Periferie. Nelle analisi serie esse appaiono molto lontane dai pezzi "città" suscettibili d'essere riscattati dal "rammendo" di qualche bravo architetto. Appaiono invece sempre più vicine a diventare parte del "pianeta degli slum": lande di disperazione e miseria, recinti di emarginazione, dominate dai sovrastanti elementi dell'"infrastruttura globale". Il manifesto, 15 novembre 2014
Su questa collinetta è situato, quasi come un fortino che domina la valle, un grande insediamento di edilizia economica e popolare circondato dal viale Giorgio Morandi che letteralmente si snoda tutt’attorno al complesso residenziale a guisa di un fossato e lo collega, più a est, con la periferia storica di Tor Sapienza.
L'esempio della legge urbanistica della Toscana: la prima legge urbanistica regionale che azzera il consumo di suola. Intervento al convegno Stop al consumo del territorio, Cassinetta di lugagnano, 15 novembre 2014, in calce il link alla locandina
Finalmente una bella notizia: la Regione Toscana ha approvato una straordinaria legge di riforma urbanistica, efficace e immediatamente operativa, che mette in mora Governo e Parlamento, e conquista di prepotenza il centro del dibattito. Ci dà forza, e mette a nudo l’ipocrisia di quanti continuano a dichiarare di condividere l’obiettivo di contenerere il consumo del suolo con la stesso atteggiamento che nell’ultimo quarto di secolo è stato assunto a proposito della sostenibilità ambientale. Proclamandone universalmente e solennemente l’importanza, ma in pratica quasi sempre relegandola a una stanca, inconcludente retorica.
Mi riferisco al fatto che si continua a parlare di contenere il consumo del suolo, un obiettivo così vago e generico che va bene a tutti (anche a Lupi). Occore invece non contenere, ma bloccare, subito, il consumo del suolo. I dati sono ormai abbastanza noti, ricordo solo che in circa 60 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre la popolazione italiana è cresciuta, più o meno, del 20%, il consumo del suolo è cresciuto piu o meno del 1.000%. Non dobbiamo perdere altro tempo, dobbiamo pretendere risultati immediati ed efficaci.
2. Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero
Lo stop al consumo del suolo è un cambiamento di carattere epocale. È vero che la rendita continuerà ad esistere anche dentro al perimetro urbanizzato, ma la sua dimensione – in senso spaziale e finanziario – sarà comunque ridotta, disarticolata, frammentata, formata da una pluralità di soggetti, non più concentrata in monopoli-oligopoli potentissimi che controllano la stampa, la televisione, l’amministrazione e la politica.
Tutto ciò significa anche un cambiamento del modo di fare urbanistica, un mestiere in larga misura da reinventare, anche da un punto di vista tecnico e professionale: una serie di parametri (per esempio altezza e densità) che abbiamo tradizionalmente utilizzato come limiti massimi, dobbiamo imparare a usarli anche come minimi.
4. È finita un'era
Stime ragionevoli prevedono 15-20 anni prima che un siffatto percorso legislativo produca risultati effettivi. Per non dire della Campania o del Lazio, Regioni fra quelle che peggio governano il proprio territorio, i cui tempi saranno ancora più lunghi, e provvedimenti di tutela si avranno quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto di una repellente crosta di cemento e di asfalto (Antonio Cederna).
5. L'alternativa vincente
6. La riforma urbanistica della Toscana
E impone che le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi, vanno tutte costruite dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro urbanizzato la legge dichiara esplicitamente che non si può realizzare edilizia residenziale. Insomma, in Toscana mai più si potranno fare case in campagna. È proibito per legge. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure, che tra l’altro prevedono, per ogni intervento, il potere di veto della Regione.
8. Chi è Maurizio Lupi
a) giugno 2000 – Lupi assessore all’urbanistica del comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini) – propone un importante documento, Ricostruire la grande Milano, dovuto, tra gli altri, all’urbanista Gigi Mazza. Documento che ribalta la logica e il diritto prevedendo che i progetti pubblici e privati di trasformazione urbanistica non debbano uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, dev’essere il piano che si adegua ai progetti approvati. Insomma, il piano regolatore come un catasto sul quale si registrano i progetti edilizi una volta approvati. Sembra la Napoli di Achille Lauro, quando si diceva che il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. Da allora l’urbanistica milanese ha dettato legge nel resto d’Italia, a Roma soprattutto.
b) Lupi (intanto deputato di Forza Italia) conferma la propria avversione all’urbanistica pubblica nel 2005, quando la Camera dei deputati (con 32 voti favorevoli del centro-sinistra) approva un suo progetto di legge che estende a tutta l’Italia il modello milanese, tra l’altro abrogando gli standard urbanistici e la legge del 1942. Nel sostanziale silenzio della stampa e della cultura urbanistica ufficiale, con il consenso dell’INU. Soltanto eddyburg, allora come oggi, mobilitò il mondo ambientalista, pubblicando anche un pamphlet. All’inizio del 2006, quando la proposta stava per essere definitivamente approvata, grazie al senatore verde Sauro Turroni i senatori di Alleanza Nazionale si opposero alla proposta difendendo la legge urbanistica approvata negli anni del fascismo.
c) 2014: secondo disegno di legge urbanistica di Maurizio Lupi (stavolta autorevole esponente del Nuovo Centrodestra, ministro delle Infrastrutture del Governo Renzi).
Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall'emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare. Corriere della Sera, 14 novembre 2014
Renzo Piano li chiama «rammendi». E accidenti se c’è da rammendare, nelle banlieue di Milano e Roma.«Vede, ci siamo occupati troppo a lungo delle città senza preoccuparci della gente, questo è il risultato», sospira Mario Abis, il sociologo del gruppo G124 inventato da Piano per riqualificare le periferie italiane: «La politica non ha mai ragionato sul Paese. Ora noi partiremmo dai... rammendi di un grande architetto per arrivare a una tessitura delle città».
Professore, a Milano e Roma gli ultimi si massacrano con i penultimi, nodi e conflitti vengono al pettine...
«Sì. È stato tutto a lungo in ebollizione, ora tutto scoppia, in strutture sociali complesse e con diversi tipi di povertà».
Cosa sta cambiando?«Viene meno il proletariato urbano. Ci sono forme multietniche, diverse tipologie di abitanti delle periferie».
E c’è la crisi, ovviamente . «Con la disoccupazione e una esplosione planetaria delle diseguaglianze. Intanto cambiano anche le città, diventano grandi aree metropolitane. Milano ha un milione e duecentomila residenti ma un’area metropolitana di cinque milioni di persone. Si arriva a territori senza identità, non luoghi: è la periferizzazione delle città che s’accompagna a isolamento, enclave chiuse, competizione tra le molte etnie».
Dopo tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza, s’è deciso di trasferire i migranti ospiti dal centro assediato. Un cedimento repentino: non rischia di produrre emulazione?«Sì, c’è il pericolo di una spirale di imitazione. Pensi alle banlieue francesi. È molto possibile che questo meccanismo si riproduca, magari in altri punti della periferia romana, o napoletana o palermitana».
A Milano l’impressione che lo Stato abdichi di fronte al racket delle occupazioni è fortissima in queste ore... «La mancanza dello Stato e della pubblica amministrazione è totale, direi. Come la mancanza di piani strategici e cultura della prevenzione».
Perché non si riesce a fare un piano regolatore decente? «Perché il territorio è visto come una situazione fisica, asettica. Lei allo Zen di Palermo può portare anche il migliore architetto, ma se non c’è relazione tra tessuto urbano e sviluppo sociale, non ne esce».
Pensando alla gente, eh? «Appunto, alla gente».
A Tor Sapienza come altrove, è palese che un brutto ambiente produca gente feroce. «Quando dico ambiente sostenibile questo intendo. Proprio sull’estetica delle periferie lavoriamo con Piano. Etica e estetica vanno assieme».
Come dice monsignor Bregantini, del resto. «Ora l’occasione sono le aree metropolitane. Cosa ci mettiamo dentro? Se ne facciamo una sommatoria di paesi, saranno l’incubatore del conflitto».
I francesi questo problema se lo sono posto nel 2003, con un piano nazionale. E Marsiglia è diventata un modello. Perché noi non ci riusciamo? «Perché siamo burocratici, macchinosi e lenti. Le città si sviluppano a un passo che la nostra micidiale burocrazia non regge. Questo si può superare nelle piccole comunità».
E non serve un progetto nazionale? «Certo. Ma il senso di questo lavoro di Piano è produrre proprio idee e spunti che portino a una visione nazionale».
Ci vorrebbe una politica. «Ci vorrebbe. E le aree metropolitane sono l’occasione per creare un ceto politico aperto. Queste cose non si risolvono a livello centrale. Del resto ci sono esperienze come Udine o Lecce dove le cose funzionano e bene».
Già, ma Milano, Roma o Napoli sono diverse. «La chiave è la scomposizione delle aree».
Cioè facciamo di Roma tante piccole Udine? «Non me la faccia dire così. Però, sì, è un discorso di sotto-insiemi collegati da un filo rosso. Ancora una volta, è una questione di cultura politica».
