10 giugno 2018. Rassegna stampa di una giornata di lotta per la dignità di Venezia: contro le grandi opere, la svendita del patrimonio pubblico, la turistificazione, la privatizzazione dei servizi, la militarizzazione degli spazi pubblici e altro ancora. (i.b.)
Il fatto quotidiano, 10 giugno 2018
VENEZIA, MARCIA VERSO IL COMUNE
CONTRO LE GRANDI NAVI IN LAGUNA: “LÌ VENGONO DECISE LE OSCENITÀ”
di Giuseppe Pietrobelli
Un assedio pacifico al Comune di Venezia. Quest’anno il Comitato No Grandi Navi, assieme all’associazione Laguna Bene Comune, ha deciso che la manifestazione contro i “transatlantici del mare” avverrà in centro storico e non sulle rive del Canale della Giudecca, quotidianamente percorse dalle navi da crociare. Niente tuffi in laguna, quindi, ma un lungo serpentone di manifestanti per calli e campielli che parte alle 14.30 di domenica 10 giugno da piazzale Roma per raggiungere Campo Manin, attraversando Strada Nova e la zona di Rialto. Ca’ Farsetti, sede del municipio, è a pochi passi.
“E’ il palazzo dove vengono decise le oscenità nella gestione della città e dei flussi di turismo”, spiega Luciano Mazzolin, portavoce dei No Grandi Navi. “Abbiamo invitato le abitanti e gli abitanti della città storica e della Terraferma, chi ci vive o vi lavora da pendolare, il mondo associativo e le organizzazioni a mobilitarsi per restituire dignità alla città di Venezia, mai come oggi minacciatadall’operato di chi la governa”. Più che le grandi compagnie che controllano l’affare delle crociere, stavolta è il potere politicoveneziano a finire nel mirino. L’obiettivo è quello di riempire di gente i campi veneziani che si trovano a ridosso del municipio, in modo da impedire simbolicamente (anche perché di domenica tutti gli uffici sono chiusi) l’accesso al palazzo della politica veneziana.
Moltissime le adesioni alla manifestazione. Hanno annunciato la loro partecipazione 75 tra comitati, associazioni e circoli, 8 sigle di organizzazioni sindacali, una ventina tra presidenti di Municipalità, consiglieri comunali o regionali e una dozzina di sigle collegate a partiti. Particolarmente significativa la presa di posizione della Fiom del Veneto e di Venezia, preoccupata per il ventilato trasferimento delle Grandi Navi a Porto Marghera. Il sindacato metalmeccanico della Cgil scrive: “Occorre dire con chiarezza che lo spostamento delle grandi navi non può avvenire a danno delle attività produttive presenti in prima zona industriale o a detrimento dell’uso delle aree di Porto Marghera che deve restare industriale. Ripensare la città significa mettere in discussione alla radice le scelte sbagliate compiute a danno del lavoro industriale, con pesantissime perdite occupazionali, che hanno reso invivibile Venezia e favorito una idea speculativa e parassitaria dell’uso del territorio”.
Il tema della “Marcia per la dignità di Venezia” dimostra di voler andare oltre il problema delle grandi navi in laguna, partendo dai “tornelli” installati per regolare i flussi dei turisti. “La vicenda dei tornelli, al di là della ridicolaggine, è grave – scrivono gli organizzatori – perché esemplifica il vero programma del sindaco Brugnaro e della sua giunta: trasformare, in nome del profitto, la città storica in un grande parco a tema che abbia nella Terraferma una nuova succursale low cost. A cosa possono servire i tornelli se si sta pianificando la costruzione di 20.000 posti letto in ostelli od hotel a Mestre nei prossimi anni?”.
la Nuova Venezia, 11 giugno 2018
I VENEZIANI ORA SI RIBELLANO
«QUESTA CITTÀ È NOSTRA»
di Manuela Pivato
A Venezia la marcia della dignità fino a campo Manin tra slogan e varchi di cartone
La marcia della dignità sfida il caldo, suda sotto il sole, spinge in là i turisti; avanza calle dopo calle, ponte dopo ponte, colorata e chiassosa, lungo la direttrice dove oggi, in un giorno normale, i veneziani fanno fatica a passare. Ma ieri era domenica, la domenica in cui settantuno tra comitati, associazioni, circoli, otto organizzazioni sindacali, undici partiti, ventuno tra consiglieri regionali, comunali e di Muncipalità, si sono messi insieme per «una città più degna».
In tremila, secondo gli organizzatori - poco più di mille secondo le forze dell’ordine - e comunque in tanti, di tutte le età, di ogni sestiere, giunti anche da Mestre, da Marghera, con i cappelli, gli ombrellini, le infradito da spiaggia, i bambini in braccio, i cani stremati tra i piedi, le bandiere, gli striscioni, la musica dei Pitura Freska, sfilano da Piazzale Roma a campo Manin, dove una volta la destra teneva i suoi comizi.
Annunciato dal lancio di fumogeni dalla terrazza del garage comunale, il corteo impiega quasi due ore per raggiungere il palco, tanta è la distanza tra la testa e la coda, tanto le bandiere dei No Grandi Navi s’incrociano con quelle del Coordinamento studenti medi, i ragazzi Awakening con quelli del Morion, lo striscione “Il mio futuro è Venezia” con quello a beneficio dei turisti, in inglese, “This is not Veniceland” e con i varchi di cartone; e ancora, qua e là, il Gruppo 25 aprile, il Centro Sociale Rivolta, Forum Futuro Arsenale, ma anche il Movimento dei Consumatori, quello per la difesa della Sanità Pubblica Veneziana, Italia Nostra, Lido d’Amare e tutti gli altri gruppi, grandi e piccoli, che, trasversalmente, ma egualmente motivati, si ritrovano l’uno accanto all’altro in Strada Nuova, ai Santi Apostoli, sull’ormai malinconico ponte di Coin, a San Bartolomeo, infine in campo Manin.
Dal palco, ce n’è per tutti. Stefano Micheletti del Comitato No Grandi Navi ricorda gli ultimi sei anni, all’indomani del decreto Clini-Passera, durante i quali «non è cambiato nulla; anche sabato, sono arrivate sette navi da crociera e 14 mila turisti». «Non vogliamo che Venezia diventi una Disneyland, ma nemmeno una Biennaland - dice ancora Micheletti - e invece la Biennale, dopo l’Arsenale, vorrebbe prendersi l’intera città, come il Lazzaretto vecchio. Se non vogliamo il monopolio del turismo, non vogliamo nemmeno quella della cultura. Non dimentichiamo l’esempio dei musei civici, che guadagnano milioni di euro ogni anno, mentre gli addetti alla guardiania rischiano di perdere il posto di lavoro».
Nelle stesse ore, a distanza, su Facebook, l’assessore Michele Zuin si scusava «se la città era stata di nuovo offesa da un gruppo di persone, incapaci di manifestare tranquillamente, ma è il solo modo di dimostrare che esistono. Per anni di governo di centrosinistra non si è fatto nulla».
In campo Manin, intanto, si offre frutta e acqua minerale. Tommaso Cacciari guarda in direzione di Ca’ Farsetti. «Brugnaro ha in progetto di trasformare questa città in Veniceland, per questo mette i tornelli, per far pagare un biglietto - dice - ecco perchè vuole che i veneziani se ne vadano, per lasciare libere le case da affittare ai turisti».
Il caldo si fa sentire, arriva un filo d’ombra. Ai piedi del palco, Gianfranco Bettin osserva «una specie di alleanza, un insieme di obiettivi unificanti, l’unica maniera per far emergere che questa città è un’altra cosa». Sicuramente sarà un’altra cosa l’incontro del 14 giugno, annunciato dal presidente di Municipalità Giovanni Andrea Martini, in parrocchia ai Frari, durante il quale il sindaco Brugnaro incontrerà la cittadinanza.
«Siamo vicini al suo palazzo» dice Martini «un giorno potremo anche entrarvi. E intanto ci sono tremila case vuote mentre i veneziani continuano ad andarsene. E allora il 14 andiamo tutti ai Frari». Grida di giubilo.
Corriere del Veneto, 11 giugno 2018
«NO VENEZIA DISNEYLAND», MILLE IN CORTEO
di Gloria Bertasi
Un gesto che ha indispettito gli assessori comunali Simone Venturini (Coesione sociale) e Michele Zuin (Bilancio) che sui social si sono scusati con i cittadini: «Centri sociali, alcuni frammenti di sinistra veneziana e qualche politicante alla manifestazione no global a Venezia. Ci scusiamo per questo degrado - ha scritto Venturini - Ogni tanto devono dimostrare a loro stessi di esistere e per farlo paralizzano la città, urlano sciocche filastrocche e accendono qualche fumogeno. Perdonateli». In serata, il sindaco Luigi Brugnaro ha invece ironizzato: «Voi siete questi...!!! 500/800 persone di cui tante arrivate da fuori. Grazie perché dimostrate quanto importante sia la nostra amministrazione per questa città».
Il Mattino di Padova, 11 giugno 2018
VENEZIA SI RIBELLA: «LA CITTÀ È NOSTRA»
di M.PI
Dal palco, ce n’è per tutti. Stefano Micheletti del Comitato No Grandi Navi ricorda gli ultimi sei anni, all’indomani del decreto Clini-Passera, durante i quali «non è cambiato nulla; anche sabato, sono arrivate sette navi da crociera e 14 mila turisti». «Non vogliamo che Venezia diventi una Disenyland, ma nemmeno una Biennaland - dice ancora Micheletti - e invece la Biennale, dopo l’Arsenale, vorrebbe prendersi l’intera città, come il Lazzaretto vecchio. Se non vogliamo il monopolio del turismo, non vogliamo nemmeno quella della cultura». In campo Manin si offre frutta e acqua minerale. Tommaso Cacciari guarda in direzionedi Ca’ Farsetti. «Brugnaro ha in progetto di trasformare questa città in Veniceland, per questo mette i tornelli, per far pagare un biglietto - dice - ecco perché vuole che i veneziani se ne vadano, per lasciare libere le case da affittare ai turisti».
globalproject, 10 giugno 2018. Un primo resoconto della marcia per la Dignità di Venezia, tantissime persone, comitati, associazioni hanno partecipato esprimendo la volontà di volere una città diversa. Qui potete leggere/ascoltare alcuni contributi. (i.b.)
Appena prima della partenza uno striscione di oltre 10 metri è stato calato dal Garage comunale, a salutare i tanti presenti al concentramento.
La marcia ha proseguito colorata e rumorosa verso Strada Nuova dove, in prossimità di uno dei tanti edifici lasciati all'abbandono e al degrado - pronto per l'ennesima speculazione, o l'ennesimo albergo (sic) - è stata attacchinata una gigantografia donata dal collettivo Awakening a testimoniare il loro supporto all'iniziativa.
Migliaia di cittadine e cittadini hanno marciato sotto il sole cocente, portando con loro striscioni e cartelli che riportavano i dati di una trasformazione quotidiana di Venezia: oltre 30 milioni i turisti annui; meno di 54mila i residenti nella città storica; oltre 3000 le case pubbliche vuote; una media di 74 turisti per residente nell'anno 2017; oltre 200 i cambi d'uso annui da residenziale a turistico; oltre 10mila i posti letto in costruzione a Mestre.
Trasformazione che segue logiche di svendita e sfruttamento di una città intera, promossa a piene mani da un'amministrazione che non ha attuato alcuna politica per favorire la residenzialità e contrastare l'esodo e la turistificazione.
All'arrivo a Campo Manin si sono susseguiti gli interventi di alcune delle realtà promotrici.
Stefano Micheletti del Comitato No Grandi Navi ha aperto gli interventi «Sono passati sei anni dal decreto Clini-Passera che vietava l'accesso nel Canale della Giudecca alle grandi navi e cos'è cambiato? Niente! Ieri in laguna c'erano 7 grandi navi e 14.000 crocieristi. Ci hanno presi in giro con discutibili soluzioni alternative, ma il gigantismo navale sembra inarrestabile. Il problema non sono solo eventuali incidenti, ma l'inquinamento dell'aria ed elettromagnetico, e l'erosione dei fondali. Anche noi vogliamo posti di lavoro, come la presenza dei compagni operai della Fiom qui in piazza dimostra. Ma vogliamo posti di lavoro non precari, non sfruttati, lavori in grado di garantire diritti veri!»
Tommaso Cacciari, Laboratorio Occupato Morion: «Nonostante il caldo torrido siamo migliaia, ed è la miglior risposta che la Venezia degna poteva dare a Brugnaro. Mai come in questi anni assistiamo a un progetto di distruzione della città e di allontanamento di chi la abita. Brugnaro ha un progetto preciso che è trasformare la città in un parco a tema galleggiante: è per questo che fa accordi con Airbnb, è per questo che mette i tornelli, vorrebbe mettere anche i biglietti per accedervi.
In questo progetto i veneziani sono solo gente che deve andarsene per lasciare posto libero ai turisti. Ringraziamo tutti quelli che hanno reso possibile quesa Marcia, con un auspicio: se ci mettiamo insieme per costruire un’altra idea di città, più degna e vivibile, allora per Brugnaro non c’è più speranza».
Chiara Buratti dell'Assemblea Sociale per la Casa: «La lotta per la casa va di pari passo con la lotta contro le grandi navi, contro le grandi opere inutili e dannose come il Mose, contro la turistificazione di massa. In questi anni abbiamo recuperato e restituito più di 70 alloggi a cittadine, cittadini, famiglie con bambini. Finalmente possono rimanere a Venezia, per lavorare e studiare come hanno scelto di fare. Questo significa che il futuro ce lo stiamo immaginando insieme».
Giovanni Andrea Martini, Municipalità di Venezia Murano Burano prende la parola anche a nome degli altri esponenti delle municipalità presenti e firmatari: «Il fatto che siamo qui tutto assieme per salvaguardare la nostra città è il dato più importante di oggi. Porto il saluto di tutte le municipalità che assieme alle associazioni possono riuscire a dare una svolta a questa città. Siamo vicini al palazzo del padrone e un giorno potremmo anche pretendere di entrare e assistere ai consigli comunali e prendere parte alle decisioni. La città è stata privata degli spazi pubblici che i cittadini vivono per dialogare. Noi assieme abbiamo tante proposte e dobbiamo e possiamo portarle avanti. Le municipalità hanno un ordine del giorno preciso sul tema del turismo di massa e delle grandi navi: non si deve scavare in laguna, non bisogna manomettere l’ecosistema. Ci sono tremila case vuote che devono essere date ai cittadini, a chi vuole rendere la città viva».
Marco Baravalle, S.a.L.E. Docks: «Io ho 39 anni, non sono veneziano ma ho scelto di vivere qui. Mi sono innamorato non solo della bellezza di Venezia ma anche della sua vivacità, della vivacità dei movimenti e delle realtà associative di questa città. Per questo mi incazzo quando vedo che i giovani sono costretti sempre più a lasciare Venezia. Questo avviene per colpa di un progetto di gestione urbana neoliberale, di un'amministrazione che sacrifica tutto in nome del profitto. Venezia è unica ma dobbiamo guadagnarcela, lotta per lotta, casa per casa, istanza per istanza. Con il S.a.L.E., per esempio, abbiamo restituito alla città uno spazio libero per la sperimentazione artistica, evitando che diventasse l'ennesima proprietà in affitto all'industria culturale che mira solo a speculare e a sfruttare i lavoratori con contratti senza diritti e stipendi da fame».
Vittoria Scarpa, Venezia Accoglie: «Oggi anche chi vive in terraferma deve affrontare il fatto di essere amministrati da un sindaco che toglie spazi ai cittadini per darli ai turisti. In terraferma questo lo tocchiamo con mano negli ostelli, nell’aumento degli affitti. Tutto viene messo a profitto, le nostre case, i nostri spazi e le nostre attività. Il futuro delle due parti della nostra città è da costruire assieme: non siamo comparse, questa è casa nostra, ed è una città che è sempre stata accogliente. Quello a cui assistiamo non è solo un tentativo di espellere i cittadini ma anche di rendere la vita impossibile ai più deboli. Oggi più che mai è importante diventare una città-rifugio perché il nuovo governo di Salvini e i 5stelle ha dichiarato guerra ai più deboli. Noi crediamo che il diritto di vivere in pace sia un diritto di tutti. Mai come oggi la nostra lotta sarà forte».
Niccolò Onesto, L.O.Co.: «Il nostro è uno spazio occupato 4 anni fa in via Piave, nota alle cronache come zona di guerra in cui sembra impossibile per i cittadini vivere e attraversarla: è la zona che ha pagato di più il taglio dei servizi sociali e non è un caso che ora Mestre e Venezia siano diventate la capitale nazionale dei morti per eroina. È la stessa giunta che sceglie di chiudere i servizi di prossimità e svuotare le municipalità, e allo stesso tempo militarizza la città e costruisce centinaia di nuovi posti letto a Mestre. Per loro i cittadini sono un peso, l’unica cosa che conta è far guadagnare le multinazionali estere che sulla nostra città speculano e si arricchiscono. Crediamo sia invece fondamentale ripartire dai giovani e dai cittadini per ricominciare a vivere la città».
Numerosi altri interventi si sono susseguiti dal palco.
