo non si sa chi le governi.

“In un quarto di secolo abbiamo cancellato e imprigionato, coprendole di cemento, l’incomparabile bellezza delle nostre dune sabbiose, compromesso irrimediabilmente la macchia mediterranea, i boschi costieri e le aree di riposo e ristoro, come stagni costieri e foci di fiumi, per migratori – ha dichiarato Donatella Bianchi, Presidente del WWF Italia - Non solo bellezza che scompare o natura cancellata, ma una ricchezza economica che sperperiamo e che solo una visione miope e scellerata può consentire. L’attenzione e la cura sono ancora più urgenti, sono scelte obbligate, se pensiamo a quanto impatto avrà il turismo nei prossimi anni sulle nostre coste: 312 milioni di presenze stimate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente nelle sole zone costiere del Mediterraneo. Gestione integrata, uso sostenibile e attento, rinaturalizzazione dovranno essere le parole chiave del futuro, magari investendo in un lavoro di recupero e riqualificazione delle nostre coste, speculare a quello invocato da Renzo Piano per le aree periferiche delle grandi città. Se si riuscirà a fare tutto questo tra 10 anni la fotografia dallo spazio sarà meno inclemente e potremo dire di essere riusciti a salvare la nostra ‘Grande Bellezza’ che confina col mare”.

“Si pensa che lo scempio delle coste sia legato al passato, agli anni del boom delle seconde case e della grande speculazione edilizia o del raddoppio delle concessioni demaniali del 2000: purtroppo non è così perché l’invasione del cemento non si è mai fermata - ha dichiarato Gaetano Benedetto, direttore politiche ambientali del WWF Italia - Il WWF chiede di invertire la tendenza alla cementificazione attraverso due semplici cose: estendere i vincoli paesaggistici di tutela dai 300 metri ai 1000 metri di battigia e applicare una moratoria di tutte le edificazioni lungo la fascia costiera fino all’applicazione dei nuovi piani paesaggistici, che tra l’altro, dovrebbero essere già vigenti. Non si tratta di un problema solo ambientale: salvare le coste dal cemento vuol dire salvare un pezzo strutturale della nostra economia”.

SINTESI DEL DOSSIER

Il WWF per le coste

Nel corso degli anni il WWF ha testimoniato l’aggressione progressiva alle coste italiane con vari Dossier: dal censimento puntuale degli anni ’90 con il progetto ‘Oloferne’ sulle coste ancora ‘libere’ dal cemento all’attenzione ai piani paesaggistici come quello della Sardegna, fin alla riconversione e a bonifica delle aree industriali, da Taranto a Porto Torres, da Marghera a Milazzo, da Bagnoli a Falconara, fino all’istituzione e gestione delle aree protette. Il WWF ha poi segnalato e denunciato i problemi della portualità e dei transiti navali fino a tutti quelli interventi che accentuano e favoriscono l’erosione o la trasformazione costiera. Il dossier “Cemento-coast to coast” fa’ il punto generale richiamando con forza tutti i soggetti coinvolti ad una responsabilità di tutela, mettendo a confronto dati e immagini che analizzano un’evoluzione in 25 anni.

Un quarto di secolo di cemento costiero: il primato a Adriatico, Sicilia e Sardegna

Secondo il Dossier dal nord al sud nessuna regione costiera è esclusa, ma le ferite peggiori riguardano Sardegna e Sicilia, con 95 e 91 casi rispettivamente di nuove aree costiere invaso da cemento. In Sardegna , dopo un Piano paesistico che prometteva di correre ai ripari dalla cementificazione selvaggia delle coste, nel 2009 sono stati annullati i vincoli aprendo a nuove edificazioni all’interno dei 300 metri dal mare e ampliamenti di cubatura, per la maggiorparte documentati dal WWF. Il ‘caso studio’ quello di Cardedu, con due villaggi turistici e un’urbanizzazione a schiera costruiti in barba al vincolo paesaggistico. In Sicilia le poche aree che si salvano sono quelle ‘protette’, il resto è stato messo a dura prova: l’elenco degli insediamenti spuntati in questi 25 anni e segnalati nel Dossier è lungo, con il ‘caso studio’ di Campofelice di Roccella dove sorge una vasta area edificata in area vincolata.