All’aeroporto di Catania, da mesi, un cartello affisso dalla Questura sconsiglia ai turisti i quartieri periferici ad alto degrado: il primo della lista è Librino. Proprio a Librino, il gruppo di Renzo Piano ha individuato il «Campo San Teodoro liberato» e la vicina scuola Brancati come punto di ricucitura del tessuto urbano.
La filosofa e attivista ambientalista indiana sostiene giustamente che il problema dell'alimentazione nel mondo (una delle maggiori nefandezze prodotta dal capitalismo di ieri e di oggi) merita un'esposizione internazionale: ma non questa di Milano, farcita com'è dalla presenza dei maggiori responsabili dell'affamamento dei paesi piu poveri. Huffington post, 13 novembre 2014
Il mondo ha bisogno di una cultura alimentare che si basi su qualità e diversità. Soprattutto oggi, in un momento in cui gli alti costi ecologici, sanitari e sociali dell'agricoltura industriale stanno diventando sempre più evidenti. La cultura alimentare dell'Italia è ricca e va nella giusta direzione. Per questo ho sempre sostenuto il progetto iniziale dell'Expo e ho creduto che il posto giusto per realizzarlo fosse l'Italia. In questo paese dove esiste una tradizione alimentare ricca di biodiversità, creatività millenaria e saperi locali si sono sviluppati con grande armonia i temi come il biologico, la filiera corta e la libertà dagli ogm. Tutto questo è stato possibile perché la vocazione del mondo rurale italiano trae forza dall'agricoltura familiare e dal concetto che ogni campo si trasforma in un organismo in equilibrio ambientale, capace di alimentare la fertilità del suolo e di chi ne trae nutrimento. E da queste radici avrebbe dovuto trarre nutrimento e crescere l'Expo. Soprattutto ora che abbiamo montagne di prove scientifiche che eleggono l'agricoltura familiare come l'unica strada per sconfiggere la fame.
Ad Expo, a discutere di agricoltura e di ambiente, non dobbiamo lasciare solo le multinazionali della chimica e dei semi. Entità - come dice anche il mio amico Carlo Petrini - senza volto ma con mille braccia e fortemente impegnate non solo nella difesa dei loro interessi ma anche in una vera e propria campagna di conquista della cultura del Nord del mondo che rischia di fare molti nuovi adepti. Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s'impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli interessi degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peggio ancora, occasione per vicende di corruzione e di cementificazione del territorio. Sono stata nominata fra gli ambasciatori dell'Expo e ringrazio per l'onore che mi è stato fatto.
Purtroppo però non vedo nei programmi o nei calendari delle iniziative specifici richiami a temi fondamentali: la giustizia e la sovranità alimentare, l'agricoltura familiare, la biodiversità, il dramma dell'erosione genetica e le possibili soluzioni. Questa mancanza di chiarezza nel promuovere temi così essenziali sta producendo un vuoto che gli interessi commerciali e finanziari dell'industria biotecnologica rischiano di riempire con una campagna di spot pubblicitari: l'Expo rischia di trasformarsi in una fiera della colonizzazione finanziaria e industriale dei campi piuttosto che un'occasione di risposta alle vere cause della fame.
Non intendo in nessun modo sostenere, nemmeno indirettamente, le compagnie biotecnologiche che promuovono tutto ciò che è contrario alla buona nutrizione, non ecologico, insostenibile e che provoca al contempo la distruzione dell'agricoltura familiare. Il monopolio e l'illimitata pretesa di guadagno distruggono la sovranità e sostenibilità alimentare. L'agricoltura industriale che proviene dagli Stati Uniti fornisce cibo di cattiva qualità e provoca danni alla salute umana, inquina il suolo e danneggia l'ambiente. Le compagnie agroindustriali considerano il principio di precauzione, cioè la salute umana, un ostacolo al libero commercio da eliminare. Al contrario uno dei principali obiettivi dell'Expo deve essere proprio il rafforzamento della biosicurezza e dei modelli agroecologici. Per queste ragioni, come ambasciatrice dell'Expo - aderendo anche all'appello di Carlo Petrini, don Luigi Ciotti e Ermanno Olmi, anche lui ambasciatore dell'Expo - chiedo che sia fatta subito chiarezza sulla promozione dei principi a cui, assieme a tanti altri, sto lavorando da più di trent'anni e che ciò risulti evidente a tutti nell'agenda della manifestazione.
La mia proposta è semplice: affrontiamo a un tavolo il modello di produzione alimentare da mettere in agenda. Facciamo entrare le idee dentro Expo e teniamo fuori la cultura del profitto che danneggia le persone e il pianeta. Affrontiamo la questione chiave: il modello di produzione del cibo che viene proposto per il futuro è quello industriale basato su ogm e brevetti che finiscono per controllare la filiera alimentare da parte delle multinazionali oppure è quello che promuove la sovranità alimentare basata sulla biodiversità e sui sistemi ecologici, locali e territoriali? Questo dibattito ha una portata mondiale e l'Italia è il paese che più legittimamente può proporlo considerando anche le scelte chiare e coraggiose che ha fatto il suo governo sugli ogm. Mi rendo perfettamente conto che l'attuale crisi economica in Italia, provocata da Wall Street e dal sistema bancario, ha un impatto sullo stanziamento previsto in origine per l'Expo e che perciò le imprese biotech, in forza della loro capacità finanziaria, tendono a prendere una piattaforma più ampia. Ma proprio questa crisi rende ancora più evidente la validità del modello che tanti movimenti contadini propongono da decenni e che sostengo con tutta me stessa perché so essere quello migliore per garantire la salute del pianeta, il diritto al cibo e a un lavoro dignitoso per tutti.
«Il nodo adesso è quello della gestione "unitaria" dell'Arsenale e soprattutto delle risorse per poterlo mantenere. Rispettando e attuando i Piani regolatori vigenti che prevedono l' uso pubblico degli spazi oggi invece occupati da aziende private». La Nuova Venezia, 14 novembre 2014 (m.p.r.)
A Venezia il presidente dell'Autorità portuale pontifica sulla protezione della laguna costruendo barene artificiali, sordo alle critiche, indifferente alle centinaia di osservazioni, forte degli appoggi politici e del percorso blindato per il progetto Contorta. Lucida analisi sul governo del turismo, ma ricetta discutibile di ricostruzione economica. La Nuova Venezia e Il Gazzettino, 13 novembre 2014 (m.p.r.)
La Nuova Venezia
Costa: «Il Contorta unica alternativa»
Intervista a Paolo Costa di Alberto Vitucci
«Il dissesto della laguna c'è, anche senza scavare il nuovo canale. E va affrontato. Il Contorta può essere un'occasione per invertire la tendenza». Il presidente dell'Autorità portuale Paolo Costa si dice sicuro che nei tempi stabiliti il progetto del nuovo scavo per le grandi navi sarà realtà. Le 362 osservazioni arrivate alla commissione Via del ministero non lo spaventano.
Il Porto non vuole discutere su alternative meno impattanti per la laguna?
«Ma non ci sono. Marghera potrebbe esserlo, ma solo nel futuro, se realizzeremo l'off shore e toglieremo dal canale dei Petroli le navi mercantili».
Il terminal al Lido come propongono Duferco e De Piccoli?
«Esamineremo anche quella proposta, ho già convocato una Conferenza dei servizi. Ma, ripeto, si tratta di un altro livello di progetto. Tutti possono proporre una soluzione e si può valutare quale sia il progetto migliore, ma c'è chi ha la responsabilità di decidere che deve farlo. E sono gli organi tecnici, la Capitaneria, l'Autorità portuale. Può essere meglio una macchina a benzina di una macchina a gas. Ma prima di tutto deve essere una macchina».
Allora il Contorta si farà?
«Spero di sì. Dobbiamo dare risposte rapide alle compagnie crocieristiche. Se no le navi se ne andranno».
Il Gazzettino
Il governo dei flussi turistici che interessano Venezia storica non è oggi "un" problema, ma "il" problema: di tutta Venezia, d'acqua e di terra. E' il bandolo di una matassa intricata che non si può dipanare per parti, isolando un problema dall'altro, perché tutti portano alla loro madre: la necessità di ricostruire la base economica attorno alla quale la "Venezia-civitas" deve al più presto riorganizzarsi per vivere e per assolvere al compito storico di tramandare alle future generazioni quella "Venezia-urbs" sempre meno sostenuta dalle finanze statali e da quelle del mondo che pure la sente propria.
Contorta: note sulla valutazione di impatto ambientale (Via)
L’autore critica giustamente chi pesca nel disagio sociale per rafforzare i comportamenti xenofobi e razzisti sui quali regge i propri interessi elettorali. Ma mistifica le cause da cui il disagio è prodotto. Corriere della Sera 13 novembre 2014. con postilla
Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.
In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché? È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili.
Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.
postilla
L’autore di questo articolo descrive una città e una società nelle quali, per accrescere il potere e la ricchezza di pochi, si creano moltissimi in rifiuti (“scarti umani” scrive Bauman) condannati alla povertà e poi alla miseria, alla precarietà del lavoro e poi alla disoccupazione, alla riduzione dei diritti conquistati e poi alla privazione di ogni diritto umano.
