Un progetto che resta fortemente osteggiato da un fronte decisamente eterogeneo, che spazia dai competitors Caltagirone e Bonifaci, che dalle colonne dei quotidiani di proprietà sparano a zero sulla proposta della A.S Roma e della Eurnova di Parnasi, ai politici soprattutto di centrosinistra, alle associazioni ambientaliste. E se noi continuiamo a non essere affatto convinti dell’operazione, dobbiamo dire che non ci convincono neanche le tante “conversioni” alla causa, a partire da quella dell’editore del Messaggero. E, come al solito, continuiamo a ragionare sui fatti e sui dati, sgombrando il dalle strumentalizzazioni, e soprattutto ponendo le domande indispensabili per capire come stanno davvero le cose.
Ma fin da ora rivolgiamo un nuovo appello al Sindaco affinchè “fermi la macchina” e sospenda la decisione sul pubblico interesse della proposta, avviando immediatamente un confronto con tutte le istituzioni – compresi i Municipi – e soprattutto con la città, intesa come cittadini e realtà dei territori. In ballo non c’è la messa in sicurezza di un impianto sportivo di provincia, ma un’operazione urbanistica e immobiliare di grande portata, che interessa una consistente fetta di territorio della Capitale d’Italia. E che è anche il primo “banco di prova” di una iniziativa legislativa del Governo Letta assolutamente inaccettabile, che consiste in due commi ambigui e generici, che sono già stati interpretati in maniera opposta da diversi esponenti della stessa maggioranza.
Un appello perché:
Chiediamo a Ignazio Marino di utilizzare tutta la sua autorevolezza di Sindaco di Roma Capitale per chiedere al Presidente Matteo Renzi di garantire l’interesse della nostra città: per regolare un progetto complesso come quello della costruzione e della sostenibilità economica di uno stadio è necessaria una legge dedicata, esaustiva e soprattutto univoca. Sul fronte dell’urbanistica, Roma ha già pagato altissimi prezzi, con focolai di insostenibilità sparsi in ogni municipio, a cui l’assessore Caudo lavora instancabilmente da più di un anno, per rilanciare un’altra idea di città. Continuiamo su questo percorso. Cambiamo tutto, insieme ai cittadini.
Le parole bugiarde e i fatti veri. Con lo "sblocca Italia si «confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici».Huffington post, 1 settembre 2014
Uno dei miglior talenti di Renzi è quello di azzeccare slogan e parole d'ordine. Lo «Sblocca Italia», ad esempio, è una locuzione molto efficace, corredata da alcuni leitmotiv già noti e da un impianto di sinonimie superficiali e scorrette. Tra tutte mi concentrerò su un solo esempio - il governo del territorio e del patrimonio comune - ma potremmo farne altri.
La politica messa in atto confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici. Il rischio che ne consegue, sempre più grave e urgente, è che beni demaniali, patrimonio di tutti i cittadini, diventino risorse disponibili solo a colossi finanziari e investitori privati. Per farsi un'idea precisa, basta guardare le proposta di modifica delle procedure per la riqualificazione dei beni del Demanio, incluse le caserme in dismissione, presentate nello Sblocca Italia.
Per le concessioni si introduce una norma sperimentale che cambia radicalmente il modus operandi dell'Agenzia del Demanio: il bene non sarà più offerto in concessione dallo Stato tramite una gara. D'ora in poi sarà direttamente il privato che individuerà il bene, stilerà il progetto e farà una proposta alla presidenza del Consiglio dei ministri. Il campo d'applicazione di questa proposta, così come appare nella bozza dello Sblocca Italia, è molto vasta: sono esclusi solo beni e aree a inedificabilità assoluta.
Non saranno movimenti e comitati a poter presentare queste proposte, per chiedere in concessione e valorizzare le pratiche di autorecupero del territorio, ma solo società di gestione risparmio (Sgr) e imprese, anche con la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti.
Per la vendita e la valorizzazione, Agenzia del Demanio e Ministero della Difesa individueranno gli immobili, poi entro un mese il Demanio dovrà proporre al Comune una nuova destinazione urbanistica, la quale dovrà essere approvata entro i successivi 4 mesi. L'Ente comunale riceverà una quota dei ricavi derivanti dalla vendita in maniera inversamente proporzionale al tempo impiegato per l'iter di approvazione (con ricavi che oscillano tra il 35% e il 5%). L'iper velocità delle operazioni non aiuterà certo la partecipazione alla scelta da parte della cittadinanza, né favorirà la discussione pubblica sul futuro di un bene comune da riutilizzare.
La semplificazione sulle concessioni e sulla vendita del patrimonio pubblico in disuso, con le nuove procedure per cambio di destinazione d'uso e varianti urbanistiche, con l'apertura di una corsia preferenziale per i privati che hanno progetti senza oneri per lo Stato, è una misura che favorirà la privatizzazione selvaggia. Mentre non c'è traccia di misure a favore dell'affidamento del patrimonio immobiliare in disuso a reti di cittadini e comitati che se ne prenderebbero cura senza finalità di profitto.
La guerra alla burocrazia, a cui allude l'efficace slogan di Renzi nasconde l'obiettivo di far cassa presto, per pagare debiti inestinguibili e ingiusti, svendendo pezzi d'Italia attraverso una privatizzazione senza regole, che distrugge il territorio e ci impoverisce tutti.
È una politica che procede incontrastata da decenni di liberismo, nonostante il lavoro di movimenti e associazioni, spesso senza rappresentanza politica, che tentano promuovono pratiche di valorizzazione e difesa di beni comuni. Sarebbe stato più onesto chiamarlo lo Svendi-Italia....
Pare un trafiletto di locale, forse lo è, ma di sicuro indica un possibile ribaltamento storico di tendenza: la progressiva colmata della greenbelt metropolitana non è più un dogma urbanistico. La Repubblica Milano, 27 agosto 2014, con postilla (f.b.)
È stata una piccola festa con tanto di brindisi quella che ha celebrato la fine di un contenzioso lungo 32 anni con la proprietà Ligresti e, soprattutto, l’inizio di un nuova storia che vuole scrivere Palazzo Marino. Perché, dopo tre decenni di timori che su questo pezzo di Parco Sud calasse il cemento, da ieri la cascina Campazzo è passata al Comune. Che, adesso, punta alla riqualificazione dell’edificio e alla «creazione del parco agricolo Ticinello di oltre 90 ettari».
Il cuneo verde di cui si parla è quello più a sinistra |
A scrivere la parola fine è stata la decisione del Tar della Lombardia che ha respinto le richieste di sospensiva avanzate dalla proprietà dell’immobile contro due provvedimenti dell’amministrazione comunale: il decreto di esproprio dell’11 dicembre 2013 e l’avviso di esecuzione del decreto del 20 maggio 2014. «È una vittoria della città e degli agricoltori — ha dichiarato il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — resa possibile grazie alla modifica del Piano di governo del territorio: non abbiamo mai accettato di barattare questo simbolo dell’agricoltura milanese con i tentativi di speculazione sul parco, e abbiamo difeso l’attività agricola che è parte fondamentale dell’identità della nostra città».
Il Comune è già intervenuto per mettere in sicurezza la cascina, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione. Il recupero della cascina Campazzo, dove da sessant’anni vive e lavora la famiglia di Andrea Falappi, il presidente del Distretto agricolo milanese, si affianca alla realizzazione del parco Ticinello. «Finalmente giunge a conclusione una vicenda nata nel 1982. Si è fatta giustizia », ha detto il presidente di Zona 5, Aldo Ugliano.
Il terreno appena a sud della cascina. Foto F. Bottini |
postilla
Se 90 ettari vi sembrano pochi, ma resterebbe una questione comunque puntuale, non fosse per il nome di Salvatore Ligresti, e il suo marchio su tante altre cose che a quei 90 ettari stanno attorno, ovvero la grande greenbelt agricola metropolitana che proprio questa superficie relativamente piccola articola in un cuneo, dall'anticamera della zona delle prime risaie a ridosso della zona urbana densa, ovvero la circonvallazione esterna distante un tiro di sasso dall'edificio della cascina. Ligresti è uno di quei tizi che dicono “a che serve il piano regolatore, noi sappiamo regolarci benissimo da soli”, e quel regolarsi da soli si è chiamato per un certo periodo urbanistica contrattata, per un altro periodo urbanistica tout court, quella del non-piano che cambiava per legge allo spuntare di un nuovo progettone degli amici degli amici che avevano la grossa idea, più o meno sempre la stessa. Il famigerato Centro Ricerche Biomediche di Umberto Veronesi starebbe sulla medesima linea di attacco alla greenbelt (60 ettari) poco più a est. Giusto in fregio ai terreni appena salvati dalla decisione del Tribunale, si profilano i palazzoni di uno di quei progetti storici che hanno fatto da modello ai successivi Piani Integrati di Maurizio Lupi, l'asse di via dei Missaglia, triste caricatura di un altro quartiere, stavolta incolpevolmente razionalista anni '50, il Gratosoglio, giusto lì di fronte, quando la fame di case era vera. Dopo la sentenza del Tar, verrebbe voglia di tirar fuori il solito Cuneo Rosso di El Lisitskij, ma qui non siamo nell'ambiente facilone di Facebook, e si auspica invece che anche gli altri progetti strampalati dell'ex deus ex machina della trasformazione urbana a vanvera non facciano troppi danni. Mentre la questione greenbelt ahimè con le ultime opere Expo si allarga a territori più vasti, ma questa è un'altra storia (f.b.)
Asili nido: NO, Difesa del suolo: NO,Trasporti pubblici locali: NO, Restauro e manutenzione dei beni culturali: NO, Salute: NO, Spazi e servizi pubblici per tutti: NO. Invece Grandi opere inutili SI, SI, SI, SI. Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2014
Nonostante queste controindicazioni, i lavori per il gigantesco elettrodotto di mille Megawatt di potenza sono in pieno svolgimento per collegare Villanova in provincia di Pescara con l’area montenegrina di Tivat-Kotor. Il cavo è lungo 415 chilometri, 390 passano sotto il mare, 15 nella terraferma italiana e 10 in Montenegro. Sul versante montenegrino i lavori sono in fase preparatoria, in Italia invece procedono spediti. Come se quel collegamento fosse ancora una priorità e un investimento vantaggioso e non indifferibile per gli italiani.
In realtà c'è chi ci guadagna con l'elettrodotto italo-balcanico: il gruppo Seci-Maccaferri di Bologna che con sorprendente tempismo è andato a costruire una decina di centrali idroelettriche proprio nei Balcani, in Serbia, a ridosso del Montenegro. L'intervento di Maccaferri è gigantesco: 800 milioni di euro per tre centrali idroelettriche lungo la Drina e altri 300 milioni per altre piccole centrali sull’Ibar. Il costo è per il 51 per cento a carico del gruppo bolognese e per il 49 per cento dalla società Eps (Elektroprivreda Srbije).
