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Patrimoniosos.it, 10 dicembre 2014 (m.p.r.)

Quando parla della Sicilia, Salvatore Settis è combattuto tra rabbia e amore. La rabbia per una regione che non vuole chiedere aiuto e calpesta se stessa, l'amore per un'Isola che è tra i luoghi più ricchi di bellezza nel mondo.

Archeologo e storico dell'arte, Settis è stato direttore della Normale di Pisa dove insegna, del Getty center for the history and art di Los Angeles e del Consiglio superiore dei Beni culturali; è componente dell'Istituto tedesco di Archeologia, dell'Accademia dei Lincei e del Comitato scientifico dell'European research Counsil e presidente del Consiglio scientifico del Louvre. Ma, soprattutto, è uno strenuo difensore del patrimonio inteso come parte di un popolo. Davanti alle denunce, alle immagini, alle segnalazioni di un patrimonio identitario che, giorno dopo giorno, continua a morire, Settis si sorprende poco. E addita la colpa di quest'incuria culturale a chi gestisce la cosa pubblica e non lo fa. Affatto.

«È stata una pessima idea affidare alla Regione siciliana, unica in Italia, la tutela totale dei beni culturali - afferma il docente - Il ministero per i Beni culturali conta in tutte le regioni, anche in quelle a statuto speciale come la Sardegna, eppure in Sicilia non conta nulla. L'Isola fa storia a sé, non si compara, resta chiusa in se stessa. Ed è un isolamento a cui ha condotto l'atteggiamento di tanti politici siciliani che, da assessori o presidenti della Regione o, ancora, legati alla gestione dei beni culturali, si occupano della tutela del patrimonio come se la Sicilia fosse uno Stato a sé. Come se lo stretto di Messina definisse un confine netto, non solo geografico, con il resto dell'Italia».

La "bizzarria", come la definisce il professore Settis, è che la devoluzione piena alla Regione dei suoi beni culturali sia avvenuta nello stesso anno in cui fu istituito il ministero per i Beni culturali. Il Governo, infatti, ritenne necessario dar vita a un dicastero preposto alla cultura, all'arte, al patrimonio storico e ambientale e, appena sei mesi dopo, tolse a se stesso la competenza di tutelare i beni culturali di una delle regioni con la più alta densità di patrimonio. Una bizzarria, appunto.

«Questo rivela la povertà politica italiana già nel 1975 - dice l'archeologo -. Ma commettere un errore non significa tuttavia continuare a ripeterlo. In Sicilia, la mancanza di comparazione con altre regioni dà alle amministrazioni una sorta di delirio di onnipotenza. La Regione siciliana ha così l'illusione di poter fare tutto con conseguenze negative per il territorio. E' questa condizione che conduce, ad esempio, a decisioni come quelle di allontanare i soprintendenti più competenti, come accaduto di recente. E tutto ciò lascia intendere che la competenza conti sempre meno in Sicilia».

Gestione e politica, poi, significa soldi. E quando si parla di beni culturali in Sicilia e denaro lo scenario è quello di sprechi e occasioni perdute. Ma Settis dice di più.

«In situazione dominata da questo delirio di onnipotenza da parte della Regione - afferma il docente - e dall'illusione di essere al riparo dalle critiche, l'investimento delle risorse economiche a disposizione del territorio spesso viene indirizzato sulla base della simpatia politica o di decisioni extra-tecniche. Credo che il caso del Teatro greco di Siracusa che si sbriciola sia un caso di scuola: i nostri monumenti perdono pezzi per mancanza di manutenzione. Invece è proprio l'attenzione costante, l'intervento programmato che Giovanni Urbani ha sempre raccomandato, la priorità. Se ciò manca, tutto crolla. I beni culturali, in fondo, sono come il nostro corpo: bisogna curarlo costantemente. Lo sbriciolarsi del Teatro greco di Siracusa è, appunto, il sintomo di una malattia: sono sicuro che metteranno a posto le pietre fratturate, ma bisogna curare le ragioni della malattia».

Professore, perché è così difficile in Sicilia coniugare la salvaguardia del patrimonio con lo sviluppo del territorio?
«La difficoltà nasce da una carenza di cultura istituzionale. Un assessore regionale dovrebbe sapere che nelle Soprintendenze e nei musei debbano lavorare figure di altissima competenza e questo, invece, accade in alcune istituzioni e in altre no. Di certo, la maggioranza degli assessori regionali non ha mostrato attenzione alla vera competenza; piuttosto molti sono stati attenti al fatto che soprintendenti e direttori di musei fossero ubbidienti più che preparati. Una vera cultura istituzionale è quella capace di dare alla competenza il suo valore. Ancora, sul difficile connubio tra tutela e sviluppo conta la concezione stessa del patrimonio: anche in Sicilia vale la Costituzione della Repubblica, almeno così dovrebbe essere. L'art. 9 è chiaro: dice che il paesaggio e il patrimonio appartengono ai cittadini e fanno parte dell'identità nazionale e del possesso a titolo di sovranità, allora questo deve essere il punto dominante. Non la rincorsa ai turisti che, certo, hanno diritto ad ammirare e godere la bellezza dei luoghi. Ma il patrimonio è di chi vive in questi luoghi. Non si può trasformare una città d'arte e cultura in una Disneyland per turisti ma la prima cosa, quella fondamentale, è custodire il patrimonio per i cittadini che ne sono i proprietari legittimi. E questo senso istituzionale che manca e non solo in Sicilia. L'art. 9 dice che il livello di tutela e i criteri di valorizzazione del patrimonio debbono essere identici in tutto il territorio italiano: non è così. E il caso massimo è proprio la Sicilia che non viene più comparata al resto d'Italia».

Salvatore Settis ricorda, a tale proposito, che quando era presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali chiese notizie del patrimonio siciliano senza, tuttavia, ottenere notizie. Gli uffici del ministero, infatti, non sapevano alcunché della Sicilia e dei suoi beni. La situazione non è cambiata oggi perché il ministero non conosce nemmeno le statistiche, i numeri di musei e luoghi d'arte e cultura siciliani.

«E allora - dice Settis - se la situazione è questa, come si può sperare di essere riconosciuti per quello che si è: uno dei più grandi fiori all'occhiello del patrimonio italiano? Forse nessuna regione della Penisola può competere con la Sicilia per bellezza».

La gestione di monumenti e musei è spesso legata anche al loro ritorno economico. Un piccolo gioiello-museo come quello di Lentini, per esempio, è fanalino di coda in Italia e mantenere luoghi che non offrono prospettive di introito è spesso al centro del problema gestionale siciliano. Qual è il suo commento?
«Lo affido, ancora, al principio dell'art. 9 della Costituzione che asserisce come il valore culturale dei beni sia al di sopra di qualsiasi significato economico. Non possiamo accettare il fatto che, se un museo non ha incassi sufficienti a coprire i costi del suo mantenimento, debba chiudere. Se questo è il criterio, allora chiudiamo tutte le scuole elementari e medie d'Italia perché certamente non portano guadagni. Musei, teatri, luoghi d'arte sono aspetti della cultura vitali per la salute mentale dei cittadini tutti, per la creatività di un popolo e per le nuove generazioni a cui si potranno assicurare le condizioni della creatività che poi, a loro volta, dedicheranno al futuro in ogni settore e professione. Se parliamo di ragioni meschine, quando si parla di cultura, allora stiamo commettendo suicidio. Anzi, stiamo per premere il grilletto».

Cosa pensa dei prestiti delle opere d'arte e delle grandi mostre che la Sicilia non allestisce?
«Il business delle mostre va rivisto seppur non radicalmente. Non sono affatto convinto che si facciano troppe mostre in Italia ma il punto dev'essere "cosa si fa". Una mostra, rispetto alle collezioni permanenti, è un'occasione per pensare e ha senso quando riesce ad accostare oggetti che di solito si trovano in musei diversi, in chiese diverse. Ad esempio, le mostre di Raffaello al Prado o al Louvre che consentono di vedere, insieme, opere di uno stesso autore, di uno stesso periodo. E questa è un'occasione unica. Oggi invece prevale l'idea di mostre del tutto pretestuose in cui o si chiede in prestito un pezzo, come i frontoni del Partenone all'Hermitage o il quadro "La ragazza con l'orecchino di perla" a Bologna che diventa un'icona. Noi invece non abbiamo bisogno di icone da adorare ma di arte che ci faccia pensare. Le opere prestate dalla Sicilia, come il Satiro di Mazara, se comparato con altre statue, in un contesto, ha senso. Se invece si prende un oggetto, unico ed iconico, no. E a dimostrazione di ciò vi è il fatto che far circolare le opere siciliane nel mondo non fa, poi, arrivare turisti in Sicilia. L'assenza quasi totale, l'incapacità di produrre grandi mostre in Sicilia è molto chiara a differenza di regioni simili, per bellezza e patrimonio, come la Toscana che, invece, allestisce eventi nel segno della grande arte. Spero che non sia sempre così».

Come può allora la Sicilia salvare il suo patrimonio e guardare al futuro?
«Ci vuole umiltà. E vorrei ricordare che l'articolo 9 della Costituzione venne proposto da un siciliano, il catanese Concetto Marchesi, che era un grande latinista e rettore dell'Università di Padova, poi senatore della Repubblica. Fu proprio lui ad evidenziare come fosse necessario evitare che le regioni, a cominciare dalla Sicilia, tenessero per sé il patrimonio e la sua gestione facendone strazio. Con Aldo Moro, propose di evitare la regionalizzazione dei beni culturali. Se oggi Marchese fosse vivo, direbbe: quanto avevo ragione».