Se l’autore avesse letto meglio e citato in modo più appropriato Zygmunt Bauman, e magari avesse letto anche David Harvey e Saskia Sassen, Marco Ravelli e Luciano Gallino (o anche soltanto se avesse frequentato eddyburg), avrebbe forse capito che c’è un solo modo per uscire da questa catastrofica prospettiva e per ottenere il raggiungimento, per tutti, dei tre obiettivi (libertà, uguaglianza, fraternità) posti all’umanità non dalla rivoluzione proletaria del 1917, ma di quella borghese del 1789. Questo modo consiste nel far comprendere a tutti gli sfruttati che la soluzione non si trova mettendo gli uni contro gli altri i gruppi sociali diversamente sfruttati, ma solo unendo tutte le persone interessate a costruire una società migliore mediante una politica migliore: una società trasformata radicalmente (dalle radici), mediante una politica nella quale la libertà per tutti, l’equità e la solidarietà siano gli obiettivi primari. Non sono certo dediti a questo compito i Salvini, né gli altri agitatori razzisti e xenofobi; ma neppure quanti sventolano volantini pubblicitari per rendere accattivante il sistema stesso che provoca lo sfruttamento, e a cui l'autore sembra rivolgersi.
La Repubblica, 12 novembre 2014
STORIE italiane di archeologia. Roma, via Giulia. Le scuderie di Augusto, dove si ricoveravano i cavalli che avevano corso al Circo Massimo, rinvenute nel 2009, giudicate di “eccezionale importanza” dalla soprintendenza archeologica, sono state rinterrate sotto cumuli di pozzolana. Il parcheggio per circa trecento posti si piazzerà, invece, lì accanto. I reperti antichi sono emersi durante lo scavo per i garage, ma dopo cinque anni – cantiere fermo, un’orrenda palizzata che recintava l’area, un lembo di centro storico sconvolto – non si è trovata altra soluzione che sacrificare le stalle imperiali.
Pozzilli e Venafro, provincia di Isernia. Durante i lavori per un metanodotto fra Busso e Paliano, svolti con la collaborazione della soprintendenza archeologica del Molise, vengono alla luce ville romane, fornaci rinascimentali, tracce di una centuriazione, e, soprattutto, insediamenti neolitici con un focolare e materiali d’età del bronzo e, ancora, i resti dello scheletro di un bambino di sei-settemila anni fa. I reperti andranno al museo di Venafro. Le strutture fisse rimarranno sul posto, protette e visibili.
La chiamano archeologia preventiva ed è così che si fa archeologia in Italia. Il novanta per cento degli scavi – circa sei, settemila ogni anno dati del ministero per i Beni culturali – non sono il frutto di programmazione scientifica, coordinata da una soprintendenza. Ma l’effetto, desiderato, più spesso indesiderato, dei lavori per un parcheggio, per le linee di alta velocità, per cavi elettrici. Per la Metro C di Roma, per esempio, o per l’autostrada Bre-Be-Mi. Il risultato può essere positivo, come a Venafro, negativo come a Roma.
Ma, anche se fatta così, quest’archeologia rischia di ricevere un colpo mortale. Il decreto Sblocca-Italia, appena convertito in legge, contiene norme che, temono molti archeologi, potrebbero rendere ancora più difficile il recupero di oggetti e strutture antiche, anche molto rilevanti.
I rischi paventati dagli archeologi si affiancano a quelli per le norme paesaggistiche o urbanistiche, contro le quali lo Sblocca-Italia procede a colpi di “semplificazioni” e “autocertificazioni”. D’altronde era stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, presentando nell’agosto scorso il provvedimento, a sbilanciarsi: «Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici». «E dire che l’obiettivo principale dell’archeologia preventiva, se correttamente praticata, sarebbe proprio quello di accelerare i tempi di un’opera pubblica », spiega Filippo Coarelli, archeologo di lunghissima esperienza, allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, «perché individua con anticipo, sulla base di studi, di sondaggi, se un lavoro rischia di interferire con presenze antiche: se lo si sa prima, il progetto può essere modificato più agevolmente che non il cantiere aperto, quando, in caso di un ritrovamento, c’è l’obbligo di fermarsi e di avvisare la soprintendenza, altrimenti si commette un reato».
L’archeologia preventiva in altri paesi è regolamentata in maniera rigorosa e funziona egregiamente. In Francia è governata dall’Inrap, un organismo pubblico che ha alle sue dipendenze archeologi e operai e che interviene in ogni lavoro che comporta scavi. I finanziamenti arrivano da un fondo alimentato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi. E la Francia non ha il patrimonio archeologico che può vantare l’Italia. Secondo Fabrizio Pesando, professore all’Orientale di Napoli, oltre quelle francesi, «anche le esperienze spagnole hanno dato ottimi risultati e, in generale, l’archeologia preventiva sarebbe una buona prassi, che risponde alla necessità di razionalizzare e rendere più veloci i lavori. Inoltre può vedere impegnati tanti giovani studiosi e alimentare le conoscenze ».
In realtà da noi l’archeologia preventiva è spesso una specie di selvaggio West. Le norme in vigore si riferiscono solo alle opere pubbliche, non anche a quelle private, che in tantissimi casi prevedono scavi anche profondi (basti pensare alle fondazioni di un edificio). I costi sono a carico delle aziende, il cui fine ultimo è quello di risparmiare e di far presto e solo raramente quello di dare un contributo all’arricchimento del nostro patrimonio. Molto è affidato a giovani e, ormai, meno giovani precari, in possesso di lauree specialistiche, master e dottorati, ma pagati fra i 5 e i 7 euro l’ora. Le soprintendenze dovrebbero vigilare, però con il personale ridotto al lumicino fanno quel che possono. Uno svantaggio lo sottolinea Pier Giovanni Guzzo, per quindici anni soprintendente a Pompei: «La legge è limitata all’indagine sul campo, cioè a “bonificare” l’area che sarà occupata dall’opera. Lo studio, la pubblicazione, il preventivo restauro dei reperti e la conservazione in magazzini capienti ed attrezzati non sono previsti: così che l’Italia, si riempie sempre più di inediti. Facendo crescere l’ignoranza sulla storia antica del nostro Paese».
Per paradossale coincidenza, la Camera (ultima fra tutti i parlamenti europei) ha ratificato nelle scorse settimane la Convenzione di Malta, un accordo sottoscritto nel 1992 che regolamentava proprio l’archeologia preventiva. Il perno della Convenzione è che gli archeologi siano coinvolti sempre nelle attività di pianificazione e di progettazione degli interventi «che rischiano di alterare il patrimonio archeologico». E che a loro debbono essere concessi «tempo e mezzi sufficienti per effettuare uno studio scientifico adeguato del sito e per la pubblicazione dei risultati».
Lo Sblocca-Italia va in direzione opposta. Mentre la Convenzione di Malta lo prevede in una fase preliminare, l’articolo 1 del decreto stabilisce che per le ferrovie Napoli-Bari e Palermo-Catania un archeologo sia chiamato a valutare un progetto già definitivo, quando diventa assai complicato e costoso modificarlo. Inoltre, sempre nel caso delle due linee ad alta velocità (che per molti archeologi sono la testa di ponte per tanti altri interventi), l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato è nominato commissario: indice lui la conferenza di servizi «entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti », la presiede, decide se i rappresentanti delle altre amministrazioni, compresa la soprintendenza, sono “adeguati”, e, nel caso essi esprimano pareri non favorevoli sul progetto – pareri che debbono essere formulati entro trenta giorni, altrimenti «si intendono acquisiti con esito positivo» – è sempre lui che decide se questi pareri sono regolari e se se ne debba tener conto. Di fatto la presenza dell’archeologo di una soprintendenza è puramente esornativa.
«Siamo di fronte a una contraddizione vistosa: quale delle due norme prevale, lo Sblocca-Italia o la Convenzione di Malta?» si domanda Coarelli. Che azzarda anche una risposta: «L’unica cosa che si può prevedere è che fioccheranno ricorsi e contenziosi: il che rallenterà ancora di più le opere pubbliche».
«Lo Sblocca-Italia può essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata», insiste Maria Pia Guermandi, archeologa dell’Istituto Beni culturali dell’Emilia Romagna, «e questo perché procede a un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali: le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui l’archeologia sarebbe l’ostacolo più insidioso ». «Qualsiasi forma di ridimensionamento o estromissione degli organi preposti alla tutela e conoscenza del territorio è cosa assolutamente da scongiurare», conclude Pesando.
Entro il 31 dicembre il ministero per i Beni culturali deve varare le linee-guida per l’archeologia preventiva, anche questo un provvedimento atteso da anni. Ma, stando allo Sblocca-Italia, non lo redigerà da solo, bensì dovrà concordarlo con il ministero delle Infrastrutture. Esattamente con chi spinge per limitare al minimo i poteri di controllo delle soprintendenze.