La costa adriatica è la più urbanizzata dell’intero bacino del Mediterraneo. Dal Friuli Venezia Giulia alla Puglia i quasi 1.500 km di costa adriatici rappresentano il 17% delle coste italiane ma meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Negli anni ’50 quasi 1000 km sui totali 1472 (64%) del fronte adriatico erano privi di costruzioni ed altre strutture accessorie, configurando un paesaggio costiero oggi inimmaginabile. Se si escludono le Marche (con solamente il 21% di costa libera), il Friuli era quasi alla metà, mentre Veneto, Emilia e Abruzzo sfioravano il 70%. Per Molise e Puglia la costa era per oltre l’80% totalmente libera da urbanizzazione.

Tra gli anni ’50 e il 2001 la popolazione dei comuni costieri (CM) è aumentata di quasi 770.000 abitanti (poco meno del 28%), mentre, nello stesso periodo, l’aumento di popolazione in Italia è stato del 20%. In particolare in Abruzzo, Molise e Puglia le coperture urbanizzate aumentano da 8 a 10 volte, contro le 5 volte dell’Emilia o le tre volte del Veneto (sempre tenendo conto della presenza di lagune costiere in quest’ultimo caso). Gli interventi di urbanizzazione effettuati sulla costa adriatica italiana negli ultimi 50 anni denunciano una evidente carenza di programmazione e delineano un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno. I dati più rilevanti che emergono dalla ricerca sono quelli relativi alle dinamiche di crescita di circa il 400% della densità di urbanizzazione nei comuni costieri, ma in particolare del 300% nella fascia costiera dove negli anni ’50 circa i due terzi dei 1472 km della linea di costa fossero liberi da costruzioni e altre strutture, mentre questo valore si riduce drasticamente a meno di un terzo dopo il 2000 (466 km), con una velocità media di avanzamento delle urbanizzazioni stupefacente, pari a circa 10 chilometri l’anno (poco meno di 30 m al giorno).

Ieri paradisi naturali, oggi darsene e villaggi turistici


La mappatura satellitare utilizzata in questo lavoro non perdona nemmeno le aree naturali costiere, habitat fragili come dune, scogliere, paludi e steppe: le foto utilizzate e messe a confronto con lo status degli anni passati delle cosiddette Aree Natura 2000 che la stessa Unione Europea ci chiede di proteggere (SIC e ZPS) sono scomparse pezzo dopo pezzo. In 25 anni, in ben 78 piccoli paradisi naturali, al posto di ginepri, gigli di mare, stagni pullulanti di fenicotteri e aironi, foreste il WWF ha censito 120 interventi diversi di cui il 40% sono strutture ricettive, il 29% dighe e darsene e il 23% nuove urbanizzazioni. Anche in questo caso le regioni più colpite si confermano la Sardegna e la Sicilia con 35 e 25 casi che riguardano in gran parte nuove strutture ricettive. Un quadro che conferma quanto denunciato quest’anno dallo stesso ISPRA che ha definito lo stato di conservazione complessivo degli habitat costieri di interesse comunitario “non soddisfacente” (cattivo o inadeguato) per l’86,7% a fronte di un dato medio di tutti gli habitat presenti in Italia del 67,6%.

La ricetta “salvacoste” del WWF

La ‘ricetta’ per sfruttare in maniera intelligente e non devastante il potenziale patrimonio naturale costiero deve essere una sua gestione integrata e sostenibile. La vera sfida è invertire la tendenza alla ulteriore cementificazione della nostra fascia costiera anche attraverso una moratoria che l’Associazione chiede a Governo, Regioni e Comuni; inoltre garantire il rispetto delle normative e adottare politiche fiscali incentivanti sui comuni per la conservazione di ciò che resta ancora ‘libero’ da cemento lungo le coste, come già accade in qualche Paese europeo.