Uno degli interventi di apertura della presentazione veneziana del nuovo libro di Salvatore Settis (Se Venezia muore",Giulio Einaudi editore). La stringente attualità di un libro sulla memoria storica delle città.Un appassionato appello ai "cittadini resistenti" perchè salvino un patrimonio dell'umanità

L'incontro di presentazione dell'ultimo libro di Settis, organizzato dall'istituto veneto di scienze, lettere e arti è stato aperto dagli interventi di Gherardo Ortalli, Giorgio Agamben, Lidia Fersuoch e Gian Antonio Stella, e concluso da Settis. Le registrazioni in Youtube sono raggiungibili dal sito dell'Istituto veneto. Pubblicheremo i testi degli altri interventi appena ne avremo la disponibilità

Perché Settis ha dovuto scrivere “Se Venezia muore”
di Lidia Fersuoch


Perché il professorSettis ha sentito la necessità di scrivere questo libro? (e solo una pressantenecessità può spingere a scrivere un testo così stringente e lucido nellapassione che lo anima).
Ce lo dicenelle prime pagine. Cito: «se la città è la forma ideale e tipica dellecomunità umane, Venezia è simbolo supremo di questa densità di significati». Eancora: «pensata per la vita associata e costruita per durare, la città è illuogo deputato della progettazione del futuro. Perciò la dissoluzione dellacittà storica, il pensiero unico delle megalopoli, la messa al bando delladiversità dei modelli urbani ... impongono nuove rotte alle pratiche dicittadinanza ... trasformano profondamente non solo le città ma anche ognidiscorso pubblico sull’economia, sulla democrazia, sull’eguaglianza».
Quindi ildiscorso sulla città, sulla città storica in particolare e sul modello pereccellenza della città storica, Venezia, concerne il nostro futuro, e ciò cheavviene a Venezia è paradigmatico e trascinerà con sé il futuro di tutte lealtre città storiche.
Questaepifania delle virtù urbane, che tutti riconoscono in Venezia, rischia di esseroscurata, annullata, cancellata, rischia di sparire.
«In tre modi - scrive Settis - muoiono lecittà: quando le conquista un nemico spietato ... quando un popolo straniero visi insedia. .. o infine quando gli abitanti perdono la memoria di sé» «oblio disé ... non vuol dire solo dimenticanza della propria storia» bensì «mancataconsapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico diogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessunacittà possiede quanto Venezia».

Nel caso diVenezia, più che oblio parrebbe essere una sorta di veneficio indotto da forzeesterne, che trarrebbero vantaggi economici dall’annientamento del modelloveneziano di civiltà.
Comevalutare le sorprendenti parole del sottosegretario Baretta, riportate nellibro? «Venezia non deve rinunciare allo sviluppo, bisogna uscire dallatrappola della conservazione». Lo sviluppo agognato porta introiti e dunquevoti.

Accanto a questiinteressi ‘elettorali’ il bisogno di modernizzazione della città è sollecitatodal tipo di turismo che inonda Venezia.

Settis scrive: «l’allargamentoglobale dei nostri orizzonti genera il bisogno di fare «esperienza diretta diuno spazio urbano altro dal proprio, con le sue diverse modalità dell’abitare edel vivere ... ma .. il 75% di chi va a Venezia non si ferma più di un giorno». La maggior partedei visitatori probabilmente non avverte la necessità di avvicinarsi allastoria, al passato che ha generato quel mirabile episodio urbanistico. A essibasta consumarel’esperienza di Venezia in un attimo: un’impressione, uno sguardo da lontanoche non perde tempo; e quale vista migliore se non dall’alto?

Ricordo quantonarrava Mazzariol sul primo arrivo in città di Le Corbusieur. Al momento diprenotare l’albergo, Le Corbusieur si sincerò che la sua stanza avesse una tipicavista ‘veneziana’. Ma aprendo le finestre vide di fronte solo un muro scrostatoe in alto, una lama di cielo. Alle sue rimostranze, la locandiera rispose chequella era una tipica, vera vista veneziana. E Le Corbusieur dovette convenire.

Invece - secondoSettis - «Lo sguardo dall’alto corrode l’antica forma urbis degradandola arelitto di un passato da sconfiggere svettandogli sopra». Conseguenza è laprofanazione di Venezia: «oltraggiare Venezia - cito questa volta da un suotesto comparso su Repubblica - non è una conseguenza non prevista, ma il cuoredel progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce isacerdoti della modernità ... la profanazione, anzi, la visibilità dellaprofanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuolprendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto diuna mega-nave o di una super terrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo aMarghera».

La visione dall’alto (già in nuce forse nella casa di Gardellaalle Zattere che altera i rapporti dimensionali, schiacciando le architettureadiacenti dello Spirito Santo) è ora giunta alle conseguenze estreme nelFontego dei Tedeschi, acquistato da Benetton. Umiliare la forma della città,umiliare i suoi individui architettonici.

Cito: «Profanare un edificio storicoè ... parte del “forte progetto simbolico” commissionato da Benetton». Controil progetto di Koolhass, che modifica profondamente l’edificio (conl’inserzione di un piano in più, un foro nella parete di fondo sulla corte altodue piani, e una mega terrazza) abbiamo fatto ricorso al Tar e aspettiamo lasentenza.

Pochi giorni fa Koolhaas,nel presentare il volume Architetture contemporanee aVenezia, alla Fondazione Querini,sostenne: «la modernità sola può decidere cosa tenere e cosa buttare delpassato»; contemporaneamente affermando che il Fondaco è un edificiocompletamente ricostruito negli anni ’30 e che non è rimasto nessun elementoautentico. Ma cosa legittimerebbe il suo intervento? La modernità o il fattoche sia un edificio completamente ricostruito? (Ma Mario Piana ha segnalato lemoltissime iscrizioni lapidee piene di graffiti con nomi, sigle, segni dimercatura, simboli religiosi, scacchiere per il gioco incisi nei secoli dai mercantitedeschi).

Ma anche fosserifatto (e non lo è), Settis ricorda quanto scriveva Plutarco nella Vita di Teseo, sulla nave dell’eroe, conservataad Atene: «via via che il legno antichissimo si deteriorava, nuove tavolevenivano inserite al posto della vecchie. Perciò ... i filosofi usavano la navedi Teseo “come esempio di indeterminatezza nel ‘discorso della crescita’:alcuni dicono che è sempre la stessa nave, altri sostengono che non lo è”. Lanave visibile e tangibile cambia, viavia che le tavole vengono sostituite; e però resta la stessa, se ogni tavola è identica a quella chesostituisce, e se non muta l’intangibile forma d’insieme. É il paradosso -continua Settis - della conservazione secondo il modello ‘orientale’, esemplificatoal meglio dal tempio di Ise in Giappone, che almeno dal VII secolo vieneritualmente distrutto e riedificato tal quale ogni vent’anni, ogni voltasalvaguardando una sola colonna (sempre diversa) della costruzione precedente»per cui «il tempio più antico del Giappone non ha mai più di vent’anni ... nellacultura giapponese (ma anche in quella cinese, indiana ...) il marchio diautenticità non spetta alla materialità di un oggetto o di un edificio, mapiuttosto alla sua verità formale». La verità formale del Fondaco come reinterpretazione rinascimentale e veneziana del fondaco orientale è arrivata intatta ai giorni nostri.

Ma il caso del ‘restauro’-distruzione del Fondaco non è isolato. Il restauro di un’architettura monumentale a Venezia non è più un semplice gesto filologico, ma una rilettura. Non per nulla la mail di invito alla presentazione del volume esordiva con una domanda di Tadao Ando, quando gli proposero il progetto: «Ma si può fare architettura moderna a Venezia?». La punta della Dogana ora, di fatto, è un’opera di Ando, così come il Fondaco dei Tedeschi è definito “il progetto di Koolhaas”, e sarà un’opera di Koolhaas. Non esiste più l’edificio antico, risucchiato dalla modernità.
«A Venezia - scrive Settis - nessun architetto può ignorare che la città si sta svuotando ... E dunque nessun architetto dovrebbe mai prestarsi a costruire nulla ... che favorisca la morte della città storica negandone l’unicità».

Il volume che illustra queste cannibalizzazioni, dicevamo, è stato presentato alla Querini. Il pubblico, numeroso, seguiva anche da un grande schermo nella sala attigua all’auditorium. Questa sala in realtà era “un’antica corte medievale”, ora coperta da un velum di acciaio, rivestita da pannelli, con una pavimentazione colorata. La corte veneziana non si legge più, diventa altro. E la vera da pozzo su cui si inciampa, sembra messa lì a caso, macabro resto che non ha più alcun senso in quel contesto.

Così l’intervento di restauro espresso in un linguaggio contemporaneo per essere autentico, diventa il suo opposto: uno snaturamento, un falsoParadossalmente, è più vera la Fenice: almeno la ricostruzione “Com’era dov’era”, frutto - sostiene Cacciari - della prudenza, vuole riproporre la “verità formale”, in cui il cittadino si riconosceva. Risarcisce la perdita di identità che aveva subito la cittadinanza.

Altrettanto paradossalmente siamo legati a questo teatro falsissimo credo perché è l’ultima cosa fatta a Venezia pensando a noi cittadini. Sono passati quasi 20 anni dalla decisione di Cacciari. Ora tutto si fa per i turisti, o meglio per le forze economiche che stanno o hanno già trasformato la città a velocità supersonica in nome dello sviluppo e del turismo.

La riflessione sul corpo vivo della città, sui cittadini, sulle loro esigenze che possono non collimare con le visioni dei grandi architetti, può aiutare noi superstiti abitanti a ritrovare un senso, una dignità e una forza unitaria nell’agire e nel difendere ciò che Settis chiama «il diritto alla città». «ogni città - scrive - è viva traduzione della propria storia, ma anche volto e traduzione in pietra del popolo che la abita». «Convivono ..., nella nostra esperienza, una città di mura e una città di uomini e nella città degli uomini c’è un’anima, quella della loro comunità: una città invisibile», ma non per questo meno forte e importante.
La città invisibile, la comunità, saldamente tessuta dai fili invisibili della sue storie e della storie dei suoi cittadini, però, sta morendo.

Quante volte abbiamo sentito dire dei palazzi cittadini: ‘eh, è stato trasformato in albergo, ma piuttosto che cadesse a pezzi’ ... Cosa opporre a chi argomenta così? Ca’ Corner della Regina oggi è perfettamente restaurata. Ma non è più della città.

Se abbandoniamo al mercato un palazzo che è parte della nostra storia, come ha detto Montanari in occasione di altre privatizzazioni, «l’avremo perduto anche se sarà perfettamente conservato».
Per Ca’ Corner Italia Nostra ha fatto ricorso al Tar, ma i veneziani non si sono mobilitati. Non si sono resi conto che il cerchio si stava stringendo attorno a loro.
E ora ecco il ‘salto di qualità’ che ci si poteva aspettare: si mettono in vendita non solo edifici provvidenzialmente già vuotati, ma anche edifici vissuti, pieni: di storia, di funzioni, di valori per la cittadinanza, di futuro.

