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Periferie. Nelle analisi serie esse appaiono molto lontane dai pezzi "città" suscettibili d'essere riscattati dal "rammendo" di qualche bravo architetto. Appaiono invece sempre più vicine a diventare parte del "pianeta degli slum": lande di disperazione e miseria, recinti di emarginazione, dominate dai sovrastanti elementi dell'"infrastruttura globale". Il manifesto, 15 novembre 2014

Quella che in que­sti giorni viene impro­pria­mente chia­mata Tor Sapienza dove sono acca­duti gli epi­sodi più vio­lenti che si ricor­dino nella estesa peri­fe­ria romana, è in realtà una pic­cola area situata su una col­li­netta com­presa tra la via Col­la­tina e la Pre­ne­stina là dove quest’ultima incro­cia la grande arte­ria di via Pal­miro Togliatti che avrebbe dovuto costi­tuire, secondo il Piano Rego­la­tore del 1962, la strut­tura por­tante dell’asse dire­zio­nale romano, mai rea­liz­zato. Siamo poco oltre il quar­tiere di Quar­tic­ciolo voluto da Mus­so­lini a seguito dello sven­tra­mento di via dei Fori Impe­riali e diven­tato famoso nel dopo­guerra per le ben note vicende del Gobbo, eroe popo­lare, anti­fa­sci­sta, diven­tato poi, in età repub­bli­cana, sban­dato e ban­dito.

Su que­sta col­li­netta è situato, quasi come un for­tino che domina la valle, un grande inse­dia­mento di edi­li­zia eco­no­mica e popo­lare cir­con­dato dal viale Gior­gio Morandi che let­te­ral­mente si snoda tutt’attorno al com­plesso resi­den­ziale a guisa di un fos­sato e lo col­lega, più a est, con la peri­fe­ria sto­rica di Tor Sapienza.

La zona anti­stante, ai piedi della col­li­netta, è occu­pata dal Cen­tro Carni e dalla rimessa degli auto­bus romani, accanto ai quali c’è una vasta area asfal­tata, deser­tica, una sorta di zona franca dove per anni di sera sosta­vano pro­sti­tute e trans cir­con­date da caro­selli di auto­mo­bi­li­sti in cerca di sesso. Se si pro­se­gue sulla via Togliatti verso la Col­la­tina, il pae­sag­gio appare sem­pre più degra­dato: pro­sti­tute pre­va­len­te­mente di colore ai bordi della strada, pic­cole disca­ri­che a cielo aperto, accam­pa­menti sparsi di bar­boni e rom, ten­ta­tivi di orti urbani accanto alla fer­ro­via che da Roma va a Sul­mona.
Per­cor­rere di notte que­sto tratto di strada mette una certa paura e nes­suno, comun­que, si avven­tu­re­rebbe mai a salire sulla col­li­netta dove sorge l’insediamento popo­lare iso­lato e temuto quasi fosse un laz­za­retto medie­vale. Poco vicino, sulla Pre­ne­stina, que­sta volta sì a Tor Sapienza, c’è la grande occu­pa­zione mul­tiet­nica di Metro­plizt diven­tata meta di incon­tri e dibat­titi cul­tu­rali, oltre che sede di bel­lis­simi mura­les rea­liz­zati da famosi arti­sti.
Il «for­tino» di case popo­lari è un grande ret­tan­golo chiuso che richiama alla mente, per il numero di per­sone resi­denti (circa due­mila) e per la sua forma geo­me­trica, il Falan­ste­rio di Fou­rier. Rea­liz­zato negli anni Settanta/Ottanta dalle giunte di sini­stra, in epoca delle lotte per la casa e i ser­vizi, è orga­niz­zato su una grande corte interna (forse la più grande d’Europa) dove ci sono i locali che avreb­bero dovuto ospi­tare i ser­vizi per il quar­tiere e cha mai hanno ini­ziato a fun­zio­nare.
La descri­zione urba­ni­stica è neces­sa­ria se si vogliono capire i motivi degli epi­sodi di così tanta vio­lenza come mai ne sono acca­duti in altre peri­fe­rie romane. Gli ingre­dienti c’erano tutti: una grande con­cen­tra­zione di per­sone povere e sban­date in un’area ristretta e iso­lata, pro­sti­tu­zione droga e degrado delle aree cir­co­stanti, cen­tro di acco­glienza (che iro­nia que­sto nome!) per immi­grati dall’Africa, dall’Albania e dal Ban­gla­desh, iso­la­mento spa­ziale dell’insediamento rispetto al tes­suto urbano cir­co­stante. Col­lo­care lì gli immi­grati per lo più mino­renni o richie­denti asilo, spae­sati e senza occu­pa­zione, signi­fica accen­dere un cerino in un depo­sito di pol­veri da sparo e così, pur­troppo, è suc­cesso: il depo­sito è sal­tato. Inne­scando una spi­rale di ran­cori subito stru­men­ta­liz­zata da una destra xeno­foba e raz­zi­sta che in città ha sem­pre avuto radici con­si­stenti a par­tire dal ben noto e sto­rico Movi­mento sociale di Gior­gio Almi­rante e dalla sua corte di maz­zieri con i cascami post­mo­derni dei sedi­centi fasci­sti del terzo mil­len­nio di Casa Pound.
E’ troppo facile in que­sti casi limi­tarsi a pren­dere le difese delle ragioni degli abi­tanti quanto, al con­tra­rio, con­dan­narli a rango di raz­zi­sti. E’ l’esplosione di un sen­ti­mento che cova pro­fondo per essere stati abban­do­nati, per essere, quelli da loro abi­tati, luo­ghi che ribal­tano alla cro­naca solo per­ché diven­tano sem­pre più spesso disca­ri­che di rifiuti (come a Cor­colle) o di scarti umani (come ancora a Ponte di Nona, e a Tor­pi­gnat­tara) di una città che si rifà il trucco solo nella sua parte più appa­ri­scente (il cen­tro sto­rico), per il resto essendo il pro­prio corpo (la peri­fe­ria) coperto da pustole, pia­ghe e infet­tato da sto­ri­che pesti­lenze.
E così l’unico rime­dio pos­si­bile per sedare la rivolta è quello di tra­sfe­rire i 36 minori ospiti della Coo­pe­ra­tiva «Un sor­riso» in un’altra parte della città come fos­sero pac­chi ingom­branti, merce peri­co­losa, scarti indu­striali vele­nosi men­tre, con­tem­po­ra­nea­mente, si cele­brano i fasti del pro­getto del nuovo sta­dio della Roma accanto al Tevere (altra pol­ve­riera in attesa di esplo­dere) e dei tre grat­ta­cieli fan­ta­sma a for­mare una nuova altra pic­cola città nella grande città post­mo­derna.
Per il resto, come assi­cura il que­store, il ter­ri­to­rio verrà pre­si­diato dalle forze dell’ordine cen­ti­me­tro per cen­ti­me­tro. Spa­zio blin­dato e pre­si­diato pro­prio come ricor­dava Fou­cault in «Sor­ve­gliare e punire: la nascita della pri­gione» nel quale il filo­sofo fran­cese adotta il para­digma della leb­bra per spie­gare l’esclusione: si tratta di met­tere i leb­brosi fuori dalla città, di creare una netta divi­sione tra il fuori e il den­tro per rin­cor­rere l’ideale della comu­nità pura che costi­tui­sce il modello di quello che Fou­cault chiama la «Grand enfer­me­ment».
Ricor­dava lo scorso anno Zagre­bel­sky a pro­po­sito della buona poli­tica: se il potere non si dà un fine che lo tra­scende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cit­ta­dini in gene­rale, quale che essa sia, non c’è poli­tica e tanto meno ci può essere demo­cra­zia. Nel nostro tempo non c’è una Pòlis — giu­sta città per natura e neces­sità — che a noi toc­chi di rico­no­scere, difen­dere e accre­scere. Rico­struirla, anche que­sto, è com­pito di una nuova sini­stra che ancora non c’è.
Riferimenti

Il "rammendo" di qualche bravo architetto", cui accenniamo della presentazione del bell'articolo di Scandurra, si riferisce all'intervista di Goffredo Buccini a Renzo Piano."Il pianeta degli slum"è il titolo del libro di Mike Davis (2006) che ha aperto gli occhi a chi ha voluto farlo sulle condizioni dell'habitat ddi un miliardo di personeprevalentemente in America meridionale, Africa, Asia, Le condizioni sociali e di vita degli lsi verificano, in misura via via maggiore, anche nelle città del primo mondo. L'"'infrastruttura globale", studiata e definita d Saskia Sassen , e costituita dall' insieme dei luoghi, connessioni dove vivono, godono agiscono, decidono i membri di quello strato apicale della società che gestisce il potere globale e i loro più vicini servitori (per intenderci, da Vladimor Putin alle olgettine)

L'esempio della legge urbanistica della Toscana: la prima legge urbanistica regionale che azzera il consumo di suola. Intervento al convegno Stop al consumo del territorio, Cassinetta di lugagnano, 15 novembre 2014, in calce il link alla locandina


1. Finalmente una bella notizia

Finalmente una bella notizia: la Regione Toscana ha approvato una straordinaria legge di riforma urbanistica, efficace e immediatamente operativa, che mette in mora Governo e Parlamento, e conquista di prepotenza il centro del dibattito. Ci dà forza, e mette a nudo l’ipocrisia di quanti continuano a dichiarare di condividere l’obiettivo di contenerere il consumo del suolo con la stesso atteggiamento che nell’ultimo quarto di secolo è stato assunto a proposito della sostenibilità ambientale. Proclamandone universalmente e solennemente l’importanza, ma in pratica quasi sempre relegandola a una stanca, inconcludente retorica.

Mi riferisco al fatto che si continua a parlare di contenere il consumo del suolo, un obiettivo così vago e generico che va bene a tutti (anche a Lupi). Occore invece non contenere, ma bloccare, subito, il consumo del suolo. I dati sono ormai abbastanza noti, ricordo solo che in circa 60 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre la popolazione italiana è cresciuta, più o meno, del 20%, il consumo del suolo è cresciuto piu o meno del 1.000%. Non dobbiamo perdere altro tempo, dobbiamo pretendere risultati immediati ed efficaci.

2. Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero

È bene preliminarmente chiarire che Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero. Un equivoco che ogni tanto ritorna. Nessuno può ragionevolmente sostenere che si debba subito e dovunque fermare l’attività costruttiva (lo propone soltanto una componente estremistica dell’ambientalismo). Ci sono sacche di bisogni: abitativo, di servizi (compreso il verde pubblico), e di altro che impongono urgenti interventi. Il punto è che il soddisfacimento dei bisogni non obbliga affatto a continuare con la tradizionale edificazione nello spazio aperto, ma deve corrispondere a nuove modalità operative (e concettuali): recupero, riconversione, rifacimento, rigenerazione, riutilizzo, ripristino, riqualificazione, ristrutturazione, restauro urbanistico: sono decine i sinonimi, e a ciascuno di essi corrisponde una diversa e, di fatto, inedita politica del territorio.
3. Due piccioni con una fava
Si tenga conto, tra l’altro, che operando dentro lo spazio urbanizzato, con le modalità appena dette, si possono raccogliere due risultati, due piccioni con una fava:
a) soddisfare i bisogni pregressi per i quali è stato disposto l’intervento
b) attivare processi di riqualificazione urbana che, per mancanza di risorse, sarebbe impossibile promuovere diversamente.

Lo stop al consumo del suolo è un cambiamento di carattere epocale. È vero che la rendita continuerà ad esistere anche dentro al perimetro urbanizzato, ma la sua dimensione – in senso spaziale e finanziario – sarà comunque ridotta, disarticolata, frammentata, formata da una pluralità di soggetti, non più concentrata in monopoli-oligopoli potentissimi che controllano la stampa, la televisione, l’amministrazione e la politica.

Tutto ciò significa anche un cambiamento del modo di fare urbanistica, un mestiere in larga misura da reinventare, anche da un punto di vista tecnico e professionale: una serie di parametri (per esempio altezza e densità) che abbiamo tradizionalmente utilizzato come limiti massimi, dobbiamo imparare a usarli anche come minimi.

4. È finita un'era


Ma non tutti hanno capito che finisce un’era. E che al riguardo ci sia grande confusione lo si vede dai disegni di legge in discussione al Parlamento, sono ben 16: 11 alla Camera e 5 al Senato, per iniziativa sia del Governo che di tutte le forze politiche.
Sono testi talvolta molto complicati, qualche volta bizzarri, qualcuno addirittura controproducente. Personalmente sono scettico sul loro esito perché sono quasi tutti riferiti alla materia “governo del territorio” e quindi al comma 3 dell'art. 117 della Costituzione, comma che, come sapete, riguarda le materie oggetto di legislazione concorrente, quelle cioè per le quali la potestà legislativa spetta alle Regioni, mentre allo Stato compete soltanto la determinazione dei principi fondamentali (cosiddetta legge cornice). Il che comporta la seguente inevitabile procedura:
a) approvazione della legge cornice (contenente i principi fondamentali) da parte del Parlamento nazionale
b) in attuazione della legge cornice, le Regioni approvano la legge ordinaria
c) finalmente i Comuni possono adeguare i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni della legge regionale e quindi ai principi fondamentali della legge statale.

Stime ragionevoli prevedono 15-20 anni prima che un siffatto percorso legislativo produca risultati effettivi. Per non dire della Campania o del Lazio, Regioni fra quelle che peggio governano il proprio territorio, i cui tempi saranno ancora più lunghi, e provvedimenti di tutela si avranno quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto di una repellente crosta di cemento e di asfalto (Antonio Cederna).

5. L'alternativa vincente

In alternativa, se si vuole davvero realizzare, presto e bene, l’obiettivo dello stop al consumo del suolo si deve abbandonare la materia governo del territorio (e quindi il comma 3 dell’art. 117), per far capo al comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, cioè al comma che riguarda le materie di esclusiva competenza dello Stato (grazie alle quali, cioè, lo Stato può dettare immediatamente comandi ai Comuni). Potremmo ricorrere, per esempio, alla materia tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali – lettera s) del secondo comma dell’art. 117 –, e in tal modo si può formare e approvare una semplicissima ed efficacissima legge ordinaria come quella che trovate sul sito eddyburg, che tutti conoscete:

6. La riforma urbanistica della Toscana

Tralascio l’illustrazione delle proposte all’esame del Parlamento, per fermarmi finalmente sulla legge di riforma urbanistica dalla Regione Toscana, approvata nei giorni scorsi, da mercoledì 12 novembre sul Bollettino ufficiale della Regione, legge dovuta soprattutto all’impegno di Anna Marson e del presidente Enrico Rossi.
Un testo molto complesso che affronta tutti gli aspetti del governo del territorio, ben 256 articoli che vanno dalla partecipazione al monitoraggio, all’inserimento della politica abitativa fra gli standard urbanistici, a un grande impegno nella prevenzione dei rischi sismici, idrogeologici. Impossibile qui soffermarsi su aspetti particolari, riprendo solo le prescrizioni che inibiscono ogni ulteriore consumo del suolo.
La formulazione è giuridicamente molto semplice, la legge impone a ciascun Comune della Toscana di distinguere nel proprio territorio due parti:
a) la parte urbanizzata
b) la parte non urbanizzata.