Roberta Costa, USB Musei Civici di Venezia: «Noi lavoratori dei Musei Civici siamo un esempio di quello che succede nella nostra città: l'amministrazione si arricchisce con il turismo di massa mentre noi lavoratori esternalizzati dei Musei pubblici siamo sottopagati e ora rischiamo di restare a casa. Vogliamo dire che assieme agli abitanti ci sono anche i lavoratori, noi da un anno siamo allo sbando, probabilmente verremo sostituiti con lavoratori ancora meno pagati e meno tutelati. Noi non scappiamo, siamo qua e non ci arrendiamo».
Ilaria Boniburini, Eddyburg: «La gestione odierna di Venezia è emblematica di un modello di sviluppo molto diffuso oggi: grandi opere e infrastrutture inutili, che aumentano il debito pubblico e minacciano l'ambiente; privatizzazione dei diritti e dei servizi; privatizzazione della rendita, intascata solo da pochi e mai reinvestita per il bene di tutti; svendita del patrimonio pubblico. Essere qui a questa marcia significa difendere il diritto alla città che è diritto alla vita».
Sergio Zulian, ADL-Cobas: Quando qualcuno, per difendere schifezze come le grandi opere inutili, si fa scudo con la retorica della difesa dei posti di lavoro, spesso è in malafede. Questi stessi personaggi se ne sbattono ampiamente delle condizioni di lavoro di chi è occupato in questa città: non vanno a vedere il livello di lavoro nero, di precariato, di sfruttamento. Negli alberghi le cameriere ai piani sono esternalizzate a cooperative che ogni anno cambiano e introducono nuovi contratti, sono pagate a cottimo in base alle stanze che fanno e non alle ore di lavoro. Lì dovrebbero mettere i tornelli: per contare le ore di lavoro e garantire una giusta retribuzione. Venezia non è un luna park e questo significa lottare per i diritti e anche difendere il proprio posto di lavoro».
Alla conclusione della Marcia della dignità di Venezia, il commento finale di Tommaso Cacciari: «Oggi si manifesta in piazza una nuova opposizione sociale al governo di questa città».
infoaut.org, maggio 2018. Un dossier sulle molteplici trasformazioni e ristrutturazioni urbane dovute al turismo - "l'industria pesante del nostro secolo" - spiegate in otto punti in cui teoria, inchiesta, casi studio e indicazioni politiche sono articolate assieme. (i.b.)
Il concetto di touristification, reso in lingua italiana con turistificazione, è salito in maniera rapida all'onore delle cronache nostrane negli ultimi tempi, grazie all'evidente impatto che l'industria turistica sta avendo nel ridefinire le nostre città in parallelo alla diffusione sempre più forte dell'utilizzo, come ospite o come ospitante, di portali come Airbnb, piuttosto che dei voli offerti da compagnie aeree low-cost come RyanAir. Tuttavia, la turistificazione è ancora qualcosa di difficilmente afferrabile in tutte le sue sfaccettature.
Una prima definizione minima potrebbe essere quella di concetto che racchiude al suo interno la molteplicità delle conseguenze del turismo di massa sulla ristrutturazione degli spazi urbani o di alcune loro sezioni. Indubbiamente molto vago: siamo ancora sprovvisti di una definizione utile a individuare, collegandole in un quadro interpretativo unico, tutte le tematiche che potrebbero essere riferite a una parolina sempre più in voga.
Di conseguenza, ed è questo che ci interessa in maniera particolare, l'impatto del turismo in quanto fenomeno di massa è elemento da cogliere per poter innovare teoria e prassi politica dei movimenti sociali sul tema dell'urbano, della contesa dei suoi spazi, allargando e rinnovando quanto spesso espresso con l'etichetta "diritto alla città". Per evitare analisi troppo astratte, che rischiano di scadere in una generalizzazione slegata dalla dimensione reale, abbiamo provato ad affrontare il tema prendendo in esame alcuni casi specifici di processi di turistificazione. Partire da alcuni casi specifici è utile anche a costruire una definizione più ampia del concetto, tenendo in considerazione allo stesso tempo le peculiarità dei singoli contesti urbani e la riproposizione di alcune invarianti all'interno di questi.
Obiettivo di questo dossier è quello di verificare alcune ipotesi di ricerca sul tema dell'impatto del turismo di massa sulle trasformazioni dello spazio urbano, attraverso la discussione critica di saggi, articoli di giornale e di interviste raccolte con alcuni attivisti e/o docenti di diverse città europee come Atene, Barcellona, Berlino, Lisbona, Marsiglia e Parigi.
Tesi 1: La turistificazione non e' un processo omogeneo
Da un lato il turismo si afferma come flusso stagionale di possibili profitti, dall'altro come flusso permanente. La distinzione non è di poco conto: la sostituzione di un'organizzazione economica di un territorio complessa in favore di una in cui domina una sola prospettiva di sviluppo rischia di innescare dinamiche in cui una economia basata pienamente o quasi sul turismo può divenire di fatto, con una metafora agricola, una monocultura, la quale elimina tutto ciò che non si adegua ad essa o che con essa non è compatibile. La problematicità di questo aspetto è che una crisi economica, oppure eventi come attentati e crisi politico-amministrative, possano avere un effetto simile come quando nel mercato agricolo viene a cadere il prezzo di una materia prima, facendo scoppiare la "bolla" e mandando nel panico un'intera città.
Il caso di Parigi ad esempio è peculiare e differente rispetto alla maggioranza delle città che vedono in recenti processi di turistificazione una rivoluzione copernicana del proprio assetto. Prendiamo la questione abitativa, uno dei temi cardine su cui si focalizza l'analisi dei processi di turistificazione. Nella capitale francese la rendita immobiliare produce da parecchio tempo un effetto di svuotamento dei quartieri, che si sono progressivamente caratterizzati con affitti a canoni altissimi, attivati per brevi periodi di tempo. Eppure, secondo i dati del sito Insideairbnb, per quanto da scorporare per zona, gli affitti medi di interi appartamenti gestiti attraverso Airbnb sono di tre mesi. L'algoritmo non gira certo dunque sul "turismo di massa" di brevissimo periodo, come ad esempio registrato a Lisbona o Marsiglia o Berlino, quanto piuttosto su una soggettività che vive il territorio urbano e i suoi quartieri in modo saltuario e per periodi medio-brevi.
Un fenomeno tipico delle grandi metropoli globali, almeno quelle egemoni sul mercato mondiale, che non si riproduce nello stesso modo in città che hanno subito una recente accelerazione di processi di turistificazione. In merito ai quali non si può negare l'importanza delle relazioni internazionali. Il turismo ha svolto un ruolo centrale nella trasformazione della città di Lisbona, non casualmente nel periodo seguente alle imposizioni al Portogallo della Troika. La strategia utilizzata per uscire dalla "crisi" e ripagare i prestiti senza rinunciare alle misure di austerità divenne trasformare il Portogallo in una destinazione turistica economica e a basso costo, ricalcando quindi quanto avvenuto per la Grecia e calcando ulteriormente la linea divisoria tra chi “subisce” la crisi e chi invece può permettersi di “governarla”. Le differenze nei processi di turistificazione tra città come Berlino e Lisbona, che affronteremo via via proseguendo, la dicono lunga.
In generale, come ricorda Clara Zanardi nel testo pubblicato sull'ebook “Città, spazi abbandonati, autogestione” (pubblicato da InfoAut nel gennaio 2018) bisogna evitare narrazioni troppo semplificate di questi processi, ricorrendo ad un modello troppo lineare di interpretazione, secondo cui il turismo avrebbe effetti su realtà locali intese in senso statico. "E' necessario evitare di ridurre ad un semplice determinismo causale quella fittissima rete di azioni e retroazioni che al contrario caratterizza i processi di turistificazione". Molto spesso il turismo non è causa unica di un dato sviluppo urbano, ma "uno dei fattori di un processo di trasformazione socio-economica assai ampio ed articolato, dove la località stessa si costituisce come esito perpetuamente dinamico e rinegoziabile di trasformazioni al tempo stesso endogene ed esogene".
Tesi 2: Non c'e' turistificazione senza “grandi opere”
La dimensione quantitativa del turismo come fenomeno sociale è in ultima istanza relativa alla possibilità di spostamento, ai vincoli economici e tecnologici alla mobilità delle persone. Ne deriva il fatto che le rivoluzioni logistiche e comunicative che stanno caratterizzando l'ultimo ventennio vanno prese come punto dirimente di un percorso di analisi della questione. In tutti i casi oggetto di attenzione, la costruzione di grandi infrastrutture logistiche, la loro ristrutturazione o il loro migliore collegamento con le altre infrastrutture si sono rilevati motore di avviamento di processi di turistificazione ed intensificazione dell'impatto turistico sulla città o su suoi determinati quartieri. Il nuovo aeroporto internazionale di Atene, in funzione dal 2001, ne è un esempio, così come lo svuotamento del porto di Marsiglia da attività di tipo industriale a beneficio di quelle del tipo crocieristico, con banchine di proprietà di imprese come Costa Crociere.
Tesi 3: Stato e mercato sono entrambi decisivi per la turistificazione
Tesi 4: Il ruolo di airbnb nella turistificazione non riguarda solo il diritto all'abitare
Tesi 5: La turistificazione e' un processo a somma zero
Ironia della sorte, molto spesso i processi di turistificazione, oltre ad essere narrati come a beneficio dell'interesse generale di una città, hanno anche l'effetto di fomentare divisioni interne alla popolazione. Nel caso di Marsiglia ad esempio, la volontà é stata quella di "riconquistare" il centro storico, "renderlo ai marsigliesi", come se gli attuali abitanti delle classi popolari non lo fossero. Finanziamenti e sgravi fiscali sono stati resi possibili a norma di legge per promuovere l'accesso alla proprietà immobiliare a classi sociali più agiate, iniziative come "Euroméditerranée" o "Opération Grand Centre Ville" hanno permesso di acquisire interi isolati e ristrutturarli (o più spesso per demolirli e poi ricostruire), con la volontà di ampliare il centro città. Ovviamente il processo non è neutro: ristrutturare spazi pubblici serve a renderli più adatti alle esigenze del turista che alle attività sociali esistenti, spesso classificate come "devianti" quando sono semplicemente alternative ad una indiscriminata messa a profitto del territorio.
Tesi 6: La turistificazione e' (anche) una questione di narrazione
Tesi 7: la turistificazione intensifica il controllo poliziale degli spazi
Tesi 8: La colpa della turistificazione non e' del turista
Come dare una lettura critica a questi processi? La risposta non è semplice. Inanzitutto vanno definiti i punti focali. Il primo che viene in mente è chiaramente il diritto all'abitare, messo sotto pressione in maniera evidente dai processi che abbiamo descritto. A Marsiglia sul tema del diritto all'abitare pensato in senso allargato come diritto alla non-espulsione dai propri quartieri oltre che dalle proprie case, si puo citare le attività dell'associazione "Un centre ville pour tous", che ha agito al fianco e in difesa degli abitanti espulsi dai loro alloggi negli ultimi dieci-dodici anni e che ora ha aperto una sorta di osservatorio permanente sul nuovo "Plan local d'urbanisme intercomunale" che è il progetto con il quale le istituzioni cittadine stanno immaginando ulteriori progetti di ristrutturazione della città.
La città, la campagna, il mare sono oggetto di contesa primaria crescente tra le forze capitalistiche multinazionali e i popoli che vi abitano e vivono delle risorse locali. Le risorse naturalistico-ambientali subiscono alterazioni irreversibili di carattere potenzialmente catastrofico – cambiamento climatico, riduzione della fertilità del suolo, ecc. – mentre cresce la minaccia dello sviluppo imperialistico degli armamenti dell’area Nato, sottaciuta dalla comunicazione ufficiale.
Anche la città pubblica e comune è una risorsa messa a rischio.
Nella città equiparata a merce, il debito pubblico gioca un ruolo di primo piano. Il debito pubblico è impiegato come strumento di riduzione della solidarietà urbana per l’accaparramento della ricchezza delle città da parte del capitale finanziario. Il debito pubblico ha drogato il mercato immobiliare e prodotto milioni di metri cubi di invenduto.
La gestione urbana ha assunto a modello la gestione aziendale. Il “governo della città” è giocato sulla priorità della decisione, della governabilità, della competizione, della velocità, della forzature delle regole, a detrimento di programmazione e pianificazione.
La città ha abdicato al piano. Il progetto organico per l’ambiente di vita urbana è sostituito dalla somma di operazioni guidate dagli investitori di cui gli amministratori si fanno fedeli, ridicoli, interpreti.
Gli amministratori diventano curatori fallimentari dei beni pubblici. A Firenze, sindaco, assessori e dirigenti sono abituali protagonisti dei «Road Shows»: così è denominata la partecipazione alle fiere della speculazione immobiliare mondiali dove i governanti offrono ai grandi investitori importanti edifici pubblici (e privati!) e relativi servigi urbanistici, utili per concludere gli “affari”.
La svendita della città pubblica accelera l’“infrastrutturazione”. Grandi Opere Inutili e Dannose alimentano la grande corruzione, distruggono gli ultimi spazi liberi delle aree metropolitane, annullano ogni possibile riutilizzazione di opere, di edifici e beni naturali esistenti nei paesaggi colpiti dall’intervento. Tolgono risorse alle tante “piccole” opere utili e portatrici di lavoro stabile.
Infrastrutturazione pesante, centri commerciali, decentramento delle funzioni civili, sprawl abitativo hanno dilatato a dismisura la città. La diffusione territoriale, basata sul trasporto privato, ha occupato estensioni immense di suoli fertili e si è divorata il tessuto commerciale cittadino e gli spazi pubblici, lasciandosi alle spalle vuoti urbani che solo il turismo sembra capace di colmare.
L’industria turistica mondiale ha innescato nelle città d’Italia un processo di turistificazione. Corrosione del diritto all’abitare. Cannibalizzazione della storia urbana e territoriale, cancellazione di possibile apprendimento antropologico dalle forme del passato, sistematicamente manipolato attraverso cambiamenti d’uso e ristrutturazioni à la carte, attraverso la produzione di desiderio e consumo ossessivo dell’immagine.
La gestione neocapitalista della città e del territorio, genera resistenze progettanti e controffensive creative che costruiscono sapere critico e lo mettono in pratica sui terreni di lotta.
Sul versante territoriale, resistenze e controffensive insistono:
– sulla restituzione di fertilità ai suoli e sul blocco del consumo delle risorse ambientali, anche con azioni per la qualità dell’aria, dell’acqua, del mare, per la qualità dello spazio dell’abitare.
– sulla difesa della città pubblica e la difesa della terra pubblica, del diritto alla campagna e agli stili di vita alternativi al modello unico. La difesa della terra si attua nel perseguimento di un corretto e veritiero rapporto tra cibo e salute (contro la green economy, l’impiego della chimica, l’azienda capitalistica agricola industriale).
Sul versante più direttamente urbano, resistenze e controffensive sottolineano l’urgenza:
– di ricostruire un sistema di edilizia residenziale pubblica opponendosi alle vendite di edifici pubblici e di Enti di diritto pubblico e proponendo soluzioni convincenti, inclusive e desiderate dagli abitanti dei quartieri;
– di opporre alla “rigenerazione” (divenuta sinonimo di speculazione) il risanamento del costruito e la sua conversione in edilizia popolare e attrezzature sociali per la trasformazione della periferia in città pubblica accogliente e accessibile;
– del presidio popolare nei centri antichi, oggi ancora documento irripetibile del principio di città;
– della requisizione dell’invenduto per soddisfare il fabbisogno abitativo e l’accoglienza dei migranti.
17 maggio 2018. Lanciato dal Comitato No Grandi Navi-Laguna Bene Comune, il manifesto è un appello alla cittadinanza e a tutti coloro che vogliono che Venezia torni ad essere una città e non un luna park dal quale estrarre profitto e rendita (i.b.)
MARCIA PER LA DIGNITÁ DI VENEZIA
10 giugno 2018
h 14 concentramento a Piazzale Roma
II Comitato No Grandi Navi invita le abitanti e gli abitanti della città storica e della Terraferma, chi ci vive o vi lavora da pendolare, ii mondo associativo e le organizzazioni a mobilitarsi per restituire dignità alla città di Venezia, mai come oggi minacciata dall'operato di chi la governa.
Partiamo come sempre da noi, dalla richiesta di estromettere le grandi navi dalla laguna, ma oggi non basta piu, sentiamo la necessita di andare oltre.
La recente vicenda dei tornelli, al di la della ridicolaggine, é grave non tanto perché rappresenti l'inerzia dell'amministrazione di fronte all'invasione da parte di un turismo insostenibile e al relativo spopolamento, quanto piuttosto perché essa esemplifica ii vero programma di Brugnaro e della sua giunta: trasformare, in nome del profitto, la città storica in un grande parco a tema che abbia nella Terraferma una nuova succursale low cost. A cosa possono servire i tornelli se si sta pianificando la costruzione di 20.000 posti letto in ostelli ed hotel a Mestre nei prossimi anni?
Il 10 giugno saranno in piazza tutti coloro che vogliono, costruiscono e mettono in pratica un altro programma per Venezia, tutti coloro che, con il conflitto sociale, alludono ad un'altra idea di città.
E' necessario ripopolare la citta storica con politiche a misura di residente, riaprire le centinaia di case pubbliche chiuse, offrire vere opportunita di social housing, fermare la costruzione di nuovi hotel, frenare i cambi d'uso, l'utilizzo di AirBnB e simili, favorire l'affitto ai residenti e le operazioni di autorecupero.