Con due ricorsi siamo forse riusciti a sventare la cessione (avversata da docenti, studenti e personale non docente) dei tre palazzi storici di Ca’ Foscari, in cambio di un unico fabbricato recente, inadeguato alle necessità dei dipartimenti che si volevano accorpare (il giardino di uno dei tre palazzi storici era usato dai bambini dalla vicina scuola).

Su l’Espresso Turano commentava desolato che le tre sedi storiche erano state ritenute «inutilmente belle»; cioè sprecate per gli studenti. Il futuro dei quali (che è il nostro) non interessa, è qui e l’oggi che conta. E i saldi di fine anno del Commissario-liquidatore lo confermano.

Il 25 novembre il Commissario ha deciso di alienare entro l’anno una delle Ville Heriot, alla Giudecca, sede dell’università dell’Arte. Anche in questo caso il giardino è utilizzato dai bambini della scuola vicina. E ora è la volta delle Procuratie di Piazza San Marco.
E nel cittadino monta il convincimento che ci sia un disegno predefinito: la bellezza che in fin dei conti è solo un accidente, un esito del nostro modo di vivere, della nostra civiltà, ha ora un prezzo e i veneziani non possono pagarlo. Meglio dunque delocalizzarli in terraferma, affinché tanta ricchezza-bellezza possa esser messa nelle mani di chi la sa far fruttare.

Incalza Settis: «La monocultura del turismo ... esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire». «Ai cittadini di Venezia è lasciato un ruolo residuale e gregario: agognare qualche beneficio economico purché accettino il suicidio della loro città». Quel patrimonio invece ci spetta di diritto, come abbiamo il «diritto ... all’integrità della Laguna che in millenaria simbiosi ne accompagna la storia e la vita». E, mi preme sottolineare, Settis scrive “Laguna” con l’iniziale maiuscola, per darle forza di idronimo.

Chi vuole scavare il Contorta, un nuovo canale portuale in Laguna centrale, ben sapendo - perché fior di studi lo provano - che sarebbe esiziale per la Laguna, ha definito Venezia un quartiere.

E Settis scrive: «L’ipotesi di fare di Venezia un quartiere fra i tanti di una qualche Veneto City la svilisce a residuo fossile di una dimensione tramontata del vivere sociale».

Venezia invece è una città compiuta, compiuta anche nella sua periferia: «Unica anzi suprema anche in questo, - precisa Settis -Venezia è ancora dentro la sua cinta di mura d’acqua ... la sua periferia, cioè la campagna (qui fatta d’acqua) esiste ancora, e la città non è stata soffocata dalla cintura informe delle periferie». Ma - si chiede - la «Metamorfosi dell’Italia da terra di città in nebulosa di periferie eroderà anche l’unicità di Venezia?».
Purtroppo sta già succedendo: come diceva Rosario Assunto - citato nel bel saggio di Massimo Favilla pubblicato dall’Istituto nel volume L’enigma della modernità, «Venezia è una sfida dell’infinito contro ogni negazione della finitezza: e questo per la sua inscindibile unità col paesaggio. O meglio, per quella che era l’unità col paesaggio».

Si chiama waterfront, ora, la gronda lagunare, e il nome nella sua sfolgorante modernità ammicca e prelude all’arrivo di nuove modernità e sviluppi; nuove edificazioni, banchinamenti, poli intermodali, e porti, autostrade, svincoli scavati nel corpo vivo della Laguna.

La Laguna continua a venir considerata come terra di nessuno, da piegare agli interessi dei potenti di turno, il porto e l’aeroporto, che da concessionari dello Stato e nel vuoto della politica sono diventati di fatto soggetti politici propositivi. Un potere enorme, che lo Stato non contiene.

Né, lo Stato, si fa promotore di studi per risolvere il problema delle grandi navi (che come suggerisce Giorgio Conti è meglio definire navi grandi). In questa vicenda in cui deliberatamente si cancella la Laguna, un gruppo di tecnici volonterosi ha supplito - come dice Maria Rosa Vittadini - a una funzione pubblica, studiando e presentando, giorni fa, un progetto di avamporto galleggiante, removibile, che per il suo impatto contenuto è da considerare il male minore, se si vuole conservare il crocerismo a Venezia (cosa peraltro opinabile).

E ancora, nella totale assenza della politica a Ve si vogliono far passare velocemente progetti che ipotecheranno il futuro della città. Parlo anche dell’Arsenale: le scelte che si faranno su quello straordinario spazio saranno l’ultima occasione per invertire la rotta.

I cittadini chiedono che l’Arsenale torni ad essere il centro propulsore della vita della città e il suo riscatto, come polo della civiltà del mare, dove possano trovare sede centri di ricerca, musei e attività tradizionali legate al mare. E invece il commissario e i suoi sub vogliono imporre in fretta un documento direttore con la scusa fasulla dei fondi europei, che spiana la strada alla vendita a bocconi ad aziende, senza un progetto, un’idea complessiva degna di ciò che fu il motore della grandezza di Venezia. La più gigantesca svendita della città.

Dice Settis: «Contribuendo al processo ... di smantellamento dello Stato, le stesse istituzioni che dovrebbero presidiarlo lo tradiscono impunemente, si trasformano da custodi del pubblico bene in alfieri degli interessi privati». Se le istituzioni, lo Stato, i commissari sono contro la città, tocca a noi.

Cito le conclusioni di Settis: «Ai veneziani, ma anche ai cittadini del mondo che hanno a cuore Venezia, spetta un compito vitale e una grave responsabilità: mostrare e dimostrare che la diversità e la bellezza non sono una pesante eredità del passato, ma uno straordinario dono per vivere il presente e una straordinaria dote per costruire e garantire il futuro ... perché se Venezia muore non sarà solo Venezia a morire: morrà l’idea stessa di città, la forma della città come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione di civiltà, come impegno e promessa di democrazia».

Per questo dobbiamo dire basta. Usciti da qui cerchiamo tutti insieme di annodare i fili smagliati della città invisibile.


L'autrice, archeologa, presidente della sezione Venezia di Italia nostra, è l'animatrice di numerose battaglie per la tutela di Venezia e della Laguna

In un’intervista apparsa sulla stampa locale il 7 dicembre, Renata Codello, Soprintendente per i Beni Architettonici, ha ribadito il suo convincimento ... >>>


In un’intervista apparsa sulla stampa locale il 7 dicembre, Renata Codello, Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia, ha ribadito il suo convincimento che i cartelloni pubblicitari, che per alcuni anni hanno mascherato piazza San Marco, siano «l'unico sistema per riqualificarla» e ha rivendicato la bontà di quello che le appare essersi dimostrato un progetto "anticipatore".

Più che il contenuto di tali dichiarazioni, che poco aggiunge ad altre sue precedenti, sorprende il silenzio della Soprintendente a proposito della decisione - resa nota due giorni prima, il 5 dicembre- assunta dal commissario prefettizio Vittorio Zappalorto di «cedere» le Procuratie Vecchie, che pure fanno parte della piazza, alle Assicurazioni Generali. Tale decisione è l’ultimo tassello di una lunga contrattazione avviata dalle precedenti amministrazioni comunali con i proprietari del complesso architettonico, su una parte del quale “grava” il vincolo di uso pubblico.

L’idea dell’ex sindaco Orsoni era di togliere il vincolo di destinazione d’uso al compendio, fatta eccezione per circa 3000 metri quadri con affaccio sulla piazza, che sarebbero dovuti rimanere per trent’anni nella disponibilità del comune, se le Generali avessero versato qualche milione di euro. A suo tempo, l’offerta venne giudicata non abbastanza vantaggiosa dalle Generali che, ben coscienti che «questa proprietà è una cosa unica al mondo…. ha un valore inestimabile», hanno saggiamente aspettato le svendite al ribasso del commissario.

Ora, infatti, il comune rinuncerà ad ogni contenzioso e siglerà un accordo bonario che riduce da 3000 a 800 metri quadrati la parte da destinare ad usi pubblici. «In cambio, ha detto il commissario, la compagnia verserà alcuni (?) milioni per la valorizzazione immobiliare nel frattempo avvenuta dell’area delle Procuratie». Più che soddisfatti sono anche gli amministratori delle Generali, che hanno dichiarato: «al momento non è stata ancora individuata la destinazione, ma sarà compatibile e in perfetta sintonia con la città di Venezia e con la monumentalità del posto… detto questo, gli spazi sono nostri». Bontà loro, che non hanno (non ancora) accatastato la piazza a proprio nome.

Se la contemporaneità delle dichiarazioni del commissario e quelle della soprintendente è ovviamente casuale, induce però a porsi almeno due domande. La prima è se il processo di valorizzazione immobiliare di cui parla Zappalorto non coincida con la riqualificazione esaltata dalla sopraintendente, ed in vista di quali utilizzatori finali siano state restaurate le pietre della piazza. E’ una domanda retorica, dal momento che è dimostrato che il degrado viene tollerato, se non promosso (almeno a partire dal concerto dei Pink Floyds) dalle pubbliche amministrazioni finche lo spazio è pubblico, ma diventa intollerabile quando riduce le amenità ambientali incorporate dai privati investitori.

La seconda questione è se la ripulitura della piazza, in senso fisico e umano – è di oggi la notizia di un “presidio fisso interforze per blindare San Marco” - sia un elemento non secondario del processo in corso di feudalizzazione della società, e quindi degli spazi urbani ai quali i cittadini hanno diritto di accedere o tramite un pagamento o grazie alla concessione di un signore.

Se è così, aspettiamoci, magari con il prossimo patto di stabilità, la recinzione dello square e la consegna delle chiavi ai proprietari che vi si affacciano e che vi possono atterrare con le loro mongolfiere.