E impone che le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi, vanno tutte costruite dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro urbanizzato la legge dichiara esplicitamente che non si può realizzare edilizia residenziale. Insomma, in Toscana mai più si potranno fare case in campagna. È proibito per legge. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure, che tra l’altro prevedono, per ogni intervento, il potere di veto della Regione.

Il presidente della giunta regionale Toscana, Enrico Rossi, quando fu presentato il disegno di legge dichiarò: "Finisce la stagione degli ecomostri e delle villette a schiere in Toscana" (allude al noto scandalo di Monticchiello, denunciato da Alberto Asor Rosa nel 2006).


7. Due cose da fare
La Toscana, l’ho detto prima, ha messo in mora Governo e Parlamento e questa circostanza va sfruttata fino in fondo. Soprattutto chiedendo al Governo due cose importantissime:
a) di fare ricorso a un decreto legge (stavolta con il nostro pieno consenso) riprendendo il testo eddyburg, notoriamente ispirato agli stessi principi della legge toscana
b) di cestinare la controriforma Lupi presentata nei mesi scorsi, che è esattamente agli antipodi rispetto alla legge toscana, come ha subito e puntualmente denunciata eddyburg, che ha anche raccolto centinaia di firme contro.

8. Chi è Maurizio Lupi

Per l’illustrazione della sciagurata proposta Lupi rimando a eddyburg. Qui vorrei solo raccontarvi sinteticamente chi è Maurizio Lupi, un avversario che deve essere meglio conosciuto e al quale bisogna riconoscere una devastante coerenza di pensiero espressa soprattutto nella negazione della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato. In altre parole, secondo Lupi, alla proprietà fondiaria vanno riconosciuti gli stessi diritti dei pubblici poteri. Ecco il suo curriculum:

a) giugno 2000 – Lupi assessore all’urbanistica del comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini) – propone un importante documento, Ricostruire la grande Milano, dovuto, tra gli altri, all’urbanista Gigi Mazza. Documento che ribalta la logica e il diritto prevedendo che i progetti pubblici e privati di trasformazione urbanistica non debbano uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, dev’essere il piano che si adegua ai progetti approvati. Insomma, il piano regolatore come un catasto sul quale si registrano i progetti edilizi una volta approvati. Sembra la Napoli di Achille Lauro, quando si diceva che il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. Da allora l’urbanistica milanese ha dettato legge nel resto d’Italia, a Roma soprattutto.

b) Lupi (intanto deputato di Forza Italia) conferma la propria avversione all’urbanistica pubblica nel 2005, quando la Camera dei deputati (con 32 voti favorevoli del centro-sinistra) approva un suo progetto di legge che estende a tutta l’Italia il modello milanese, tra l’altro abrogando gli standard urbanistici e la legge del 1942. Nel sostanziale silenzio della stampa e della cultura urbanistica ufficiale, con il consenso dell’INU. Soltanto eddyburg, allora come oggi, mobilitò il mondo ambientalista, pubblicando anche un pamphlet. All’inizio del 2006, quando la proposta stava per essere definitivamente approvata, grazie al senatore verde Sauro Turroni i senatori di Alleanza Nazionale si opposero alla proposta difendendo la legge urbanistica approvata negli anni del fascismo.

c) 2014: secondo disegno di legge urbanistica di Maurizio Lupi (stavolta autorevole esponente del Nuovo Centrodestra, ministro delle Infrastrutture del Governo Renzi).

Il programma delle due giornate di convegno

Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall'emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare. Corriere della Sera, 14 novembre 2014

Renzo Piano li chiama «rammendi». E accidenti se c’è da rammendare, nelle banlieue di Milano e Roma.«Vede, ci siamo occupati troppo a lungo delle città senza preoccuparci della gente, questo è il risultato», sospira Mario Abis, il sociologo del gruppo G124 inventato da Piano per riqualificare le periferie italiane: «La politica non ha mai ragionato sul Paese. Ora noi partiremmo dai... rammendi di un grande architetto per arrivare a una tessitura delle città».

Professore, a Milano e Roma gli ultimi si massacrano con i penultimi, nodi e conflitti vengono al pettine...
«Sì. È stato tutto a lungo in ebollizione, ora tutto scoppia, in strutture sociali complesse e con diversi tipi di povertà».

Cosa sta cambiando?«Viene meno il proletariato urbano. Ci sono forme multietniche, diverse tipologie di abitanti delle periferie».

E c’è la crisi, ovviamente . «Con la disoccupazione e una esplosione planetaria delle diseguaglianze. Intanto cambiano anche le città, diventano grandi aree metropolitane. Milano ha un milione e duecentomila residenti ma un’area metropolitana di cinque milioni di persone. Si arriva a territori senza identità, non luoghi: è la periferizzazione delle città che s’accompagna a isolamento, enclave chiuse, competizione tra le molte etnie».

Dopo tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza, s’è deciso di trasferire i migranti ospiti dal centro assediato. Un cedimento repentino: non rischia di produrre emulazione?«Sì, c’è il pericolo di una spirale di imitazione. Pensi alle banlieue francesi. È molto possibile che questo meccanismo si riproduca, magari in altri punti della periferia romana, o napoletana o palermitana».

A Milano l’impressione che lo Stato abdichi di fronte al racket delle occupazioni è fortissima in queste ore... «La mancanza dello Stato e della pubblica amministrazione è totale, direi. Come la mancanza di piani strategici e cultura della prevenzione».

Perché non si riesce a fare un piano regolatore decente? «Perché il territorio è visto come una situazione fisica, asettica. Lei allo Zen di Palermo può portare anche il migliore architetto, ma se non c’è relazione tra tessuto urbano e sviluppo sociale, non ne esce».

Pensando alla gente, eh? «Appunto, alla gente».

A Tor Sapienza come altrove, è palese che un brutto ambiente produca gente feroce. «Quando dico ambiente sostenibile questo intendo. Proprio sull’estetica delle periferie lavoriamo con Piano. Etica e estetica vanno assieme».

Come dice monsignor Bregantini, del resto. «Ora l’occasione sono le aree metropolitane. Cosa ci mettiamo dentro? Se ne facciamo una sommatoria di paesi, saranno l’incubatore del conflitto».

I francesi questo problema se lo sono posto nel 2003, con un piano nazionale. E Marsiglia è diventata un modello. Perché noi non ci riusciamo? «Perché siamo burocratici, macchinosi e lenti. Le città si sviluppano a un passo che la nostra micidiale burocrazia non regge. Questo si può superare nelle piccole comunità».

E non serve un progetto nazionale? «Certo. Ma il senso di questo lavoro di Piano è produrre proprio idee e spunti che portino a una visione nazionale».

Ci vorrebbe una politica. «Ci vorrebbe. E le aree metropolitane sono l’occasione per creare un ceto politico aperto. Queste cose non si risolvono a livello centrale. Del resto ci sono esperienze come Udine o Lecce dove le cose funzionano e bene».

Già, ma Milano, Roma o Napoli sono diverse. «La chiave è la scomposizione delle aree».

Cioè facciamo di Roma tante piccole Udine? «Non me la faccia dire così. Però, sì, è un discorso di sotto-insiemi collegati da un filo rosso. Ancora una volta, è una questione di cultura politica».

Cosa le fa pensare che infine ce l’avremo? «È una speranza. E anche un calcolo. La grande competizione internazionale si giocherà tra le città, non tra i Paesi. E la politica è tenuta a occuparsene, a guardare alle città con occhi diversi. Altrimenti saremo fuori dalla competizione economica internazionale».

All’aeroporto di Catania, da mesi, un cartello affisso dalla Questura sconsiglia ai turisti i quartieri periferici ad alto degrado: il primo della lista è Librino. Proprio a Librino, il gruppo di Renzo Piano ha individuato il «Campo San Teodoro liberato» e la vicina scuola Brancati come punto di ricucitura del tessuto urbano.

La filosofa e attivista ambientalista indiana sostiene giustamente che il problema dell'alimentazione nel mondo (una delle maggiori nefandezze prodotta dal capitalismo di ieri e di oggi) merita un'esposizione internazionale: ma non questa di Milano, farcita com'è dalla presenza dei maggiori responsabili dell'affamamento dei paesi piu poveri. Huffington post, 13 novembre 2014

Il mondo ha bisogno di una cultura alimentare che si basi su qualità e diversità. Soprattutto oggi, in un momento in cui gli alti costi ecologici, sanitari e sociali dell'agricoltura industriale stanno diventando sempre più evidenti. La cultura alimentare dell'Italia è ricca e va nella giusta direzione. Per questo ho sempre sostenuto il progetto iniziale dell'Expo e ho creduto che il posto giusto per realizzarlo fosse l'Italia. In questo paese dove esiste una tradizione alimentare ricca di biodiversità, creatività millenaria e saperi locali si sono sviluppati con grande armonia i temi come il biologico, la filiera corta e la libertà dagli ogm. Tutto questo è stato possibile perché la vocazione del mondo rurale italiano trae forza dall'agricoltura familiare e dal concetto che ogni campo si trasforma in un organismo in equilibrio ambientale, capace di alimentare la fertilità del suolo e di chi ne trae nutrimento. E da queste radici avrebbe dovuto trarre nutrimento e crescere l'Expo. Soprattutto ora che abbiamo montagne di prove scientifiche che eleggono l'agricoltura familiare come l'unica strada per sconfiggere la fame.

Ad Expo, a discutere di agricoltura e di ambiente, non dobbiamo lasciare solo le multinazionali della chimica e dei semi. Entità - come dice anche il mio amico Carlo Petrini - senza volto ma con mille braccia e fortemente impegnate non solo nella difesa dei loro interessi ma anche in una vera e propria campagna di conquista della cultura del Nord del mondo che rischia di fare molti nuovi adepti. Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s'impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli interessi degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peggio ancora, occasione per vicende di corruzione e di cementificazione del territorio. Sono stata nominata fra gli ambasciatori dell'Expo e ringrazio per l'onore che mi è stato fatto.

Purtroppo però non vedo nei programmi o nei calendari delle iniziative specifici richiami a temi fondamentali: la giustizia e la sovranità alimentare, l'agricoltura familiare, la biodiversità, il dramma dell'erosione genetica e le possibili soluzioni. Questa mancanza di chiarezza nel promuovere temi così essenziali sta producendo un vuoto che gli interessi commerciali e finanziari dell'industria biotecnologica rischiano di riempire con una campagna di spot pubblicitari: l'Expo rischia di trasformarsi in una fiera della colonizzazione finanziaria e industriale dei campi piuttosto che un'occasione di risposta alle vere cause della fame.

Non intendo in nessun modo sostenere, nemmeno indirettamente, le compagnie biotecnologiche che promuovono tutto ciò che è contrario alla buona nutrizione, non ecologico, insostenibile e che provoca al contempo la distruzione dell'agricoltura familiare. Il monopolio e l'illimitata pretesa di guadagno distruggono la sovranità e sostenibilità alimentare. L'agricoltura industriale che proviene dagli Stati Uniti fornisce cibo di cattiva qualità e provoca danni alla salute umana, inquina il suolo e danneggia l'ambiente. Le compagnie agroindustriali considerano il principio di precauzione, cioè la salute umana, un ostacolo al libero commercio da eliminare. Al contrario uno dei principali obiettivi dell'Expo deve essere proprio il rafforzamento della biosicurezza e dei modelli agroecologici. Per queste ragioni, come ambasciatrice dell'Expo - aderendo anche all'appello di Carlo Petrini, don Luigi Ciotti e Ermanno Olmi, anche lui ambasciatore dell'Expo - chiedo che sia fatta subito chiarezza sulla promozione dei principi a cui, assieme a tanti altri, sto lavorando da più di trent'anni e che ciò risulti evidente a tutti nell'agenda della manifestazione.

La mia proposta è semplice: affrontiamo a un tavolo il modello di produzione alimentare da mettere in agenda. Facciamo entrare le idee dentro Expo e teniamo fuori la cultura del profitto che danneggia le persone e il pianeta. Affrontiamo la questione chiave: il modello di produzione del cibo che viene proposto per il futuro è quello industriale basato su ogm e brevetti che finiscono per controllare la filiera alimentare da parte delle multinazionali oppure è quello che promuove la sovranità alimentare basata sulla biodiversità e sui sistemi ecologici, locali e territoriali? Questo dibattito ha una portata mondiale e l'Italia è il paese che più legittimamente può proporlo considerando anche le scelte chiare e coraggiose che ha fatto il suo governo sugli ogm. Mi rendo perfettamente conto che l'attuale crisi economica in Italia, provocata da Wall Street e dal sistema bancario, ha un impatto sullo stanziamento previsto in origine per l'Expo e che perciò le imprese biotech, in forza della loro capacità finanziaria, tendono a prendere una piattaforma più ampia. Ma proprio questa crisi rende ancora più evidente la validità del modello che tanti movimenti contadini propongono da decenni e che sostengo con tutta me stessa perché so essere quello migliore per garantire la salute del pianeta, il diritto al cibo e a un lavoro dignitoso per tutti.

«Il nodo adesso è quello della gestione "unitaria" dell'Arsenale e soprattutto delle risorse per poterlo mantenere. Rispettando e attuando i Piani regolatori vigenti che prevedono l' uso pubblico degli spazi oggi invece occupati da aziende private». La Nuova Venezia, 14 novembre 2014 (m.p.r.)