Sono questi problemi che non riguardano più solo la città insulare, ma che preoccupano anche gli abitanti di Mestre e Marghera, dove i prezzi degli affitti sono già aumentati esponenzialmente rispetto a pochi mesi fa.
Venezia deve tornare ad essere città viva, con un tessuto produttivo diversificato, non può essere spianata dalle rendite di posizione speculative che troppo velocemente distruggono la sua biodiversità urbana. La monocoltura turistica sta distruggendo la città portando ricchezza solo a pochi, con attività tra l'altro basate spesso su lavoro precario e sfruttamento.
lnvece Venezia può essere sede di attività legate anche alla cultura e alla ricerca, agli studi e all'innovazione produttiva eco-compatibile, garantendo reddito e distribuendo ricchezza a tutti.
Il 10 giugno invitiamo a scendere in piazza tutti coloro che vedono nell'ambiente una parte imprescindibile della città e non qualcosa di estraneo, magari sacrificabile sull'altare di un modello di sviluppo suicida.
La nostra piazza dirà che quando si distrugge l'ambiente, si distrugge la città. Per questo le navi devono stare fuori dalla laguna, per questo non vogliamo nuovi scavi, per questo dobbiamo prendere misure che diminuiscano l'inquinamento dell'aria da traffico urbano, ma anche marittimo, e limitare ii consumo di suolo (che spesso porta con se speculazioni e conflitti di interesse a cui il sindaco non è estraneo).
A vedere l'operato di questa giunta, pare che le tradizioni di questa città richiamino ad un'identità escludente, chiusa e definitivamente provinciale.
Mai operazione fu più revisionista.
Venezia é stata nei secoli città del mondo, e nel mondo ha fatto la sua fortuna, commerciale e culturale.
E' stata, all'apice della sua traiettoria storica, un'interfaccia tra civilta diverse, uno snodo internazionale di genti, affari, culture e arti.
Non dimentichiamoci di questa eredità.
Non lasciamo che chi ci governa riduca tutto ad un'attrazione con i suoi orari di apertura e chiusura.
Contro le dichiarazioni e le prese di posizione maschiliste e razziste di chi ci governa, vogliamo invece riaffermare Venezia come aperta e multiculturale, luogo di cultura antirazzista e antisessista.
Per tutte queste ragioni saremo in piazza Domenica 10 Giugno.
Per una città diversa, per restituire dignità a Venezia
Per le adesioni scrivere alla mail: nobigship@gmail.com
Qui l'elenco dell'adesioni già pervenute
la Nuova Venezia e facebook di Paolo Lanapoppi, 3 giugno 2018. Il ri-posizionamento dei tornelli, che avrebbero la pretesa di contrastare l'assalto dei turisti, riaccende giustamente le proteste (m.p.r.)
la Nuova Venezia
FLASH MOB DEI CENTRI SOCIALI
«Non tirate le noccioline ai residenti. Munitevi di biglietto, questo è un Luna Park serio. Se non siete ricchi, andatevene, siamo la nuova polizia di Brugnaro. Benvenuti a Veniceland». Ieri mattina una quarantina di attivisti dei centri sociali, vestiti con gilet catarifrangenti, ha improvvisato un siparietto davanti ai varchi di Lista di Spagna, presidiati dalla polizia municipale. L'obiettivo: contestare gli ingressi «da parco giochi» voluti dall'amministrazione per deviare i flussi turistici in caso di sovraffollamento e ribadire l'urgenza di affrontare la questione della residenzialità. Il flash mob - iniziato sulle 10.30 e durato un'oretta - non ha impedito la circolazione, ma ha creato molto stupore tra chi era diretto verso Strada Nuova.
BRUGNARO DISTRUGGE MA I MEDIA NON CAPISCONO
Nigrizia, 31 Maggio 2018. Dopo anni di continue insistenze un comitato di cittadini è riuscito a ottenere la riutilizzazione per i senza tetto di una parte del monumentale Albergo dei poveri, realizzato nel 18° secolo .
L’edificio costruito a metà del Settecento, durante il regno di Carlo III di Borbone, per dare un tetto ai bisognosi, che arrivò a ospitare 8mila persone. Lo stabile è rimasto inutilizzato per lungo tempo finché, a fine 2015, la giunta del sindaco De Magistris ha deciso di ristrutturarne una parte e di realizzare un centro diurno per i senza fissa dimora. Una vicenda che si trascinava da una decina di anni e che si è concretizzata anche in virtù delle lotte di un comitato di cittadini che ha incalzato le istituzioni, prima la giunta Jervolino e poi quella dell’attuale sindaco.
Il comitato ha dovuto confrontarsi anche con le persone che vivono nell’area del Real albergo. Sobillati da Casa Pound e da altri gruppi di destra, gli abitanti si sono a lungo opposti all’apertura del centro diurno. La giustificazione di questa opposizione è che il Real albergo può diventare un polo di attrazione per i migranti. Il comitato ha fatto valere le proprie ragioni spiegando, dati alla mano, che i senza fissa dimora sono quasi tutti napoletani e che non si può ignorare questo fatto.
A Napoli vivono per la strada oltre 2mila persone che in buona parte dormono all’aperto e non hanno accesso a nessuno spazio dove poter usufruire di docce e servizi igienici. Certo ci sono gruppi di cittadini, alcune parrocchie, le piccole comunità cristiane che danno loro una mano, ma non basta.
Quello che il comitato ha sempre chiesto è che le istituzioni si dichiarassero interessate a riconoscere la dignità a queste persone. E si è arrivati al dunque qualche tempo fa con una delibera comunale che mette a disposizione 1500 m² del Real albergo per l’accoglienza diurna. Il comune ha investito un po’ di risorse e una parte del finanziamento dei lavori di ristrutturazione è arrivata, tramite la stipula di una convenzione, da Rotary International.
Oltre ai servizi di base, già funzionanti, i senza fissa dimora potranno a breve usufruire di un ambulatorio medico. Si vuole poi istituire un’anagrafe dei senza fissa dimora, sempre nella logica di considerare queste persone dei cittadini come tutti gli altri. Il comitato ha avuto modo di essere riconosciuto dal comune, con apposita delibera, come Comitato di programmazione, di verifica e di controllo del centro diurno.
Dunque il Real albergo deve diventare un luogo in cui si acquisisce e si esercita la dignità.
Lo abbiamo ribadito la sera dell’8 maggio in un momento di festa, allietato dal gruppo musicale “Madonna fate luce. Oratorio breve per la città di Napoli”, presenti anche il sindaco De Magistris, l’assessore ai beni comuni Carmine Piscopo e l’assessore alle politiche sociali Roberta Gaeta.
Nell’occasione ho voluto sottolineare che il comitato ha tanto lottato perché ritiene che questo centro diurno sia – come in effetti ora è – un atto politico. È il comune di Napoli che dà una risposta a un grosso problema. Non è un atto di carità. Spesso con i senza fissa dimora si va avanti con la carità, ma non è giusto. La politica, se vuole essere politica, deve considerare innanzitutto gli ultimi. Ed è bello che il comune abbia compiuto un altro passo in questa direzione.
Realizzato dall’architetto Ferdinando Fuga, è il maggiore palazzo monumentale di Napoli e una delle più grandi costruzioni settecentesche d’Europa. L’opera è rimasta incompiuta per cui gli attuali 103.000 mq di superficie utile rappresentano solo un quinto del progetto originale. L’intento era di accogliere coloro che, anche se abili a lavoro, non avevano una casa né un lavoro stabile. Nonostante i buoni propositi, l’istituzione caritatevole era funzionale al bisogno di sicurezza urbana e divenne un vero e proprio carcere. Non a caso il popolo napoletano lo ha etichettato come “serraglio”, intendendo un luogo dal quale non è possibile uscire.
la Nuova Venezia. Prosegue infaticabile la campagna di conquista del consenso della banda CVN. Per un'opera criminale per la distruzione della Laguna, continuano a spendere i nostri soldi per tentar di coprire il delitto. (e.s.) Con riferimenti
Un nuovo faro. Passeggiate e aree verdi, ormeggi. Un muro «paraonde» costruito con i massi della diga demolita. Alcuni degli interventi di compensazione paesaggistica previsti per il progetto Mose nell'area della bocca di porto di Chioggia. Un lavoro affidato a Iuav nel lontano 2004 - ma limitato agli aspetti architettonici - adesso ripreso. E per la prima volta presentato ieri nella sala convegni di Thetis nell'ambito del «confronto pubblico» previsto dalla nuova legge sugli appalti. Un confronto che prima non c'era mai stato. E che adesso comincia un nuovo percorso, almeno sulle opere di compensazione.
Riferimenti
Si vedano in proposito i numerosi articoli su eddyburg digitando sul "cerca" la parola Mose, e soprattutto si leggano gli articoli La mostra della vergogna e l'Eddytoriale n. 174, interamente dedicati alla denuncia del patto criminale di cui il Mose è uno dei prodotti (e.s.)
la Nuova Venezia, 26 maggio 2018. La città devastata dal turismo sregolato di massa, legittimo erede della peste del 1630, con ampio commento (e.s.)
Chi riuscisse a vedere Venezia dall'alto e da lontano vedrebbe i governanti, e gli stessi cittadini che li eleggono, affetti da una straordinaria forma di schizofrenia. Da una parte, i sacrosanti lamenti perché i prezzi della vita quotidiana sono più alti che altrove, non si trova un alloggio in affitto a un prezzo decente, nelle botteghe e nei negozi la chincaglieria "made in Cina" caccia i prodotti dell'artigianato e dell'agricoltura locali, gli ingombranti mezzi di trasporto carichi di turisti che scorrazzano nella Laguna e nei canali interni, provocando la lebbra del "moto ondoso" che, dopo aver esiliato agli estremi margini della Laguna la ricca vegetazione autoctona, erodono oggi le fondamenta e i muri minacciandone, e a volte provocandone, il crollo.
Ma dall'altra parte si adoperano attivamente (gli uomini del governo e quelli della governance) , oppure supinamente sopportano, che la città e la sua Laguna vengono distrutti dalla nuova peste: Quello che, d'après Luigi Scano, definiamo "turismo sregolato di massa" (si veda in proposito di Luigi Scano Turismo insostenibile)
L'icona che accompagna il titolo rappresenta la maschera a becco che rinvia alla tenuta dei medici che curavano la peste nera del 1630: il becco, da cio si prendeva l'aria per respirare, era imbottito di garze imbevute di disinfettanti. Diventarono una maschera carnevalesca. Molto a Venezia si risolve ancora così, in una carnevalata: c'è chi muore, chi fugge, chi rimane e rischia, e chi - come i medici di allora -si arricchisce. A questo proposito, informiamo il lettore non veneziano che l'area dei Pili, sulla quale si vorrebbe realizzare uno stadio con annessi servizi per la ricettività, è proprietà dell'attuale sindaco.
Seguono due notizie di Mitia Chiarin, riprese da la Nuova Venezia del 26 maggio 2018 sugli ulteriori progetti per l'incremento della peste (e.s.)
«MARCO POLO
«Prima pietra dell'ampliamento del terminal passeggeri extra Schengen
Marchi: «Entro il 2030 ci allargheremo fino a 180 mila metri quadri»
«NELLA BRETELLA PER LO SCALO PREVISTA LA FERMATA STADIO»
«La conferma del sindaco Brugnaro. «Stiamo lavorando anche per il Baracca e il tennis. I Pili? Non sono aggiornato»
Mestre. «Queste opere camminano sulle gambe delle persone che lavorano. Questi risultati sono la dimostrazione che con il coraggio, la tecnica, l'ingegno, l'impegno e l'umiltà si possono ottenere grandi traguardi. Sul tema dell'infrastruttura ferroviaria, insieme alla Regione, stiamo facendo un lavoro ottimo. Nella bretella che arriverà all'aeroporto è prevista una fermata dell'Sfmr, la fermata "stadio"». Lo ha ribadito ieri alla cerimonia al Marco Polo il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Che per natura di imprenditore, oggi sindaco, è particolarmente attento alla voce investimenti privati. Come quelli della Save dell'amico Marchi.Fermata "stadio", per la nuova bretella ferroviaria che si staccherà dalla linea Venezia-Trieste per portare, si spera dal 2025, i viaggiatori al Marco Polo, significa portare avanti il progetto del Quadrante di Tessera con la realizzazione, nei terreni d'oro, tra tangenziale e aeroporto, dello stadio tanto agognato dai tifosi del Venezia di Inzaghi e Tacopina.
Interessi economici e politica di breve respiro trionfano su cinquant'anni di impegno per coordinare le scelte sull'area metropolitana di Firenze. Amare considerazioni di un sindaco che si è opposto al declino e all'arroganza dei tempi. (m.b.)
Potrebbe concludersi nell’indifferenza generale del mondo politico, sociale ed ambientale la lunghissima battaglia per lo sviluppo a Nord Ovest di Firenze.
L'area fu interessata prima da un grande confronto urbanistico e d’idee tra i redattori del Piano Regolatore Fiorentino e le amministrazioni fiorentine dei primi anni ottanta e poi da un gigantesco scontro politico che vide scendere in campo urbanisti, movimenti, politici, giovani per affermare il diritto ad una pianificazione trasparente della più grande area libera rimasta a Firenze.
L’idea originaria delle giunte di pentapartito era un'espansione di 186 ettari con 3 milioni di mc edificati per l’area Fondiaria a Castello, proprietà della compagnia di assicurazioni fiorentina in mano a Raul Gardini, e l'area Fiat a Novoli con un'espansione prevista di 32 ettari con 1,1 milioni di mc. Mi ricordo all'epoca si parlava di metri cubi superiori a quelli della Piramide di Cheope.
Quell'idea di sviluppo fu contrastata, tra gli altri, da Giovanni Astengo, che considerava raggiunta la massima espansione del comune di Firenze "compatibile con l'invaso geografico del sito" e che fosse "quasi impossibile un'ulteriore crescita nella parte piana poiché l'espansione urbana ad occidente aveva quasi raggiunto i confini comunali ed era indispensabile salvaguardare una cornice ambientale" divenne oggetto di dibattito e scontro in città e tra le forze politiche.
Il Pci, che, tornato al potere con la Giunta Bogiankino, aveva sostanzialmente condiviso l'ipotesi di variante a Nord Ovest, si trovò di fronte all'opposizione netta della sua componente giovanile che ostacolava la cementificazione, la speculazione privata e l'espansione dell'aeroporto (sic!) la quale, sottovalutata, riusciva a ottenere il consenso dela maggioranza nel Congresso Provinciale del marzo 1989 (c'ero anch'io e votai l'ordine del giorno Giovacchini per bloccare la variante) aprendo una crisi politica formidabile a sinistra. La decisione portò rapidamente al dissolvimento dell'esperienza amministrativa e del gruppo dirigente del Pci fiorentino in anticipo rispetto alla "svolta" della Bolognina ma non riuscì a consolidare una nuova classe dirigente in rottura netta con il passato. Molti, come me, erano convinti che Firenze, e non da sola, avesse bisogno di un grande e trasparente dibattito culturale sulla propria vocazione nei decenni futuri e, piuttosto che norme e varianti ad hoc, di forti idee generali.
Da allora intorno alle aree Fiat e Fondiaria si sono intrecciati interessi e iniziative prive della necessaria pianificazione e di una visione strategica dello sviluppo toscano e dell'Area Metropolitana Fiorentina per decidere di produzione, di quali servizi, di quali funzioni pubbliche, di quali trasporti essa avesse bisogno.
Quanto fu in seguito realizzato (sia nell'area ex-Fiat di Novoli sia in quella di Castello) e le ulteriori previsioni di espansione abitativa, direzionale, commerciale e di servizi pubblici, non trovi né grandi idee, né quel necessario coinvolgimento che lo Schema Strutturale della Regione Toscana per l'Area Metropolitana Firenze-Prato-Pistoia (1) aveva auspicato sul fronte della viabilità, dell'infrastrutturazione del territorio, dell'allocazione di funzioni pregiate pubbliche e private per raggiungere una co-pianificazione sulle grandi linee di sviluppo. Esemplare l'iter negativo del Progetto Direttore del Parco della Piana (2), mai partito e sistematicamente disatteso da tutte le scelte conseguenti, dai grandi insediamenti commerciali, alla pianificazione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti, al mancato completamento del Polo Scientifico Universitario, al declassamento del cd "Asse attrezzato Firenze-Prato" allo stupro della nuova pista di Peretola (3) e così via.
La polarizzazione ä avvenuta prima intorno al Termovalorizzatore di Case Passerini e, una volta che questo non ha suscitato i necessari interessi privati, sul nuovo Aeroporto di Peretola. Lo schema fiorentino ä restato sempre lo stesso: centralità dell'interesse privato, retrocessione del coinvolgimento pubblico, modesta pianificazione economica ed urbanistica, stravolgimento della vocazione del territorio della Toscana centrale "a tavolino". Le modeste ambizioni di una classe dirigente, legata al Pd, priva di visione strategica ha barattato un consenso "ora e subito" con un mondo dell'impresa di scarso peso nazionale ed internazionale per dirigere su un'infrastruttura privata e quotata in borsa un numero di risorse mai visto nella nostra Regione. Di contro: Alta Velocità in alto mare, Mezzana Perfetti Ricasoli ferma, terza corsia autostradale al palo, collegamento Firenze-Prato fermo, realizzazione del polmone verde e del segno paesaggistico pensato per decenni come marchio per l'area tra Firenze e Prato cancellata, Arno ancora da mettere in sicurezza, Polo Scientifico Universitario incompleto. La "firenzina" dei bottegai non c'ä più ma, anche se ha lasciato il passo ai format delle grandi firme uguali in tutto il mondo, determina con un presentismo esasperato il blocco delle idee e delle visioni più moderne.