Corriere della Sera, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)

Alla prossima frana, non osino chiedere aiuto allo Stato. Alla prossima frana, non osino strillare davanti alle telecamere. Non osino invocare risarcimenti per i danni. Perché lo sanno tutti, a Messina, che è da pazzi costruire nei letti dei torrenti Trapani e Boccetta. Eppure, appena rimosso il funzionario che si opponeva, sono ripartiti i cantieri. Come se tante tragedie non fossero mai avvenute. È una pazzia doppia, quella di Messina. Perché i numeri dell’anagrafe dicono che la città, a dispetto di piani di sviluppo megalomani che prevedevano una metropoli di mezzo milione di persone, perde abitanti. Ne aveva, nel 1981, oltre 260 mila. Ne ha, oggi, quasi 20 mila in meno. Ed è tappezzata di cartelli: «vendesi», «affittasi». Al punto che Lucio D’Amico sulla Gazzetta del Sud, parlando dei nuovi cantieri, scrive che «i costruttori tireranno un sospiro di sollievo, ma poi dovrebbero spiegare a chi venderanno». Analisi certificata dall’Osservatorio immobiliare 2014 di Nomisma. Che parla di crollo nelle compravendite sullo Stretto, tra il 2012 e 2013, del 47%.

A maggior ragione, in questo contesto, è impossibile comprendere l’altra pazzia, quella di costruire in zone ad alto rischio. Sono anni, ad esempio, che il canalone lungo il quale scende il torrente Trapani viene additato come un’area pericolosa. E anni che continuano a tirar su condomini: «Quel che sta accadendo nella parte alta del torrente Trapani è rabbrividente», scriveva nel 2010 Francesco Celi, precisando che probabilmente sulla carta era tutto in regola («speciosa ma doverosa puntualizzazione») nonostante la collina «sulla quale sta sorgendo una palazzina, l’ennesima palazzina, palesa su un fianco cinque ferite, squarci provocati da movimenti franosi».
Erano previsti due centri commerciali e vari caseggiati per ospitare oltre tremila abitanti, lungo il Trapani. Tutto bloccato dall’ingegner Gaetano Sciacca, l’allora capo del Genio civile, inviso ai costruttori perché, in base a una sentenza della Cassazione sulla priorità della sicurezza, si era messo di traverso a una leggina varata da Totò Cuffaro che consentiva d’aprire i cantieri un istante dopo il deposito del progetto senza che alcuno potesse stopparlo. E se l’edificio fosse stato tirato su nel disprezzo di ogni vincolo antisismico o idrogeologico? Amen: si poteva sempre abbatterlo, dopo. Anche se storicamente gli abbattimenti in Sicilia sono più rari dei fichi d’India in Alaska? Domanda impertinente: uffa, i soliti nemici dello sviluppo!
Fatto sta che, tolto di mezzo poche settimane fa lo scomodo funzionario che mentre metteva in sicurezza i luoghi delle frane del 2009 aveva bloccato decine di lottizzazioni pericolose («costruiscono ville sul mare o in località a rischio e poi pretendono opere pubbliche a difesa dell’indifendibile»), tutto è ricominciato come prima. Quando tutti facevano quel che gli pareva.
Un esempio dell’anarchia tollerata da una classe dirigente di imbarazzante mediocrità? Il procuratore Guido Lo Forte è arrivato a sequestrare un cantiere proprio a Boccetta dove le ruspe del costruttore, per passare più comodamente sotto con i camion, avevano demolito una parte dei pilastri di sostegno dello svincolo stradale. E se il viadotto fosse crollato? Uffa, i soliti menagramo!
Ed ecco che sulla Gazzetta, proprio come temevano Anna Giordano del Wwf e gli ambientalisti che avevano inutilmente chiesto al governatore Rosario Crocetta di non toccare il Genio civile, si tornano a leggere cronache così: «Stanno sbancando di nuovo la collina del Boccetta. Pensavamo che la folle rincorsa alla cementificazione si fosse fermata, o, quanto meno, non fosse più consentita in alcuni luoghi, dove dovrebbe essere vietato ogni genere di edificazione. E invece un altro cantiere è stato aperto, le ruspe stanno spianando...».
Il «Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico» della Regione Siciliana del 2008 ospita una raffica di fotografie impressionanti: frane, frane, frane, frane... E parla, per il solo comune di Messina solcato da 52 fiumare per la metà intubate, di 406 problemi idrogeologici per un totale di quasi 468 ettari colpiti da crolli, «frane complesse», «colamenti rapidi», «dissesti dovuti a erosione accelerata»... Eppure, nonostante il rapporto Ispra 2008, richiamandosi al disastroso terremoto del 1908, denunciasse che «l’intensa urbanizzazione rende concreta la possibilità che una nuova calamità possa essere ancora più disastrosa di quella di cento anni fa», continuano a cementificare, cementificare, cementificare...

Prosegue dopo un decennio la battaglia contro una scelta sbagliata e costosa, per una ragionevole e meno dispendiosa. A pensar male la pervicace volontà autostradale ha proprio nel risparmio la sua ragione. Proposta delle associazioni ambientaliste, link al testo integrale

Il documento unitario “La Strada Statale Aurelia sicura subito - contro l’Autostrada della Maremma: progetti privati e costi pubblici” è stato presentato e discusso durante l’incontro pubblico svoltosi a Capalbio il 15 novembre scorso e promosso da Associazione Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, FAI, Legambiente, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, WWF Italia.Il documento è stato inviato alla Regione Toscana, alla Provincia di Grosseto e ai Comuni interessati dal tracciato, con proposta di un incontro per un confronto nel merito.
I relatori sui vari temi: Edoardo Zanchini, Maria Rosa Vittadini, Valentino Podestà, Anna Donati. Stefano Lenzi, cui hanno fatto seguito interventi di Luigi Bellumori, Sindaco di Capalbio, Angelo Gentili, Legambiente Grosseto, Luciano Piccolotti, Consigliere M5S Capalbio, Gianni Mattioli, Presidenza Nazionale SEL, e Nicola Caracciolo, Presidente onorario di Italia Nostra Toscana, che ha aderito a nome dell’associazione.

Il documento affronta la storia dei progetti per il corridoio stradale tirrenico, le osservazioni presentate dalle Associazioni Ambientaliste al progetto definitivo del 2011 e i problemi non risolti, la fragilità del piano economico-finanziario, la riapertura della procedura di infrazione in sede di Unione Europea, i problemi irrisolti di intermodalità, le proposte di adeguamento e messa in sicurezza della SS.Aurelia.

Le proposte si possono così sintetizzare:

Ø Destinare i 270 Milioni che il Governo sembrava disposto a fornire a SAT o più in generale le risorse pubbliche disponibili, alle più urgenti opere di adeguamento e messa in sicurezza della Strada Statale Aurelia, iniziando necessariamente dai tratti ancora a due corsie ed eliminando i più pericolosi incroci a raso e immissioni dirette.

Ø per quanto riguarda i tratti già in esercizio e quelli in fase di realizzazione esonerare il pedaggio per il traffico locale di ambito provinciale che potrà così restare sull’Aurelia potenziata e sicura. Si riduce così drasticamente il potenziamento della viabilità alternativa e si riducono i costi ambientali ed economici del progetto.

Ø eliminare il sistema di esazione con barriere e sistemi chiusi utilizzando solo le innovazioni tecnologiche come il multilane free flow, con l’obiettivo di far pagare chi attraversa la Maremma (TIR e traffico veicoli) ed escludendo tutto il traffico locale, sia dei residenti, delle imprese e del trasporto pubblico, dal pedaggio. Gli attuali sistemi tecnologici di riconoscimento, selezione e pagamento automatico consentono sistemi flessibili e selezionati di gestione.

Ø Gli incassi dei pedaggi di attraversamento della Maremma devono essere reimpiegati per la messa in sicurezza ed adeguamento dell’Aurelia, con priorità alle tratte ancora a due corsie ed agli attraversamenti a raso più pericolosi.

Ø ritornare al progetto Anas di adeguamento della Strada Statale Aurelia implica anche rivedere con l’adozione di una norma la concessione a SAT, escludendo dall'affidamento di questa tratta la concessionaria.

Valentino Podestà, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio

qui il link al testo integrale

«Test di mercato tramite affidamento diretto del comune a Nai Global: negozi e ristoranti» quello che il mercato vuole. Tutt'altro emerge nei tavoli di lavoro in cui i cittadini si esprimono, di cui nell'articolo di Elisa Lorenzini (Corriere del Veneto) e dal comunicato stampa di Italia Nostra, firmato da Paolo Lanapoppi (m.p.r).