Quando anni fa apparvero sui giornali le notizie che davano conto dell'operazione Maccaferri, il significato di quell'investimento non fu capito. Il gruppo bolognese, invece, sapeva ciò che stava facendo, avendo probabilmente avuto fin da allora l'assicurazione da chi poteva darla che l'Italia avrebbe sicuramente comprato quell'elettricità prodotta così lontano dai confini nazionali. Il calcolo si è rivelato esatto. In forza di accordi internazionali con la Serbia, il cavo trasporterà in Italia l'elettricità serba di Maccaferri a 155 euro al Megawatt, più del doppio rispetto ai 63 euro del costo medio rilevato alla Borsa elettrica italiana nel 2013. Quelle intese portano le firme di due ministri di governi di centrodestra, entrambi assai vicini a Silvio Berlusconi: Claudio Scajola nel 2009 e Paolo Romani nel 2011. Dopo aver riposato nel cassetto di qualche ufficio, forse anche a causa dei numerosi cambi di governo, quei trattati vengono ripescati proprio nel momento in cui partono i lavori del cavo sottomarino e ora si trovano in Senato per la ratifica. La discussione riprende a settembre. Una volta approvate, quelle intese diventano operative e vincolanti. E il grande affare dell'elettricità balcanica inarrestabile.
La storia del cavo Montenegro-Italia era cominciata in un'altra stagione politica: 2007, secondo governo Prodi, ministro dello Sviluppo Pier Luigi Bersani che nel dicembre di quell'anno volò in Montenegro a firmare un accordo per l'elettrodotto. Di cui allora forse c'era davvero bisogno. A Terna, la società pubblica per la trasmissione dell'elettricità che materialmente sta realizzando l'opera, spiegano che il cavo serve per “magliare” il Centro e soprattutto il Sud. Per evitare cioè che quelle zone d'Italia restino svantaggiate, meno sicure e rifornite di elettricità rispetto al resto del Paese. L'ok alla costruzione del cavo è stato dato dal ministero dello Sviluppo per tre anni di fila (2009, 2010 e 2011).
Anche l'Autorità per l'energia ha detto sì, anche se ora sono diventati assai titubanti. Fino al punto di chiedere al Consiglio di Stato perché mai l'Italia si debba svenare pagando perfino la parte di cavo che si trova in territorio montenegrino.
Una lezione di territorio e di storia: e sulla storia, sul suo legame col territorio, sull'insegnamento che ciò che ci sta intorno fornisce a chiunque di noi abbia ben aperti gli occhi della mente. Il Fatto quotidiano, 25 agosto 2014
In Maremma, per esempio, a pochi chilometri, nell'interno, da uno dei più famosi luoghi di mare toscani (Castiglion della Pescaia) sorge la minuscola Vetulonia. Nel 1840 – quando questo paesino si chiamava Colonna di Buriano – fu ritrovato a Cerveteri (non molto più a sud) un bassorilievo romano che rappresentava la città etrusca di Vetulonia.
Era stata una città famosa, quella: gli storici antichi dicevano che alcuni simboli del potere imperiale romano, li avevano inventati proprio i re etruschi di Vetulonia. Tra di essi il fascio littorio (simbolo della giustizia, ma destinato a un futuro terribile) e la sella curule, una specie di sgabello pieghevole che oggi si chiama faldistorio, anche se lo usa ancora quasi solo il papa.
E allora, dov'era finita Vetulonia, che gli etruschi chiamavano Vatl? Ebbene, il 27 maggio del 1880 Isidoro Falchi (un medico col pallino dell'archeologia) visitò Colonna, e capì che proprio quel paesino maremmano sperduto poteva essere stato una delle città più famose dell'antichità. I suoi scavi lo dimostrarono anche agli increduli: e nel 1887 «Umberto I re d'Italia rese a Colonna l'antico nome di Vetulonia», come ricorda ancora oggi una lapide.
Ma cosa colpì la fantasia di Falchi, in quel giorno decisivo del 1880, quando mise piede a Colonna per la prima volta? Certo furono le mura formate da enormi blocchi di pietre: tanto grandi che sembravano costruite dai ciclopi, mitici giganti dell'antichità. Un tratto di quelle mura è nel cuore del paese, sulla cima del colle più alto. Oggi si pensa che non fossero mura di difesa, ma che si trattasse del basamento di un tempio, che sorgeva proprio dove ora è la chiesa. Quel muro di pietre enormi fu probabilmente costruito proprio quando Alessandro Magno conquistava il mondo con le armi e Aristotele scriveva libri che l'avrebbero conquistato per sempre. E su quelle mura antichissime e ciclopiche oggi sorgono case normali, dove abitano persone normali. Questa è la meraviglia dell'Italia: che non è un museo, ma un corpo vivo che deve solo ritrovare la memoria di sé. E anche a questo può servire un lungo agosto piovoso.
Chi riuscirà a diventare più ricco e potente sfruttando gli errori compiuti da amministratori pubblici incapaci e impunibili? Non c’è che da aspettare e vedere. Il Fatto quotidiano, 21 agosto 2014
Non ci sarà, prevedibilmente, una folla di pretendenti né una corsa per arrivare primi. Perché le condizioni sono buone per il bene comune, ma praticamente improponibili per un privato. Secondo il bando, avrà l’area l’operatore (o il gruppo di operatori) che ci metterà almeno 315,4 milioni di euro, non un centesimo di meno, gradita qualche cosa in più. Poi però non potrà farci quello che vuole: dovrà lasciare a parco metà dell’area (440 mila metri quadrati); quanto al resto (480 mila metri quadrati, comunque sufficienti a costruirci l’ennesimo quartiere), dovrà edificare il meno possibile, mischiando residenza, uffici, spazi produttivi e negozi (ma non un grande centro commerciale: al massimo 2500 metri quadrati). Preferite opere di uso pubblico, tipo il nuovo stadio del Milan, la cittadella dello sport, un nuovo centro di produzione della Rai e attività che abbiano a che fare con il tema Expo, cioè il cibo, l’agricoltura, l’ambiente.
Non solo: dovrà pure aspettare che, nel 2016 o nel 2017, siano i Consigli comunali di Milano e Rho ad approvare – se e come vorranno – i piani urbanistici. Più che un operatore, si cerca un santo. Disposto a lavare a sue spese il peccato originale di Expo: quello di essere stato localizzato (dall’ex sindaco Letizia Moratti e dall’ex presidente Roberto Formigoni) su un’area privata. Pagata a caro prezzo da Comune e Regione, con la necessità, a cose fatte, di far rientrare i soldi (nostri). Si poteva fare su un terreno pubblico? Sì: sull’area Porto di Mare, o alla Bovisa. Invece Formigoni ha imposto quell’area sbilenca a nord-ovest di Milano chiusa tra due autostrade, il carcere di Bollate e il cimitero di Musocco. Perché? Perché era in gran parte della Fondazione Fiera (ai tempi della scelta controllata dai ciellini formigoniani) che aveva i conti in rosso: con l’operazione Expo li ha sistemati.
A questo proposito, bisogna dire che alla conferenza stampa di presentazione del bando si è distinto proprio il rappresentante della Fiera, Corrado Peraboni (ieri leghista, oggi forse ex leghista, sempre certamente peraboniano). Mentre il vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris, si è laicamente appellata all’ottimismo della volontà (abbiamo ereditato questa situazione, dobbiamo cercare di uscirne vivi) e il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto trapelare un certo distacco (stiamo a vedere che cosa succederà), Peraboni è venuto a farci la morale, sostenendo che deve prevalere l’interesse pubblico: proprio lui che rappresenta la Fondazione che è all’origine di questo pasticcio e che, in pieno conflitto d’interessi, ha venduto a se stessa (in quanto socio di Arexpo) le sue aree per rimettere in sesto i conti disastrati. È come se Diabolik facesse uno spot contro i furti di diamanti. O se Schettino fosse chiamato, che so, a far lezione all’università.
Che cosa c'è dietro lo scontro tra rabbia e repressione a Ferguson City; e, per chi sa leggere la città d'oggi, anche altrove. Millennio urbano, 20 agosto 2014
Dal sito Millennio urbano riprendiamo questo articolo (pubblicato originariamente da CBS News, 19 agosto 2014, col titolo: Hit by poverty, Ferguson reflects the new suburbs) scelto tradotto e commentato in calce da Fabrizio Bottini.
Il violento confronto fra polizia e cittadini a Ferguson, Missouri, evidenzia lo sconvolgimento demografico che interessa le fasce suburbane, dove oggi abita la maggioranza della popolazione povera del paese. Nelle 100 principali aree statistiche metropolitane si è assistito a un drastico impennarsi dei poveri nel suburbio, secondo le ricerche della Brookings Institution. La quantità di zone dove oltre il 20% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà federale è più che raddoppiata dopo il 2000. Non solo cresce, questa povertà, ma si concentra in aree specifiche. Nel 2012, il 38% dei poveri suburbani stava in quartieri con oltre il 20% di povertà, secondo i calcoli della Brookings. Per quanto riguarda i poveri neri, è il 53% ad abitare zone con tassi di povertà oltre il 20%.
“All’inizio degli anni 2000 le cinque circoscrizioni censuarie in cui si articola la zona di Ferguson registravano tassi di povertà oscillanti fra il 4% e il 16%” commenta l’analista della Brookings Elizabeth Kneebone in un post recente. “Ma nel periodo 2008-2012 quasi tutta Ferguson supera la quota del 20% e iniziano ad emergere gli effetti negativi della povertà concentrata”. Effetti che comprendono scarse possibilità di trovarsi un lavoro o di avere assistenza sanitaria, scuole di bassissimo livello, elevati tassi di criminalità. “Rileviamo come i quartieri suburbani poveri siano più propensi al tracollo sociale di quanto non avvenga in equivalenti contesti urbani, specie per quanto riguarda la possibilità di migliorare” scriveva l’anno scorso in una relazione Alexandra Murphy del National Poverty Center all’Università del Michigan.
Ferguson è emblematica di questo impatto della povertà sul suburbio americano. Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato, da meno del 5% nel 2000 a più del 13% nel 2010-12. Secondo l’ufficio censimento nel 2012 un abitante su quattro era al di sotto della soglia di povertà federale (ovvero viveva con meno di 23.492 dollari in una famiglia di quattro persone), e il 44% era ben due volte sotto quella soglia. Il reddito pro capite di Ferguson di 21.000 dollari la colloca all’ottantottesimo posto fra le 140 circoscrizioni cittadine del Missouri, secondo i calcoli del sito BiggestUSCities.com, mentre il reddito medio familiare con 36.645 dollari è al centotreesimo.
“Per chi abita a Ferguson e ha un lavoro, il reddito reale è stato falcidiato di un terzo dall’inflazione” aggiunge Kneebone della Brookings. “Il numero delle famiglie che usano i buoni casa federali è salito più o meno da 300 nel 2000 a oltre 800 alla fine del decennio”. Oltre alla crescita della povertà, si aggiunge un cambio nella composizione razziale di parecchi suburbi Usa. Un cambio che non trova corrispettivo nelle classi dirigenti locali. Gli scontri di Ferguson avvengono dopo l’uccisione di Michael Brown, nero disarmato a cui ha sparato un poliziotto. E sia l’amministrazione cittadina che la polizia qui sono in stragrande maggioranza bianche, con una popolazione afroamericana al 67%.
Secondo una ricerca dell’American Communities Project alla American University, “Nel 2000 i suburbi erano al 67% bianchi e non ispanici, al 12% afroamericani, al 13% ispanici. Nel 2012, la popolazione bianca non ispanica era scesa al 59%, l’afroamericana cresciuta al 13% e la ispanica circa il 18%”. A livello nazionale i poveri mostrano bassi livelli di partecipazione al voto, e ciò si conferma a Ferguson. Gli abitanti sono 15.000 maggiorenni, ma per le ultime votazioni al sindaco lo scorso aprile si sono espressi solo in 1.350, confermando senza alcuna opposizione James Knowles III. Alle elezioni consiliari del 2013 i voti sono stati 1.500. Nel 2011 un consigliere si è insediato per un totale di 72 consensi.