Dulcis in fundo si ä aggiunto il nuovo Stadio della Fiorentina. Disdegnata la possibilità di realizzarlo in una grande area dismessa e a destinazione commerciale alle porte di Firenze a causa della "maledizione del 50019" (il codice di Sesto Fiorentino) la nuova amministrazione fiorentina si ä ingegnata per cacciarlo all'interno di un centro urbano già congestionato attraverso una difficile e costosa riallocazione dei Mercati Generali escludendo (come per il Polo espositivo) il coinvolgimento dell'area metropolitana ristretta o allargata che sia, rafforzando la scelta della concentrazione solitaria di funzioni a saturazione del territorio libero di Firenze alla faccia del ruolo di Sindaco metropolitano, ex lege, del Sindaco di Firenze.
Nonostante le vicende giudiziarie, poi sfociate in una bolla di sapone, legate allo sviluppo del Pue di Castello il passaggio nel 2013 de "La Fondiaria Sai", già fuggita da Firenze con la gestione Ligresti, nelle mani di Unipol sembrava poter riaprire un ragionamento su di una diversa pianificazione di quel grande spazio ancora libero.
Purtroppo, UnipolSai ha preferito abbandonare Firenze vendendo alla società dell'Aeroporto e monetizzando una storia economica legata al ruolo storico di Fondiaria in città. Meglio pochi e subito che un contenzioso con il comune sull'esproprio, con il risultato di ridurre il contraddittorio ad un solo affare di denaro e di potere politico.
Un epilogo amaro dopo 50 anni di discussione sullo sviluppo a Nord-Ovest. La triste storia potrebbe finire, con la realizzazione di tutto ciò per il quale molti, come il sottoscritto, si sono battuti, nel vuoto che attraversa la politica e la cultura dell'area fiorentina e toscana.
Anche se i recenti risultati politici dovrebbero almeno far riflettere sul perché la torsione neoliberista del Pd toscano non abbia trovato il richiesto consenso popolare e come sia urgente un forte ripensamento rispetto al campo sociale dove collocare ex novo la sinistra nella nostra regione. Purtroppo, se si esclude qualche sindaco isolato e una minoranza di persone e gruppi, né partiti, né giovani, né urbanisti, né ambientalisti, né sindacati si sono riappropriati del concetto di sviluppo compatibile e del suo limite, della qualità dello stesso e della vocazione per la Firenze del terzo millennio.
Gianni Gianassi
Sindaco di Sesto Fiorentino dal 2004 al 2014.
Note.
(1) Lo schema strutturale ä uno strumento di coordinamento di area vasta, promosso dalla Regione Toscana negli anni ottanta, redatto sotto il coordinamento di Giovanni Astengo, e approvato nel 1990.
(2) Il "progetto direttore", previsto dallo Schema strutturale, consiste in una proposta di assetto del parco della piana, con l'indicazione delle condizioni per la fattibilità degli interventi e la gestione delle funzioni e delle attrezzature, dei requisiti ed dei riferimenti necessari per la progettazione architettonica e per la progressiva costruzione dei grandi spazi aperti.
(3) La nuova pista aeroportuale di Peretola, collocata a fianco dell'autostrada, con le sue strutture, la nuova viabilità, le opere di regimazione idraulica e le infrastrutture di contorno, oblitera l'intero parco della piana di Sesto, esteso su cinquecento di ettari.
Riferimenti.
Su eddyburg, tra gli altri, si vedano gli articoli di Paolo Baldeschi e Ilaria Agostini che raccontano gli aspetti salienti dell'oscura storia della nuova pista aeroportuale, con i suoi intrecci economici e di potere, le sue ricadute nefaste sul territorio e il metodo con il quale viene imposta attraverso forzature degli strumenti di piano, delle valutazioni ambientali e nella sostanziale indifferenza verso tutte le osservazioni pervenute.
Altreconomia, 1 marzo 2018. Altri modelli di turismo e di economia sono possibili: vengono dal basso, ambiscono a creare nuove relazioni, sono sostenuti dal rispetto per il territorio dove si vive e si ha voglia di cambiare (i.b.)
A Cerreto Alpi, un paesino in provincia di Reggio Emilia, non nascevano bambini da almeno sei anni. Una sessantina gli abitanti registrati all’anagrafe, la maggior parte anziani e le loro badanti. Alle spalle una storia di oltre mille anni (Cerreto viene nominato in un documento datato 835 ed è uno dei territori comunali più ricchi di storia dell’intero Appennino emiliano) e davanti a sé un futuro incerto.
Un piccolo paese che come tanti rischiava di scomparire, svuotato. Fino a quando un gruppo di ragazzi, poco più che ventenni, hanno deciso di riscrivere questo destino. “L’ultimo bar aveva chiuso nel 1995 -ricorda Erika Farina-. Eravamo un gruppo di amici nati e cresciuti a Cerreto, ci univa l’amore per questo paese e per il territorio. Non volevamo trasferirci in città”. Così nel 2003, con una piccola quota di 100 euro a testa, hanno fondato la cooperativa di comunità “Briganti del Cerreto” che oggi conta dieci dipendenti, di cui sette a tempo indeterminato. Le risorse vengono dal turismo (circa 1.500 pernottamenti in antiche strutture recuperate), eventi (tra cui il “Campionato mondiale del fungo” che attrae visitatori anche dal Giappone) e attività di forestazione e cura dei boschi. “L’obiettivo era fermare lo spopolamento di Cerreto. Credo che siamo riusciti ad arginare il fenomeno: alcuni sono tornati, sono nati dei bambini. D’estate il paese esplode: tanti che avevano qui delle seconde case le hanno ristrutturate”, dice Erika.
Esperienze come quella di Cerreto possono essere un modello positivo per altri territori che si trovano nella stessa situazione. Valli montane lontane dal turismo di massa, territori distanti dalle grandi città e dalla costa. Aree fragili dove la mancanza di servizi e di lavoro ha spinto nel tempo sempre più persone a partire, per trovare impiego e migliori opportunità nelle città.
Ma questi modelli non possono essere calati dall’alto: ricopiare uno statuto e mettere a disposizione dei fondi non basta. “Nel deserto non si semina. Servono una buona comunità, una minoranza visionaria, folle e sognatrice che sappia riconoscere le potenzialità di un luogo. Oltre a un contesto istituzionale favorevole che accompagni il percorso”, spiega Giovanni Teneggi, responsabile del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative.
Ingredienti che si trovano anche a Dossena, 921 abitanti in provincia di Bergamo, un’area nota fin dall’antichità e sfruttata dal 1800 per l’estrazione di minerali ferrosi. Proprio attorno alle miniere ormai abbandonate, si è sviluppato il progetto di rilancio del paese portato avanti da un gruppo di ragazzi. Un percorso avviato nel 2014, con i primi interventi di pulizia delle miniere abbandonate e che ha portato, l’anno successivo, alla fondazione dell’associazione “Miniere di Dossena”. “Nel 2017 abbiamo portato a Dossena circa 2.800 visitatori con le visite guidate”, spiega Paolo Alcaini che, con i suoi 32 anni, è uno dei volontari più anziani.
Ma i giovani di Dossena non si sono fermati qui e nel 2016 hanno dato vita a una cooperativa di comunità (“I raìs”, le radici). “Facciamo manutenzione del verde, pulizia degli spazi comunali, consegna pasti a domicilio -racconta Paolo-. E abbiamo attivato un bar negli spazi di un albergo abbandonato da una decina d’anni. Complessivamente diamo lavoro a cinque persone”. Negozi di comunità, attivazione di servizi di base per i residenti, promozione del turismo sostenibile sono alcuni degli ingredienti del progetto “AttivAree” promosso da Fondazione Cariplo per “riattivare le aree marginali di riferimento della Fondazione” in Lombardia e nel Verbano-Cusio-Ossola. Dieci milioni di euro messi a disposizione dal 2016 al 2018 per contenere lo spopolamento delle aree interne dell’Oltrepò Pavese (con il progetto “Oltrepò biodiverso”), della Val Trompia e della Val Sabbia (“Valli resilienti”), creare una rinnovata identità locale, offrire servizi alla popolazione e promuovere il turismo sostenibile. “La Val Trompia e la Valle Sabbia hanno una vocazione industriale e agricola nel fondovalle, al confine con Brescia”, spiega Giulia Corsini, responsabile della cooperativa “Andropolis” e coordinatrice dei “Negozi di vicinato” del progetto “Valli resilienti” in 25 Comuni della zona. Per contrastare lo spopolamento, si è deciso di investire sulle botteghe “che nei borghi di montagna spesso sono l’unico punto d’incontro comunitario -spiega Corsini-. Da qui l’esigenza di offrire una pluralità di servizi all’interno di un singolo spazio”. La bottega di Livemmo a Pertica Alta e la formaggeria Trevalli a San Colombano di Colio sono i primi due negozi dove si sperimenterà il progetto. Oltre alla rivendita di prodotti alimentari e di consumo, saranno offerti diversi servizi come il ritiro delle ricette mediche e dei farmaci o il disbrigo di piccole commissioni. Il tutto attraverso un’app.
E non c’è paese che si rispetti senza un bar. Ma a Lavenone (BS), l’ultimo aveva chiuso i battenti nel 2016. A prendere il suo posto è stato il bar “Co.Ge.S.S.” (gestito dall’omonima cooperativa sociale), dove lavorano persone con disabilità: “Siamo diventati l’unico punto di aggregazione per la comunità, poco più di 500 abitanti. E siamo parte del tessuto sociale: tanti cittadini del paese si sono attivati per aiutare i nostri ragazzi”, spiega Alessandra Bruscolini, referente della cooperativa, che dopo il bar ha avviato anche la gestione dell’ostello di Lavenone.
La biodiversità, invece, è al centro del progetto promosso da Fondazione Cariplo nelle aree interne dell’Oltrepò Pavese, che coinvolge 19 enti no profit e altrettanti Comuni. Sono previste diverse azioni: dal recupero delle terre abbandonate alla tutela di coltivazioni pregiate, dall’incremento della qualità dei pascoli all’allevamento dell’unica razza bovina autoctona della Lombardia.
“Invertire la tendenza non sarà facile, c’è un po’ di rabbia per questo. Ma ci sono anche la passione e la determinazione a non mollare”. Gianni Andrini è il sindaco di Valverde (PV), uno dei Comuni coinvolti nel progetto dell’Oltrepò dove -grazie al contributo di Fondazione Cariplo- è stato possibile aprire il “Sentiero delle farfalle”, in un’area dove se ne contano oltre 60 specie. “La nostra è una bella zona, ricca di biodiversità. L’obiettivo è attirare il turismo proponendo escursioni e attività di butterfly watching -spiega il sindaco-. Ma il turismo si può fare solo tenendo la gente sul territorio ed evitando la fuga dei contadini che presidiano la montagna. E offrendo servizi”.
Uno di quelli proposti è il maggiordomo rurale. Un factotum che si mette a disposizione degli abitanti per una serie di azioni quotidiane: andare a fare la spesa, prenotare visite in ospedale, consegnare medicinali o recuperare i bambini al doposcuola. “Abbiamo pensato a questa figura e a questo tipo di servizio da un questionario agli abitanti -spiega Valeria Colombi-. Avevamo notato l’esigenza della popolazione di avere servizi integrativi rispetto alla città. In corso d’opera abbiamo aggiunto altri servizi, come l’aiuto agli anziani a spalare la neve, riordinare la legnaia e sistemare l’orto. Azioni semplici, ma molto utili in un territorio dove i collegamenti sono difficili”.
Più a sud, nel 2013 Slow Food ha convocato gli “Stati generali delle comunità dell’Appennino”. Agricoltori, allevatori, artigiani e rappresentanti di consorzi che, l’anno successivo, si sono dati un manifesto con obiettivi chiari: lanciare una nuova stagione di rinascita sociale, economica e di riconquista del tessuto culturale e delle tradizioni dell’Appennino. “Oltreterra – Nuova economia per la montagna” è il progetto di Slow Food Emilia Romagna che promuove, tra l’altro, un servizio per portare il cibo delle piccole aziende agricole locali nelle mense scolastiche dei Comuni del Parco delle Foreste Casentinesi. “L’economia della montagna può ripartire solo dalle sue origini e per farlo serve una gestione consapevole del patrimonio boschivo, anche da un punto di vista economico”, spiega Gabriele Locatelli di Slow Food Emilia Romagna. E all’indomani del terremoto del 2016, Slow Food ha lanciato un progetto per tutelare quelle aree già fragili e colpite dal sisma: “La filiera agroalimentare di qualità è sostenuta dal turismo. Ma il sisma ha portato un calo del 30% delle presenze”, spiega Ugo Pazzi, presidente di Slow Food Marche. È stato quindi fatto un percorso per dare vita a una cooperativa di comunità ed è stato avviato il progetto “La buona strada”, che prevede l’acquisto e l’allestimento di furgoncini che d’estate porteranno le eccellenze alimentari delle Marche verso le località turistiche della costa. Inoltre è stato creato il “Mercato della terra” di Comunanza (AP), per dare una volta al mese una nuova opportunità di vendita ai produttori locali. “È una dichiarazione d’amore per il nostro territorio. Un modo per dire che lottiamo per rimanere”, conclude Pazzi.
il manifesto, 16 maggio 2018. Un riepilogo delle battaglie contro la devastazione del territorio che M5S aveva ingaggiato per difendere la salute e il benessere degli abitanti e che adesso tradisce per un po' di poltrone. Di Maio peggio di Renzi e Berlusconi?
Grandi opere. Dalla Tav in Val Susa al Mose di Venezia, dal Terzo valico ligure fino al Tap pugliese«Dimostriamo che le grandi opere si possono realizzare». Con queste parole Virginia Raggi sabato scorso ha tagliato il nastro della stazione San Giovanni della Linea C della metropolitana di Roma.
La sindaca ha annunciato il cambio di rotta dell’amministrazione capitolina targata Movimento 5 Stelle su quella che viene considerata la grande opera più corrotta della storia della repubblica. Quando era all’opposizione il M5S chiedeva che le talpe sotterranee fermassero i motori. Adesso si apprende che la linea della metropolitana proseguirà come da progetto iniziale fino al lato nordovest della città. Il presidente della commissione mobilità Enrico Stefàno, che solo qualche anno fa aveva firmato la mozione per bloccare i lavori, ha detto di aver «cambiato idea» in seguito ad «approfondimenti e studi». Del resto, i 5 Stelle romani hanno «cambiato idea» anche a proposito della grande opera chiamata eufemisticamente «Stadio della Roma». L’impianto sostenuto dalla giunta sarà accompagnato da una colata di cemento che delinea l’operazione cementi stico-finanziaria che l’ex assessore Paolo Berdini definisce «la più grande speculazione edilizia della storia recente».
Nelle ore in cui gli sherpa grillini erano seduti al tavolo con quelli leghisti per scrivere nero su bianco l’ormai celeberrimo «contratto di governo», Luigi Di Maio ha rilanciato su Facebook le parole di Raggi che sdoganano la grande opera. L’accordo sta incagliandosi proprio sul tema del consumo di territorio, dei cantieri a grande impatto e della difesa dell’ambiente. Ci sono differenze strategiche difficili da superare. Il capitolo in questione è uno di quelli che gli addetti alla trattativa definiscono come «segnati in rosso» perché ancora insoluti. Nodi che si spera di sciogliere alle ultime battute, ancora non si sa bene come. Se ne dovrebbe discutere da questa mattina. A cominciare dalla Tav, che è uno dei temi paradigmatici del M5S: laddove il territorio veniva minacciato da opere considerate dannose e inutili dai cittadini, con la sinistra di governo incapace di mettere in discussione il modello di sviluppo, i pentastellati hanno cominciato a mettere radici.
Beppe Grillo in persona ha sempre sostenuto la lotta dei valsusini contro la linea ad alta velocità, si è preso anche una condanna a 4 mesi per la violazione dei sigilli del cantiere di Chiomonte. Dopo anni, il rapporto tra M5S e No Tav è ancora stretto, anche se i comitati hanno sempre mantenuto la loro autonomia. Non gradendo, ad esempio, la scelta dei 5 Stelle di presentare in Valle liste alle elezioni amministrative, violando di fatto l’accordo non scritto che punta a non dividere le liste No Tav allo scopo di conquistare più sindaci possibili. La sindaca Chiara Appendino ha ritirato l’adesione della città che amministra dall’Osservatorio sulla linea Torino-Lione. Più di recente il M5S, però, ha cambiato idea sul grande evento (con corollario di grandi opere) delle Olimpiadi invernali torinesi. I No Tav, che nel 2006 a Susa bloccarono il passaggio della fiaccola olimpica, non hanno gradito l’inversione di marcia.