Un potenziale per le economie locali e il lavoro è anche quello che potrebbe derivare dal ripristino di vecchie cave (spesso occupate da costruzioni) o delle foci di fiumi distrutti e dune cancellate, un lavoro di ‘rammendo’ delle nostre coste, speculare quello invocato dall’architetto Piano per le aree periferiche delle grandi città. (vedi Scheda allegata – “La Ricetta Salvacoste” del WWF)

postilla

A volte la ricetta più semplice sarebbe il rispetto rioroso delle leggi vigenti. Perchè il Mibac non ha mai svolto i compiti che il Codice dei beni culturali gli affidava? E perchè, ad esempio, in Sardegna si è lasciato che Cappellacci smantellasse, con provvedimenti palesemente illeggittimi, il piano di Renato Soru, che non "prometteva" di tutelare le coste della Sardegna, ma le tutelava effettivamente con i vincoli di un piano ancor oggi vigente (dal 2006)

«Spro­fondo Veneto, con l’acqua alla gola e le Grandi Opere impan­ta­nate nel fango di affari & poli­tica. È l’immagine dell’incubo Pole­sine pro­iet­tata nel Due­mila. Ma anche l’"effetto Mose" che strac­cia la mito­lo­gica pro­pa­ganda e fa ripiom­bare il Nord Est nel guano delle tan­genti for­mato impresa».Il manifesto, 6 agosto 2014

Qui piove sem­pre sul bagnato: le quat­tro vit­time dello tsu­nami del tor­rente Lierza sabato sera a Refron­tolo (Tre­viso) squa­der­nano la vera insi­cu­rezza del Veneto. Allu­vioni e frane come esito natu­rale delle colate di asfalto e cemento pro­gram­mate senza solu­zione di con­ti­nuità politica.

Dal 4 al 6 feb­braio scorso un’altra emer­genza ha schie­nato mezza regione (com­presa la Marca tre­vi­giana) dai piedi d’argilla. Pro­prio come nell’autunno 2010. Ponte degli Angeli, cuore di Vicenza, misura il ter­mo­me­tro della paura: il Bac­chi­glione sale fino a lam­bire l’asfalto con il rischio di repli­care l’esondazione nel 20% della città che poi si espande verso il mare.
Di nuovo, un bol­let­tino di guerra: a Bovo­lenta, nella Bassa pado­vana, 600 sfol­lati atten­dono i soc­corsi; la rete via­ria della regione para­liz­zata da smot­ta­menti, crolli, infiltrazioni.

Lo scenario
Quat­tro anni fa un’identica apo­ca­lisse aveva messo in ginoc­chio il Veneto cen­trale: da Verona a Padova 150 chi­lo­me­tri qua­drati som­mersi non solo dall’acqua. Eppure era una “cata­strofe annun­ciata”, per­ché al di là delle pre­ci­pi­ta­zioni straor­di­na­rie, dal 1966 le opere di sal­va­guar­dia del ter­ri­to­rio riman­gono incom­piute. Luigi D’Alpaos, ordi­na­rio di Idrau­lica dell’Università di Padova, ripete inu­til­mente: «Il grande disa­stro è stato che nes­suno si è mai inte­res­sato alla que­stione idrau­lica che, anzi, è stata com­ple­ta­mente igno­rata. Si sono fatte così strade, auto­strade e altre opere che magari vanno anche sotto acqua alla prima piog­gia. I sin­daci di que­sti ultimi 50 anni hanno una bella respon­sa­bi­lità per come e quanto hanno urba­niz­zato ed occu­pato il ter­ri­to­rio senza seguire cri­teri guida. I sin­daci devono smet­terla di per­met­tere inse­dia­menti dove è pericoloso».

Il “par­tito del mat­tone” è sem­pre il più forte. Anche nell’epoca della crisi infi­nita l’immobiliarismo detta legge nei Comuni grandi e pic­coli. Dalle cave che dra­gano argini e fiumi al giro d’affari non sem­pre lim­pido del “movimento-terra”, fino ai cemen­ti­fici (tre impianti solo all’interno del Parco regio­nale dei Colli Euga­nei) e ai soliti pro­fes­sio­ni­sti del ramo.
È la vera indu­stria del Nord Est, l’unica finan­ziata dalle ban­che. La messa a red­dito delle aree edi­fi­ca­bili muove un pic­colo eser­cito di affa­ri­sti con inte­ressi votati al pro­fitto, pronti a sca­ri­care gli effetti col­la­te­rali sulla col­let­ti­vità. Sistema arti­co­lato, capil­lare, tra­sver­sale che macina rela­zioni eco­no­mi­che e rap­porti politici.