Commento
Vedi anche Michela Barzi Nuove povertà suburbane, Millennio Urbano 22 dicembre 2013; e del resto il tema della povertà suburbana, sempre ufficialmente messo in secondo piano, è all’ordine del giorno da quasi un decennio come si deduce anche da questi primi studi della Brookings Institution datati 2006, Cfr. I sobborghi sempre più vecchi e poveri, Mall 20 agosto 2006
Cresce l’opposizione al devastante progetto di sventrare la Laguna di Venezia per consentire ai Giganti del mare di scaricare miriadi di turisti “mordi e fuggi”. Articoli dal Gazzettino di Venezia e dal Corriere del Veneto, 19 e 20 agosto 2014
Il Gazzettino, 19 agosto 2014
Grandi navi, il Pd "silura" il Pd
di Michele Fullin
Quattordici esponenti dei circoli della cittá storica e delle isole contestano la linea dei vertici del partito
La base avverte i segretari e i futuri candidati sindaco: «Dovranno dire cosa ne pensano e agire» Le grandi navi diventano terreno di scontro politico interno al Pd. La base, infatti, si ribella alla linea finora tenuta dal partito e dall'amministrazione comunale sul tema, ritenendola troppo morbida e invita (ma suona come una minaccia) chiunque si proporrà a guidare la città tra il 2015 e il 2020 a tenerlo ben presente. «Chi pensa di candidarsi o di candidare qualcuno al governo di Venezia - il riferimento è soprattutto ai vertici del partito - per le amministrative della prossima primavera dovrà ben dire cosa pensa e cosa si propone di fare su questi temi». Il "manifesto" che invita il partito che governa la città da decenni è stato sottoscritto da 14 componenti dei circoli locali della città e delle isole: Alberto Bernstein, Antonio Rusconi, Cecilia To-non, Enzo Castelli, Federica Travagnin, Francesco Pedrini , Gilberto Scarpa, Giorgio Nardo, Luciana Mion, Marco Zanetti, Monica Da Cortà Fumei, Raimondo Ruzzier, Roberto Vianello, Serena Ragno. Si tratta di un documento che non le manda a dire a nessuno e che porta un po' di aria nuova rispetto alle note ufficiali del partito, ritenute eccessivamente ecumeniche. «Il "capitano di lungo corso" Paolo Costa - dicono - è riuscito ad ammutolire pure il maggior partito della città, il Pd, che solo una ventina di giorni prima della decisione del Comitatone sullo scavo del Contorta aveva preso posizione mettendo in primo piano la salvaguardia della laguna e chiedendo il confronto di tutte le alternative in campo e che sia garantita informazione e partecipazione del pubblico». Questo, fanno notare, a differenza di Italia Nostra che ha chiesto subito le dimissioni del ministro dell'Ambiente, reo di aver fatto passare il progetto in Comitatone. Tuttavia, ci sarebbe poco da stare tranquilli, persino per i fautori dello scavo del canale Contorta Sant'Angelo. «La decisione - afferma la base del Pd veneziano - non ha risolto un bel niente, come ha osservato anche il presidente di Confindustria, Gianfranco Zoppas: costi e tempi di realizzazione sono ancora incerti e il sistema decisionale assomiglia troppo a quello di un nuovo Mose».
Corriere del Veneto, 20 agosto 2014
Firme dall'Europa contro il Contorta
E il nuovo canale divide i democratici
di G.B.
Firme raddoppiate, in nemmeno due giorni le adesioni alla petizione contro lo scavo del canale Contorta sono passate da 400 a 965. Mentre è bufera all'interno del Partito democratico, perché un gruppo di militanti si è schierato contro la decisione del Comitatone. «La scelta non ha risolto un bel nulla — si legge nella lettera sottoscritta da 22 attivisti —, il sistema decisionale assomiglia troppo a un nuovo Mo se, la politica si è sottratta alle sue responsabilità cedendo al piglio di un capitano di lungo corso come Paolo Costa, già rettore, sindaco, ministro e ora presidente del Porto». I toni sono severi e accusano il Pd di essersi ammutolito. «Chi pensa di candidarsi o candidare qualcuno al governo di Venezia dovrà ben dire cosa pensa e si propone di fare sulle navi», concludono i 22 tra cui ci sono l'ex presidente di Avm Giorgio Nardo, l'ex consigliere provinciale Serena Ragno, l'ex presidente di Municipalità Enzo Castelli, il docente di luav Antonio Rusconi, Marco Zanetti e William Pinarello, attivi nelle lotte ambientaliste del Lido. La petizione invece, lanciata su Facebook dal neonato gruppo «Per l'isola di Sant'Angelo e la nostra laguna» e sul portale «change.org» dal Gruppo 25 aprile sta ottenendo adesioni da ogni angolo d'Italia e dall'Europa, tutti indignati per una scelta che sarebbe contraria alla tutela ambientale di Venezia. L'obiettivo iniziale era di arrivare a mille firme per inviare quindi il documento al premier Matteo Renzi ma è facile che il numero sia abbondantemente superato. Tra i firmatari anche lo scrittore Alvise Zorzi: «Aderisco con entusiasmo all'appello che spero possa salvare dalla cecità dei politici la nostra Laguna e di riflesso la nostra Venezia».
La Repubblica, 18 agosto 2014
Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi di Riace sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, esposizioni commerciali e altri “grandi eventi”, dove — vuole la leggenda — innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. facendo così dimenticare a politici e banchieri assai sospettosi dell’Italia il debito pubblico, la recessione, la disoccupazione, la devastazione dei paesaggi, l’evasione fiscale, il declino della scuola, dell’università, della ricerca.
L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità, per esempio il Davide di Donatello, trascinato qualche anno fa alla Fiera di Milano. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi che, deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8, sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti.
In restauro per anni, i Bronzi di Riace sono stati visibili poco o niente, e solo da qualche mese sono di nuovo in vista: ragione sufficiente per non smuoverli dai loro piedistalli antisismici, nonché per rinnovare strategie espositive e attrattive. Di fronte alle proposte di spedirli a Milano per l’Expo, Franceschini parla di una commissione ad hoc: ma il suo ministero ha un organo tecnico, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che è in grado di fornirgli domattina tutta la documentazione necessaria (e che già si oppose ad altre peregrinazioni dei Bronzi). Ma quel che l’Istituto (o qualsivoglia commissione di esperti) dirà è scontato: sono tanto preziosi e vulnerabili che meno si muovono meglio è.
Eppure non è tutto qui. Davanti a una sgangherata industria delle mostre, chiediamoci: dato che ogni movimento comporta rischi, quando vale la pena di muovere un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare. Anche se ci hanno già pensato in molti, per esempio Quatremère de Quincy, con la sua folgorante osservazione (1796) che perfino un quadro di Raffaello, se fuori contesto, non dice nulla, perché non è una reliquia, come un frammento della Croce, che possa «comunicare le virtù legate all’insieme ». Le mostre servono solo se creano trame di relazioni accostando opere normalmente lontane. Servono se nascono da un progetto, da una ricerca; se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico.
Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale. È ingranaggio essenziale di un diritto alla cultura oggi mortificato in ogni suo aspetto, dalla scuola al teatro. Inutile, anzi controproducente usare i Bronzi come paravento per nascondere l’indifferenza dei governi ai temi della cultura. Se davvero vogliamo avere qualcosa di cui vantarci all’Expo, meno icone e più fatti. A Franceschini auguriamo che riesca davvero, come ha dichiarato a Repubblica , a raddoppiare i finanziamenti al suo ministero nella prossima legge di stabilità. Non si farebbe che tornare ai livelli del 2008, quando Tremonti li dimezzò, fra grandi proteste della sinistra, che però finora non vi ha posto alcun rimedio. Proprio perché vetrina d’Italia, l’Expo può essere l’occasione di investire sul nostro patrimonio, e non di sbandierare icone.
Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2014
Roma. “Palazzinaro amaro sei un palazzinaro baro per tutto il male fatto a Roma adesso paghi caro al funerale del tuo centro commerciale è bellissimo vedere il nostro lago naturale”.
Cantano così gli “Assalti Frontali” con “Il Muro del canto”, insieme a migliaia di attivisti, cittadini e comitati. I Comitatini di tutta Italia, tanto cari a Renzi e ad i suoi predecessori, sbeffeggiati, derisi e spesso manganellati.
Cosa c’entra l’underground con le buone pratiche? C’entra. C’entra molto. Perché le buone pratiche, spesso, nascono dal basso, dai movimenti, da chi spinge per migliorare la qualità della vita senza ricoprire cariche amministrative o politiche. Da chi scrive canzoni come Militant A, voce degli Assalti Frontali.
Sull’area dismessa della ex fabbrica tessile Snia Viscosa,10 mila metri quadri dove hanno lavorato negli anni migliaia di persone, si erano posate le mire della solita speculazione edilizia. Capirai! Pieno centro di Roma! Tra Termini e Porta Maggiore! Rendita Urbana. Quella che un tempo si definiva “parassitaria”. Una prassi consolidata. Protagonista indisturbato: il partito del cemento.
Ma ironia della sorte, “in mezzo ai mostri de cemento” è spuntato un lago naturale, di acqua minerale. E sono state proprio le ruspe che iniziarono a scavare a provocare la formazione del lago. Volevano gettare le fondamenta di un bel centro commerciale ed invece hanno liberato l’acqua con le bollicine. I proprietari dell’area hanno cercato di rimediare, pompare l’acqua, nascondere. Ma ormai quel lago era già diventato un bene comune. Una risorsa della città, di Tor Pignattara.
Così sono iniziate vent’anni di battaglie. Ambientalisti, comitato di quartiere e Centro Sociale Ex Snia si sono opposti con tenacia alla realizzazione dell’ennesima colata di cemento ed in difesa del nuovo ecosistema. Mobilitazioni, manifestazioni, gite con canotto e canoa in mezzo ai pilastri dell’ex fabbrica, con cormorani e martin pescatori. La richiesta incessante ed insistente: lago per tutti e cemento per nessuno .
Il Comune si è mosso. Il proprietario si è opposto. Ma questa volta la battaglia la vincono i cittadini, i comitati, i cantanti. Il Campidoglio ha aperto il varco sulla via Prenestina avviando di fatto l’esproprio del terreno e del lago. E come canta Daniele Coccia, “In mezzo ai mostri de cemento st’acqua mò riflette er cielo, È la natura che combatte, e sto quartiere è meno nero, In mezzo ai mostri de cemento il lago è ‘n sogno che s’avvera, È la natura che resiste, stanotte Roma è meno nera”
Il fatto quotidiano, dai blog, 16 agosto 2014
“Il colmo è che si bloccano i lavori perché si trovano dei reperti archeologici. Questo è un paradosso. In tutto il mondo le risultanze degli scavi archeologici permettono ai passeggeri delle metropolitane di godere di cose delle quale altrimenti non avrebbero potuto vedere. Torino, Roma con l’operazione della linea C, e Palermo sono realtà che accederanno al finanziamento delle linee metropolitane”. Renzi lo ha dichiarato a Napoli nel bel mezzo del suo tour al Sud. L’ormai famoso Decreto sblocca-Italia passa anche da questo. E’ ormai chiaro. Le Soprintendenze dovranno dare l’autorizzazione paesaggistica in tempi certi o scatteranno procedure sostitutive. Non solo. Per la conferenza di servizi si sta mettendo a punto una norma che superi il dissenso e la definizione in termini di validità per la raccolta degli atti. Con questo capitolo l’Italia delle opere ferme al palo scatterà in avanti. Si sistemerà quanto già iniziato. Soprattutto, si creeranno le condizioni perché i tempi previsti per i cantieri non siano solo un auspicio destinato ad essere deluso.