Venezia. Il futuro dell'Arsenale non può essere deciso da poche persone in assenza di un governo della città. Il "Documento direttore" elaborato dal commissario va rinviato, e sul futuro del complesso monumentale, diventato due anni fa di proprietà del Comune, va aperto un vero «percorso partecipato». È questa la conclusione dell'assemblea pubblica che si è svolta ieri pomeriggio in sala San Leonardo, organizzata dal Forum Arsenale. Sala piena e grande attenzione per le relazioni e le proposte in campo. «L'Arsenale è un bene comune, va gestito con trasparenza e partecipazione», ha esordito il moderatore Silvio Testa. Nel mirino anche gli atti, definiti «illegittimi» che il Comune non ha modificato dopo il passaggio di proprietà del bene.
In alcune aree si sono insediati soggetti privati (il Consorzio Venezia Nuova con la nuova sede e la Tethis a nord, mentre la parte sud (Gaggiandre, Corderie e Tese) è in concessione alla Biennale. Poi c' la Marina militare, che mantiene l'uso degli spazi per i suoi compiti istituzionli. Insomma, l'Arsenale è del Comune, ma il Comune ha la disponibilità soltanto di una sua parte. E i percorsi da una parte all'altra ancora non sono collegati. Adesso è pronto il "Documento direttore" elaborato dalla dirigente comunale Marina Dragotto e dal subcommissario con delega al Patrimonio Michele Scognamiglio (con il quale ieri sera c'è stato un incontro).
Già illustrato alla Municipalità sarà presentato il 2 dicembre proprio dentro l'Arsenale. «Ma non può essere quella la base di discussione», è stato detto ieri in sala, «bisogna rispettare e attuare i Piani regolatori vigenti». Che prevedono, ha ricordato Stefano Boato, «l' uso pubblico degli spazi oggi invece occupati da aziende private». C'è anche il nodo dei bacini di carenaggio, piccoli gioielli dell'architettura moderna e luoghi ideali per le riparazioni navali. Un gruppo di operai del cantiere Actv ha protestato ieri per l'intenzione della loro azienda e del Comune di cedere il «bacino piccolo» al Consorzio Venezia Nuova, già concessionario degli altri due bacini per la manutenzione del Mose. Questo proprio mentre il Consorzio oggi in via di commissariamento aveva lasciato intendere qualche mese fa, per bocca del suo presidente Mauro Fabbris di essere disposto a valutare il trasferimento del cantiere a Marghera, nella bonificata area ex Pagnan, liberando l'area Nord.
Il nodo adesso è quello della gestione «unitaria» dell'Arsenale e soprattutto delle risorse per poterlo mantenere. L'obiettivo è quello espresso ieri dal Forum, che raccoglie decine di associazioni di ogni orientamento. «Ripartire dalle concessioni e dai vincoli», è stato ribadito ieri. Relazioni di Barbara Pastor sulle proposte in cantiere, di Michela Scibilia sulla gestione partecipata. E infine l'annuncio di iniziative aperte ai cittadini. Per rivendicare «l'uso pubblico» del cuore antico della città d'acqua. 48 ettari carichi di storia che adesso i veneziani si vogliono riprendere.

A Venezia il presidente dell'Autorità portuale pontifica sulla protezione della laguna costruendo barene artificiali, sordo alle critiche, indifferente alle centinaia di osservazioni, forte degli appoggi politici e del percorso blindato per il progetto Contorta. Lucida analisi sul governo del turismo, ma ricetta discutibile di ricostruzione economica. La Nuova Venezia e Il Gazzettino, 13 novembre 2014 (m.p.r.)

La Nuova Venezia
Costa: «Il Contorta unica alternativa»
Intervista a Paolo Costa di Alberto Vitucci

«Il dissesto della laguna c'è, anche senza scavare il nuovo canale. E va affrontato. Il Contorta può essere un'occasione per invertire la tendenza». Il presidente dell'Autorità portuale Paolo Costa si dice sicuro che nei tempi stabiliti il progetto del nuovo scavo per le grandi navi sarà realtà. Le 362 osservazioni arrivate alla commissione Via del ministero non lo spaventano.

Presidente Costa, non sono un po' tante 362 osservazioni, quasi tutte negative?
«Con i nostri tecnici le abbiamo studiate una a una. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che di queste, 289 sono praticamente identiche. Fatte con il copia-incolla, con il sistema del web usato dal Movimento Cinquestelle».
Dunque secondo lei le obiezioni non sono autentiche?
«Non dico questo. Ma è un fatto che vengono usate le stesse parole, gli stessi slogan. Più un manifesto politico contro le navi che altro».
Le altre 73?
«Anche qui bisogna fare un distinguo. La maggior parte riguardano questioni prcedurali: Legge Obiettivo, decreti, legittimità. Questo riguarda il Tar. So che ci sono state richieste di chiarimento da parte del ministero alle Infrastrutture. Evidentemente le hanno date, visto che la procedura non si è fermata».
Quante ne restano a vostro parere?
«Le osservazioni a cui noi risponderemo sono una ventina. Riguardano la questione della sicurezza, l'idraulica e la perdita dei sedimenti in quel tratto di laguna».
Anche queste sono obiezioni da non considerare?
«Gli effetti sull'idraulica del nuovo canale vengono definiti modesti. Ci sono visioni diverse tra professori sul modello da usare, ma tutti concordano che nella laguna centrale e nella zona di partiacque la situazione è migliore del resto della laguna. Anche Sabbadino lo diceva, e non usava modelli matematici».
C'è da vedere cosa succederà quando lì passeranno navi da 130 mila tonnellate.
«Questo bisogna studiarlo. Come dovremo studiare anche gli effetti del vento in quel tratto di laguna libera, della pesca di frodo. Ci sono alcuni suggerimenti da approfondire. Rimangono i problemi di erosione che la laguna ha, a prescindere dai nuovi scavi. Possiamo scegliere tra velme e barene. Ma bisogna decidere: se vogliamo proteggere la laguna bisogna anche fare le barene artificiali».

Il Porto non vuole discutere su alternative meno impattanti per la laguna?
«Ma non ci sono. Marghera potrebbe esserlo, ma solo nel futuro, se realizzeremo l'off shore e toglieremo dal canale dei Petroli le navi mercantili».

Il terminal al Lido come propongono Duferco e De Piccoli?
«Esamineremo anche quella proposta, ho già convocato una Conferenza dei servizi. Ma, ripeto, si tratta di un altro livello di progetto. Tutti possono proporre una soluzione e si può valutare quale sia il progetto migliore, ma c'è chi ha la responsabilità di decidere che deve farlo. E sono gli organi tecnici, la Capitaneria, l'Autorità portuale. Può essere meglio una macchina a benzina di una macchina a gas. Ma prima di tutto deve essere una macchina».

Allora il Contorta si farà?
«Spero di sì. Dobbiamo dare risposte rapide alle compagnie crocieristiche. Se no le navi se ne andranno».

Il Gazzettino

Flussi turistici, un problema che si governa sviluppando porto, università e aeroporto
Lettera di Costa Paolo

Il governo dei flussi turistici che interessano Venezia storica non è oggi "un" problema, ma "il" problema: di tutta Venezia, d'acqua e di terra. E' il bandolo di una matassa intricata che non si può dipanare per parti, isolando un problema dall'altro, perché tutti portano alla loro madre: la necessità di ricostruire la base economica attorno alla quale la "Venezia-civitas" deve al più presto riorganizzarsi per vivere e per assolvere al compito storico di tramandare alle future generazioni quella "Venezia-urbs" sempre meno sostenuta dalle finanze statali e da quelle del mondo che pure la sente propria.

Una base economica da ricostruire dopo la "scomparsa" della Marghera dell'industria novecentesca e il debordare del turismo oltre il limite di capacità di accoglienza. Il bandolo della matassa va oltre le discussioni sul ticket di ingresso o sulla city tax, pensati un giorno come fonte di entrata per le casse comunali e l'altro come mezzo di contenimento dei flussi turistici. O sul controllo "di mercato" da contrapporre a quello "amministrato" con un sistema di prenotazioni; o su nuove vie di accesso per allentare la pressione, ma solo sulle "porte"(piazza-le Roma, Ferrovia, riva degli Schiavoni), o nuovi percorsi per tenere i turisti lontani da San Marco e Rialto.
Tutte discussioni che rivelano l'incertezza schizofrenica tra un governo dei flussi pensato per accogliere "meglio" un maggior numero di visitatori - magari quelli promessi dall'Expo di Milano 2015 - o per riportarne il totale entro un limite tollerabile. Eppure dovrebbe esser chiaro che il processo di spiazzamento delle attività non turistiche da parte di quelle turistiche ha superato il livello di guardia, e che si sta realizzando la profezia evocata fin dal 1969 nel "Rapporto su Venezia" dell'Unesco che temeva «una evoluzione che condurrebbe progressivamente la città insulare a non essere più che il vecchio sobborgo delle antiche ville di terraferma». Vale a dire una riserva folkloristica invasa da soli turisti.
Si può solo fingere di non vedere che il differenziale di rendita spinge ogni giorno qualche abitazione a trasformarsi in bed and breakfast, qualche palazzo in un nuovo albergo e ogni attività produttiva non turistica a chiudere i battenti. Paradossalmente con l'aiuto della crisi economica che dal 2008 ad oggi risparmiando il turismo a Venezia ne ha fatto un ammortizzatore sociale dalla doppia faccia. Ha salvato il livello di benessere della comunità veneziana - rendendo meno dolorosa la scomparsa della Marghera industriale - ma ha spinto sempre più gran parte di Venezia verso una monocoltura che oggi sta presentando il conto sotto forma di una alternativa radicale non più rinviabile.
La prima alternativa coincide con "il fingere di non vedere" di questi anni e col lasciare che si completi il processo di definitiva trasformazione di Venezia storica in una destinazione turistica pura. Una prospettiva non più paradossale, meno lontano di quanto non si creda (2030?) e ineluttabile in mancanza di uno scatto d'orgoglio dei veneziani e dell'Italia tutta. La seconda alternativa - perseguibile solo da una volontà politica stabile e coesa per almeno un decennio - passa prima di tutto per la decisione di far rispettare la capacità massima di accoglienza turistica di Venezia storica. Il come, con le tecnologie delle quali si dispone oggi è problema quasi irrilevante.
Inconfrontabile con il vero nodo: quello della conseguente contrazione dell'offerta. Se come è ragionevole si dovesse immaginare di ridurre del 30% la pressione attuale (da 24 a 16 milioni di visitatori anno?) questo implicherebbe una pari riduzione dell'offerta turistica (30% in meno di posti letto, 30% in meno di posti ristorante, etc). Un obiettivo sostenibile solo se parallelamente assistito da una politica di ricostruzione di una base economica alternativa capace di far vincere a Venezia la concorrenza sempre più serrata con gli altri nodi urbani europei. Porto (in sé e come fattore di localizzazione per la nuova industria di Marghera), aeroporto (in sé e come fattore di localizzazione di un terziario direzionale di respiro globale, che si avvale del collegamento con l'alta velocità ferroviaria e potrebbe avvalersi dell'ambiente Venezia, se reso accessibile da un trasporto locale meno obsoleto), università (come catalizzatore di formazione superiore "di mercato" e di ricerca capace di tradursi in progettazione e nuova tecnologia) sono alcuni dei pochi blocchi produttivi che, aggiunti a un turismo di qualità legato alla valorizzazione degli attrattori culturali (Biennale, Fenice, Grandi Musei), possono far sperare di riavviare un circuito virtuoso oggi inceppato.
Paolo Costa è presidente Autorità Portuale di Venezia

Riferimenti: si veda su eddyburg di Lidia Fersuoch Mose e Contorta: le esternazioni di Paolo Costa e la replica di Italia Nostra, di Ennio Fortuna II Canale Contorta altererebbe l'equilibrio idrodinamico della laguna, di Alberto Vitucci Contorta, approvato il parere negativo. La lettera di Marani, Guerzoni, De Fina, esperti responsabili per le discipline dell’idraulica e della morfodinamica del Piano Morfologico per la laguna di Venezia Per chiarire una questione Contorta e di Domenico Patassini, responsabile per lo stesso piano dei gruppi di lavoro Pianificazione e Vas,

Contorta: note sulla valutazione di impatto ambientale (Via)

L’autore critica giustamente chi pesca nel disagio sociale per rafforzare i comportamenti xenofobi e razzisti sui quali regge i propri interessi elettorali. Ma mistifica le cause da cui il disagio è prodotto. Corriere della Sera 13 novembre 2014. con postilla

Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.

In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.

È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché? È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili.

Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?

Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.

In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.

In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.

Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.

postilla

L’autore di questo articolo descrive una città e una società nelle quali, per accrescere il potere e la ricchezza di pochi, si creano moltissimi in rifiuti (“scarti umani” scrive Bauman) condannati alla povertà e poi alla miseria, alla precarietà del lavoro e poi alla disoccupazione, alla riduzione dei diritti conquistati e poi alla privazione di ogni diritto umano.

Se l’autore avesse letto meglio e citato in modo più appropriato Zygmunt Bauman, e magari avesse letto anche David Harvey e Saskia Sassen, Marco Ravelli e Luciano Gallino (o anche soltanto se avesse frequentato eddyburg), avrebbe forse capito che c’è un solo modo per uscire da questa catastrofica prospettiva e per ottenere il raggiungimento, per tutti, dei tre obiettivi (libertà, uguaglianza, fraternità) posti all’umanità non dalla rivoluzione proletaria del 1917, ma di quella borghese del 1789. Questo modo consiste nel far comprendere a tutti gli sfruttati che la soluzione non si trova mettendo gli uni contro gli altri i gruppi sociali diversamente sfruttati, ma solo unendo tutte le persone interessate a costruire una società migliore mediante una politica migliore: una società trasformata radicalmente (dalle radici), mediante una politica nella quale la libertà per tutti, l’equità e la solidarietà siano gli obiettivi primari. Non sono certo dediti a questo compito i Salvini, né gli altri agitatori razzisti e xenofobi; ma neppure quanti sventolano volantini pubblicitari per rendere accattivante il sistema stesso che provoca lo sfruttamento, e a cui l'autore sembra rivolgersi.

La Repubblica, 12 novembre 2014

STORIE italiane di archeologia. Roma, via Giulia. Le scuderie di Augusto, dove si ricoveravano i cavalli che avevano corso al Circo Massimo, rinvenute nel 2009, giudicate di “eccezionale importanza” dalla soprintendenza archeologica, sono state rinterrate sotto cumuli di pozzolana. Il parcheggio per circa trecento posti si piazzerà, invece, lì accanto. I reperti antichi sono emersi durante lo scavo per i garage, ma dopo cinque anni – cantiere fermo, un’orrenda palizzata che recintava l’area, un lembo di centro storico sconvolto – non si è trovata altra soluzione che sacrificare le stalle imperiali.

Pozzilli e Venafro, provincia di Isernia. Durante i lavori per un metanodotto fra Busso e Paliano, svolti con la collaborazione della soprintendenza archeologica del Molise, vengono alla luce ville romane, fornaci rinascimentali, tracce di una centuriazione, e, soprattutto, insediamenti neolitici con un focolare e materiali d’età del bronzo e, ancora, i resti dello scheletro di un bambino di sei-settemila anni fa. I reperti andranno al museo di Venafro. Le strutture fisse rimarranno sul posto, protette e visibili.

La chiamano archeologia preventiva ed è così che si fa archeologia in Italia. Il novanta per cento degli scavi – circa sei, settemila ogni anno dati del ministero per i Beni culturali – non sono il frutto di programmazione scientifica, coordinata da una soprintendenza. Ma l’effetto, desiderato, più spesso indesiderato, dei lavori per un parcheggio, per le linee di alta velocità, per cavi elettrici. Per la Metro C di Roma, per esempio, o per l’autostrada Bre-Be-Mi. Il risultato può essere positivo, come a Venafro, negativo come a Roma.

Ma, anche se fatta così, quest’archeologia rischia di ricevere un colpo mortale. Il decreto Sblocca-Italia, appena convertito in legge, contiene norme che, temono molti archeologi, potrebbero rendere ancora più difficile il recupero di oggetti e strutture antiche, anche molto rilevanti.