Verona è l’ultima fron­tiera delle Grandi Opere: 6 miliardi di pro­ject finan­cingcomin­ciano con i 13 chi­lo­me­tri di tan­gen­ziale nord in gal­le­ria. Rac­conta Gianni Bel­loni dell’Osservatorio ambiente e lega­lità di Vene­zia: «Dal casello auto­stra­dale, in 3,5 chi­lo­me­tri, la giunta del leghi­sta Fla­vio Tosi ha pre­vi­sto la costru­zione di ben 11 cen­tri com­mer­ciali per un totale di 380 mila metri qua­dri. Nella sola area di Verona Sud pre­vi­sti 4 milioni di mc di cemento: uno per edi­fici resi­den­ziali, altri 3 in dire­zio­nale, com­mer­ciale e alberghiero».

E la voca­zione d’oro di Vicenza brilla per sin­to­nia ammi­ni­stra­tiva: se il ber­lu­sco­niano Enrico Hull­wek ha lasciato in ere­dità spe­cu­la­zioni come minimo azzar­date, il ren­ziano Achille Variati rego­la­menta nuove colate di cemento armato.
Una ven­tina di chi­lo­me­tri più in là si fanno i conti con il ven­ten­nio di Fla­vio Zano­nato descritto elo­quen­te­mente da Fran­ce­sco Fiore (con­si­gi­liere comu­nale di Padova 2020): «Nel 2013 risul­ta­vano inven­dute oltre 10 mila abi­ta­zioni; che rad­dop­piano nei 18 muni­cipi della comu­nità metro­po­li­tana. Eppure gli attuali piani urba­ni­stici pre­ve­dono espan­sioni: alla volu­me­tria resi­dua del Prg vigente, il nuovo Pat aggiunge altri 2 milioni di metri cubi. Così si imma­gina l’insediamento di 24.185 abi­tanti in un decen­nio, Dato asso­lu­ta­mente irrea­li­stico: negli anni Due­mila la popo­la­zione è aumen­tata di 730 abitanti».

Betoniere e struzzi
Affari & poli­tica in ver­sione edile. Fun­ziona così, dall’epoca del “modello veneto” con una zona indu­striale sotto ogni cam­pa­nile. Nel Due­mila sono resu­si­sci­tati tutti, com­presi quelli appa­ren­te­mente morti con Tan­gen­to­poli. A Vene­zia c’è la mega-concessione del Mose, la più masto­don­tica opera pub­blica con­ce­pita in Ita­lia: la sal­va­guar­dia della laguna affi­data nelle mani dell’impresa Man­to­vani di Pier­gior­gio Baita (costretto a pat­teg­giare con la Pro­cura) e Gio­vanni Maz­za­cu­rati che a 82 anni deve rispon­dere della gestione del Con­sor­zio Vene­zia Nuova.

Comun­que, per i soci del Cvn (com­prese le coop “rosse”) l’affare era fatto: pro­prio all’inizio di feb­braio la Banca euro­pea degli inve­sti­menti aveva sbloc­cato il maxi-prestito (200 milioni di euro). L’accordo fir­mato a Roma seguiva mesi di rac­colta infor­ma­zioni sulle inda­gini giu­di­zia­rie da parte degli esperti della Banca, che hanno rice­vuto in garan­zia… gli stan­zia­menti del governo al Mose. Alchi­mia più che neces­sa­ria, per inter­cet­tare l’ultima tran­che del pac­chetto di 1,5 miliardi (soldi ero­gati tra il 2011 e il 2013). Poi sono scat­tati arre­sti, per­qui­si­zioni, veri­fi­che della Guar­dia di finanza e roga­to­rie internazionali…