Corriere del Veneto, 3 dicembre 2014
TEST DI MERCATO: NEGOZI E RISTORANTI COSÌ L'ARSENALE PIACE ANCHE A DIESEL
di Elisa Lorenzini
Venezia. Negozi di maison di design e moda, con showroom e annessi laboratori di produzione nell'Arsenale sud, vicino alla Biennale. Appartamenti in social housing nella parte ovest, cantieri per yacht di lusso oltre i venti metri a est e a nord abitazioni collettive e strutture ricettive pensate per studenti, ricercatori, lavoratori dell'Arsenale. E poi contenitori culturali, un centro eventi per ospitare concerti e spettacoli, una corte del gusto dedicata a locali e ristoranti. Quattro fasi di interventi, per 237 milioni di euro. Così Nai Global società internazionale, specializzata in attività finanziarie e immobiliari e che fa capo a Island Capital Group, ha disegnato un piano per l'Arsenale da usare come test di mercato.
Quanti e quali privati sarebbero disposti a investire se queste fossero le attività previste? Un lavoro iniziato lo scorso maggio quando l'Ufficio Arsenale ha commissionato lo studio tramite affidamento diretto a Nai Global. I risultati sono stati presentati ieri alla Tesa 105 durante l'incontro di «Partecipa Arsenale» organizzato dal Comune e hanno scatenato un mare di proteste: sul metodo (come e perché è stata scelta questa società) e sul merito (il tipo di attività), tanto più che nell'ora precedente, ai tavoli di discussione si parlava di ospitare il Centro unico delle maree (Luigi Alberotanza, presidente del Centro Maree) di un polo rappresentativo della ricerca (Pierpaolo Campostrini, Corila).
Giovanni Smaldone, chairman di Nay Italy ha spiegato tutt'altro di fronte ai 150 cittadini. «Il progetto va sviluppato in quattro fasi. Una prima di infrastrutturazione per creare la rete e rendere la zona accessibile. Una seconda dove si insediano le attività nella parte nord. Una terza con l'arrivo di attività di cantieristica negli ex bacini Actv, social housing e di industria creativa. E la quarta con laboratori artigiani di ricerca e esercizi commerciali a sud». Secondo Nai Global ci sono già 50 brand internazionali ma ancora non presenti in Italia disposti a insediarsi all'Arsenale nella zona dei negozi e dei laboratori. Tra i candidati ci sarebbe anche Diesel.
L'incarico a Nai Global termina oggi, la palla torna al Comune quando vorrà partire con le gare pubbliche. Il percorso non sarà facile, almeno a giudicare dai commenti di ieri: il progetto presentato da Nai non è piaciuto al Forum Futuro Arsenale. «Prima va pensato un progetto unitario sull'area — dice secco Stefano Boato — e solo dopo vanno cercati gli investitori». E il portavoce Roberto Falcone: «Siamo perplessi, noi abbiamo idee completamente diverse, chiediamo che sia preservata l'unitarietà dell'area mentre così non lo è. Avevamo intuito questo progetto già durante a maggio, quando sono stati invitati immobiliaristi».
Neppure la Municipalità sapeva nulla. Il vicepresidente Giorgio Tommasi chiede perché «lo studio è stato affidato a questo soggetto e non ad altri?» E aggiunge: «Questo vuol dire che non è un progetto partecipativo, ma già fatto da altri». Più duro Pasquale Ventrice, presidente del Centro studi Arsenale: «Un pessimo, inadatto, non credo che 50 brand internazionali possano convivere con la Biennale e con il Consorzio Venezia nuova, come si può dirlo senza fare un tavolo di concertazione?». Ventrice ha una sua idea: all'Arsenale possono sopravvivere solo le tecnoscienze. Replica Federica Di Piazza dell'Utfp «Parlare di un piano finanziario è fondamentale, i costi fanno parte di un progetto. Privato non è sinonimo di speculazione se il pubblico è forte». Gli spazi a disposizione del pubblico potrebbero allargarsi ancora.
Marina Dragotto, direttore dell'Ufficio Arsenale, ha detto ieri il Comune è in una fase «di trattativa avanzata per riportare alla città i bacini medi ma anche gli edifici attigui, come la mensa». Cioè una parte degli spazi oggi del Consorzio. «Noi abbiamo sempre dato la nostra disponibilità», dice Hermes Redi direttore del Consorzio. All'incontro ha partecipato anche il sub commissario Michele Scognamiglio che preme sull'acceleratore: «Se perdiamo tempo ora, non perdiamo solo 4 o 5 mesi ma molto di più perché con la gestione commissariale è più facile concludere percorsi tecnici come questo». L'intenzione è di approvare il documento direttore entro dicembre, dopo un incontro con le categorie.
Comunicato Stampa Italia Nostra Venezia, 5 dicembre 2014

L’ARSENALE DIVENTERÀ UN CENTRO COMMERCIALE?
di Paolo Lanapoppi Vicepresidente, Italia Nostra, Sezione di Venezia
Il subcommissario Michele Scognamiglio, che agisce per incarico del commissario Zappalorto, sembra avere molta fretta di formulare un piano per il destino dell’Arsenale prima che scadano i termini del suo mandato. Il piano dovrà poi essere confermato da sindaco e giunta che usciranno dalle elezioni di primavera; ma per qualche ragione, forse puro di puro zelo burocratico, i due
commissari intendono chiuderlo e approvarlo prima della metà di aprile. Così hanno autorizzato, e anzi incoraggiato, l’Ufficio Arsenale istituito dall’ex sindaco Orsoni a proporre un Piano direttore,
che indica molto chiaramente la direzione nella quale intendono muoversi. Essa consiste principalmente nella ricerca di aziende private disposte ad accollarsi i costi di restauro e manutenzione dei moltissimi edifici disponibili. Il complesso è stato diviso in lotti, ognuno dei quali è oggetto di una scheda illustrativa che ne descrive la destinazione d’uso e i costi di
ristrutturazione (il totale è di circa 240 milioni di euro). Per tutte le tese, nelle quali i veneziani
costruivano le loro navi, è prevista l’introduzione di solai che aggiungeranno un piano di calpestio:
forse un modo per rendere più appetibili degli edifici così maledettamente scomodi per chi
volesse installarvi dei centri commerciali.

Tra qualche tempo, a quanto è stato comunicato, verranno lanciati dei bandi per le concessioni
dei singoli lotti. E’ presumibile che essi verranno ceduti ai migliori offerenti, anche se il
subcommissario Scognamiglio ha dichiarato in una riunione con alcune associazioni che dovrà
contare molto anche la qualità dei prodotti aziendali trattati. In un incontro con la cittadinanza il subcommissario ha illustrato il suo piano e poi ha ceduto la parola all’azienda che il Comune ha assunto (per ora non si sa a quali costi) per reperire gli “investitori”. Il rappresentante di quell’azienda (specializzata nel settore immobiliare e nella ricerca di investitori professionali) si è anche sbilanciato ad accennare al tipo di attività che vorrebbe vedere installate nel nostro Arsenale: “fashion (si cerca sempre l’inglese per essere più moderni), arti visive, musica, etc.” Alla stampa ha dichiarato che ci sarebbero già 50 brand (vuol dire marchi) internazionali disposti a insediarsi nell’Arsenale.

Ciò che interessa non è dunque una testimonianza della storia navale, civile e artistica del nostro
Paese e dell’Europa intera, ma una serie di contenitori per brand e fashion. Sarà praticamente
impossibile leggere negli edifici rimaneggiati, rivestiti, trasformati la solennità e bellezza
dell’antichissima fabbrica navale. Contro queste proposte la comunità veneziana si è già levata
con molta forza: non solo le associazioni, ma anche individui singoli stanno protestando sia nelle
sedi ufficiali sia nei social network. Sta nascendo così un’idea unitaria dell’uso da fare del
compendio, tale da esaltarne insieme la bellezza, la storia e il messaggio di vita: farne un polo della
civiltà del mare, che comprenda la testimonianza dell’antico e una visione del presente e futuro,
forse anche un centro per gli studi sulla laguna e per la produzione e il restauro di barche antiche e
moderne. Invece che agenzie immobiliari, il Comune dovrebbe affidarsi all’esperienza e sapienza
dei nostri grandi storici dell’arte e dei direttori dei grandi musei marittimi del mondo.

Il meraviglioso Arsenale di Venezia è una grande opportunità e una forte responsabilità, di fronte
non solo ai residenti ma a tutto il mondo civile: chi verrà a visitarlo dovrà uscirne più ricco, più
completo come uomo e come cittadino del mondo. A questo serve la bellezza, non a incassare
profitti.

Due articoli del tutto indipendenti in sezioni diverse del giornale, convergono nell'evitare accuratamente un tema chiave della città futura: lo spazio pubblico e la sua gestione, ben oltre la forma fisica del progetto. Massimo Gaggi e Luca Molinari, Corriere della Sera 6 dicembre 2014, postilla (f.b.)

NEL GRATTACIELO DEI RICCHI
di Massimo Gaggi


Salirci in cima adesso che è ancora uno scheletro di cemento armato vuoto, dà un certo batticuore. L’ascensore del cantiere che si arrampica lungo la parete esterna impiega sei lunghissimi minuti ad arrivare al 96esimo piano. Attesa ripagata dalla vista mozzafiato. A 425 metri di altezza è come essere in aereo: Central Park è un rettangolino verde, l’Empire State Building e tutti gli altri grattacieli di Manhattan li guardi dall’alto in basso. Solo il World Trade Center è ufficialmente più alto (ma c’è il «trucco»: una lunghissima antenna).

Unico dettaglio che non consente di rilassarsi: le finestre, tre metri per tre, che arrivano fino al pavimento, non sono state ancora montate, ci sono solo reti e funi di protezione. E il vento di dicembre è micidiale. Ma presto questa penthouse diventerà un accogliente trionfo di marmi, cristalli e legni pregiati. Un appartamento di un piano, circa 800 metri quadrati, già venduto.

Cim Group e Macklowe Properties, le imprese che stanno completando la più alta torre d’appartamenti dell’emisfero occidentale, non danno informazioni sui clienti e sui prezzi pagati. Ufficialmente gli appartamenti di 432 Park Avenue, appena 104 unità immobiliari — e quindi molte di un intero piano per viste sconfinate senza vicini della porta accanto — in un edificio di 96 piani (ma quelli bassi sono destinati ai servizi comuni: club esclusivo, ristorante, palestra, piscina), sono in vendita a prezzi variabili tra i 17 e gli 83 milioni di dollari. In realtà l’attico che sto attraversando con passo incerto è stato pagato 95 milioni. E non è nemmeno un record. Nel mondo globalizzato della polarizzazione dei redditi e della formazione di grandi fortune, si moltiplicano, dal Medio Oriente alla Russia, i super-ricchi pronti a spendere decine di milioni, magari anche cento, per una residenza davvero esclusiva.

Londra, Singapore, Montecarlo, Dubai, ma soprattutto New York: quello di isolarsi in un «nido delle aquile» sopra Manhattan sembra il sogno di molti miliardari. Ed è proprio questo mercato che alimenta la febbrile attività dei costruttori newyorchesi impegnati a realizzare a Midtown, negli isolati attorno alla 57esima strada, una decina di nuovi grattacieli di appartamenti che stanno cambiando ancora una volta la skyline di New York. Torri che sembrano matite, sottilissime e altissime. Passati di moda i grandi palazzi per uffici dalla facciata piatta che richiedono molti ascensori per il gran traffico di gente, adesso si guadagna con le residenze esclusive: gli ascensori sono diventati velocissimi (quelli di 432 Park impiegheranno appena 55 secondi per arrivare al 96esimo piano), ne bastano due o tre per ogni torre. E poi le nuove tecniche costruttive consentono di realizzare edifici sottilissimi. Come il condominio al 111 West della 57esima. La costruzione è iniziata da poco: sarà alto quando 432 Park, ma ancora più sottile. Una base di appena quindici metri, una vera lama che taglia il cielo.