I rischi paventati dagli archeologi si affiancano a quelli per le norme paesaggistiche o urbanistiche, contro le quali lo Sblocca-Italia procede a colpi di “semplificazioni” e “autocertificazioni”. D’altronde era stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, presentando nell’agosto scorso il provvedimento, a sbilanciarsi: «Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici». «E dire che l’obiettivo principale dell’archeologia preventiva, se correttamente praticata, sarebbe proprio quello di accelerare i tempi di un’opera pubblica », spiega Filippo Coarelli, archeologo di lunghissima esperienza, allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, «perché individua con anticipo, sulla base di studi, di sondaggi, se un lavoro rischia di interferire con presenze antiche: se lo si sa prima, il progetto può essere modificato più agevolmente che non il cantiere aperto, quando, in caso di un ritrovamento, c’è l’obbligo di fermarsi e di avvisare la soprintendenza, altrimenti si commette un reato».

L’archeologia preventiva in altri paesi è regolamentata in maniera rigorosa e funziona egregiamente. In Francia è governata dall’Inrap, un organismo pubblico che ha alle sue dipendenze archeologi e operai e che interviene in ogni lavoro che comporta scavi. I finanziamenti arrivano da un fondo alimentato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi. E la Francia non ha il patrimonio archeologico che può vantare l’Italia. Secondo Fabrizio Pesando, professore all’Orientale di Napoli, oltre quelle francesi, «anche le esperienze spagnole hanno dato ottimi risultati e, in generale, l’archeologia preventiva sarebbe una buona prassi, che risponde alla necessità di razionalizzare e rendere più veloci i lavori. Inoltre può vedere impegnati tanti giovani studiosi e alimentare le conoscenze ».

In realtà da noi l’archeologia preventiva è spesso una specie di selvaggio West. Le norme in vigore si riferiscono solo alle opere pubbliche, non anche a quelle private, che in tantissimi casi prevedono scavi anche profondi (basti pensare alle fondazioni di un edificio). I costi sono a carico delle aziende, il cui fine ultimo è quello di risparmiare e di far presto e solo raramente quello di dare un contributo all’arricchimento del nostro patrimonio. Molto è affidato a giovani e, ormai, meno giovani precari, in possesso di lauree specialistiche, master e dottorati, ma pagati fra i 5 e i 7 euro l’ora. Le soprintendenze dovrebbero vigilare, però con il personale ridotto al lumicino fanno quel che possono. Uno svantaggio lo sottolinea Pier Giovanni Guzzo, per quindici anni soprintendente a Pompei: «La legge è limitata all’indagine sul campo, cioè a “bonificare” l’area che sarà occupata dall’opera. Lo studio, la pubblicazione, il preventivo restauro dei reperti e la conservazione in magazzini capienti ed attrezzati non sono previsti: così che l’Italia, si riempie sempre più di inediti. Facendo crescere l’ignoranza sulla storia antica del nostro Paese».

Per paradossale coincidenza, la Camera (ultima fra tutti i parlamenti europei) ha ratificato nelle scorse settimane la Convenzione di Malta, un accordo sottoscritto nel 1992 che regolamentava proprio l’archeologia preventiva. Il perno della Convenzione è che gli archeologi siano coinvolti sempre nelle attività di pianificazione e di progettazione degli interventi «che rischiano di alterare il patrimonio archeologico». E che a loro debbono essere concessi «tempo e mezzi sufficienti per effettuare uno studio scientifico adeguato del sito e per la pubblicazione dei risultati».

Lo Sblocca-Italia va in direzione opposta. Mentre la Convenzione di Malta lo prevede in una fase preliminare, l’articolo 1 del decreto stabilisce che per le ferrovie Napoli-Bari e Palermo-Catania un archeologo sia chiamato a valutare un progetto già definitivo, quando diventa assai complicato e costoso modificarlo. Inoltre, sempre nel caso delle due linee ad alta velocità (che per molti archeologi sono la testa di ponte per tanti altri interventi), l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato è nominato commissario: indice lui la conferenza di servizi «entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti », la presiede, decide se i rappresentanti delle altre amministrazioni, compresa la soprintendenza, sono “adeguati”, e, nel caso essi esprimano pareri non favorevoli sul progetto – pareri che debbono essere formulati entro trenta giorni, altrimenti «si intendono acquisiti con esito positivo» – è sempre lui che decide se questi pareri sono regolari e se se ne debba tener conto. Di fatto la presenza dell’archeologo di una soprintendenza è puramente esornativa.

«Siamo di fronte a una contraddizione vistosa: quale delle due norme prevale, lo Sblocca-Italia o la Convenzione di Malta?» si domanda Coarelli. Che azzarda anche una risposta: «L’unica cosa che si può prevedere è che fioccheranno ricorsi e contenziosi: il che rallenterà ancora di più le opere pubbliche».

«Lo Sblocca-Italia può essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata», insiste Maria Pia Guermandi, archeologa dell’Istituto Beni culturali dell’Emilia Romagna, «e questo perché procede a un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali: le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui l’archeologia sarebbe l’ostacolo più insidioso ». «Qualsiasi forma di ridimensionamento o estromissione degli organi preposti alla tutela e conoscenza del territorio è cosa assolutamente da scongiurare», conclude Pesando.

Entro il 31 dicembre il ministero per i Beni culturali deve varare le linee-guida per l’archeologia preventiva, anche questo un provvedimento atteso da anni. Ma, stando allo Sblocca-Italia, non lo redigerà da solo, bensì dovrà concordarlo con il ministero delle Infrastrutture. Esattamente con chi spinge per limitare al minimo i poteri di controllo delle soprintendenze.

Le soprintendenze dovrebbero vigilare, però con il personale ormai ridotto al lumicino fanno quello che possono

Come in molte parti d’Italia, in Sicilia si costruisce e si trasforma il territorio in spregio alle norme tecniche e ai principi urbanistici più elementari. E, anche in assenza di fenomeni naturali gravi ed evidenti, come ad esempio eventi meteorici intensi, si generano condizioni di rischio per il territorio e l’incolumità delle persone. Il paradosso è che spesso le stesse Pubbliche Amministrazioni, proprio facendo riferimento a non prioritarie o inesistenti emergenze, approvano o incoraggiano interventi inutili e dannosi.

È il caso di un progetto concepito dal Comune di Acireale, in provincia di Catania, per “rimuovere”, presunte cause di “degrado e di erosione” da tratti costieri con falesie di natura basaltica, ricoperte da formazioni a bosco e macchia mediterranea, ricadenti in una riserva naturale regionale (“La Timpa”) e in un Sito di Interesse Comunitario (ITA070004 “Timpa di Acireale”).

Di tale intervento, finanziato con fondi POR (POR Sicilia 2000/2006, n° 2: "Interventi integrati finalizzati alla rimozione delle cause di degrado ed erosione di tratti di costa in corrispondenza delle frazioni di S. Caterina, S. M. La Scala e Pozzillo"), sono stati portati a termine finora lavori a dir poco devastanti che, a detta dell’Amministrazione Comunale, avrebbero “rimosso” l’erosione costiera nei tratti interessati[1]. Tali lavori hanno invece comportato, in alcune aree di massima protezione della riserva naturale, la posa di spropositate e sovradimensionate reti metalliche, la totale e radicale distruzione della fitta vegetazione a macchia mediterranea inizialmente presente, nonché il disgaggio di rocce e lo scivolamento di suolo, determinando un processo erosivo che, in relazione ai tempi di erosione naturale della Timpa, avrebbe richiesto secoli. L’assurdità degli interventi consiste nella distruzione o dalla pesantissima manomissione di formazioni vegetali naturali e geologiche, cioè proprio di quegli elementi per la conservazione dei quali era stata istituita la riserva naturale.
In accordo con l’inizialmente richiamata illogica scala di priorità che caratterizza alcune pubbliche amministrazioni, gli stessi funzionari del Comune di Acireale che hanno ideato e inflitto un simile trattamento alla riserva naturale, hanno invece omesso di programmare e realizzare gli interventi mirati a evitare che le acque meteoriche provenienti dalle aree edificate a monte della riserva si riversino in modo selvaggio e senza controllo sulla sottostante falesia, innescando, come ripetutamente avvenuto e ampiamente documentato, crolli, frane e fenomeni erosivi artificiali estremamente violenti e dagli effetti osservabili in tempi estremamente brevi.

Come "necessario" completamento dell'intervento, la Giunta comunale ha adesso approvato (delibera n° 93 dell'8 settembre 2014) la costruzione di una barriera soffolta in un tratto di costa di incalcolabile interesse geologico per la presenza di spettacolari basalti colonnari, in parte anche sommersi, al fine di “rimuovere”, anche in questo caso, l’erosione. Si tratta di un luogo mitico, meglio noto con il toponimo di Grotta delle Colombe, in cui Ovidio, nel XIII libro delle Metamorfosi, ambienta la storia d’amore tra la nereide Galatea e il pastore Aci, che viene ucciso dal ciclope Polifemo.

La barriera soffolta, per la struttura dell’opera, per il posizionamento previsto e per la natura dei fondali e del tratto di costa interessato (rocce basaltiche a picco sul mare), si rileverebbe tecnicamente inutile e comunque inefficace a “rimuovere” l’erosione, come è stato evidenziato da autorevoli specialisti[2]. Indipendentemente dalla validità tecnica dell’opera, appare comunque assurda l’idea di volere “rimuovere” il naturale processo di erosione di una costa rocciosa basaltica e intollerabile lo spreco di pubblico denaro.

Peggio ancora: inutile agli scopi prefissi, la barriera sconvolgerebbe i variegati fondali dello specchio di mare interessato, che possiede una ricchissima biodiversità animale e vegetale. Numerosi studi hanno accertato in questi fondali la presenza di specie di alghe a rischio o minacciate di estinzione, sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale, e hanno censito ben sei habitat prioritari secondo la disciplina comunitaria[3].

Ma senza dubbio il danno maggiore che produrrebbe la barriera soffolta deriva dalla presenza di basalti colonnari proprio in corrispondenza del tratto di costa in cui dovrebbe essere realizzata. Le parti sommerse di queste straordinarie formazioni geologiche sarebbero infatti sepolte dall’opera.

Questi basalti sono diversi rispetto a quelli riscontrabili nella vicina Aci Trezza, costituiti da corpi magmatici raffreddatisi all’interno della crosta terrestre. Presso Grotta delle Colombe sono presenti, infatti, affioramenti di lave a colonne sub-verticali eruttati da apparati fissurali, periferici rispetto all’area in cui si formò l’apparato centrale etneo. Si tratta in ogni caso di formazioni geologiche rarissime nel Mediterraneo, soprattutto in ambiente marino; anzi, la particolarità di essere sommersi e di presentare una significativa estensione li rende unici nel Mediterraneo. La loro bellezza, scaturente dalle geometrie regolari, tendenti all’esagono, tipiche, appunto, dei basalti colonnari e il loro elevatissimo valore scientifico non meritano di essere cancellate da un’opera tanto inutile quanto assurda. Piuttosto i basalti colonnari di Grotta delle Colombe, sia nelle parti emerse sia sommerse, dovrebbero essere rigorosamente tutelati e diventare motivo di promozione turistica.

Se la barriera soffolta fosse realizzata, seppellendo questi tesori naturali sommersi, i funzionari che l’hanno voluta e continuano a volerla, sarebbero ricordati per sempre come responsabili di un inaccettabile scempio.

Ci auguriamo che l'allarme esca dall'ambito locale e coinvolga l'opinione pubblica nazionale. Sulla vicenda Legambiente ha presentato denuncia alla Procura della Repubblica e alla Procura della Corte dei Conti.

[1] Una barriera frangiflutti per tutelare Santa Maria La Scala e Santa Caterina, "La Sicilia", 17 set. 2014.
[2] Così nel 2008 il prof. Giuliano Cannata, uno dei massimi esperti in Italia nel campo della difesa costiera. A sua volta il prof. Carmelo Ferlito, vulcanologo dell'università di Catania, definisce "ingenui" i tentativi di "bloccare" l'erosione di una scogliera a picco sul mare (Timpa di Acireale, il parere degli esperti, quotidiano online "CTZEN", 30-9-2014: ).
[3] Alcuni studi, in particolare, hanno evidenziato la presenza di ben 269 taxa tra Rhodophyceae, Phaeophyceae e Chlorophyceae, tra cui quattro specie a rischio o minacciate e sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale. Nell'area in cui in particolare è prevista la barriera è stata rilevata la presenza di tre delle quattro specie e di cinque dei sei habitat. Riguardo alla fauna, altri studi hanno rilevato la presenza di specie indicatrici, che denotano un'elevata ricchezza degli ambienti dell'infralitorale superiore (Catra M., Giaccone T., Giardina S., Nicastro A., Il patrimonio naturale marino bentonico della Timpa di Acireale (Catania), 2006: Boll. Acc. Gioenia Sci. Nat., 39 [366]:129‐158). In una relazione del 2008 la prof. Grazia Cantone, ordinario di Biologia Marina dell'università di Catania, ha evidenziato l'azione distruttiva che l'enorme massa di pietrame lavico determinerebbe, "giacché sarebbero ricoperti e distrutti tutti i popolamenti algali e animali sui quali verrà riversato il materiale della barriera". Diversamente da quanto sostenuto dagli estensori dello studio di impatto ambientale, la prof. Cantone osserva che, "anche se nel tempo gli inerti verranno colonizzati, si avrà certamente una minore ricchezza specifica dovuta all'uniformarsi dell'habitat". La barriera inoltre comporterebbe un'alterazione della circolazione delle correnti marine (influenzata dalla presenza di sorgenti di acque dolci), che potrebbe compromettere in modo irreversibile ogni possibilità di ripresa della vegetazione, quanto meno nelle condizioni attuali.

Roberto De Pietro è componente di Legambiente Catania
Qui il pdf con la versione integrale dell'articolo

Le associazioni ItaliaNostra, Wwf e Lipu della Sardegna contestano il disegno di legge in materia di miglioramento del patrimonio edilizio approvato con delibera G.R. n. 39/2 del 10.10.20
non soltanto per le norme in esso contenute che appaiono pericolose per gli effetti che avrebbero
sul territorio, ma soprattutto per la filosofia che pervade buona parte degli articoli del provvedimento che di fatto “istituzionalizzano” le deroghe alle norme urbanistiche comunali,regionali e nazionali.

Le finalità e il contenuto della normativa che si vorrebbe approvare sono esattamente gli stessi peggiorativi del famigerato piano casa di Cappellacci, sinora fortemente avversato anche dall’attuale

maggioranza politica. Con l’enorme aggravante che le deroghe al piano paesaggistico e ai regolamenti comunali da provvisorie diventano definitive. Si decide l’annullamento della pianificazione e si sancisce la fine di ogni governo pubblico del territorio. La regione abdica al suo ruolo di controllo e priva i comuni di prerogative garantite da leggi dello stato.
Il paesaggio e tutte le sue componenti naturali, sociali e culturali che connotano ogni luogo e la sua specifica identità– costituiscono il nucleo fondante, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” del territorio, non arbitrariamente modificabile e protetto da norme costituzionali. E' veramente incredibile che vengano consentite nuove volumetrie pari al 25% nella fascia dei 300 metri dalla linea di battigia perfino alle strutture turistico-ricettive che hanno già usufruito di tale possibilità e a quelle appena realizzate nel 2013!
Per questa ragione la tutela dell’ambiente deve essere garantita dall’autorità di governo che ha il dovere istituzionale di proteggere le caratteristiche peculiari di ogni luogo, consentendo gli usi che ne permettono la conservazione o la riproduzione e impedendo quelli che le distruggerebbero.

