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La frammentazione dell’insediamento dell’uomo in un insieme di recinti privatizzati, di moda in tutto il mondo, è oggi per la città l’equivalente di ciò che per Pompei ed Ercolano fu l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. La Repubblica, 31 ottobre 2014

Gli amanti del genere li chiamano quartieri vip, zone premium, aree a cinque stelle. Ma il solo fatto che la destra di governo, il Partito Popolare di Rajoy, abbia proposto di importare anche in Spagna un modello di gestione pubblico-privata dei centri cittadini, conosciuto in altri paesi con la sigla Bid (Business improvement districts) ha subito provocato un putiferio politico e reazioni contrastanti nella società. Perché il timore di fondo è che si possano creare città “a due velocità”, con barrios di prima categoria e altri condannati a un ruolo più marginale, forse persino a un progressivo degrado.

L’idea, ad altre latitudini, non è nuova. Il primo esperimento, datato 1969, venne fatto a Toronto. Poi i Bid hanno preso piede nelle grandi metropoli Usa, proliferando in seguito in una ventina di paesi, dal Regno Unito all’Olanda, dalla Germania alla Nuova Zelanda. Con risultati a volte soddisfacenti, ma non senza polemiche. Tutto dipende, in realtà, dai limiti più o meno ampi imposti alla gestione privata dello spazio pubblico. Nel modello spagnolo, che si profila simile a quelli britannico e americano, si prevede che i commercianti di una determinata zona versino un’imposta supplementare nelle casse dell’amministrazione comunale, per riceverne a cambio servizi extra, destinati a migliorare l’aspetto, la pulizia, la sicurezza, l’arredo urbano del quartiere. Il quale, si suppone, potrà così attrarre più visitatori, nuovi possibili clienti per i negozi che vedranno compensato lo sforzo economico supplementare con un incremento dell’attività. Tutto grazie a un radicale make-up: migliore manutenzione e pulizia, iniziative di marketing, informazione turistica, eventi. Per ora, sono stati avviati progetti per la creazione di Bid a Madrid e Barcellona.

L’iniziativa parte in genere dei commercianti, che propongono un business plan e organizzano un referendum tra loro. Ma il “sì” definitivo alla costituzione dell’ente spetta all’amministrazione locale, i cui rappresentanti fanno parte del consiglio di gestione. Il Comune riscuote la tassa supplementare e fornisce i servizi di prima qualità che permettono la realizzazione del piano.

Una condivisione di competenze, che si traduce in una gestione parzialmente privata dello spazio pubblico. Con vantaggi indiscutibili ma anche alcune controindicazioni: Izquierda Unida ricorda che le imposte dovrebbero servire «per correggere le disuguaglianze, non per aumentarle». In realtà, se è vero che la fornitura di risorse supplementari a beneficio di un barrio non significa la sottrazione di fondi destinati agli altri, la sperequazione provoca squilibri pericolosi. A cominciare dalla possibile “gentrificazione”: la riqualificazione rivaluta anche il valore degli immobili, determina l’impennata degli affitti e si conclude con l’inevitabile espulsione di una parte degli abitanti e la chiusura di alcuni negozi. Da qui la nascita di quartieri di prima e seconda categoria.
Con un’aggravante. Dove esiste un Bid, la vigilanza è estrema e la gestione privata del territorio può favorire abusi. L’esperienza americana insegna, in particolare quella di New York. A Times Square sono arrivati a proibire manifestazioni e proteste, in quanto sconvenienti per gli obiettivi commerciali del Bid. A Midtown Manhattan hanno espulso gli artisti di strada e i venditori ambulanti perché creavano un presunto danno d’immagine. Uno dei punti più controversi è la sicurezza. Anche questa potrebbe essere in parte privatizzata, con conseguenze prevedibili come l’espulsione di mendicanti, prostitute e ambulanti.

Nota: per capirne un po' di più, Eddyburg Archivio: Il concetto di Business Improvement District insegnato al MIT (2005)

Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2014

La Regione Sardegna, presieduta da Francesco Pigliaru, ha approvato un disegno di legge (ddl) concernente “norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia”.

Non è una legge organica sull’urbanistica, di cui hanno bisogno la Sardegna e l’Italia. Al contrario, si punta a dare continuità amministrativa al cosiddetto “piano casa” della destra di Cappellacci, ex presidente della Giunta. Il ddl si discosta da molte posizioni di Cappellacci, ma l’impostazione di fondo è la stessa, con l’aggravante che il piano casa, pensato come norma temporanea, non ha scadenza e diviene strutturale. Contro questo metodo varrebbero tutte le considerazioni del centrosinistra quando era all’opposizione, che era contrario ad un piano casa…a scadenza!

In Europa, in Occidente, c’è chi pensa che aumentando i volumi ed il numero delle stanze si possa dare risposta alla necessità abitativadel popolo: nulla di più falso*! In questi ultimi tre decenni il numero delle stanze in Sardegna ed in Occidente è aumentato notevolmente, ma la precarietà abitativa è aumentata a sua volta. Il problema non è che si è costruito poco, bensì come e come si comportano coloro i quali detengono il costruito.

La giunta è in continuità con questa impostazione, per quanto mitigata. Vengono confermate, nelle aree B e C **, gli aumenti volumetrici del piano casa, seppur ridotti. Ma se esiste un piano urbanistico comunale, con le sue proporzioni, il suo bilancio tra servizi e volumi abitativi, tra verde e volumi, perché permettere con questa legge un allargamento per legge? Sarebbe prevaricante rispetto alla scelte dei comuni, e sarebbe la sconfitta dell’idea della pianificazione urbanistica.

Il settore dell’edilizia, dai manovali ai grandi architetti è in fortissima crisi. Capisco gli ingegneri per cui il piano casa è servito per tirare a campare, ma proviamo ad allargare un po’ lo sguardo? Dal 2009 esiste il piano casa, e la crisi dell’edilizia non si è fermata, né a Cagliari né in Sardegna. Pensiamo che il piano casa sia ancora il modo giusto per dare lavoro?

Chiariamo poi che il piano casa non è un piano casa! La precarietà abitativa in questi anni è notevolmente aumentata, e non sarà il ddl Pigliaru a dare una risposta. Anzi, rinviando il problema lo si incancrenisce, facendolo ancora aumentare. L’unico vero piano casa è stato portato avanti nel dopo guerra, e diede centinaia di migliaia di case a chi non aveva nulla. Il cosiddetto piano casa di Cappellacci permise ai ricchi con tripla e quadrupla casa di allargarsi e fare qualche stanza in più, ed ad alcune famiglie proprietarie in città di costruire. Ma non è stata una soluzione.

Vi è poi il provvedimento che permette un aumento di cubaturaper gli alberghi, anche all’interno dei 300 metri dalla linea di battigia. L’aumento non riguarda il residenziale, bensì i servizi. In questo modo, oltre che permettere in futuro un eventuale cambio di destinazione d’uso (nel nome dell’urbanistica flessibile!) si stabilisce comunque di favorire chi, in ogni caso, ha strutture di fronte alla costa. Perché non si compie, invece, una netta scelta politica a favore delle strutture più lontane dal mare e, magari, delle aree interne? Perché non si convalida il modello di accoglienza immaginato nel Ppr (Piano Paesaggistico Regionale)?

Pur senza gli eccessi di Cappellacci, l’impostazione moderata che ispira il ddl Pigliaru è la medesima. Non si cita il concetto di “volume zero”, ormai acquisito dall’Unione Europea (non dal soviet!), e si parla più generalmente di “limitazione del consumo del suolo”, lasciando lo spiraglio aperto per il consumo, e non vi è alcun intervento sulla rendita.

Se si vuole arrivare ad una legge urbanistica generale e di rottura con il paradigma dominante si dovrebbe ritirare il provvedimento, far decadere la legge sul piano casa, e ricominciare su un altro livello.

* Vedi, a titolo di esempio, tutta l’opera di David Harvey. Cfr. David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città: neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte, Verona 2012.
** Le aree B e C sono quelle aree, residenziali e di completamento, esterne rispetto al centro storico, che viene definito area A.
(Ringrazio Susanna Galasso e Sandro Roggio, con i quali mi sono confrontato sul ddl)


Riferimenti
Si veda, su eddyburg, l'articolo di Mauro Lissia, Sardegna. I dubbi degli ambientalisti: «Stessi effetti del Piano casa»

«I Comuni auspicano che il gruppo guidato da Elia si occupi anche di trasporto urbano, sperando così di ricevere più fondi. Ma i cittadini alla fine ci rimetterebbero». Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2014

Le ferrovie dello Stato da un po’ di tempo hanno aggiunto a FS una I (“FSI”), dove la I finale sta per l’Italia, per non essere da meno ad Autostrade per l’Italia, e sarebbero disponibili a estendere la loro attività ai trasporti urbani, in particolare quelli di Roma e di Milano. Sono già presenti nel settore: stanno concorrendo per l’azienda torinese e hanno già vinto la gara (a lotto unico) per quella di Firenze. Secondo alcune voci maligne, a Firenze hanno vinto soprattutto perché si è preferita un’azienda italiana politicamente “robusta” a infidi stranieri, quali erano gli altri due concorrenti.

C’è comunque un aspetto positivo nella vicenda fiorentina: per la prima volta in Italia abbiamo una grande città che non solo ha fatto una gara, ma ha rinunciato alla proprietà dell’azienda. Se il Comune di Firenze non sarà contento dei risultati, litigherà con FSI, e non con se stesso come fanno tutti gli altri, proprietari delle aziende urbane. Ma l’eventuale avvento di FSI nel settore presenta molti più aspetti negativi che positivi, e questo certo non per qualche colpa o demerito dell’azienda ferroviaria, ma al contrario perché questa è troppo forte, cioè ha un potere politico ed economico “innegoziabile” (questo potere, nel linguaggio degli economisti, è noto come clout).

Infatti FSI ha caratteristiche peculiari. È un’azienda totalmente pubblica, quindi per definizione gode di forti appoggi politici, riceve moltissimi sussidi dallo Stato (“corrispettivi”, come FSI preferisce chiamarli ), la rete ferroviaria è un monopolio naturale esteso e la gran parte dei servizi passeggeri sono esercitati in condizione di monopolio legale, anche se vi sono state gare per alcuni servizi locali (nessuna di queste è stata vinta da concorrenti). FSI è un’impresa fortemente dominante (circa il 90 per cento del fatturato del settore) e non può fallire, a differenza di ogni altra impresa. Ciascuno dei punti precedenti sarebbe motivo sufficiente per sconsigliare l’ulteriore rafforzamento di FSI, rendendola ancor meno controllabile dal regolatore pubblico (in questo caso dalla neo-costituita Autorità per la Regolazione dei Trasporti). Si tratterebbe di “integrazione verticale di impresa dominante”, e di solito in questo caso si registra un intervento censorio da parte del regolatore pubblico.

Proprio per questo potere la cessione di aziende di trasporto urbano a FSI è auspicata dagli amministratori locali. Cesserebbero di colpo per loro moltissimi problemi economici e gestionali. Illuminante in proposito è l’affermazione (in privato) dell’assessore ai trasporti di una delle città coinvolte: «Come sarebbe bello cedere l’azienda a FSI, quelli i soldi dallo Stato riescono sempre ad averli, e quanti ne vogliono». Una assoluta verità. E ovviamente questo ingresso di FSI renderebbe impossibile fare gare per piccoli lotti, cioè la strategia che in Europa si è rivelata la più efficace per razionalizzare i servizi. Ma la perla finale di questa vicenda è verbale, e scaturisce dalla dichiarazione di interesse di FSI per l’ingrasso nelle aziende di Roma e Milano: si tratterebbe, secondo l’amministratore delegato di FSI di Michele Elia, di una “privatizzazione”, anche se FSI è al cento per cento di proprietà pubblica.

Tutte le ferrovie europee aborrono l’uso dei termini “monopolio”, “sussidio”, “dominante”, “pubblico”. Amano raffigurare se stesse, e spesso riescono a farsi raffigurare dai media, come aziende private che operano nel mercato. Poi però, nei rari casi in cui emergono pubblicamente gli elevatissimi costi che generano alle casse pubbliche, ribadiscono la loro vocazione sociale, e il fatto che operano soprattutto per il benessere della collettività troppo umano. Al management ferroviario non tocca certo rinunciare a parte del proprio potere. Tocca allo Stato costringerlo a farlo, per difendere utenti e contribuenti.

Ma sembra esserci una lodevole eccezione al quadro sopra descritto: il presidente di FSI, il professor Marcello Messori aveva una importate delega di cui si stava occupando: quella sulle modalità di privatizzazione parziale del colosso pubblico. Due scuole di pensiero si fronteggiano: una è quella di fare entrare investitori privati con la cessione di quote azionarie, operazione che garantirebbe la forza contrattuale e politica del gruppo FSI. L’altra visione è opposta: cedere quei rami d’azienda che non ha più senso siano in mano pubblica (l’Alta Velocità, i servizi merci, alcuni asset della rete). In questo modo il potere politico-monopolistico di FSI diminuirebbe, con benefici per gli utenti e le casse pubbliche. Domenica Messori ha annunciato di aver rimesso tutte le deleghe, escluse quelle, in gran parte formali, di “controllo”, con motivazioni che sembrano attinenti proprio a divergenze sulle modalità di privatizzazione. Conoscendone il pensiero e il rigore, vi sono pochi dubbi di quale modello dei due sopra descritti fosse sostenitore. La coerenza con le proprie convinzioni nella sfera del top-management pubblico è cosa davvero rara in Italia. C’è da sperare che la politica, per una volta ne prenda atto, e ne tragga le conseguenze.

«Belpaese?. Il rapporto Svimez sullo spopolamento del Mezzogiorno e i dati Istat sull'abnorme quantità di case inutilizzate raccontano di un inarrestabile declino e di un modello sbagliato. Lo Sblocca Italia in realtà sblocca solo le speculazioni finanziarie e la cementificazione selvaggia». Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)

La let­tura com­pa­rata del rap­porto della Svi­mez sulle con­di­zioni del Mez­zo­giorno d’Italia e l’analisi dei primi dati di det­ta­glio Istat sulle abi­ta­zioni degli ita­liani svolta da Alberto Ziparo defi­ni­sce un qua­dro scon­vol­gente. Viene fuori un paese che versa in una crisi sem­pre più pre­oc­cu­pante che dovrebbe riem­pire l’agenda di qual­siasi governo degno di que­sto nome. Dice la Svi­mez che nel 2013 sono emi­grati ancora 116 mila lavo­ra­tori; che le fami­glie povere sono aumen­tate del 40%; che –ancora una volta– il numero dei decessi supera quello dei nati: un evi­dente segnale di un inar­re­sta­bile declino. Nella Cam­pa­nia del quarto con­dono edi­li­zio ci sono 65 mila appar­ta­menti vuoti. In Cala­bria ce ne sono 90 mila e dice sem­pre Ziparo in alcuni paesi dell’Appennino interno ci sono più case vuote che abi­tanti. Il deserto.

Il qua­dro si com­pleta in modo ancora più dram­ma­tico se si leg­gono le dina­mi­che dei valori immobiliari. A parte alcune città mag­giori e i pochi luo­ghi di turi­smo di qua­lità, dall’inizio della crisi del 2008 i valori delle case delle fami­glie sono dimi­nuiti nella misura com­presa tra il 30 e il 50%. Ci sono fami­glie che si sono inde­bi­tate per com­prare un allog­gio che oggi vale meno di quanto è stato pagato. Una popo­la­zione che diventa sem­pre più povera, senza lavoro e sem­pre più priva della rete del wel­fare, vede sva­nire anche il rispar­mio rap­pre­sen­tato dalla pro­pria abitazione.

Per com­ple­tare il qua­dro del declino del paese aggiun­giamo le due prin­ci­pali linee di azione con cui il governo Renzi intende dare ripo­sta a que­sta scon­vol­gente realtà. Al primo posto tro­viamo le poli­ti­che di pre­ca­riz­za­zione del lavoro dipen­dente del Jobs act. Dice la Svi­mez che gli inve­sti­menti pro­dut­tivi nel sud sono crol­lati del 53% e il dato va letto insieme alla deser­ti­fi­ca­zione umana. Chi mai inve­sti­rebbe nel sud se la mano­do­pera gio­vane emigra? Non c’entrano dun­que nulla i diritti dei lavo­ra­tori: occor­re­rebbe defi­nire poli­ti­che indu­striali soste­nute da risorse pub­bli­che per rea­liz­zare infra­strut­ture imma­te­riali e ser­vizi alle imprese. Ma di que­sto il governo non parla. È fermo all’articolo 18.

Del resto uno dei più ascol­tati con­si­glieri di Renzi è il pia­gnu­co­loso espo­nente della finanza crea­tiva che si lamen­tava di aver per­duto sei ore per arri­vare da Lon­dra alla Leo­polda. Cono­sco pen­do­lari che ogni giorno per­dono 4 ore della pro­pria vita negli spo­sta­menti per recarsi al lavoro, ma la cul­tura libe­ri­sta ignora que­sti dati con­creti dipin­gendo un mondo che non esi­ste. Peral­tro, la finanza d’assalto non crea posti di lavoro ma solo immense for­tune da rein­ve­stire nella rou­lette finan­zia­ria. Con le poli­ti­che del governo non si cree­ranno posti di lavoro e con­ti­nuerà il declino del sud.

Al secondo posto delle prio­rità del governo Renzi è, come noto, lo Sblocca Ita­lia, che con­tiene gra­zie alla stre­nua azione del mini­stro Lupi e dei poteri che lo sosten­gono, una ulte­riore faci­li­ta­zione alla costru­zione di nuove case. Dai dati Istat viene invece fuori anche un altro numero scon­vol­gente: nel nostro paese ci sono 31 milioni di alloggi di cui 7 milioni vuoti. Ci sono 24 milioni di fami­glie e se anche si con­si­dera la quota delle seconde case (pari circa a 4 milioni) esi­ste una quota inven­duta loca­liz­zata in tutte le aree urbane ita­liane pari ad almeno 3 milioni di alloggi.

Anche nel caso dello Sblocca Ita­lia è stata la finanza spe­cu­la­tiva a pre­ten­dere l’approvazione di alcuni arti­coli. Quello per esem­pio che con­sente di age­vo­lare l’azione delle Società di inve­sti­mento immo­bi­liare quo­tate (Siiq, art 26) e quella che for­ni­sce ampie pos­si­bi­lità di inter­vento alla Cassa depo­siti e pre­stiti di Franco Bas­sa­nini nel poter met­tere le mani nel pre­zioso patri­mo­nio immo­bi­liare pub­blico (art. 10). Siamo pieni di alloggi vuoti? Costruia­mone altri. I valori immo­bi­liari sono ai valori minimi? Sven­diamo alla finanza spe­cu­la­tiva inter­na­zio­nale il patri­mo­nio pubblico.

Il primo mini­stro Renzi diverte spesso il volgo con bat­tute ful­mi­nanti, come quella sui get­toni tele­fo­nici che non pos­sono essere uti­liz­zati per far fun­zio­nare le attuali tec­no­lo­gie. Diver­tente. Provi allora a met­tere in fila i dati Svi­mez e Istat con le poli­ti­che che sta por­tando avanti con tanta determinazione. Se si impe­gna capirà che sta asse­stando l’ultimo deci­sivo colpo all’intero paese men­tre la festa della spe­cu­la­zione finan­zia­ria con­ti­nua senza fine.

Ritiri allora Jobs act e Sblocca Ita­lia e si con­cen­tri nelle azioni ragio­ne­voli pro­po­sta dalla Svi­mez per il sud e, soprat­tutto avvii la messa in sicu­rezza del paese con soldi veri. Non con numeri propagandistici senza coper­ture reali.

Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2014

Com'è possibile che la Fontana Maggiore di Perugia sia scomparsa? Eppure da questa fotografia sembra proprio che uno dei principali monumenti del nostro Medio Evo sia sparito nel nulla, cancellato, dimenticato: è stato forse smontato e spedito all'Expo al posto dei Bronzi di Riace? O forse è esposto in una mostra della Basilica Palladiana di Vicenza: ed ecco il titolo, Da Nicola Pisano a Caravaggio a Van Gogh? O se l'è rubato una qualche cricca annidata in qualche ministero?

No, non siamo (ancora) a questo punto: la Fontana c'è (ancora). È stata solo nascosta da un orrendo capannone provvisorio. Una roba da sagra della panzanella piccante o della ranocchia scorticata. Che va benissimo, naturalmente: nulla contro panzanella e ranocchie. Ma non lì, per favore.

Il vero capolavoro della storia dell'arte italiana (un capolavoro non assoluto, ma squisitamente relativo: cioè basato su una rete di relazioni spaziali, formali, metaforiche) è lo spazio pubblico urbano. I centri delle nostre città sono infinitamente più importanti di tutti i quadri che riusciate a ricordare. E questo è bellissimo: perché noi i nostri “capolavori” li possiamo attraversare, percorrere, 'camminare'. Lo spazio pubblico monumentale è la cosa più alta, più giusta, più originale che abbiamo saputo costruire lungo millenni. E allora: perché diavolo dovremmo rovinarlo, alterarlo, banalizzarlo, commercializzarlo per un “evento” qualsiasi? Nelle nostre città non mancano – purtroppo – luoghi dove capannoni come quello possono non disturbare: o addirittura portare un accenno di vita e allegria. Ma come si fa, invece, a piazzarlo in un posto che ha raggiunto il suo equilibrio grazie al pensiero, al lavoro, alla continenza di generazioni e generazioni di nostri padri? E l'argomento della breve durata non è un argomento convincente: nessuno si deturperebbe la faccia “solo per qualche giorno”. E quella piazza è la faccia di Perugia, la faccia dell'Italia. Vediamo di non perderla.

Il caso di un'anziana morta per un incidente stradale, battendo la testa urtata da un ciclista, scatena il partito degli automobilisti, tutti uniti al ministro Lupi nella richiesta di repressione e/o (improbabili) opere pubbliche. Ma basterebbe così poco. La Repubblica nazionale e Corriere della Sera Milano, 29 ottobre 2014, postilla (f.b.)


la Repubblica
L’ultima battaglia della strada
“Contromano e imprudenti
anche i ciclisti sono un pericolo”
di Luca De Vito


MILANO - Sono croce e delizia del traffico in città. I ciclisti non inquinano, riducono gli ingorghi e obbligano gli automobilisti a rallentare. Ma sempre più spesso sono oggetto di critiche feroci per comportamenti ritenuti poco o per nulla rispettosi delle regole. Il fatto di cronaca più recente è la tragedia che, domenica scorsa, ha visto un ciclista investire una signora di 88 a Milano. La donna ha perso l’equilibrio ed è morta dopo aver battuto la testa. Un caso su cui non sono ancora state chiarite del tutto le responsabilità, ma che ha comunque dato il via alle polemiche. Per primo è stato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, a rivolgere un appello direttamente a chi si muove in bicicletta: «Troppi ciclisti oggi pensano di passare col rosso, ma così mettono a rischio la propria incolumità e quella degli altri. Lo vedo tutti i giorni: vanno contromano. Ecco, questo è pericoloso».

In effetti, la crescita esponenziale delle due ruote in città — per la prima volta nel 2011 sono state vendute più bici che auto — ha fatto aumentare anche le occasioni di conflitto. E ingrossato le fila del partito anti-bici, che invoca più sanzioni e forme di controllo per chi pedala. Per esempio, c’è chi chiede di rendere i ciclisti sempre identificabili: «Bisogna obbligarli a munirsi di un contrassegno di identificazione visibile a distanza — ha spiegato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia — perché ogni mezzo di trasporto deve essere munito di targa quando circola ». Spesso nel mirino finiscono alcuni comportamenti - pedalare sui marciapiedi, passare con il rosso, andare contromano -, e non mancano le polemiche contro le piste ciclabili: da Napoli a Treviso, comitati di residenti e ne- gozianti raccolgono firme per chiedere che non ne siano più costruite. Sempre a Milano, un’insolita alleanza tra tassisti e tranvieri ha chiesto di aumentare i controlli contro i ciclisti che entrano nelle corsie preferenziali per bus e taxi: «Sono un pericolo prima di tutto per se stessi — ha sottolineato Pietro Gagliardi, dell’Unione Artigiani Taxi — dovrebbero essere estromessi dalle corsie preferenziali che sono a scorrimento veloce».

Le critiche arrivano anche dalla rete, dove sempre più spesso blogger e gruppi sui social network si lasciano andare a commenti che scadono nella violenza verbale. Nelle settimane scorse, è saltato fuori il caso del gruppo Facebook che istigava a «investire i ciclisti che non usano la pista ciclabile». La pagina è stata chiusa dopo le polemiche, quando aveva già raggiunto oltre tremila like. Violenza, e non solo verbale, si è vista invece a Catania, dove a metà ottobre un ciclista è stato aggredito da alcuni gestori di camionbar sul lungomare cittadino con calci e pugni, durante la domenica senz’auto voluta dal sindaco Enzo Bianco. Motivo? Attriti tra i ciclisti e una manifestazione di commercianti contrari all’iniziativa pro-bici.

Contro la rabbia e l’emotività scatenati da un incidente come quello di Milano, c’è però anche chi richiama alla calma. E a ragionare con statistiche (reali) alla mano: «Quello di Pisapia è un appello giusto e legittimo — spiega Alberto Fiorillo, promotore della campagna #Salvaiciclisti, nata sul web dall’iniziativa di blogger e associazioni per aumentare la sicurezza dei ciclisti sulle strade italiane — ma mi piacerebbe che i sindaci delle grandi città e i presidenti delle regioni facessero dieci appelli analoghi ogni volta che sulle strade muoiono ciclisti e pedoni a causa di incidenti con le auto. Quello è un bilancio drammatico: ogni anno sulle nostre strade registriamo 4mila morti».

Corriere della Sera ed. Milano
Più rispetto sulle strade
di Isabella Bossi Fedrigotti

Pur essendosi probabilmente trattato di una tragica fatalità — perché quanto in fretta può andare una bicicletta? — ha comunque fatto molta impressione il primo incidente mortale, a danno di un’anziana signora in piene strisce pedonali, provocato in città da un giovane ciclista che, come hanno scritto i giornali, avanzava con grande velocità. E lasciando perdere i paradossali messaggi di soddisfazione, se non quasi di esultanza, apparsi in rete a firma di automobilisti che notoriamente detestano più di tutti gli utenti delle due ruote, paghi di poter una volta dare loro addosso a ragione veduta, è comunque davvero tempo di richiamare questi ultimi alle regole della strada.