Chi ci abiterà? Industriali indiani e cinesi, sceicchi ancora pieni di petrodollari, oligarchi russi, ma anche imprenditori e finanzieri americani, a giudicare dalle facce di chi entra ed esce dai condomini di extralusso già costruiti nella zona. Una concentrazione di ricchezza che ha ispirato al sindaco de Blasio l’immagine delle due New York, i ricchi e gli esclusi. In realtà quella che si sta formando nel centro di Manhattan, tra Central Park e il Rockefeller Center, è una concentrazione impressionante di opulenza in poche mani. Un fenomeno che la rivista Fortune ha cercato di rendere in cifre: il costo dei 104 appartamenti della torre di Park Avenue, 3,12 miliardi di dollari, supera il valore di tutti gli edifici residenziali della città di Trenton, la capitale del New Jersey, ed è il doppio dell’intero patrimonio immobiliare di Juneau, la capitale dell’Alaska. Tony Malkin, capo dell’azienda familiare che gestisce l’Empire State osserva le nuove torri con sufficienza: «Postmoderne? A me sembrano medievali: i ricchi che si proteggono isolandosi dalla città sottostante come 700 anni fa». Siamo o non siamo nella San Gimignano del Ventunesimo secolo?

COME RIDARE L'ANIMA
AI PALAZZI-MONSTRE
di Luca Molinari

Da qualsiasi direzione si guardi il Corviale, la grande astronave in cemento armato planata alle porte di Roma alla fine degli anni Sessanta per ospitare almeno ottomila persone, offre una sensazione di straniamento che raramente un’architettura riesce a dare. Da quando è stata costruita e solo parzialmente abitata, quest’opera ha avuto il potere di calamitare una serie di «leggende metropolitane» e luoghi comuni che esprimono molto bene l’impatto simbolico che opere di questa dimensione hanno avuto sulla comunità dei suoi abitanti. C’è chi diceva che il Corviale aveva fermato con la propria sagoma il delicato vento Ponentino, mentre altri affermavano che in quel labirinto ci si sarebbe potuti perdere senza salvezza.

Ma la storia è purtroppo molto più semplice e triste perché l’edificio venne abitato solo parzialmente e, soprattutto, gli spazi immaginati per ospitare tutte le funzioni pubbliche e collettive vennero subito abbandonati all’occupazione più selvaggia generando in poco tempo un degrado diffuso che non lasciava alcuna speranza . Non si tratta di un caso unico ed estremo, perché la storia del Corviale è uguale a quella di altre «mega strutture» sognate dagli architetti durante gli anni Sessanta per cercare di risolvere il problema drammatico delle nuove periferie urbane. Di fronte alla pressione migratoria fortissima e alla necessità di rispondere a una domanda crescente di alloggi l’architettura moderna più evoluta cercò di dare forma a vere e proprie strutture urbane di nuova generazione capaci di raccogliere in un unico, enorme organismo le diverse funzioni che prima si cercava di tenere separate come l’abitare, i servizi educativi e sanitari di base, alcuni spazi pubblici e le strutture commerciali primarie. Queste nuove, imponenti strutture nate in molte delle periferie delle nostre città tra Europa, Stati Uniti e Giappone abbinavano i sistemi costruttivi rapidi prefabbricati a un uso dei linguaggi moderni più severi e avanzati illudendosi che i suoi abitanti si sarebbero presto ambientati in un diverso frammento di città del futuro.Quello che invece nessuno di questi progettisti poteva immaginare è che, invece, queste visioni di un domani radioso sarebbero diventate rapidamente pezzi di città dormitorio e simboli di un’alienazione sociale devastante.

Ma da almeno un decennio è in corso un processo interessante che, abbandonata la demonizzazione di questi luoghi, li considera come frammenti di vita di comunità di abitanti da aiutare a migliorare la qualità degli edifici e la possibilità di trasformarli. E così si sono avviate demolizioni parziali, nuove costruzioni che s’integrano con l’esistente, definizioni di strategie partecipate per usare i luoghi in maniera differente, cambi di destinazioni d’uso che stanno mutando l’identità di questi luoghi sparsi in tutto il mondo (all’estero da ricordare gli esperimenti di Amsterdam Nord e di Bijenkorf a Rotterdam), al punto che non sarà difficile, tra qualche anno, entrare al Corviale e trovare un chilometro verde capace di trasformarlo in un luogo pieno di vita.

postilla
Ci sono due punti di vista complementari ed essenziali per capire quanto sia elusa la questione centrale: quello esplicitato del rischio cittadella fortificata nel grattacielo di lusso, e quello sfiorato degli ambienti inutilizzati dentro l'unità di abitazione razionalista. Temi che evidentemente non riguardano solo i due esempi specifici,
highrise newyorchese o mega-steccone romano, trattati dai due articoli, e lasciano inevasa la questione pubblico/privato, che invece salta davvero all'occhio a un secondo sguardo. Nel complesso di lusso o gated comunity che dir si voglia, lo spazio pubblico è umiliato ad ambiente condominiale, ovvero si compra insieme all'appartamento e al diritto di entrarci. In quello razionalista, che vorrebbe riassumere in sé tutta la città, da sempre quegli ambienti risultano fallimentari, per un motivo o l'altro. Il che metterebbe in primo piano sino a che punto la sola progettazione spaziale e architettonica (su cui si soffermano in esclusiva questi articoli, e non solo loro), NON sia il problema. E implicitamente rilancia, insieme al corrente dibattito sulla densificazione urbana e il contenimento di consumo del territorio, la bistrattata progettazione razionalista, proprio quella degli ambienti comuni interni agli edifici multipiano. Perché? Perché forse, oltre gli studi tecnici spaziali degli architetti novecenteschi, è rimasto scoperto tutto il campo della gestione, di quegli spazi, chi deve farsene carico, quale qualità minima debbano possedere e mantenere e via dicendo. Se si vuole discutere della città del futuro, insomma, e non continuare inutilmente a guardare a un mitico passato, forse è il caso di riconsiderare in positivo anche questo lascito del '900, riconoscendone e colmandone le lacune (f.b.)
Su Today, vedi l'idea (sbagliata) di le Corbusier

Ora basta. Una lettera aperta per cercar di capire se Venezia è ancora una città: se oltre all'Urbs c'è anche una Civitas (e può esserci anche una Polis).

Lettera ai miei amici veneziani: Alberto, Giampiero, Stefano, Gianni, Mariarosa, Lidia, Michele, Maria Pia, Michela, Franco, Nicola, Alessandra, Luigi, Sergio, Andrea, Marina, Pierre, Francesco, Armando, Jacopo, Andreina, Salvatore, Edgarda, Laura, Marco, Davide, Paolo, Anna, Silvio, Tommaso, Manuela, Ciro, ecc. ecc.
E anche a tutti gli altri miei amici interessati alla sopravvivenza di una Venezia che sia una città, nella pienezza dei suoi attributi.

Vi state accorgendo di ciò che stanno facendo anche alla nostra città? Stanno divorando tutto, nella città e nella sua Laguna. I monumenti e le barene, gli spazi pubblici e i palazzi, la cultura e la salute, i campi e le isole. Da Poveglia a villa Hériot, dall’Arsenale alle Procuratie nove, da Ca’ Soranzo agli alberi del Lido….

Nessuno reagisce, nessuno scende in piazza per contrastare qualcosa che non è una serie di iniziative estemporanee da criticare su punti marginali, ma un disegno di saccheggio della città quale non s’era mai visto nei secoli.

Abbiamo almeno tentato di raccogliere un dossier, o almeno un elenco sommario, del patrimonio che è stato affidato alle generazioni cui apparteniamo? La nostra città è davvero diventata un maiale da vendere a pezzi al miglior offerente in omaggio al “patto di stabilità? E per di più, negli ultimi mesi, da parte un funzionario non eletto da nessun cittadino.

La chiusura dell’anno sembra a chi comanda una buona occasione per svendere al miglior offerente ciò che resta della città. Se lo lasciamo fare (oggi, non domani) potremo finalmente condividere la tesi secondo cui Venezia è una città morta. Anzi, più esattamente, la tesi che Venezia non è una città, poiché non è Città un insieme di spazi che non siano abitati, vissuti, trasformati da cittadini, consapevoli e responsabili, per sé e per i propri posteri.

Venezia, 5 dicembre 2014

Ulteriore porzione dell'incomparabile bene comune di Venezia e Laguna sacrificato a Mercato e Patto di stabilità. Un funzionario non eletto può svendere a pezzi una città senza andare in galera? Ci sono cittadini capaci di sollevarsi, o Venezia non è più una città? La NuovaVenezia, 5 dicembre 2014

Anche l’uso pubblico delle Procuratie Nuove - di proprietà delle Assicurazioni Generali, ma in questi anni sedi delle uffici giudiziari - sacrificate sull’altare del rispetto del Patto di Stabilità, che il Comune sta disperatamente inseguendo.

«Stiamo chiudendo un accordo bonario con le Generali - anticipa infatti il commissario straordinario Vittorio Zappalorto - rinunciando al contenzioso che abbiamo in atto proprio sull’uso pubblico delle Procuratie, che la compagnia assicuratrice invece contesta. Manterremo solo circa 800 metri quadri a uso pubblico e lasceremo invece oltre 3 mila metri quadri a disposizione delle Generali. In cambio la compagnia ci verserà alcun milioni di euro per la valorizzazione nel frattempo avvenuta dell’area immobiliare delle Procuratie».

Un ottimo affare, evidentemente, per le Generali, che non avranno più l’opposizione del Comune sull’uso dei prestigiosi spazi, dove in passato avevano anche elaborato un progetto per la realizzazioni di appartamenti di lusso, subito fermato e una “mancia” per il Comune nel tentativo di far quadrare i conti e recuperare entro fine anno i 60 milioni di sforamento tendenziale del Patto certificati anche dalla Corte dei Conti. Ma Zappalorto non applicherà - intanto, come chiedevano i Revisori a scopo preventivo, ritenendo ormai probabile lo sforamento del Patto - fin da novembre ai dipendenti comunali le penalizzazioni previste dallo sforamento del Patto del 2014.

«Le penalizzazioni le applicheremo solo quando il Patto sarà effettivamente sforato - ha dichiarato ieri Zappalorto - e stiamo appunto lavorando per evitarlo. Penso che entro Natale riusciremo a concludere la vendita alla Cassa Depositi e Prestiti di Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per una trentina di milioni di euro, superando le varie pastoie burocratiche. Abbiamo già incassato inoltre 10 milioni di euro di fondi pregressi di Legge Speciale dallo Stato. Un’altra decina milioni di euro dovrebbero arrivare appunto dall’accordo con le Generali per la valorizzazione e la rinuncia all’uso pubblico delle Procuratie Vecchie e da altri diritti di superficie similari».