Come regioni più virtuose hanno da tempo riconosciuto, lo svolgimento delle attività che incidono sul
territorio e l’utilizzazione delle risorse ambientali devono assicurare la salvaguardia dei beni comuni e l’uguaglianza di diritti all’uso e al godimento degli stessi, nel rispetto delle esigenze legate alla migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future.

E’ diffusa l’esigenza di norme che garantiscano davvero il mantenimento della forma e degli aspetti più significativi delle nostre città, la tutela dei centri storici e dei monumenti, la qualità del verde e degli spazi pubblici e relativa socialità, la protezione del paesaggio, della salute e dell’ambiente.

E' veramente aberrante che gli incrementi volumetrici possano essere oggetto, successivamente alla loro realizzazione, di cambio di destinazione d’uso e che si preveda la monetizzazione per i parcheggi mancanti. Rivendichiamo per ciascun cittadino residente e/o insediabile nei contesti urbani
degli standand urbanistici dei 18 mq previsti dalla normativa nazionale.

Chiediamo l’approvazione di leggi che abbiano come fine reale la effettiva conservazione del suolo non ancora edificato - bene comune e risorsa non rinnovabile - incentivando l’attività agricola, l’artigianato e un vero turismo culturale, attraverso la cura del territorio e dei suoi abitanti.

Per questi motivi siamo totalmente contrari al testo del DDL “in materia di miglioramento del patrimonio edilizio”. PerchÈ un piano casa "in deroga perenne" va in senso diametralmente opposto alla tutela del bene comune e non è pertanto “emendabile”.

Ci riserviamo di esprimere il nostro dissenso ragionato e motivato e di trasmettere specifiche osservazioni a dimostrazione della illegittimità, anche costituzionale, delle norme che si
vorrebbero approvare.

ITALIA NOSTRA SARDEGNA, Maria Paola Morittu Delegata reg.le Paesaggio e BB.CC
WWF SARDEGNA Carmelo Spada Delegato Regionale

LIPU SARDEGNA, Francesco Guillot Coordinatore Regionale

Lettera appello della presidente onoraria Fondo Ambiente Italia al presidente della Lombardia, contro il disegno di legge per “arginare il consumo di suolo” che ne aumenterà il consumo. Corriere della Sera Milano, 10 novembre 2014

Gentile Presidente Maroni, sono sicura che Lei e la Sua giunta non vorrete passare alla storia come coloro che non hanno mosso un dito per salvaguardare quanto resta dei paesaggi agricoli della pianura lombarda, tra le più fertili d’Europa, ambita perfino dall’Impero austro-ungarico. La legge che la Sua giunta sta per approvare, pur intitolata alla riduzione del consumo di suolo e alla riqualificazione di quello degradato, non contiene alcuna disposizione che vada in direzione della salvaguardia del territorio agricolo. Le buone intenzioni sono tutte rimandate al futuro cioè a tre anni. Ripeto: Vi apprestate a varare i vincoli all’edificazione dei terreni agricoli che scatteranno infatti solo tra tre anni. Nel frattempo sarà data via libera all’espansione prevista dai Piani di governo territoriale che minacciano seicento chilometri quadrati di aree agricole: più di tre volte la città di Milano!!

Ad approfittarne saranno solo i costruttori, in una corsa al consumo di suolo fatale per la Lombardia, già compromessa come nessun’altra regione d’Italia, anche se in Lombardia vi sono tuttora 170.000 vani sfitti (dato ufficiale 2013). Questa gigantesca perdita di suolo ci espone alle tragedie del dissesto idrogeologico, con la conseguente scomparsa dei fontanili, colate di cemento, sempre più asfalto e strade, discariche anche di sostanze tossiche, e ulteriori attentati alla biodiversità, oltre allo scempio di un paesaggio sempre più degradato e sempre più lontano dalla propria storia e dall’identità regionale, tema che sappiamo quanto le stia a cuore. Invece i paesaggi agricoli possono rappresentare risorse concrete per uno sviluppo sostenibile. I prodotti della filiera corta (locali e freschi) sono ormai i più ambiti sulle nostre tavole e possono rappresentare una risorsa concreta per favorire l’occupazione e l’economia dell’indotto, oltre che per proteggere la salute dei cittadini. Expo rilancerà da Milano nel mondo il tema «nutrire il pianeta», ma come si concilia questa iniziativa con il drastico consumo dei suoli agricoli che l’Italia rinuncia a salvaguardare proprio a partire dalla regione Lombardia? Perché non si incentiva la rigenerazione delle troppe aree postindustriali che circondano Milano?

Queste se trasformate possono diventare risorse per il rilancio dell’economia, per la ripresa dell’occupazione e per favorire un nuovo orientamento del settore immobiliare, oggi fortemente in crisi. Egregio Presidente, faccio appello alla Sua responsabilità, pubblica e personale, pregandola di non consentire l’approvazione di queste disposizioni. Altrimenti i cittadini dovranno accusare Lei e la Sua giunta di aver consentito la cementificazione della Lombardia. Con deferenti saluti carichi di fiduciosa speranza.

«Il Consorzio Venezia Nuova era pronto a cedere l'area utilizzata per le manutenzioni delle paratoie del Mose. Ma il "Documento direttore" di Ca' Farsetti non cita questi spazi. Giovedì a San Leonardo un'assemblea che si annuncia infuocata». La Nuova Venezia, 10 novembre 2014 (m.p.r.)


II Consorzio Venezia Nuova resta all'Arsenale. Perché «bisogna assumere come risorsa le funzioni già presenti nell'area e tutelate dalla legge del 2012». E poi perché svolge «attività che sono punti di eccellenza dell'economia dei servizi a scala nazionale e internazionale». Mentre al Consorzio arriva il commissario nominato dall'Autorità anticorruzione, il commissario Zappalorto, che governa Ca' Farsetti, dà alle stampe il nuovo «Documento direttore sull'Arsenale». Che prova a disegnare le destinazioni future dell'area, dopo il passaggio di proprietà del compendio dal demanio al Comune. Centoventidue pagine che riassumono la normativa vigente e tracciano destinazioni e ambiti funzionali. Piano che il commissario ha presentato alla Municipalità e che il 2 dicembre sarà illustrato alla città proprio in Arsenale.
Ma i comitati sono sul piede di guerra. E hanno organizzato per giovedì in sala San Leonardo una grande assemblea pubblica. «È pericoloso questo nuovo inizio che fa tabula rasa di riflessioni decennali e dei piani urbanistiche», dice Marco Zanetti di Veneziacambia 2015, «non si possono prendere decisioni così importanti in mancanza di un mandato politico dei veneziani». Altri, come Stefano Boato, ricordano come i Piani in vigore parlino espressamente di "destinazioni pubbliche" dell'area. In questa situazione, dice Boato, escludere dall'uso pubblico ampie aree e capannoni dell'Arsenale di proprietà del Comune non è legittimo.
Il nodo del contendere è quello della manutenzione del Mose. Fino a qualche anno fa era un tema di cui non si discuteva. Al Consorzio era stata assegnata in concessione per vent'anni l'area dell'Arsenale nord insieme ai due bacini di carenaggio. Lì sono già state avviate le attività per la manutenzione delle paratoie, con la nave da 50 milioni che dovrà smontarle una al mese una volta in funzione. Ma qualche mese fa il nuovo presidente del Consorzio Venezia Nuova Mauro Fabris, anche sull'onda dell'inchiesta, si era detto disponibile a «restituire l'Arsenale alla città». Pensando a un trasferimento a Marghera, nella bonificata area ex Pagnan di propietà della Mantovani, l'attività di manutenzione. Significa che il Consorzio è disposto a «restituire» anche la parte Nord. Il Piano di riutilizzo dell'Arsenale acquisterebbe così un respiro strategico diverso.
Ma di tutto questo non vi è traccia nel Piano direttore. Che prevedeva anzi, nelle intenzioni della passata amministrazione, di cedere al Consorzio anche il bacino piccolo, trasferendo il cantiere dell'Actv al Tronchetto. Secondo i comitati, che adesso annunciano battaglia, nel nuovo documento redatto dall'Ufficio coordinato dal dirigente del Comune Marina Dragotto - dopo lo scioglimento della società Arsenale spa presieduta da Roberto D'Agostino - non vi è traccia della documentazione sulle concessioni in essere al momento del passaggio di proprietà dallo Stato al Comune. Il nuovo proprietario, insomma, potrebbe guadagnare parecchio dall'uso di quegli spazi, che per la parte monumentale (Gaggiandre e Tese) restano affidati alla Biennale. La Marina mantiene i suoi spazi per gli usi istituzionali, il Consorzio per la manutenzione del Mose. Ma se lo stesso Consorzio reputasse più conveniente andarsene a Marghera, lo scenario cambierebbe del tutto.

La Repubblica, 8 novembre 2014

Mentre leggete questo articolo sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli.
Mai la definizione di "patrimonio artistico mobile" è stata presa alla lettera come oggi: ogni anno e solo in Italia vengono movimentati circa 15mila pezzi archeologici e circa 10mila opere d'arte.

Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell'ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sonoinaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell'Ottocento e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le mostre all'estero: in questi giorni una pubblicità dice che il Duomo di Milano si trova nel negozio Eataly di New York (l'annuncio parla di tre «boccioni»: non c'entra Umberto Boccioni, ma alcuni doccioni gotici, da tempo smontati).

Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di un'industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d'arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n'è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.

Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d'altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l'attualità e la forza di un modello alternativo. Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l'aspirazione «contestuale» di Sloow Food: non «la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro». Bisognava attuare l'idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le osterie », «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le campagne».

Insomma: «Bisognava rompere la gabbia», e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell'arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l'umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell'arte, parlare al nostro tempo. Perché c'è urgente bisogno di «rompere la gabbia» degli eventi, e di ricominciare a «camminare il patrimonio».
Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del "chilometro zero". Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l'arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell'arte italiana.
Invece di andare a vedere una mostra che si intitola «Tuthankamon Caravaggio Van Gogh» (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un'epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno.
E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso). Potremmo iniziare a «camminare» il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall'industria culturale — ormai insostenibile — ci farebbe immediatamente vedere l'enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il «patrimonio storico e artistico della nazione italiana» (art. 9 Cost.), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra.
Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell'onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l'effimero e l'inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell'arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh.

Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni "culturali" a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire. Oggi nel rapporto col patrimonio artistico: domani, chissà, perfino nella vita politica.

Si profila una sperimentazione pratica di alcune idee abbastanza diffuse in Europa, ma osteggiate qui in Italia dai paladini della circolazione segregata delle opere dedicate e dei quartieri recintati. Corriere della Sera nazionale e la Repubblica Milano, 8 novembre 2014

Corriere della Sera

SENZAMARCIAPIEDI, SEMAFORI, SEGNALETICA.
L’IDEA DI UNA CITTÀ CON STRADE CONDIVISE

di Anna Tagliacarne

Strade senza segnaletica, senza semafori, senza marciapiedi, senza una «grammatica» che separi gli spazi per pedoni da quelli per ciclisti o automobilisti. Strade dove l’unica regola è la precedenza a destra e l’eliminazione dei divieti diventa sinonimo di sicurezza stradale, di qualità ambientale. Il rispetto nei confronti del prossimo nasce dalla condivisione, non dalla separazione. E dai limiti di velocità, 30 chilometri orari, non di più. È questa, in sintesi la filosofia degli «shared space», spazi condivisi da chi cammina, chi pedala e chi sta al volante, nati in Olanda e applicati anche in Germania sul modello proposto dall’ingegnere del traffico Hans Monderman, che ha concepito la mobilità responsabilizzando chi guida e chi cammina.

Ed è questo il progetto che un team di architetti guidati dallo studio Piuarch hanno realizzato, con il logo Farespazio ( http://farespazio.tumblr.com) per ripensare una grande area di Milano, quella compresa tra il Castello Sforzesco, Largo Cairoli, Foro Buonaparte, includendo anche Piazza Cadorna, la Triennale, il Piccolo Teatro Studio: teatri, musei, spazi verdi, negozi, stazioni sarebbero all’interno di una macro-area dove le auto circolerebbero a velocità ridotta al fianco delle biciclette e dei pedoni, che avrebbero a disposizione ampi spazi attrezzati dove sedere, sostare, fare sport oltre alle indicazioni sui luoghi da visitare. L’occasione è stata la pedonalizzazione di piazza Castello, la successiva installazione di bancarelle che hanno suscitato polemiche da parte dei milanesi e l’onerosa costruzione di una pista ciclabile con cordoli ai margini: in tutta Europa questo modello è superato da anni.

Il Comune, alla ricerca di un nuovo consenso, ha avviato un concorso di architettura partecipata: gli undici progetti sono esposti da ieri fino all’8 dicembre alla Triennale alla mostra Atelier Castello. Il progetto del team Fare spazio è il solo che prevede la reintroduzione delle auto nell’area da poco pedonalizzata. Non perché gli altri architetti siano favorevoli alla pedonalizzazione, ma perché il team è andato oltre le richieste comunali.

«Le proposte dovevano essere temporanee, ma reversibili in permanenti nel caso fossero rispondenti alle esigenze dell’area dopo l’Expo. A noi, invece, piaceva avere una visione a lungo termine, e abbiamo pensato alla città che vorremmo vivere ogni giorno, con una grande area dove il Castello Sforzesco torni a essere centrale, con i suoi musei che contengono capolavori come la Pietà Rondanini di Michelangelo e i fossati che sarebbero trasformati in aree attrezzate per lo sport, per sostare. Immaginando questa parte di Milano, abbiamo necessariamente pensato a Exhibition Road che a Londra va da South Kensington ad Hyde Park», spiega Francesco Fresa, uno dei quattro soci dello studio Piuarch, fondato con Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario. La via londinese include attrazioni che vanno dal Victoria and Albert Museum al Natural History Museum, dal Science Museum al Royal Albert Hall: ha milioni di visitatori. «L’obiettivo era integrare veicoli e pedoni, l’abbiamo ottenuto riducendo la velocità e di conseguenze il volume del traffico: si è creato così un ambiente molto piacevole», spiegano i due architetti che hanno seguito il progetto, Jeremy Dixon e Edward Jones.