È vero che nessuno le rispetta, non gli automobilisti, non i motociclisti, non i ciclisti e nemmeno i pedoni, tuttavia sarebbe saggio che almeno le due categorie più deboli, quelle che lasciano il maggior numero di vittime in strada, le osservassero in vista, se non altro, della loro sopravvivenza. La rieducazione sotto la minaccia concreta di un pericolo dovrebbe, tra l’altro, essere meglio accetta di quella imposta dal puro obbligo di osservare il codice. In questo senso il semaforo vale per tutti allo stesso modo, ma se lo «brucia» un pedone o un ciclista nella maggioranza dei casi rischia molto di più di un automobilista che compie la medesima infrazione.

E attraversare una carreggiata — a piedi — fuori dalle strisce, così come viene, fidando nella ragionevolezza dei padroni della strada, è probabilmente pericoloso come girare —
in bicicletta — senza luci alla sera oppure infilare vie in contromano o peggio percorrere le corsie preferenziali in avventurosa, rischiosa convivenza con taxi e autobus. Tuttavia, anche questo tipo di rieducazione — in un certo senso «opportunistica» — non può che passare, almeno inizialmente, dal controllo; controllo — purtroppo soltanto eventuale — che per certo farebbe dire ai controllati, pedoni e ciclisti, in tono niente affatto conciliante: cari vigili, gentili poliziotti, non avete niente di meglio da fare? Non guardate come si comportano quegli automobilisti, come corrono, come parcheggiano dove loro pare?

E quelle moto, quei motorini che salgono sui marciapiedi non li vedete? Proprio a noi dovete dare le multe? Eppure, visto che la disciplina non sembra ormai più fare parte del nostro dna, soltanto sanzionando — sia pure in maniera ovviamente più morbida — anche le categorie più deboli del traffico si potrà assicurare loro maggior sicurezza.

postilla

L'idea di città porosa, concetto vagamente evocato in uno degli ultimi progetti di Bernardo Secchi, per Parigi, oltre alla componente strettamente fisica comprende anche quella indispensabile dei flussi, ovvero dei comportamenti di tutto ciò che quella porosità, reale o virtuale, sfrutta. Ed è proprio questa duplicità a non essere a quanto pare colta (forse per crassa ignoranza, forse per interessi lobbistici, forse per un miscuglio di entrambe le cose) da chi continua a ragionare di mobilità urbana a soli colpi di trasformazioni fisiche, e pure assai tradizionali: corsie riservate, segregazione modale, grandi percorsi lineari. Saltando a piè pari, nel proprio automatismo ottuso, incollato a certe desuete convinzioni novecentesche, il fatto che quando i comportamenti dei flussi puntualmente contraddicono certe organizzazioni spaziali, di sicuro qualcosa che non va c'è, e di solito sta nel metodo più che nel merito. Scendendo parecchio di quota rispetto a queste considerazioni generali, nella pratica quotidiana, si può osservare che: con le regole attuali, anche prendendo per buona la logica segregazionista modale, per provare a risolvere qualcosa occorrerebbero tempi e risorse non disponibili. Ergo, è molto, ma molto, più conveniente cambiare regole, ed effettuare anche sulla base di queste nuove regole le piccole trasformazioni fisiche in grado di amplificarne l'effetto: eliminazione di barriere alla porosità (dislivelli, sbarramenti, passaggi, sensi di marcia), realizzazione di minimi requisiti di sicurezza per tutti gli utenti, a partire da una adeguata segnaletica. Sono cose che si possono anche fare a livello locale, ma subito. Altrimenti, all'italiana, si continuerà ad arrangiarsi, male, provando ogni volta a scordarsi la “fatalità”, o parlando di crisi urbane come di questioni filosofiche (f.b.)

Qualche considerazione in più e "in positivo" su la Città Conquistatrice: Mobilità cittadina, il problema non è un altro

«Gran parte del nostro suolo è edificato, il doppio di venti anni fa. Da tempo non si costruisce per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito». La Repubblica, 27 ottobre 2014

Nel nostro ormai ex Belpaese, il combinato tra la crescita di energia nell'atmosfera causata dai cambiamenti climatici e i dissesti del territorio da ipercementificazione generalizzata rivela effetti sempre più drammatici. Diverse ricerche ne indagano i motivi, anche per quanto riguarda gli aspetti quantitativi.

Il primo dato che emerge è la recente forte crescita di suolo consumato: meno di venti anni fa, l'ingombro era pari alla metà. Il contraltare di questo incredibile consumo di suolo - che significa distruzione di sistemi idrogeologici e di conseguenza dissesti, oltre che perdita di paesaggio - è costituito dall'abnorme quota di volumi, spesso vuoti che sono stati edificati nella "città diffusa" italiana.

I dati del censimento 2011 mostrano che gli appartamenti inutilizzati sono più di sette milioni: in attesa del dato esatto relativo ai vani, infatti, ipotizzando un'ampiezza media di 2,8 stanze per appartamento, si può stimare una quota di circa 20 milioni di stanze vuote. L'aumento di vuoto nel decennio è stato pari al 350%. I dati conclusivi forniti oggi dall' Istat , sono impressionanti: oggi il numero degli edifici presenti sul territorio nazionale è pari a circa 14,5 milioni per poco più di 31 milioni di appartamenti residenziali. In attesa di avere il dato netto anche su volumetrie e stanze, appare accettabile la stima di OLT (Osservatorio sui Laboratori Territoriali) di almeno di 18 miliardi di metri cubi edificati, di cui 15,5 miliardi (84,3%) residenziali; laddove il fabbisogno nazionale aggregato è di 6,2 miliardi di metri cubi (siamo 62 milioni di persone, includendo una stima molto largheggiante anche degli immigrati non censiti).

Le Regioni meridionali esasperano il quadro nazionale: la Campania presenta circa 1 milione di edifici, di cui 65.000 vuoti e inutilizzati per una popolazione di 5.760.000 abitanti; la Puglia ha 1.100.000 edifici di cui 54.200 vuoti per quattro milioni circa di abitanti; la Basilicata 117.000 edifici di cui 11.700 vuoti per 580.000 abitanti; la Sicilia 1.722.000 edifici di cui 132.000 vuoti per circa 5 milioni di abitanti; la Calabria 1.250.000 alloggi, di cui 420.000 vuoti per poco meno di 2 milioni di abitanti; la Sardegna presenta "solo" 570.000 edifici, di cui 70.000 vuoti o inutilizzati, per 1.640.000 abitanti.

LE CASE NON OCCUPATE IN ITALIA

Il dato relativo agli appartamenti vuoti è strabiliante: quasi un alloggio su quattro è vuoto, con una "punta" presentata ancora dalla Calabria con una quota pari al 40%; seguono Sicilia e Sardegna con circa il 30% del patrimonio abitativo inutilizzato. In Piemonte 1 alloggio su 4 è vuoto, laddove in Veneto e Toscana il rapporto è di uno su cinque circa poco meno del Lazio (22%) e poco più della Lombardia (16%).

Per quanto riguarda le città, in attesa del dato finale, si possono considerare consistenti le proiezioni parziali, che presentano quote di vani vuoti superiori a 100.000 a Torino, Milano e Roma, poco meno a Napoli, decine di migliaia nelle città di Venezia, Padova, Bologna, Firenze e Genova. In diverse città del sud il numero dei vani costruiti supera quello degli abitanti (ancora in Calabria, a Reggio, "il top" con 40.000 stanze in più dei residenti!). In molte aree interne, non solo meridionali, gli edifici sono più degli abitanti. Emerge una considerazione: solo fino a venti anni fa il dato forse più significativo era il rapporto abitanti/stanze. Con il censimento 2001, per l'emergere della "cascata di case", oltre alla rilevanza di aspetti più sociologici, quale la tendenziale forte crescita delle famiglie mononucleari, è apparso consistente parlare in termini di abitante/appartamento. Oggi diventa significativo e iconico il rapporto abitante/edificio! In Piemonte abbiamo poco più di 3 abitanti per edificio, in Lombardia poco meno di 5, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5. Nelle regioni meridionali abbiamo addirittura meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia, 2,5 in Calabria (!), 5 in Campania, 3,2 in Basilicata, poco meno di 4 in Puglia, che è in linea con il dato medio nazionale.

Ci siamo chiesti a lungo perché nel nostro paese si continuasse a costruire, a dispetto del declino demografico (la quota di immigrazione appare tuttora relativa) e socioeconomico. La spiegazione è stata fornita dagli studiosi di marketing immobiliare: da tempo non si costruisce più per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata sempre più in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito. A parte la quota di riciclaggio di capitale illegale, facilmente intrecciata a essa. La schizofrenia delle politiche urbanistiche delle ultime fasi ha largamente favorito tutto ciò, con accelerazioni da parte del presente governo, per cui tutela e attenzione all'ambiente e al paesaggio sono solo declaratio: in realtà si tenta di continuare ad aggirarle per realizzare nuove "Grandi opere inutili" e cementificazioni; come dimostrano lo "Sblocca Italia" e il ddl Lupi, da cancellare subito.

Alberto Ziparo è professore associato in Pianificazione Urbanistica presso l'Università degli Studi di Firenze

«Il turismo di massa reca danni ingenti. La crescita del numero di visitatori e l’abbassamento della loro qualità sono intrinseche all’attuale sistema turistico veneziano. Solo con una politica turistica precisa e innovativa, questo circolo vizioso potrà essere interrotto». La Nuova Venezia, 28 ottobre 2014 (m.p.r.)

È di per sé sicuramente positivo che l’insostenibilità del turismo veneziano faccia nuovamente discutere. Dopo l’ondata di interventi sui giornali di quest’estate, una gara di pateticità decisamente vinta dall’ex assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, che quando “amministrava” era troppo preso a rimuovere panchine per pensare alle grandi navi, si è aperta ora la stagione autunnale delle conferenze dedicate alla gestione dei flussi turistici a Venezia.
Tra queste iniziative spicca quella recentemente organizzata dal Fai all’Ateneo Veneto. L’assoluta assenza di proposte concrete quella mattina era la cosa più clamorosa. Da un sottosegretario, che per ora ha fatto solo dichiarazioni contrastanti, e da un commissario, che ha incredibilmente confermato lo Schettino del management pubblico Marco Agostini alla guida del Comune, non c’era granché da aspettarsi. Ma da personaggi come la direttrice di un centro internazionale di studi sul turismo Mara Manente, che percepisce lo stipendio da dirigente regionale per coordinare un dipendente e mezzo e per studiare il fenomeno turistico, qualcuno si sarebbe aspettato molto di più.
Ha perfettamente ragione, quindi, l’amico Fabrizio Panozzo: basta con gli studi e le ricerche, è arrivato il momento di agire concretamente. In effetti, l’analisi del problema è presto fatta. Da anni i visitatori a Venezia sono molti, probabilmente troppi, e in prevalenza di tipo “mordi e fuggi”. Conseguentemente, l’offerta turistica si è specializzata nel servire principalmente i segmenti di bassa qualità, a ridotto valore aggiunto, che diventano redditizi soltanto quando il numero di turisti diventa enorme.
Il turismo di massa, in particolare quello mordi e fuggi, reca danni ingenti, non solo al sistema socio-economico veneziano ma, alla fine, anche al turismo stesso. Insomma, la crescita inesorabile del numero di visitatori e l’abbassamento della loro qualità sono tendenze intrinseche all’attuale sistema turistico veneziano. Se lasciato all’improvvisazione, il turismo tende a diventare sempre più insostenibile. Solo con una politica turistica precisa e innovativa, questo circolo vizioso potrà essere interrotto. E con questa affermazione arrivo al secondo punto di Panozzo.
Credo che i principali ingredienti di tale politica siano facilmente identificabili. In primis, il governo del turismo veneziano, guidato dal Comune e non delegato ad altri soggetti, richiede una politica turistica multisettoriale, e, in assenza dell’area metropolitana, almeno nelle intenzioni sovracomunale. Il numero chiuso oppure il ticket d’ingresso non sono, per diversi motivi, reali opzioni per gestire il flusso in ingresso. L’unica vera soluzione al problema è la prenotazione. Per chi prenota, Venezia dovrà essere accessibile, facile ed economica; per chi continua a precipitarsi a Venezia, la città dovrà essere parzialmente chiusa (l’Area Marciana, ad esempio), molto difficile e cara.
La prenotazione si veicolerà attraverso una City Card. La City Card avrà un sovraprezzo che, col tempo, sostituirà la controproducente tassa di soggiorno. La gestione dei flussi si poggerà non solo su un innovativo sistema di prenotazione e di monitoraggio dei flussi utilizzando delle tecnologie Ict ormai diffusissime ma, in prospettiva, anche su una revisione dell’intero sistema degli accessi, che comprende anche i terminal di cui si parla da decenni. Speriamo che il prossimo sindaco dedicherà le sue energie per risolvere alcune questioni che tormentano la città lagunare da decenni, tra questi quelle turistiche.
Jan van der Borg è Docente Economia del turismo Ca’ Foscari, Venezia

«Ieri a Ca’ Farsetti la delibera del consiglio comunale. Tre studi molto critici inviati a Roma. Quello elaborato dall’assessorato all’Ambiente e dai dirigenti del Comune, integrato dalle osservazioni - altrettanto critiche - dell’Università di Padova e dal Corila». La Nuova Venezia, 25 ottobre 2015 (m.p.r.)

Una raffica di critiche pesanti. Che demoliscono dal punto di vista procedurale e scientifico la validità della proposta Contorta. Uno studio di cento pagine elaborato dall’assessorato all’Ambiente e dai dirigenti del Comune, coordinati da Andrea Costantini. Integrato dalle osservazioni – altrettanto critiche – dell’Università di Padova con lo studio D’Alpaos, Lanzoni, Defina e dal Corila. Ieri il parere del Comune sullo Studio del Porto per realizzare un nuovo grande canale in laguna è diventato delibera. Approvato in mattinata dal commissario Zappalorto con i poteri del Consiglio comunale.

Il dossier è già stato pubblicato sul sito e inviato al ministero a cui il Comune ha richiesto – vista la «delicatezza del caso» – di integrare la commissione nazionale Via con un rappresentante di Ca’ Farsetti. Ad oggi la commissione del ministero è stata integrata dal dirigente regionale Giuseppe Fasiol, arrestato nello scandalo Mose-Mantovani e poi scarcerato, ma ancora oggi sotto inchiesta. La prossima settimana intanto la Regione ha convocato una riunione congiunta con il Comune per elaborare una sua posizione.
Bocciatura (quasi) senza appello quella protocollata ieri. Pesanti le critiche sulle modalità dello studio. Definito «incompleto» per quanto riguarda i monitoraggi e gli studi sull’effetto degli interventi», scrivono gli esperti. Lunga la lista delle criticità. Le procedure, prima di tutto. Una parte del documento riprende le pesanti critiche già avanzate dal Comune e dall’ex sindaco Orsoni lo scorso anno, culminate con i ricorsi al Tar contro le ordinanze della Capitaneria.
Da chiarire l’impatto del passaggio delle grandi navi, la tutela del sito lagunare considerato «Patrimonio Unesco», l’incompatibilità del traffico civile con quello mercantile nel canale Malamocco Marghera. E poi le violazioni agli strumenti urbanistici in vigore (Pat, Palav e Variante al Prg per le isole minori), l’aumento dell’inquinamento per il lungo percorso di arrivo in Marittima attraverso la laguna (16,2 chilometri). E, infine, la qualità dei fanghi e la tenuta di velme e barene artificiali rispetto all’erosione provocata da navi che stazzano anche 140 mila tonnellate. Pesanti, anche se ristrette al piano squisitamente tecnico-idraulico, le critiche degli ingegneri dell’Università di Padova D’Alpaos, Defina e Lanzoni. «I documenti che accompagnano il progetto sono da considerarsi del tutto inadeguati», conclude lo studio.
«Il nostro non è un parere politico», ha precisato Zappalorto, che alla riunione del Comitatone di agosto si era astenuto, «ma uno studio tecnico che mettiamo a disposizione».

La Repubblica Milano, 26 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Si accumulano le nubi all’orizzonte della Brebemi, l’autostrada di 62 chilometri da Milano a Brescia costruita con i soldi dei privati (sulla carta) e inaugurata appena tre mesi fa. I conti infatti cominciano già a scricchiolare: circolano troppe poche auto rispetto alle previsioni, e le tariffe più care del doppio rispetto alla parallela A4 non bastano a bilanciare le perdite. A rimetterci, allora, saranno i finanziatori dell’opera. Che sono soprattutto pubblici. La Brebemi doveva costare 800 milioni ma alla fine i costi sono lievitati a 2,4 miliardi. Degli 1,818 miliardi di euro di prestiti concessi, infatti, 820 arrivano dalla Cassa depositi e prestiti (cioè il ministero del Tesoro) e 700 dalla Banca europea investimenti (cioè gli Stati della Ue, ma la garanzia la dà Sace Spa, a sua volta in mano al Cassa depositi e prestiti). Le stime per rientrare dai costi erano di 40mila transiti nei primi sei mesi, 60mila dal gennaio 2015. E invece i numeri (ufficiosi) dicono altro: meno di 20mila accessi giornalieri. Non a caso i bandi per aprire le due stazioni di servizio previste sono andati deserti. Ora Brebemi chiede un ulteriore aiuto allo Stato, con un maxi sconto da mezzo miliardi di euro sulle tasse e altri dieci anni di concessione autostradale, arrivando così a trenta.

L’autostrada di 62 chilometri costruita con i soldi dei privati, si era detto. Il cosiddetto “project financing”. La realtà e un po’ diversa e soprattutto — tre mesi dopo l’apertura del collegamento parallelo alla A4 tra Milano e Brescia — i conti cominciano già a scricchiolare: troppe poche auto rispetto alle previsioni, e le tariffe più care del doppio rispetto alla A4 non bastano a metterci una pezza. E se non ci sono e continueranno a non esserci abbastanza “clienti” chi ci andrà a rimettere? Di sicuro i finanziatori. Che sono soprattutto pubblici. Degli 1,818 miliardi di euro di prestiti, infatti, 820 arrivano dalla Cassa depositi e prestiti (cioè il ministero dell’Economia) e 700 dalla Banca europea investimenti (cioè gli Stati della Ue, ma è stata la Sace Spa a fare da garante, che a sua volta è in mano alla Cassa depositi e prestiti, a sua volta...).

La vicenda è complicata ma per rendersi conto che le cose non siano partite per il verso giusto — e rischiano di finire peggio — basta andarsi a vedere quant’è costata l’opera. Le previsioni parlavano di 800 milioni di euro di spesa. Il conto finale si è triplicato: 2,439 miliardi di euro, interessi compresi. Ogni chilometro di asfalto è costato 38 milioni di euro. Per ripagare il costo, la società di progetto (composta da banche con Intesa in primis, società autostradali, costruttori con Gavio in testa, camere di commercio, comuni e province) ha puntato tutto su una concessione ventennale e relativi introiti del pedaggio con un ipotetico guadagno dalla vendita alla fine del periodo. Le stime per rientrare almeno dai costi erano di 40mila transiti nei primi sei mesi, 60mila dal gennaio 2015. E invece i numeri (ufficiosi) dicono altro: meno di 20mila accessi giornalieri, e per di più limitati a una sola parte del tracciato; la utilizzano più che altro i pendolari, insomma. E non a caso i bandi per aprire le due stazioni di servizio previste sono andati deserti: il merverno: cato tra auto e tir, insomma, aveva (e ha) già emesso sentenza.

Di sicuro le banche private si erano già tutelate in anticipo. Perché è vero che hanno anche investito di tasca propria, ma contemporaneamente ci hanno guadagnato. Infatti il miliardo e mezzo di finanziamento pubblico non è andato direttamente alla società, ma è passato prima dal consorzio di banche dietro il progetto (Intesa, Unicredit, Mps, Centrobanca e Credito Bergamasco) che a sua volta lo ha rigirato a Brebemi Spa ad un tasso più elevato, un bel 7,8 per cento. Adesso si prova a correre ai ripari, chiedendo però un ulteriore intervento pubblico al go- una defiscalizzazione da 490 milioni di euro per Iva, Ires e Irap, che per il momento e nonostante il pressing che arriva da più parti il ministero dell’Economia non se l’è sentita di firmare; e in aggiunta, un allungamento di ulteriori dieci anni della concessione.

«La verità — dice Eugenio Casalino del M5S — è che il progetto era insostenibile e l’opera irrealizzabile nonché inutile. Solo la provvista a tasso agevolato e l’eventuale defiscalizzazione statale renderanno l’opera una grande occasione. Per i privati però». L’altro tema, poi, è quello legato al conflitto di interessi di Francesco Bettoni, presidente di Brebemi. «Chiede prestiti alle banche per realizzare la A35 — spiega Dario Balotta di Legambiente — e poi li concede come consigliere di Ubi. Decide di espropriare oltre un centinaio di aziende agricole, espropri che hanno fatto lievitare i costi dell’opera, e allo stesso tempo è uno dei maggiori esponenti nazionali e locali del mondo agricolo. Progetta nuove autostrade e contemporaneamente amministra alcune di quelle esistenti». Accuse alle quali Bettoni ha risposto dicendo di aver sempre operato nel rispetto della legge. Resta da capire cosa succederà in caso di bancarotta, o di restituzione della concessione. Su chi ricadranno i debiti? Il contratto di concessione è secretato, per cui non esiste una risposta certa. Anche se il sospetto è semplice: pagheranno i contribuenti, ancora una volta.

postilla
Val la pena ribadire ancora una volta come tutte queste critiche continuino a non tener conto della promessa del governatore padano Maroni, erede delle celesti strategie del suo predecessore, di finire il lavoro. Ovvero che quanto vediamo oggi, corsie vuote e bilanci ancor più desolati, altro non è se non una fase di passaggio, verso un futuro in cui “completati i cantieri” il sistema andrà a regime, magari inventandosi nuove mete per tutti i necessari flussi di viaggiatori paganti, se la Milano e Bergamo e Brescia della sigla non sono sufficienti. Che dire dei tanti nodi e poli e attività, ampiamente previsti nei piani locali, e che potrebbero pompare auto e camion sulle corsie oggi quasi intonse? Possibilissimo sia già all'opera la squadra dei sofisti della domenica, sociologi farlocchi o critici d'arte spericolati o sindacalisti di territorio locale, a coniare i neologismi del futuro: il villaggio della decrescita commerciale, la città nuova dell'economia, le fattorie verticali padane. Ce n'è per tutti i gusti: tutto naturalmente sostenibile, a misura d'uomo e anche resiliente, se gli intellettuali a ore hanno già imparato la nuova parolina. Del resto, per chi ha già definito l'altra autostrada un "parco lineare" senza battere ciglio, non c'è problema. L'importante è proseguire con lo sviluppo del territorio, il resto viene da sé (f.b.)

«Gestire un’autostrada è attività molto semplice e senza rischi imprenditoriali. Tutti gli interventi sono stati finanziati a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Eppure, attraverso le proroghe si perpetuano le rendite per le società concessionarie. Investimenti pagati due volte dai cittadini». La voce info, 24 ottobre 2014

I “REGALI” AI CONCESSIONARI

Lo Stato francese, dopo aver incassato 15 miliardi nel 2005 dalla privatizzazione delle principali concessioni autostradali, si accorge oggi di aver fatto un pessimo affare, tanto che il sottosegretario al bilancio Christian Eckert ha dichiarato che gli altissimi profitti delle concessionarie sono “immorali se non illegali”.

In Italia ci si appresta invece a fare enormi “regali” alle concessionarie, senza introiti per lo Stato, occultando questi benefici sotto la veste di proroghe, previste dall’articolo 5 del decreto sblocca Italia. C’è scarsa opposizione nell’opinione pubblica (o nel parlamento) perché pochi si rendono conto di quanto valga per una concessionaria la proroga della concessione.

Possiamo fare una stima proiettando la differenza tra ricavi e costi operativi (Mol, milioni) realizzati nel 2013 per gli anni di proroga che il Governo sembra intenzionato a concedere:

INVESTIMENTI PAGATI DUE VOLTE

I pedaggi continueranno poi a crescere nel tempo oltre i livelli del 2013 per l’inflazione e altri fattori e con essi continuerà a crescere anche il Mol; quindi le stime di cui sopra possono considerarsi una buona approssimazione del valore attuale dei maggiori flussi di cassa ottenuti grazie alle proroghe.

È una cifra imponente, circa 16 miliardi, quasi la metà della manovra annunciata da Matteo Renzi. Solo una piccola parte di questi flussi di cassa serviranno a coprire i costi degli investimenti già effettuati e non ancora ammortizzati. Per il resto, il beneficio della proroga viene giustificato dal Governo come compenso per i nuovi investimenti, circa 11 miliardi, che le concessionarie si sarebbe impegnate a fare. Pare però che il beneficio delle proroghe superi di gran lunga il costo dei nuovi investimenti, tanto più che, poi, quando si realizzano, i pedaggi vengono aumentati per coprirne i costi: finiamo per pagare due volte il costo degli investimenti, prima con le proroghe e poi con gli incrementi di pedaggio?

Alle concessionarie viene assicurato un rendimento molto elevato, 9-10 per cento (almeno), sul capitale investito, ma qual è il loro ruolo e quale il loro contributo che giustifichi tale redditività? Gestire un’autostrada è attività molto semplice: non occorre cercarsi clienti né temere concorrenza o innovazioni tecnologiche. Non ci sono rischi: nemmeno il forte calo di traffico degli ultimi anni ha ridotto i loro profitti. Gli azionisti non hanno poi mai versato in passato capitali nelle società concessionarie se non per importi irrisori, né prevedono di versarne in futuro. Tutto è stato finanziato a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Anche i nuovi investimenti di cui si parla verranno interamente finanziati dalle concessionarie con i margini man mano accumulati o con crediti ottenuti grazie ai flussi sicuri dei pedaggi e alla certezza che le tariffe verranno comunque adeguate per garantire il livello dei profitti pattuito. Non pare quindi che le concessionarie svolgano un ruolo che giustifichi la perpetuazione di rendite a loro favore.

Lo Stato potrebbe, alla scadenza delle concessioni, affidarle senza gara a una società pubblica emanazione dell’Anas o di Cdp reti, senza dover remunerare così generosamente alcune società private e assicurando altri benefici per la collettività, come gare per le costruzioni aperte senza preferenze per le controllate delle concessionarie. Si dice che ciò sarebbe oneroso per i prezzi di subentro da versare alle concessionarie a fine concessione per investimenti effettuati e non ancora ammortizzati. Ma a fronte di questi costi le concessionarie hanno debiti che potrebbero semplicemente passare a carico della società pubblica, che sarebbe in grado di rimborsarli con i proventi dei pedaggi, esattamente come fanno le concessionarie. Con l’unbundling la società pubblica potrebbe subappaltare con gare i vari servizi (esazione, manutenzione) alle società più efficienti, magari alle stesse ex concessionarie, senza dar vita a nuovi carrozzoni di Stato. Anche l’Autostrada del Sole fu costruita tutta a debito creando un patrimonio pubblico poi monetizzato dall’Iri.