Il programma di Renzi non ammette intoppi. Le lungaggini vanno superate con un decisionismo improntato al “tutto e subito”. Vanno spezzate catene che hanno impedito per troppo tempo di avanzare nel cambiamento. Di produrre futuro. Troppi cantieri dal Veneto alla Sicilia hanno subito le politiche imposte dalle Soprintendenze. Con il risultato che indagini archeologiche, nelle intenzioni preliminari, hanno finito per diventare scavi interminabili. Che hanno comportato non solo la sospensione dell’opera di turno da realizzare, ma anche una lievitazione senza misura dei costi. Renzi ritiene che queste siano le procedure che in tanti casi hanno decretato il “non finito” che si vede in ogni angolo d’Italia. Questo il dato certo. A differenza di quel che riguarda gli elementi che debbono avergli suggerito questa posizione, per così dire, critica.
Perché è vero che si possono richiamare esempi di situazioni nelle quali le Soprintendenze, a partire da quelle archeologiche, hanno assunto un atteggiamento oltremodo intransigente. Verrebbe da dire, zelante oltre misura. Ma è pur vero che quei casi estremi costituiscono un numero ben esiguo rispetto a quelli nei quali si è solamente tentato di non far cancellare, impunemente, testimonianze di estremo rilievo. Senza contare le circostanze, tutt’altro che episodiche, nelle quali l’archeologia, a dispetto di quanto identificato, è stata trattata senza alcun riguardo. Necropoli e singole tombe, strade basolate e semplici tracciati “battuti”, edifici termali e impianti produttivi, villae e luoghi di culto, vaste opere di bonifica idraulica e più modesti sistemi di smaltimento e/o irregimentazione delle acque. Non esiste città italiana o parte di territorio che non abbia sacrificato frammenti della sua Storia alla costruzione di nuovi quartieri e infrastrutture viarie.
A Roma, la realizzazione di Tor Bella Monaca ha cancellato quasi completamente il popolamento antico del centro di Collatia, noto attraverso le ricerche di Lorenzo Quilici e più recentemente la stessa sorte è toccata a la Bufalotta, costruita su una parte di territorio dell’antica Fidenae. Che dire poi dei Colli Albani, zona residenziale a breve distanza da Roma, nella quale il fenomeno soprattutto delle seconde case, ha fatto quasi tabula rasa del sistema di insediamenti sviluppatosi in età romana? Per decenni i ritrovamenti occasionali, hanno costituito un trascurabile “spauracchio”.
Poi con l’archeologia preventiva le cose sono un po’ cambiate. Ma il suo potere, generalmente, ha continuato ad essere oltremodo marginale. Come detto, a parte pochi, circoscritti, casi. Semmai è vero che in non poche occasioni l’archeologia è diventata una sorta di pretesto. Il parafulmine sul quale scaricare ogni colpa. Il sistema italiano ha prodotto l’infinità di cantieri avviati e mai terminati. Non certo il potere dell’archeologia. Se non fosse così la lista di strade e ponti, palazzetti dello sport, teatri, parcheggi e ospedali e molto altro sarebbe risultata meno lunga. Se non fosse così nel capitolo “Territorio e reti” del Rapporto 2013 del Censis, una parte importante non sarebbe stata dedicata “ai ritardi ed alle incompiutezze ed al lungo travaglio dei grandi progetti urbani all’epoca della crisi”.
Il rapporto descrive ventidue casi esemplari, dimenticandone altri importanti come quello romano di Acilia, in cui i lavori non sono mai partiti o si sono interrotti o i progetti sono rimasti sulla carta. In quei casi nessun ritrovamento archeologico è intervenuto a sovvertire cronoprogrammi o a mandare fuori controllo le risorse stanziate. Così appare fuorviante ritenere che la linea C della metro romana viaggi tra ritardi ed incertezze a causa delle indagini archeologiche. Che, a parte il caso di piazza Venezia dove si sono scoperti i resti del cosiddetto auditorium di Adriano, non risulta abbiano costretto a sostanziali modifiche del progetto iniziale. Nonostante in alcune circostanze i rinvenimenti siano stati tutt’altro che trascurabili. Come accaduto per esempio nel cantiere di via La Spezia.
Renzi ha ragione a sostenere che solo grazie agli scavi per la Metro quei documenti del passato sono riapparsi. Ma non si può negare che ogni scavo è a tutti gli effetti un’operazione distruttiva. Proprio per questo motivo sembra improprio voler intervenire sulle modalità e i tempi delle indagini. Senza contare che tutto questo sembra essere in contraddizione con una delle norme che dovrebbero entrare nello sblocca-Italia. La disciplina per agevolare la valorizzazione dei beni archeologici che vengono ritrovati durante gli scavi o i lavori di opere pubbliche. Il timore che la valorizzazione non preveda che una tutela parziale di quanto ritrovato, è forte. Una tutela peraltro nella quale il discrimine tra bene da conservare e quello da consegnare alle ruspe appare indefinito. La sensazione è che, aldilà delle nuove regole, a difettare sia la cultura del Paese. La capacità di decidere con uniforme serietà.
Alcuni giorni fa, in un’intervista al Financial Times, l’ex sindaco di Firenze, ha dichiarato, “Il Paese non l’ho distrutto io, non faccio parte del sistema”. In questi decenni nei quali il Paese si è arricchito di ponti sospesi nel nulla, di ospedali completati ma mai entrati in funzione, di dighe interrotte a metà, della Salerno-Reggio Calabria un cantiere mai finito, il “sistema”, secondo la definizione del segretario del Pd, si è quasi uniformemente schierato contro l’archeologia. Additando nelle ricerche scaturite dai rinvenimenti, il motivo di ritardi e interruzioni. Per essere davvero “un uomo solo”, come si definisce Renzi, il suo un atteggiamento, almeno in questo settore, appare abbastanza allineato.
La Repubblica, 15 agosto 2014 (m.p.r.)
Riferimenti: si veda su eddyburg di Tomaso Montanari Franceschini alla Cultura sulle orme di De Michelis e Dario Franceschini. La cultura non cambia verso, Riforma dei Beni culturali: Renzi contro Franceschini. La posta in gioco e la rassegna Rendere ogni luogo uguale a ogni altro: così qualcuno diventa più ricco con gli articoli di Davide Vecchi e Montanari. Col cerca numerosi altri scritti nella cartella Beni culturali
Il manifesto, 14 agosto 2014 (m.p.g.)
«La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze presenta Giardini del Granduca. Una nuova eau de toilette». Con un po' di autoironia, il profumo avrebbero potuto chiamarlo Pecunia olet: il Polo museale fiorentino è da tempo l'avamposto della mercificazione del patrimonio culturale. Cristina Acidini, la soprintendente che lo guida, ha dichiarato che «attraverso questo profumo, composto sapientemente con note ispirate alla coltivata natura dei giardini storici di Firenze e Toscana, si entra in contatto diretto con la memoria della dinastia dei Medici».
Il marketing è la specialità della casa: il Polo Museale Fiorentino è noto per il tariffario con cui noleggia ai ricchi il proprio inestimabile patrimonio, dalla sfilata di moda agli Uffizi (per celebrare il neocolonialismo!) alle cene sotto il David di Michelangelo, a infiniti altri eventi letteralmente esclusivi. E gli Uffizi sono perennemente invasi da una folla due o tre volte superiore ai limiti di sicurezza: un irresponsabile azzardo che dipende anche dal fatto che la bigliettazione del museo è stata data in appalto al gruppo Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (quello della sovraordinata Associazione Civita è Gianni Letta). E anche il portavoce della Acidini è un dipendente di Civita: un giornalista già del «Giornale» nell'edizione della Toscana (proprietà di Denis Verdini).Il creatore di questo opaco ipermercato del patrimonio culturale è Antonio Paolucci, predecessore e mentore di Cristina Acidini. Il quale, dopo aver rivendicato la creazione del sistema delle mostre blockbuster (autodefinendosi il «movimentatore massimo» di opere d'arte), dirige oggi – commercialissimamente – i Musei Vaticani. Da ministro per i Beni culturali del governo Dini, fu proprio Paolucci (col decreto legge 41/1995) ad allargare a dismisura i servizi aggiuntivi che la Legge Ronchey aveva da poco permesso di dare in concessione ai privati, includendovi l'editoria e l'organizzazione di mostre. Iniziò così la vera privatizzazione della storia dell'arte: e oggi Paolucci presiede il comitato scientifico del primo concessionario italiano (sempre Civita), nella migliore tradizione lobbista dello scambio di ruoli.
A molti piace così: pochi giorni fa perfino il presidente di Italia Nostra ha invitato Dario Franceschini a tener giù le mani dall'«attuale assetto del Polo Museale Fiorentino ... esempio mirabile di tutela, valorizzazione e di gestione alla luce degli importanti risultati - 20 milioni di euro di incassi all'anno». La riorganizzazione del Mibact si propone, infatti, di smontare i lucrosi luna park dei poli museali, e di restituire ai musei la capacità di fare da soli tutto ciò che Paolucci affidò ai privati. Non a caso il primo nome sotto l'appello che cerca di fermare il ministro è proprio quello di Paolucci.Ma la difesa dello stato delle cose ha preso una via anche più cinica. I giornali fiorentini hanno scritto che Acidini avrebbe fatto notare a Matteo Renzi che la riforma non taglia affatto le unghie alle soprintendenze territoriali (e dunque non sblocca affatto l'Italia, nel senso cementizio e maniliberista caro al premier), ma rischia invece di uccidere la gallina fiorentina dalle uova d'oro. E se Renzi dice che «gli Uffizi sono un macchina da soldi», è perché è questo che egli ha imparato dal modello fiorentino: i conflitti che da sindaco l'hanno opposto ai vertici del Polo furono dovuti ad una competizione per la gestione della slot machine, non certo ad una divergenza ideologica.
E infatti il premier ha appena rinviato, per l'ennesima volta, l'arrivo della riforma in consiglio dei ministri, di fatto rimandando a settembre un umiliatissimo Franceschini: colpito dal fuoco opposto e incrociato del suo presidente del Consiglio e degli storici dell'arte, archeologi e architetti che (in circa trecento) hanno seguito Paolucci.Contro la riorganizzazone si sono pronunciati anche l'Associazione Bianchi Bandinelli, Vittorio Emiliani, Pier Giovanni Guzzo e, su queste pagine, Alberto Asor Rosa: l'accusa principale è quella di «smantellare le soprintendenze». Ma, a leggere il testo, di un simile smantellamento non si trova alcuna traccia: ed è proprio per questo che Renzi (che ha scritto: «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario italiano») non si decide ad approvarla.