Le soprintendenze dovrebbero vigilare, però con il personale ormai ridotto al lumicino fanno quello che possono
Come in molte parti d’Italia, in Sicilia si costruisce e si trasforma il territorio in spregio alle norme tecniche e ai principi urbanistici più elementari. E, anche in assenza di fenomeni naturali gravi ed evidenti, come ad esempio eventi meteorici intensi, si generano condizioni di rischio per il territorio e l’incolumità delle persone. Il paradosso è che spesso le stesse Pubbliche Amministrazioni, proprio facendo riferimento a non prioritarie o inesistenti emergenze, approvano o incoraggiano interventi inutili e dannosi.
È il caso di un progetto concepito dal Comune di Acireale, in provincia di Catania, per “rimuovere”, presunte cause di “degrado e di erosione” da tratti costieri con falesie di natura basaltica, ricoperte da formazioni a bosco e macchia mediterranea, ricadenti in una riserva naturale regionale (“La Timpa”) e in un Sito di Interesse Comunitario (ITA070004 “Timpa di Acireale”).
Come "necessario" completamento dell'intervento, la Giunta comunale ha adesso approvato (delibera n° 93 dell'8 settembre 2014) la costruzione di una barriera soffolta in un tratto di costa di incalcolabile interesse geologico per la presenza di spettacolari basalti colonnari, in parte anche sommersi, al fine di “rimuovere”, anche in questo caso, l’erosione. Si tratta di un luogo mitico, meglio noto con il toponimo di Grotta delle Colombe, in cui Ovidio, nel XIII libro delle Metamorfosi, ambienta la storia d’amore tra la nereide Galatea e il pastore Aci, che viene ucciso dal ciclope Polifemo.
Peggio ancora: inutile agli scopi prefissi, la barriera sconvolgerebbe i variegati fondali dello specchio di mare interessato, che possiede una ricchissima biodiversità animale e vegetale. Numerosi studi hanno accertato in questi fondali la presenza di specie di alghe a rischio o minacciate di estinzione, sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale, e hanno censito ben sei habitat prioritari secondo la disciplina comunitaria[3].
Ma senza dubbio il danno maggiore che produrrebbe la barriera soffolta deriva dalla presenza di basalti colonnari proprio in corrispondenza del tratto di costa in cui dovrebbe essere realizzata. Le parti sommerse di queste straordinarie formazioni geologiche sarebbero infatti sepolte dall’opera.
Questi basalti sono diversi rispetto a quelli riscontrabili nella vicina Aci Trezza, costituiti da corpi magmatici raffreddatisi all’interno della crosta terrestre. Presso Grotta delle Colombe sono presenti, infatti, affioramenti di lave a colonne sub-verticali eruttati da apparati fissurali, periferici rispetto all’area in cui si formò l’apparato centrale etneo. Si tratta in ogni caso di formazioni geologiche rarissime nel Mediterraneo, soprattutto in ambiente marino; anzi, la particolarità di essere sommersi e di presentare una significativa estensione li rende unici nel Mediterraneo. La loro bellezza, scaturente dalle geometrie regolari, tendenti all’esagono, tipiche, appunto, dei basalti colonnari e il loro elevatissimo valore scientifico non meritano di essere cancellate da un’opera tanto inutile quanto assurda. Piuttosto i basalti colonnari di Grotta delle Colombe, sia nelle parti emerse sia sommerse, dovrebbero essere rigorosamente tutelati e diventare motivo di promozione turistica.
Se la barriera soffolta fosse realizzata, seppellendo questi tesori naturali sommersi, i funzionari che l’hanno voluta e continuano a volerla, sarebbero ricordati per sempre come responsabili di un inaccettabile scempio.
Ci auguriamo che l'allarme esca dall'ambito locale e coinvolga l'opinione pubblica nazionale. Sulla vicenda Legambiente ha presentato denuncia alla Procura della Repubblica e alla Procura della Corte dei Conti.
[1] Una barriera frangiflutti per tutelare Santa Maria La Scala e Santa Caterina, "La Sicilia", 17 set. 2014.
[2] Così nel 2008 il prof. Giuliano Cannata, uno dei massimi esperti in Italia nel campo della difesa costiera. A sua volta il prof. Carmelo Ferlito, vulcanologo dell'università di Catania, definisce "ingenui" i tentativi di "bloccare" l'erosione di una scogliera a picco sul mare (Timpa di Acireale, il parere degli esperti, quotidiano online "CTZEN", 30-9-2014: ).
[3] Alcuni studi, in particolare, hanno evidenziato la presenza di ben 269 taxa tra Rhodophyceae, Phaeophyceae e Chlorophyceae, tra cui quattro specie a rischio o minacciate e sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale. Nell'area in cui in particolare è prevista la barriera è stata rilevata la presenza di tre delle quattro specie e di cinque dei sei habitat. Riguardo alla fauna, altri studi hanno rilevato la presenza di specie indicatrici, che denotano un'elevata ricchezza degli ambienti dell'infralitorale superiore (Catra M., Giaccone T., Giardina S., Nicastro A., Il patrimonio naturale marino bentonico della Timpa di Acireale (Catania), 2006: Boll. Acc. Gioenia Sci. Nat., 39 [366]:129‐158). In una relazione del 2008 la prof. Grazia Cantone, ordinario di Biologia Marina dell'università di Catania, ha evidenziato l'azione distruttiva che l'enorme massa di pietrame lavico determinerebbe, "giacché sarebbero ricoperti e distrutti tutti i popolamenti algali e animali sui quali verrà riversato il materiale della barriera". Diversamente da quanto sostenuto dagli estensori dello studio di impatto ambientale, la prof. Cantone osserva che, "anche se nel tempo gli inerti verranno colonizzati, si avrà certamente una minore ricchezza specifica dovuta all'uniformarsi dell'habitat". La barriera inoltre comporterebbe un'alterazione della circolazione delle correnti marine (influenzata dalla presenza di sorgenti di acque dolci), che potrebbe compromettere in modo irreversibile ogni possibilità di ripresa della vegetazione, quanto meno nelle condizioni attuali.
Roberto De Pietro è componente di Legambiente Catania
Qui il pdf con la versione integrale dell'articolo
Le associazioni ItaliaNostra, Wwf e Lipu della Sardegna contestano il disegno di legge in materia di miglioramento del patrimonio edilizio approvato con delibera G.R. n. 39/2 del 10.10.20
non soltanto per le norme in esso contenute che appaiono pericolose per gli effetti che avrebbero
sul territorio, ma soprattutto per la filosofia che pervade buona parte degli articoli del provvedimento che di fatto “istituzionalizzano” le deroghe alle norme urbanistiche comunali,regionali e nazionali.
Le finalità e il contenuto della normativa che si vorrebbe approvare sono esattamente gli stessi peggiorativi del famigerato piano casa di Cappellacci, sinora fortemente avversato anche dall’attuale
Come regioni più virtuose hanno da tempo riconosciuto, lo svolgimento delle attività che incidono sul
territorio e l’utilizzazione delle risorse ambientali devono assicurare la salvaguardia dei beni comuni e l’uguaglianza di diritti all’uso e al godimento degli stessi, nel rispetto delle esigenze legate alla migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future.
E’ diffusa l’esigenza di norme che garantiscano davvero il mantenimento della forma e degli aspetti più significativi delle nostre città, la tutela dei centri storici e dei monumenti, la qualità del verde e degli spazi pubblici e relativa socialità, la protezione del paesaggio, della salute e dell’ambiente.
E' veramente aberrante che gli incrementi volumetrici possano essere oggetto, successivamente alla loro realizzazione, di cambio di destinazione d’uso e che si preveda la monetizzazione per i parcheggi mancanti. Rivendichiamo per ciascun cittadino residente e/o insediabile nei contesti urbani
degli standand urbanistici dei 18 mq previsti dalla normativa nazionale.
Chiediamo l’approvazione di leggi che abbiano come fine reale la effettiva conservazione del suolo non ancora edificato - bene comune e risorsa non rinnovabile - incentivando l’attività agricola, l’artigianato e un vero turismo culturale, attraverso la cura del territorio e dei suoi abitanti.
Per questi motivi siamo totalmente contrari al testo del DDL “in materia di miglioramento del patrimonio edilizio”. PerchÈ un piano casa "in deroga perenne" va in senso diametralmente opposto alla tutela del bene comune e non è pertanto “emendabile”.
Ci riserviamo di esprimere il nostro dissenso ragionato e motivato e di trasmettere specifiche osservazioni a dimostrazione della illegittimità, anche costituzionale, delle norme che si
vorrebbero approvare.