Se venissero concesse le proroghe previste (ancora subordinate all’approvazione da parte della Commissione europea) tutta la rete autostradale italiana verrebbe “ingessata” con concessioni non più alterabili per trenta-quaranta anni e finiremmo ben presto di rammaricarcene, come avviene oggi in Francia, ma senza poter nulla cambiare se non violando i contratti con misure retroattive. Come succede oggi dopo l’altra follia dei sussidi alle energie rinnovabili.

CHI DECIDE LE PRIORITÀ?

C’è poi il problema delle scelte di priorità degli investimenti, che sembrano decisi più dalle concessionarie che li propongono che dal potere pubblico. Un buon esempio è la E45, 400 chilometri da Orte a Mestre, una delle poche arterie con due corsie per parte e senza pedaggio. Ampliare le carreggiate e costruire una corsia d’emergenza con un costo di circa 10 miliardi non parrebbe un progetto prioritario per il paese, considerando che oggi la strada è ampiamente sufficiente per il traffico (vi sono ingorghi solo per lavori di manutenzione). Ma c’è una società di progetto che preme da anni per trasformarla in autostrada – cioè per fare quegli investimenti che giustificherebbero l’introduzione del pedaggio e quindi la trasformazione di un’arteria stradale in un nuovo, profittevole (sperano) “affare”. E il Governo sembra intenzionato ad agevolarli, avendo previsto, all’articolo 4 del decreto sblocca Italia, la possibilità di concedere la defiscalizzazione con un beneficio di circa 2 miliardi per la società di progetto della Orte-Mestre.

Prima di impegnare risorse pubbliche in quello che pare un altro investimento a redditività sociale scarsa o negativa meriterebbe che fosse resa pubblica una convincente analisi costi-benefici e che si effettuasse anche un sondaggio tra gli attuali utenti dell’arteria per chiedere loro se preferirebbero viaggiare su carreggiate un po’ più ampie con corsia di emergenza, ma pagando un elevato pedaggio oppure mantenere la situazione attuale. Gli investimenti dovrebbero essere intesi ad accrescere i benefici per gli utenti o i profitti degli investitori?

Una legge per il contenimento del consumo di suolo, che (roba da matti) invece di stabilire cosa lo è e cosa no, prevede «criteri che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo». Articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra. La Repubblica, ed. Milano, 24 ottobre 2014 (f.b.)

Nuove costruzioni nessun vincolo per almeno tre anni
di Andrea Montanari

Accordo fatto nella maggioranza di centrodestra che governa la Regione Lombardia sulla nuova legge sul consumo del suolo. Ridimensionato il progetto dell’assessorato regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi (FdI) che prevedeva restrizioni anche retroattive. Il vincolo scatterà solo tra tre anni. I progetti già previsti nei piani di governo del territorio dei Comuni potranno andare avanti. Vincolati solo i terreni agricoli, ma solo se non sono già destinati ad edificazioni. Il via libera del Consiglio regionale è previsto a metà novembre.

Restrizioni non più retroattive, tre anni di tempo per Comuni e costruttori per adottare le nuove regole e approvare i progetti attuativi e vincoli solo sui terreni agricoli sui quali non siano ancora previste destinazioni edificatorie. L’accordo raggiunto a fatica nella maggioranza di centrodestra sulla nuova legge sul consumo del suolo che sarà illustrato oggi al Pirellone, a prima vista, appare una netta vittoria della lobby dei costruttori, che avevano alzato le barricate contro l’iniziale testo molto restrittivo portato in giunta dall’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi, di Fratelli d’Italia, nell’ormai lontano febbraio di quest’anno. Un compromesso raggiunto dopo mesi di liti, veti incrociati, che per l’immediato dovrebbe impedire esclusivamente nuove varianti per cambiare la destinazione d’uso dei terreni attualmente agricoli. Ma solo per il futuro.

I fautori del nuovo testo spiegano che si è voluta evitare una pioggia di ricorsi e contenziosi con le imprese di costruzione, se fosse stato approvato il vecchio progetto di legge, che di fatto stabiliva il blocco totale al consumo di nuovo suolo sul territorio lombardo. Un divieto che a questo punto dovrebbe scattare tra tre anni. Nel frattempo, da un lato i Comuni dovranno adeguarsi alle nuove regole senza dover riapprovare i loro Pgt. Mentre le imprese di costruzione potranno verificare se i loro progetti già previsti saranno ancora in linea con la domanda di abitazioni e nuovi edifici. Inoltre, entro un anno la Regione approverà il nuovo Piano territoriale regionale che conterrà le nuove regole nel dettaglio.

La nuova legge sul consumo del suolo, infatti, non dovrebbe più contenere i limiti volumetrici che erano previsti nel primo testo approvato dalla giunta, per sostituirli con «criteri» che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo. Determinante per raggiungere il nuovo accordo la mediazione di Forza Italia e Nuovo centrodestra, visto che finora erano stati presentati ben quattro progetti di legge differenti. Non è difficile immaginare, però, la delusione delle associazioni ambientaliste. Ora il nuovo testo dovrà iniziare l’iter per l’approvazione in commissione Territorio prima di approdare in Consiglio regionale a metà novembre.

La colata di cemento sul bacino del Seveso
di Ilaria Carra

Il comune di Varedo è uno dei casi più emblematici. Negli ultimi dieci anni la superficie urbanizzata, in questa cittadina della bassa Brianza, è cresciuta del 10 per cento, salendo così al 67. Capannoni, edifici pubblici, abitazioni private, parcheggi: in una parola, cemento. Ma nello stesso periodo, i nuovi abitanti sono aumentati “solo” del 2,5 per cento. OGNI nuovo cittadino, cioè, ha occupato idealmente mille metri quadri di terreno, spesso per farci una villetta con giardino, che prima era libero. Una sproporzione netta, per gli esperti, tra il consumo di suolo e le esigenze demografiche. Non è un caso isolato, questo, tra i vari comuni lungo il bacino del Seveso, il fiume maledetto che in 140 anni ha causato 350 allagamenti, l’ultimo l’8 luglio portando in dono oltre venti milioni di danni anche a Milano città. E quanto si è costruito in questi comuni è tutt’altro che secondario in questa partita.

Il ragionamento è questo: un terreno vuoto fa da spugna. Un dato per capire: un ettaro di prato è in grado di assorbire 3,8 milioni di litri di acqua, una quantità pari a una pioggia di 400 millimetri. Lo stesso ettaro, se urbanizzato, non solo non trattiene nulla ma produce anche un costo sociale di 6.500 euro ogni anno. Perché se l’acqua, quando piove, non s’infiltra nel terreno perché incontra ostacoli di qualsiasi natura — da un capannone a un edificio fino a un parcheggio asfaltato — il flusso scorrerà e riempirà più velocemente il fiume, nella fattispecie il Seveso, che strariperà prima. Tocca dunque alle amministrazioni governarne il flusso, ovvero farsi carico del drenaggio che non avviene in modo naturale causa cemento.

La fotografia dei livelli di urbanizzazione la scatta il Politecnico, che da anni assieme a Legambiente ha una squadra di esperti incaricata proprio di studiare gli effetti sull’ambiente del consumo di suolo. E lungo l’asse del Seveso sono visibili a ogni esondazione. È qui che si arriva a picchi di 80 per cento di territori costruiti, specialmente a valle, nei comuni verso Milano. Bresso su tutti, ma anche Bovisio Masciago, Cinisello Balsamo. Ma ci sono anche comuni del Comasco di pochi abitanti, come Montano Lucino, dove si continua a costruire ben oltre la necessità demografica.

«Se i terreni attorno al bacino del Seveso vengono progressivamente impermeabi-lizzati, una quantità maggiore di acqua arriva nel fiume in un tempo inferiore — spie- ga Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale ambientale al Politecnico —. L’acqua va dove vuole e contribuisce alla formazione delle piene: il fiume è come un registratore, ci sono stati comportamenti urbanistici fuori controllo sia a monte sia a valle dell’asse del Seveso». Tradotto, si è costruito troppo. Lo pensa anche il ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti, che tre giorni fa, dopo la presentazione del maxi progetto per contenere il Seveso per il quale il governo promette di sborsare 140 milioni, diceva che «le cause dell’attuale condizione di dissesto idrogeologico, e si pensi, per stare sull’attualità, ai fiumi Seveso, a Milano, e Bisagno, a Genova, vanno ricercate anche nell’eccessivo consumo di suolo dovuto alla speculazione edilizia e all’urbanizzazione senza regole che hanno trasformato radicalmente la morfologia dei suoli».

... e intanto nella padania che nutre il pianeta ...

«RottamaItalia. Il governo rischia una procedura d'infrazione europea per l'articolo 5 del decreto che regola le concessioni autostradali. La denuncia di Altreconomia: "L'obiettivo dell'articolo pare solo uno: fare in modo che il rinnovo delle concessioni non sia mai messo a gara, una gara europea"». Il manifesto, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)



Il governo Renzi rischia una pro­ce­dura di infra­zione da parte dell’Unione Euro­pea per la norma sulle con­ces­sioni auto­stra­dali con­te­nuta nel decreto Sblocca Ita­lia. Bru­xel­les ha aperto una pre-procedura di infra­zione il 17 otto­bre scorso sull’articolo 5 del decreto, attual­mente in discus­sione alla Camera, e chiede all’esecutivo di spie­gare la norma che per­mette ai con­ces­sio­nari auto­stra­dali di pro­porre la modi­fica dei rap­porti con­ces­sori esi­stenti sulla base di nuovi piani economico-finanziari. L’articolo 5 era già cri­ti­cato nei giorni scorsi dell’Autorità dei tra­sporti e dall’Antitrust. La prima ha par­lato di «un ritorno a pro­ce­dure del pas­sato incen­trate sulla deter­mi­na­zione in via ammi­ni­stra­tiva di canoni, pedaggi e tariffe di accesso alle infra­strut­ture di tra­sporto». L’Antitrust ha sol­le­vato dubbi di anticoncorrenzialità.

In maniera più argo­men­tata, l’ebook «Rot­ta­maI­ta­lia» pub­bli­cato da Altre­co­no­mia ha denun­ciato il «comma Orte-Mestre», la mega-autostrada che il mini­stro Lupi intende costruire. La norma impe­di­sce il rin­novo delle con­ces­sioni mediante una gara. Il «mer­cato» delle auto­strade resterà così in mano ai mono­po­li­sti. Bru­xel­les ha deciso di agire in nome del «libero mer­cato» e con­ferma: tra le tante misure con­te­state di un prov­ve­di­mento che dà il via libera a tri­vel­la­zioni, cemento, spe­cu­la­zioni immo­bi­liari e finan­zia­riz­za­zione del patri­mo­nio e del ter­ri­to­rio, l’articolo 5 sulle con­ces­sioni auto­stra­dali sem­bra con­sen­tire la rea­liz­za­zione di «signi­fi­ca­tive modi­fi­che» ai con­tratti di con­ces­sione esi­stenti riguar­danti lavori nell’ambito del rap­porto con­ces­so­rio e livello delle tariffe. Insomma, il governo Renzi non sta­rebbe affatto libe­rando gli «spi­riti ani­mali» del capi­ta­li­smo tra­di­zio­nale — quello del cemento e quello che costrui­sce auto­mo­bili. Nei fatti sta favo­rendo i mono­po­li­sti del set­tore. Non solo, rischia anche di vio­lare la legi­sla­zione comu­ni­ta­ria in mate­ria di appalti pubblici.

Lo sco­glio sul quale si sono andati a inca­gliare Renzi e il mini­stro dei tra­sporti Mau­ri­zio Lupi non è indif­fe­rente. Lo atte­sta anche un emen­da­mento allo Sblocca Ita­lia intro­dotto in com­mis­sione Ambiente alla Camera: per la pro­roga delle con­ces­sioni auto­stra­dali ser­virà il via libera dell’Unione euro­pea. Un giu­di­zio nega­tivo sull’intero dise­gno di legge per la con­ver­suione del decreto legge è arri­vato anche dalla Con­fe­renza delle Regioni. I gover­na­tori chie­dono tra l’altro il ripri­stino del con­tri­buto di 560 milioni di euro per il riparto delle risorse del sistema sani­ta­rio nazio­nale nel 2014. Come denun­ciato dal coor­di­na­mento uni­ver­si­ta­rio Link, que­sto taglio si sca­ri­cherà sul finan­zia­mento delle borse di stu­dio, oltre che sui disa­bili. Non meno caldo è il fronte poli­tico che ha visto la dura oppo­si­zione del Movi­mento 5 Stelle, oltre che con­vo­ca­zione di una mani­fe­sta­zione nazio­nale il 7 novem­bre a Bagnoli nell’ambito della cam­pa­gna «Blocca lo Sblocca Ita­lia». Ieri il depu­tato Pippo Civati ha riba­dito l’intenzione di votare con­tro lo Sblocca Ita­lia: «Sarà una buona pale­stra, con­tiene cose che non vanno». Sabato sarà in piazza a Roma con la Cgil. «È una mag­gio­ranza che ha fatto qual­cosa che non era nel pro­gramma per il quale siamo stati votati».

«La città dei Sassi è l’unico capoluogo tagliato fuori dalla rete Fs Dal 1986, data di inizio dei lavori, si sono sprecati 270 milioni. Un progetto nato male e finito peggio». La Repubblica, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)

Matera. Per le Ferrovie dello Stato Matera non esiste. Cancellata. Il nome della futura capitale europea della cultura non appare in nessun tabellone delle partenze. Non viene mai pronunciato dalla voce metallica degli speaker nelle stazioni. Inutile pure cercarlo tra le destinazioni sul sito di Trenitalia dove si comprano i biglietti online: “Nessuna soluzione trovata”. La città dei Sassi, il patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, è l’unico capoluogo d’Italia tagliato fuori dalla rete ferroviaria nazionale. Benvenuti a Matera, dove il binario che non c’è porta alla stazione mai aperta. Questa che da altre parti suonerebbe come un paradosso, una frase ad effetto, qui è la realtà.

Perché uno scalo targato Fs, Matera, ce l’ha. Basta scendere in località “la Martella”, a pochi minuti dal centro, per goderselo in tutta la sua incompletezza. Centinaia e centinaia di metri quadrati di piazzale, l’ipotetico parcheggio, nel mezzo del quale si erge la stazione rivestita in pietra: le porte sono murate, le pensiline cadono a pezzi, nei due solchi per i binari crescono sterpaglie alte due metri. Abbandonata e in rovina. Presenza ormai accettata dai 60mila materani, che tra cinque anni vedranno arrivare, quasi tutti in macchina o in pullman, almeno 5 milioni di turisti.
Già così, fa male. E però dallo scalo mai aperto si allunga una lingua di cemento di 29 chilometri, che passa davanti alla Cripta del Peccato Originale sfregiandone la bellezza, attraversa colline su ponti con pilastri di trenta metri e campate di acciaio, taglia tutta la valle del Basento con una cicatrice di calcestruzzo, si infila in una galleria lunga 11 chilometri sotto il bosco della Manferrana fino a sbucare a Ferrandina. Un vilipendio alla Basilicata che rimarrà tale, perché dal 1986, data di inizio lavori, le Fs non sono state in grado di completare l’opera con rotaie e cavi elettrificati. Dunque la linea che doveva collegare Matera e creare un corridoio fino a Napoli, è rimasta incompiuta.
«Un progetto nato male e finito peggio», sostiene Pio Acito, architetto di Legambiente, che ha seguito la storia maldestra della Ferrandina- Matera fin dalla sua genesi. «Già allora pareva inutile, perché poco fruibile. Sarebbe stato meglio seguire un percorso diverso, collegare Metaponto sullo Ionio allo snodo di Foggia, passando per Matera». I lavori sono andati avanti a passo di lumaca: le aziende ingaggiate fallivano una dopo l’altra, per colpa degli eccessivi ribassi nelle gare d’appalto. La costruzione della galleria Miglionico, scavata nel terreno argilloso e resa fragile da gas sotterranei, fu un disastro e comportò un incremento di spesa di decine di miliardi di lire e il giorno del varo del ponte di ferro sul fiume Bradano la struttura si piegò. «Costò alle casse pubbliche 115 miliardi di vecchie lire», ricorda Acito. Secondo altri calcoli, la spesa complessiva della Ferrandina- Matera ammonta a 530 miliardi di lire (270 milioni di euro).
Nel 2007 la ferrovia morta sembrò risorgere, ma fu un fuoco di paglia. La regione Basilicata e il ministero delle Infrastrutture conclusero un accordo per completarla, «entro il 31 dicembre 2008» con i fondi delle aree sottosviluppate. Non si è mossa una ruspa. Ormai era evidente a tutti che fosse un affare in perdita. Le Fs hanno recentemente dichiarato che per completare l’opera servirebbero altri 150 milioni di euro, che non hanno. Aggiungendo una frase che sa di epitaffio: «Per questo progetto al momento tutti i lavori sono sospesi ».
Matera non avrà i convogli di Trenitalia entro il 2019, quando vestirà i panni della capitale europea della cultura. Forse non li avrà mai. «Non ci interessa nemmeno più quel rudere di stazione — sbotta Nino Paternoster del comitato Matera2019 — abbiamo in programma 600 milioni di euro di investimenti in infrastrutture, raddoppieremo le corsie della strada che porta a Bari, allargheremo le due statali che vanno a Gioia del Colle e Ferrandina. Le navette con l’aeroporto Bari Palese al momento sono tre, ma le faremo diventare quindici, copriranno la distanza in 50 minuti. E poi i treni, Matera, ce li ha già».
È vero. Sono i vecchi Fiat diesel a due e quattro vagoni delle Fal, le Ferrovie Appulo Lucane (di proprietà del ministero dei Trasporti) che arrancano fino al capoluogo, tra olivi e mandorli, su un binario a scartamento ridotto, uno dei pochi che non è stato smantellato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu inaugurato nel 1915. Difficile immaginare che la gran massa di turisti arriverà a bordo di quei trenini, se non cambieranno le cose. Attualmente ce ne sono solo 13 che, nell’arco della giornata, servono Bari e Matera. Ci mettono un’ora e 40 per fare una settantina di chilometri, fanno 15 fermate, nelle ore di punta molti passeggeri devono stare seduti a terra o in piedi nel corridoio. E c’è da sperare pure di trovarsi nella parte giusta del convoglio, perché ad Altamura il trenino si divide in due, la testa va a Matera, la coda a Gravina. Alle biglietterie è vietato pagare con carte di credito e bancomat: accettano solo i contanti (9,80 euro andata e ritorno).
«È la ferrovia calabro- lumaca — scherza Giuseppe Appella, creatore e direttore del Musma, il museo della scultura contemporanea — abbiamo un problema di accessibilità, è vero. Ma mancano ancora cinque anni, e non è il caso di lamentarsi per la stazione delle Fs mai aperta. Le Fal, ad esempio, possono diventare una sorta di “metropolitana” molto efficiente, se aumenteranno le corse». Intanto però non fanno servizio su rotaia di domenica e nei festivi. Suppliscono con i pullman. Quello da Potenza delle 14.24, per dire, ci mette 3 ore e 55 per arrivare a Matera e prevede 4 cambi. Insomma, la capitale europea è fatta, il problema ora è portarci l’Europa.

«Una delle prime cose che abbiamo dovuto imparare quando siamo entrati in Parlamento è che in politica bisogna distinguere quello che si dichiara di voler fare da quello che si intende fare davvero». Corriere della Sera, 19 Ottobre, 2014

Forse possiamo dare un piccolo aiuto per chiarire lo stupore di Sergio Rizzo sulla stasi della legge «anticemento». La ricostruzione del giornalista (Corriere 6 ottobre) è corretta: le proposte di legge finalizzate a fermare il consumo di suolo sono incomprensibilmente arenate nelle commissioni parlamentari. Eppure il tema sembra condiviso dalla stragrande maggioranza delle forze politiche in Parlamento. Una delle prime cose che abbiamo dovuto imparare quando siamo entrati in Parlamento è che in politica bisogna distinguere quello che si dichiara di voler fare da quello che si intende fare davvero. Alla prima categoria appartengono le iniziative finalizzate alla ricerca del consenso (pubblicizzandole preferibilmente negli ambiti dove riscuotono maggiore interesse), mentre alla seconda categoria appartengono atti concreti e per i quali si cercano corsie preferenziali.

Non è un caso che sul consumo del suolo la nostra proposta di legge (certo la più determinata e la meno ambigua tra quelle depositate) abbia incontrato molte difficoltà ed era stata persino esclusa dall’assegnazione alle commissioni riunite, forse proprio perché affermava in modo inequivocabile la volontà di non consumare nuovo suolo agricolo, ed era stata abbinata al «binario morto» della commissione ambiente. Siamo stati costretti a riformularla e a presentarla nuovamente, in modo da essere presenti con una nostra proposta nel dibattito su un tema che ci è caro.
Nei mesi di attesa che l’iter del provvedimento proseguisse, abbiamo avuto il sospetto che quella della tutela del territorio e del suolo non fosse una priorità per questo governo e per questa maggioranza. Un sospetto che è diventato certezza quando, quest’estate, è stata anticipata la proposta Lupi sull’urbanistica ed è stato depositato il decreto legge sblocca Italia. Due provvedimenti che grondano asfalto e cemento e che sono chiaramente incompatibili anche con la più blanda delle proposte ferme in commissione. La linea politica del governo e della maggioranza guidata dal Pd sembra «in profonda sintonia» con l’equazione «crescita=cemento» che ha caratterizzato la politica berlusconiana dei condoni e della deregulation urbanistica. Ci piacerebbe solo che, per coerenza, il governo e le forze di maggioranza ritirassero le loro proposte di legge sul consumo di suolo. La linea politica di questo esecutivo, anche su questo, ha cambiato verso.

Massimo De Rosa, M5S, è vicepresidente Commissione ambiente alla Camera dei Deputati

«Suona offensiva l'offerta dell'Autorità Portuale per barene in altre zone della laguna, «a compensazione» delle negatività dell'intervento: si avalla il principio che per fare interventi di ripristino della laguna è necessario demolirne una parte». Corriere del Veneto, 21 settembre 2014 (m.p.r.)
Quello che è accaduto a Genova e in Liguria è uno dei tanti segnali del mutamento in atto dei fenomeni meteorologici e, contemporaneamente, di quanto nei decenni passati si sia operato seguendo logiche di ottuso saccheggio dei territori e delle città. Che ciò possa preoccupare per una città fragile e «anomala» come Venezia non sembra un esercizio a cui poterci sottrarre ricorrendo a qualche scongiuro.
Su Venezia e sulla sua laguna si sa quasi tutto; sarebbe dunque possibile fare di queste conoscenze la base fondativa delle scelte politiche. Queste ultime seguono invece una deriva frutto di iniziative lobbistiche, di interessi auto referenziali, di visioni settoriali. E nel vuoto tra politica e conoscenza allignano le pratiche della disinformazione e della corruzione. La violenza (anche recentissima) dei fenomeni atmosferici nell'ambito lagunare si manifesta in un quadro di vera e propria emergenza idrogeologica e ambientale: il sistema lagunare ha perduto negli ultimi 40 anni circa 6o kmq di barene e, a seguito dello scavo del Canale Malamocco-Marghera, ha subito lo svuotamento dei sedimenti della laguna centrale che aveva bassi fondali di 25-40 cm. ed è ora uno specchio d'acqua continuo di 150-200 cm. di profondità.
Questa condizione, assieme all'aumento della profondità dei canali marittimo-portuali e delle bocche di porto, ha comportato un aumento delle velocità delle correnti di marea, dell'effetto del moto ondoso da vento e dei volumi d'acqua che passano per le bocche di porto, ingenerando a loro volta imponenti processi erosivi. In questo contesto ha le sue radici «politiche» la questione delle maxinavi crocieristiche e lo scontro in atto attorno alla realizzazione del nuovo canale Contorta Sant'Angelo. Un canale, come noto, lungo 5 km, largo 160 m e profondo 10,50 m. che si innesta nel Canale dei Petroli con tre conseguenze allarmanti: ne incrementa il traffico di maxi-navi e quindi l'azione devastante della laguna centrale; porta di necessità al suo allargamento per avere le stesse condizioni di sicurezza stabilite come necessarie per il Contorta Sant'Angelo; consente la realizzazione di un «condotto» continuo tra la bocca di porto di Malamocco, e quella di Lido attraverso il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco, già oggi interessati dalle più veloci correnti di marea in area urbana. Se poi volessimo tener conto dell'innalzamento del livello del mare, della frequenza e della violenza annunciata (e già sperimentata) delle alte maree... e di ciò che succederà con l'attivazione del Mose.
In questo quadro suona veramente offensiva l'offerta economica dell'Autorità Portuale di ca. 70m1/ € e la relativa disponibilità dei fanghi scavati per il nuovo canale, per realizzare nuove barene in altre zone della laguna, «a compensazione» delle negatività dell'intervento: si avalla con ciò il principio nefasto che per fare interventi di ripristino ambientale della laguna è necessario demolirne una sua parte.
Gianni Fabbri è docente IUAV

Ecco cosa direbbe il Piano morfologico della Laguna di Venezia se avesse concluso il suo iter approvativo e se fosse corredato di una struttura adeguata di tecnici ed esperti per la sua gestione e monitoraggio. 16 ottobre 2014, con postilla (m.p.r.)

Note sulla valutazione di impatto ambientale (Via) e allegati relativi a «Adeguamento dell’attuale Canale Contorta S. Angelo e suo impiego da parte delle navi da crociera per raggiungere la stazione Marittima dalla Bocca di Malamocco»

Premessa
La presente nota, dopo una breve riflessione sull’utilità dell’esercizio valutativo, commenta gli elaborati prodotti in sede di Valutazione di impatto ambientale (Via) commissionata dall’Autorità Portuale di Venezia (Apv) a diversi esperti. Circa l’utilità dell’esercizio si rileva come esso sia più ancorato a strategie pregresse che a scenari di lungo periodo, operi in un limitato dominio comparativo e non sia dotato di sufficienti gradi di indipendenza.

Il commento degli elaborati si limita agli aspetti più rilevanti. Inizia con le simulazioni delle frequenze di accesso e degli effetti idrodinamici e morfologici, realizzate con modellistica specifica per ottimizzare tracciato e geometria del canale e minimizzare i rischi. Prosegue con gli impatti ambientali per matrice e propone alcuni rilievi su pianistica, paesaggio e potenziale/rischio archeologico.

Scenari, tempo e terzietà
Per consentire una valutazione informata del Progetto, la Via dovrebbe operare all’interno di scenari di riferimento plausibili, con funzioni valutative articolate e rispetto a diverse dimensioni temporali. Queste prerogative sono dovute al fatto che la Via ha una ‘missione’ diversa dal Progetto, proprio in ragione del suo ruolo ‘costruttivo’.