Carlo Ginzburg (che ha firmato l'appello subito dopo Paolucci) ha scritto su «Repubblica» che «il presidente del consiglio, insiste — così ci viene detto — perché nel decreto legge venga inclusa una clausola che gli sta particolarmente a cuore. Essa dovrebbe consentire ai Comuni di aggirare l’eventuale divieto di costruzione formulato dalle soprintendenze appellandosi a una commissione generale che dovrà decidere in termini brevissimi. Il silenzio di queste commissioni, che è facile immaginare sommerse da una marea di richieste e di ricorsi, verrà interpretato come assenso». Ora, tutte le bozze circolate dicono esattamente il contrario. Le varie amministrazioni locali potranno, sì, chiedere la revisione dei provvedimenti delle singole soprintendenze: ma acommissioni regionali formate dagli stessi soprintendenti della regione, compreso colui che ha emanato l'atto contestato. E se non lo chiedono entro dieci giorni, il provvedimento è confermato. Si tratta, cioè, di una collegializzazione del potere monocratico dei soprintendenti: si potrà non essere d'accordo, ma non c'è nulla di ciò che scrive Ginzburg.
Un altro punto contestatissimo è l'unificazione delle soprintendenze architettoniche con quelle storico-artistiche. È un passo impegnativo, ma la direzione è giusta, perché mira ad evitare quello scollamento amministrativo che fa sì che – per dire – si restaurino gli affreschi di una cupola prima di rifarne la copertura esterna (è accaduto, per esempio, a Sant'Andrea della Valle a Roma). I miei colleghi storici dell'arte si oppongono per ragioni corporative: temono che le soprintendenze uniche saranno guidate solo da architetti. Ciò non deve succedere, ma non ci si può opporre ad un provvedimento giusto perché si teme che venga gestito male.
Personalmente ho, dunque, un giudizio moderatamente positivo della riorganizzazione: ma non sono un giudice neutrale, perché ho fatto parte della commissione che preparò la riforma voluta da Massimo Bray, la quale è stata in buona misura ripresa e sviluppata da quella di Franceschini. Quest'ultima ha il grandissimo limite di essere a costo zero, e non mancano punti discutibili (per esempio l'ipertrofia del quartiere generale romano): ma ha anche aspetti felicemente innovativi (lo svuotamento delle direzioni regionali, l'autonomia di alcuni grandi musei, l'unificazione delle soprintendenze architettoniche e storico-artistiche), e perfino tratti sorprendentemente di sinistra (la creazione di una direzione per l'educazione al patrimonio, e di una per le periferie urbane).
Comunque la si pensi, infine, trovo singolare che chi dovrebbe aver interiorizzato gli strumenti della filologia scriva di un testo senza averlo letto, o senza comprenderlo. Il risultato è questa imbarazzante alleanza tra gli amici delle soprintendenze e il loro massimo nemico, Matteo Renzi. Un'alleanza che ha un sapore strano: anzi, che ha il profumo dei Giardini del Granduca.
Mentre il Comune spazza strade e nasconde rifiuti per apparire pulito al passaggio mediatico del Principe (ai più vecchi torna alla mente il percorso di trionfante cartapesta che allietò il passaggio di Hitler e Mussolini nel 1938), qualcuno ricorda una storia di usurpazione di bene pubblico per il quale il popolo si batte dai giorni del Rinascimento napoletano. Il Mattino, 14 agosto 2014
È stato occupato ieri il cantiere di Corporea a Città della Scienza: un gruppo di manifestanti del Comitato “Una spiaggia per tutti” ha protestato contro la firma dell’accordo per la ricostruzione di Città della Scienza e la bonifica di Bagnoli, prevista per questa mattina in occasione della visita a Napoli del premier Matteo Renzi. Sulle impalcature sono stati affissi degli striscioni con le scritte: “Renzi and Co 'Stateve a Casa” e “Stop Speculazioni e privatizzazioni a Bagnoli”. Mentre un gruppo di manifestanti si è arrampicato sulle impalcature, altre persone hanno effettuato un volantinaggio per spiegare le ragioni della protesta. “Non si può ricostruire sull’area destinata a spiaggia pubblica - dicono Massimo Di Dato dell’Assise per Bagnoli e Domenico di Bancarotta, centro sociale poco distante dal cantiere Corporea - Città della Scienza va trasferita come prescrivono le leggi, i piani urbanistici e la delibera firmata da 13mila napoletani e approvata due anni fa dal consiglio comunale”. Tra i motivi della protesta anche le modalità della firma, che avviene alla vigilia Ferragosto cosa che, a loro avviso, avviene “senza una discussione in Consiglio, che la Giunta ci ha rifiutato”.
se arrivassero soldi pubblici meglio adeguare l'Aurelia". Il manifesto, 14 agosto 2014
Nella interminabile partita a scacchi sull’autostrada tirrenica, le associazioni ambientaliste battono il ferro finché è caldo. A Festambiente presentano un nuovo documento, teso a dimostrare l’insostenibilità, anche economica, della grande opera. In direzione ostinata e contraria rispetto a un governo che in parlamento, per bocca del ministro Lupi, ha confermato l’impegno a trovare risorse pubbliche nello “Sblocca Italia” per dare gambe al maxi progetto. In ballo ci sono ben 270 milioni di euro chiesti dalla concessionaria Sat (Società autostrade toscane), che lamenta crescenti difficoltà, e però non ancora trovati dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi. “A questo punto – lancia l’idea il patròn di Festambiente, Angelo Gentili — se finanziamento pubblico deve essere, questo serva per mettere in sicurezza e adeguare l’Aurelia da Ansedonia a Grosseto sud”.
Sul tema dell’autotirrenica l’associazionismo ambientalista è da sempre compatto. Con Legambiente, rappresentata anche da Edoardo Zanchini, ci sono Stefano Lenzi del Wwf, Valentino Podestà della Rete dei comitati a difesa del territorio, Anna Donati di Green Italia, e ancora il Fai, l’associazione Bianchi Bandinelli e il maremmano “Comitato per la bellezza”. Forte di un consenso popolare mai scemato negli anni, e con l’appoggio delle forze politiche di sinistra, da Sel a Rifondazione, il fronte anti-autostrada ha dalla sua anche la forza dei numeri: “I dati di traffico reali sul percorso, diminuiti rispetto al 2010 a causa della crisi economica e tornati circa ai livelli del 2000, non giustificano in alcun modo la realizzazione di una autostrada, anche con la prospettiva di una ripresa economica che invece ancora non c’è”. A seguire la cifre: “Nel 2010 il progetto presentato dalla Sat partiva da un traffico giornaliero medio esistente di 19.900 veicoli al giorno. Ma dai bilanci della concessionaria scopriamo che nel 2011 il ‘Tgm’ è stato di 18.298 veicoli al giorno, che nel 2012 è calato in modo notevole a 16.974, e che è ancora calato nel 2013 a 16.816”.
Di qui la richiesta di fondi pubblici da parte della concessionaria. Una Sat che invece si era impegnata a realizzare la grande opera con soli fondi privati (due miliardi di euro), a patto di poter espropriare alla collettività l’attuale variante Aurelia a quattro corsie da Cecina a Grosseto sud, e poter incassare i pedaggi fino al 2043, ipotizzando un traffico in costante aumento (fino a 28.300 veicoli giornalieri nel 2036). Stime miseramente naufragate, di fronte alle quali gli ambientalisti hanno buon gioco a osservare: “L’odierna richiesta di fondi pubblici, e immaginiamo quelle future se l’opera venisse realizzata integralmente, e quindi l’ammissione che i conti non tornano, deve indurre a un serio ripensamento sull’utilità dell’opera. Viste anche le scarsissime risorse disponibili, e i drammatici problemi della finanza pubblica”.
Le critiche delle associazioni sono confermate anche dalla lentezza con cui procedono i lavori. In tre anni Sat ha speso 55 milioni sul lotto di soli quattro chilometri fra Rosignano e San Pietro in Palazzi, il solo già in esercizio, e ha impegnato 155 milioni per il tratto, in cantiere, da Civitavecchia a Tarquinia. “Non può che preoccupare il fatto che, pur in assenza di un nuovo piano economico e finanziario e con tratte ancora da approvare, già si richieda un robusto contributo pubblico. E’ come una premessa a quello che accadrà costantemente negli anni a venire, se l’opera venisse realizzata”.
Le conclusioni degli ambientalisti sono nette: “Appare senza senso la decisione del governo di stanziare un così rilevante numero di risorse pubbliche per un’opera che doveva essere finanziata da privati. Occorre rivedere il progetto con un confronto adeguato, pubblico e trasparente”. Una posizione cui si allinea il democrat Ermete Realacci: “Ho sempre pensato che la soluzione migliore sia quella dell’adeguamento dell’Aurelia. Con la crisi, è chiaro che il progetto autostradale di Sat risulta antieconomico e non giustificabile rispetto agli attuali flussi di traffico”.
«Il patron frenato da Marino e Zingaretti. Ma anche dalle risse tra costruttori e banche. E si scopre che sarà di Pallotta ma non della società quotata in borsa». Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2014
Solo una cosa è davvero chiara nella farsa intitolata “Il nuovo stadio della Roma”. Al presidente italoamericano della “Maggica”, James Pallotta, da due anni una corte dei miracoli di politici, palazzinari, agenti di calciatori, sensali, banchieri e impostori vari da un paio d’anni danno il tormento, indicandogli la strada maestra per fare soldi in Italia. Ma nessuno ha fatto vedere “Totò truffa ‘62”. Viene normalmente citato per l’archetipo di una tendenza nazionale, la scena di Totò e Nino Taranto che vendono la Fontana di Trevi a un italoamericano. Pallotta non sa che gli sceneggiatori Castellano e Pipolo scrissero un finale feroce per il suo predecessore Decio Cavallo, preso per matto e internato quando rivendica il suo buon diritto.
Ecco, Pallotta deve stare attento a non ripetere l’errore. Non dica che la sua idea di dotare la Roma di un nuovo ed efficiente stadio di proprietà l’ha discussa già due anni fa con l’allora sindaco di Roma, l’ex ministro Gianni Alemanno, che si dichiarò entusiasta. Non spieghi che la scelta dei terreni in località Tor di Valle, in un’ansa del Tevere a rischio inondazione, lungo il raccordo autostradale per l’aeroporto di Fiumicino già normalmente intasato - nei feriali dal traffico di chi corre a imbarcarsi e nei festivi da chi torna dal mare – è stata caldeggiata da Unicredit, seconda banca italiana. Glissi sullo scivoloso dettaglio che quei terreni sono di Luca Parnasi, il costruttore romano più odiato dal re dei costruttori romani, Franco Caltagirone, proprietario del Messaggero e di Leggo, le due corazzate dell’informazione capitolina.
E si metterà comunque nei guai se crederà alla leggenda renziana (e prima ancora berlusconiana), secondo cui chi viene dall’estero a investire in Italia viene messo in fuga da una burocrazia asfissiante e corrotta e dalle ubbie Nimby della potente (?) lobby ambientalista. Gli esponenti di Legambiente sono diventati potenti perché i giornali di Caltagirone dedicano loro interviste fluviali quali sul Messaggero si erano viste solo per il genero del padrone, Pierferdinando Casini. Caltagirone, come tutti i costruttori romani, aveva anche lui il terreno pronto per lo stadio, in zona Tor Vergata. Ma Parnasi è nel cuore di Unicredit. La bancona si trovò in pancia la Roma come eredità del crac di Franco Sensi, strafinanziato quando i cuori di banca e imprese romane battevano andreottianamente all’unisono. Anche i Parnasi furono riempiti di prestiti a pressione, e adesso il giovane rampollo Luca ha oltre 400 milioni di debiti (su 150 di fatturato). Una prima boccata d’ossigeno gliel’ha data la provincia di Roma ai tempi del presidente Enrico Gasbarra, impegnandosi a pagargli 260 milioni per un palazzo dove mettere gli uffici di un ente già morto.