A Milano succederebbe qualcosa di simile: la piazza che connette il Castello con Largo Cairoli sarebbe liberata dalle barriere architettoniche che la rendono frammentata, la circolazione automobilistica tornerebbe in Piazza Castello ma pensata in modo innovativo. Non è un’utopia, in altre città già succede. «Exhibition Road non è esattamente uno shared space perché è presente segnaletica verticale, come paletti e dissuasori che delimitano gli spazi riservati ai pedoni e quelli previsti per le auto — commenta Federico Parolotto, socio dello studio Mobility in Chain, architetto esperto in pianificazione trasporti —. Hans Monderman faceva un esperimento per dimostrare quanto gli shared space siano sicuri: chiudeva gli occhi e camminava all’indietro». È dimostrato, da uno studio dello stesso Monderman che, mentre i segnali proliferano, nessuno presta attenzione agli stessi: conta di più ridurre la velocità. «È molto intelligente l’idea di grandi zone con circolazione a velocità limitata — conclude l’urbanista Marco Romano —. I casi di shared space realizzati, dimostrano che il primo effetto di questi spazi è ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali. Certo, nelle zone dove esiste già il limite dei 30 chilometri orari, l’automobilista che suona il clacson c’è sempre, ma è un fenomeno che ha a che fare con le nevrosi. Sta comunque cambiando la testa di chi guida: in auto siamo ormai abituati a pensare anche come ciclisti che pedalano contromano, perché tutti siamo anche ciclisti e pedoni. Per questo è inutile dividere e delimitare le aree».

la Repubblica Milano

CASTELLO,CORRETTIVI ANTI-CODE PER L’ISOLA PEDONALE

di Laura Asnaghi

A più di sei mesi dalla pedonalizzazione di piazza Castello, il Comune fa i conti con la lista di lamentele presentata dai residenti. Ieri la verifica sul campo, dalle 9 alle 10.30, nell’orario di punta, quando il traffico, da Cadorna a Cairoli, va in tilt e le auto, insieme a bus, pullman e taxi restano imbottigliate, creando pesanti ingorghi. Il traffico, insieme alla sicurezza notturna dell’isola pedonale del Castello e le linee guida per le manifestazioni che possono essere fatte in quest’area («Se no qui si rischia di diventare un luna park», dicono i residenti) sono stati i temi fondamentali affrontati durante il sopralluogo.

Carlo Monguzzi, il presidente della Commissione ambiente e trasporti, guidava la delegazione del Comune composta da 12 consiglieri. Con loro, Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1, accompagnato da 7 consiglieri e 25 cittadini del Comitato Buonaparte-Cairoli. «Le osservazioni dei residenti sono giuste ma si tratta di trovare soluzioni per rendere quest’isola gradevole e utile a tutti», ha commentato Monguzzi, ricordando che, da Cadorna a Cairoli, a paralizzare il traffico «sono gli autobus che sostano per scaricare i passeggeri e bloccano una carreggiata». Sul lato opposto di Foro Buonaparte, oltre via Cusani, a intralciare il traffico sono invece i pullman diretti all’outlet di Serravalle. E poco più in là, all’altezza di via Sella, i residenti segnalano la storia di un semaforo che dura 15 secondi e «per attraversare la strada bisogna essere Speedy Gonzales». Non solo, perché sempre in questo tratto i parcheggi per le auto sono sui marciapiedi «così alti che solo i Suv possono accedervi».

Note dolenti anche sull’isola del Castello, solo in parte digerita dai residenti. Molti infatti sostengono che «era meglio prima, quando le auto potevano circolare e di notte c’era più sicurezza». Ora, con le strade deserte, i residenti sollecitano la vigilanza notturna «perché c’è chi scambia quest’area per un bagno a cielo aperto». Nel mirino dei residenti anche «i cordoli sproporzionati della pista ciclabile. Inutili oltre che dannosi». L’altro tema è quali manifestazioni consentire «evitando di danneggiare una zona storica». E tra gli abitanti c’è già malcontento per le manifestazioni natalizie programmate o concesse dal Comune, come quella di Save the children. La struttura che sarà inaugurata l’11 novembre invadeva, di poco, la pista ciclabile e ieri pomeriggio i vigili sono intervenuti per farla spostare di qualche metro. «I residenti contestano la mancanza di una cabina di regia sul progetto del Castello — spiega Monguzzi — . Ora però Maurizio Baruffi, capo di gabinetto del sindaco, ha preso in mano la situazione e le cose miglioreranno». Tutti i punti critici emersi dal sopralluogo saranno affrontati giovedì prossimo nella seduta della commissione Ambiente e Traffico. «Vanno trovate soluzioni — conclude Monguzzi — da sottoporre agli architetti che sistemeranno temporaneamente quest’area, con una spesa contenuta in 200 mila euro».

Dal presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Lombardia, ennesima e significativa netta stroncatura del disegno di legge regionale, cortina fumogena per il business as usual. La Repubblica Milano, 6 novembre 2014, postilla (f.b.)

La proposta di legge regionale per la riduzione del consumo di suolo che si avvia alla discussione in Consiglio dichiara nelle finalità di voler arginare l’ininterrotta perdita di suoli produttivi agricoli e la cementificazione che nel recente passato hanno visto purtroppo la Lombardia al primo posto nelle statistiche nazionali. Tuttavia il passaggio dalla prima stesura del progetto di legge a quella attuale, assai differenti, finisce per dare importanza preponderante alla tutela degli interessi immobiliari rispetto all’urgenza di limitare l’erosione di risorse non rinnovabili che, ricordiamo, vanno a scapito in primo luogo della produzione agricola lombarda, che rappresenta una quota significativa del prodotto nazionale del settore.

In sintesi, i punti più critici della proposta di legge sono i seguenti: si considerano da tutelare le sole aree perimetrate come agricole dai Pgt e non quelle agricole di fatto (né quelle naturali); manca una politica concreta di sostegno ai processi di rigenerazione urbana, vera alternativa allo spreco di suolo agricolo; non vi è nessuna proposta di applicazione della fiscalità locale come leva per disincentivare l’urbanizzazione dei suoli agricoli (essendo irrisoria la sola prescrizione di una maggiorazione del 5% del contributo di costruzione); si ratificano e confermano tutte le previsioni dei Pgt approvati fissando un limite di tre anni per presentare piani attuativi delle aree di espansione (che complessivamente nella regione assommano a quasi 600 chilometri quadrati); le grandi infrastrutture e opere pubbliche sono escluse da ogni bilancio, come se esse non erodessero suolo libero.

Ne risulta un insieme preoccupante che non solo rinvia il rinnovamento delle procedure a un nuovo ciclo di strumenti urbanistici, ma soprattutto favorisce nei fatti un’accelerazione dei progetti nel triennio di moratoria, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato, ovvero una più veloce progressione del consumo di suolo.

Una compromissione che nella realtà si fermerà in molti casi sulla carta perché le previsioni insediative non sono sorrette da una domanda reale, ma sottrarrà comunque terre ai programmi agricoli e avrà effetti perversi per gli stessi operatori immobiliari. È indispensabile quindi riprendere le fila di un provvedimento utile e necessario, per «rimetterlo in carreggiata» e rendere concreto l’impegno della Regione Lombardia a contrastare il consumo di suolo.

La via, in parte già tracciata nella prima stesura del testo di legge, corrisponde alle tendenze che si affermano nel quadro europeo e che possono aiutare anche il settore immobiliare a un riorientamento necessario per la sua stessa ripresa: si tratta di agire con misure fiscali consistenti che rendano svantaggioso costruire su aree libere, di stabilire meccanismi compensativi per sostenere la concentrazione dell’edificazione sulle aree interne da rigenerare, di porre limiti stringenti al consumo di suolo e tutelare le aree produttive agricole (nell’anno di Expo).

postilla
Forse non c'è nulla di meglio, di questa stroncatura neutra e necessariamente blanda, non politicamente schierata, per chiarire sino a che punto il disegno di legge “contro il consumo di suolo” abbia finito per scontrarsi con la natura stessa dell'attuale ceto politico padano e degli interessi che rappresenta: se non si urbanizza che le abbiamo fatte a fare tutte le nostre autostrade e compagnia bella? Dove va a finire il primato economico vero o presunto della regione, il luminoso futuro dello sviluppo infinito dei metri quadri di inutile terreno convertiti in solido valore finanziario? Perché questo è il punto: nella mente della classe dirigente non esiste, una situazione in cui tutto non giri attorno al medesimo nucleo centrale, rappresentato appunto dalla mobile frontiera dell'urbanizzazione, dallo svuotare di qui per riempire di là eccetera eccetera. E la domanda è: moralizzazioni a parte, razionalizzazioni a parte, si è in grado di esprimere qualsivoglia modello alternativo, oppure no? (f.b.)

«Poche righe per tracciare l'immobilismo della società italiana, a partire dalla sua élite culturale. Certo che un convegno ha tempi lunghi di organizzazione. Ma dopo lo scandalo, gli arresti, l'evidenza del malaffare, non era il caso di dare un taglio diverso all'evento?» La Nuova Venezia, 5 novembre 2014 (m.p.r.)
Roma. «Resilienza delle città d'arte alle catastrofi idrogeologiche: successi e insuccessi nell'esperienza italiana». Chissà se il Mose fa parte del primo o del secondo gruppo. Perché massiccia è la presenza al convegno, organizzato in questi giorni a Roma dall'Accademia nazionale dei Lincei per discutere di tutela del territorio, di consulenti e ingegneri del Consorzio Venezia Nuova.
A cinque mesi esatti dagli arresti per lo scandalo del Mose, i Lincei hanno organizzato un grande convegno sul 4 novembre. E tra i relatori sono molti i nomi conosciuti nella lunga storia del progetto. Come il professor Giovanni Seminara, dell'Università di Genova, che ha parlato ieri di «Acqua e città d'arte» nella prolusione subito prima del ministro Dario Franceschini. Fu lui nel 2006 a svolgere davanti al governo Prodi la relazione che promosse le dighe mobili. Contrapposta a quella del suo collega Luigi D'Alpaos che sosteneva l'esatto contrario: stringendo le bocche di porto e rinunciando al Mose la situazione ambientale avrebbe potuto migliorare.

Tra i relatori anche Hermes Redi, neodirettore del Consorzio Venezia Nuova, il responsabile del servizio informativo Giovanni Cecconi. E poi l'economista Ignazio Musu, nominato tra i cinque esperti che promossero il Mose al posto di Paolo Costa, diventato ministro dei Lavori pubblici. Ha parlato ieri, 15 anni dopo la sua relazione, dello stesso tema «Aspetti economici della salvaguardia di Venezia». C'era anche Andrea Rinaldo, ingegnere padovano che nel 1999 fece parte del «panel» di consulenti del Consorzio per promuovere il Mose. Conclusioni del professor Carlo Doglioni (subsidenza) e della soprintendente Renata Codello.

«L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9", 4 novembre 2014

«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso». Così cantava Mary Poppins nel 1964, e così ha fatto domenica scorsa il ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini: ha detto forte (via twitter) che bisogna rifare l’arena del Colosseo. Ed è stato un successo strepitoso.

L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese. D’altra parte, Franceschini ha un maestro eccellente: quando era sindaco di Firenze, Matteo Renzi annunciò che avrebbe costruito la facciata della Basilica di San Lorenzo, progettata da Michelangelo. Una balla spaziale, ovviamente, ma che oscurò totalmente la contemporanea firma dell’accordo con Ferrovie dello Stato sul tunnel dell’alta velocità che dovrà sventrare Firenze.

Ma proviamo a prendere sul serio l’idea di rimettere in funzione il Colosseo. E lasciamo perdere gli evidenti pericoli materiali e morali della trasformazione di uno dei massimi monumenti italiani in una superlocation commerciale (perché è così che, ovviamente, finirà: con cene, feste private ed eventi di ogni sorta).

Concentriamoci invece sulla premessa in queste ore più volte esplicitata: e cioè sull’idea che il Colosseo così com’è non ci dice più nulla, mentre per renderlo culturalmente eloquente andrebbe almeno in parte ricostruito e rimesso in funzione. Questa idea rappresenta la fine stessa dell’archeologia: che è la scienza che permette di aprire la conoscenza razionale del passato a tutti i cittadini, qualunque sia il grado della loro cultura. Perché l’archeologia serve proprio a far comprendere, a chi archeologo non è, cosa siano le rovine che ci stanno di fronte. E un archeologo bravo ha tutti gli strumenti per far appassionare i propri interlocutori: che si tratti di un accademico dei Lincei o di una guida turistica. La sapienza e l’eloquenza degli archeologi hanno il potere di rimettere il passato di fronte ai nostri occhi: ma non ci illudono di poterlo rivivere. Perché questo meraviglioso gioco sta proprio nell’attrito continuo tra la resurrezione del passato e la consapevolezza della distanza che ce ne separa. In un’epoca come la nostra, divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’esperienza razionale del passato può essere un antidoto vitale. Per questo è importante contrastare l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista: dal Codice da Vinci a trasmissioni come Voyager, all’idea di riportare i circenses nel Colosseo.

L’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta alle ‘rievocazioni storiche’. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, un facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci porta dentro ad un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi. Il passato ‘televisivo’, che ci viene somministrato attraverso un imbuto, è invece rassicurante, divertente, finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Al contrario, il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnipotenza mettendoci di fronte al fatto che non siamo padroni, ma custodi, del passato.

Poco male se a dimenticarsi di tutto questo fosse stato il ministro Franceschini. Ma è veramente inquietante che gli autori e i supporters più entusiasti dela rifunzionalizzazione dell’anfiteatro siano stati proprio gli archeologi (con l’importante eccezione di Salvatore Settis). L’ex soprintendente di Roma Adriano La Regina se ne è detto entusiasta, e il decano degli archeologi italiani, il presidente del Fai Andrea Carandini, si è rammaricato di non essere «giovane, bello e forte, così da prestarsi sicuramente come gladiatore» (che viene da dirgli di non buttarsi tanto giù: un leone attempato si trova sempre). L’idea è venuta a Daniele Manacorda (ordinario di archeologia a Roma Tre, e già sostenitore del progetto di fare un campo da golf alle Terme di Caracalla), ed è poi stata accanitamente sostenuta da Giulio Volpe, altro archeologo, ex rettore dell’Università di Foggia e già presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali (che presto tornerà a presiedere, vista la sintonia con i tweet di Franceschini). Tutti costoro hanno sostanzialmente detto che l’archeologia non basta: ci vuole un ‘aiutino’. L’archeologia al tempo del viagra, insomma: una scienza che per eccitare la folla ha bisogno della pillola blu dell’arena con i nuovi gladiatori, i suoni, le luci e i biglietti da staccare. Una dichiarazione di fallimento, una resa, una bancarotta morale. E anche un trasparente ammiccamento al mercato e alla politica: perché se li si prendesse in parola, questi professori di archeologia, e si accettase di rifare l’arena (per permettere ai visitatori di comprendere meglio com’era davvero il Colosseo), ma si decidesse di farla solo visibile (e cioè non calpestabile e non accessibile), tutti gli apostoli della divulgazione archeologica sparirebbero all’istante: a partire dal ministro Franceschini. Perché il punto non è la crescita della conoscenza, ma l’industria dell’intrattenimento: e la possibilità di disporre della più strepitosa delle location.

Uno dei più grandi scrittori del nostro Seicento, Emanuele Tesauro, ha scritto che nel Colosseo «invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte»: se a noi questo non basta, è perché non sappiamo più vederlo. È il mainstream del nostro tempo, e tra un po’ non avremo più bisogno di archeologi: basteranno gli impresari, i registi, i figuranti vestiti da gladiatori.
«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso».

Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2014

Subito dopo un’esondazione o una frana, che provoca morti e dispersi, le dirette televisive e gli editoriali sui principali quotidiani si sprecano. Si intervistano esperti, direttori della protezione civile, sindaci, cittadini con il badile, volontari sporchi di fango. Ma poi, passate solo poche settimane, gli “strascichi" degli episodi di dissesto idrogeologico trovano spazio a pagina 27. Così, di alluvione in alluvione e di frana in frana, ci trasciniamo una situazione che ormai è considerata facente parte dell’arredamento di “Casa Italia”.

Tra alluvioni e frane negli ultimi 50 anni sono state quasi 7000 mila le vittime mentre dal dopoguerra ad oggi i danni sono stati quantificati in oltre 60 miliardi di euro. I comuni ad elevata criticità idrogeologica sono 6.631, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone. Numeri che, da soli e senza ulteriori commenti, studi o approfondimenti, dovrebbero incollare la politica alle proprie responsabilità. E invece la politica, dopo essersi recata ai funerali delle vittime per piangere lacrime di coccodrillo, una volta uscita dalle chiese e terminato il solito balletto dello scaricabarile, entra puntualmente nei consigli comunali, regionali o dei ministri, per approvare cementificazioni di ogni genere, porti, grandi opere, trafori.

Interventi contro il dissesto idrogeologico? Sempre in fondo alla lista delle priorità.

Ma la goccia ha oggi fatto davvero traboccare il vaso. Ed i cittadini, i comitati, gli alluvionati, hanno deciso di passare dalla denuncia del giorno dopo alla proposta attiva, all’autorganizzazione dal basso. Stanchi di essere malsopportati, trattati come un problema, ciascuno isolato nel proprio territorio dissestato, hanno deciso di unirsi e di costituirsi in “massa critica”, per obbligare le istituzioni a fare concretamente il proprio dovere e soprattutto a farlo con giustizia e correttezza, mettendo fuori gioco le politiche di intervento legate a logiche discrezionali che spesso creano danni ulteriori e corruzione.

La rete nazionale si chiama “Mai più”, mai più bombe d'acqua e disastri ambientali – Movimento e rete delle comunità dei fiumi e del popolo degli alluvionati” ed ha le idee molto chiare: ricostruire il rapporto fra le comunità e i territori attraversati da corsi d'acqua; cambiare il modello economico e di gestione del territorio concausa del dissesto idrogeologico; ottenere trasparenza ed equità degli interventi.

In poche parole, rimuovere lo spesso strato di fango accumulato in tutti questi anni lungo tutto lo stivale. Alluvione dopo alluvione.

«Le resistenze restano forti. Lo prova la tormentata pubblicazione di quest’ultimo rapporto. I delegati hanno dovuto lavorare fino all’ultimo minuto per tentare di ricucire lo strappo tra chi voleva esprimere l’allarme in modo netto e chi preferiva la sordina». La Repubblica, 3 settembre 2014 (m.p.r.)

Mai tanti gas serra da 800mila anni. Un picco che, nella storia del pianeta, per la prima volta è stato causato non da fenomeni naturali, ma dall’azione di una singola specie: l’homo sapiens. È netto l’atto di accusa dell’Ipcc, la task force scientifica dell’Onu che ha vinto il Nobel per la pace e che dal 1988 cerca una cura al sempre più evidente squilibrio dell’atmosfera.

Il documento presentato ieri a Copenaghen sintetizza i tre studi pubblicati negli ultimi mesi e conclude il quinto rapporto Ipcc. «L’influenza umana sul sistema climatico è chiara, dobbiamo agire rapidamente e in modo decisivo», ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. In realtà la diagnosi è chiara da tempo. Per evitare che l’aumento della temperatura superi i 2 gradi nell’arco di questo secolo, la soglia oltre la quale si entra in uno scenario catastrofico, occorre tagliare in modo rapido e drastico l’uso dei combustibili fossili, che sono i principali responsabili della minaccia climatica.
«A livello globale bisogna ridurre le emissioni dal 40 al 70 per cento tra il 2010 e il 2050 e scendere a zero entro il 2100», ricorda il rapporto Onu. Bisogna fare presto, su questo sono tutti d’accordo. «Quelli che decidono di ignorare i dati chiaramente esposti in questo rapporto mettono in pericolo noi, i nostri figli e i nostri nipoti », ha dichiarato il segretario di Stato Usa, John Kerry. «Più restiamo bloccati sui questioni ideologiche e politiche, più i costi dell’inazione aumentano». Si tratta di abbandonare la dipendenza dal petrolio, dal carbone e dal gas per rilanciare l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e gli stili di vita più attenti agli equilibri ambientali.
Eppure le resistenze al cambiamento restano forti. Lo prova anche la tormentata pubblicazione di quest’ultimo rapporto. I delegati hanno dovuto lavorare fino all’ultimo minuto per tentare di ricucire lo strappo tra i paesi che volevano esprimere l’allarme in modo netto e quelli che preferivano mettere la sordina alle preoccupazioni. Alcuni testi sono stati eliminati dal rapporto, tra le proteste degli scienziati. La parola «pericoloso » è scomparsa dalla sintesi, sostituita da un più prudente «rischio», utilizzato 65 volte in 40 pagine. Ma la purga lessicale non basta a cancellare la gravità dei fatti. Le emissioni di gas serra, nonostante il colpo di freno dell’Europa e il nuovo corso americano, non solo non diminuiscono ma continuano a crescere: il trend attuale è in linea con lo scenario peggiore, quello di un aumento di temperatura di oltre 4 gradi.
La responsabilità attuale è principalmente dei Paesi di nuova industrializzazione: la Cina emette più gas serra di Europa e Stati Uniti assieme e ormai ha superato l’Unione europea anche facendo il conto pro capite. Usando invece il conteggio storico emerge il ruolo dei paesi che hanno guidato la rivoluzione industriale. Una doppia lettura delle responsabilità che sta bloccando l’intesa globale.
Mentre i negoziati vanno al rallentatore, il mercato si muove in maniera più rapida. Nel 2013 più del 50 per cento della nuova potenza elettrica installata nel mondo è venuto dalle fonti rinnovabili e le iniziative dal basso si moltiplicano. Quello che manca è una cornice legale che dia forza al cambiamento. L’appuntamento decisivo per raggiungere questo accordo è stato fissato per il novembre 2015 a Parigi. È veramente l’ultima possibilità.

«Secondo i costruttori bastava Una pulita OGNI 5 anni." Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE:. Il Consorzio ha sempre puntato also alle gare milionarie per la Manutenzione delle Dighe L'avevano perfino promesso Ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso " ». Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2014 (MPR)

Ruggine Sulle paratoie, Tonnellate di zinco riversate in mare e Costi di Manutenzione Destinati a esplodere RISPETTO alle STIME Iniziali. A soli 12 mesi dall'installazione delle prime paratoie mobili, ea Pochi giorni Dalla richiesta di commissariamento di Raffaele Cantone per il Consorzio Venezia Nuova, i Dubbi sull'efficienza Sulla grande opera Che dovrebbe difendere Venezia Dall'Acqua alta continuano a Crescere. A Lanciare l'ultima Denuncia su la Nuova Venezia e Fernando De Simone, da 25 anni architetto progettista di opere sottomarine, Che commenta Quello che i veneziani osservano Tutti i giorni: le paratoie Già Calate in acqua Hanno perso l'originale colore giallo fosforescente e Sono diventate rosso-brunastro, l'inconfondibile colore della ruggine.

«Per risparmiare Hanno usato paratoie in normale lamiera rivestita di vernice, invece Che Il più resistente Acciaio inossidabile. Ma sa Che cosa Succede alla lamiera when Rimane sott'acqua? Si guardi le foto della Costa Concordia », attacca De Simone Facendo Riferimento al relitto della nave corroso dal vendita. E, difatti, also Le Navi Più moderne, costruite con Materiali Simili una Quelli del Mose, vengono riportate in cantiere OGNI anno per la pulizia dello scafo. «Il Direttore del Consorzio, Hermes Redi, Sostiene Che la pulizia, il Che del consiste Nella RIMOZIONE delle paratoie e Nella Manutenzione in Arsenale, si fara una volta OGNI cinque anni e costera 40 Milioni di euro, ma e impossibile lasciarle in mare Così un Lungo. Andranno pulite OGNI anno ».
E il conto non lo Paghera il Consorzio, ma le casse Pubbliche, Perché Il contratto Prevede Che il costruttore garantisca la Manutenzione Solo per I Primi Due anni. «Pulire DELLE STRUTTURE grandi venire palazzo, this E La Dimensione Di Una paratoia, OGNI 5 anni è follia pura», fa eco Gli Stefano Boato, docente allo Iuav e Utenti per la Commissione salvaguardia di Venezia. «Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE: il Consorzio ha sempre puntato ad aggiudicarsi le gare also milionarie per la Manutenzione delle Dighe. L'avevano perfino promesso ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso. E l'ha said pura Redi La Settimana scorsa. Si e riusciti a commissariarli, ma Hanno Creato un Sistema in cui il Consorzio diventa insostituibile, per sempre. E la Manutenzione costera Almeno tre Volte e mezzo Quanto preventivato inizialmente ». Assolo Non Sono le paratoie a corrodersi, ma Anche i pani di zinco, cioè Gli Elementi INSTALLAZIONE proprio per ridurre il deterioramento delle paratoie. Stando alle STIME Cnr, Oltre Che insufficienti QUESTE protezioni causeranno il deposito di 12 Tonnellate di metallo sul fondo della Laguna, La colomba Crescono cozze e vongole alla pesca destinate.

patrimonioSos e La Repubblica, 2-3 novembre 2014


Patrimoniosos.it, 2 novembre 2014
SETTIS: SERVONO SOLDI
NON SOLUZIONI PLACEBO

Intervista Ansa

«Questo è un momento drammatico per la tutela del patrimonio culturale: lo "Sblocca-Italia" contiene
norme devastanti, e intanto la funzionalità del ministero cala di continuo per mancanza di fondi e di personale. In questa situazione, non credo proprio che l'eventuale restituzione dell'arena del Colosseo sia una priorità ragionevole, anche perché dettata da un'ipotesi di riuso per forme varie di intrattenimento».

Il duro giudizio sulla proposta del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che in un tweet ha oggi rilanciato l'idea dell'archeologo Daniele Manacorda di "restituire al Colosseo la sua Arena", è di Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa nonché ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali. La proposta di Manacorda, avallata da Franceschini, è ricoprire i sotterranei, oggi quasi completamente scoperchiati, per mostrare "come i visitatori vedevano e vivevano il Colosseo sino a poco più di un secolo fa".

La copertura, secondo il progetto, permetterebbe anche di utilizzare il Colosseo per eventi e spettacoli di diverso genere. Un'ipotesi che trova però l'opposizione di Settis. «La vera, unica priorità del ministro - sottolinea l'archeologo e storico dell'arte italiano in una dichiarazione all'ANSA - dovrebbe essere a mio avviso il rilancio delle strutture di tutela procedendo finalmente a nuove assunzioni di personale altamente qualificato, senza il quale nulla (nemmeno l'arena nel Colosseo) può esser fatto decentemente». Per Settis «senza nuovi investimenti il destino dei nostri beni culturali è segnato: ogni placebo (come questo progetto) durerà lo spazio di un mattino”.

3 novembre 2014
NON TRASFORMATELO IN UNA SCENOGRAFIA

di Tomaso Montanari

Il Colosseo, monumento sicuramente unico, correrebbe il rischio di diventare la più imponente delle location commerciali

Il Ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli «piace molto l’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena». Bisogna riconoscere a Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna?

Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore. Cioè a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica.
Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il coperchio agli scavi? È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina del tempo?
In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo «di tornare ad essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita — nelle forme tecnicamente compatibili — ogni possibile evento della vita contemporanea ». Ecco, è questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire «ogni possibile evento»? E dove metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena di Verona.
E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché «modificherebbe sensibilmente la percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale».
Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità. Oggi è di moda parlare di edutainment ( education + entertainment), un ibrido che — almeno in Italia — non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna park commerciale. Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato bisogno.
Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme chiesa dentro il Colosseo — era il 1675 — l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose che non voleva toccare il monumento: «per la conservazione d’una macchina che, non solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura». Parole che sembrano tuttora assai sagge.

«Gli esperti economici di Palazzo Chigi vogliono imporre l'analisi costi-benefici mai fatta. Dimostrerebbe che sono soldi buttati. Lobbisti del cemento in allarme». Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 (m.p.r.)



Un tecnicismo è il detonatore e la bomba sta per esplodere sulla scrivania di Matteo Renzi. Ancora una volta - come ai tempi di Prodi - un governo guidato dal centro-sinistra sta per spaccarsi sulle grandi infrastrutture, rilanciate con entusiasmo dal decreto Sblocca Italia. Il tecnicismo è una strana mossa di Rfi, la società Fs che gestisce la rete ferroviaria. Nel nuovo contratto di programma con il ministero delle Infrastrutture ha corretto da 8,4 a 12 miliardi di euro il costo previsto del Tav Torino-Lione, con un’impennata del 40 per cento. In realtà è stata solo applicata al preventivo originario, stilato a prezzi 2012, l’inflazione degli anni occorrenti alla realizzazione, calcolata al tasso pessimista del 3,5 per cento annuo. Tanto che Mario Virano, commissario governativo della Torino-Lione, ha subito minimizzato: il costo previsto per il governo italiano (2,9 miliardi se arriva un cospicuo finanziamento europeo) non aumenterà di un euro.

Ma tant'è, quel numerino scritto da Rfi ha toccato nervi scopertissimi. Stefano Esposito, sostenitore acceso della Torino-Lione – tanto da essere nel mirino di frange violente dei No Tav – considera la correzione verso l’alto un siluro all’opera, tanto da aver ottenuto per l’11 novembre prossimo la convocazione dei vertici di Rfi alla commissione Trasporti del Senato. Il parlamentare piemontese punta a stroncare subito ogni resistenza facendo uscire allo scoperto i frenatori delle grandi opere. Solo che stavolta la lobby del cemento non se la dovrà vedere con localismi e ambientalismi, bensì con un’agguerrita pattuglia di economisti piazzati proprio a palazzo Chigi.

Il Tav Torino-Lione è solo la prima stazione di una via crucis destinata a toccarne numerose, soprattutto ferroviarie, come ilterzo valico Genova-Tortona, il nuovo tunnel del Brennero e l’alta velocità Napoli-Bari, investimenti più celebrati che finanziati nel decreto Sblocca Italia, approvato alla Camera e in attesa del voto del Senato.

Il fatto è che la tesi principale degli oppositori della Torino-Lione – sono soldi buttati – ha sempre convinto anche Renzi. Ancora un anno e mezzo fa diceva: «Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili» . Sulla Torino-Lione la bocciatura era quasi sprezzante: «Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio : non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male».