La Via dovrebbe osservare il Progetto da una ‘posizione’ terza, nell’ottica del contrasto ai processi di erosione e di depauperamento degli habitat lagunari. Su questi processi esiste un notevole archivio, alimentato da ricerche, monitoraggi tematici o di accompagnamento a progetti morfologici e/o ambientali. Si tratta di documentazione spesso di rilevante valore scientifico che non può essere trascurata. Date le caratteristiche del progetto, la Via dovrebbe assumere due stati di riferimento: uno precedente la costruzione del canale Malamocco-Marghera e uno attuale (al 2014, con e senza Mose).

Rispetto a questi due stati di riferimento (il secondo declinabile in opzione A e B) dovrebbero essere simulati gli effetti del Progetto per evidenziare natura, intensità, interazione, spazialità e temporalità degli impatti ambientali che, com’è noto, riguardano componenti naturali e artificiali della laguna. Per trattare la dimensione temporale degli impatti occorre andare oltre le due fasi canoniche riconosciute in questi casi (nella fattispecie, le fasi di cantiere e di esercizio), assegnando all’esercizio una dimensione temporale di breve, medio e lungo periodo. E ciò per due ragioni. La prima rinvia ai feedback dell’esercizio, in certa misura trattabili come impatti cumulati; la seconda, agli scenari di riferimento.

Nel caso della laguna di Venezia il lungo periodo è essenziale in quanto connaturato alla sperimentalità. Ma è importante anche perché i trend relativi all’innalzamento del medio mare, al deficit sedimentario e alla erosione degli ambienti intertidali sembrano alludere a comportamenti non lineari, se non a vere e proprie biforcazioni. Per queste ragioni è ineludibile la costruzione di uno o più scenari allineati alla fine del XXI secolo, assumendo incertezza e margine d’errore come spunto precauzionale e non come speditiva confutazione.

Anche (e non soltanto) a seguito del previsto innalzamento del medio-mare (vedi IPCC 2013 e altre fonti più recenti), è molto probabile che la laguna tenda a perdere la sua unitarietà, aumenti la sua artificializzazione e richieda una gestione per parti corrispondenti ai tre bacini principali. A questa gestione dovrebbero contribuire opportune difese a mare e/o operazioni di confinamento.

Se questo è lo scenario di riferimento di lungo periodo, diventa strategico riconoscere il ruolo della portualità. E qui si possono contrapporre due opzioni che, per semplicità, potremmo definire ‘pesante’ e ‘leggera’ (con possibili declinazioni intermedie). La prima (ribadita da Apv e dai recenti piani operativi triennali) considera Venezia come nodo portuale europeo con eccezionali capacità competitive. La seconda interpreta con più modestia vincoli e opportunità. La presenza delle attività portuali (merci e passeggeri), pur continuando a caratterizzare il bacino centrale, potrebbe essere significativamente ridimensionata da un sistema logistico ‘alto adriatico’ e/o mediterraneo. Il primo coinvolgerebbe il porto di Venezia (opportunamente riorganizzato in una sezione interna e in una esterna), il secondo lo escluderebbe dai grandi flussi delle merci.

In sintesi, se la Via non si misura ‘liberamente’ con questi temi rischia di essere poco efficace. Fatte queste premesse, già critiche rispetto all’impianto generale della Via commissionata da Apv, si ritiene utile procedere con considerazioni specifiche e più aderenti al testo dei rapporti.

Comparazione limitata
Che si debba costruire un canale delle dimensioni e caratteristiche previste da Apv per fermare l’erosione nella laguna centrale è un evidente paradosso. Nella storia di Venezia ciò non è mai accaduto, perché l’adozione di un approccio sperimentale e precauzionale tendeva a favorire processi lenti e monitorati di riassetto morfologico e di gestione adattativa del rischio. Questo approccio non sembra essere messo in discussione neppure dagli effetti attesi alla fine del XXI secolo a seguito dell’innalzamento del livello del mare dovuto ai cambiamenti climatici. Semmai, esso andrà adattato ad un ‘sistema lagunare’ che potrebbe essere molto diverso dall’attuale.

Il progetto Apv è di tutt’altra natura e si misura soltanto con due opzioni simili per logica e strategia, anche se nella valutazione comparativa esse risultano dominate per accessibilità, erogazione di servizi, commistione del traffico nautico, sicurezza o impatto ambientale. La valutazione comparativa non confronta alternative, ma varianti di uno stesso modello di accesso ritenuto valido nel medio-lungo periodo.

Ciò sarebbe consentito dal D.M. del 2/3/2012 (Clini-Passera) recante ‘Disposizioni generali per limitare o vietare il transito delle navi mercantili per la protezione di aree sensibili nel mare territoriale” ove vengono fissati limiti rigorosi al transito vicino alle aree protette nazionali e a siti particolarmente sensibili dal punto di vista ambientale.

In particolare, per la Laguna di Venezia l’art. 2 comma 1 punto b) dispone il divieto di transito nel Canale di San Marco e nel Canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto di merci e passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda.

Il progetto ritiene che per garantire l’eccellenza di home port crocieristico sia necessario soddisfare tre requisiti: l’adeguata accessibilità via terra ai passeggeri, con vicinanza ad uno scalo aeroportuale, ferroviario e disponibilità di parcheggi; l’adeguata accessibilità via terra per le merci e il rifornimento delle navi; l’adeguata accessibilità nautica. Si ritiene che l’importanza di questi requisiti cambi a seconda degli scenari logistici che potrebbero interessare non solo l’area veneziana, ma anche la nuova ‘città metropolitana’, i rapporti commerciali con l’Europa centrale e orientale e la portualità nell’Alto Adriatico. E di questo non si fa cenno.

Il progetto sottolinea, invece, che la loro considerazione nella valutazione comparata sia condizionata da fattori economico-finanziari: ricreare un altro terminal passeggeri equivalente all’attuale stazione Marittima implicherebbe l’impiego di ingenti risorse pubbliche, nonché tempi di approvazione e realizzazione molto lunghi. Apv riferisce, inoltre, che tale ipotesi non sarebbe prevista dal Decreto Clini-Passera.

Interventi di mitigazione e compensazione
Impropriamente definito di ‘adeguamento’, per i previsti interventi di ricalibratura e risagomatura, il progetto prevede un riassetto morfologico della fascia interessata con barene, velme e argini di protezione per superare il test di fattibilità e non certo per rivitalizzare una parte della laguna centrale in condizioni precarie dal punto di vista idrodinamico, ecologico e di inquinamento di acque e sedimenti. Si tratta, infatti, di interventi di mitigazione.

Negli ultimi 50 anni la laguna centrale ha registrato una perdita di eterogeneità morfologica, un costante approfondimento dei bassifondi ed un interrimento dei canali, con significativa erosione delle strutture morfologiche. Ciò ha favorito una progressiva e rapida evoluzione da sistema di transizione ad ambiente con caratteristiche marine. L’appiattimento e l’approfondimento del fondale hanno provocato la diminuzione della variabilità dell’habitat. Questi fattori hanno accentuato il degrado della laguna centrale e sono principalmente dovuti al traffico portuale e al fetch che agisce da fattore di amplificazione su ampi specchi d’acqua privi di ostacoli.

Gli interventi morfologici previsti dal progetto sono ancillari e non contribuiscono certo ad aprire un tavolo negoziale sulla portualità in alto Adriatico, componente strategica per il futuro della laguna di Venezia. Semmai, tendono a chiuderlo su se stesso.

Una prova in tal senso viene dalle misure di compensazione. Oltre alla creazione di velme a protezione del nuovo canale, il progetto prevede la realizzazione di circa 400 ha di barene in Laguna sud, ad integrazione di quanto sta già avvenendo da anni soprattutto lungo il crinale che divide la laguna aperta dalle valli da pesca. La localizzazione delle nuove strutture morfologiche non è motivata, non si confronta con le proposte del Piano morfologico in standby, né si presenta come esito di simulazioni ad hoc. Non è da escludere che questi interventi alludano ad un più intenso utilizzo del porto di Chioggia con effetti significativi sugli assetti futuri della laguna sud.

I citati interventi di mitigazione e compensazione comportano una consistente movimentazione di sedimenti (6.5 milioni di mc) in classe A, B e C. Nella fase di cantiere è prevista la rimozione, il trasporto e il conferimento a sito di recapito dei materiali escavati, con destinazione diversa a seconda della classificazione del Protocollo 1993. I sedimenti classificati come idonei saranno destinati alla realizzazione delle velme lungo il canale e/o alle opere di ricostruzione morfologica, mentre i sedimenti considerati non idonei dal punto di vista qualitativo verranno conferiti al sito delle Tresse. Su quest’ultimo conferimento lo studio non va oltre, non cita le capacità ‘residue’ del sito, le modalità di monitoraggio e gestione (dopo la fine della gestione commissariale nel Dicembre del 2012), né i dispositivi di trattamento dei sedimenti conferiti

Traffico e interferenze: simulazione delle frequenze di accesso e strategie pregresse
Nonostante la crisi economica, per i prossimi anni Apv prevede che il traffico commerciale lungo il Canale Malamocco-Marghera aumenti per effetto del traffico traghetti che, già dal 2014, si serve del nuovo terminal in corso di realizzazione a Fusina. A questo si dovrebbe aggiungere il traffico commerciale afferente alle nuove aree logistiche previste nell’area ex Montefibre. Nell’ipotesi che il traffico crociere raggiunga Marghera vi sarebbe un'interferenza del 100 % col traffico commerciale-industriale, in quanto il canale dovrebbe essere percorso nella sua totalità. Come possibile soluzione lo studio prevede l’allargamento della cunetta navigabile. Questo intervento, oltre a non risolvere il problema delle interferenze tra modalità di traffico, verrebbe a costare più di 400 milioni di euro, con rimozione di 20 milioni di metri cubi di sedimenti di diversa qualità, e adeguamento dei sotto-servizi. L’allargamento della cunetta richiederebbe ulteriori interventi sul versante laguna con effetti pesanti sulla morfologia.

Accantonata questa ipotesi, Apv ha commissionato alla Università di Cà Foscari la predisposizione di un modello matematico per la ottimizzazione delle sequenze di accesso. Sulla base della schematizzazione della morfologia portuale, delle ordinanze e delle regole di navigazione, il modello propone la migliore sequenza di accesso compatibile con le richieste di movimento, le condizioni meteo marine di marea, le precedenze e le normative. L’ottimizzazione riguarda sia la localizzazione del Porto Crociere a Porto Marghera, sia l’arrivo in Marittima attraverso la Bocca di Malamocco e via Canale Vittorio Emanuele III (in tal caso si sottolinea una ulteriore criticità dovuta alla necessita di effettuare in spazi ristretti una curva di oltre 90°).

Le simulazioni sulle interferenze tra traffico commerciale e crocieristico svolte nello scenario di approdo o passaggio per Marghera e nello scenario di approdo a Marittima via canale Contorta-S. Angelo, evidenziano sostanziali differenze nei disagi causati alla navigazione a causa della commistione dei traffici. I convogli dovrebbero essere gestiti nell’arco di 18 ore, nel caso in cui le navi da crociera “sviassero” per il Canale Contorta-S. Angelo. Dedicare tutto il canale Malamocco Marghera al transito dei convogli merci e passeggeri, comporterebbe la perdita del 33% di capacità di traffico del canale (un convoglio in entrata e un convoglio in uscita).

Sotto il profilo del congestionamento del traffico, e quindi dei suoi effetti sull’operatività commerciale e passeggeri del porto, lo studio ritiene che l’alternativa migliore di collegamento del Canale Malamocco-Marghera con Marittima sia quella del canale Contorta-S. Angelo.

Va tuttavia rilevato che il modello matematico e le simulazioni per la valutazione delle alternative, nel rispetto del decreto “anti inchini”, sono stati calibrati sui movimenti del 2011. Lo studio segnala una certa sottostima dovuta in primo luogo al fatto che nel 2011 la crisi internazionale ha ridotto del 20% i flussi standard del traffico commerciale (rispetto al trend sino al 2008). In secondo luogo, i dati del 2011 non sono comprensivi dei futuri traffici da e per il nuovo terminal traghetti di Fusina e neppure del traffico da e per il nuovo terminal container previsto in area ex Montefibre. La stima di questa componente non è riportata nello studio, ma è certo che la fattibilità dei due terminal non può che basarsi su stime ottimistiche.

Si tratta di due fattori che, insieme, generano effetti cumulativi di grande momento. Quelli connessi al progetto di nuovo canale si aggiungeranno, nel medio-lungo periodo, a quelli dovuti agli investimenti già effettuati da Apv. Si attende, infatti, che il traffico commerciale lungo il canale Malamocco-Marghera aumenti per l’effetto congiunto del traffico traghetti, del traffico commerciale afferente alle nuove aree logistiche previste nell’area ex-Montefibre e di quello di riconversione industriale.

Lo studio ritiene che alla luce delle simulazioni e delle decisioni strategiche pregresse di Apv, si possa concludere che il canale Malamocco-Marghera abbia potenzialmente la capacità di assorbire il transito di ulteriori navi, ma a condizione di sfruttare al massimo la capacita dei canali. In caso contrario, l’inserimento di un movimento in senso contrario al flusso dominante in determinati periodi della giornata potrebbe causare notevoli ritardi, anche di 2 ore.

Nel caso dell’utilizzo del canale Contorta S. Angelo, le simulazioni evidenziano che, pur mantenendo le criticità dovute alla commistione dei traffici commerciali e passeggeri nel primo tratto del canale Malamocco-Marghera, i ritardi accumulati sono inferiori. Ciò è dovuto al fatto che le navi passeggeri occuperebbero il Canale di Malamocco solo nella zona dove possono navigare più velocemente in quanto in quel tratto la rete dei canali ha maggiore capacità. Va rilevato che la commistione richiede una particolare attenzione (non evidente nel progetto e negli studi Via) sul punto di biforcazione tra il canale di Malamocco e il Canale Contorta. Esso andrebbe strutturato in modo da potere permettere l’incrocio di navi da crociera. Lo studio conclude che, sotto il profilo del congestionamento del traffico e quindi dei suoi effetti sull’operatività commerciale e passeggeri, la migliore alternativa di collegamento del Canale Malamocco-Marghera con Marittima è quella rappresentata dal canale Contorta S. Angelo, ma che la soluzione non è priva di criticità. Di queste, la meno valuta nello studio Via riguarda gli effetti idrodinamici e ambientali dovuti all’utilizzo massimo della capacità del canale.

Moto ondoso
Studi e rilievi sul moto ondoso sono stati commissionati alla ditta Protecno. L’ultimo, del 2009, ricostruisce il campo di moto ondoso con tecnica stereo-fotogrammetrica. Le misure eseguite evidenziano in modo discutibile come il moto ondoso nel canale della Giudecca sia caratterizzato da parametri (principalmente periodo ed altezza) non attribuibili a navi e traghetti, bensì alle imbarcazioni, pubbliche e private di piccola stazza e veloci. Ciò porta a riconoscere come effetto principale la variazione del piano medio dell’acqua (dalla chiglia della nave) con valori delle velocità delle correnti generate entro i valori prodotti dalla marea.

Effetti idrodinamici e morfologici: rilievi sull’impiego del modello Mike21
Per valutare i potenziali impatti in fase di esercizio è stato effettuato uno studio morfologico con il modello Mike21 (Danish Hydraulic Institute di Copenhagen). La base delle simulazioni é la carta delle batimetrie della laguna di Venezia pubblicata dal Magistrato alle Acque nel 2002. La carta è aggiornata con le recenti strutture morfologiche realizzate da Mav-Cvn.

Il modello idrodinamico delle correnti di marea rende conto degli effetti di risospensione e trasporto dei sedimenti all’interno dei canali lagunari principali. Il modello di moto ondoso da vento genera gli sforzi tangenziali al fondo che regolano il verificarsi di questi fenomeni nelle rimanenti superfici lagunari. Ciò ha consentito due blocchi di simulazioni: il primo fornisce un’interpretazione sedimentologica delle dinamiche del trasporto, il secondo un modello morfologico. Dal primo si ricavano rappresentazioni istantanee della capacità di trasporto, mentre il secondo consente di apprezzare le tendenze erosive e di deposizione conseguenti ad un certo evento meteorico.

Oltre a questo studio, è stata realizzata una ulteriore analisi sugli effetti idrodinamici e morfologici del transito di natanti, in ingresso ed uscita dalla stazione Marittima di Venezia. Anche tale studio ha impiegato il modello matematico Mike21.

Le simulazioni evidenziano come le perturbazioni del pelo libero e del campo di velocità siano limitate nell’area compresa tra il canale e le velme. Nelle aree esterne non si verificherebbero modificazioni di rilievo e il transito della nave presenterebbe i caratteri idrodinamici tipici del fenomeno: una scia dietro la poppa e una corrente di ritorno esterna lungo alveo e sponde. Inoltre, secondo le simulazioni, le variazioni di livello del fondo dovute al passaggio di natanti risulterebbero contenute nella zona interna alle velme, senza modifiche nei bassofondi esterni. Le velme sarebbero interessate da variazioni morfologiche molto leggere, con tendenze erosive ai loro bordi e depositi attorno ad esse e nei varchi verso il bassofondo. Le analisi concludono che il transito dei natanti genera leggere variazioni al regime idrodinamico, comunque contenute all’interno delle due serie di velme.

In generale e in merito agli effetti idromorfologici, si evidenzia “una modifica locale dell’andamento delle correnti che porta ad un leggero aumento delle aree di bassofondo caratterizzate da basse velocità e una concentrazione del flusso verso il canale S. Leonardo-Marghera e il canale della Giudecca. Queste modifiche sono comunque di poca entità e si notano solo negli istanti di bassa marea." Si può rilevare che il modello opera in condizioni normali, escludendo le condizioni estreme, e con granulometria uniforme del sedimento. Le simulazioni riguardano l’altezza d’onda, la velocità della corrente e la capacità di trasporto solido. La capacità di trasporto indica la propensione alla movimentazione dei sedimenti.

E’ discutibile che nella zona interessata dalle opere in progetto e con pieno utilizzo della capacità si raggiungano altezze significative massime di circa 0.25 m, addirittura minori di quanto riscontrato nello stato attuale. L’effetto di attenuazione del moto ondoso sarebbe dovuto alla presenza delle velme, contro le quali si ha frangimento con riparo del nuovo canale dalle onde da vento. In altre parole, l’idrodinamica della laguna nel suo insieme sarebbe simile a quanto riscontrato in stato attuale.

Variazioni significative interesserebbero le correnti. Il nuovo canale è interessato da velocità variabili, con istanti a velocità quasi nulla fino a 50 cm/s. La porzione settentrionale del nuovo canale, che entra nel canale della Giudecca, è interessata dalle velocità maggiori. L’intensità della corrente è accentuata proprio nei varchi tra le velme. In generale, si alternano fasi a capacità di trasporto quasi nulla a fasi in cui tutto il canale presenta una elevata movimentazione di sedimenti. La porzione settentrionale del nuovo canale che entra nel canale della Giudecca è interessata da una capacità di trasporto solido in aumento nel verso del flusso e quindi ad una tendenza all’asportazione di materiale.

Contrariamente ai commenti conclusivi sui risultati del modello, il confronto con lo stato attuale evidenzia differenze significative, soprattutto per quanto concerne la seconda configurazione.

L’idrodinamica generale della laguna centrale è influenzata dall’effetto barriera del nuovo canale che contribuisce a ridurre la velocità delle correnti nelle aree a sud e a nord del canale in progetto, soprattutto nelle fasi di marea crescente.

Lo studio rileva: ‘La successione delle velme previste in fregio al canale costituisce uno sbarramento che attraversa, dal Canale S. Leonardo Marghera alla Stazione Marittima, l’intera zona di spartiacque fra i bacini di Lido e di Malamocco. Questa interruzione si fa sentire nelle fasi di flusso e riflusso della marea, costringendo la corrente ad aggirare l’ostacolo concentrandosi nel Canale S. Leonardo-Marghera e all’imbocco del Canale della Giudecca’.

L’effetto-barriera è rafforzato dal fatto che la corrente trova vie alternative per defluire da sud verso nord, con un aumento delle velocità nella zona tra il Canale Contorta S. Angelo e il canale della Giudecca. Ciò potrebbe accelerare fenomeni erosivi non solo in alveo ma anche lungo i varchi tra le velme. Dalle stime, il nuovo canale appare interessato da velocità variabili, con istanti a velocità quasi nulla fino a 40 cm/s. Capacità di trasporto più alte si localizzano nei punti in cui la corrente è più veloce: nella zona tra il Canale Contorta S. Angelo e il canale della Giudecca, sopra le velme negli istanti in cui sono sommerse e tra i varchi della stesse negli istanti in cui sono emerse.

In generale, gli studi riconoscono che ‘per lo stato di progetto il canale della Giudecca e il canale S. Leonardo-Marghera appaiono più vivaci, con tendenze evolutive più intensificate… Questo è spiegabile considerando che in queste due aree l’idrodinamica presenta velocità maggiori, poiché il flusso che in stato attuale occupava l’intera area di bassofondo trova in stato di progetto l’ostacolo delle velme e concentra quindi il suo passaggio nelle due aree che restano “accessibili”.

Lo studio evidenzia che in tutta la fascia delle velme e del nuovo canale si ottengono variazioni del fondo più intense che altrove, data la vivacità del flusso e la sua variabilità in intensità e direzione sopra le velme e tra i varchi.

Per quanto concerne la movimentazione dei sedimenti lo studio rileva quanto segue: ‘i sedimenti che vengono messi in movimento non provengono dall’esterno, ma da questa stessa zona in cui l’idrodinamica tende a ricondurre verso l’appiattimento del fondale erodendo le velme e depositando nei varchi e verso il canale i materiali così messi in sospensione’.

Aumentano le criticità con le simulazioni del modello morfologico completo, in cui i moduli idrodinamico, di moto ondoso e morfologico sono utilizzati in maniera accoppiata invece che a cascata. Con opportuni feedback il modello aggiorna le quote del fondo ad ogni passo. Si arriva così alla stima del bilancio fra accumulo ed erosione, con esito favorevole a quest’ultima. Questo esito tende ad aggravare lo stato sistemico in quanto il progetto si inserisce in un contesto in cui la tendenza evolutiva dei fondali delle ultime decadi ha condotto alla progressiva scomparsa della caratteristica eterogeneità morfologica e alla transizione verso un ambiente con caratteristiche sempre più marine. Sono stati significativamente ridimensionati gli ambienti caratterizzati da elevato trofismo, in genere colonizzati da macrofite capaci di assicurare stabilità del piano sedimentario e idonee condizioni alla vita ittica, così come al passaggio, all’alimentazione e alla riproduzione di specie ornitiche. Lo studio riconosce che la configurazione dell’habitat 1150 in fase post operam subirà una ulteriore frammentazione rispetto alla già precaria situazione attuale.

Per quanto riguarda la fase di esercizio del canale, sulla base delle informazioni fornite da indagini e monitoraggi dei progetti che hanno interessato nel recente passato la funzionalità del Canale Malamocco Marghera, lo studio ritiene che i transiti dei mezzi navali lungo il Contorta S. Angelo possano disturbare, in una fascia di circa duecento metri, la stabilità del piano sedimentario dei fondali in fregio. Come per la fase di cantiere, tali disturbi potrebbero manifestarsi con modificazioni nei normali tassi di trasporto, sedimentazione e risospensione negli ecosistemi acquatici.

Lo studio riconosce, inoltre, che gli effetti dell’alterazione dell’equilibrio del budget dei materiali trasportati e sedimentati possono essere elevati sulla fauna ittica e di fondo. Distingue gli effetti fisici da quelli di affossamento e soffocamento, che si sommano ad effetti indiretti legati all’attenuazione della radiazione luminosa o all’alterazione delle condizioni di fondo e delle relative capacità di alimentazione.

Proprio a partire da queste considerazioni, sarebbe utile approfondire l’affermazione secondo cui ‘in generale risulta ben difficile distinguere l’effetto della torbidità naturale, di fondo dell’ambiente lagunare, da quella ascrivibile al risollevamento da transito navale’. Una adeguata configurazione modellistica (o valutazioni su analoghi) potrebbero aiutare in proposito. E ciò, tenendo anche conto di eventuali ‘assuefazioni’ come nel caso in cui ‘le condizioni naturali di torbidità indotta da vento o dall’azione del moto ondoso dovuto al traffico marino ed in alcune zone dalle attività di pesca dei molluschi hanno… selezionato una comunità bentonica tollerante questo tipo di disturbo’. L’assuefazione potrebbe comunque non essere accettata come effetto inevitabile sulle comunità bentoniche per azione della torbidità indotta da dragaggi o da transiti di mezzi navali.

I diversi scenari modellistici sulla torbidità utilizzati negli studi di Via possono essere migliorati per valutare con più attenzione il disturbo dei popolamenti bentonici dell’infauna e dell’epifauna, le cui capacità di adattamento alle variazioni nei tassi di sedimentazione variano con granulometrie e tempi di residenza. Una dimostrazione in tal senso viene dalla assenza di praterie di fanerogame nel sito di progetto, mentre esse ricoprono ampi areali impattabili dalle torbide prodotte dal transito dei mezzi navali lungo il tratto del Malamocco Marghera più vicino alla bocca di porto di Malamocco.

Gli effetti sedimentari non possono, quindi, essere ritenuti trascurabili sia dal punto di vista del risentimento biologico che di quello morfologico.

Transito dei natanti
Il canale proposto si trova in una zona a scarsa dinamica idraulica per prossimità alla linea di spartiacque tra i bacini di Lido e di Malamocco. Qui le velocità di marea sono contenute e così pure l’attività di trasporto solido. Il modello simula due configurazioni: una cunetta di 80 m e una cunetta di 120 m, con analogo anche se non identico andamento planimetrico.

Lo ‘Studio degli effetti idrodinamici e morfologici del transito di natanti’ in navigazione in campo aperto e confinato (canali) rileva come ‘le zone a più intensa modifica siano localizzate lungo il canale: in erosione nella zona di passaggio dello scafo e in deposito nelle zone esterne.

Le zone a più intensa modifica sono quelle di alveo, che appaiono in erosione nella zona di passaggio dello scafo e in deposito nelle zone esterne. Una tendenza erosiva si nota anche in una stretta fascia di sponda dove si ha il cambio di pendenza tra i lati del canale e il bassofondo’. Le due fasce di velme sono interessate da modifiche morfologiche limitate, con tendenze erosive ai bordi e depositi attorno e nei varchi verso il bassofondo.

Le simulazioni indicano che il passaggio dei natanti avrà un impatto maggiore sulla idromorfodinamica locale nei momenti di minimo mareale e che le modifiche sono contenute nella zona compresa tra velme e canale, con un debole interessamento delle aree esterne. L’impatto tenderebbe a ridursi con l’allargamento della cunetta (seconda configurazione).