ITALIA NOSTRA SARDEGNA, Maria Paola Morittu Delegata reg.le Paesaggio e BB.CC
WWF SARDEGNA Carmelo Spada Delegato Regionale
Lettera appello della presidente onoraria Fondo Ambiente Italia al presidente della Lombardia, contro il disegno di legge per “arginare il consumo di suolo” che ne aumenterà il consumo. Corriere della Sera Milano, 10 novembre 2014
Gentile Presidente Maroni, sono sicura che Lei e la Sua giunta non vorrete passare alla storia come coloro che non hanno mosso un dito per salvaguardare quanto resta dei paesaggi agricoli della pianura lombarda, tra le più fertili d’Europa, ambita perfino dall’Impero austro-ungarico. La legge che la Sua giunta sta per approvare, pur intitolata alla riduzione del consumo di suolo e alla riqualificazione di quello degradato, non contiene alcuna disposizione che vada in direzione della salvaguardia del territorio agricolo. Le buone intenzioni sono tutte rimandate al futuro cioè a tre anni. Ripeto: Vi apprestate a varare i vincoli all’edificazione dei terreni agricoli che scatteranno infatti solo tra tre anni. Nel frattempo sarà data via libera all’espansione prevista dai Piani di governo territoriale che minacciano seicento chilometri quadrati di aree agricole: più di tre volte la città di Milano!!
Ad approfittarne saranno solo i costruttori, in una corsa al consumo di suolo fatale per la Lombardia, già compromessa come nessun’altra regione d’Italia, anche se in Lombardia vi sono tuttora 170.000 vani sfitti (dato ufficiale 2013). Questa gigantesca perdita di suolo ci espone alle tragedie del dissesto idrogeologico, con la conseguente scomparsa dei fontanili, colate di cemento, sempre più asfalto e strade, discariche anche di sostanze tossiche, e ulteriori attentati alla biodiversità, oltre allo scempio di un paesaggio sempre più degradato e sempre più lontano dalla propria storia e dall’identità regionale, tema che sappiamo quanto le stia a cuore. Invece i paesaggi agricoli possono rappresentare risorse concrete per uno sviluppo sostenibile. I prodotti della filiera corta (locali e freschi) sono ormai i più ambiti sulle nostre tavole e possono rappresentare una risorsa concreta per favorire l’occupazione e l’economia dell’indotto, oltre che per proteggere la salute dei cittadini. Expo rilancerà da Milano nel mondo il tema «nutrire il pianeta», ma come si concilia questa iniziativa con il drastico consumo dei suoli agricoli che l’Italia rinuncia a salvaguardare proprio a partire dalla regione Lombardia? Perché non si incentiva la rigenerazione delle troppe aree postindustriali che circondano Milano?
Queste se trasformate possono diventare risorse per il rilancio dell’economia, per la ripresa dell’occupazione e per favorire un nuovo orientamento del settore immobiliare, oggi fortemente in crisi. Egregio Presidente, faccio appello alla Sua responsabilità, pubblica e personale, pregandola di non consentire l’approvazione di queste disposizioni. Altrimenti i cittadini dovranno accusare Lei e la Sua giunta di aver consentito la cementificazione della Lombardia. Con deferenti saluti carichi di fiduciosa speranza.
«Il Consorzio Venezia Nuova era pronto a cedere l'area utilizzata per le manutenzioni delle paratoie del Mose. Ma il "Documento direttore" di Ca' Farsetti non cita questi spazi. Giovedì a San Leonardo un'assemblea che si annuncia infuocata». La Nuova Venezia, 10 novembre 2014 (m.p.r.)
La Repubblica, 8 novembre 2014
Mentre leggete questo articolo sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli.
Mai la definizione di "patrimonio artistico mobile" è stata presa alla lettera come oggi: ogni anno e solo in Italia vengono movimentati circa 15mila pezzi archeologici e circa 10mila opere d'arte.
Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell'ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sonoinaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell'Ottocento e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le mostre all'estero: in questi giorni una pubblicità dice che il Duomo di Milano si trova nel negozio Eataly di New York (l'annuncio parla di tre «boccioni»: non c'entra Umberto Boccioni, ma alcuni doccioni gotici, da tempo smontati).
Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di un'industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d'arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n'è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.
Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d'altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l'attualità e la forza di un modello alternativo. Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l'aspirazione «contestuale» di Sloow Food: non «la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro». Bisognava attuare l'idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le osterie », «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le campagne».
Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni "culturali" a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire. Oggi nel rapporto col patrimonio artistico: domani, chissà, perfino nella vita politica.
Si profila una sperimentazione pratica di alcune idee abbastanza diffuse in Europa, ma osteggiate qui in Italia dai paladini della circolazione segregata delle opere dedicate e dei quartieri recintati. Corriere della Sera nazionale e la Repubblica Milano, 8 novembre 2014
Corriere della Sera
di Anna Tagliacarne
Strade senza segnaletica, senza semafori, senza marciapiedi, senza una «grammatica» che separi gli spazi per pedoni da quelli per ciclisti o automobilisti. Strade dove l’unica regola è la precedenza a destra e l’eliminazione dei divieti diventa sinonimo di sicurezza stradale, di qualità ambientale. Il rispetto nei confronti del prossimo nasce dalla condivisione, non dalla separazione. E dai limiti di velocità, 30 chilometri orari, non di più. È questa, in sintesi la filosofia degli «shared space», spazi condivisi da chi cammina, chi pedala e chi sta al volante, nati in Olanda e applicati anche in Germania sul modello proposto dall’ingegnere del traffico Hans Monderman, che ha concepito la mobilità responsabilizzando chi guida e chi cammina.
Ed è questo il progetto che un team di architetti guidati dallo studio Piuarch hanno realizzato, con il logo Farespazio ( http://farespazio.tumblr.com) per ripensare una grande area di Milano, quella compresa tra il Castello Sforzesco, Largo Cairoli, Foro Buonaparte, includendo anche Piazza Cadorna, la Triennale, il Piccolo Teatro Studio: teatri, musei, spazi verdi, negozi, stazioni sarebbero all’interno di una macro-area dove le auto circolerebbero a velocità ridotta al fianco delle biciclette e dei pedoni, che avrebbero a disposizione ampi spazi attrezzati dove sedere, sostare, fare sport oltre alle indicazioni sui luoghi da visitare. L’occasione è stata la pedonalizzazione di piazza Castello, la successiva installazione di bancarelle che hanno suscitato polemiche da parte dei milanesi e l’onerosa costruzione di una pista ciclabile con cordoli ai margini: in tutta Europa questo modello è superato da anni.
Il Comune, alla ricerca di un nuovo consenso, ha avviato un concorso di architettura partecipata: gli undici progetti sono esposti da ieri fino all’8 dicembre alla Triennale alla mostra Atelier Castello. Il progetto del team Fare spazio è il solo che prevede la reintroduzione delle auto nell’area da poco pedonalizzata. Non perché gli altri architetti siano favorevoli alla pedonalizzazione, ma perché il team è andato oltre le richieste comunali.
«Le proposte dovevano essere temporanee, ma reversibili in permanenti nel caso fossero rispondenti alle esigenze dell’area dopo l’Expo. A noi, invece, piaceva avere una visione a lungo termine, e abbiamo pensato alla città che vorremmo vivere ogni giorno, con una grande area dove il Castello Sforzesco torni a essere centrale, con i suoi musei che contengono capolavori come la Pietà Rondanini di Michelangelo e i fossati che sarebbero trasformati in aree attrezzate per lo sport, per sostare. Immaginando questa parte di Milano, abbiamo necessariamente pensato a Exhibition Road che a Londra va da South Kensington ad Hyde Park», spiega Francesco Fresa, uno dei quattro soci dello studio Piuarch, fondato con Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario. La via londinese include attrazioni che vanno dal Victoria and Albert Museum al Natural History Museum, dal Science Museum al Royal Albert Hall: ha milioni di visitatori. «L’obiettivo era integrare veicoli e pedoni, l’abbiamo ottenuto riducendo la velocità e di conseguenze il volume del traffico: si è creato così un ambiente molto piacevole», spiegano i due architetti che hanno seguito il progetto, Jeremy Dixon e Edward Jones.
A Milano succederebbe qualcosa di simile: la piazza che connette il Castello con Largo Cairoli sarebbe liberata dalle barriere architettoniche che la rendono frammentata, la circolazione automobilistica tornerebbe in Piazza Castello ma pensata in modo innovativo. Non è un’utopia, in altre città già succede. «Exhibition Road non è esattamente uno shared space perché è presente segnaletica verticale, come paletti e dissuasori che delimitano gli spazi riservati ai pedoni e quelli previsti per le auto — commenta Federico Parolotto, socio dello studio Mobility in Chain, architetto esperto in pianificazione trasporti —. Hans Monderman faceva un esperimento per dimostrare quanto gli shared space siano sicuri: chiudeva gli occhi e camminava all’indietro». È dimostrato, da uno studio dello stesso Monderman che, mentre i segnali proliferano, nessuno presta attenzione agli stessi: conta di più ridurre la velocità. «È molto intelligente l’idea di grandi zone con circolazione a velocità limitata — conclude l’urbanista Marco Romano —. I casi di shared space realizzati, dimostrano che il primo effetto di questi spazi è ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali. Certo, nelle zone dove esiste già il limite dei 30 chilometri orari, l’automobilista che suona il clacson c’è sempre, ma è un fenomeno che ha a che fare con le nevrosi. Sta comunque cambiando la testa di chi guida: in auto siamo ormai abituati a pensare anche come ciclisti che pedalano contromano, perché tutti siamo anche ciclisti e pedoni. Per questo è inutile dividere e delimitare le aree».
la Repubblica Milano
di Laura Asnaghi
A più di sei mesi dalla pedonalizzazione di piazza Castello, il Comune fa i conti con la lista di lamentele presentata dai residenti. Ieri la verifica sul campo, dalle 9 alle 10.30, nell’orario di punta, quando il traffico, da Cadorna a Cairoli, va in tilt e le auto, insieme a bus, pullman e taxi restano imbottigliate, creando pesanti ingorghi. Il traffico, insieme alla sicurezza notturna dell’isola pedonale del Castello e le linee guida per le manifestazioni che possono essere fatte in quest’area («Se no qui si rischia di diventare un luna park», dicono i residenti) sono stati i temi fondamentali affrontati durante il sopralluogo.