Poi la politica ha imposto i suoi prezzi e Renzi, conquistando palazzo Chigi, ha confermato Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture per non perdere l’appoggio parlamentare del Ncd e quello lobbistico del potente e trasversale partito del cemento. Il decreto Sblocca Italia è stato il trionfo di Lupi e dei suoi sostenitori, con grandi opere a strafare e ampi varchi per cementificazioni di ogni tipo.

Adesso però sono proprio i lobbisti del cemento e delle imprese di costruzione a notare con preoccupazione che tra gli esperti economici che Renzi ha portato a palazzo Chigi ci sono autorevoli avversari dello spreco di miliardi in nome delle imprescindibili infrastrutture. Il più insidioso è il bocconiano Roberto Perotti, uno che già sei anni fa pubblicò sul Il Sole 24 Ore rasoiate del seguente tenore: «Che cosa sarebbe più utile per l’immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti? (...) Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese».

Soldi buttati, dunque, come diceva Renzi finché ha potuto. E come pensa un altro esperto di palazzo Chigi, il deputato Pd ex McKinsey Yoram Gutgeld, che già in tempi non sospetti definiva le nuove linee ad alta velocità “opere faraoniche, miliardarie e inutili”. Per adesso la legge di Stabilità andrà liscia, e vedrà la conferma di tutti i finanziamenti previsti per la Torino-Lione e le altre grandi opere. Ma lo scontro è solo rinviato. Gutgeld e Perotti pensano all’arma totale, a uno scherzetto che per il partito del cemento è come l’aglio per i vampiri: imporre al Cipe - l’opaco comitato interministeriale dove si fanno i giochi per i grandi investimenti, una cosa che in Italia nessuno ha mai fatto, la cosiddetta analisi costi-benefici. Un esercizio che serve agli economisti per sapere se si sta spendendo bene o male. Domande come: serve davvero questa nuova ferrovia? Quanti posti di lavoro crea? È possibile spendere gli stessi soldi in qualcosa che dia risultati più interessanti? Siccome in Italia l’analisi costi-benefici non è mai stata adottata, a domande del genere si è risposto finora con slogan come “è per la competitività” o “ce lo chiede l’Europa”. Ma oggi l’unico argomento politicamente solido per andare avanti con la Torino-Lione è anche il più antipatico: non darla vinta ai No Tav.

Il nodo adesso sta per arrivare al pettine. Già la Corte dei Conti francese ha fatto notare che i miliardi di euro per la nuova ferrovia Torino-Lione sono sostanzialmente soldi buttati. Gli esperti di palazzo Chigi adesso si preparano a dare una spallata nella stessa direzione, scommettendo che nella difficile situazione dei conti pubblici si potrebbero risparmiare o spendere meglio decine di miliardi. Per adesso l’operazione è tenuta sotto traccia. Il momento propizio, superato lo scoglio della Legge di stabilità, potrebbe essere l’inizio del 2015, per evitare un duello con la lobby del cemento in un momento politicamente complicato. Nello scontro frontale tra il partito anti-spreco e quello del cemento guidato da Lupi è proprio Renzi che rischia di trovarsi schiacciato, se non si inventa una delle sue mosse.


Come contrastare il consumo di suolo? Lasciando invariato quanto previsto dai piani, rinviando ogni valutazione di tre anni. Una proposta di legge della Giunta lombarda, guidata dalla Lega Nord. Ciascuno ama la sua terra a modo suo. (m.b.)

E' ripresa in questi giorni la discussione nella Commissione Territorio della Regione Lombardia sulla proposta di legge dal ridondante titolo "Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato". La proposta presentata dalla maggioranza lombarda di centrodestra getta più ombre che luci su di un tema, quello della lotta al consumo di suolo, che rischia di diventare solo uno slogan, privo di contenuti concreti, da sbandierare per una Giunta verde sempre più in difficoltà.
Le percentuali di consumo di suolo in Lombardia sono allarmanti da tempo, come più volte denunciato dalle associazioni ambientaliste e dalle numerose ricerche accademiche realizzate negli anni. Gli ultimi dati, elaborati direttamente dalla Direzione urbanistica e territorio di Regione Lombardia, ottenuti dall'analisi dei Piani di Governo del Territorio approvati dai Comuni lombardi al 31/12/2013, ci dicono che le previsioni di espansione superano i 400 milioni di mq: ci sarebbero cioè, sulla carta, due città di Milano da costruire. Sarebbe stato lecito aspettarsi che un'iniziativa legislativa regionale per arginare il consumo di suolo partisse dalla gestione di questi surreali residui di piano. E invece no.
L'attuale maggioranza lombarda, che si regge su un asse Lega-PDL-NCD-Fratelli d'Italia sempre più debole, è da oltre un anno che annuncia l'intenzione di riformare in modo strutturale l'attuale legge urbanistica, la 12/2005, che dalla sua emanazione è stata oggetto di innumerevoli modifiche e integrazioni. Una legge urbanistica, quella lombarda, nata già vecchia e tutta improntata alla via liberista del 'ci pensa il privato', già sperimentata da un Maurizio Lupi assessore all'urbanistica di Milano nell'era Albertini, che non solo si è rivelata drammaticamente inadeguata a guidare i processi di trasformazione in atto ma non è stata neppure in grado di contenere le ultime fasi immobiliari espansive, di carattere strettamente speculativo, che hanno compromesso molti territori che ancora potevano vantare un valore paesaggistico.

Purtroppo la debolezza politica della Giunta di Maroni non ha consentito un approfondito dibattito intorno ad una seria riforma urbanistica e l'unica proposta concreta offerta alla discussione del Consiglio sarà un atto debole, pieno di rimandi a provvedimenti successivi, con un approccio settario, parziale e unicamente quantitativo che, se tutto va bene, entrerà in vigore non prima di tre anni.
Un atto, peraltro, annunciato dall'assessore al territorio, Viviana Beccalossi, solo a seguito delle preoccupanti esondazioni che hanno interessato il Nord Milano all'inizio di questo autunno (riguardanti in particolare il Seveso), che hanno fatto parlare, straordinariamente in prima serata, in un talk show televisivo di un'emittente nazionale, delle "terribili conseguenze del consumo di suolo" e della "cementificazione incontrollata" in Lombardia.
Per far fronte ai reali problemi relativi al governo del territorio, anche in Lombardia serve un cambio di rotta drastico e deciso che questo provvedimento non sembra in grado di dare. Le principali criticità si possono rilevare già dall'impianto generale della norma: per contrastare il fenomeno del consumo di suolo serve un approccio integrato di policies urbane e territoriali, di natura spaziale ma anche fiscale (si veda l'esperienza tedesca dei 30 ettari/giorno, illustrata su eddyburg da Georg Frisch); inoltre un approccio di natura esclusivamente quantitativa rischia di generare trattative infinite tra livelli istituzionali e tra Comuni, incentivando dinamiche concorrenziali poco proficue. Infine, anche alla luce delle previsioni urbanistiche prodotte dai PGT comunali, dovrebbe essere chiaro che il consumo di suolo può essere efficacemente affrontato solo a scala territoriale: in un contesto amministrativo estremamente frammentato come quello lombardo (composto da 1546 Comuni) in cui le maggiori competenze urbanistiche sono in capo ai singoli PGT, ognuno elabora le proprie previsioni in modo indipendente e spesso dissociato rispetto ai confinanti (figuriamoci se dovessero subentrare logiche concorrenziali!); in questo modo la frammentazione diventa anche territoriale. Da qui risulta evidente come il tema del limite al consumo di suolo debba essere affrontato ad una scala sovralocale per poter davvero interagire con gli assetti infrastrutturali, insediativi e ambientali e poter razionalizzare scelte localizzative di rilevanza territoriale.

Invece la proposta di legge attribuisce ancora una volta un'ampia discrezionalità all'ente comunale. Sono i singoli Comuni che dovrebbero definire la propria superficie agricola, la superficie urbanizzata e urbanizzabile, la soglia di consumo di suolo. Sono i singoli Comuni che dovrebbero determinare criteri di incentivazione per il recupero del patrimonio edilizio esistente, in quanto la proposta chiarisce che le misure di incentivazione dovranno essere "senza ulteriori oneri a carico del bilancio regionale". Ma in tempi di profonda crisi dei bilanci comunali, sui quali la norma statale ha concesso ancora una volta (per l'anno 2014) la possibilità di utilizzare una quota degli oneri di urbanizzazione per finanziare le spese correnti, quali risorse possono realisticamente mettere in campo le singole municipalità? E ancora, secondo questa proposta, tutti i piani attuativi conformi o in variante al PGT (quindi teoricamente tutti i 400 milioni di mq previsti, ma anche altri!) potrebbero essere presentati entro 36 mesi dall'entrata in vigore della legge, con tanto di agevolazioni fiscali sulle relative cessioni gratuite e monetizzazioni a favore degli operatori. I piani presentati oltre tale termine sarebbero invece oggetto di valutazione da parte dell'amministrazione comunale, che potrà richiedere modifiche e integrazioni al proponente. Ancora una volta prevale la più assoluta discrezionalità, senza regole o criteri guida.
Infine una riflessione sui tempi di entrata in vigore di questa norma: la Regione si concederà un anno per adeguare il Piano Territoriale Regionale; Province e città metropolitana di Milano avranno, successivamente, un anno per uniformare gli strumenti urbanistici di competenza; i Comuni dovranno rendere coerenti i contenuti dei propri Piani in occasione della prima scadenza del documento di piano. Per tutti quei Comuni in cui la scadenza del documento di piano è prevista prima dell'adeguamento della pianificazione provinciale/metropolitana, lo stesso è prorogato di 12 mesi a far tempo dalle modifiche sovraordinate. Se tutto va bene a dicembre 2017 dovrebbe entrare in vigore questa norma. Non sarà troppo tardi?
La proposta di legge lombarda ha molti limiti e, se approvata così, non inciderà sui processi in atto e non sarà di alcun aiuto a quegli amministratori locali che vorrebbero avere strumenti più efficaci per governare il proprio territorio. IL testo è una lista di rimandi, priva di contenuti che non offre alcuno strumento innovativo per promuovere una nuova stagione di sviluppo urbanistico e territoriale
Ricorda, un po' malinconicamente, il Tancredi gattopardesco, "Cambiare tutto per non cambiare nulla": una legge nuova, con un titolo ambizioso, che non modifica nulla, tutto ciò che è già previsto si potrà realizzare, tra tre anni si vedrà....
Chissà che nel frattempo non sia cambiatO anche il colore della Giunta regionale lombarda e che si possa finalmente affrontare questo tema in modo coraggioso e innovativo.
Sullo stesso argomento, in eddyburg, vedi anche gli articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra su la Repubblica del 10 luglio e del 24 ottobre.

«Nicholas G. Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly nel 1973, per l'American Economic Association scrissero: "Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso"». Sbilanciamoci.info, 31 ottobre 2014

Economisti ed ecologisti non si sono mai stimati troppo. Se depuriamo il dissenso dalle accuse ingenerose rimane negli uni la convinzione che a furia di proteggere la sacralità della «natura» non si sarebbe mai usciti dalle caverne, mentre gli altri replicano che continuando a distruggere la natura si finirà ben presto nelle stesse caverne di prima.

Gli uni dicono agli altri che non hanno studiato; replicano i secondi che studiare le cose sbagliate nei libri sbagliati è ancor peggio. Un dissenso che non ha fine. Ancora recentemente Vandana Shiva, ecologista rinomata, è stata presa di mira con una punta di disprezzo dagli avversari, non per la sua lezione, ma per qualche bollo universitario mancante nel suo curriculum.

Era il 1973 in ottobre quando Nicholas Georgescu Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly scrissero il loro Manifesto, firmato da altri duecento economisti, per la riunione annuale dell'American Economic Association in agenda due mesi dopo. l testo, brevissimo, è stato ripubblicato varie volte, per esempio nel 2006 da Capitalismo Natura Socialismo, (Jaca Book a cura di Giovanna Ricoveri), un'antologia degli scritti della rivista Cns. Ecco quel che i tre suggerivano: «Nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti e del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra».

Difficile dire meglio di così. Come si può capire, Barry Commoner era d'accordo. Il «controllo razionale del progresso e della tecnica» era una scelta indispensabile per garantire la stessa sopravvivenza umana.

In uno scritto di Commoner della fine degli anni ottanta e poi letto e riletto fino agli anni recenti: «Una valutazione del progresso ambientale: la ragione del fallimento» (Economia & Ambiente, novembre dicembre 2012) si trova una chiave interpretativa che tutti possono fare propria: «Quando un inquinante è al punto di origine, può essere eliminato; una volta che è prodotto, è troppo tardi. Insomma, l'inquinamento ambientale è quasi una malattia incurabile; può solo essere prevenuto. ...L'approccio convenzionale è quello per cui queste tecnologie che sono altamente produttive dal punto di vista economico, generalmente hanno un serio impatto sull'ambiente».

Più avanti si legge: «Ciò porta a pensare che tali tecnologie debbano essere usate come mezzi per lo sviluppo economico, in modo che la qualità ambientale possa essere raggiunta solo aggiungendo ad esse i mezzi di controllo dell'inquinamento».

È possibile farlo, oppure sono controindicazioni i costi aggiuntivi alla produzione vera e propria? Commoner esamina il caso dell'industria del petrolio. «L'industria petrolchimica è ugualmente famosa per il suo successo economico, essendo cresciuta negli Stati Uniti, ad esempio, fino a 250 miliardi di dollari in meno di 40 anni. Ciò che è meno noto è che fare un serio sforzo per rettificare i difetti ambientali dell'industria significherebbe distruggere letteralmente la sua vitalità economica.

L'industria petrolchimica genera circa 300 milioni di tonnellate di scorie tossiche ogni anno, il 90% delle quali viene introdotto nell'ambiente in un modo o nell'altro: nei pozzi, nelle lagune di superficie, nei serbatoi. Solo l'uno per cento delle scorie viene distrutto, che è l'unico modo per assicurarsi che queste sostanze altamente pericolose e che durano a lungo non si accumulino e alla fine minaccino gli esseri viventi. Insomma, l'industria petrolchimica è profittevole solo perché è riuscita, finora, ad evitare di pagare il suo conto all'ambiente».

Gli economisti dovrebbero applicarsi a questi problemi, ma lo fanno troppo poco. La casa-madre di tutti gli economisti, la World Bank, funziona assai spesso come megafono delle compagnie petrolifere, non solo, ma fa anche profittevoli collette per i maggiori investimenti che trasformano il globo in uno spazio attraversato per ogni dove da strade e ponti, gallerie e viadotti, stazioni di rifornimento e oleodotti e ne fanno l'ambiente adatto per auto e camion, considerando quasi il genere umano come un inutile, ingombrante, soprammobile.

Non tutti gli ecologisti sanno arrivare fino in fondo, ma si fermano a un compromesso che considerano insuperabile, originato dal buonsenso. Solo che è il buonsenso della serie, famosa dai tempi del Maggio francese, del sindacalista che si rivolge nervosamente all'attivo dei suoi che lo ascoltano senza fiatare. «Insomma, cosa volete?» e alla risposta: «Fare la rivoluzione», replica a sua volta: «Impossibile. I padroni non ci staranno mai!»

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