Trattasi di impatto locale, ma non si può certo concludere che a scala di bacino le due configurazioni generino gli stessi impatti morfologici. Lo Studio su questo argomento potrebbe essere approfondito, testando meglio l’ipotesi secondo cui ‘la variazione di livello della marea, soprattutto nei casi di acqua alta, sarà trascurabile’. Non è, infatti, da escludere che il contributo relativo sia maggiore con limitate oscillazioni di marea.

Sicurezza
La gestione e la stessa definizione di sicurezza della navigazione sono l’esito contingente di una mediazione fra innovazione dei navigli e dei sistemi di navigazione, logistica e operatività in contesto specifico. Su questa mediazione (anche se non è l’unica possibile) si è storicamente basata la gestione della laguna e dei suoi insediamenti.

Gli studi Via si limitano alla incidentalità e offrono risultati rassicuranti. Essi rilevano come la probabilità di incidenti (collision e grounding) nel porto di Venezia, in particolare nel canale della Giudecca, risulti sempre più bassa rispetto a quella calcolata per la flotta mondiale. E la probabilità tenderebbe a diminuire se si utilizzassero due rimorchiatori per nave passeggeri.

Oltre a proporre un concetto particolare di sicurezza, il confronto con una media mondiale (sic) non sembra plausibile soprattutto per ragioni connesse alla vulnerabilità e alla esposizione nel contesto lagunare, due componenti essenziali nelle funzioni di rischio.

Impatti ambientali
Le analisi contenute nella relazione ambientale interessano lo stato di fatto, le fasi di cantiere e di esercizio e riguardano le emissioni atmosferiche e sonore, l’inquinamento elettromagnetico e il moto ondoso. Come anticipato, questo ultimo impatto, particolarmente critico, è stato oggetto di modellizzazione e simulazione ad hoc.

Le valutazioni di impatto effettuate seguono l’approccio per ‘matrice’ e non si confrontano con il funzionamento ecologico della laguna. Lo stato della laguna è l’esito di interazioni complesse generate dalle variazioni del medio mare. Queste interazioni attivano processi circolari e sinergici fra bassifondi, strutture intertidali, movimento e qualità delle acque, habitat e aria. Effettuare le analisi di impatto per tema (o matrice, cioè per aria, acqua, suolo e così via) significa rinunciare a priori all’unica valutazione pertinente.

Per necessità, il seguito si limita a commenti tematici, così come presentati negli studi Via in oggetto.

Aria
L’analisi degli impatti si concentra soprattutto sulla emissione di ossidi e particolati.

Per quanto concerne lo stato delle emissioni delle polveri in atmosfera, la Via cita lo studio Apice. Questo studio ha valutato nel territorio del Comune di Venezia gli apporti di inquinanti atmosferici dovuti alle singole sorgenti emissive. Lo studio registra, già prima dell’applicazione del “Venice Blue Flag II”, un basso contributo del traffico portuale alla concentrazione in atmosfera delle polveri sottili. Apice stima che il comparto portuale nel suo insieme (inteso come traffico crocieristico, commerciale ed industriale) incida per l’8% (in periodo estivo) e per il 2% (in periodo invernale) sui livelli di concentrazione di polveri PM2.5 in atmosfera. Tali valori porrebbero il comparto portuale al 5° ed all’ultimo posto nella graduatoria delle fonti emissive.

La Via in oggetto sottolinea, inoltre, che le specifiche campagne di monitoraggio della qualità dell’aria presso le aree portuali (San Basilio e Santa Marta), eseguite da Arpav e Cnr, promosse e finanziate dalla Apv, hanno rilevato l’assenza di significativa correlazione tra le concentrazioni di inquinanti e traffico (anche se non è precisato il ruolo della crocieristica).

Per la stima delle emissioni in atmosfera durante il cantiere è stato utilizzato il datato modello di dispersione ISC3 (Industrial Source Complex Dispersion Model), sviluppato dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente statunitense (Epa). Il modello risolve l’equazione della convezione-diffusione, ma va rilevato che esistono più aggiornati modelli di emissione e diffusione.

Circa lo stato di fatto, limitato al 2010, è risultata prevalente la classe di stabilità-neutralità (D), condizione che, mediamente, non favorisce la dispersione degli inquinanti in atmosfera (dati relativi alla stazione n. 23 dell’EZIPM). Se le analisi dei dati definiscono una situazione di inquinamento ubiquitario per le polveri fini, non ne riconoscono l’effetto di ‘fondo’ rispetto ad altri inquinanti.

La realizzazione del nuovo canale comporta l’utilizzo di mezzi che generano emissioni di gas e polveri nell’atmosfera, mentre l’entrata in esercizio comporta un trasferimento delle emissioni in atmosfera dall’attuale percorso Lido-Giudecca al nuovo e un diverso modello di dispersione connesso ai venti dominanti.

Nello “Studio di ricaduta delle emissioni in atmosfera”, sono stati scelti quali indicatori ambientali il valore di emissione degli ossidi di SOx, NOx e di particolato atmosferico (PM10).

Al fine di paragonare le concentrazioni simulate al livello del suolo con standard di qualità dell’aria (Sqa) secondo il D.lgs. 155/2010 e con i valori di fondo che caratterizzano l’area di studio, si è ipotizzato in via cautelativa che le polveri siano assimilabili a particolato con granulometria inferiore a 10 μm (PM10) e che gli ossidi di azoto (NOx) siano trasformati interamente in biossido di azoto NO2. L’ipotesi andrebbe meglio verificata.

Utilizzando dati raccolti da Thetis una decina di anni fa durante lavori di dragaggio e tenendo conto della localizzazione e della direzione prevalente dei venti, lo Studio ritiene che in fase di realizzazione le emissioni siano irrilevanti e che comunque la ricaduta massima si verifichi all’interno dell’area di cantiere, con valori di concentrazione massimi (annui, giornalieri ed orari) inferiori rispetto ai corrispondenti Sqa definiti dal D.lgs. 155/2010. Il confronto dei risultati delle simulazioni con i valori di fondo dell’area (fonte Arpav) evidenzierebbero un impatto accettabile.

A proposito dei venti va rilevato che la direzione NE non è esclusiva anche se dominante.

Secondo le simulazioni, durante la fase di cantiere i valori massimi di concentrazione ricadono all’interno dell’area di cantiere stessa, per effetto della tipologia di sorgente e dell’altezza stimata dell’emissione. Secondo le stime, si tratta di valori che rispettano i corrispondenti Sqa. Le concentrazioni massime annue dei contaminanti risulterebbero inferiori rispetto ai corrispondenti Sqa, con contributi dell’ordine del centesimo per le polveri (0,9%) e superiori al decimo per il biossido di azoto (15,1%).

Estendendo l’analisi al valore massimo giornaliero (polveri), il contributo risulta sostanzialmente in linea con il precedente, con concentrazioni, rispetto a Sqa, dell’ordine del centesimo (3%).

Se si guarda al valore massimo orario (biossido di azoto), il contributo risulta significativo (28,5%), ma comunque inferiore rispetto al corrispondente Sqa.

Per la stima delle emissioni in fase di esercizio è stata applicata la metodologia europea per la compilazione dell’inventario delle emissioni (vedi Emep/Eea Emission Inventory Guidebook, 2013, relativamente al macrosettore della navigazione International navigation, national navigation, national fishing). Per ragioni metereologiche, il modello è stato calibrato sul modello climatologico globale Wrf-Noaa con delicata operazione di downscaling.

Si stimano così concentrazioni massime annue dei contaminanti minori rispetto ai corrispondenti Sqa, con contributi limitati al centesimo per polveri e biossido di azoto (rispettivamente pari a 0,1% e 0,6%) e dell’ordine del centesimo per il biossido di zolfo (1,4%). Estendendo l’analisi ai valori massimi giornalieri ed orari, i contributi risulterebbero sostanzialmente in linea con i precedenti, con concentrazioni dell’ordine del centesimo o inferiori rispetto ai relativi Sqa.

A queste emissioni sono interessate superfici dei siti di Rete Natura 2000. Come zona di influenza degli effetti delle ricadute è stata considerata l’area all’interno della quale le concentrazioni degli inquinanti oggetto di studio sono comprese tra il 50% del valore massimo annuo ed il valore massimo annuo stesso.

A parità di diffusione aerea, l’alternativa “retro Giudecca” interessa in maniera minore le aree SIC e ZPS, mentre l’alternativa che prevede il transito lungo il Canale Vittorio Emanuele III interessa superfici maggiori.

Per quanto concerne il canale Contorta, confrontando i risultati delle simulazioni con i valori di fondo dell’area (fonte Arpav), l’impatto sull’aria risulterebbe poco significativo e non comporterebbe un peggioramento della qualità dell’aria.

In conclusione, gli studi Via ritengono che l’impatto sia nella fase di cantiere che in quella di esercizio, sia compatibile con la componente ambientale ‘atmosfera’. Relativamente alla fase di esercizio, l’analisi evidenzia la massima ricaduta lungo il tratto nord-sud del percorso, parallelamente alle casse di colmata, con valori di concentrazione massimi (annui, giornalieri ed orari) degli inquinanti inferiori rispetto ai corrispondenti Sqa. Anche in questo caso, confrontando i risultati delle simulazioni con i valori di fondo dell’area (fonte Arpav), l’impatto non comporterebbe un peggioramento significativo della qualità dell’aria.

Due sono le osservazioni generali in proposito. La prima riguarda la possibilità di estendere la gamma di inquinanti considerati, la seconda la stima di possibili effetti cumulativi andando oltre le misure di concentrazione e assumendo la presenza diffusa di polveri come ‘fondo attivo’.

In questa sede andrebbero valutati gli impatti ambientali (e gli effetti più generali) della elettrificazione delle banchine portuali passeggeri come previsto dal’accordo volontario Venice Blue Flag. E’ noto che banchine ‘elettrificate’ con il sistema cold ironing favoriscono la transizione verso ‘porti verdi’, consentendo l’alimentazione delle navi in sosta mediante connessione con il sistema di terra e lo spegnimento dei motori ausiliari a bordo.

Qualità delle acque e torbidità
Campagne di indagine e monitoraggi evidenziano come la contaminazione delle acque da microinquinanti risulti superiore in Canale Malamocco-Marghera rispetto ai valori medi riscontrabili in laguna settentrionale. Ciò rende particolarmente critico il contesto di progetto.

Va rilevato che per l’ambiente idrico le interferenze del progetto riguardano soprattutto gli effetti sulla torbidità e il trasporto di contaminanti in sospensione su depositi superficiali dovuti alle attività di scavo e dragaggio ed agli effetti dei transiti di mezzi nautici, in fase di esercizio.

Durante le operazioni di dragaggio, così come nelle successive fasi di trasporto e di ricollocamento del materiale dragato, il progetto prevede l’adozione di procedure atte a minimizzare la risospensione dei sedimenti e quindi la produzione di torbidità. Prima delle operazioni di scavo, al fine di quantificare i volumi dei diversi tipi di sedimenti, il Progetto prevede la caratterizzazione secondo il Protocollo 1993. Non è tuttavia da escludere che un suo aggiornamento consigli una nuova caratterizzazione e un diverso modello di conferimento.

In fase di esercizio, periodo e intensità di oscillazione di torbidità e trasporto di contaminanti dipenderanno dai flussi di traffico e dalla loro gestione. Su questo tema gli studi Via sono carenti.

Qualità dei sedimenti
Sono disponibili diverse e spesso contraddittorie caratterizzazioni sulla qualità dei sedimenti nella laguna ed in particolare nella zona di progetto. Si tratta di misure di concentrazione soprattutto di Ipa e metalli pesanti che, oltre a riferirsi al citato Protocollo Fanghi (1993), non considerano in modo approfondito gli importanti aspetti connessi alla biodisponibilità e alla geo-speciazione. Limitandosi alle concentrazioni dei metalli, si rileva una parziale corrispondenza con le caratterizzazioni effettuate da Apv che rilevano presenze di arsenico e cromo: il primo soprattutto nella frazione fine (argilla) piuttosto che in quella più grossolana (sabbia); il secondo nella frazione sabbiosa all’interno del reticolo cristallino di minerali quali clorite, biotite, ossidi, anfiboli e pirosseni.

Secondo Apv i superamenti di colonna A (in funzione del fondo naturale) per il cromo sono inferiori a quelli dell’arsenico e, per entrambi, si registrerebbe una bassa biodisponibilità. Questi superamenti sono attribuiti al fondo naturale, alle sue caratteristiche mineralogiche e al contenuto di sostanza organica. Test di cessione avrebbero verificato come le due sostanze tendano a non cedere l’elemento all’acqua e quindi a non renderlo biodisponibile. Le concentrazioni si manterrebbero così inalterate nel tempo, non comportando rischi per l’ambiente circostante.

Si possono tuttavia fare tre osservazioni in proposito. La prima riguarda la gamma delle sostanze presenti, non limitata ai due metalli pesanti. La seconda rinvia alla definizione di ‘fondo naturale’ che, com’è noto, risente dei fenomeni di accumulo modificando la media delle concentrazioni. La terza riguarda la presunta immobilità dei contaminanti che, oltre ad essere influenzata dalla subsidenza con effetti sugli strati inferiori e sulle falde, viene messa alla prova dal moto ondoso generato dal vento e dai natanti. Ciò viene riconosciuto dalla stessa Apv quando sostiene: ‘La fascia che corre lungo il canale dei Malamocco Marghera e in prossimità delle altre aree interessate dall’opera risentono in modo generalizzato dell'adiacenza della area industriale di Porto Marghera. In particolare, i bassi fondali più direttamente investiti dal moto ondoso subiscono un continuo processo di disturbo connesso alla mobilizzazione degli strati superficiali del piano-sedimento. Allo stesso modo, anche eventi meteorologici caratterizzati dai forti venti di bora e scirocco ai quali l’area è esposta, inducono la mobilizzazione e l’immissione nel canale Malamocco Marghera di ingenti quantità di sedimenti’.

Ma ciò che risulta più discutibile è che sulla base di immobilità e non biodisponibilità dei due contaminanti e in considerazione dei valori di fondo medi lagunari si ipotizzi una riclassificazione in categoria A dei sedimenti ex B e C, e si escluda la presenza della categoria oltre C. Questa semplificazione fa ipotizzare che la maggior parte dei sedimenti provenienti dallo scavo del canale Contorta Sant’Angelo siano classificabili entro A e B, con una piccola percentuale in C. I sedimenti in classe C (i più contaminati) sarebbero localizzati soprattutto in prossimità del canale Malamocco-Marghera in corrispondenza del raccordo con il canale Contorta.

Una maggiore chiarezza in merito alla caratterizzazione potrebbe influenzare il bilancio ecologico del progetto di nuovo canale, il suo costo complessivo e le stesse misure di compensazione che prevedono ingenti conferimenti di sedimenti in zone lontane dall’area di progetto.

Emissioni sonore ed impatto acustico
I dati sulle emissioni sonore sono forniti dal progetto Eco.Port finanziato da Apv. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con il Dipartimento di Fisica Tecnica dell’Università degli Studi di Padova. Con rilievi specifici e mappature è stata rilevata la rumorosità emessa da navi passeggeri in transito e all’ormeggio.

Durante le analisi Via si stava concludendo la seconda fase dello studio Eco.Port (2011-2013) per l'implementazione di un modello acustico previsionale, finalizzato alla definizione di fasce di pertinenza utili alla stesura del decreto attuativo previsto dalla L.Q. 447/1995, tuttora mancante per le infrastrutture portuali. L’attuale lacuna normativa sulle fasce di pertinenza acustica comporta, di fatto, la mancanza del necessario riferimento per la corretta gestione delle emissioni del comparto portuale.

Uno studio specifico sulle vibrazioni (Studio Modena Franchetti) valuta per ciascuna alternativa l’impatto acustico in fase di cantiere e di esercizio sul ricettore ‘popolazione umana’ mappata con dati di sezione censuaria in un buffer di ampiezza pari a 400 m per lato dall’asse di navigazione. Non si fa riferimento ad altri tipi di popolazione.

La componente “rumore” assume particolare rilevanza in fase di realizzazione. Studi pregressi, riguardanti la stima delle emissioni sonore generate dai mezzi preposti al dragaggio del canale Malamocco-Marghera, evidenziano che i livelli attesi durante le attività di cantiere diventano molto bassi ad una distanza di circa 600 m dal cantiere stesso (vedi, ad esempio, Thetis 2011). Dato che il sito è caratterizzato da un’esigua presenza di recettori antropici significativi l’impatto viene ritenuto trascurabile.

Con riferimento alla fase di esercizio, le misurazioni (vedi, tra l’altro, gli studi di Di Bella et al.) sono effettuate all’ormeggio e in transito. All’ormeggio le sorgenti di rumore prevalenti sono i camini (h=50m): LW=133 dB e LWA=121 dB(A); in transito si ottiene la potenza sonora per unità di lunghezza, normalizzata a 1 transito/ora, di LWA=78 Dba/m. Questo dato viene utilizzato per la valutazione degli impatti acustici delle navi da crociera, ponderato sul numero effettivo dei transiti orari.

Un confronto incrociato (di fonte Curcuruto et al. (2000) e di fonte Apv) porta alla stima di livelli sonori LAeq, misurati a 15 metri dalla nave, da 56,7 dBA a 72,3 dBA per le navi civili e da 57,9 dBA a 73,6 dBA (con una punta a 78,4 dBA ) per le navi militari. Lo studio allegato alla Via utilizza il dato peggiore per le navi civili (72,3) come stima della rumorosità dei ferries. Standardizzando ai tempi tipici dell’evento di transito a 15m, si ottiene una stima del SEL di 92,0 dB(A).

Nella propagazione del rumore in aria sopra la Laguna vanno considerati i fenomeni di rifrazione e riflessione sull’acqua. In mare la temperatura media dell’acqua è inferiore a quella dell’aria soprastante. L’aria tende, quindi, ad essere raffreddata in prossimità della superficie dell’acqua generando il fenomeno della rifrazione delle onde acustiche: esse sono deflesse verso il basso, cosicché è maggiore l’energia sonora che raggiunge un osservatore sul mare rispetto a quella che raggiunge un osservatore posto alla stessa distanza sulla terraferma.

In Laguna la condizione termica può essere invertita, soprattutto nei mesi caldi, perciò il sussistere di tale effetto non è un dato scontato. Se lo specchio d’acqua è calmo risulta anche molto efficiente la riflessione del rumore sulla superficie dell’acqua, ma ciò non vale se l’acqua è increspata o con significativo movimento ondoso.

In sintesi, nel caso della Laguna Veneta, è largamente cautelativo assumere che la risultante dei due effetti (rifrazione e riflessione) sia la totale riflessione del suono sulla superficie dell’acqua. E’ stato perciò posto il fattore assorbimento suolo G = 0 in tutta l’area di calcolo.

Data la grande estensione dell’area di studio e considerato che su una tale superficie la valutazione è mirata alla determinazione delle caratteristiche globali del clima e dell’impatto acustico, viene trascurata la riflessione del rumore su edifici ed oggetti, con la sola eccezione della suddetta riflessione sullo specchio d’acqua. Per il calcolo delle mappe acustiche è utilizzata una griglia di calcolo di 30x30 metri posta a 4 metri di altezza.

La valutazione comparata evidenzia gli elevati impatti sia in fase di cantiere che di esercizio dell’opzione retro-Giudecca (per la densità di ricettori contigui). L’incidenza del rumore attribuibile al transito delle grandi navi da crociera risulta sufficiente a determinare il superamento dei valori limite di immissione stabiliti dalla zonizzazione acustica. In particolare ciò si verifica in alcune delle aree poste in classe I, dove il limite è pari a 50 dBA per il periodo di riferimento diurno. Il superamento non tiene conto degli effetti cumulativi dovuti ad altre sorgenti di emissione acustica.

Per tutte le opzioni si evidenziano potenziali criticità legate alla fase di esercizio in prossimità delle bocche di porto, dove la larghezza del canale è ridotta e sono presenti ricettori sensibili (camping alla bocca di Lido, casa per anziani alla bocca di Malamocco, ma anche siti di interesse ambientale).

Durante la più gravosa fase di cantiere si prevedono superamenti dei limiti di immissione sia assoluti che differenziali (se applicabili) tutto sommato contenuti entro 5 dBA e superamenti più consistenti presso alcune isole disabitate. Unico altro ricettore sensibile per la presenza di persone, e relativamente impattato, è il campeggio di Punta Fusina, dove si potrebbe registrare un superamento del limite differenziale, ma non di quello assoluto.

Rilevanti aumenti della rumorosità equivalente diurna si avrebbero presso le isole limitrofe al Canale Contorta (S. Giorgio e S. Angelo) fino a circa +20 dB oltre il limite assoluto, e, in misura molto inferiore, su altre porzioni di terra emersa ai lati del Canale dei Petroli. Tutti questi siti sono però disabitati.

Per le altre fasi di cantiere si stima che l’impatto acustico sia molto minore. Lo studio non ritiene pertanto di dover indicare misure ad hoc per la riduzione del rumore nelle fasi di cantiere, a meno di particolari esigenze del complesso alberghiero di Sacca Sessola: nel qual caso, lo studio propone di modificare lo schedule di cantierizzazione dei lavori, minimizzando gli impatti cumulativi (con altre sorgenti).

In fase di esercizio, a causa del nuovo percorso delle grandi navi da crociera, presso Sacca Sessola si stima un aumento di 1 dB del livello equivalente di rumore diurno, mentre a Santa Maria del Mare l’aumento sarà di circa 2 dB. Questo aumento va ad aggiungersi ad uno stato di fatto già sulla soglia- limite della classe I lì vigente. Inoltre, si stima risulteranno debolmente impattate le abitazioni di Alberoni, per circa 5 dB, ma senza superamento dei limiti. Superamenti dei limiti assoluti di immissione si potrebbero avere in luoghi disabitati, come nelle isole limitrofe al nuovo Canale Contorta fino a circa +6 dB oltre il limite assoluto e su altre porzioni di terra emersa ai lati del Canale dei Petroli.

Lo studio ritiene che il progetto sia migliorativo del clima acustico nell’area urbana. Inoltre, il transitorio disagio dovuto alle fasi di cantiere, nonché l’eventuale aumento dei livelli di rumore in singoli punti prossimi al nuovo canale, in un’ottica costi/benefici sono considerati ‘ampiamente compensati’ dalla riduzione unitaria dell’impatto acustico (decibel per numero di soggetti esposti).

In sintesi, lo studio ipotizza che la situazione acustica in Laguna ‘non possa derivare da un modesto aumento di transiti di navigli di qualsivoglia tipologia, quanto piuttosto dall’equilibrio globale determinato dall’insieme dei traffici e dai comportamenti in navigazione’. E conclude: ‘L’impatto in fase di esercizio può pertanto ritenersi migliorativo nel contesto del centro storico, e trascurabile rispetto alla situazione di traffico attuale nella restante parte del percorso’.

Queste conclusioni andrebbero perlomeno verificate con simulazioni riferite alla conclusione della seconda fase dello studio Eco.Port.

Inquinamento luminoso
Gli studi Via escludono interferenze relative all’inquinamento luminoso in quanto il progetto illuminotecnico rispetterebbe le disposizioni regionali in merito all’inquinamento luminoso (Legge Regionale n. 17 del 7 agosto 2009). In realtà le interferenze sono già elevate allo stato attuale e lo studio non propone adeguate valutazioni illuminotecniche. Vedi anche sezione relativa all’ impatto paesaggistico.

Inquinamento elettromagnetico
Allo scopo di verificare l’effettivo contributo dato dai radar delle navi, accesi in sola fase di navigazione per motivi di sicurezza, Apv ha commissionato al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova uno studio con relativi rilievi strumentali.

Lo studio ha permesso di verificare come tutte le misurazioni rientrino nei limiti stabiliti dalla normativa di riferimento, e come il contributo navale è marginale. Le campagne di misura permetterebbero di concludere che le navi non risultano responsabili della generazione di campi elettromagnetici con valori d’intensità tali da rendere le aree osservate incompatibili con i valori di legge.

A tale riguardo viene citata la sottoscrizione al “Venice Blue Flag II”, accordo volontario entrato di fatto in vigore dal mese di maggio 2013, con cui le compagnie di navigazione si impegnano a far funzionare i motori principali ed ausiliari delle navi con combustibile per uso marittimo con tenore di zolfo non superiore allo 0,1% fin dall'ingresso dalla bocca di porto di Lido. Così si creerebbe di fatto una green zone speciale che impone un limite alle emissioni. Si rileva, inoltre, che nelle aree Seca (zone di controllo delle emissioni di zolfo) il tenore massimo di zolfo del carburante utilizzato per legge dovrà essere dello 0,1% solo nel 2015. Apv sostiene, con una certa enfasi, che l’accordo, di fatto, renda Venezia il porto passeggeri a minor impatto emissivo a livello mondiale.

Impatti su aree Sic/Zps e perdita di habitat naturali
I siti di Rete Natura 2000 riguardano la ZPS IT3250046 “Laguna di Venezia” e il SIC IT3250030 “Laguna medio-inferiore di Venezia”. Entrambi i contesti sono interessati dai potenziali impatti (diretti ed indiretti) dovuti alla realizzazione del progetto in esame.

La ZPS si sovrappone in buona misura al SIC “IT 3250031 Laguna Superiore di Venezia” e al SIC “IT 3250030 Laguna medio-inferiore di Venezia”. Include ampi spazi di laguna aperta, con bassifondali e barene, valli da pesca ed alcuni biotopi di origine artificiale, quali le Casse di Colmata A, B e D/E. Queste ospitano vegetazione e fauna diversificate, con presenze di notevole pregio scientifico-conservazionistico.

Sulla base dei risultati di ricerche sperimentali condotte in questi anni si può affermare che i fondali che corrono tra il margine industriale e l’area del Contorta-S. Angelo sono caratterizzati da scarsissimi popolamenti algali oltre che dalla completa assenza di fanerogame marine. L’unica specie vegetale di interesse comunitario citata nel formulario Natura 2000 è la Salicornia veneta. Altre 11 specie, tutte erbacee, sono incluse nell’elenco complementare.

Gli studi Via (ed in particolare Vinca) ritengono che le perturbazioni dovute all’operatività dei mezzi impiegati nella fase di escavo siano trascurabili e tali da non comportare ricadute critiche sulle comunità vegetali ed animali dell’intero sistema lagunare. Il sito viene considerato già degradato, con un assetto morfologico che alterna caratteri naturali a quelli artificiali.