A Vicenza, “regna” il gruppo Mal­tauro (1.700 dipen­denti, 465 milioni di euro il valore della pro­du­zione nel 2012) che ha in can­tiere anche l’appalto da 40 milioni della nuova metro di Roma Ter­mini. Naviga anche nei fiumi di denaro dell’Expo 2015 di Milano: 42,5 milioni per il pro­getto “Via d’acqua Sud” a cavallo del Navi­glio. Negli anni Novanta il nome dell’impresa ricor­reva nei fal­doni della magi­stra­tura che inda­gava sulle maz­zette per la “bre­tella” auto­stra­dale con l’aeroporto di Tes­sera. Ora l’imprenditore edile vicen­tino è finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta della Pro­cura di Milano, men­tre Pavia indaga sull’illecito smal­ti­mento di rifiuti. Di certo, Mal­tauro ha garan­tito la mate­ria prima per il bun­ker di Muham­mar Ghed­dafi a Tri­poli, men­tre lavo­rava e pro­get­tava infra­strut­ture del regime.

Cemento sussidiario
Al Tri­bu­nale di Padova è stata invece depo­si­tata l’istanza di pre-concordato da parte di Con­sta. E’ il con­sor­zio che incarna il busi­ness della Com­pa­gnia delle Opere: dal 10 set­tem­bre 2012 il CdA è pre­sie­duto da Gra­ziano Debel­lini (cari­sma­tico lea­der della fra­ter­nità ciel­lina) affian­cato da Eze­chiele Cit­ton (suo brac­cio destro nell’architettura della hol­ding dal Lus­sem­burgo alla Nuova Zelanda) e Luigi Patané nel ruolo di ammi­ni­stra­tore dele­gato e diret­tore gene­rale. I pro­blemi, finan­ziari e non, nascono in Etio­pia con la fer­ro­via per Gibuti e i can­tieri degli acque­dotti. In via Cri­mea va fanno i conti anche con il “rin­culo” delle ener­gie alter­na­tive, con lo sparring-partner Carlo De Benedetti.

La sin­tesi del sistema dei calce-struzzi veneto è ben rias­sunta nell’e-book La poli­tica urba­ni­stica dell’assessore Vito Gia­cino di Gior­gio Mas­si­gnan, pre­si­dente di Ita­lia Nostra a Verona. Sotto i riflet­tori, l’ex brac­cio destro di Tosi arre­stato il 17 feb­braio per cor­ru­zione: «Gli stru­menti urba­ni­stici si sono tra­sfor­mati in piat­ta­forme tec­ni­che che giu­sti­fi­cano e noti­fi­cano la spe­cu­la­zione edilizia».

E anche così si ritorna al “lato B” delle cicli­che allu­vioni a Nord Est. Con l’inchiesta for­mato docu-film Giace immo­bile scritta e diretta da Ric­cardo Mag­giolo: da Cal­do­gno (il paese di Roberto Bag­gio) sott’acqua si arriva fino all’immobiliarismo. Una pro­du­zione indi­pen­dente che viene pro­iet­tata sem­pre più spesso. In alter­na­tiva, c’è il sito www.giaceimmobile.com da cui si può sca­ri­care il film di 89 minuti in full HD a 4,99 euro.

«Negli ultimi cin­que anni il numero di com­pra­ven­dite immo­bi­liari è crol­lato. Nono­stante ciò, i prezzi hanno subìto solo una lieve fles­sione. Il mer­cato è in forte dise­qui­li­brio, oltre ad essere gra­vato da un’enorme mole di inven­duto e di edi­fici abban­do­nati, incom­pleti, deca­denti. Un’implosione del set­tore è un’ipotesi tutt’altro che remota» spiega la pre­sen­ta­zione dell’inchiesta. Fra gli inter­vi­stati, Tiziano Tem­pe­sta dell’Università di Padova e Luca Dondi diret­tore dell’Osservatorio Nomi­sma. È una spie­tata ana­lisi della ren­dita vir­tuale costruita sul valore del mat­tone. Affiora il Veneto della spe­cu­la­zione edi­li­zia, che pro­duce anche “cata­strofi naturali”.

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