Forti dubbi invece nutre il commissario sulla possibilità di avere dalla Regione gli 8 milioni di euro di fondi di Legge Speciale che pure Palazzo Balbi dovrebbe a Ca’ Farsetti e questo renderebbe da possibile a pressoché certa la vendita di Villa Hèriot, fortemente contestata.

«Temo che la Regione, che ha a sua volta i suoi problemi a rispettare il Patto di Stabilità - commenta Zappalorto - terrà per il momento quegli 8 milioni di euro per sé. Questo ci obbligherà a vendere Villa Hèriot entro l’anno, ammesso che si trovi un compratore interessato a chiudere in tempi brevi. Non sarà sicuramente la Cassa Depositi e Prestiti, ma eventualmente un privato». Il commissario non si fa illusioni invece sulla possibilità di ottenere ancora un aiuto dal Governo, attraverso un emendamento alla Legge di Stabilità da presentare in Senato da parte di qualche parlamentare. «Il Governo ha già bocciato alla Camera, dichiarandoli inammissibili, tutti gli emendamenti che erano stati presentati per alleggerire il Patto, a questo punto dobbiamo fare da soli, sperando di farcela».

Il manifesto, 30 novembre 2014

Per la seconda volta in un anno, ieri archeo­logi, biblio­te­cari, archi­vi­sti, sto­rici dell’arte e restau­ra­tori hanno mani­fe­stato a piazza del Pan­theon a Roma con­tro il «modello Expo» adat­tato ai beni cul­tu­rali. Sotto una piog­gia bat­tente, cen­ti­naia di gio­vani pro­fes­sio­ni­sti hanno denun­ciato il ricorso pro­gram­ma­tico dello Stato e dalle sue pro­pag­gini locali al lavoro gra­tis o al volon­ta­riato. È stato denun­ciato il bando della Soprin­ten­denza capi­to­lina che cerca volon­tari per svol­gere atti­vità gra­tuite nei musei e nelle aree archeo­lo­gi­che della Capi­tale. Pro­prio come a Milano, dove il Tou­ring club sta reclu­tando mille volon­tari per svol­gere il ruolo di guide ai monu­menti durante l’Expo, a Roma si ricorre al lavoro gra­tuito o a pre­sta­zioni pagate sim­bo­li­ca­mente (3 euro l’ora) per svol­gere ser­vizi di prima acco­glienza, infor­ma­zione e accom­pa­gna­mento. I tagli, il ricorso siste­ma­tico ai pri­vati e il fatale blocco del turn-over e dei con­corsi (quando si fanno, non si assume) hanno spinto il Mini­stero dei beni cul­tu­rali a cre­dere che il volon­ta­riato sia un’attività sus­si­dia­ria all’assunzione di figure specializzate.

La tra­sfor­ma­zione è stata uffi­cia­liz­zata men­tre il Mibact è pas­sato da Mas­simo Bray a Dario Fran­ce­schini. Con il pre­ce­dente mila­nese, si può dire che è diven­tata sistema in tutto il paese. Un sistema che elude la nor­ma­tiva del codice degli appalti, già fune­stato dal ricorso gene­ra­liz­zato alle gare al mas­simo ribasso. Oggi è diven­tata la regola anche nel mondo dei beni cul­tu­rali dove, solo pochi giorni fa, il mini­stro Fran­ce­schini e il sot­to­se­gre­ta­rio Luigi Bobba hanno siglato un pro­to­collo inter-istituzionale per il reclu­ta­mento di 2 mila «gio­vani» da impie­gare gra­tui­ta­mente per la tutela, frui­zione e valo­riz­za­zione del patri­mo­nio. Lo Stato userà mano­do­pera volon­ta­ria sotto forma di «ser­vi­zio civile». Abo­lito negli anni Due­mila, oggi viene recu­pe­rato per tro­vare un’occupazione a costo zero per lau­reati o diplo­mati. Una prima con­te­sta­zione con­tro que­sto accordo è avve­nuta venerdì all’entrata dei Musei Capi­to­lini, bloc­cata sim­bo­li­ca­mente con un nastro rosso. Lo slo­gan era: «Noi non siamo a costo zero».

La mobi­li­ta­zione di ieri è stata pro­mossa dall’Associazione Nazio­nale Archeo­logi (Ana) e da Con­fas­so­cia­zioni (160 asso­cia­zioni, con 275 mila iscritti) e ha voluto affer­mare un prin­ci­pio ele­men­tare: «La cul­tura è lavoro e il lavoro si paga». Nella sua sem­pli­cità rivo­lu­zio­na­ria, que­sto slo­gan può essere appli­cato all’università, o al gior­na­li­smo, al lavoro nello spet­ta­colo come a quello arti­stico. Rivela una con­di­zione comune e coglie uno degli ele­menti del post­for­di­smo appli­cato alla cul­tura: il sistema degli appalti e dei subap­palti appli­cato tanto nei beni cul­tu­rali, quanto nella logi­stica (ad esem­pio) e il ricorso alle coo­pe­ra­tive che sfrut­tano i «cot­ti­mi­sti» del lavoro cul­tu­rale: gli archeo­logi, i biblio­te­cari o gli archi­vi­sti. Lo stesso accade ai fac­chini nella logistica.

Cre­sce dun­que la mobi­li­ta­zione, spinta dal pro­gres­sivo rico­no­sci­mento di una con­di­zione comune anche agli stu­denti. Alla mani­fe­sta­zione di ieri hanno par­te­ci­pato Link e la Rete della Cono­scenza. E cre­sce anche la capa­cità di coor­di­na­mento e auto-organizzazione alla quale par­te­ci­pano anche sto­rici dell’arte o l’associazione nazio­nale dei restau­ra­tori. Insieme hanno ela­bo­rato un mani­fe­sto con­tro il «dum­ping spre­giu­di­cato» del lavoro volon­ta­rio. Sull’onda del pro­ta­go­ni­smo cul­tu­rale e poli­tico degli archeo­logi si è for­mato un coor­di­na­mento con Con­fas­so­cia­zioni e le altre realtà mobi­li­tate. Tra le richie­ste c’è quella dell’assunzione dei vin­ci­tori l’ultimo con­corso di Roma Capi­tale e il ritiro del bando della Soprin­ten­denza capi­to­lina. La domanda che spiega il senso del con­flitto in corso è: «Se siamo abi­tuati a pagare il medico, per­ché non paghiamo archeo­logi o restau­ra­tori che curano il nostro patri­mo­nio culturale?».

Ulteriore passo del neoliberismo renziano: con un'operazione in cui Politica e Mercato collaborano. I poveri ancora più poveri ed emarginati, il Potere degli immobiliaristi più forte e più ricco. E i beni comuni diminuiscono ancora. Sbilanciamoci.info, 4 novembre 2014

Il governo accelera sulla dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica. Ma solo un porzione minima della popolazione residente oggi in quegli alloggi potrebbe affrontare l’acquisto all’asta. E così l’operazione rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo alla rendita immobiliare

Un decreto del Ministro Lupi, in corso di pubblicazione dopo il concerto avuto presso la Conferenza Unificata Stato – Regioni e Comuni, detta nuovi criteri ai fini dell’accelerazione della dismissione del patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica (quelle che vengono comunemente chiamate le case popolari). In questo modo, il governo attua quanto previsto dall’articolo 3 della legge 80 del 2014 (il cosiddetto “piano casa Lupi”), che ha per titolo proprio “misure per l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico.”

Può destare stupore che la Conferenza Unificata abbia dato il relativo consenso nella seduta dello scorso 16 ottobre, in quanto si viene ad intervenire su patrimoni di proprietà di Regioni e ed enti locali. Si stabilisce, infatti, che le nuove norme, in deroga alle precedenti disposizioni procedurali previste dalle leggi vigenti, si applichino “agli immobili di proprietà dei comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli istituti autonomi case popolari (gli IACP) comunque denominati”. Lo Stato, quindi, interviene dettando norme e criteri di alienazione su immobili non suoi e sui quali Regioni e comuni esercitano una competenza esclusiva.

Per quanto stupefatti, il testo uscito dalla Conferenza unificata, nelle linee essenziali, è tale e quale a come vi è entrato. Ricapitoliamone i passi salienti:

gli organi di gestione presentano i piani di vendita (addirittura divengono operativi con il silenzio assenso della Regione); c’è una graduatoria di priorità (condomini misti, immobili fatiscenti) ma la procedura si applica a tutto il patrimonio, senza salvaguardie; gli immobili fatiscenti o i cui costi di manutenzione sono “dichiarati” insostenibili possono essere ceduti in blocco; la tutela per gli assegnatari è il diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione dell’asta.

Il decreto demanda agli Istituti e alle Regioni l’individuazione di eventuali ulteriori forme di tutela che, comunque, vista l’attuale situazione deficitaria in materia di offerta di alloggi pubblici, non potrà essere quella dell’assegnazione di un alloggio alternativo.

Qual è il giro di affari potenziale di questa manovra? Malgrado l’ERP sia lasciato al degrado e rappresenti sempre più un settore marginale dell’intervento pubblico, il suo valore rappresenta un “tesoro nascosto” e l’interesse a smobilizzarlo può essere alto.

Le case popolari gestite dagli Istituti o Aziende regionali sono poco più di 800 mila. Aggiungendo ad esse quelle di proprietà dei comuni e degli altri enti territoriali possiamo parlare di circa 1 milione di immobili. Il prezzo medio di vendita di un alloggio ERP nel 2011 è stato di 39.144 euro. Secondo Federcasa, il valore di mercato si aggira intorno ai 70/80 mila euro ad alloggio, per un totale quindi di 70/80 miliardi.

Quale porzione degli assegnatari potrebbe acquistare l’alloggio in cui risiede, sulla base di una dismissione che parta dal prezzo di mercato? Ai prezzi con cui il patrimonio è stato finora messo in vendita (circa il 50% in meno del valore di mercato) hanno acquistato una percentuale che oscilla tra il 20 e il 25% di coloro che hanno ricevuto l’offerta. Si parla di vendere all’asta con priorità nei condomini misti. Essi esistono, però, in quanto già gli Istituti o i comuni hanno messo in vendita i palazzi e solo una parte dei residenti ha comprato. Come è pensabile che possano comprare oggi all’asta quando prima non hanno potuto acquistare l’alloggio a un prezzo molto inferiore?