Tuttavia, si stima che il previsto allargamento del canale Contorta porti ad una perdita netta di quasi 44 ettari di habitat 1150 "Lagune costiere" a carico del sito ZPS IT3250046 "Laguna di Venezia". A quest’area va aggiunta quella corrispondente alla prevista realizzazione di velme in fregio e a protezione del canale che incide su una superficie di fondo lagunare pari a circa126 ettari, anch’essi relativi all’habitat 1150. Infine, a tali aree va aggiunta la superficie interessata dagli interventi di sagomatura tra la gengiva del nuovo canale ed i bassifondi contigui, per una superficie pari a circa 26 ettari.

Allo stato attuale tali superfici giacciono a lato del canale Contorta S. Angelo e ammontano a 196 ettari di habitat prioritario 1150. Nonostante si tratti di una percentuale di habitat prioritario pari allo 0,8% della superficie complessiva di questa categoria di habitat presente nell’intero sito IT3250046, la valutazione commissionata da Apv ritiene di non poter escludere il verificarsi di effetti significativamente negativi.

L’area interessata dalle nuove barene compensative si trova nel bacino meridionale della laguna di Venezia, tra il margine orientale delle valli da pesca e il cordone barenale più a est, in corrispondenza delle barene denominate Raina e Ravaggio. Il Progetto stima che il 68% dei sedimenti dragati possano essere utilizzati per la realizzazione di circa 400 ettari di barene artificiali nell’area sopra indicata. Inoltre, prevede di ottenere circa 200 ettari di habitat comunitario, suddivisi tra i seguenti siti: 1510 ‘Steppe salate mediterranee (Limonetalia) con una superficie attesa variabile tra 2 e 10 ettari; 1310 ‘Vegetazione pioniera a Salicornia e altre specie annuali delle zone fangose e sabbiose’ (50 ettari) e 1420 ‘Praterie e fruticeti alofili mediterranei e termo-atlantici (Sarcocornetea fruticosi) con una superficie di 100-120 ettari. Le rimanenti superfici (circa la metà dei 400 ettari in compensazione) saranno occupate da corpi idrici interni alle barene (stagni e piccoli canali) e da habitat terrestri non comunitari.

Per quanto riguarda l’avifauna l’analisi rinvia a rilievi effettuati 6-7 anni fa su circa 80 barene artificiali nella zona in oggetto, in cui si è registrato l’insediamento di colonie miste di fraticello, avocetta, cavaliere d’Italia e coppie singole di fratino, per complessive 200-300 coppie. Si ipotizza che altre specie di interesse conservazionistico (non incluse in All. 1 della Direttiva 147/92 CE) potranno essere presenti, quali la pettegola, la beccaccia di mare e la volpoca, con ulteriori 50-100 coppie.

Contesto pianificatorio e programmatico
La Via e gli studi allegati concludono che il progetto è coerente con le norme e le strategie di pianificazione locale, d’area vasta e settoriale. Si tratta di una interpretazione troppo sintetica che tende ad avvalorare la supremazia dell’ordinamento speciale e di autority (come Apv) sulla gestione ordinaria.

Gli indirizzi stabiliti dal Governo in materia di salvaguardia con la legislazione speciale non limitano il campo di scelta di Ptrc, Palav, Ptcp, Prg, Pat e della Variante per la Laguna e le Isole Minori. Semmai rinviano ad un coordinamento delle competenze sul tema specifico, tema tenuto in sordina dallo studio allegato alla Via. Questo studio si limita alle cosiddette ‘incidenze regolative’, ovvero alle norme tecniche che possono dialogare nel ristretto dominio spaziale del progetto di nuovo canale. Ma i punti di contatto sono di maggiore portata.

La Variante per la Laguna e le Isole Minori, ad esempio, intende fornire una visione complessiva dell'ambiente lagunare e dei suoi canali, specificando localmente priorità e modalità con cui effettuare interventi di ripristino morfologico della laguna aperta, ma anche usi e funzioni delle isole minori e dei territori di gronda.

Il Palav (1997 e 1999) definisce prescrizioni e vincoli per la laguna viva. In particolare, consente operazioni di ripristino degli ambienti lagunari e/o manutenzione dei canali a fini idraulici, di vivificazione della laguna e di percorribilità, anche mediante l’estrazione di fanghi da utilizzare (se di qualità) per ripristino di strutture morfologiche. Altri interventi sono soggetti a valutazione di compatibilità ecologico-ambientale. Questo piano non consente la realizzazione di nuove infrastrutture tecnologiche aeree, mentre la navigazione a motore nei tratti fuori canale è consentita esclusivamente per scopi di vigilanza, soccorso, manutenzione delle infrastrutture esistenti, tutela, ricerca o pesca professionale.

Non è chiaro lo scenario assunto dal PTRC (2009 e Variante del 2013) quando rileva la necessità di “prospettare nuove integrative soluzioni di un impianto portuale aggiuntivo’, per far fronte a previsioni d’incremento della domanda, con accesso dalla bocca di porto di Malamocco. L’incertezza rimane anche quando propone un “progetto strategico” relativo al sistema portuale. Si ipotizza che il riferimento sia all’istituto del ‘progetto strategico’ ex Lur 11/2004 che, nel caso specifico, richiederebbe il ricorso all’istituto dell’Accordo di Programma.

Si rileva che il Piano Regolatore Portuale (Prp) vigente è del 1965 per la parte di Marghera, mentre per la sezione di Marittima il piano vigente risale al 1908. Questi strumenti, lungi da rafforzare Apv, la isolano e la indeboliscono anche in sede di concertazione interistituzionale.

Un esempio viene dalle stesse opere previste dal progetto. Otre alla costruzione del canale Contorta S. Angelo per l'accesso alla Marittima sono previsti l'adeguamento del relativo bacino di evoluzione e la riprofilatura del curvone di San Leonardo. Con questi interventi, il progetto forza l’ambito portuale gestito da Apv, richiedendo la variazione del PRP per entrambe le sezioni. E ciò non solo (e non tanto) in relazione alla legge obiettivo, ma soprattutto al quadro pianificatorio vigente e al quadro conoscitivo maturato nell’ultimo mezzo secolo.

Le aree interessate dal progetto ricadono in zone appartenenti a Rete Natura 2000. Sono sottoposte a Vinca le “Oasi di protezione della flora e della fauna“ della Provincia di Venezia, in particolare quelle nei pressi di Cassa di Colmata A (numero 30 in planimetria del rapporto), Laguna sud (numero 35), Cassa di Colmata D/E (numero 31).

Come succede spesso (e il rapporto che accompagna la Via non ne è esente) la Vinca viene effettuata sullo stato dell’habitat e delle specie, senza attenzione alla dinamica ecosistemica e bionomica. Non è dato di sapere se lo ‘stato’ si trovi su una funzione di medio-lungo periodo migliorativa o di degrado, elemento questo di straordinaria caratterizzazione del sito e della sua biodiversità. Inoltre, la Vinca non coglie eventuali effetti cumulativi che, nello specifico, sono determinati dalla combinazione di traffico merci e passeggeri, oltre che dalle dinamiche morfologiche ed ecologiche dell’intero sistema lagunare.

Il Ptcp di Venezia (2010) non evidenzia per le diverse aree interessate dal progetto vincoli diversi o aggiuntivi rispetto a quelli già individuati da Ptrc, Palav e da Rete Natura 2000. La tavola delle fragilità segnala che nell’intorno dell’area di progetto esistono molti elementi di vulnerabilità: l’area industriale di Porto Marghera con gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante, il Sito di interesse nazionale (Sin) di Porto Marghera (per la porzione lagunare), e il Lido caratterizzato da un’elevata vulnerabilità degli acquiferi all’inquinamento.

L’intera laguna rappresenta un’area nucleo e un corridoio ecologico d’area vasta. Ciò viene acquisito anche nelle norme del Ptcp di Venezia ove specifica che ‘i tracciati di nuove infrastrutture viabilistiche e ferroviarie dovranno limitare l’interferenza con le aree nucleo’. Sostiene inoltre che ‘i tratti di viabilità esistenti o di progetto affiancati ai corridoi ecologici devono essere realizzati con le caratteristiche di corridoi infrastrutturali verdi, realizzando una adeguata permeabilità ecologica e fasce laterali di vegetazione di ampiezza adeguata caratterizzate da continuità e ricchezza biologica’.

Anche senza modificare le competenze attuali, il progetto del nuovo canale consiglia un aggiornamento in chiave ambientale e lagunare della normativa del Ptcp, ma si presume anche di quella del Ptrc e degli strumenti di pianificazione locale. Poiché un canale navigabile è assimilabile a infrastruttura di mobilità, la tutela dell’area nucleo e del corridoio d’area vasta a cui appartiene richiede la minimizzazione delle interferenze generate non soltanto da infrastrutture viabilistiche e ferroviarie, ma anche da infrastrutture dedicate alla navigazione. Ciò è ormai acquisito nelle esperienze di pianificazione dello spazio marino/marittimo che interpretano domande e conflitti presenti in mare aperto, nelle baie e nelle lagune, ma anche nelle zone di gronda e nelle reti navigabili di connessione fra mare e zone interne.

La pianificazione comunale (Venezia, Mira e Campagna Lupia in primis), in accordo con gli strumenti di pianificazione sovraordinata, limita lo sviluppo della diportistica e impedisce interventi in aree protette con eccezioni per interventi di pubblico interesse e in presenza di diritti acquisiti. Questi ultimi riguardano interventi già previsti dai vigenti strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica comunale con soglie di capacità ricettiva, interventi di recupero di aree, specchi d’acqua, banchine e moli esistenti, o relativi a progetti di riqualificazione territoriale che prevedano anche interventi di riallagamento. Non vengono citati i canali di navigazione che, pur ricadendo in domini di competenza diversa, non possono comunque esimersi dal rispetto delle norme ambientali.

Si è in presenza di una criticità normativa o di una discutibile interpretazione delle competenze se le indicazioni riportate in norme, direttive e prescrizioni riguardano soltanto il traffico ricreativo, sportivo e turistico e non quello (altrettanto, se non più importante per gli equilibri sistemici) afferente alla portualità. Questi difetti emergono in modo ancor più critico quando il PRGC di Venezia conferma il ruolo strategico delle aree portuali come “teste di ponte specializzate per i movimenti interni della città bipolare [...] con particolare riguardo alla funzione passeggeri”.

Ancor più esplicita è la Variante al PRG per la Laguna e per le Isole Minori (in particolare la scheda relativa al sistema della laguna aperta) ove assoggetta a controllo e a regolamentazione gli usi antropici incompatibili con gli obiettivi di tutela, soprattutto quelli legati al traffico acqueo e alla pesca con mezzi meccanici. La Variante auspica interventi necessari all’isolamento delle aree inquinate e alla depurazione dei reflui civici e industriali, oltre ad interventi di riequilibrio idrodinamico per contenere gli effetti del canale dei Petroli, riducendo le correnti trasversali ed aumentando la stabilità dei fondali e delle sponde. L’attenzione è al traffico acqueo e allo stesso canale dei Petroli che, con il nuovo canale Contorta, richiederebbe interventi di irrigidimento ancor più pesanti.

Il Pat di Venezia, adottato nel 2012 e in periodo di salvaguardia (fino al 2017), recepisce quanto previsto dagli strumenti sovraordinati, in particolare gli ambiti dei parchi o gli ambiti destinati all’istituzione di parchi, le riserve naturali ed archeologiche e a tutela paesaggistica, le zone umide e i centri storici, nonché le perimetrazioni del Palav (art. 10 delle Nta). Sono recepiti inoltre i perimetri dei siti della Rete Natura 2000.

Nel sito di progetto il Pat individua prevalentemente aree di laguna viva e, limitatamente all’Isola di San Giorgio in Alga, aree di interesse ambientale. Esso specifica che in laguna viva “sono consentite operazioni di ripristino degli ambienti lagunari e/o manutenzione dei canali a fini idraulici, di vivificazione e di percorribilità”.

In sostanziale continuità con il precedente PRG riconosce il ruolo strategico assunto dal porto di Venezia ed individua il sistema della mobilità costituito dalle principali linee di forza del trasporto pubblico lagunare, di cui il canale Contorta potrebbe diventare un asse nei collegamenti tra il centro storico di Venezia, Fusina e il Polo industriale di Porto Marghera. Si tratta comunque di mobilità interna che potrebbe essere addirittura compromessa dal nuovo progetto.

Per le isole minori di San Giorgio in Alga e dell’Isola di Sant’Angelo della Polvere, il Pat dispone azioni di riqualificazione e/o riconversione ai sensi dell’art. 29 delle Nta.

L’attivazione del Piano degli interventi (Pi), oltre ad essere una occasione per operare in una logica di portfolio, potrebbe essere un motivo per raccordare le politiche di salvaguardia, integrandole in uno strumento coordinato con la Provincia di Venezia e gli altri comuni di gronda, ma anche con i soggetti dell’ordinamento speciale. Va inoltre rilevato che il Comune di Venezia è soggetto referente per I’ Unesco del redigendo Piano di gestione del sito

“Venezia e la sua Laguna”.
Come auspicato nel Piano Morfologico del 1993, nelle Linee-Guida del 2004 e nel Piano Morfologico in gestazione, oltre che da numerosi studi e proposte sulla morfologia lagunare, l’ arresto e l’inversione del degrado in bacino centrale richiedono un progetto integrato di ingegneria naturalistica, finalizzato al recupero delle quote e della variabilità morfologico altimetrica.

Si segnala che il Piano Morfologico commissionato al Corila dal Magistrato alle Acque, e tuttora in procedura Vas, non considera il progetto Apv tra gli interventi strutturali. Esso propone, invece, un articolato portfolio di interventi strutturali e gestionali, fra cui la costruzione di strutture morfologiche artificiali per limitare il trasporto di sedimenti verso il canale Malamocco Marghera. L’intervento, denominato MID1, prevede la movimentazione di un volume di sedimento di buona qualità pari a circa 2 milioni di mc.

Per quanto concerne i sotto-servizi, il progetto Apv intende risolvere le interferenze mediante spostamento o interramento. L'attività prevede, senza specifiche operative, lo spostamento dell'oleodotto ENI, del PIF, di una linea Enel, di una linea Terna, di due gasdotti e l'interramento di un elettrodotto Enel.

L’assenza di specifiche operative non consente la valutazione dei relativi impatti.

Paesaggio
Il sito interessato dal progetto Apv ricade interamente nell’ambito paesaggistico ‘Laguna di Venezia’ identificato dal Ptrc (2009) e confermato dalla sua Prima Variante (2012). E’ sufficientemente ampio da comprendere valori naturalistici, ambientali e storico-culturali. Il Ptrc per ogni ambito definisce obiettivi di qualità e per l’ambito lagunare prevede uno specifico Piano paesaggistico (Ppra) coordinato dalla Regione del Veneto.

La valutazione di impatto paesaggistico allegata alla Via offre un bilancio parziale e sintetico rispetto agli obiettivi di qualità d’ambito a favore di due prospettive analitiche: il livello di incidenza morfologico-tipologica e il livello di incidenza visiva.

Si tratta di due prospettive importanti negli esercizi di valutazione paesaggistica, e a maggior ragione in un contesto come la Laguna di Venezia, ma che potrebbero acquistare maggior vigore se interagissero esplicitamente con le dimensioni ambientale (soprattutto bionomiche, non di tipo ‘matriciale’) e storico-culturale. In questa interazione potrebbe assumere connotato operativo il concetto di ‘figura di paesaggio’ (o figura territoriale), del tutto assente negli studi valutativi allegati alla Via e nello stesso Ptrc.

La valutazione del livello di incidenza morfologica e tipologica evidenzia come la quota attesa per le nuove barene artificiali sia ‘prossima o leggermente superiore a quella caratteristica delle barene naturali’. Ma se il fattore “elevazione sul medio mare” è aspetto cruciale nell’esecuzione delle opere, non dovrebbe essere comunque sottovalutata la granulometria dei sedimenti utilizzati (fattore ritenuto marginale), specie per quanto concerne la comparabilità delle dinamiche morfologiche ed ecologiche rispetto alle barene naturali.

La valutazione del livello di incidenza visiva considera di rilevanza secondaria la presenza di briccole, mede e del sentiero luminoso a margine del canale. In modo analogo sono considerate le interferenze visibili sopra il livello delle acque durante l’assestamento dei margini del canale e delle nuove strutture morfologiche e durante la fase di esercizio, con riguardo al transito delle navi da crociera oltre al citato sentiero luminoso.

Non risulta alcun riferimento alla Legge regionale del 17/8/2009 nonostante l’importanza della sorgente luminosa e le possibilità di ottimizzazione degli effetti-luce.

In generale, lo studio allegato alla Via ritiene che ‘la significatività delle opere visive di progetto rapportata allo stato attuale non alteri ulteriormente il profilo dello skyline percepibile dalla città di Venezia’. Inoltre, considera trascurabile l’impatto sul paesaggio nella zona interessata dal progetto ‘in ragione della scarsa percettibilità delle modifiche al contesto paesaggistico attuale’. Sostiene, infine, che il progetto non comprometterebbe i caratteri tipici della laguna, ma si integrerebbe con l’ambiente circostante ‘grazie alla realizzazione di strutture morfologiche tipicamente lagunari’. La documentazione esibita in proposito è carente.

Potenziale e rischio archeologico
Il D.Lgs. n. 63/2005 è il primo strumento normativo che definisce gli ambiti di intervento della archeologia preventiva. Esso regolamenta la progettazione di opere pubbliche e private in rapporto al loro “impatto” archeologico. Il Decreto è stato successivamente convertito nella Legge n. 109/2005 e i suoi principi assumono rilevanza operativa negli strumenti di pianificazione locale.

Nello specifico è richiesto un preventivo parere favorevole della Soprintendenza ai Beni Archeologici per gli interventi in laguna aperta che comportino movimento di terra. Nelle vicinanze dell’area di scavo del Canale Sant’Angelo-Contorta si trovano le isole di San Giorgio in Alga e Sant’Angelo della Polvere, ma sono segnalati anche altri siti di interesse.

Il sistema di isole e motte è associato alla ZTO “A” in Pat adottato (2012) e le norme per le due isole prevedono il ripristino, per quanto possibile, dell’assetto pre-ottocentesco, il restauro di quanto resta dei manufatti prenapoleonici, il recupero all’uso anche con parziale ripristino dell’edificato, secondo la morfologia documentata degli edifici abbattuti e l’eliminazione delle superfetazioni novecentesche.

Per queste ragioni, la Via è integrata da un documento di valutazione archeologica preventiva che deriva dal D.Lgs. 163/06 ss.mm. (“Codice dei Contratti e degli Appalti) e dalle linee guida contenute nel Decreto Interministeriale Ministero per i Beni e le Attività Culturali definito di concerto con il Ministero delle Infrastrutture.

Il documento rileva un'assenza di evidenze archeologiche direttamente sul tracciato dell'opera, ma la ricerca bibliografica e i dati d'archivio evidenziano la presenza di numerosi siti nell'area di buffer di 2500 m attorno al tracciato, quindi una fascia di 5 Km a cavallo dell’asse di navigazione. Va riconosciuto che lo studio ha preso in considerazione anche la fascia di laguna e di gronda lagunare adiacente al tracciato dell'opera per un'area che va da Tessera agli Alberoni. Dei 186 siti schedati, 72 rientrano in questa fascia.

Dalle testimonianze della prima cartografia disponibile ad oggi si rileva come il canale Contorta, da cieco e privo di sbocco, sia diventato nel tempo più riconoscibile e al centro della questione della gestione del fiume Brenta e dei rapporti con l’area padovana, per ragioni commerciali e di sicurezza. Esso ha perduto di importanza con l’arretramento del margine lagunare e la diminuzione degli apparati intertidali, ma soprattutto con gli interventi di imbonimento e bonifica in quelle che sono successivamente diventate zone industriali e portuali.

Rinvenimenti archeologici degli ultimi anni lungo l'asta del canale risultano scarsi, ma nelle aree limitrofe hanno confermato un significativo potenziale. Non è, infatti, da escludere la possibile presenza di livelli antropizzati preistorici, soprattutto nel caso di interventi di scavo molto profondi. E’ presente una significativa concentrazione di evidenze di epoca romana localizzata in prossimità di Fusina (una delle possibili foci del Brenta in laguna), anche se all'interno del buffer di 400 m ricade un solo sito ove è stato rinvenuto un cippo funerario durante lavori nell'isola di S. Angelo della Polvere. Sempre all’interno dello stesso buffer ricadono 4 siti riferibili all’epoca tardo-antica e medievale. Due siti sono molto vicini all'opera in progetto e pertanto si possono configurare come potenziali interferenze archeologiche. Per alcuni di questi siti (come Fusina e San Leonardo in Fossamala) i rinvenimenti fanno supporre una frequentazione antropica prolungata, anche se non continuativa, che può risalire fino all'età del Ferro, mentre più sporadiche e di difficile determinazione stratigrafica risultano le testimonianze di epoche più antiche.

Va rilevato come nella Carta dell'analisi di densità delle presenze archeologiche una delle maggiori concentrazioni di siti segnalati si localizzi presso la confluenza del canale Contorta S. Angelo con il canale Malamocco-Marghera, denominata “le motte di Volpego”.

Come ricorda lo studio allegato alla Via, in epoca rinascimentale questa zona era nodo di transito strutturato con canali (come il “ramo di mezo”) dove si impostava il “traversagno”, struttura lignea di conterminazione e separazione di acque e bacini. Tale canale, come evidenziano cartografia antica e notizie storiche, presenta un percorso stabile fino ad epoca recente quando viene connesso attraverso la ‘coda pinzola’ alla via di percorrenza del Malamocco-Marghera. Prima si trattava di un canale che congiungeva Venezia all'isola di Sant' Angelo de Concordia-Contorta e infine a sant'Angelo della Polvere. Dal punto di vista archeologico si hanno pochi dati sull'isola tranne la notizia del rinvenimento, da uno scavo effettuato nel 1849, di un pavimento in cocciopesto (alla profondità di -0,70 m dal p.c.) al di sotto del quale, alla profondità di circa -2.75 m dal p.c., è stato trovato il cippo funerario romano sopra citato.

L'analisi conclusiva del rischio archeologico ha evidenziato pertanto che nel buffer dei 400 metri solo l'isola di Sant'Andrea in Contorta potrebbe avere un alto potenziale di rischio, mentre l'intersezione dell'opera con la via marittima Malamocco-Marghera, pur avendo una importante concentrazione di rinvenimenti risulta a medio rischio, poiché la continua erosione delle rive del canale ha fortemente intaccato le evidenze individuate in passato. E’ comunque raccomandabile che la reale consistenza e il potenziale vengano verificati.

All'interno della fascia dei 5000 metri si rinvengono invece più siti con presenze storiche fortemente concentrate: l’ area all'interno dell'isola sommersa di San Marco in Bocca Lama, dove attraverso un parancolato si conservano due imbarcazioni (una galea e una ‘rascona’ utilizzate per allargare il perimetro dell'isola), la zona del complesso monastico di San Leonardo in Fossa Mala, da tempo oggetto di studi, e la stessa isola di San Giorgio in Alga, dove probabilmente permangono non scavate tutte le strutture dell'antico convento benedettino.

Elementi di approfondimento

A conclusione della presente nota e a complemento di quanto detto sopra si propongono i seguenti temi di approfondimento generali e specifici (sull’opzione Contorta).

Temi generali
1. Il progetto e il relativo esercizio valutativo vanno ancorati a scenari di lungo periodo dell’assetto lagunare rispetto ai quali occorre considerare con attenzione sia la plausibilità di strategie pregresse che opzioni di accesso aggiuntive.
2. Il progetto va valutato in termini di contributo all’assetto lagunare atteso e non soltanto in termini di impatto su un ‘ipotetico’ stato attuale. Analogamente, il progetto dovrebbe essere valutato con riferimento a variazioni rispetto a stati di riferimento opportunamente selezionati. Assetto lagunare atteso e stati di riferimento sono definiti da profili eco-morfologici e rispetto ad essi vanno calibrate le misure di mitigazione e compensazione.
3. La valutazione ambientale va integrata con quella economica, e quella economica deve considerare i benefici netti in termini di variazione dei profili eco-morfologici (attesi e/o di riferimento), al lordo delle misure di mitigazione e compensazione. Queste dovrebbero essere valutate rispetto al portfolio-progetti proposto dal Piano morfologico in standby (2014).
4. Alla valutazione vanno garantiti sufficienti gradi di indipendenza (terzietà) tenendo conto che la gestione ‘speciale’ dovrà dare più spazio ad un modello di governance lagunare.

Temi specifici (sull’opzione Contorta)
1. La valutazione idro-morfologica dovrebbe riguardare l’intera laguna centrale, in particolare la partizione compresa fra i due partiacque e non soltanto l’area del canale. Ciò consentirebbe di ottenere un quadro più preciso in merito alla variazione degli stessi partiacque, ai fenomeni erosivi (vedi sponda ovest del canale Malamocco-Marghera), sulla circolazione delle acque (tempi di residenza, velocità, ecc.) anche a seguito di diversi stress mareali e alternative configurazioni di canale e dintorni (sezione, affioramento delle barene, livelli di sommersione delle velme e così via).
2. Oltre all’allineamento fra fase analitica e di progetto, il modello d’onda utilizzato potrebbe fornire simulazioni per livelli anche inferiori a 0 m.s.l.m.m., con velocità di transito dei natanti differenziate, considerando granulometrie diverse (non solo D50=180 micron) e lo stato coesivo dei sedimenti. Le velocità di transito vanno meglio calibrate su un profilo di traffico che, con circa 1000 toccate medie/anno, prevede che circa il 40% dei navigli superi le 40 kton.
3. Non può essere sottovalutata la differenza di impatti fra una cunetta da 100 e 120 metri e sembra discutibile assumere il comportamento di una sezione da 100 m come media fra le sezioni da 120 e 80 metri.
4. La valutazione degli impatti ambientali richiede evidenze empiriche più precise sulla correlazione fra stati ambientali (per matrici) e attività portuali, distinte per componenti crocieristica e merci.
5. La stima della qualità dei sedimenti richiede opportuna caratterizzazione e adeguamento dell’approccio derivante dalla applicazione del Protocollo Fanghi 1993 e dalle proposte finalizzate al suo aggiornamento.
6. La valutazione di impatto ambientale non menziona in modo sufficiente gli effetti cumulativi.
7. La localizzazione delle strutture morfologiche a compensazione va valutata nel sito proposto (laguna sud) e in siti alternativi proposti dal Pmlv in standby.
8. La lettura della pianistica va effettuata in una logica sistemica e in termini di governance.
9. La valutazione di impatto paesaggistico, in ambito Via, potrebbe privilegiare l’approccio per ‘figure di paesaggio’ e, contestualmente, quello bionomico.
10. La Vinca dovrebbe riferire lo stato e gli impatti attesi alla dinamica migliorativa o regressiva dei siti di interesse comunitario.

postilla
La "nota" è del responsabile dei gruppi di lavoro Pianificazione e Vas, che ha curato, organizzato e messo a sistema i cospicui studi delle unità disciplinari che hanno lavorato e interagito alla redazione del Piano morfologico 2006-2010, che sta inoltre seguendo l'iter per la sua approvazione. Domenico Patassini è esperto in tecniche di valutazione per la pianificazione, docente dell'Università IUAV di Venezia, già Preside della Facoltà di Pianificazione del Territorio dello stesso Ateneo. (m.p.r.)