E adesso tocca a Pallotta. Lo stadio deve farsi a Tor di Valle, dicono i maligni, per salvare i soldi di Unicredit. La legge sugli stadi prevede che il privato, dotando a sue spese la città di una nuova arena sportiva, ha diritto di risarcirsi costruendo un po’ di metri cubi. Nel caso della Roma, Parnasi ha già progettato un milione di metri cubi, che comprendono due alberghi e uffici per 15mila posti di lavoro. In un Paese dove gli uffici tendono a restare sfitti, l’unica spiegazione dell’affare è che Unicredit abbia convinto qualche altra banca di impiombarsi con Parnasi al posto suo. Tutto può essere.
Entro poche settimane il comune di Roma dovrà votare il parere definitivo che toccherà al sindaco Ignazio Marino comunicare a Pallotta. È chiaro che non tutto andrà liscio, e anche il Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha già fatto le sue obiezioni a un progetto zoppicante. Infatti ieri il giovane presidente del Pd romano, Tommaso Giuntella, ha detto che “stiamo facendo semplicemente una figura grottesca come città e come Paese. Questa vicenda, le lungaggini, i tira e molla, la poca chiarezza, le piccole e grandi arroganze, dimostrano perfettamente perché gli investitori stranieri fuggono dal nostro Paese”. E a stretto giro Augusto Panecaldo, coordinatore della maggioranza in Campidoglio (chissà se a Pallotta hanno spiegato cos’è il coordinatore di una maggioranza che è tale perché Marino ha vinto con premio di maggioranza l’elezione diretta del sindaco), ha replicato: “Nessuna figura grottesca. Semmai il contrario. Si sta cercando di rendere accettabile un progetto al quale, a condizioni date e in un altro Paese, si sarebbe dovuto semplicemente dire di no”. E perché non hanno detto di no?
Molte cose deve ancora imparare Pallotta dell’Italia. E una invece dovrebbe spiegarla lui agli italiani. Visto che lo stadio della Roma lo costruisce attraverso un’altra società alla quale la squadra di Totti dovrà pagare l’affitto vita natural durante, e che sarà Pallotta costruttore a trattare con Pallotta patron della Roma il canone, non è che gli azionisti di minoranza di una società che è quotata in Borsa dovrebbero un po’ preoccuparsi anche loro del destino del loro investimento in Italia?
L’affermazione di Costa sulla “Nuova Venezia” che la sua Giunta era vicinissima all’introduzione del numero chiuso fa davvero tenerezza. La sua memoria risente evidentemente del caldo afoso di questi ultimi giorni. In realtà, il suo “superassessore” al Turismo, Perez, con l’ausilio del grande Tsuropolis, factotum di Costa, non solo era riuscito a smantellare quel poco che l’assessore-gentleman Cortese aveva, con santa pazienza, messo in piedi, ma anche a distruggere in pochi mesi un certo consenso intorno alle misure da attuare per iniziare a gestire meglio il turismo veneziano che si era creato. Ma basta ricordi e torniamo alla propostona di Costa.
La drammatica cronaca di Enrico Tantucci sulla quotidiana invasione di turisti a Venezia, e l'articolo di Vera Mantengoli che riporta la lucida analisi di Jan Van Der Borg sulle azioni da porre in campo per regolamentare i flussi e le riflessioni di Mara Manente (Ciset), Jan Van Der Borg (Ca’ Foscari), Angela Vettese (ex assessore) e Gianni De Checchi (Confartigianato). La Nuova Venezia, 10 luglio 2014 (m.p.r.)
«NUMERO CHIUSO D'INGRESSO. UNA SOLUZIONE ESTREMA»
di Vera Mantengoli
VENEZIA ABBANDONATA A SE STESSA.
INVASIONE DI TURISTI SENZA REGOLE
di Enrico Tantucci
Il dispositivo della decisione del "comitatone" non è ancora noto, e quindi non è chiara la forza E GGLI STRUMENTI che saranno necessari a chi contrasta la volontà di distruggere la Laguna di Venezia. Una cosa è chiara. La volontà proterva di passare col rullo compressore su ogni ragionevole critica pur di favorire gli "affari". Il manifesto, 9 agosto 2014
Blitz nel “Comitatone” di palazzo Chigi: Venezia (senza più sindaco…) diventa merce di scambio e terra di conquista delle stesse lobby che incarnano in concessione unica il «sistema Mose».
La cartolina da sventolare in pubblico è il bacino di San Marco finalmente liberato dalle Grandi Navi. Ci pensa il governatore Luca Zaia a bruciare tutti sul tempo con il tweet istituzionale delle ore 15.29: «Decisione unanime, navi oltre 40 mila t fuori da bacino SanMarco e canale Giudecca». Peccato che il commissario Vittorio Zappalorto abbia preferito astenersi da un voto politico per conto del Comune. E che gli amministratori di Mira (il vice sindaco Nicola Crivellaro e l’assessore all’urbanistica Luciano Claut) abbiano bocciato la soluzione della nuova rotta per le crociere in laguna.
Il super-tavolo istituzionale per Venezia ha partorito, in realtà, il via libera al canale Contorta e sposato gli interessi del Porto presieduto da Paolo Costa (il democratico inossidabile dall’Ateneo al municipio, da Bruxelles a Marghera). Un «inchino» su misura grazie all’intesa sussidiaria che passa dal sottosegretario renziano Graziano Delrio al ciellino Dop Maurizio Lupi, fino a coinvolgere i ministri Dario Franceschini e Gian Luca Galletti e il leghista Zaia con Roberto Daniele in qualità di presidente del Magistrato alle acque.
Si applica due anni dopo il decreto Clini-Passera (che vietava il transito alle città galleggianti per turisti), ma si spiana la laguna al progetto di 4,8 chilometri di scavo già progettati dal “giro” dei professionisti legati al Consorzio Venezia Nuova e cantierabili dalle imprese di fiducia (250–300 milioni di appalti). Non basta, perché sullo sfondo si intravvede di nuovo il project financing da 2,5 miliardi del teminal portuale d’altura che Costa vuole varare ad ogni costo…
Alla vera salvaguardia della laguna restano le briciole dell’ormai ex Legge Speciale cannibalizzata dal Mose: il “Comitatone” ha assegnato a Venezia 35 milioni per il triennio 2014–16. Ogni altro intervento dovrà misurarsi con la legge di stabilità…
Insomma, il summit di palazzo Chigi si rivela una «porcata» come sintetizza Beppe Caccia. E Gianfranco Bettin rincara la dose: «Come volevasi dimostrare. Il blitz di Ferragosto si è concluso come, da facili profeti, avevamo denunciato: con la scelta di sottoporre a Valutazione di impatto ambientale il solo progetto dello scavo del Canale Contorta-Sant’Angelo. Una scelta compiuta in assenza di una democratica rappresentanza del Comune. Ministeri ed Enti che sono stati fino al collo condizionati dalla cricca del Mose decidono ancora una volta sulla testa della città. Si realizza così il sogno di certi poteri forti e di tutti i poteri marci: comandare su Venezia senza mediazioni, confronti o controlli».
È il metodo delle larghe intese riformiste applicato al Veneto orfano di Galan & C. Uno schiaffo più che simbolico e insieme una specie di esproprio preventivo delle Comunali 2015. Così Silvio Testa, portavoce del Comitato No Grandi Navi, non fa troppa fatica a prevedere: «Se qualcuno vuole trasformare la laguna di Venezia in una Val di Susa questa è la strada. La lezione del Mose non ha insegnato niente a nessuno. E anche nel contesto veneziano Renzi svela il suo volto antidemocratico».
L’8 luglio all’Arsenale al premier “europeo” era stato consegnato — per interposto addetto al cerimoniale — l’appello a girare pagina rispetto alle Grandi Opere targate Mantovani & coop come allo scempio del turismo a bordo dei mostri superinquinanti. Un mese dopo il governo Renzi annuncia la «liberazione» del Canal Grande, ma rimette in gioco le stesse lobby inquiste dalla Procura della Repubblica.
«La bassa densità di popolazione cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie». La Nuova Sardegna, 8 agosto 2014 (m.p.r.).
Se facessimo oggi una fotografia per sapere com'è distribuita la popolazione nell'isola, risalterebbe quella grande area centrale spopolata. Perché in questi giorni siamo quasi tutti – abitanti e turisti – concentrati ai bordi. E stanotte a Semestene, a Soddì o a Baradili – tra i piccoli comuni sempre più piccoli – si conteranno meno presenze di quelle registrate in un medio albergo vista mare.
Poco cambierà nelle altre stagioni: per Semestene – 160 abitanti, circa 650 alla fine dell'Ottocento – non ci sono speranze di lunga vita nonostante l'orgoglio civico esibito nel sito del Comune. Secondo la diagnosi del demografo stanno male almeno 70 paesi sardi, tutti in aree interne, la metà dei quali si svuoterà nell'arco di un trentennio (fonte RAS 2013). Elementare: se non ci nasce nessuno e qualcuno ogni tanto ci muore o se ne va, saranno le case vuote a documentare la magica secolare resistenza di quel centro, abitato da chissà quante generazioni.
Ormai più che un trend circoscritto a qualche caso disgraziato, è il ribaltamento dell'antico ordine che ancora nel secolo scorso sembrava congenito. Motivo di sconforto per Vittorio Amedeo II che fantasticava sulla Sardegna militarizzata prima di sapere dei suoi lidi sguarniti, dai quali si tenevano alla larga i 300mila abitanti.
La bassa densità di popolazione (67 ab/km²) cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie. Ma sembrava tempo perso assistere contadini e pastori disarmati, meglio investire ingenti risorse nei programmi di poli industriali (Il Sole24ore ha stimato che per Ottana si sono spesi 6 miliardi di euro). Sembrava tanto facile, la palingenesi della chimica che ci avrebbe fatto dimenticare la grama vita nei campi.
È andata così. E cosa c'è di più tragico della scomparsa di un comune su cinque, in una regione con indici di disagio altissimi? Non è imminente come quando si annuncia la chiusura di una fabbrica. Quindi nessun corteo o scalate di campanili, e neppure l'onore di una task force che si invoca per ogni contrattempo.
Ci aspetteremmo un piano adatto all' emergenza: un terzo del territorio regionale è a rischio di tenuta e non basta dire che occorre “fare sistema” – l'auspicio molto evasivo in voga da un po' di anni. C'è, evviva, il progetto di Fabrizio Barca (presentato a Ales e a Teti) e vedremo se ce la farà ad atterrare prima che sia tardi.
Per tenere su il morale si sovrastimano suggestive previsioni (immigrati che prima o poi si compreranno le case vuote in Goceano o in Marmilla, flussi di vacanzieri a caccia di conferme dei pittoreschi racconti sulla “Sardegna vera”, o sedotti, in caso di disfatta, dallo spettacolo delle ghost town).