Dai comitati contro la Gronda di Ponente, la nuova autostrada che si dipana da Genova, e il Terzo Valico ferroviario, nacque lo zoccolo duro del grillismo ligure. Molti di quegli attivisti storici hanno abbandonato un M5S genovese falcidiato da epurazioni e rotture, ma quelle battaglie sono nel Dna pentastellato. Il fatto che questa come altre opere (come la Valtrompia e la Pedemontana in Lombardia o l’autostrada Tirreno-Brennero) siano cavalli di battaglia delle amministrazioni regionali a trazione leghista del nord rende complicata la mediazione.
Edoardo Rixi è il leghista che è stato assessore alle attività produttive in Regione Liguria e che sta tentando di convincere i potenziali alleati. Operazione impervia: Di Maio nel corso della campagna elettorale è venuto a nordovest per dire che «il Terzo Valico va messo da parte» e per prendere l’impegno di definanziare la Gronda autostradale.
In Veneto, a dividere leghisti e grillini c’è il Mose, il sistema costoso e di dubbia efficacia che dovrebbe arginare l’acqua alta a Venezia che il M5S, assieme ai comitati che da anni vi si oppongono, definisce un «modello di illegalità diffusa».
Più a sud c’è un altro cantiere circondato da filo spinato e assediato da manifestanti: si trova a Melendugno, nel leccese. Serve a costruire il Tap, gasdotto che dovrebbe collegare il Mar Caspio all’Italia. Le denunce del M5S hanno portato al sequestro dell’area per violazione della procedura di Valutazione d’impatto ambientale. Salvini prima delle elezioni aveva l’obiettivo di sfondare la linea gotica e radicarsi al sud, quindi da queste parti si è mostrato più dialogante. Disse qualche mese fa: «Bisogna ascoltare le popolazioni e trovare soluzioni alternative»
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
la Nuova Venezia, 16 maggio 2018. Venezia è una città abituata ai carnevali e alle maschere. Il Mose è carnevale per i molti che ci mangiano e quaresima per i contribuenti che pagano; all'Arsenale, sono in mostra le maschere
Venezia. Il Mose c'è, adesso bisogna farlo funzionare. E «mitigare» il suo impatto sull'ambiente alle bocche di porto. Opere di compensazione paesaggistica volute dalla legge e dalle norme europee. Mai realizzate o realizzate soltanto in parte, con i progetti per l'inserimento architettonico affidati all'Iuav a partire dal 2005, per un costo di un milione di euro. Da allora è passata un'era geologica. Il Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati non esiste più. È arrivato lo scandalo Mose con gli arresti e la scoperta delle tangenti e degli sprechi. Sono arrivati commissari straordinari nominati dal presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Che provano a cambiare rotta.
Vedi su Eddyburg MOSE in maschera
Micromega, 18 maggio 2018. Lettura comparata dei contributi di due protagonisti di studi urbani, Henry Levebvre e David Harvey, che meglio di altri hanno aiutato a comprendere la condizione urbana, le sofferenze e le speranze che in essa si esprimono
L’utile rilettura dei testi fondamentali di due apostoli del “diritto alla città", Henry Lefebvre e David Harvey effettuata da Giorgio Pagano aiuta a comprendere il significato attuale di quell’antica rivendicazione. Per realizzarla oggi è necessario ribadire la centralità dello spazio pubblico e individuare il soggetto collettivo capace di trasformare la città da “prodotto” cui l’ha ridotta il capitalismo, in “opera" nella quale l’umanità possa riconoscere se stessa e il proprio futuro (e.s)
La città come ultima difesa e ultima speranza
di Giorgio Pagano
Henry Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014 (ed. or.“Le droit à la ville”, editions Anthropos. Parigi, 1968)
David Harvey, Città ribelli, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. “Rebel cities”, Verso Books the imprint of The New Left Brooks 2012)
Il libro di Henry Lefebvre Il diritto alla città indicava, cinquant’anni fa, le componenti essenziali di una vita urbana diversa e alternativa: il diritto per tutti di appropriarsi della città, di usarla senza esclusioni né preclusioni, di avere incontri, occasioni, avventure; e il diritto di tutti all’autogestione e alla partecipazione alle decisioni sulle trasformazioni e sul governo della città. Lo slogan di Lefebvre ebbe notevole fortuna negli anni immediatamente successivi (il ’68, più o meno “lungo” nei vari Paesi), per poi declinare nel corso degli anni Settanta e definitivamente negli anni Ottanta. Dopo una lunga eclissi, il pensiero di Lefebvre è stato reinterpretato da David Harvey, che nel suo libro Città ribelli (2012) scrive:
«Il diritto alla città… è molto più che un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse: è il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Inoltre, è un diritto più collettivo che individuale, dal momento che ricostruire la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un potere comune sui processi di urbanizzazione». (1)
La lettura dei due testi ci stimola all’analisi di quanto sta accadendo nei movimenti sociali urbani e ci fa capire meglio sintomi e ragioni, negli anni della globalizzazione neoliberista, sia della rinascita dello slogan sul “diritto alla città” sia della frammentazione e della volatilità dei movimenti della protesta democratica e antiliberista. Tema decisivo se, come noi pensiamo, la città è l’ultima difesa e l’ultima speranza.
1. "Il diritto alla città" di Henry Lefevre
Henry Lefebvre (1901-1991), francese, è stato un filosofo e sociologo dell’urbano, la cui elaborazione ha attraversato tutto il dibattito culturale del Novecento. Sulla scia di Karl Marx e Friedrich Engels ha sempre cercato di unire “teoria” e “prassi”. Questa prospettiva consente a Lefebvre di arrivare a una teoria generale della politica passando per la questione urbana e “spaziale” e per la vita quotidiana: la città e lo spazio urbano sono il suo punto di osservazione e di partenza per aggiornare l’analisi marxista della società contemporanea.
Nell’ambito del pensiero marxista, Lefebvre è il primo a occuparsi della questione urbana. Lo fa in numerosi testi, tra i quali il più significativo è probabilmente Il diritto alla città (1968), preceduto dal volume sulla Comune di Parigi (1965) e seguito da La rivoluzione urbana (1970), Dal rurale all’urbano (1970), Spazio e politica (1972), conosciuto anche come il secondo volume di il diritto alla città, Il marxismo e la città (1972) e La produzione dello spazio (1974).
In Il diritto alla città Lefebvre sostiene che il capitalismo industriale ha costruito un progetto unitario per la città e ha migliorato le condizioni igieniche di alcuni quartieri, ma ha fatto perdere alla città tradizionale il suo senso generale, devastandola e portandola all’”implosione-esplosione”. L’avvio del processo di industrializzazione, con il suo orientamento verso il denaro, ha generato un’urbanizzazione che ha subordinato il valore d’uso a quello di scambio e ha rotto l’equilibrio tra l’”opera” e il “prodotto” sottomettendo completamente la prima al secondo.
Leggiamo l’autore:
«L’industria può fare a meno della città antica (preindustriale, precapitalista) ma solo a patto di costruire agglomerati nei quali il carattere urbano si deteriora… laddove continua a esistere una rete di antiche città, l’industria va al suo assalto, se ne impadronisce, riorganizzandola secondo i propri bisogni; essa aggredisce anche la città (ciascuna città), la prende d’assalto, la conquista, la saccheggia. E, impadronendosene, tende a spezzarne i nuclei antichi. Il che non impedisce l’estensione del fenomeno urbano, città e agglomerati, città operaie, sobborghi». (2)
Con l’industrializzazione-urbanizzazione emerge la “crisi della città”, che perde la sua identità e il suo significato. Viene in piena luce la contraddizione tra il valore d’uso (la città e la vita urbana, il tempo urbano, l’opera umana) e il valore di scambio (la mera merce, gli spazi acquistati e venduti, il consumo dei prodotti, dei beni, dei luoghi e dei segni, il prodotto umano). In opposizione alla città capitalista organizzata in base allo scambio, che esclude alla radice i cittadini da ogni processo decisionale, Lefebvre esalta il valore sociale della città, la possibilità di usare lo spazio in maniera libera e condivisa, all’insegna dell’autogestione, dell’incontro e della festa:
«La città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio e la generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distruggere, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d’uso, germogli di una virtuale predominanza e di una rivalutazione dell’uso». (3)
Per Lefebvre la natura dello spazio urbano ruota non solo attorno al rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, ma anche a quello -del tutto connesso- tra “opera” e “prodotto”. L’”opera” è unica e insostituibile, creata da un processo che implica lavoro ma anche arte e creatività; il “prodotto” è invece ripetibile e serializzato, frutto di un processo in cui domina il lavoro. «La città -scrive l’autore- è opera, più simile a quella artistica che al semplice prodotto materiale» (4), è frutto della capacità creativa diffusa nella comunità e della pratica sociale. Contro la città “opera” si è sviluppata la città “prodotto”, standardizzata e serializzata, in cui l’uomo non ha possibilità di incidere.
Il diritto alla città è quindi «diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata» (5), diritto di uso, cioè alla fruizione, e diritto di “opera”, cioè all’attività partecipante, diritto di godere di uno spazio che può essere modificato dall’uomo. Leggiamo l’autore:
«In condizioni difficili, all’interno di una società che non potendo opporsi a essi in maniera esplicita ne ostacola il cammino, si fanno strada diritti che definiscono la civiltà (nella, ma spesso contro la società - per mezzo, ma spesso contro la ‘cultura’). Prima di entrare in un codice formalizzato questi diritti non riconosciuti diventano a poco a poco consuetudinari. Potrebbero cambiare la realtà se diventassero una pratica sociale: diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, all’abitazione, al tempo libero, alla vita. Tra questi diritti in formazione vi è anche il diritto alla città (non alla città antica, ma alla vita urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi d’incontro e di scambio, ai ritmi di vita e ai modi di utilizzare il tempo che consentano un uso pieno e completo di momenti, luoghi, ecc.). La proclamazione e la realizzazione della vita urbana come regno dell’uso (dello scambio e dell’incontro liberati dal valore di scambio) richiedono il pieno controllo della sfera dell’economico (del valore di scambio, del mercato e della merce) e dunque si inscrivono nelle prospettive della rivoluzione sotto l’egemonia della classe operaia». (6)
Il diritto alla città affonda le radici nella riflessione di Lefebvre sul tema della festa, intesa come una sorta di diritto a una vita quotidiana non alienata:
«I vari elementi di un’unità superiore, i frammenti e gli aspetti della ‘cultura’, l’educativo, il formativo e l’informativo si possono unire. Da dove trarre il principio di tale unione e il suo contenuto? Dal ludico. Il termine va qui inteso nella sua accezione più ampia e nel senso più ‘profondo’. Lo sport è ludico, il teatro è ludico, in modo più attivo e coinvolgente del cinema. I giochi dei bambini, ma anche degli adolescenti, non vanno sottovalutati. Le fiere e i giochi collettivi di tutti i tipi persistono negli interstizi della società di consumo governata, nei buchi della società seria, che si vuole strutturata e sistematica, che pretende di essere tecnologica. Quanto agli antichi luoghi di riunione, essi hanno in gran parte perduto il loro senso, come ad esempio la festa, che muore o si allontana. Il fatto che essi ritrovino un senso non impedisce la creazione di luoghi consoni alla festa rinnovata, legata essenzialmente all’invenzione ludica». (7)
Nella “centralità ludica” il “serio” è subordinato al gioco, non viceversa. In questo modo, sostiene Lefebvre, gli elementi “culturali” vengono recuperati restituendoli alla loro verità.
La proposta di Lefebvre è quindi innovativa rispetto alla concezione welfarista in voga negli anni in cui scriveva. Altrettanto innovativa è la sua intuizione di considerare come soggetto della rivoluzione non solo la classe operaia ma anche tutti i lavoratori precari e gli abitanti -immigrati compresi- delle periferie, che patiscono la segregazione sociale dei sobborghi: la più generale “classe urbana”. Questa intuizione è del resto coerente con le antitesi centrali nel pensiero di Lefebvre, quelle tra valore d’uso e valore di scambio e tra “opera” e “prodotto”, e con la tesi del diritto alla città come base della rivoluzione.
2. "Città ribelli" di David Harvey
David Harvey, nato nel 1935, è un geografo, sociologo e politologo inglese. Tra i suoi libri tradotti in italiano Città ribelli è il più noto. Tra i precedenti citiamo L’esperienza urbana (1998); La crisi della modernità (2002); La guerra perpetua (2006); Breve storia del neoliberismo (2007); Neoliberismo e potere di classe (2008); L’enigma del capitalismo (2011); Introduzione al Capitale. 12 lezioni al primo libro (2012); Il capitalismo contro il diritto alla città (2012) e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014). Anche il pensiero di Harvey si muove nel solco di quello di Karl Marx.
Il richiamo di Harvey a Lefebvre è esplicito fin dall’inizio, a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario:
«Lefebvre comprese molto bene, dopo il lavoro sulla Comune di Parigi pubblicato nel 1965 (e ispirato in una certa misura alle tesi situazioniste), che i movimenti rivoluzionari spesso, se non sempre, assumono una dimensione urbana. Ciò lo pose immediatamente in conflitto con il Partito comunista, che riteneva invece il proletariato di fabbrica la vera forza trainante del cambiamento rivoluzionario. Commemorando il centenario della pubblicazione del Capitale di Marx con un pamphlet sul Diritto alla citt’, Lefebvre intendeva chiaramente provocare il pensiero marxista tradizionale, che mai aveva attribuito grande rilievo alla dimensione urbana nella strategia rivoluzionaria, pur mitizzando la Comune di Parigi quale evento centrale della propria storia. Anche quando, in quel testo, Lefebvre invocava la classe operaia come agente del cambiamento rivoluzionario, in realtà lasciava intendere che la classe operaia rivoluzionaria era costituita da lavoratori urbani piuttosto che esclusivamente da operai. Si trattava, osservò più tardi, di una formazione di classe davvero diversa -frammentata e divisa, animata da finalità e bisogni molteplici, più itinerante, disorganizzata e fluida che solidamente centrata». (8)
Città ribelli inizia con una riflessione sul ruolo delle città nel capitalismo. L’urbanizzazione ha sempre avuto la funzione di reinventare modi per assorbire le eccedenze prodotte dalla continua ricerca di plusvalore, al prezzo di violenti processi di distruzione creatrice che hanno espropriato le masse di ogni possibile diritto alla città: dalla Comune di Parigi alla crisi immobiliare e finanziaria del 2007-2008.
Harvey analizza come le città non servano solo a generare surplus ma anche a disporne. L’eccedenza prodotta dalla concorrenza capitalista deve essere assorbita da qualche parte, e gli investimenti nel rinnovamento urbano e nella speculazione edilizia hanno questa funzione. Inoltre questa tipologia di investimenti permette di ottenere rendimenti sul capitale investito modulandoli nel tempo. Il capitalismo, sostiene Harvey, riproduce di continuo il surplus produttivo richiesto dall’urbanizzazione. Ma vale anche il contrario: il capitalismo necessita di processi urbani per assorbire l’eccedenza di capitale che costantemente produce. Tra lo sviluppo del capitalismo e l’urbanizzazione emerge un’intima connessione.
Harvey ne conclude che: «Se l’urbanizzazione capitalista è così profondamente radicata ed essenziale per la riproduzione del capitale, ne consegue che forme alternative di urbanizzazione devono per forza essere altrettanto essenziali per qualsiasi ricerca di un’alternativa anticapitalista». (9)
In Città ribelli vengono poi raccontati diversi episodi di lotta di classe urbana. L’origine di queste lotte è la Comune di Parigi del 1871:
«La classe operaia industriale è stata tradizionalmente concepita come avanguardia del proletariato, suo principale agente rivoluzionario. Eppure, non sono stati gli operai di fabbrica a dare vita alla Comune di Parigi. Esiste per questo un’interpretazione alternativa della Comune che sottolinea come non si sia trattato di una rivolta proletaria o di un movimento di classe, ma di un movimento sociale urbano che rivendicava diritti di cittadinanza, e più in generale un diritto alla città. E quindi non di una lotta anticapitalista. A mio avviso, invece, non esiste alcuna ragione per non interpretare quell’evento come espressione sia di una lotta di classe sia di una lotta per i diritti di cittadinanza nello spazio abitato e vissuto dai lavoratori». (10)
E ancora:
«A tal proposito mi sembra che abbia un certo valore simbolico il fatto che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni (una questione lavorativa) e l’imposizione di una moratoria sulle rendite (una questione urbana)». (11)
Gli attori della lotta includono i lavoratori, ma anche molte altre categorie di cittadini urbani emarginati, alienati dai beni comuni, sia dal lavoro che dalla città. L’implicazione strategica è che la lotta di classe deve essere condotta al di là delle mura della fabbrica. Harvey sostiene che la maggior parte delle lotte sindacali sono sempre state condotte fuori dalla fabbrica: «Per portare avanti le lotte dei lavoratori, l’organizzazione di quartiere si è rivelata tanto importante quanto quella sui luoghi di lavoro». (12)
L’autore fa sua la tesi di Bill Fletcher e Fernando Capasin, secondo cui il movimento operaio dovrebbe prestare maggiore attenzione alle forme di organizzazione geografiche piuttosto che a quelle settoriali e dovrebbe dare più forza ai consigli operai radicati nelle città, oltre a organizzarsi nei diversi settori lavorativi. (13)
Inizia in questo modo a dissolversi ogni distinzione tra lotte per il lavoro e lotte per i diritti di cittadinanza. Come del resto già in Lefebvre, per il quale il diritto alla città è anche diritto alla cittadinanza attiva, con la classe urbana, non solo la classe operaia, nel ruolo di soggetto rivoluzionario.