    Una scelta politica e sociale dell'amministrazione di Milano, molto in linea con tante altre strategie, territoriali e ambientali, compreso il contenimento del consumo di suolo. Corriere della Sera, 20 ottobre 2014, postilla (f.b.)

    MILANO - Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano.

    Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: «Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata». Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a «servizio».

    Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. «Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche». Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: «Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo». Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: «Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità».

    Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce «culturale». «Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi». Il secondo: «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: «ghettizzazione». La sostanza non cambia.

    postilla
    Significativo: ci vuole uno che per propria ammissione non ne capisce, e non ne vuole capire, nulla di urbanistica, per far sì che le scelte urbanistiche pur importanti non galleggino nel vuoto della tecnocrazia. Quale migliore strategia per un rilancio complessivo delle potenzialità urbane, contro lo spreco di risorse ambientali e sociali della dispersione cara agli sviluppisti del territorio, che una pratica seria e non di facciata della vera composizione funzionale? Città vuol dire densità, ma anche complessità, e allontanare verso un vago misterioso limbo extra moenia tutto ciò che non si vuole risolvere, dall'industria al carcere alle abitazioni economiche alle attività sensibili (che siano inceneritori o sale lapdance), è solo negare sé stessi. Forse spiacerà a chi sperava in qualche riuso o recupero del sistema panottico cellulare in senso espositivo congressuale, del genere che piace a tanta cultura dei progettisti, ma è molto meglio così: scopare i problemi sotto il tappeto della greenbelt li sposta solo nel tempo peggiorandoli, come ben sappiamo (f.b.)

    Qualche riflessione in più su La Città Conquistatrice: Galeotto fu il Mixed-use!

    «Ferrovie e autostrade sono monopoli naturali regolati. Con molte similitudini. A partire dal fatto che manca la volontà di intaccarne il potere. Permettendo così a Fsi di bloccare qualsiasi apertura alla concorrenza o riduzione dei sussidi pubblici». Lavoce.info, 17 ottobre 2014

    Le vite parallele di ferrovie e autostrade


    Appare evidente che i concessionari autostradali costituiscano “poteri forti”, soprattutto dopo il decreto “sblocca Italia”, che di fatto elimina ogni possibilità di avere competizione in un settore che ha già visto vistosi fenomeni di rendita nel passato (vedi gli interventi su lavoce.info di Giorgio Ragazzi e di Tito Boeri su La Repubblica). Ma qui cercheremo di dimostrare che le Ferrovie dello Stato (Fsi) non sono da meno. Entrambi i gruppi sono monopoli naturali regolati (solo l’infrastruttura, nel caso ferroviario), di grandi dimensioni, con fatturati rilevantissimi, dell’ordine dei 5 miliardi annui per le autostrade e di 8 per Fsi. Generano forti interessi esterni tramite forniture e appalti, anch’essi miliardari, interessi che ovviamente contribuiscono a generare una straordinaria capacità di pressione politico-economica (“clout”, in termini regolatori).
    Fin qui le similitudini. Le differenze forse sono a favore di Fsi. Infatti, mentre l’occupazione diretta nel settore autostradale è limitata a poche migliaia di unità, e frazionata tra i diversi concessionari, per Fsi si tratta di 80mila lavoratori di una stessa azienda, per di più interamente pubblica, quindi con straordinarie capacità di influire sul consenso elettorale. E qui il fatto che Fsi costi alla Stato 8 miliardi annui in media (12 miliardi calcolando anche il fondo pensioni straordinario di cui gode l’azienda), paradossalmente ne aumenta il “clout”: mentre la redditività delle autostrade garantisce sia l’occupazione che i livelli retributivi, per Fsi questi dipendono strettamente dalla sfera politica.
    La durata delle concessioni vede in vantaggio Fsi: 60 anni per l’infrastruttura, una durata di fatto eterna, mentre le concessioni autostradali hanno scadenze lunghe, ma finite. Inoltre, Fsi è anche monopolista nei servizi passeggeri che eroga (si tratta di monopoli legali) sulle linee non di alta velocità. E lo è di fatto nei servizi regionali, avendo sempre vinto le poche gare bandite per l’affidamento, gare il cui bando non era certo favorevole a “new entrants”, a volte per esplicita scelta politica.

    Un'impresa troppo grande

    Vediamo ora alcune caratteristiche tecniche che per entrambe le realtà rafforzano il ruolo tutto politico della loro natura di “grandi monopolisti” (per il settore autostradale ci si riferisce all’impresa di gran lunga dominante, Autostrade per l’Italia, che detiene circa il 60 per cento della rete a pedaggio, ma percentuali ancora maggiori in termini di traffico). La teoria regolatoria, ma anche il buon senso, insegna che occorrerebbe, per le imprese regolate, che il regolatore determini “dimensioni minime efficienti”. Cosa significa? Che il regolatore deve soppesare le economie di scala possibili (l’efficienza produttiva delle imprese) con dimensioni tali da non rendere eccessivo il peso politico-economico dei soggetti regolati, che vanificherebbe nei fatti il suo stesso reale potere regolatorio (accanto al già citato termine “clout” si potrebbe introdurre quello del “too big to fail”).

    Per Fsi, la separazione verticale tra rete e servizi già sarebbe una azione che ne diminuirebbe sensibilmente il “clout”, e l’ipotesi è allo studio da parte della neo-costituita Autorità di regolazione dei trasporti (Art), ma solo a fini conoscitivi. Per le reti infrastrutturali di entrambi i regolati, l’esistenza di economie di scala è quantomeno dubbia, e comunque mai misurata. Per la ferrovia, un tentativo fu fatto anni fa da Gian Carlo Loraschi, che lo portò a ipotizzare in termini intuitivi la suddivisione della rete in quattro imprese (Nord, Centro, Sud e Isole, sul modello giapponese), da sottoporre a una qualche forma di “yardstick competition” (competizione per confronto).
    Si ricorda solo l’ira delle ferrovie per tale ipotesi e la fine improvvisa della collaborazione con quello studioso. E in effetti qualche economia di scala si potrebbe verificare per la rete solo negli acquisti di materiali di manutenzione, comunque già oggi frazionati dalla dimensione nazionale della rete stessa perché l’obsolescenza non è certo simultanea nel tempo, per tali materiali. Un’altra componente che potrebbe scoraggiare il frazionamento delle rete è il livello di progresso tecnico del settore (è stata questa una delle basi della difesa di Microsoft contro ipotesi regolatorie di frazionamento dell’impresa, allora dominante, anche in termini di contendibilità). Ma la natura di monopolio naturale della rete ferroviaria, al contrario del caso Microsoft, esclude ogni possibilità di apertura della concorrenza per questa via.

    Il sostegno politico

    Da ultimo, va considerata la solida capacità di entrambi i monopolisti di avere supporti politici, sia a livello parlamentare che a livello locale. Per il livello locale, la cosa è ovvia: entrambi i settori non pesano sulle risorse locali, ma costruendo infrastrutture e, per Rfi, gestendo anche servizi finanziati dallo Stato, costituiscono importanti fattori di consenso locale “senza costi politici”. Il tentativo di modificare l’incentivo perverso implicito nei finanziamenti statali “earmarked” per i sussidi ai servizi ferroviari locali, trasferendo le risorse corrispondenti direttamente alle Regioni, è paradossalmente fallito a causa delle Regioni stesse, che hanno “restituito” allo Stato la discrezionalità di tale finanziamento. E ciò al fine di evitare conflitti locali nell’allocazione delle risorse, soffocando così anche il contenuto democratico di un dibattito esplicito sulle priorità sociali della spesa.

    A livello centrale, il “clout” di Rfi è costituito verosimilmente anche dalla pressione delle lobby dei costruttori, data l’enorme quantità di risorse pubbliche destinate alle infrastrutture ferroviarie, finanziate integralmente a fondo perduto (si stimano 40 miliardi , in moneta attuale, solo per l’alta velocità). Su tutto, regna l’asimmetria informativa: Fsi continua (giustamente, dal suo punto di vista) a dichiarare utili di esercizio, ma nessuno sembra ricordare che tali utili avvengono a valle di trasferimenti pubblici (che, secondo Ugo Arrigo, hanno contribuito per non meno di 300 miliardi di euro al debito pubblico nazionale. Quei conti possono essere discussi, ma l’ordine di grandezza è indubbio). A fronte di tali trasferimenti, non è mai stata tentata una verifica di risultati (per esempio, rapporto costi/benefici per gli investimenti, riduzione delle emissioni, effetti distributivi, eccetera).
    Per concludere: come per le autostrade nessuna azione politica sembra intenzionata a intaccarne il potere monopolistico, così Fsi sembra godere di un simmetrico e forse ancor maggiore potere, in grado di sventare qualsiasi disegno sia di reale apertura alla concorrenza, almeno tale da metterne a rischio la posizione dominante, sia di riduzione dei sussidi pubblici (chiamati pudicamente “corrispettivi”). Si può stimare infatti che Fsi detenga circa il 90 per cento del fatturato del settore ferroviario italiano, tra ricavi e trasferimenti pubblici. E il problema è notoriamente presente anche a livello europeo, come è emerso nel convegno sulle ferrovie promosso recentemente a Torino proprio dalla Autorità di regolazione: il Parlamento europeo poche settimane fa ha sostanzialmente bocciato il “quarto pacchetto” della Commissione (organo tecnico del Parlamento), che proponeva timide accelerazioni del processo di liberalizzazione del settore ferroviario, pacchetto giudicato eccessivamente pro concorrenziale. Se Sparta piange, Tebe non ride: la lobby ferroviaria appare fortissima anche a livello europeo.

    Una rassegna stampa sui fatti della settimana don articoli di Vitucci, Pirani e Erbani, e l'intervista a Luigi D'Alpaos. La Nuova Venezia e la Repubblica, 11-17 ottobre (m.p.r.)


    La Nuova Venezia, 17 ottobre 2014
    Canale Contorta, pioggia di osservazioni
    di Alberto Vitucci
    «Mancanza di studi approfonditi. E di riferimenti alle leggi in vigore, a cominciare dai vincoli imposti dal sito Unesco. Contrasto con il Pat, il Piano di assetto del territorio del Comune che all’articolo 35 bis delle Norme tecniche prescrive la definitiva estromissione delle navi incompatibili con la città storica e col contesto lagunare». «Gli studi idrodinamici sono errati e le alternative non sono state studiate». Un fuoco di fila quello contenuto nel pacchetto di osservazioni al progetto Contorta-Sant’Angelo inviato ieri dall’associazione Ambiente Venezia e dal Comitato No Grandi Navi al ministero per l’Ambiente.
    Dodici osservazioni firmate dal portavoce Luciano Mazzolin e da Armando Danella, per vent’anni dirigente dell’Ufficio Legge Speciale del Comune, che chiedono in sostanza al governo di ritirare il progetto del nuovo scavo. Nel documento si elencano carenze e insufficienze del Sia (Studio di Impatto ambientale) redatto dall’Autorità portuale. E si ricordano «errori» contenuti nei documenti, in particolare per il mancato rispetto delle norme di legge e dei Piani urbanistici. Osservazioni inviate allo scadere del termine (il 17 ottobre). Che però Comune e Regione hanno ottenuto di prorogare. Da Roma è arrivato l’ok, perché si tratterebbe di un termine «ordinatorio» e non «perentorio». Per mettere a punto le osservazioni, il Comune ha insomma qualche giorno di tempo in più.
    E in queste ore i tecnici dell’assessorato all’Ambiente, la direzione generale e i consulenti del Corila stanno mettendo a punto il loro parere. Che tratterà soltanto gli aspetti ambientali del progetto e non quelli economici e trasportistici. Si chiedono chiarimenti sulle modalità utilizzate per gli studi, ma anche sul percorso burocratico seguito. Secondo il Porto si tratta infatti di un’opera strategica, di priorità nazionale, per questo inserita nelle procedure rapide della Legge obiettivo. Secondo gli oppositori del nuovo scavo la procedura è invece «illegittima», non essendo il progetto Contorta inserito nell’elenco di opere finanziate dal Cipe e non avendo l’Autorità portuale titolarità a presentarlo. Una risposta dovrebbe arrivare nelle prossime ore dal ministero delle Infrastrutture, più volte chiamato in causa in Parlamento da numerose mozioni, interrogazioni e interpellanze. Ultima in ordine di tempo quella del senatore Pd Felice Casson, che ha chiesto chiarimenti sulla «legittimità» degli atti e sul finanziamento di 140 milioni di euro che dovrebbe arrivare dal Cipe. Il sottosegretario Morando ha preso nota e promesso un interessamento.
    Altra mozione quella depositata alla Camera dal Movimento Cinquestelle (primo firmatario Marco Da Villa). Contesta la scelta di scavare un canale che potrebbe rivelarsi dannoso per l’equilibrio dell’ecosistitema lagunare. Altra mozione quella presentata da 40 deputati del Pd (primo firmatario l’ex ministro della Cultura Massimo Bray) che chiede al governo il rispetto dell’ordine del giorno del Senato e l’esame comparato e trasparente di tutte le alternative disponibili. Al Senato è stata presentata anche una mozione di segno contrario, che porta la firma di parlamentari di Ncd e Forza Italia, favorevole allo scavo del Contorta. Scontro che si riaccende, anche alla luce delle tante osservazioni critiche pervenute al ministero. Intanto dal primo gennaio 2015, come ha ribadito il ministro Franceschini, le grandi navi sopra le 96 mila tonnellate non potranno più passare per il canale della Giudecca.
    Repubblica.it Le inchieste, 13 ottobre 2014
    Braccio di ferro tra business e ambiente
    di Francesco Erbani
    VENEZIA - E se il rimedio fosse peggiore del male? E se la soluzione proposta per allontanare le navi da crociera dal bacino di San Marco fosse ancor più dannosa per la laguna del passaggio nelle acque in cui si specchia il Palazzo Ducale di quei giganti da 90, 100mila tonnellate di stazza lorda? Il dubbio assilla Venezia e rimbalza anche fuori dalla città ora che è stato presentato il progetto per scavare in laguna un altro canale, il Contorta Sant'Angelo. Un'opera imponente, costo approssimativo 150 milioni, un'autostrada di 5 chilometri, larga 100 metri e profonda 11. Lungo questa via d'acqua le navi dovrebbero raggiungere la stazione marittima non entrando più in laguna, come accade ora, dalla bocca di porto del Lido, ma dal varco di Malamocco, all'estremità opposta dell'isola. Le navi percorreranno per un tratto il canale dei petroli, canale famigerato, scavato nel 1964 e da tanti considerato l'imputato numero uno dello sconvolgimento dei fragilissimi equilibri lagunari. Dopo una decina di chilometri, stando al progetto, le navi devieranno sulla destra e s'immetteranno nel Contorta Sant'Angelo, un canale che adesso è stretto e poco capiente, ma che diventerà tanto largo da poter accogliere le immense navi.

    Il terremoto Mose. Il progetto, che ora ha iniziato il cammino della Via, la Valutazione d'impatto ambientale, è patrocinato dall'Autorità portuale di Venezia ed è creatura del suo presidente, Paolo Costa. L'idea prende le mosse dal decreto degli allora ministri Corrado Passera e Corrado Clini per allontanare le navi da San Marco dopo il disastro della Concordia al Giglio e per trovare vie alternative. Economista, ex rettore di Ca' Foscari, ex sindaco della città ed ex ministro dei Lavori pubblici, Costa, Margherita poi Pd, è una specie di doge, l'ultimo, in una città scossa e ammutolita dallo scandalo Mose che ha decapitato un'intera classe dirigente. Il sindaco Giorgio Orsoni, patteggiata una condanna, è dimissionario e le elezioni si terranno in primavera. Giancarlo Galan è finito in carcere a Milano e ha patteggiato. Il Consorzio Venezia Nuova, grande motore della corruzione, secondo la Procura, ha le penne abbassate (ma intanto il Mose va avanti). Il Magistrato alle acque è in via di dismissione. Resta Costa, che difende il suo canale aggiungendo che l'operazione non serve solo ad allontanare le navi dal bacino di San Marco, ma ripristina una corretta morfologia della laguna. È, insomma, un progetto ad alta valenza ambientale.

    La polemica infuria. Comitati di cittadini, associazioni ambientaliste e uno dei più esperti ingegneri idraulici, Luigi D'Alpaos, professore a Padova, una sterminata bibliografia sulla laguna di Venezia, sostengono una tesi opposta: lo scavo del Contorta Sant'Angelo è una duplicazione del canale dei petroli che ha prodotto già tanti disastri. Farvi transitare navi di quelle dimensioni - anche tre o quattro al giorno in certi periodi, lunghe 300 metri e alte 60 - è sconvolgente per il fondale. Come dimostrano cinquant'anni di esperienza del canale dei petroli, ogni volta che una nave container lo imbocca per raggiungere Marghera, la prua genera un'onda che si propaga sulla superficie dell'acqua e solleva una grande quantità di materiale dal bassofondo. In parte questi materiali, passata la nave, vengono risospinti indietro e vanno a depositarsi nel canale (che infatti deve essere continuamente dragato: tra il 2004 e il 2012 è stato necessario scavare 7 milioni di metri cubi da questo e da altri canali a uso industriale). In parte, rimasti sospesi, quei materiali vengono allontanati dalle correnti verso il mare aperto.

    Questo fenomeno si moltiplicherebbe con il passaggio delle navi da crociera non solo nel canale dei petroli, ma anche nel Contorta. E andando avanti così, questa è l'accusa, la laguna vedrà sparire definitivamente la ramificazione di piccoli canali nei quali si inalveano le correnti, determinando quel processo idrodinamico che la tiene in vita. La laguna rischia inoltre di diventare un cratere: cent'anni fa, calcola D'Alpaos, la profondità media era di 40 centimetri, ora, a causa di un milione di metri cubi di sedimenti che finiscono in mare aperto ogni anno, siamo a un metro e mezzo. E se non si porrà rimedio, fra cinquant'anni si scende a due e mezzo. La laguna sarà un braccio di mare. Già oggi fa impressione mettere a confronto l'immagine della laguna intorno al canale dei petroli (un'area grande 30 chilometri quadrati) e quella a nord, oltre l'isola di Murano, nei pressi dell'aeroporto di Tessera: questa appare simile a un tessuto fitto di venature, quella ha un colore blu, compatto e uniforme.

    La laguna è protetta dall'Unesco tanto quanto Venezia. In un rapporto del 2006 si sostiene che le barene, le terre che emergono appena sopra il pelo dell'acqua, "necessitano di tutela come le chiese e i palazzi della città". "Non è un'indistinta distesa d'acqua", spiega Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra di Venezia. "Se guardiamo le cartografie antiche, scorgiamo arabeschi variegati di colori tra il blu, l'azzurro, il verde e il marrone: sono i canali con le loro diverse sezioni e profondità e le terre variamente emerse, a seconda dell'altezza delle maree: quelle sotto la superficie sono le velme, quelle sopra sono le barene, quelle stabilmente all'asciutto sono le isole come il Lido o come Murano".

    Le barene e le velme fanno funzionare la laguna. In particolare le prime "dissipano le energie delle correnti, proteggendo le aree stabilmente emerse, partecipano alla fitodepurazione e con la loro particolarissima vegetazione catturano i sedimenti sospesi nelle correnti. Di fatto sono capaci di rigenerarsi costantemente, a patto, però, che l'idrodinamica lagunare sia corretta e non sconvolta dal passaggio di navi". Le barene, però, stanno sparendo: nel '600, stando agli studi di D'Alpaos, occupavano una superficie di 255 chilometri quadrati, oggi siamo appena a 47, ma nel 1901 erano ancora 170.

    Nelle intenzioni di Costa, lo scavo del Contorta procurerebbe 6 milioni di metri cubi di materiali con i quali si costruiranno barene a protezione del canale e anche di quello dei petroli. È qui, secondo il presidente del porto, il significato ambientale del progetto. La replica di Fersuoch è secca: "È un paradosso: si scava un canale distruggendo la laguna e poi si realizzano barene. Inoltre in quell'area barene non ce ne sono mai state e quelle che si vorrebbero costruire non sono vere barene, ma arginature molto rigide".

    Costa non vuol rinunciare alle crociere. Secondo un calcolo dell'autorità portuale, sarebbero oltre 1 milione 800mila i passeggeri che ogni anno arrivano a Venezia con le navi (su 30 milioni di turisti totali). Erano 880mila nel 2006. Le crociere generano un indotto, assicurano al porto, di 4.250 occupati. Alto il giro d'affari: nel febbraio del 2013 Costa lo attestò a 430 milioni l'anno, il 5,4 per cento del Pil cittadino. Questi dati sono stati poi contestati da un economista di Ca' Foscari, Giuseppe Tattara: 86 milioni il valore delle crociere, 2mila addetti, il 2 per cento del Pil.

    Lo scontro è serrato. Gli ambientalisti sostengono che, scavato il Contorta, sarà necessario allargare anche il canale dei petroli, per garantire il via vai delle navi, operazione già bocciata dalla Commissione di Salvaguardia per Venezia. Ribatte Costa: non è vero, le navi transiteranno a senso unico alternato. Ora si attende la decisione della Via. Ma nel settembre del 2013, la stessa Via aveva espresso un parere molto critico sul progetto preliminare. Una mozione del Pd e di Sel in Senato, primi firmatari Felice Casson, Luigi Zanda e Loredana De Petris, chiede che si valutino diverse soluzioni (delle quali si parla in un altro articolo di quest'inchiesta) e denuncia la "scarsa chiarezza" e "l'evidente conflitto di interessi in capo all'Autorità Portuale di Venezia, che si presenta come "progettatore", "istruttore" e "decisore in parte qua" che fa temere "procedure contorte e ai limiti della liceità, anche penale, sulla scia di quanto già successo per le vicende criminali del Mose - Consorzio Venezia Nuova".

    Ecco di nuovo affiancati il Mose e il Contorta. Opere entrambe di forte impatto che dovrebbero salvare Venezia e la laguna, secondo alcuni. Che, secondo altri invece, rischiano di trascinare entrambe in una condizione di irreversibile sofferenza.

    Si veda nell'inchiesta di Repubblica Il Canale che Minaccia Venezia anche l'intervista al presidente del Porto Paolo Costa che rilascia una discutibile dichiarazione sulle motivazioni dello scavo del canale Contorta
    Repubblica.it Le inchieste, 13 ottobre 2014
    "La città non si salva senza la sua laguna"dal nostro inviato
    di Francesco Erbani
    VENEZIA - Il professor Luigi D'Alpaos, docente di idrodinamica all'università di Padova, ci tiene a sgombrare il campo da equivoci. "Mi faccia premettere una considerazione", dice subito in apertura di intervista.

    Prego, professor D'Alpaos.
    "Quando si parla di Venezia e della sua laguna, molti sono portati a pensare che l'unico problema da risolvere sia la difesa della città dal fenomeno delle acque alte".

    E non è questo il problema principale?
    "È un problema, certo. Ma non è il solo. Tempo fa, con il gusto del paradosso, Massimo Cacciari disse che la soluzione consisteva nel tenere a portata di mano un paio di gambali di gomma".

    Un paradosso, certo.
    "Purtroppo, concentrandosi sulla città, viene lasciato sullo sfondo o addirittura ignorato il tema della morfologia lagunare e della sua salvaguardia. Che è invece una questione centrale".

    Lei è considerato il massimo esperto dell'idraulica lagunare: la questione è centrale anche ora, a proposito del progetto di scavare un nuovo canale in laguna, il canale Contorta?
    "Certamente sì. È un intervento non basato su studi rigorosi e che non tiene per nulla in conto gli effetti gravi già prodotti nella laguna dal canale Malamocco-Marghera, il canale dei petroli".

    Effetti che lei ha documentato negli anni.
    "Effetti studiati e verificabili empiricamente".

    Eppure il presidente dell'Autorità Portuale di Venezia, Paolo Costa, sostiene che sia stato lei a suggerirgli nel 2004 lo scavo del Contorta.
    "Costa utilizza solo una piccola parte di un breve documento che gli inviai e che si riferiva a considerazioni generali sulle correnti in laguna. Ma irresponsabilmente tace un'altra parte, quella in cui segnalavo la necessità di verificare gli effetti che avrebbe provocato la navigazione nel canale. Ed è proprio questo il punto critico: le navi che passerebbero nel canale, come quelle che passano nel canale di petroli, arrecano danni irreparabili alla laguna. Lo scrivo dal 1979. E non ho mai cambiato idea".

    Lei sostiene che la laguna di Venezia è stata maltrattata lungo tutto il Novecento.
    "La grandissima parte degli interventi non ha mirato alla salvaguardia di questo bene ambientale, ma a difendere alcuni portatori di interessi particolari. Si è aumentato a dismisura il processo di erosione, che è il vero guaio della laguna. La laguna è stata destinata ad accogliere navi sempre più grandi, senza limiti e senza vincoli. L'impatto più sconvolgente lo ha avuto il Malamocco-Marghera, che negli anni Sessanta ha devastato circa 30 chilometri quadrati di laguna".

    Ma non è stato anche causa dell'acqua alta a Venezia?
    "Lo si è sostenuto a lungo. Ma gli studi dimostrano che la sua incidenza è stata minima. Massima è stata invece la sua responsabilità nella distruzione della morfologia lagunare. L'erosione è documentata in tutta l'area centrale della laguna, con approfondimento generalizzato dei fondali, spianamento e scomparsa di molti canali minori. L'erosione, inoltre, aumenta il moto ondoso che tanti danni arreca agli edifici di Venezia".

    Ma quale può essere la soluzione?
    "Bisogna estromettere dalla laguna le navi superiori a una certa stazza. Non vedo alternative. Ma purtroppo a carico della laguna, negli ultimi cinquant'anni e ancora adesso, si opera violando le regole auree che per secoli hanno vigilato e che sono scritte anche nella Legge speciale per Venezia: tutti gli interventi in questo delicatissimo ambiente devono essere graduali, reversibili e sperimentali. E il canale Contorta non fa parte di questa categoria".