Vista dalle spiagge questa rarefazione è incomprensibile. Difficile spiegarsi il deserto che avanza da chi, immerso nella sfrenata densità di cose e persone, combatte per trovare posto a un ombrellone o un tavolo in pizzeria. In fondo la disgrazia sta pure in questo divorzio, nella doppia faccia dell'isola, come la spiegano i valori di mercato: due metri quadri di veranda nelle riviere vip costano quanto una casa a una quarantina di chilometri.
Un insostenibile squilibrio, la Sardegna che balla per due mesi divorando paesaggi, e la Sardegna che stenta a sopravvivere. E non potrà farcela da sé, senza un progetto speciale e molte risorse, (più di quelle previste nel Programma di sviluppo rurale finanziato dall'Europa). Serve una “grande opera” finalizzata a rinnovare le ragioni per abitarle quelle terre in crisi, moltiplicando il sostegno al lavoro di agricoltori e allevatori industriosi, potenziando i servizi, non eliminandoli. È il presupposto per mantenere e attrarre abitanti. Ci conviene e non ci sono scorciatoie.
La sconfessione di Pinocchio. Una limpida e sferzante contestazione delle bugie, a proposito del MoSE e dei nuovi canali per l'accesso a Venezia dei mostri del mare. Un salutare svelamento delle parole mentitrici che, pronunciate da presunti tecnici e avallate da chi occupa alti scranni, determinano un pensiero corrente incapace di vedere la realtà e di comprendere gli eventi. La Nuova Venezia, 8 agosto 2014
Leggendo le lettere o le interviste di Paolo Costa si sobbalza sempre sulla sedia per come la realtà che pare offrirsi in un modo ai nostri occhi possa venire interpretata in modo molto diverso dal presidente dell'Autorità portuale. Non ci si può meravigliare se un accanito sostenitore del Mose, qual egli si è sempre dichiarato, possa ancora insistere nel separare la vicenda giudiziaria - e le responsabilità di molti, che tutti sospettavamo - dalla realtà stessa dell'opera: «Si sa di avere a che fare», dice Costa, «con una grande opera di ingegneria ambientale della quale gli italiani possono andare fieri nel mondo».
Prime (buone) notizie dal fronte “caserme dismesse”: intenzioni da Milano, Torino, Roma. Se sono rose fioriranno. La Repubblica, 8 agosto 2014
Una città dei bambini, un museo della scienza, una foresteria universitaria là dove prima c’erano armi e soldati. I tre sindaci di Roma, Milano e Torino si sono messi subito al lavoro per trasformare in risorse per le loro città il milione di metri quadri di caserme dismesse ricevuto ieri dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. Hanno dodici mesi di tempo per concludere i processi di conversione urbanistica, e non sono molti. Se non ci riusciranno, quegli immobili torneranno alla Difesa e al Demanio. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, vuole reinventare il futuro delle prime tre caserme dismesse con la creazione di aree verdi, servizi e case in housing sociale. Un grande parco è il progetto che riguarda l’area più vasta, la Piazza d’Armi di via Forze Armate: si tratta di 300mila metri quadrati abbandonati da anni - confinano con la caserma Santa Barbara, nella periferia Nord Ovest di Milano - dove un tempo le Forze Armate svolgeva le esercitazioni e dove oggi, invece, la vegetazione sta crescendo spontaneamente.
Almeno la metà del terreno potrebbe essere lasciata a verde. La caserma Mameli di viale Suzzani è un complesso di 100mila metri quadrati che il Comune vorrebbe utilizzare per interventi di edilizia convenzionata e case. Una parte delle strutture vincolate dalla Sovrintendenza potrebbe essere recuperata per servizi sociali o per iniziative culturali. E il sindaco Giuliano Pisapia lancia anche un’idea: realizzare in una di queste aree una Città dei Bambini.
A Torino piace al sindaco Piero Fassino l’idea di mettere gli studenti nelle ex camerate dei militari trasformando le caserme in residenze universitarie. È allo studio anche una quota di nuovi alloggi, oltre a servizi pubblici, come biblioteche di quartiere o nuove materne. Non manca al progetto la creazione di aree verdi, spazi culturali per mostre. Torino non s’accontenta delle quattro ex caserme ricevute ieri, e sta già trattando per ottenerne altre due, la “Aimone” e il complesso tra corso Lepanto, dove i torinesi sono andati per decenni a fare la visita di leva, e corso Unione Sovietica. Oltre alle destinazioni universitaria e residenziale, si sta studiando il trasferimento negli ex immobili militari di uffici comunali.
Il sogno di Ignazio Marino di «rigenerazione urbana» delle ex aree della Difesa è già iniziato con il progetto della Città della Scienza, che sorgerà nelle ex caserme di via Guido Reni. E proseguirà ora con l’acquisizione di altre sei strutture. «Per attuare i progetti - ha precisato l’assessore alla Trasformazione Urbana, Giovanni Caudo - coinvolgeremo i cittadini, come è ormai consuetudine di questa Amministrazione sulle grandi scelte che trasformano la Capitale». Secondo i primi progetti, nell’area del Forte Trionfale sarà trasferita la sede del Municipio XIV, attualmente in affitto. Nei locali del Forte Boccea potrebbe essere trasferito il mercato di via Urbano II. Nell’area della Caserma di Viale Angelico si pensa alla realizzazione di parcheggi.
WWF-Italia notizie, 5 agosto 2014, con postilla
Quella ‘Grande Bellezza’ che confina col mare in 25 anni cancellata in più parti dal cemento: pur mantenendo angoli suggestivi e intatti, la visione di insieme fornita dall’ultimo Dossier del WWF “Cemento coast-to coast: 25 anni di natura cancellata dalle più pregiate coste italiane” restituisce, con schede sintetiche e foto da satellitari a confronto, l’immagine di un profilo fragile e bellissimo martoriato da tante ferite. Il dossier analizza con schede sintetiche l’evoluzione della situazione delle regioni costiere, mettendo a confronto i dati di oggi con quelli di 25 anni fa, con il supporto di immagini tratte da Google Earth e il quadro d’insieme è una vera e propria trasformazione metropolitana delle coste italiane.
Il WWF segnala 312 macro attività umane che hanno sottratto suolo naturale lungo le nostre ‘amate sponde’ per far spuntare dal 1988 a oggi villaggi, residence, centri commerciali, porti, autostrade, dighe e barriere che hanno alterato il profilo e il paesaggio del nostro paese facendo perdere biodiversità e patrimonio naturale. Un pezzo strutturale della nostra economia è stato così mangiato dal cemento, a scapito di un’offerta turistica balneare (soprattutto in aree di qualità) che coinvolge migliaia di aziende. Dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli occupata poi da un mega villaggio turistico alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Simeto in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata sono alcune delle ‘case history’ illustrate in una simbolica foto gallery regione per regione. Le più ‘colpite’ Sicilia, Sardegna e soprattutto la costa adriatica che rappresenta il 17% delle coste italiane ma dove meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Persino le aree costiere cosiddette protette non sono state risparmiate: su 78 SIC o ZPS difesi dalla Rete Natura 2000 europea il WWF ha censito 120 interventi “antropici” tra cui darsene, villaggi, etc. Dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10 % sono artificiali e alterate dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali ed industriali che rispecchiano l’intensa urbanizzazione di questi territori in continuo aumento e dove si concentra il 30% della popolazione. Finora le aree protette costiere si sono rivelate ottimi strumenti per contenere questa pressione e per valorizzare correttamente i territori, ma si tratta di ambiti limitati in un sistema disordinato e non gestito.
E a peggiorare le cose, il fatto che di tanta meraviglia non esista un ‘custode’ unico visto che ad oggi nessuno sa chi realmente governi le nostre coste: la gestione è ‘condivisa’ a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali) con una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo. Dalla legge sulla "Protezione delle bellezze naturali’ del 1939, all’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, passando per la Convenzione Ramsar sulle zone umide del 1971, senza dimenticare la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo e la Convenzione sulla diversità biologica di Rio del 1992, non mancano certo le leggi a tutela delle coste ma nonostante questo non si sa chi le governi.
“Si pensa che lo scempio delle coste sia legato al passato, agli anni del boom delle seconde case e della grande speculazione edilizia o del raddoppio delle concessioni demaniali del 2000: purtroppo non è così perché l’invasione del cemento non si è mai fermata - ha dichiarato Gaetano Benedetto, direttore politiche ambientali del WWF Italia - Il WWF chiede di invertire la tendenza alla cementificazione attraverso due semplici cose: estendere i vincoli paesaggistici di tutela dai 300 metri ai 1000 metri di battigia e applicare una moratoria di tutte le edificazioni lungo la fascia costiera fino all’applicazione dei nuovi piani paesaggistici, che tra l’altro, dovrebbero essere già vigenti. Non si tratta di un problema solo ambientale: salvare le coste dal cemento vuol dire salvare un pezzo strutturale della nostra economia”.
SINTESI DEL DOSSIER
Il WWF per le coste
Nel corso degli anni il WWF ha testimoniato l’aggressione progressiva alle coste italiane con vari Dossier: dal censimento puntuale degli anni ’90 con il progetto ‘Oloferne’ sulle coste ancora ‘libere’ dal cemento all’attenzione ai piani paesaggistici come quello della Sardegna, fin alla riconversione e a bonifica delle aree industriali, da Taranto a Porto Torres, da Marghera a Milazzo, da Bagnoli a Falconara, fino all’istituzione e gestione delle aree protette. Il WWF ha poi segnalato e denunciato i problemi della portualità e dei transiti navali fino a tutti quelli interventi che accentuano e favoriscono l’erosione o la trasformazione costiera. Il dossier “Cemento-coast to coast” fa’ il punto generale richiamando con forza tutti i soggetti coinvolti ad una responsabilità di tutela, mettendo a confronto dati e immagini che analizzano un’evoluzione in 25 anni.
Un quarto di secolo di cemento costiero: il primato a Adriatico, Sicilia e Sardegna
Secondo il Dossier dal nord al sud nessuna regione costiera è esclusa, ma le ferite peggiori riguardano Sardegna e Sicilia, con 95 e 91 casi rispettivamente di nuove aree costiere invaso da cemento. In Sardegna , dopo un Piano paesistico che prometteva di correre ai ripari dalla cementificazione selvaggia delle coste, nel 2009 sono stati annullati i vincoli aprendo a nuove edificazioni all’interno dei 300 metri dal mare e ampliamenti di cubatura, per la maggiorparte documentati dal WWF. Il ‘caso studio’ quello di Cardedu, con due villaggi turistici e un’urbanizzazione a schiera costruiti in barba al vincolo paesaggistico. In Sicilia le poche aree che si salvano sono quelle ‘protette’, il resto è stato messo a dura prova: l’elenco degli insediamenti spuntati in questi 25 anni e segnalati nel Dossier è lungo, con il ‘caso studio’ di Campofelice di Roccella dove sorge una vasta area edificata in area vincolata.
La costa adriatica è la più urbanizzata dell’intero bacino del Mediterraneo. Dal Friuli Venezia Giulia alla Puglia i quasi 1.500 km di costa adriatici rappresentano il 17% delle coste italiane ma meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni. Negli anni ’50 quasi 1000 km sui totali 1472 (64%) del fronte adriatico erano privi di costruzioni ed altre strutture accessorie, configurando un paesaggio costiero oggi inimmaginabile. Se si escludono le Marche (con solamente il 21% di costa libera), il Friuli era quasi alla metà, mentre Veneto, Emilia e Abruzzo sfioravano il 70%. Per Molise e Puglia la costa era per oltre l’80% totalmente libera da urbanizzazione.