Carlo Monguzzi, il presidente della Commissione ambiente e trasporti, guidava la delegazione del Comune composta da 12 consiglieri. Con loro, Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1, accompagnato da 7 consiglieri e 25 cittadini del Comitato Buonaparte-Cairoli. «Le osservazioni dei residenti sono giuste ma si tratta di trovare soluzioni per rendere quest’isola gradevole e utile a tutti», ha commentato Monguzzi, ricordando che, da Cadorna a Cairoli, a paralizzare il traffico «sono gli autobus che sostano per scaricare i passeggeri e bloccano una carreggiata». Sul lato opposto di Foro Buonaparte, oltre via Cusani, a intralciare il traffico sono invece i pullman diretti all’outlet di Serravalle. E poco più in là, all’altezza di via Sella, i residenti segnalano la storia di un semaforo che dura 15 secondi e «per attraversare la strada bisogna essere Speedy Gonzales». Non solo, perché sempre in questo tratto i parcheggi per le auto sono sui marciapiedi «così alti che solo i Suv possono accedervi».
Note dolenti anche sull’isola del Castello, solo in parte digerita dai residenti. Molti infatti sostengono che «era meglio prima, quando le auto potevano circolare e di notte c’era più sicurezza». Ora, con le strade deserte, i residenti sollecitano la vigilanza notturna «perché c’è chi scambia quest’area per un bagno a cielo aperto». Nel mirino dei residenti anche «i cordoli sproporzionati della pista ciclabile. Inutili oltre che dannosi». L’altro tema è quali manifestazioni consentire «evitando di danneggiare una zona storica». E tra gli abitanti c’è già malcontento per le manifestazioni natalizie programmate o concesse dal Comune, come quella di Save the children. La struttura che sarà inaugurata l’11 novembre invadeva, di poco, la pista ciclabile e ieri pomeriggio i vigili sono intervenuti per farla spostare di qualche metro. «I residenti contestano la mancanza di una cabina di regia sul progetto del Castello — spiega Monguzzi — . Ora però Maurizio Baruffi, capo di gabinetto del sindaco, ha preso in mano la situazione e le cose miglioreranno». Tutti i punti critici emersi dal sopralluogo saranno affrontati giovedì prossimo nella seduta della commissione Ambiente e Traffico. «Vanno trovate soluzioni — conclude Monguzzi — da sottoporre agli architetti che sistemeranno temporaneamente quest’area, con una spesa contenuta in 200 mila euro».
Dal presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Lombardia, ennesima e significativa netta stroncatura del disegno di legge regionale, cortina fumogena per il business as usual. La Repubblica Milano, 6 novembre 2014, postilla (f.b.)
La proposta di legge regionale per la riduzione del consumo di suolo che si avvia alla discussione in Consiglio dichiara nelle finalità di voler arginare l’ininterrotta perdita di suoli produttivi agricoli e la cementificazione che nel recente passato hanno visto purtroppo la Lombardia al primo posto nelle statistiche nazionali. Tuttavia il passaggio dalla prima stesura del progetto di legge a quella attuale, assai differenti, finisce per dare importanza preponderante alla tutela degli interessi immobiliari rispetto all’urgenza di limitare l’erosione di risorse non rinnovabili che, ricordiamo, vanno a scapito in primo luogo della produzione agricola lombarda, che rappresenta una quota significativa del prodotto nazionale del settore.
In sintesi, i punti più critici della proposta di legge sono i seguenti: si considerano da tutelare le sole aree perimetrate come agricole dai Pgt e non quelle agricole di fatto (né quelle naturali); manca una politica concreta di sostegno ai processi di rigenerazione urbana, vera alternativa allo spreco di suolo agricolo; non vi è nessuna proposta di applicazione della fiscalità locale come leva per disincentivare l’urbanizzazione dei suoli agricoli (essendo irrisoria la sola prescrizione di una maggiorazione del 5% del contributo di costruzione); si ratificano e confermano tutte le previsioni dei Pgt approvati fissando un limite di tre anni per presentare piani attuativi delle aree di espansione (che complessivamente nella regione assommano a quasi 600 chilometri quadrati); le grandi infrastrutture e opere pubbliche sono escluse da ogni bilancio, come se esse non erodessero suolo libero.
Ne risulta un insieme preoccupante che non solo rinvia il rinnovamento delle procedure a un nuovo ciclo di strumenti urbanistici, ma soprattutto favorisce nei fatti un’accelerazione dei progetti nel triennio di moratoria, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato, ovvero una più veloce progressione del consumo di suolo.
Una compromissione che nella realtà si fermerà in molti casi sulla carta perché le previsioni insediative non sono sorrette da una domanda reale, ma sottrarrà comunque terre ai programmi agricoli e avrà effetti perversi per gli stessi operatori immobiliari. È indispensabile quindi riprendere le fila di un provvedimento utile e necessario, per «rimetterlo in carreggiata» e rendere concreto l’impegno della Regione Lombardia a contrastare il consumo di suolo.
La via, in parte già tracciata nella prima stesura del testo di legge, corrisponde alle tendenze che si affermano nel quadro europeo e che possono aiutare anche il settore immobiliare a un riorientamento necessario per la sua stessa ripresa: si tratta di agire con misure fiscali consistenti che rendano svantaggioso costruire su aree libere, di stabilire meccanismi compensativi per sostenere la concentrazione dell’edificazione sulle aree interne da rigenerare, di porre limiti stringenti al consumo di suolo e tutelare le aree produttive agricole (nell’anno di Expo).
postilla
Forse non c'è nulla di meglio, di questa stroncatura neutra e necessariamente blanda, non politicamente schierata, per chiarire sino a che punto il disegno di legge “contro il consumo di suolo” abbia finito per scontrarsi con la natura stessa dell'attuale ceto politico padano e degli interessi che rappresenta: se non si urbanizza che le abbiamo fatte a fare tutte le nostre autostrade e compagnia bella? Dove va a finire il primato economico vero o presunto della regione, il luminoso futuro dello sviluppo infinito dei metri quadri di inutile terreno convertiti in solido valore finanziario? Perché questo è il punto: nella mente della classe dirigente non esiste, una situazione in cui tutto non giri attorno al medesimo nucleo centrale, rappresentato appunto dalla mobile frontiera dell'urbanizzazione, dallo svuotare di qui per riempire di là eccetera eccetera. E la domanda è: moralizzazioni a parte, razionalizzazioni a parte, si è in grado di esprimere qualsivoglia modello alternativo, oppure no? (f.b.)
Tra i relatori anche Hermes Redi, neodirettore del Consorzio Venezia Nuova, il responsabile del servizio informativo Giovanni Cecconi. E poi l'economista Ignazio Musu, nominato tra i cinque esperti che promossero il Mose al posto di Paolo Costa, diventato ministro dei Lavori pubblici. Ha parlato ieri, 15 anni dopo la sua relazione, dello stesso tema «Aspetti economici della salvaguardia di Venezia». C'era anche Andrea Rinaldo, ingegnere padovano che nel 1999 fece parte del «panel» di consulenti del Consorzio per promuovere il Mose. Conclusioni del professor Carlo Doglioni (subsidenza) e della soprintendente Renata Codello.
«L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9", 4 novembre 2014
«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso». Così cantava Mary Poppins nel 1964, e così ha fatto domenica scorsa il ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini: ha detto forte (via twitter) che bisogna rifare l’arena del Colosseo. Ed è stato un successo strepitoso.
L’arma di distrazione di massa ha fatto centro, e tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul pavimento dell’Anfiteatro Flavio, disertando la vera urgenza di queste ore in materia di patrimonio artistico, paesaggio, ambiente: che è l’imminente trasformazione in legge dello Sblocca Italia, e la conseguente, ennesima cementificazione del Paese. D’altra parte, Franceschini ha un maestro eccellente: quando era sindaco di Firenze, Matteo Renzi annunciò che avrebbe costruito la facciata della Basilica di San Lorenzo, progettata da Michelangelo. Una balla spaziale, ovviamente, ma che oscurò totalmente la contemporanea firma dell’accordo con Ferrovie dello Stato sul tunnel dell’alta velocità che dovrà sventrare Firenze.