    La Nuova Venezia, 14 ottobre 2014
    Contorta, ancora ricorsi. Mira diffida il ministero
    di Alberto Vitucci

    Una diffida al ministero e un possibile ricorso al Tar. Sul fronte anti-Contorta scende in campo anche il comune di Mira. Il sindaco grillino Alvise Maniero e l’assessore all’Urbanistica Luciano Claut annunciano azioni decise contro una procedura che esclude il loro territorio da ogni decisione. «Non abbiamo ricevuto il progetto, eppure il nostro Comune è il più interessato al progetto», dice Claut, «nei prossimi giorni prenderemo iniziative forti». Non solo lo scavo del canale, ma anche le nuove barene e le arginature del canale Malamocco-Marghera. E poi il passaggio delle grandi navi passeggeri. Una «dimenticanza» denunciata qualche giorno fa dall’ex assessore all’Ambiente del Comune di Venezia Gianfranco Bettin. Che adesso potrebbe inficiare l’intera procedura. «Credo che se questa cosa fosse confermata», dice Bettin, «si dovrebbe ricominciare tutto daccapo. I lavori del Contorta interessano per oltre un chilometro il comune di Mira». Procedura già sotto accusa con le osservazioni presentate nei giorni scorsi dai professori Stefano Boato e Andreina Zitelli e da Italia Nostra. Viene contestata la procedura rapida per la Valutazione ambientale, dal momento che lo scavo del Contorta «non è inserito tra le opere prioritarie del Cipe in Legge Obiettivo». La polemica non si placa.

    Ieri il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, a Venezia per un convegno, è tornato sull’argomento. «C’è una decisione molto precisa assunta un mese e mezzo fa dal Consiglio dei ministri», ha detto Franceschini, «e cioè che dal primo gennaio 2015 le grandi navi da crociera non passeranno più davanti a San Marco. Nel frattempo si sta studiando una soluzione alternativa che naturalmente deve essere compatibile con le nostre norme, compreso l’impatto ambientale». Le alternative rimaste in campo sono due. Lo scavo del canale Contorta-Sant’Angelo voluta dal porto. Dieci metri di profondità, sei milioni e mezzo di metri cubi di fanghi da scavare, con cui saranno costruiti 400 ettari di barene. I termini per le osservazioni alla Via scadono dopodomani. E il terminal al Lido, anch’esso sottoposto a Via.

    La Repubblica, 13 ottobre
    Solo l'Unesco in difesa della laguna
    di Pirani Mario

    Se solo il Sultano del Qatar con l'alleanza degli altri Emirati del Golfo riuscirà a salvare Venezia e la sua Laguna dalla distruzione in atto ad opera dei giganteschi vascelli barbareschi muniti della libera licenza a solcare oltre ogni limite i confini del più straordinario bacino idrico che la natura abbia regalato all'uomo. Se ci riferiamo all'emiro del Qatar non è per una improvvisa riscoperta delle Mille e una Notte quanto per l'atto di amore e di allarme per Venezia espresso nella capitale dell'Emirato, a Doha, nel giugno scorso dal Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco dove capi di Stato e ministri di mezzo mondo «hanno manifestato la propria preoccupazione per l'entità e la scala dei progetti infrastrutturali, di navigazione e di costruzione di grandi dimensioni in Laguna che possono potenzialmente compromettere l'eccezionalevaloreuniversalegenerando trasformazioni irreversibili sul paesaggio del sito, il territorio e l'ambiente marittimo».

    L'Unesco «richiede inoltre allo Stato Parte, cioè all'Italia, di effettuare valutazioni sulle potenziali modificazioni della Laguna e del suo territorio, al fine di evitare trasformazioni irreversibili». La denuncia naturalmente si accompagna alla indicazione delle cause provocate dalla continua e crescente preoccupazione per gli impatti ambientali negativi innescati da imbarcazioni di medio motore fino alle navi di elevato tonnellaggio (già si comincia a parlare della costruzione di navi da 600.000 tonnellate ) che hanno progressivamente provocato l'erosione dei fondali lagunari, delle veline e delle barene, e che potrebhero rappresentare una potenziale minaccia per il valore universale del sito.

    In effetti sta avvenendo il contrario, quasi che il potere assoluto fosse caduto nelle mani di una autorità politico-militare che approfittando del naufragio del sindaco e della giunta, travolti dallo scandalo del Mose, possa imporre a una delle più belle città del mondo la legge di una vera e propria pirateria con poteri di devastazione per ridurre la Laguna ad una rete di canali di transito. La creazione di un megacanale S. Angelo-Contorta ( le cui drammatiche prospettive sono state da noi descritte nella "Linea di Confine" di maggio 2014 ) che darebbe il via a questa fase di devastazione potrebbe essere decisa a giorni, con la benedizione del ministro per le Infrastrutture Lupi e dell'Autorità Portuale, che probabilmente ha preso per uno scherzo il "bollino rosso" emesso dell'Unesco che esprime la propria preoccupazione per come lo Stato italiano non sembri in grado di tutelare l'integrità della Laguna di Venezia e la difesa della città dall'assalto del turismo di massa e dal degrado.

    "Bollino rosso" come premessa alla cancellazione della città dal novero delle città soggette a tutela mondiale. A maggior chiarezza lo stesso organismo ha contemporaneamente esortato il nostro governo a vietare il passaggio delle grandi navi e delle petroliere nella Laguna e chiesto inoltre allo Stato di adottare, in via d'urgenza, un documento legale che introduca tale processo. «Risulta però che al ministero dell'Ambiente sia stato avviato l'esame del Progetto Contorta senza che questo stesso abbia i requisiti di approvazione del Cipe e senza che il canale sia previsto dal Piano Morfologico, lo strumento richiesto dalla Commissione europea a definizione delle compensazioni ambientali dei lavori eseguiti in Laguna. Per contro esiste un altro progetto della DP Consulting e Duferco (presentato all'Ateneo Veneto) che prevede la costruzione di un Terminal passeggeri alla Bocca di Porto di Lido ( progetto chiamato anche De Piccoli dal nome dell'ex viceministro alle Infrastrutture).

    Questo avrebbe un ridotto impatto ambientale e il vantaggio di mantenere le grandi navi fuori dalla Laguna. Altre ipotesi di creazione di un terminal crocieristico nella Prima zona industriale di Marghera sono state discusse in modo preliminare, ma non approfondite. Queste avrebbero il vantaggio di poter affrontare la problematica della crescita dei flussi turistici nei prossimi vent'anni. L'Unwto stima infatti che il turismo internazionale raggiungerà 1,8 miliardi di persone nel 2030. Se applicato proporzionalmente a Venezia, questo vorrebbe dire che nel 2030 ci saranno 45 milioni di turisti invece che i 24 milioni annui attuali. I suddetti progetti dovrebbero essere valutati in termini di costi e di impatti in alternativa allo scavo del canale Contorta. Speriamo che l'allarme Unesco venga recepito dalle forze politiche nazionali e dal governo che non possono abbandonare le sorti di Venezia, priva in questo momento di una sua rappresentanza democratica, soltanto alla benemerita iniziativa della sia pur maggiore organizzazione di tutela culturale internazionale.

    La Nuova Venezia, 11 ottobre 2014
    Contorta, l'ira dei pescatori in Regione
    di Vitucci Alberto

    Il mondo della pesca contro lo scavo del canale Contorta. Una delegazione agguerrita di pescatori ha manifestato l'altro giorno in Regione. Le quattro cooperative più importanti di pescatori (Lega pesca, Feder-pesca, Agc e Coldiretti) hanno presentato un documento tecnico che dimostrerebbe l'esistenza di molte criticità, e chiesto di incontrare i vertici dell'assessorato e l'assessore Manzato. E stanno preparando un duro documento contro l'ipotesi di scavo del nuovo canale. Che distruggerebbe un'ampia porzione di laguna centrale dove è florida la pesca e la coltivazione dei molluschi.

    Una nuova grana per il progetto, all'esame dell'Impatto ambientale in Regione e Comune. «Non è di nostra stretta competenza», commenta l'assessore alla pesca Franco Manzato, «ma siamo intenzionati a chiedere il rispetto di alcune garanzie. Non si possono fare interventi senza prima sentire gli interessati, in questo caso i pescatori. Inserendo nel progetto mitigazioni ambientali e se necessario anche risarcimenti». Era già successo con la Valutazione ambientale del progetto di off shore, per cui sono previsti alcuni indennizzi per i coltivatori di vongole. Ma a molti non basta: «I danni alla laguna ci sono comunque».

    E il progetto Contorta va avanti. Ma potrebbe adesso arenarsi di fronte e aun nuovo ostacolo. L'ex assessore all'Ambiente del Comune Gianfranco Benin ha infatti inviato al ministero una segnalazione chiedendo il rispetto delle procedure. «Ci sono troppe cose che non vanno, e sarebbe bene seguire la via maestra», dice, «perché la vicenda Mose insegna». La scoperta riguarda il fatto che il tracciato del nuovo canale (quattro chilometri di lunghezza, profondo dieci metri e largo 120, con 6 milioni e mezzo di metri cubi di fanghi da scavare) interessa per circa un chilometro anche il territorio del comune di Mira. Che a differenza di Venezia e Campagna Lupia non ha però ricevuto il progetto dal ministero per l'Ambiente per le osservazioni. «La procedura dovrebbe ripartire», dice Benin, «perché non si può evitare di coinvolgere un comune direttamente interessato.

    Già pende come un macigno la forzatura di aver considerato il progetto come un «adeguamento» di un canale esistente. Sarebbe come definire adeguamento la trasformazione di una sterrata di campagna in autostrada». C'è il rischio concreto che la procedura si blocchi, dunque. Anche perché il ministero per l'Ambiente è in attesa di ricevere le risposte ai quesiti inviate alle Infrastrutture, per i dubbi sollevati nelle osservazioni da Andreina Zitelli, Stefano Boato, Italia Nostra: «Perché il Porto ha proposto il progetto e perché si è scelta la strada delle procedure abbreviate se non è inserito nella Legge Obiettivo?». Un progetto che fa discutere. E ha provocato l'alzata di scudi anche dell'Unesco, che minaccia di depennare Venezia dai siti protetti se non si invertirà la rotta. I termini per la Via scadono il 17 ottobre. E nel frattempo anche un altro progetto alternativo per togliere le grandi navi da San Marco, quello firmato da De Picco-li-Duferco, è all'esame della Via.

    Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2014

    Ieri, dodici associazioni (Italia Nostra, Fai, Salviamo il Paesaggio, WWF...) hanno presentato le loro osservazioni e i loro rilievi allo Sblocca Italia, “che si configura come un attacco all'integrità del nostro territorio, del nostro paesaggio e dei Centri Storici nel loro insieme”. Per oggi e per domani queste e molte altre associazioni organizzano un presidio davanti alla Camera dei Deputati, una mobilitazione nazionale il cui titolo è eloquente: “Blocca lo Sblocca Italia”. Sempre domani, io ed altri autori (Salvatore Settis, Paolo Maddalena, Carlo Petrini, Vezio De Lucia, Sergio Staino, Elle-Kappa e molti altri) presenteremo alla Camera l'instant e-book Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia la democrazia e il nostro futuro”, che si scarica gratuitamente dal sito di Altreconomia.

    Anche più che per l'articolo 18, la vicenda parlamentare dello Sblocca Italia sarà la vera cartina di tornasole della possibilità di un'alternativa al blocco Renzi-Berlusconi. Noi chiederemo con forza che il governo non ponga, per l'ennesima volta, la questione di fiducia: perché non può costringere i suoi parlamentari a scegliere tra la fedeltà al partito e la salute dei propri figli e nipoti. Non può ridurre a una questione disciplinare il futuro stesso dell'ambiente in cui vivremo. Se lo farà, capiremo chi antepone la religione del partito (e l'attaccamento alla propria poltrona) alla libertà di mandato che la Costituzione garantisce ai parlamentari. E sarà un punto di non ritorno: chi vota lo Sblocca Italia non può avere diritto di cittadinanza in uno schieramento progressista, comunque lo si intenda. Anche perché, come è successo sul diritto all'acqua, intorno a un referendum sul territorio e sull'ambiente si può ricostruire una Sinistra che ambisca a riportare alle urne la metà dell'Italia che da tempo non vota. Ma andiamo con ordine: ora si tratta di bloccare in aula lo Sblocca Italia, e la colata di corruzione e cemento che sta per rovesciare sulle nostre vite.

    Consumo di suolo in pratica: al giorno d'oggi per fortuna esiste Google Earth, che consente al volo di paragonare a colpo d'occhio la vecchia sede con quella nuova, e suggerire un paio di osservazioni. La Repubblica Milano, 13 ottobre 2014, postilla (f.b.)

    La firma di un archistar per il nuovo dipartimento di Veterinaria della Statale. Si tratta dell’architetto giapponese Kengo Kuma, autore del progetto che verrà presentato nei prossimi giorni dai vertici di via Festa del Perdono. È la ciliegina sulla torta di un lungo — e tormentato — processo di trasferimento del dipartimento dall’attuale sede di via Celoria al nuovo polo di Lodi, molto più grande e accogliente degli spazi di Città Studi.

    Il progetto di trasferimento risale al 1998, quando l’ateneo guidato dall’allora rettore Enrico Decleva aveva deciso di trasferire a Lodi la facoltà (insieme con quella di agraria): da allora sono stati spesi 40 milioni che hanno portato alla costruzione della clinica veterinaria per grandi animali, del centro zootecnico aziendale e di altre strutture universitarie come la foresteria, gli stabulari e le residenze. A maggio il rettore Luca Vago aveva annunciato un forte abbattimento dei costi per la fine dei lavori, passati da 77 a 57 milioni di euro, anche considerato la prevista riduzione del numero di iscritti («era doveroso correggere i numeri di un piano divenuto sovradimensionato rispetto alle esigenze effettive», aveva spiegato in quell’occasione il rettore).

    Il quartiere della sede attuale

    Adesso tocca al completamento del campus, ovvero le aree didattiche dove sorgeranno le aule per i corsi di studio, la sede dei dipartimenti, i laboratori di ricerca e il centro zootecnico. Spazi dedicati alla trasformazione degli alimenti, alle cucine, al laboratorio di etologia e al mangimificio. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto per l’affidamento dell’incarico è stato un pool guidato dal prestigioso studio internazionale Kuma and associates Europe. «Sarà un progetto molto bello — spiega Mauro Di Giancamillo, professore del dipartimento di scienze veterinarie e sanità pubblica — e diventerà un centro di eccellenza completo in tutto. Ci sarà anche una parte di campus, con un’idea di facoltà che favorisce l’integrazione degli studenti. Non mancheranno anche locali bar, sale studio, centri d’accoglienza ». L’architetto vanta nel suo curriculum lavori molto prestigiosi costruiti principalmente in Asia (dalla casa bamboo di Pechino al quartier generale di Lvmh di Osaka), mentre in Italia il suo primo progetto è stata la “Casalgrande Ceramic Cloud”, sede di un’azienda di piastrelle in ceramica in provincia di Reggio Emilia.

    Il campo di atterraggio dell'archistar

    Il trasloco della facoltà, a questo punto, sembra aver imboccato un percorso ben definito per i prossimi tre anni. All’ateneo spetterà coprire il 60 per cento dei rimanenti 57 milioni, l’altro 40 per cento se lo divideranno Comune e provincia di Lodi e Regione Lombardia. Il trasferimento totale delle attività è previsto per il secondo semestre dell’anno accademico 2016/2017, ma potrebbe slittare al 2017/18 qualora i lavori non fossero ancora completati. Resterà poi da capire cosa sarà degli spazi di Città Studi, attuale sede della facoltà: 15 aule pensate per la didattica dotate di videoproiettore, computer e videoregistratori che si trovano in via Celoria 10.

    postilla
    Nella certezza che chiunque, in un batter d'occhio, possa liquidare questa questione con montagne di studi e rapporti, aggiungendoci un sorriso di compatimento: ha senso parlare e straparlare di contenimento del consumo di suolo agricolo, se poi sono proprio le facoltà universitarie legate all'agricoltura a praticare la nobile arte dello sprawl? Al netto di tutte le osservazioni organizzative, accademiche, didattiche, di ricerca e di contesto, sta di fatto che si passa da una sede (che viene lasciata al momento vuota, ergo non pare ci fossero pressioni mostruose per uscirne) in un ambiente urbano denso e servito dalle reti dei mezzi pubblici, a un campus semirurale raggiungibile grazie alla “comoda navetta” dalla stazione ferroviaria di Lodi, ma ubicato oltre la circonvallazione della via Emilia, vale a dire in campagna. Se poi, mettere su una superficie di terreno dei contenitori edilizi di cervelli dediti all'agricoltura, sia particolarmente sostenibile, possiamo discuterne, al netto delle chiacchiere sull'archistar giapponese. L'importante è capire cosa faccia davvero bene alle campagne (f.b.)

    Comune.info, 7 ottobre 2014

    1.100 eventi in 22 Paesi, e oltre 50 città mobilitate in tutta Italia: dalla Valtellina a Monopoli, poi Firenze, Torino, Roma, Napoli e Milano, dove membri del parlamento europeo, di quelli di molti Paesi asiatici, insieme ad un centinaio di attivisti, sindacalisti, contadini e cittadini che partecipavano al Forum dei Popoli di Asia ed Europa hanno dato vita ad un flash mob di protesta. La Giornata Europea d’azione contro T-tip, il Trattato transatlantico di liberalizzazione di commercio e investimenti tra Usa e Ue ha riscosso un grande successo in tutta Europa e deve suonare come un segnale d’allarme alla Commissaria europea designata al commercio Cecilia Malmström, che condurrà a breve le trattative, ma anche per il governo italiano, tra i più zelanti sostenitori del trattato come presidenti di turno dell’Unione.

    Per questo la Campagna Stop T-tip Italia ha convocato il 14 ottobre a Roma, alle 15,30 in piazza Madonna di Loreto, un presidio di contestazione al seminario cui Renzi ha invitato i ministri al Commercio d’Europa e i negoziatori d’Europa e Usa, a discutere con Marcegaglia, Marchionne e imprese varie le sorti meravigliose e progressive legate al T-tip.

    Da Helsinki a Granada, da Brest a Bucharest, migliaia di persone hanno protestato contro le liberalizzazioni selvagge previste dal T-tip ma anche dai suoi omologhi Ceta (negoziato e pressoché concluso tra Ue e Canada), TiSA (la liberalizzazione globale dei servizi lanciata in chiave anti Paesi emergenti) e T-tip (l’attacco Usa ai mercati del Pacifico). A Londra un lungo striscione è stato tirato giù da Westminster Bridge, a Parigi lo “squalo” delle privatizzazioni ha attraversato le vie del centro seguito da migliaia di attivisti, e iniziative simili si sono moltiplicate a vista d’occhio fino alle ultime ore, confermando che un numero crescente di cittadini e organizzazioni è pronto a una resistenza ostinata contro questa operazione di trasferimento di potere politico dalle mani dei cittadini a quelle di un gruppo ristrette d’imprese e di élites di potere per via commerciale.

    La diretta sui social network è stata martellante: in questa pagina del sito europeo si possono trovare un gran numero dei twitter postati ieri dai diversi presidi, e ricostruire la convulsa giornata dell’11 Ottobre raccontata anche sul sito della Campagna italiana www.stop-ttip-italia.net e sul suo profilo facebook. A partecipare al flash mob italiano molti parlamentari europei, tra i quali Eleonora Forenza, Lola Sanchez ed Helmut Scholz, il loro capogruppo al Gue-Ngl, ma anche parlamentari asiatici come il grande economista filippino altermondialista Walden Bello, oggi protagonista della battaglia istituzionale nel suo Paese. «Tutti questi trattai sono diversi ma hanno lo stesso obiettivo – ha sottolineato intervenendo all’iniziativa -: istituzionalizzare i diritti delle corporations facendoli prevalere su quelli degli Stati e dei loro cittadini. Sono azioni animate da un atteggiamento ideologico, quasi di fede nei confronti del progetto neoliberista come massima espressione dei valori, e non solo degli interessi, dell’Occidente. Il neoliberismo è come un vampiro – ha concluso Bello – pensavamo che fosse completamente screditato e sepolto dalla crisi del 2009, e invece è risorto perché è resiliente. Ma siamo pronti a colpirlo lungo tutte le sue reincarnazioni: subordinare il mercato alla società e all’ambiente, è quello che chiediamo, per cui lotteremo, senza arrenderci mai».

    La Nuova Sardegna, 12 ottobre 2014, con postilla

    Ma quale tutela del paesaggio? Si ritorna alle regole del governo Soru ma la legge per l’edilizia, una sorta di Piano casa aggiornato, regala cubature e permessi di ampliare in aperto contrasto con lo spirito stesso del piano paesaggistico. Superata la fase della gioia per la resurrezione apparente del Ppr, gli ecologisti guardano con stupore le norme del Ddl varato dalla giunta Pigliaru e non lesinano le critiche: «Va bene la revoca totale del Pps di Cappellacci, ma il Piano casa che si vorrebbe rendere permanente con questo disegno di legge non sta né in cielo né in terra - attacca Stefano Deliperi, del Gruppo di intervento giuridico - siamo di fronte a resort giganteschi che potranno crescere di un quarto, metri cubi in più nei centri storici… no, non ci siamo. Spero che il consiglio regionale faccia giustizia, altrimenti sarà battaglia su ogni fronte».

    Gruppo di intervento giuridico, Stefano Deliperi:

    « Spero che il consiglio regionale faccia giustizia,
    altrimenti sarà battaglia su ogni fronte»

    Deliperi aveva fatto ricorso al Tar per ottenere la revoca della prima delibera firmata dalla giunta Cappellacci, quella che doveva dare la spinta iniziale alla revisione del Ppr di Soru. E ora manifesta un sospetto: «Questa decisione arriva a quattro giorni dalla trattazione di fronte al giudice amministrativo, è un dato significativo. Diciamo che è stato necessario aiutare la giunta regionale a capire quello che andava fatto ed è la conferma di quanto gli ecologisti che guardano le norme ed evitano di fare gazzosa hanno sostenuto fin dal primo momento». «Comunque va bene - va avanti Deliperi - prendiamo atto con piacere di questa correzione un po' tardiva. Ora si tratta di correggere anche questo strano Piano casa, che a una prima lettura sembra allinearsi con le norme devastanti imposte con il decreto Sblocca-Italia». Deliperi ricorda quello che è accaduto nel passato recente: «Se qualcuno si domanda il perché dei nostri sospetti, vada a vedere chi ha beneficiato in Sardegna dei Piani casa firmati da Cappellacci. Io ricordo Romazzino, tanto per fare un esempio. Chi parlava di dare una stanzetta in più alle famiglie di pensionati si è trovato di fronte a qualche suite a cinque stelle. Ma sembra che questi fatti non abbiano insegnato nulla a nessuno, visto che ora si vuol dare ai padroni dei resort la possibilità di costruire piscine e centri benessere nella fascia dei trecento metri. No, così non va. Dovremo discutere ancora e a lungo».
    Deliperi appare deciso a non arretrare di un metro: «In questo periodo si sono visti sedicenti ambientalisti muoversi nei corridoi della Regione, pronti a gioire per ogni segnale positivo. La decisione assunta dalla giunta regionale di evitare il confronto davanti al Tar dimostra che coi comunicati e con le parole si fa poco, il confronto su temi centrali come quelli del paesaggio e dell'ambiente deve svolgersi sul terreno giuridico». Mauro Gargiulo del Wwf legge una «continuità berlusconiana» nel Ddl della giunta Pigliaru e ne critica aspramente il contenuto: «La fascia dei trecento metri dalla linea di battigia dovrebbe essere intoccabile - avverte - e invece si autorizzano nuove cubature negli spazi più pregiati. Sono scelte prive di senso, che a mio giudizio non avranno neppure l’effetto di rilanciare positivamente l’attività edilizia sana, ma soltanto la speculazione». Gargiulo si schiera con forza dalla parte del paesaggio: «Come Wwf siamo contro ogni deroga alle norme del Codice Urbani, che mi pare vengano seriamente messe in discussione con queste decisioni. È davvero inaccettabile che si pensi ad aumentare ancora le cubature mentre Genova deve affrontare un nuovo disastro legato all’eccesso di cemento e alle costruzioni incontrollate. È ora di dire basta, noi ci batteremo con ogni mezzo».
    Italia Nostra, Maria Paola Morittu:
    «Si rilancia il Ppr di Soru e poi si presenta
    una norma che è in deroga totale»

    «Sono allibita»: Maria Paola Morittu di Italia Nostra usa una sintesi chiara per definire il proprio giudizio sulla legge per l’edilizia, un Piano casa di centrosinistra che per le associazioni annuncia un nuovo assalto alle coste e ai centri storici: «Non capisco come da una parte si rilanci il Ppr di Soru e dall’altra si voglia far passare questa leggina, che è in deroga totale al piano». L’analisi di Morittu è spietata: «La Regione, assessore Cristiano Erriu in testa, ci aveva assicurato che il famigerato articolo 13 del Piano casa di Cappellacci, quello che contiene le deroghe e apre la strada ai costruttori, sarebbe stato abrogato. Invece ce lo ritroviamo qui, nel nuovo disegno di legge, in versione persino peggiore. Quelle che erano deroghe contenute in un provvedimento straordinario, dunque provvisorie, l’amministrazione Pigliaru vuole farle diventare legge e quindi definitive». Secondo Morittu l’illegittimità dell’articolo 13 è stata già ampiamente confermata dal giudice amministrativo: «Ci sono due decisioni del Tar e una del Consiglio di Stato, non riesco a capire come abbia fatto la Regione a non tenerne conto. Qui si torna indietro, superando Cappellacci nella corsa incontro ai costruttori». Secondo Morittu chi ha già beneficiato delle nuove volumetrie del vecchio Piano casa potrà presentarsi ancora all’incasso: «Solo nel caso in cui risultino cubature residue, un’esplicita ammissione del fatto che la nuova legge sarà più permissiva della vecchia». La dirigente di Italia Nostra insiste: «Con questo Ddl si va contro persino ai regolamenti comunali, è una cosa inaccettabile». Nessuno sconto alla Regione, la battaglia è annunciata: «Ci muoveremo in ogni sede - conferma Maria Paola Morittu - per fermare questa legge ispirata da consulenti vicini ai costruttori. È assurdo parlare di Ppr e di tutele, quando poi l’orientamento è di rianimare le betoniere. Davvero non pensavo che si potesse fare peggio del governo Cappellacci, invece ci sono riusciti».

    postilla
    A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, diceva Giulio Andreotti.Ovviamente, se i fatti testimoniano che ci si azzecca il peccato non c'è. Noi forse facciamo peccato, perché pensiamo, con Deliperi e Morittu, che l'annullamento (tardivo, e a questo punto inutile) è stato la copertura per far passare l'incredibile riproposizione, addirittura peggiorata, del famigerato "piano casa" di Cappellacci Se abbiamo peccato o no lo diranno i fatti: se la Giunta Pigliaru ritirerà il suo provvedimento saremo contenti di aver peccato.

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