Harvey cita “Occupy Wall Stree“t e la sua capacità, in una fase, di saper costruire un ponte, una coalizione antiliberista tra i luoghi di lavoro e la comunità. Ma rileva che, anche se i movimenti e le esperienze di resistenza locale sono quelli che hanno avuto maggiore successo, è però indispensabile un salto di scala per superare volatilità e frammentazione. Ed è con le domande su come costruire reti di città e coalizioni sociali e politiche su piani diversi fino a quello nazionale e sovranazionale, e su come unire le forze sociali che la crisi e la sua gestione da parte del neoliberismo hanno invece diviso, che il libro si conclude, in modo problematico. La stessa problematicità della domanda chiave espressa da Harvey in un’intervista a Micromega: “Sono molto serio nel porre la domanda: come si mobilita un’intera città? Perché è nella città che sta il futuro politico della sinistra”. (14)
3. Inizio e fine del "diritto alla città" nel nostro paese
Il mio amico Edoardo Salzano, grande urbanista e instancabile attivista per il “diritto alla città”, ha ricordato il ruolo di Lefebvre in Italia negli anni successivi al ’68:
«Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio. Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma» (15)
Poi Salzano entra nel dettaglio:
“Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia:
- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati)si ottenne la possibilità:
- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
«E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni Ottanta, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre (2012, NdR) vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto». (16)
Molte altre furono le conquiste sociali e democratiche di quegli anni.
Poi ci fu la grande svolta negli anni Ottanta: il neoliberismo, il finanzcapitalismo di cui ha scritto Luciano Gallino. Che comportò un arretramento in tutti i campi, compreso quello delle città. Cominciarono gli anni del privato, del mercato, del trionfo della rendita immobiliare. Quelli così ben descritti e spiegati, su scala più ampia, dal libro di Harvey.
4. Ripartiamo dalla pianificazione
La riflessione sui testi di Lefebvre e di Harvey spinge a tentare di ripristinare il perduto “diritto alla città”. Per farlo non si può che ripartire da ciò che è stato negato in tutti questi anni, cioè dalla pianificazione: “sociale”, diceva Lefebvre, “strategica” e “urbanistica”, aggiungiamo noi. Una pianificazione che si richiami ai tanti esempi che Harvey porta in “Città ribelli” di azioni per il diritto alla città, riformiste o rivoluzionarie (a volte, per sua stessa ammissione, non facilmente distinguibili tra loro): dal bilancio partecipativo di Porto Alegre alla pianificazione strategica nella Londra di Ken Livingstone, dai programmi ecosostenibili di Curitiba alla ribellione di El Alto. Ed è significativo che Harvey affianchi a questi esempi, più volte, le sperimentazioni politiche e sociali della “Bologna rossa” negli anni Sessanta e Settanta.
Pianificazione “strategica” e “urbanistica”, dicevamo. Si tratta di azioni diverse, di carattere discorsivo e procedurale la prima, normativo la seconda, ma complementari tra loro e non alternative. La seconda va considerata strumento utilizzabile all’interno della prima, che ne costituisce la cornice.
Lo sguardo delle due forme di pianificazione deve cogliere oggi l’elemento che più ha caratterizzato la polis nel mondo greco e poi, dal Medioevo, la città europea: lo spazio pubblico. È l’espressione più originale, l’ossatura portante, l’essenza della città come polis. Si pensi al ruolo della piazza nella storia: luogo dell’incontro tra le persone, ma anche spazio sul quale si affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni. Poi, nelle città del capitalismo e delle fabbriche, sono stati realizzati i servizi pubblici del welfare. Tra cui la stessa casa, concepita come servizio sociale (la “casa popolare”). Salzano ha ricordato, nel testo citato, che negli anni Settanta si raggiunsero, dal punto di vista della città come spazio pubblico, risultati importanti, e che gli anni Ottanta, invece, furono quelli della svolta neoliberista e del conseguente inizio del declino della città pubblica. Il carattere pubblico della città viene da allora negato in tutti i suoi elementi. Le politiche urbanistiche di tutti questi anni hanno ripudiato l’idea di città come luogo e patrimonio collettivo e hanno spinto per valorizzare la rendita fondiaria e favorire la bolla immobiliare.
Per riconquistare lo spazio pubblico occorre riconquistare la dimensione sociale della pianificazione. Avendo al fianco tutti quei cittadini che più che in passato si organizzano per difendere o ottenere un parco, un servizio di prossimità, uno spazio a uso collettivo, per conservare nel tempo quegli spazi pubblici considerati beni comuni a tutela della qualità della vita delle future generazioni. La sfida per la pianificazione è davvero formidabile. Occorre un suo forte riequilibrio in favore del governo pubblico. Nei Piani strategici e urbanistici devono intervenire nuovi contenuti: controllo dell’espansione metropolitana, spazi pubblici, ambiente, mobilità, risparmio energetico, edilizia sociale e stop al consumo di suolo come obbiettivi compatibili tra loro (grazie al recupero edilizio).
Questi sono i nuovi temi per nuovi Piani strategici e urbanistici che si pongano l’obbiettivo del diritto alla città.
Ma per far vivere questi temi, e questi piani, serve ricercare, fare riemergere e valorizzare quella cultura urbana e dei territori che in Italia ha subito colpi molto duri. E farlo nel segno del “nuovo municipalismo” di cui parla l’alcaldesa di Barcellona Ada Colau. Dipende dalla politica ma anche dalla società civile, che deve battersi per riappropriarsi delle scelte collettive. Come sempre, molto dipende da noi stessi, dal cambiamento personale. David Harvey, in “Città ribelli”, scrive:
“La domanda sul tipo di città che vogliamo non può… essere separata da altre domande, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che cerchiamo di stabilire, sui rapporti con l’ambiente naturale che coltiviamo, lo stile di vita che desideriamo e i valori estetici che perseguiamo”.(17)
C’è quindi bisogno di cittadini che si impegnino, non solo di uomini politici che sappiano interpretarli e rappresentarli. Il punto di partenza siamo noi. Dall’alto dei poteri costituiti, in questa fase, non giungono segnali. La possibilità di opporsi, e di cambiare, oggi è legata a un filo molto tenue: quello dei movimenti sociali descritti da Harvey, pur fragili e discontinui che siano. Una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e cercano di trasformarsi in luoghi di autorganizzazione e in presidi associativi di protesta e di proposta. La politica dei partiti non si autoriforma da sola. La politica dei partiti si autoriforma solo se nascono forze dentro di essi che vengono aiutate e sospinte da qualcosa che si muove nella società civile, che è un luogo di autoproduzione della politica. I cambiamenti radicali che sono necessari non si possono fare senza un impegno dei cittadini in prima persona.
I libri di Lefebvre e di Harvey ci spiegano che serve un soggetto del cambiamento decisamente più ampio. Lo sappiamo. Ma non sappiamo bene come arrivarci. Sappiamo, però, che la rivendicazione del diritto alla città da parte dei movimenti sociali, dei luoghi di autorganizzazione e dei presidi associativi non è “una” ma “la” stazione del lungo viaggio che deve condurci a questo obbiettivo. È l’ultima difesa e l’ultima speranza.
Note
1) Harvey, David, “Città ribelli”, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. “Rebel cities”, Verso Books the imprint of The New Left Brooks 2012), p. 22
2) Lefebvre, Henry, “Il diritto alla città”, Ombre corte, Verona, 2014 (ed. or. “Le droit à la ville”, editions Anthropos. Parigi, 1968), p. 22
3) Ivi, p. 20. I corsivi sono nel testo.
4) Ivi, p. 54
5) Ivi, p. 113. Il corsivo è nel testo.
6) Ivi, pp. 135-136. I corsivi sono nel testo.
7) Ivi, pp. 126-127. Il corsivo è nel testo.
8) Harvey, David, cit, p. 14
9) Ivi, p. 88
10) Ivi, p. 155
11) Ivi, p. 147
12) Ivi, p. 159
13) Fletcher, Bill, Gapasin, Fernando, “Solidarity Divided: The Crisis in Organised Labor and a New Path Toward Social Justice, University of California Press, Berkeley, 2008
14) “Occupy Wall Street e la nuova rivoluzione urbana”, intervista di Max Rivlin-Nadler a David Harvey, “Micromega”, 3 maggio 2012
15) Salzano, Edoardo, “Diritto alla città, ieri e oggi". Testo della relazione di apertura di un seminario del Dottorato in Pianificazione territoriale e urbana, Università di Roma La Sapienza, 8 marzo 2012,
disponibile in eddyburg.it
16) Ivi
17) Harvey, David, cit, p. 22
Focus, 9 maggio 2018. Non sbaglia chi definisce il turismo sregolato di massa "la peste dei nostri tempi". Studi recenti rivelano la sua perniciosa influenza anche sull'effetto serra. (m.p.r.)
È un messaggio che va un po' in controtendenza, in questo periodo di prenotazioni compulsive: il nostro sacrosanto desiderio di viaggiare potrebbe avere tuttavia un impatto ecologico più pesante di quanto credessimo. Secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change, il turismo è cresciuto a tal punto che è oggi responsabile dell'8% delle emissioni globali di gas serra, un'impronta quattro volte più ingombrante del previsto.
Le nuove stime. Arunima Malik e i colleghi dell'Università di Sydney, Australia, hanno stimato le emissioni annuali di gas serra legate al turismo di 160 Paesi, e concluso che il settore emette ogni anno circa 4,5 gigatonnellate di CO2 equivalente (la CO2 equivalente è una misura che permette di considerare in un unico gruppo anche emissioni di gas serra diversi, con differenti effetti sul clima). Una gigatonnellata (Gt) corrisponde invece a un miliardo di tonnellate.
I costi nascosti. Stime precedenti parlavano di 1-2 gigatonnellate all'anno. Perché si è arrivati a risultati così diversi? Se i calcoli passati consideravano soprattutto l'impatto degli inquinanti viaggi in aereo (responsabili da soli del 12% delle emissioni totali del settore), i nuovi modelli hanno incluso fattori come l'edificazione e la manutenzione degli hotel, i cibi poco a chilometro zero che ci concediamo nei buffet degli alberghi, i souvenir acquistati dai turisti... insomma, le emissioni necessarie a viziare i fortunati - ed esigenti - viaggiatori.
In salita. Anche la crescita delle emissioni sembra crescere in modo allarmante: si è passati dalle 3,9 gigatonnellate del 2009 alle 4,5 del 2013. Se continuiamo a questo ritmo, arriveremo a 6,5 gigatonnellate entro il 2025. A incidere di più sono le emissioni dovute alla scelta di mete esotiche, preferite da ricchi cittadini delle solite economie forti (USA, Cina), ma anche da una fetta crescente di turisti da Paesi emergenti, come India e Brasile.
il manifesto, 11 maggio 2018. Cambia la tipologia dei veleni che iniettiamo nella nostra terra per aumentarne la produttività, e quindi il valore per chi la possiedi e usa, ma non diminuisce la tossicità (m.p.r.)
Sono sempre più «amare», nel senso di inquinate, le acque dolci italiane, sia superficiali che sotterranee. A certificarlo è l’ultimo rapporto Ispra sui residui di pesticidi nelle acque, relativo al biennio 2015-2016, il più completo sforzo di monitoraggio capillare su tutto il territorio italiano con riferimenti anche ai sedimenti storici e alla loro interferenza con i nuovi prodotti utilizzati .
Il rapporto si basa sui campioni prelevati, purtroppo ancora abbastanza a discrezione, dalle Regioni e dalle aziende locali per la protezione ambientale e si preoccupa di fornire linee guida, che sono: aumentare i dati, armonizzare le ricerche e investire su ricerca e innovazione per l’agroecologia. Cioè filiera sostenibile e a chilometro zero che riduca l’uso di prodotti chimici.
L’indagine è corposa anche se non è ancora esaustiva, basti pensare che su 400 sostanze chimiche potenzialmente tossiche in concentrazione ma autorizzate e reperibili sul mercato per essere impiegate in agricoltura soltanto 259 sono state cercate e rintracciate. Le analisi sono lacunose in particolare nelle regioni del Centro-Sud: su 35.353 «provette» analizzate nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche, il 50% dei punti di monitoraggio si concentra nel Nord mentre nel resto del Paese la campionatura è disomogenea e a maglie molto, troppo, larghe, con il «buco nero» della Calabria, dove campeggia un disastroso cartello «non pervenuta».
Delle pericolosità dei mix poi poco o niente si sa, considerando che si è osservato che la pericolosità è determinata al 90% dall’effetto tossico cumulativo, cioè da ciò che si sedimento in natura tra gli «antichi» inquinanti, alcuni dei quali oggi proibiti e non più in vendita, e i più recenti.
Il più famoso erbicida oggi si chiama glifosato, ad esempio, ma che dire dei livelli ancora alti del Ddt con cui durante i primi anni Cinquanta venivano irrorati a pioggia i campi dagli aerei militari americani o dell’ex celebre atrazina, altro erbicida bestia nera della campagna ambientalista che portò al referendum del 1990 – però senza quorum – per la sua messa al bando. Oggi il veleno peggiore, perché il più diffuso nelle acque, oltre al glifosato, si chiama Ampa ed è il metabolita che si ottiene dalla degradazione del glifosato stesso, immesso a man bassa nelle acque reflue da almeno quarant’anni perché oltretutto presente anche in moltissimi detersivi per la casa.
Il glifosato e i suoi derivati, anche se potenzialmente cancerogeni, non sono però i veleni peggiori trovati nei campioni analizzati dai laboratori Ispra. Nell’elenco dei veleni dai nomi che sembrano medicine ce ne sono di tossicità massima, con effetti sull’apparato respiratorio e sugli occhi, e poi i più comuni insetticidi come imidacloprid, e fungicidi come i tradimenol, oxadixil e metalaxil. Tutti questi sono nelle acque sotterranee di 260 punti di rilevamento (l’8,3% del totale) con concentrazioni superiori ai limiti.
La presenza dei pesticidi nel periodo 2003-2016 è cresciuta del 20% nelle acque superficiali e nel 10% di quelle sotterranee. La contaminazione riguarda il 67% dei punti di acque superficiali monitorate e il 33, 5 % di quelli delle acque profonde, dove evidentemente la saturazione è tale da non permettere una diluizione. Tanto che Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente, avverte come la situazione di fiumi, laghi e falde acquifere sia «sempre più preoccupante».
L’aumento dipende in realtà in parte da un campionatura più estesa e accurata, soprattutto nella pianura padana, ma è la persistenza di questi agenti chimici nell’ambiente che aumenta i livelli di rischio con l’accumulo nella catena alimentare che dispiega effetti a lungo andare soprattutto sul sistema endocrino umano e può, a livello di specie, ridurre la capacità riproduttiva.
C’è da dire, come nota di speranza, che la vendita dei prodotti fitosanitari più pericolosi dal 2001 al 2014 in base ai dati Istat è sensibilmente diminuita (-12% e -22% per principi attivi) ma si è diffusa quella dei diserbanti e insetticidi più comuni passando, dopo dieci anni di riduzione, a un rialzo fino a 136 mila tonnellate commercializzate nel 2015 (erano 130 mila soltanto l’anno prima).
Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2018. Imbrogli, imbroglietti e imbroglioni per tentar di cancellare il piano di Renato Soru per la difesa delle coste della Sardegna. Da che parte sta l'attuale presidente della Regione?
L’ urbanistica, si sa, in Sardegna è un tema delicato, su cui possono fondarsi i destini politici di una legislatura e su cui può cadere una Giunta. Ne sa qualcosa Renato Soru, il padre della legge salva coste e del piano paesaggistico regionale che si dimise, nel 2008, dopo la bocciatura in Consiglio Regionale di un emendamento alla legge urbanistica allora in discussione e da quel momento in poi rimasta in sospeso. L’onere di riprovarci è toccato all’attuale presidente Francesco Pigliaru, con un disegno di legge di riordino che avrebbe dovuto accogliere le rigorose indicazioni di tutela del Ppr del 2006 ma che in realtà, dicono gli ambientalisti, rischia di stravolgerle, dando il via libera a una nuova colata di cemento sulle coste sarde.
All’articolo 43 (“deroghe per programmi e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico”) e l’allegato A4 sul calcolo del dimensionamento volumetrico assegnato per comune (oltre 9 milioni di metri cubi di cemento in più sulle coste sarde), che lo stesso presidente della Regione Pigliaru, nel corso di un’assemblea pubblica il 27 aprile, si diceva convinto di voler stralciare dal testo generale, insieme alle “grandi deroghe”, troppo arbitrarie, dell’articolo 43.
In questo clima, proprio mentre Pigliaru inaugura la fase d’ascolto pubblica estesa ai portatori d’interesse e alle associazioni, accade il giallo: il 30 aprile sul sito istituzionale della Regione compare per poche ore un testo “unificato” sulle “Norme per il governo del territorio”, contenente delle modifiche mai passate al vaglio del voto nella commissione competente, che provoca la rivolta degli alleati e il rischio di una crisi, poi rientrata dopo i chiarimenti dell’assessore all’Urbanistica Cristiano Erriu e la rimozione del documento dal sito.