Ma proviamo a prendere sul serio l’idea di rimettere in funzione il Colosseo. E lasciamo perdere gli evidenti pericoli materiali e morali della trasformazione di uno dei massimi monumenti italiani in una superlocation commerciale (perché è così che, ovviamente, finirà: con cene, feste private ed eventi di ogni sorta).
Concentriamoci invece sulla premessa in queste ore più volte esplicitata: e cioè sull’idea che il Colosseo così com’è non ci dice più nulla, mentre per renderlo culturalmente eloquente andrebbe almeno in parte ricostruito e rimesso in funzione. Questa idea rappresenta la fine stessa dell’archeologia: che è la scienza che permette di aprire la conoscenza razionale del passato a tutti i cittadini, qualunque sia il grado della loro cultura. Perché l’archeologia serve proprio a far comprendere, a chi archeologo non è, cosa siano le rovine che ci stanno di fronte. E un archeologo bravo ha tutti gli strumenti per far appassionare i propri interlocutori: che si tratti di un accademico dei Lincei o di una guida turistica. La sapienza e l’eloquenza degli archeologi hanno il potere di rimettere il passato di fronte ai nostri occhi: ma non ci illudono di poterlo rivivere. Perché questo meraviglioso gioco sta proprio nell’attrito continuo tra la resurrezione del passato e la consapevolezza della distanza che ce ne separa. In un’epoca come la nostra, divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’esperienza razionale del passato può essere un antidoto vitale. Per questo è importante contrastare l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista: dal Codice da Vinci a trasmissioni come Voyager, all’idea di riportare i circenses nel Colosseo.
Poco male se a dimenticarsi di tutto questo fosse stato il ministro Franceschini. Ma è veramente inquietante che gli autori e i supporters più entusiasti dela rifunzionalizzazione dell’anfiteatro siano stati proprio gli archeologi (con l’importante eccezione di Salvatore Settis). L’ex soprintendente di Roma Adriano La Regina se ne è detto entusiasta, e il decano degli archeologi italiani, il presidente del Fai Andrea Carandini, si è rammaricato di non essere «giovane, bello e forte, così da prestarsi sicuramente come gladiatore» (che viene da dirgli di non buttarsi tanto giù: un leone attempato si trova sempre). L’idea è venuta a Daniele Manacorda (ordinario di archeologia a Roma Tre, e già sostenitore del progetto di fare un campo da golf alle Terme di Caracalla), ed è poi stata accanitamente sostenuta da Giulio Volpe, altro archeologo, ex rettore dell’Università di Foggia e già presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali (che presto tornerà a presiedere, vista la sintonia con i tweet di Franceschini). Tutti costoro hanno sostanzialmente detto che l’archeologia non basta: ci vuole un ‘aiutino’. L’archeologia al tempo del viagra, insomma: una scienza che per eccitare la folla ha bisogno della pillola blu dell’arena con i nuovi gladiatori, i suoni, le luci e i biglietti da staccare. Una dichiarazione di fallimento, una resa, una bancarotta morale. E anche un trasparente ammiccamento al mercato e alla politica: perché se li si prendesse in parola, questi professori di archeologia, e si accettase di rifare l’arena (per permettere ai visitatori di comprendere meglio com’era davvero il Colosseo), ma si decidesse di farla solo visibile (e cioè non calpestabile e non accessibile), tutti gli apostoli della divulgazione archeologica sparirebbero all’istante: a partire dal ministro Franceschini. Perché il punto non è la crescita della conoscenza, ma l’industria dell’intrattenimento: e la possibilità di disporre della più strepitosa delle location.
Uno dei più grandi scrittori del nostro Seicento, Emanuele Tesauro, ha scritto che nel Colosseo «invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte»: se a noi questo non basta, è perché non sappiamo più vederlo. È il mainstream del nostro tempo, e tra un po’ non avremo più bisogno di archeologi: basteranno gli impresari, i registi, i figuranti vestiti da gladiatori.
«Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso».
Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2014
Subito dopo un’esondazione o una frana, che provoca morti e dispersi, le dirette televisive e gli editoriali sui principali quotidiani si sprecano. Si intervistano esperti, direttori della protezione civile, sindaci, cittadini con il badile, volontari sporchi di fango. Ma poi, passate solo poche settimane, gli “strascichi" degli episodi di dissesto idrogeologico trovano spazio a pagina 27. Così, di alluvione in alluvione e di frana in frana, ci trasciniamo una situazione che ormai è considerata facente parte dell’arredamento di “Casa Italia”.
Tra alluvioni e frane negli ultimi 50 anni sono state quasi 7000 mila le vittime mentre dal dopoguerra ad oggi i danni sono stati quantificati in oltre 60 miliardi di euro. I comuni ad elevata criticità idrogeologica sono 6.631, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone. Numeri che, da soli e senza ulteriori commenti, studi o approfondimenti, dovrebbero incollare la politica alle proprie responsabilità. E invece la politica, dopo essersi recata ai funerali delle vittime per piangere lacrime di coccodrillo, una volta uscita dalle chiese e terminato il solito balletto dello scaricabarile, entra puntualmente nei consigli comunali, regionali o dei ministri, per approvare cementificazioni di ogni genere, porti, grandi opere, trafori.
Interventi contro il dissesto idrogeologico? Sempre in fondo alla lista delle priorità.
Ma la goccia ha oggi fatto davvero traboccare il vaso. Ed i cittadini, i comitati, gli alluvionati, hanno deciso di passare dalla denuncia del giorno dopo alla proposta attiva, all’autorganizzazione dal basso. Stanchi di essere malsopportati, trattati come un problema, ciascuno isolato nel proprio territorio dissestato, hanno deciso di unirsi e di costituirsi in “massa critica”, per obbligare le istituzioni a fare concretamente il proprio dovere e soprattutto a farlo con giustizia e correttezza, mettendo fuori gioco le politiche di intervento legate a logiche discrezionali che spesso creano danni ulteriori e corruzione.
La rete nazionale si chiama “Mai più”, mai più bombe d'acqua e disastri ambientali – Movimento e rete delle comunità dei fiumi e del popolo degli alluvionati” ed ha le idee molto chiare: ricostruire il rapporto fra le comunità e i territori attraversati da corsi d'acqua; cambiare il modello economico e di gestione del territorio concausa del dissesto idrogeologico; ottenere trasparenza ed equità degli interventi.
In poche parole, rimuovere lo spesso strato di fango accumulato in tutti questi anni lungo tutto lo stivale. Alluvione dopo alluvione.
«Le resistenze restano forti. Lo prova la tormentata pubblicazione di quest’ultimo rapporto. I delegati hanno dovuto lavorare fino all’ultimo minuto per tentare di ricucire lo strappo tra chi voleva esprimere l’allarme in modo netto e chi preferiva la sordina». La Repubblica, 3 settembre 2014 (m.p.r.)
Mai tanti gas serra da 800mila anni. Un picco che, nella storia del pianeta, per la prima volta è stato causato non da fenomeni naturali, ma dall’azione di una singola specie: l’homo sapiens. È netto l’atto di accusa dell’Ipcc, la task force scientifica dell’Onu che ha vinto il Nobel per la pace e che dal 1988 cerca una cura al sempre più evidente squilibrio dell’atmosfera.
«Secondo i costruttori bastava Una pulita OGNI 5 anni." Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE:. Il Consorzio ha sempre puntato also alle gare milionarie per la Manutenzione delle Dighe L'avevano perfino promesso Ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso " ». Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2014 (MPR)
Patrimoniosos.it, 2 novembre 2014
SETTIS: SERVONO SOLDI
NON SOLUZIONI PLACEBO
Intervista Ansa
«Questo è un momento drammatico per la tutela del patrimonio culturale: lo "Sblocca-Italia" contiene
norme devastanti, e intanto la funzionalità del ministero cala di continuo per mancanza di fondi e di personale. In questa situazione, non credo proprio che l'eventuale restituzione dell'arena del Colosseo sia una priorità ragionevole, anche perché dettata da un'ipotesi di riuso per forme varie di intrattenimento».
Il duro giudizio sulla proposta del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che in un tweet ha oggi rilanciato l'idea dell'archeologo Daniele Manacorda di "restituire al Colosseo la sua Arena", è di Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa nonché ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali. La proposta di Manacorda, avallata da Franceschini, è ricoprire i sotterranei, oggi quasi completamente scoperchiati, per mostrare "come i visitatori vedevano e vivevano il Colosseo sino a poco più di un secolo fa".
di Tomaso Montanari
Il Colosseo, monumento sicuramente unico, correrebbe il rischio di diventare la più imponente delle location commerciali
«Gli esperti economici di Palazzo Chigi vogliono imporre l'analisi costi-benefici mai fatta. Dimostrerebbe che sono soldi buttati. Lobbisti del cemento in allarme». Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 (m.p.r.)