Tra gli anni ’50 e il 2001 la popolazione dei comuni costieri (CM) è aumentata di quasi 770.000 abitanti (poco meno del 28%), mentre, nello stesso periodo, l’aumento di popolazione in Italia è stato del 20%. In particolare in Abruzzo, Molise e Puglia le coperture urbanizzate aumentano da 8 a 10 volte, contro le 5 volte dell’Emilia o le tre volte del Veneto (sempre tenendo conto della presenza di lagune costiere in quest’ultimo caso). Gli interventi di urbanizzazione effettuati sulla costa adriatica italiana negli ultimi 50 anni denunciano una evidente carenza di programmazione e delineano un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno. I dati più rilevanti che emergono dalla ricerca sono quelli relativi alle dinamiche di crescita di circa il 400% della densità di urbanizzazione nei comuni costieri, ma in particolare del 300% nella fascia costiera dove negli anni ’50 circa i due terzi dei 1472 km della linea di costa fossero liberi da costruzioni e altre strutture, mentre questo valore si riduce drasticamente a meno di un terzo dopo il 2000 (466 km), con una velocità media di avanzamento delle urbanizzazioni stupefacente, pari a circa 10 chilometri l’anno (poco meno di 30 m al giorno).
Ieri paradisi naturali, oggi darsene e villaggi turistici
La ricetta “salvacoste” del WWF
La ‘ricetta’ per sfruttare in maniera intelligente e non devastante il potenziale patrimonio naturale costiero deve essere una sua gestione integrata e sostenibile. La vera sfida è invertire la tendenza alla ulteriore cementificazione della nostra fascia costiera anche attraverso una moratoria che l’Associazione chiede a Governo, Regioni e Comuni; inoltre garantire il rispetto delle normative e adottare politiche fiscali incentivanti sui comuni per la conservazione di ciò che resta ancora ‘libero’ da cemento lungo le coste, come già accade in qualche Paese europeo.
Un potenziale per le economie locali e il lavoro è anche quello che potrebbe derivare dal ripristino di vecchie cave (spesso occupate da costruzioni) o delle foci di fiumi distrutti e dune cancellate, un lavoro di ‘rammendo’ delle nostre coste, speculare quello invocato dall’architetto Piano per le aree periferiche delle grandi città. (vedi Scheda allegata – “La Ricetta Salvacoste” del WWF)
«Sprofondo Veneto, con l’acqua alla gola e le Grandi Opere impantanate nel fango di affari & politica. È l’immagine dell’incubo Polesine proiettata nel Duemila. Ma anche l’"effetto Mose" che straccia la mitologica propaganda e fa ripiombare il Nord Est nel guano delle tangenti formato impresa».Il manifesto, 6 agosto 2014
Qui piove sempre sul bagnato: le quattro vittime dello tsunami del torrente Lierza sabato sera a Refrontolo (Treviso) squadernano la vera insicurezza del Veneto. Alluvioni e frane come esito naturale delle colate di asfalto e cemento programmate senza soluzione di continuità politica.
Dal 4 al 6 febbraio scorso un’altra emergenza ha schienato mezza regione (compresa la Marca trevigiana) dai piedi d’argilla. Proprio come nell’autunno 2010. Ponte degli Angeli, cuore di Vicenza, misura il termometro della paura: il Bacchiglione sale fino a lambire l’asfalto con il rischio di replicare l’esondazione nel 20% della città che poi si espande verso il mare.
Di nuovo, un bollettino di guerra: a Bovolenta, nella Bassa padovana, 600 sfollati attendono i soccorsi; la rete viaria della regione paralizzata da smottamenti, crolli, infiltrazioni.
Lo scenario
Quattro anni fa un’identica apocalisse aveva messo in ginocchio il Veneto centrale: da Verona a Padova 150 chilometri quadrati sommersi non solo dall’acqua. Eppure era una “catastrofe annunciata”, perché al di là delle precipitazioni straordinarie, dal 1966 le opere di salvaguardia del territorio rimangono incompiute. Luigi D’Alpaos, ordinario di Idraulica dell’Università di Padova, ripete inutilmente: «Il grande disastro è stato che nessuno si è mai interessato alla questione idraulica che, anzi, è stata completamente ignorata. Si sono fatte così strade, autostrade e altre opere che magari vanno anche sotto acqua alla prima pioggia. I sindaci di questi ultimi 50 anni hanno una bella responsabilità per come e quanto hanno urbanizzato ed occupato il territorio senza seguire criteri guida. I sindaci devono smetterla di permettere insediamenti dove è pericoloso».
Il “partito del mattone” è sempre il più forte. Anche nell’epoca della crisi infinita l’immobiliarismo detta legge nei Comuni grandi e piccoli. Dalle cave che dragano argini e fiumi al giro d’affari non sempre limpido del “movimento-terra”, fino ai cementifici (tre impianti solo all’interno del Parco regionale dei Colli Euganei) e ai soliti professionisti del ramo.
È la vera industria del Nord Est, l’unica finanziata dalle banche. La messa a reddito delle aree edificabili muove un piccolo esercito di affaristi con interessi votati al profitto, pronti a scaricare gli effetti collaterali sulla collettività. Sistema articolato, capillare, trasversale che macina relazioni economiche e rapporti politici.
Verona è l’ultima frontiera delle Grandi Opere: 6 miliardi di project financingcominciano con i 13 chilometri di tangenziale nord in galleria. Racconta Gianni Belloni dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia: «Dal casello autostradale, in 3,5 chilometri, la giunta del leghista Flavio Tosi ha previsto la costruzione di ben 11 centri commerciali per un totale di 380 mila metri quadri. Nella sola area di Verona Sud previsti 4 milioni di mc di cemento: uno per edifici residenziali, altri 3 in direzionale, commerciale e alberghiero».
E la vocazione d’oro di Vicenza brilla per sintonia amministrativa: se il berlusconiano Enrico Hullwek ha lasciato in eredità speculazioni come minimo azzardate, il renziano Achille Variati regolamenta nuove colate di cemento armato.
Una ventina di chilometri più in là si fanno i conti con il ventennio di Flavio Zanonato descritto eloquentemente da Francesco Fiore (consigiliere comunale di Padova 2020): «Nel 2013 risultavano invendute oltre 10 mila abitazioni; che raddoppiano nei 18 municipi della comunità metropolitana. Eppure gli attuali piani urbanistici prevedono espansioni: alla volumetria residua del Prg vigente, il nuovo Pat aggiunge altri 2 milioni di metri cubi. Così si immagina l’insediamento di 24.185 abitanti in un decennio, Dato assolutamente irrealistico: negli anni Duemila la popolazione è aumentata di 730 abitanti».
Betoniere e struzzi
Affari & politica in versione edile. Funziona così, dall’epoca del “modello veneto” con una zona industriale sotto ogni campanile. Nel Duemila sono resusiscitati tutti, compresi quelli apparentemente morti con Tangentopoli. A Venezia c’è la mega-concessione del Mose, la più mastodontica opera pubblica concepita in Italia: la salvaguardia della laguna affidata nelle mani dell’impresa Mantovani di Piergiorgio Baita (costretto a patteggiare con la Procura) e Giovanni Mazzacurati che a 82 anni deve rispondere della gestione del Consorzio Venezia Nuova.
Comunque, per i soci del Cvn (comprese le coop “rosse”) l’affare era fatto: proprio all’inizio di febbraio la Banca europea degli investimenti aveva sbloccato il maxi-prestito (200 milioni di euro). L’accordo firmato a Roma seguiva mesi di raccolta informazioni sulle indagini giudiziarie da parte degli esperti della Banca, che hanno ricevuto in garanzia… gli stanziamenti del governo al Mose. Alchimia più che necessaria, per intercettare l’ultima tranche del pacchetto di 1,5 miliardi (soldi erogati tra il 2011 e il 2013). Poi sono scattati arresti, perquisizioni, verifiche della Guardia di finanza e rogatorie internazionali…
A Vicenza, “regna” il gruppo Maltauro (1.700 dipendenti, 465 milioni di euro il valore della produzione nel 2012) che ha in cantiere anche l’appalto da 40 milioni della nuova metro di Roma Termini. Naviga anche nei fiumi di denaro dell’Expo 2015 di Milano: 42,5 milioni per il progetto “Via d’acqua Sud” a cavallo del Naviglio. Negli anni Novanta il nome dell’impresa ricorreva nei faldoni della magistratura che indagava sulle mazzette per la “bretella” autostradale con l’aeroporto di Tessera. Ora l’imprenditore edile vicentino è finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta della Procura di Milano, mentre Pavia indaga sull’illecito smaltimento di rifiuti. Di certo, Maltauro ha garantito la materia prima per il bunker di Muhammar Gheddafi a Tripoli, mentre lavorava e progettava infrastrutture del regime.
Cemento sussidiario
Al Tribunale di Padova è stata invece depositata l’istanza di pre-concordato da parte di Consta. E’ il consorzio che incarna il business della Compagnia delle Opere: dal 10 settembre 2012 il CdA è presieduto da Graziano Debellini (carismatico leader della fraternità ciellina) affiancato da Ezechiele Citton (suo braccio destro nell’architettura della holding dal Lussemburgo alla Nuova Zelanda) e Luigi Patané nel ruolo di amministratore delegato e direttore generale. I problemi, finanziari e non, nascono in Etiopia con la ferrovia per Gibuti e i cantieri degli acquedotti. In via Crimea va fanno i conti anche con il “rinculo” delle energie alternative, con lo sparring-partner Carlo De Benedetti.
La sintesi del sistema dei calce-struzzi veneto è ben riassunta nell’e-book La politica urbanistica dell’assessore Vito Giacino di Giorgio Massignan, presidente di Italia Nostra a Verona. Sotto i riflettori, l’ex braccio destro di Tosi arrestato il 17 febbraio per corruzione: «Gli strumenti urbanistici si sono trasformati in piattaforme tecniche che giustificano e notificano la speculazione edilizia».
E anche così si ritorna al “lato B” delle cicliche alluvioni a Nord Est. Con l’inchiesta formato docu-film Giace immobile scritta e diretta da Riccardo Maggiolo: da Caldogno (il paese di Roberto Baggio) sott’acqua si arriva fino all’immobiliarismo. Una produzione indipendente che viene proiettata sempre più spesso. In alternativa, c’è il sito www.giaceimmobile.com da cui si può scaricare il film di 89 minuti in full HD a 4,99 euro.
«Negli ultimi cinque anni il numero di compravendite immobiliari è crollato. Nonostante ciò, i prezzi hanno subìto solo una lieve flessione. Il mercato è in forte disequilibrio, oltre ad essere gravato da un’enorme mole di invenduto e di edifici abbandonati, incompleti, decadenti. Un’implosione del settore è un’ipotesi tutt’altro che remota» spiega la presentazione dell’inchiesta. Fra gli intervistati, Tiziano Tempesta dell’Università di Padova e Luca Dondi direttore dell’Osservatorio Nomisma. È una spietata analisi della rendita virtuale costruita sul valore del mattone. Affiora il Veneto della speculazione edilizia, che produce anche “catastrofi naturali”.