Ad alimentare il giallo rimane però un avviso in carta intestata della Commissione Urbanistica che invita le parti interessate a visionare il “Testo unificato del dl 409 - Norme per il governo del territorio” . “Ma quale testo unificato? In Commissione non si era discusso di unificare i testi o di apportare modifiche, eravamo in piena fase istruttoria”. A parlare è Eugenio Lai (Mdp) che subito dopo aver appreso le novità è corso a chiedere spiegazioni sull’accaduto, pronto, se del caso, a ritirare la fiducia alla maggioranza in Regione. “Non c’è stata votazione articolo per articolo ” prosegue, “né tantomeno una votazione finale anche perché la roadmap stabilita da Pigliaru prevede prima l’apertura al dibattito pubblico e solo dopo il momento di sintesi all’interno della maggioranza”.
Cadono dalle nuvole anche gli ambientalisti, fra cui Sandro Roggio, già componente della Commissione Urbanistica regionale nell’era Soru ed oggi schierato contro il ddl Urbanistica: “Ci siamo trovati davanti un altro testo, per giunta con peggiorative . N e ll ’articolo 43 revisionato, ad esempio, i “grandi progetti” presentati su proposta della giunta vengono ora sottoposti all’approvazione del Consiglio regionale. Peccato che così ogni consigliere regionale si sentirà autorizzato a portare gli interessi del suo territorio, dai grandi investimenti del Qatar in Gallura a quelli di un piccolo imprenditore locale in Ogliastra. Un disastro”.
Avvenire, 4 maggio 2018. I disastri inconsapevolmente compiuti da chi governa e non pratica la pianificazione del territorio. Ma loro non sono le vittime, sono i carnefici. Con postilla
Vent’anni fa, tra il 5 e il 6 maggio 1998, una colata di fango scendeva su Sarno soffocando 137 persone, più altre 23 nei Comuni di Siano e Bracigliano, in provincia di Salerno, e in quello di Quindici (Av). 160 morti causati da un nubifragio eccezionale (30 cm di pioggia in tre giorni) che provocò il veloce scivolamento di due milioni di metri cubi di terra dai fianchi del Pizzo d’Alvano; altre frane interessarono diversi versanti del monte. La frazione Episcopio di Sarno venne completamente distrutta da 5 metri di fango, tanto da essere soprannominata «Pompei del 2000»; anche l’ospedale della cittadina venne spazzato via. Ma nella tragedia si intravede anche la colpa degli uomini: molte abitazioni erano costruite su terreni a rischio e il sistema fognario dei paesi colpiti era insufficiente. L’ex sindaco Gerardo Basile sarà processato e prima assolto, poi condannato a 5 anni di domiciliari. Dopo quel disastro si decise finalmente la sistematica mappatura del rischio idrogeologico in Italia.
Sarno, Italia. Vent’anni dopo. «Allora fu un fatto devastante» ricorda Francesco Russo, che era vicepresidente dell’Ordine dei geologi della Campania quel 5 maggio 1998, in cui la marea di fango si portò via un intero territorio. Le tracce sono visibili ancora oggi, sotto le volte del vecchio ospedale: in quelle ore, venne inghiottito tutto, gli uomini e le cose.
All’epoca, furono fatali la quantità enorme di pioggia, i ritardi nella comunicazione dell’allarme imminente alla popolazione, il mancato sgombero di alcune famiglie. Scene che poi si sono ripetute, a distanza di anni, in altre situazioni e hanno interessato altri angoli della nostra penisola. Sulle opere compiute in questi anni, si discuterà in un convegno organizzato domani a Salerno, nel giorno dell’anniversario della tragedia: secondo i tecnici, Sarno ha visto completarsi l’85% delle opere previste. «Ma è venuta meno la messa in sicurezza della montagna» ha osservato Antonio Milone, che in quella tragedia perse il padre e che da anni guida l’associazione dei familiari delle vittime. Il problema vero è la manutenzione e dei fondi, che non ci sono.
Ad allungare lo strazio dei parenti delle vittime è rimasta in piedi anche la questione risarcimenti. Sarebbero una settantina i giudizi pendenti. «Non sediamo ai tavoli che contano – si lamenta Russo, a nome di tutti i geologi – . Si tagliano le risorse per la difesa del suolo e nessuno ha ancora capito davvero che, senza la necessaria messa in sicurezza di tutto il territorio, l’Italia resterà un Paese senza vere prospettive di sviluppo».
Nell’atto di accusa della categoria, c’è ovviamente il continuo rimpallo di responsabilità sul 'chi fa cosa', l’eterno scaricabarile che si mette in atto in Italia quando si parla di dissesto idrogeologico. «Vuole un esempio? Il cosiddetto 'vascone' di Sarno è stato pensato perché dovrebbe raccogliere una gran mole d’acqua nel caso di precipitazioni enormi, come quelle della primavera del 1998. Da solo non basta, però, se non si progetta a monte. Altre cose vanno completate, a partire dalle opere di contenimento».
È il rischio delle altre 'Sarno d’Italia', spesso dimenticate e trascurate, quello che va dunque esorcizzato una volta per tutte. In che modo? Puntando sugli interventi non strutturali, attraverso l’attivazione di presidi territoriali sull’intero territorio nazionale, valorizzando l’esperienza che fu avviata nelle zone interessate dagli eventi alluvionali del 1998, in modo da garantirne l’operatività non soltanto nelle fasi emergenziali, ma soprattutto in tempi di tregua. Quando si potrebbe fare di meglio e di più.
postilla
Ogni volta che accade una "calamità naturale", o la si ricorda, ci si comporta come dei bambini di prima elementare, anche se si pontifica dalle cattedre mediatiche o si finge si essere dei tuttologhi. Il guaio è che la cultura moderna ha trasformato l'uomo in un essere che sa guardare la realtà (ogni realtà) come se fosse un ammasso casuale di pezzettini privi di connessioni, se non quelle create dal caso.
Sfugge a tutti che la cose che ci appaiono come frammenti di un caos sono spesso realtà olistiche: realtà che sono un insieme organizzato e coerente di parti interdipendenti le une dalle altre, talchè manometterne una, o anche semplicemente spostarla, significa rompere un equilibrio e, spesso, provocare un caos.
La superficie del nostro pianeta, il territorio, è appunto una realtà olistica, e per intervenire su di essa e governarne le trasformazioni occorre una visione che sia anch'essa olistica. Perciò l'unico procedimento inventato per governare il territorio senza farlo precipitare nel caos (oppure in qualcosa interamente governato dalle sole leggi della natura), è quello della sua pianificazione: si, la pianificazione territoriale, parte di una disciplina negletta e abbandonate alle ortiche per lasciare campo libero a ogni mano rapace e ignorante che vuole trasformare un pezzettino di suolo per diventare un po' più ricco o più potente.
Anno di ricorrenze, questo 2018. In estate saranno quarant’anni esatti dall’entrata in vigore, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, della legge 457 sull’edilizia residenziale e della legge 392 sull’equo canone. Il 9 dicembre, saranno vent’anni dall’approvazione della legge 431 che ha liberalizzato il mercato dell’affitto e l’ultimo giorno dell’anno ricorreranno vent’anni dall’abrogazione del contributo GESCAL, che ha segnato la fine dell’impegno dello stato nel settore dell’edilizia pubblica.
Quarant’anni sono anche il periodo coincidente con la vita lavorativa di Giancarlo Storto, già direttore generale delle Aree urbane e dell’edilizia residenziale presso il Ministero dei Lavori pubblici, che una volta in pensione ha deciso di ripercorrere criticamente la lunga stagione di cui è stato testimone diretto. Il suo libro La casa abbandonata, uscito in questi giorni per Officina Edizioni, offre una prospettiva storica e un inquadramento complessivo al susseguirsi di provvedimenti e iniziative che hanno progressivamente smantellato l’intero settore delle politiche abitative pubbliche. E per questo risulta particolarmente prezioso.
Le conseguenze negative della disarticolazione del progetto riformatore iniziale e della scomparsa - anche lessicale - dell’edilizia residenziale pubblica, le difficoltà di gestione del patrimonio realizzato, la dialettica con la pianificazione urbanistica, la mancata integrazione con le politiche sociali, l’accondiscendenza verso il settore edilizio privato e gli intrecci con la rendita immobiliare, il primato attribuito alla proprietà della casa a discapito dell’affitto, le ripercussioni della mancata riforma istituzionale e della contraddittoria ripartizione di competenze fra stato, regioni ed enti locali: tutti i nodi critici della questione della casa sono affrontati con riferimenti precisi accompagnati da chiare sottolineature, come questa: “Non pare vi sia consapevolezza nelle istituzioni” che la gestione sia parte integrante dei piani e dei programmi e “appare essersi radicata negli uffici una sorta di accettazione passiva sull’ineluttabilità delle disfunzioni”. Come dirlo meglio e come non convenire sul fatto che la sottovalutazione di questi aspetti si sia rivelata esiziale perché ha accreditato la propaganda contro la burocrazia che alimenta il circolo vizioso in cui siamo tuttora intrappolati?
Dobbiamo a Giancarlo Storto anche un doveroso riconoscimento per aver ideato e sostenuto, alla fine degli anni novanta, i Contratti di quartiere, un’iniziativa di carattere sperimentale rivolta agli insediamenti di edilizia residenziale pubblica. L’unico tra i programmi complessi che non ha fatto affidamento sulla leva immobiliare. Nel libro si sottolinea che dagli esiti positivi di questa vicenda, così come dai difetti e dai limiti riscontrati sul campo, si sarebbe potuto imparare molto per definire i contenuti di una rinnovata stagione di politiche pubbliche intersettoriali, inclusive e abilitanti e per riorganizzare e rivitalizzare, conseguentemente, la macchina amministrativa. Nulla di tutto ciò è accaduto, come ben sappiamo, a dispetto del profluvio di proclami spesi sulle periferie e sulla rigenerazione urbana.
Come mostrano questi due piccoli esempi, nonostante l’autore non rinunci ad esprimere giudizi severi, La casa abbandonata sfugge ai cliché dell’indignazione e della denuncia, così come a quelli del fallimento e della sconfitta. È invece un testo rigoroso e meditato, cosa rara in questi tempi sguaiati. Per questo lo possiamo inserire tra i libri indispensabili. Quelli che si consultano quando serve un riferimento affidabile, ma nei quali troviamo le parole giuste per interpretare e raccontare le questioni che ci stanno a cuore.
Giancarlo Storto, La casa abbandonata, Officina edizioni, Roma, 2018
Riferimenti
il manifesto, 3 maggio 2018. «Napoli, promemoria. Storia e futuro di un progetto per la città (Donzelli, pp. XII-116, euro 18), il libro di Vezio De Lucia, uscito per Donzelli. La narrazione di una storia fatta di alti e bassi, che tende sempre al riscatto» (m.p.r.)
Da Napoli si fugge e a Napoli si ritorna. È bastato che l’originario Progetto Bagnoli tornasse alla luce, che Vezio De Lucia, uno degli ultimi rigorosi e appassionati urbanisti che ritiene che questa disciplina possa ancora contribuire a cambiare il volto delle nostre città, avesse un sussulto di emozioni: adgnosco veteris vestigia flammae, ovvero sentisse ridestarsi il fuoco, mai sopito, dell’antica passione per la sua città.
De Lucia, proprio come, per altri versi, Ermanno Rea in Napoli Ferrovia, torna nella sua città a descriverci la sua storia recente, dove vi convivono violenza e dolcezza, in un libro: Napoli, promemoria. Storia e futuro di un progetto per la città (Donzelli, pp. XII-116, euro 18), con la bella prefazione di Tomaso Montanari. L’urbanistica da complice del neoliberismo e dal linguaggio oscuro, qui, con De Lucia, «ha il dono rarissimo di parlare in modo tale da far capire anche al più ignaro dei destinatari che il discorso sulla città è un discorso che lo riguarda personalmente».
Un libro, anzi un libricino come lo definisce Vezio con la sua proverbiale modestia, che ha il pregio di svelare le molte contraddizioni e i molti luoghi comuni che avvolgono la città. In primis il Prg del 2004 che è l’unico piano di una grande città che non prevede consumo di suolo. Eppure, dice De Lucia, se ne parla poco; forse perché siamo a Napoli. Promemoria è il sottotitolo di un racconto che si snoda dalle vicende del sindaco Valenzi (anni Settanta), al «primo» Bassolino, fino a Luigi De Magistris che ha difeso il progetto di Bagnoli, vera ossessione quasi esistenziale dell’autore. Ed è anche il racconto della storia «del successo di un gruppo di una squadra, di una comunità; l’ufficio urbanistico, i ragazzi del Piano, il Partito comunista sono i veri eroi collettivi di questo libro».
È il racconto di una città che tenta il riscatto da una immagine stereotipata che altri gli hanno cucito addosso. Col sindaco Valenzi Napoli torna a essere una capitale di cultura internazionale; elabora, prima in Italia, un piano delle periferie (1980). Poi l’occasione del terremoto si trasforma in una grande attività di ricostruzione per opera dei «ragazzi del piano», sottraendolo agli appetiti della camorra e dei costruttori.
Il 15 dicembre del 1993, in linea con la stagione dei Sindaci, viene eletto Antonio Bassolino e Vezio diventa assessore all’urbanistica. Con il G7 Napoli cambia ancora volto, viene pedonalizzata, contro ogni previsione, piazza del Plebiscito. Racconta De Lucia che prima dell’inaugurazione gli tremavano i polsi per quello che sarebbe potuto accadere. Invece, si rivelerà un successo clamoroso.
Un cenno a parte merita Scampìa simbolo della crisi sociale e abitativa di Napoli, un quartiere di 50mila abitanti, dove si concentrano povertà, disoccupazione e malavita. In effetti, più che di Scampia si dovrebbe parlare delle Vele che sono il suo nucleo abitativo più noto e malfamato, diventato poi celebre con il romanzo di Saviano. De Lucia non è convinto della sua demolizione e ricorda che: «Scrissi su il manifesto che la festa per la demolizione della vela F (dicembre 1997) non era la mia festa». Ma quello che non si dice è che Scampia non è più Gomorra: è attraversata da una vitalità prorompente. Si colgono le conseguenze del lavoro di decine di associazioni e comitati di ogni specie, laici e religiosi, come in poche altre città italiane.
La riconversione di Bagnoli (per cui Vezio si è battuto da sempre senza risparmiarsi) diventa il simbolo di rinnovamento di Napoli. Poi nel 2011, con l’elezione di De Magistris, per Bagnoli si apre una nuova stagione fra alterne vicende.
Il libro si conclude proprio sul progetto Bagnoli che, per De Lucia deve avere un’unica risposta: l’apertura al pubblico del parco, subito, con un allestimento essenziale, mentre vanno avanti i lavori di bonifica e - contemporaneamente - di trasformazione del territorio, sotto gli occhi dei cittadini informati e consapevoli. È giusto concludere con le parole di Tomaso Montanari: «un libro che, come tutto il lavoro e tutta la vita di Vezio De Lucia, è un potente, e concretamente fondato, atto di fede nella storia e nella verità».
la Nuova Venezia. Sull'azione mediatica dei "tornelli" a Venezia le opinioni di Philippe Daverio e Jan Van Der Borg, e l'intervista di Enrico Tantucci a Luigi Brugnaro, attuale sindaco della disgraziata città. (m.p.r.)
LA CITTA' UN TURISTODROMO
di Philippe Daverio
Il sindaco ha deciso definitivamente di assassinare la Serenissima Repubblica. Brugnaro inventi non un tornello per entrare, ma un progetto per il futuro della città. La domanda è etica: Lo stato provvede alla cultura della propria società o no? Non provvede ai maccheroni o alle feste. La cultura fa parte dell'istruzione o dei maccheroni? Per il sindaco di Venezia la cultura fa parte dei maccheroni. Ha deciso che la città non avrà più un'importanza politica, Venezia è un turistodromo, un luna park per cretini, è una scelta fatta dal sindaco».
È il durissimo attacco mosso al primo cittadino di Venezia per la decisione di istituire i varchi di ingresso - che qualcuno chiama tornelli - alla città, in occasione del Ponte del Primo Maggio, dal critico d'arte Philippe Daverio. Un attacco arrivato in diretta Rai, nel corso del programma "Unomattina" del primo maggio, che ha trattato anche la questione del controllo degli ingressi a Venezia.
Forse è più importante che Venezia torni a essere di nuovo una città».E a criticare l'iniziativa del sindaco sono ora anche Bruno Pigozzo e Francesca Zottis, consiglieri regionali del Pd, in dissonanza con la loro capogruppo a Palazzo Ferro Fini Alessandra Moretti, che si è detta invece favorevole al provvedimento. «I tornelli sono una soluzione "pittoresca", una trovata - commentano in una nota - che crea molto clamore senza però incidere nella sostanza.
Crediamo invece che sia arrivato il momento di utilizzare il monitoraggio dei flussi turistici con puntualità, lavorando insieme alle strutture ricettive della città, agli operatori del settore, agli amministratori e alle 'rappresentanze dei cittadini' per creare un regolamento che vada nella direzione di una gestione dei flussi. Governare i flussi vuol dire gestirli a monte attraverso una piattaforma informatica che colleghi sistema ricettivo, servizi e accessi alla città. O pensiamo davvero che una comitiva proveniente da una parte del mondo possa arrivare a piazzale Roma trovare i tornelli chiusi e tornare indietro? I flussi vanno governati prima che le persone arrivino a Venezia».