Ma tant'è, quel numerino scritto da Rfi ha toccato nervi scopertissimi. Stefano Esposito, sostenitore acceso della Torino-Lione – tanto da essere nel mirino di frange violente dei No Tav – considera la correzione verso l’alto un siluro all’opera, tanto da aver ottenuto per l’11 novembre prossimo la convocazione dei vertici di Rfi alla commissione Trasporti del Senato. Il parlamentare piemontese punta a stroncare subito ogni resistenza facendo uscire allo scoperto i frenatori delle grandi opere. Solo che stavolta la lobby del cemento non se la dovrà vedere con localismi e ambientalismi, bensì con un’agguerrita pattuglia di economisti piazzati proprio a palazzo Chigi.
Il Tav Torino-Lione è solo la prima stazione di una via crucis destinata a toccarne numerose, soprattutto ferroviarie, come ilterzo valico Genova-Tortona, il nuovo tunnel del Brennero e l’alta velocità Napoli-Bari, investimenti più celebrati che finanziati nel decreto Sblocca Italia, approvato alla Camera e in attesa del voto del Senato.
Il fatto è che la tesi principale degli oppositori della Torino-Lione – sono soldi buttati – ha sempre convinto anche Renzi. Ancora un anno e mezzo fa diceva: «Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili» . Sulla Torino-Lione la bocciatura era quasi sprezzante: «Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio : non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male».
Poi la politica ha imposto i suoi prezzi e Renzi, conquistando palazzo Chigi, ha confermato Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture per non perdere l’appoggio parlamentare del Ncd e quello lobbistico del potente e trasversale partito del cemento. Il decreto Sblocca Italia è stato il trionfo di Lupi e dei suoi sostenitori, con grandi opere a strafare e ampi varchi per cementificazioni di ogni tipo.
Adesso però sono proprio i lobbisti del cemento e delle imprese di costruzione a notare con preoccupazione che tra gli esperti economici che Renzi ha portato a palazzo Chigi ci sono autorevoli avversari dello spreco di miliardi in nome delle imprescindibili infrastrutture. Il più insidioso è il bocconiano Roberto Perotti, uno che già sei anni fa pubblicò sul Il Sole 24 Ore rasoiate del seguente tenore: «Che cosa sarebbe più utile per l’immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti? (...) Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese».
Soldi buttati, dunque, come diceva Renzi finché ha potuto. E come pensa un altro esperto di palazzo Chigi, il deputato Pd ex McKinsey Yoram Gutgeld, che già in tempi non sospetti definiva le nuove linee ad alta velocità “opere faraoniche, miliardarie e inutili”. Per adesso la legge di Stabilità andrà liscia, e vedrà la conferma di tutti i finanziamenti previsti per la Torino-Lione e le altre grandi opere. Ma lo scontro è solo rinviato. Gutgeld e Perotti pensano all’arma totale, a uno scherzetto che per il partito del cemento è come l’aglio per i vampiri: imporre al Cipe - l’opaco comitato interministeriale dove si fanno i giochi per i grandi investimenti, una cosa che in Italia nessuno ha mai fatto, la cosiddetta analisi costi-benefici. Un esercizio che serve agli economisti per sapere se si sta spendendo bene o male. Domande come: serve davvero questa nuova ferrovia? Quanti posti di lavoro crea? È possibile spendere gli stessi soldi in qualcosa che dia risultati più interessanti? Siccome in Italia l’analisi costi-benefici non è mai stata adottata, a domande del genere si è risposto finora con slogan come “è per la competitività” o “ce lo chiede l’Europa”. Ma oggi l’unico argomento politicamente solido per andare avanti con la Torino-Lione è anche il più antipatico: non darla vinta ai No Tav.
Il nodo adesso sta per arrivare al pettine. Già la Corte dei Conti francese ha fatto notare che i miliardi di euro per la nuova ferrovia Torino-Lione sono sostanzialmente soldi buttati. Gli esperti di palazzo Chigi adesso si preparano a dare una spallata nella stessa direzione, scommettendo che nella difficile situazione dei conti pubblici si potrebbero risparmiare o spendere meglio decine di miliardi. Per adesso l’operazione è tenuta sotto traccia. Il momento propizio, superato lo scoglio della Legge di stabilità, potrebbe essere l’inizio del 2015, per evitare un duello con la lobby del cemento in un momento politicamente complicato. Nello scontro frontale tra il partito anti-spreco e quello del cemento guidato da Lupi è proprio Renzi che rischia di trovarsi schiacciato, se non si inventa una delle sue mosse.
Come contrastare il consumo di suolo? Lasciando invariato quanto previsto dai piani, rinviando ogni valutazione di tre anni. Una proposta di legge della Giunta lombarda, guidata dalla Lega Nord. Ciascuno ama la sua terra a modo suo. (m.b.)
«Nicholas G. Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly nel 1973, per l'American Economic Association scrissero: "Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso"». Sbilanciamoci.info, 31 ottobre 2014
Economisti ed ecologisti non si sono mai stimati troppo. Se depuriamo il dissenso dalle accuse ingenerose rimane negli uni la convinzione che a furia di proteggere la sacralità della «natura» non si sarebbe mai usciti dalle caverne, mentre gli altri replicano che continuando a distruggere la natura si finirà ben presto nelle stesse caverne di prima.
Gli uni dicono agli altri che non hanno studiato; replicano i secondi che studiare le cose sbagliate nei libri sbagliati è ancor peggio. Un dissenso che non ha fine. Ancora recentemente Vandana Shiva, ecologista rinomata, è stata presa di mira con una punta di disprezzo dagli avversari, non per la sua lezione, ma per qualche bollo universitario mancante nel suo curriculum.
Era il 1973 in ottobre quando Nicholas Georgescu Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly scrissero il loro Manifesto, firmato da altri duecento economisti, per la riunione annuale dell'American Economic Association in agenda due mesi dopo. l testo, brevissimo, è stato ripubblicato varie volte, per esempio nel 2006 da Capitalismo Natura Socialismo, (Jaca Book a cura di Giovanna Ricoveri), un'antologia degli scritti della rivista Cns. Ecco quel che i tre suggerivano: «Nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta.
Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti e del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra».
Difficile dire meglio di così. Come si può capire, Barry Commoner era d'accordo. Il «controllo razionale del progresso e della tecnica» era una scelta indispensabile per garantire la stessa sopravvivenza umana.
In uno scritto di Commoner della fine degli anni ottanta e poi letto e riletto fino agli anni recenti: «Una valutazione del progresso ambientale: la ragione del fallimento» (Economia & Ambiente, novembre dicembre 2012) si trova una chiave interpretativa che tutti possono fare propria: «Quando un inquinante è al punto di origine, può essere eliminato; una volta che è prodotto, è troppo tardi. Insomma, l'inquinamento ambientale è quasi una malattia incurabile; può solo essere prevenuto. ...L'approccio convenzionale è quello per cui queste tecnologie che sono altamente produttive dal punto di vista economico, generalmente hanno un serio impatto sull'ambiente».
Più avanti si legge: «Ciò porta a pensare che tali tecnologie debbano essere usate come mezzi per lo sviluppo economico, in modo che la qualità ambientale possa essere raggiunta solo aggiungendo ad esse i mezzi di controllo dell'inquinamento».
È possibile farlo, oppure sono controindicazioni i costi aggiuntivi alla produzione vera e propria? Commoner esamina il caso dell'industria del petrolio. «L'industria petrolchimica è ugualmente famosa per il suo successo economico, essendo cresciuta negli Stati Uniti, ad esempio, fino a 250 miliardi di dollari in meno di 40 anni. Ciò che è meno noto è che fare un serio sforzo per rettificare i difetti ambientali dell'industria significherebbe distruggere letteralmente la sua vitalità economica.
L'industria petrolchimica genera circa 300 milioni di tonnellate di scorie tossiche ogni anno, il 90% delle quali viene introdotto nell'ambiente in un modo o nell'altro: nei pozzi, nelle lagune di superficie, nei serbatoi. Solo l'uno per cento delle scorie viene distrutto, che è l'unico modo per assicurarsi che queste sostanze altamente pericolose e che durano a lungo non si accumulino e alla fine minaccino gli esseri viventi. Insomma, l'industria petrolchimica è profittevole solo perché è riuscita, finora, ad evitare di pagare il suo conto all'ambiente».
Gli economisti dovrebbero applicarsi a questi problemi, ma lo fanno troppo poco. La casa-madre di tutti gli economisti, la World Bank, funziona assai spesso come megafono delle compagnie petrolifere, non solo, ma fa anche profittevoli collette per i maggiori investimenti che trasformano il globo in uno spazio attraversato per ogni dove da strade e ponti, gallerie e viadotti, stazioni di rifornimento e oleodotti e ne fanno l'ambiente adatto per auto e camion, considerando quasi il genere umano come un inutile, ingombrante, soprammobile.
Non tutti gli ecologisti sanno arrivare fino in fondo, ma si fermano a un compromesso che considerano insuperabile, originato dal buonsenso. Solo che è il buonsenso della serie, famosa dai tempi del Maggio francese, del sindacalista che si rivolge nervosamente all'attivo dei suoi che lo ascoltano senza fiatare. «Insomma, cosa volete?» e alla risposta: «Fare la rivoluzione», replica a sua volta: «Impossibile. I padroni non ci staranno mai!»