«RISPOSTA SBAGLIATA A UN PROBLEMA VERO»
di Van Der Borg
A circa tre anni dall'arrivo del sindaco Luigi Brugnaro e a circa due anni dalla firma del patto per Venezia, che stanziava per la gestione dei flussi di visitatori svariati milioni di euro, gli alibi per non aver ancora affrontato la questione del turismo veneziano insostenibile stavano svanendo uno ad uno. A Brugnaro serviva oggettivamente un intervento molto forte per cercare di zittire sia gli scettici perenni che i suoi elettori stanchi delle sue infinite promesse non mantenute. Sono arrivati puntualmente i contestatissimi varchi in alcuni punti nevralgici della città.
L'ASSALTO DEL TURSIMO » IL BILANCIO DEL SINDACO
intervista di Enrico Tantucci a Luigi Brugnaro
FB Poveglia per tutti, FB Antico Teatro di Anatomia, 4 maggio 2018. Di conflitti i nostri territori sono pieni. Odiosi quelli che hanno come controparte la pubblica amministrazione, che dovrebbe amministrare i beni comuni nell'interesse di tutti. 2 casi a Venezia (m.p.r.)
«Da domani anche San Secondo, grazie al ruolo nefasto del Bando Fari dell'agenzia del Demanio, diventerà parte del turistificio lagunare. Invitiamo tutti a condividere la loro indignazione in questa pagina, nelle pagine associative, nei siti del Demanio e nei social network con hashtag #demanio, oppure presso l'indirizzo mail del demanio - dre.Veneto@agenziademanio.it. Vi aspettiamo in associazione per evitare questo destino non solo a Poveglia e alle altre isole della laguna, ma a tutto il territorio».
Come nei peggiori incubi d'ogni thriller che si rispetti, i segnali anticipatori che vengono dallo Stato liquidatore si confermano immancabilmente nello svolgersi della trama di questa sceneggiatura, e in ogni azione di chi mette meccanicamente all'asta pezzi sempre più vasti delle nostre città. Il Demanio dello Stato, rinunciando ad ogni ruolo di direzione dello sviluppo economico, rinunciando a farsi calmiere delle bolle speculative del mercato, si mette ancora una volta completamente al servizio dell'unica economia che rovinosamente trionfa, l'economia della monocultura turistica, ovvero quella che sta trasformando la nostra città nel "turistodromo" o "luna-park per cretini" come l'ha impietosamente chiamato Philippe Daverio.
Oggi ci viene riconfermato che, come da due anni denuncia l'associazione, il Bando Fari del Demanio dello Stato è uno strumento, o meglio una cortina fumogena, per trasformare in albergo ogni luogo scientemente trascurato dall'amministrazione. Lo stesso Demanio che ignora le sentenze dei tribunali (il Tar nel nostro caso), che trascura progetti virtuosi o meno impattanti, oggi preferisce chiudere un occhio su canoni che verranno pagati a regime solo tra trent'anni da questi novelli albergatori, ignora cioè ogni ragionevolezza amministrativa che risponda ai bisogni reali di questa città in disgregazione, al solo fine di ossequiare l'ideologia totalizzante della turistificazione, della mercificazione totale del nostro suolo.
Ignorando ogni ragionevole alternativa, il Demanio favorisce nei fatti, ovunque, una subdola privatizzazione. Chi si ricorderà tra cinquant’anni che quegli edifici, terre e luoghi sono state opportunità sottratte a ben due generazioni, che appartenevano alla collettività?
Ebbene si, lo ricordiamo ancora, anche in questa occasione: dedicare l'intero paese ad un'unica attività economica, oltre ad essere palesemente miope e fragilizzante, deperirà le ricchezze plurime delle nostre città, impoverirà il tessuto culturale e relazionale, inaridirà le conoscenze ritenute non funzionali, e alla fine collasserà economicamente. Ogni monocultura erode infatti come un tarlo il terreno sul quale gravita deperendolo nella sua biodiversità, e a fronte di una apparente agiatezza superficiale, di breve periodo, questo tipo di processi produce immancabilmente -e presto- un conto da saldare. Lo strumento del Bando Fari, in 22 casi su 24, e da oggi con San Secondo, tristemente, in 23 casi su 25, si è rivelato solo un rullo compressore sulle economie non turistico-ricettive. Dobbiamo organizzarci ed agire insieme per impedire che sia ancora così.
A due mesi dalla chiusura dell'Antico Teatro Anatomico, le attività, gli incontri e le relazioni sono rifiorite in campo, in quella che chiamiamo la Vida [Accanto]. Un gazebo che raccoglie i materiali un tempo all'interno dello spazio e che rappresenta una forma di presidio per ribadire che l'immobile non può diventare un ristorante. Non solo perchè non è necessaria l'ennesima attività commerciale in campo, ma perchè il Piano Regolatore parla chiaro: l'immobile é classificato di tipologia SU (Unità edilizia speciale preottocentesca a struttura unitaria).
officinadeisaperi.it, 3 maggio 2018. Raccogliamo e rilanciamo un appello per la tutela e l'utilizzazione di un grande patrimonio di testimonianze materiali e immateriali indispensabile per comprendere un'intere epoca della nostra storia (m.b.)
Una singolare vita, quella di Luigi Micheletti (1927-1994), comunista, partigiano, imprenditore, e appassionato di storia contemporanea, raccontata da Pier Paolo Poggio nella rivista telematica della Fondazione “altronovecento”. Nel bresciano c’erano le basi della Repubblica di Salò (RSI). Dopo il crollo, per decenni, pochissimi si occuparono di quella vicenda. Micheletti raccolse tutto quanto era possibile, perché gli storici la studiassero. Con ancora maggiore passione si dedicò a raccogliere manifesti, documenti e testimonianze della Resistenza che rischiavano la scomparsa. Gettò le basi di una biblioteca e archivio che diventarono poi una Fondazione che porta il suo nome chiamando a raccolta persone appassionate come lui. Si rese anche conto che le lotte per la difesa dell’ambiente non erano altro che una delle pagine della protesta popolare contro le fabbriche inquinanti, la speculazione edilizia, la violenza alla natura, insomma testimonianze della storia civile democratica.
Si è venuto così creando a Brescia il più grande archivio dell’ambientalismo italiano attraverso la paziente raccolta degli archivi privati donati in vita o dagli eredi, da molti testimoni di tali lotte. E’ stato così possibile recuperare quanto resta dell’archivio di Laura Conti, staffetta partigiana, medico, consigliere comunista alla Regione Lombardia, fondatrice della Legambiente, in prima fila nelle lotte contro l’inquinamento provocato dall’esplosione della fabbrica di Seveso.
Ma la storia contemporanea si può comprendere soltanto attraverso la storia del lavoro e delle macchine e dell’industria, e alla biblioteca e archivio iniziali si è presto affiancata una straordinaria raccolta di tutte le macchine che la Fondazione riusciva a salvare dalla distruzione. E’ nato il Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), costituito in ente autonomo nel 2005, contenente incredibili raccolte di macchine utensili, e dei principali settori manifatturieri, ma anche i reperti di due stabilimenti cinematografici, e le collezioni di alcuni pionieri italiani del disegno animato.
E’ così possibile vedere nel MusIL come venivano disegnati, fotogramma per fotogramma, i cartoni animati.Mostrare come si lavorava --- il tema del “lavoro” è centrale nell’impegno del MusIL --- è diventato occasione per incontri con il mondo della scuola ed è suggestivo vedere la sorpresa dei ragazzi per la riscoperta di tecniche artigianali.
Il bresciano è stata la patria della metallurgia alimentata dalla forza del moto delle acque, diventata poi la fonte delle centrali idroelettriche. Il passo successivo della Fondazione è stato il recupero della bellissima centrale idroelettrica di Cedegolo (1910), in Val Camonica, dedicata all’energia dell’acqua, una fonte rinnovabile derivata dal Sole. Il MusIL ha riattivato anche un’officina metallurgica alla periferia di Brescia, alimentata da una ruota idraulica in grado di produrre l’elettricità per le attività didattiche che vi si svolgono.
Ben presto gli spazi per accogliere i materiali del MusIL hanno cominciato a scarseggiare e la Fondazione ha ottenuto in comodato e ristrutturato un grande capannone a Rodengo Saiano a pochi chilometri da Brescia. E’ emozionante vedere esposte decine di macchinari anche di grandi dimensioni, in una gigantesca vetrina che occupa uno dei lati dell’edificio.
I nuovi spazi hanno così potuto ospitare parte degli archivi, le collezioni di macchinari e offrire la possibilità di tenere convegni, lezioni, e permettono di toccare con mano le testimonianze esistenti.
Però il comodato è scaduto, il Comune si disinteressa, i proprietari dell’edificio minacciano di sloggiare il museo e tutto quello che contiene. E pensare che, con grande fatica, il MusIL è riuscito a racimolare i soldi per acquistare questa importante sede, ma l’operazione è ostacolata da lungaggini burocratiche, mettendo a repentaglio un patrimonio irripetibile.
Una beffa anche perché si sta per realizzare un antico sogno di Luigi Micheletti, ridare vita per attività culturali ad uno degli stabilimenti più importanti di Brescia tra ‘8 e ‘900, l’ex Metallurgica Tempini, che può, con restauri e sistemazioni uscire dal silenzio, dopo il vociare di tanti operai per tanti anni, e tornare ad ascoltare la voce di studenti, studiosi, cittadini, divenendo la sede principale del MusIL.
Tutto questo lavoro archivistico e museale è stato affiancato da una intensa attività convegnistica ed editoriale. Si possono ricordare, fra gli altri, i convegni sulla storia dell’energia solare e sulle prospettive di una nuova agricoltura che produca cibo secondo criteri rispettosi delle esperienza e delle singolarità ecologiche locali. La produzione editoriale è cominciata negli anni ’70 e proseguita con la rivista “Studi Bresciani” dal 1980, con alcuni importanti “Annali” e una rilevante serie di monografie, prodotte in proprio o in coedizioni nazionali. La rivista telematica “altronovecento” ha raggiunto venti anni di vita e 40 numeri. Fra i libri si possono ricordare le storie di imprese come la Agusta, la Bernardelli, la Ideal Standard, quelle della siderurgia al forno elettrico nata dal recupero di rottami residuati di guerra, la monumentale storia del “comunismo critico”, curata da Pier Paolo Poggio con quattro volumi pubblicati e il quinto in uscita (presso Jaca Book).
Di grande interesse le ricerche sui rapporti fra industria e ambiente, fra cui si possono ricordare gli studi sull’ACNA di Cengio, sulla Caffaro di Brescia, sulla Farmoplant di Massa Carrara e quello sull’”autarchia verde”. Ma per meglio comprendere perché la Fondazione chiede il sostegno dell’opinione pubblica e delle istituzioni per poter sostenere e ampliare questo grande lavoro la cosa migliore è visitare i due siti: www.fondazionemicheletti.eu e www.musilbrescia.it, ricchi di riproduzioni di testi, di fotografie storiche e di descrizione del patrimonio e delle iniziative delle due istituzioni.
il Salto, 27 aprile 2018. Sabato un corteo aperto da un trattore ha attraversato Firenze e l' Oltrarno per difendere Mondeggi dalla vendita, attraverso una gestione civica basata su progetti agricoli, lavoro collettivo, manutenzione, assemblee, una scuola e un teatro contadino. con riferimenti (i.b.)
«Siamo ribelli perché la terra è ribelle se c’è chi la vende e la compra come se la terra non fosse terra e come se non esistessimo noi che siamo del colore della terra»
subcomandante Marcos
A giugno dello stesso anno, durante una tre giorni di convivialità e dibattiti politici, un presidio contadino formato da una ventina di persone si stabilisce nelle case coloniche di Cuculia e Ranieri. Ha così inizio un nuovo cammino: quello di “Mondeggi Bene Comune- Fattoria Senza Padroni”. «Il mondo contadino non appartiene al passato», ha raccontato Andrea di Genuino Clandestino ai microfoni di radio Città Futura: «Difendere il libero accesso alla terra è necessario, e Mondeggi Bene Comune è simbolo della lotta e della riappropriazione delle terre».
Oggi, grazie al progetto MO.TA (Mondeggi Terreni Autogestiti) almeno 300 persone custodiscono parte delle olivete; mentre i terreni sono tornati a produrre frutta, ortaggi, uva e cereali, zafferano secondo le tecniche dell’agricoltura contadina. Ai lavori agricoli si uniscono anche le autoproduzioni: miele, pane, prodotti erboristici, birra sono alcuni dei prodotti reperibili presso lo Spaccio Autogestito della Fattoria, nei vari circuiti contadini ed estranei alla Grande distribuzione organizzata. «Perdere Mondeggi significherebbe far cessare un processo di trasformazione sociale ormai avviato in questo contesto», commenta Alessio, uno dei ragazzi seduto vicino all’entrata della sala riunioni, dove si sta tenendo una delle tante lezioni libere e gratuite dei corsi tenuti dalla Scuola Contadina. «Questa esperienza è un’opportunità per l’intero territorio su cui ci troviamo: 200 ettari di lotta attraversati da chi vuole offrire un futuro diverso a questa zona. Non è possibile rispondere con la vendita a ogni fallimento di gestione pubblica della terra. Su questi poderi potrebbero trovare lavoro oltre cento persone».
Il movimento contadino non è morto, dicevamo. Non si vedeva un’occupazione delle terre da oltre cinquant’anni, in Italia. Le ultime risalgono agli anni del Secondo Dopoguerra quando, specie al Sud Italia (ma anche sul delta Padano e in alcune zone della Sardegna e della Toscana) i contadini e le contadine, stremati da fame e miseria, si riprendevano ciò che i grandi proprietari terrieri continuavano a tenere per sé: la terra. La rivolta di Melissa e le braccia incrociate sull’altipiano silano; lo sciopero di Avola e Portella della Ginestra in Sicilia ci raccontano della lotta contadina italiana e di chi è caduto sotto i colpi esplosi da uno Stato che negava terra, libertà e cibo. Adesso i tempi sono cambiati ma, ora come allora, la disoccupazione morde. Beni comuni e ambiente, vengono calpestati come il diritto di chi vorrebbe dedicarsi alla vita agricola, finendo alla mercè dei possessori di grossi capitali da investire nella speculazione sui territori.
«Sappiamo di percorrere una strada lunga e difficile, ma abbiamo bisogno di vincere questa sfida», dice ancora il giovane attivista. Nel corso di questi anni, la costante partecipazione alla vita della fattoria e la concreta sperimentazione di un laboratorio di autogestione e di democrazia diretta dal basso, hanno portato allo sviluppo di una “comunità diffusa”. «Mondeggi è l’unico soggetto informale in grado di custodire la tenuta», aggiunge Roberto mentre ricorda che agli uffici della città metropolitana di Firenze è stata presentata, e protocollata, una “Dichiarazione per la gestione di un bene civico”. Un atto redatto sulla falsariga di altre esperienze che presso le diverse amministrazioni – Casa Bettola a Reggio Emilia, Ex Asilo Filangieri a Napoli – hanno trovato un riconoscimento legale. Un’apertura istituzionale invece assente nella città di Firenze, che lo scorso novembre ha raccolto cinque manifestazioni di interesse all’acquisto di Mondeggi. Al “sondaggio”, lanciato dall’ente in attesa del prossimo bando per l’asta, hanno risposto gli attuali custodi, un privato cittadino e tre imprese. Due di queste, la Bl Consulting e la My Group, si occupano di lussuose ristrutturazioni. L’altra, la Chianti Ruffino, è un’impresa vitivinicola collegata alla multinazionale Constellant Brands, un colosso mondiale proprietario di oltre cento marchi di alcolici (fra cui la birra Corona).
Intanto, appellandosi alla presunta illegalità di chi riprende in mano i beni comuni, lo scorso 10 aprile si è aperto il processo contro 17 degli occupanti. Le accuse sono furto di energia elettrica e invasione di edifici e terreni. Parte civile si è costituita la città metropolitana, intenzionata a chiedere un risarcimento per danneggiamento. Bisognerebbe comprendere, però, cosa intenda la giunta fiorentina per “danni”, se centinaia di persone hanno rimesso in sesto un luogo altrimenti inutilizzato.
«Scenderemo in piazza per rivendicare che Mondeggi è un Bene Comune e va difeso dalla proposta di vendita dell’amministrazione pubblica», si legge in un comunicato diffuso dalla rete di Genuino Clandestino, che proprio presso la Fattoria senza Padroni terrà il suo incontro questo fine settimana. «Siamo convinti che per i movimenti contadini ed ecologisti sia fondamentale creare legami transnazionali per costruire insieme una prospettiva globale di lotta», chiude la nota.
Sabato 28 aprile, un corteo vivace e colorato sarà aperto da alcuni trattori e attraverserà le vie di Firenze «contro la svendita dei beni comuni, per l’autodeterminazione dei territori attraverso esperienze di vita agroecologiche. Per costruire un futuro fertile, sosteniamo le Resistenze contadine e cittadine difendendole dalle privatizzazioni, dall’avvelenamento e dalle devastazioni», si legge sul volantino diffuso per invitare alla manifestazione. L’appuntamento è in piazza San Marco alle 17.30.