Forniamo alcuni dati sulla composizione sociale e reddituale di chi abita nel comparto. Riferendosi al comparto principale dell’ERP (gli alloggi gestiti dagli IACP, ATER, ecc.), abbiamo questi risultati:
un terzo delle famiglie ha redditi inferiori a 10 mila euro l’anno;
la morosità, attestata nel 2011 intorno al 20% del totale degli assegnatari, è in ulteriore aumento a causa dell’impoverimento di massa causato dalla crisi;
vi è una fortissima presenza di anziani (sono segnalate oltre 400 mila persone con più di 65 anni nel comparto);
145 mila sono le persone con disabilità.

E’ del tutto lampante che solo un porzione minima dell’intera popolazione residente oggi nell’ERP, valutabile in non più del 10 – 15%, potrebbe affrontare l’acquisto all’asta o esercitare il previsto diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione.

In pratica, si realizzerebbe il paradosso che potrebbero acquistare la casa popolare solo coloro che possiedono un reddito superiore alla decadenza (quelli che dovrebbero essere accompagnati verso il social housing, rimettendo l’alloggio nel circuito dell’affitto sociale).

Se il patrimonio venisse quindi posto in vendita all’asta (per singoli alloggi o come abbiamo visto per immobili interi) sulla base del prezzo di mercato, la conseguenza ovvia sarebbe che passerebbe di mano a terzi soggetti, almeno per le parti più appetibili dal mercato.

Si sommerebbero tre effetti negativi: rischi speculativi molto alti (specialmente nel caso delle aste di interi fabbricati); conseguenze sociali devastanti (se gli immobili abitati passano a terzi, lo sfratto degli abitanti è la logica conseguenza); dissesto del comparto ERP, di fatto trasformato, più di quanto sia ora, in “bad company”, essendo previsto il mantenimento del patrimonio più degradato e senza interesse da parte del mercato.

Tre ragioni, ognuna di per sé valida, per affermare che sarebbe saggio ritirare un progetto che è al tempo stesso socialmente iniquo e senza prospettiva per il settore ERP.

Sembra davvero inconcepibile che il governo si avvii nell’avventura senza ritorno del completo azzeramento dell’intervento pubblico nelle politiche abitative, in una condizione generale di acuta sofferenza abitativa segnata da dati incontrovertibili: 700 mila famiglie, utilmente collocate nelle graduatorie comunali senza risposta; oltre 200 mila sfratti nei soli ultimi 3 anni (di cui il 90% per morosità); circa 1 milione e mezzo di famiglie in difficoltà a pagare l’affitto; una carenza di almeno 1 milione di alloggi sociali.

Eppure, una strada alternativa sarebbe percorribile.Tre sono le mosse per renderla praticabile: ritirare i processi di dismissione che mettono a rischio la coesione sociale, investire sul recupero e riuso ai fini della residenza sociale del già costruito, finanziare questa operazione cominciando a tagliare finalmente le unghie alla rendita immobiliare parassitaria.

La riflessione alimentare e ambientale globale stimolata dai temi di Expo 2015, al tempo stesso introduce e schiva certi aspetti territoriali su cui vale certamente la pena soffermarsi meglio. Corriere della Sera, 4 dicembre 2014, postilla (f.b.)

La Rivoluzione Verde, termine coniato per indicare un processo basato sull’innovazione tecnologica applicata all’agricoltura il cui inizio si fa risalire alla seconda metà degli Anni 40, ha mostrato nel lungo periodo i suoi fallimenti. Le stime delle Nazioni Unite, infatti, mostrano che oggi ancora una persona su otto soffre la fame, e, nonostante le statistiche in questo senso mostrino un considerevole miglioramento dai primi Anni 90, si tratta ancora di un livello inaccettabile.

La promessa di avere cibo sicuro, abbondante e nutrizionalmente adeguato per tutti, quindi, è stata disattesa. Tale fallimento, evidente a decenni di distanza dall’avvio del processo di innovazione che avrebbe dovuto affrancare l’umanità dalla fame, è nelle assunzioni sulle quali è stato basato, secondo cui abbondanti risorse idriche ed energia a basso costo sarebbero sempre state disponibili a supportare l’agricoltura moderna nel quadro di un clima stabile.

I dati sullo stato dell’agricoltura mondiale mostrano invece criticità nuove, con cui il settore agricolo non si era ancora misurato. In alcune delle maggiori aree a vocazione cerealicola il tasso di incremento delle rese delle colture sta diminuendo sensibilmente, in quanto si è ormai quasi raggiunto il limite della massima resa ottenibile. I sistemi agricoli sono profondamente cambiati nella loro struttura e, principalmente a causa della mancanza di meccanismi di regolazione ecologica, le monocolture basate su una alta dipendenza dall’utilizzo di pesticidi hanno preso il sopravvento. L’impiego di sostanze chimiche negli ultimi 50 anni è aumentato in maniera drastica fino a raggiungere le 2,6 milioni di tonnellate all’anno, con un giro di affari su scala globale pari a oltre 25 miliardi di dollari americani.

Tornando ai numeri della fame mondiale di cui si è accennato, è importante riflettere sul fatto che quel miliardo di persone che ancora non ha accesso a cibo in quantità e qualità sufficiente per condurre una vita sana e attiva, non è in realtà legato a una mancanza di risorse. Globalmente, infatti, viene già prodotto cibo in quantità sufficiente da sfamare tra i nove e i dieci miliardi di persone, cifra che corrisponde al picco di popolazione previsto per il 2050. Il vero problema alla base di una ancora così ampia diffusione della fame nel mondo è la congiunzione di povertà e ineguaglianza che colpisce una porzione assai ampia della popolazione mondiale.

Appare quindi evidente e necessario che l’umanità elabori un nuovo e alternativo paradigma di sviluppo agricolo che promuova fortemente dei sistemi produttivi che siano ecologicamente fondati, altamente biodiversi, più resilienti e sostenibili, e inseriti in un quadro di maggiore giustizia sociale. La base per questi nuovi sistemi è tutt’altro che teorica e si ritrova nella miriade di sistemi agricoli fondati sui principi dell’ecologia realizzati e perpetrati da almeno il 75% degli 1,5 miliardi di piccoli proprietari terrieri, aziende a conduzione familiare e popolazioni indigene sparsi per il mondo. Il loro contributo alla produzione agricola mondiale è di inestimabile valore: nelle circa 350 milioni di piccole unità produttive che coltivano, producono non meno del 50% della produzione globale destinata al consumo domestico.

Da questi sistemi produttivi l’agroecologia trae il suo fondamento. L’agroecologia si basa su principi propri dell’ecologia che vengono applicati nella gestione sostenibile degli agroecosistemi attraverso la sostituzione degli input esterni con i processi che naturalmente alimentano un agroecosistema, quali, per dire, la fertilità del suolo e il controllo biologico delle specie che vi coabitano.

Motore di questo profondo cambiamento che l’agricoltura moderna dovrà intraprendere sono quindi i sistemi che traspongono nella pratica quella ricca e variegata conoscenza tradizionale basata su una profonda integrazione con l’ambiente. Determinante è stato il mantenimento di un’ampia diversità genetica e tecnica che ha consentito negli anni di costruire e mantenere sistemi stabili nel tempo. È soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che risiede la maggior parte della popolazione contadina indigena depositaria di questo sapere. Dunque è proprio il Sud del mondo a detenere il maggiore potenziale agroecologico per produrre abbastanza cibo a livello globale procapite non solo per sfamare l’attuale popolazione, ma anche quella dei prossimi decenni.

postilla
Dando per scontato che il dibattito sulle tecniche di sfruttamento agricolo del pianeta sia ampiamente aperto, è da sottolineare come esista un potenziale importantissimo ruolo delle città, e aree metropolitane, almeno come luogo di elaborazione e sperimentazione di modalità diverse e più avanzate di uso del territorio, sia in funzione agricolo-alimentare che urbana e sociale. E il riferimento non è tanto al ruolo, pur documentatamente importante, della classica agricoltura urbana, o della complementare necessità di contenere il consumo di suolo pro capite proprio per destinare superfici a scopi ambientali e alimentari. Ma prevalentemente al medesimo aspetto toccato dall'Autore, ovvero delle specifiche tecnologie di coltura, che in ambiente urbano vedono l'emergere della cosiddetta vertical farm, purtroppo oggi penalizzata da certi approcci ideologici estetizzanti e immobiliaristi. La base di questa teoria in realtà è la stessa dell'articolo, ovvero l'urgente necessità da un lato di incrementare la produzione alimentare, dall'altro di farlo riducendo e tendenzialmente azzerando gli impatti negativi sulla biodiversità e l'ambiente in generale, accumulati soprattutto dalla novecentesca rivoluzione verde che ha mutato il significato di agricoltura in senso industriale. Una discussione ampiamente aperta, ovviamente, che ho provato ad affrontare in un seminario nell'ambito di Iconemi sui temi Expo, e che merita certamente di essere sviluppata da vari punti di vista. Il testo completo è in corso di pubblicazione, il link è semplicemente al
powerpoint della conferenza Altri articoli sul tema della Vertical Farm al sito Città Conquistatrice (f.b.)

Siracusa. La Sicilia, com'è noto, dal 1977 ha una gestione dei Beni Culturali autonoma. A tale peculiare ordinamento, che la distingue anche dalle altre regioni a statuto speciale, si deve, fra gli altri inconvenienti, che quel che vi accade spesso sfugge all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale. In virtù di ciò, risulta anche agevole sperimentarvi o anticiparvi, senza destare troppo clamore e a mo' di ballons d'essai, pratiche non ancora invalse a livello centrale. Può ben dirsi che, in questo senso, la Sicilia spesso ha svolto e svolge la funzione di laboratorio e di incubatore. Sia che si sia trattato di assumere e poi stabilizzare caterve di precari negli organici dell'amministrazione, di dare in gestione ai privati quante più attività possibile (con risultati spesso disastrosi, si pensi agli scandali delle biglietterie), di ospitare eventi mondani nelle aree archeologiche, di indirizzare i propri beni museali verso le destinazioni più diverse e bizzarre (un fragilissimo Antonello a Rovereto, le teste romane di Pantelleria al meeting di Comunione e Liberazione, cose così!), l'Isola assai spesso ha anticipato o assecondato, spingendosi di norma più avanti, l'ultimo trend che si annunciava a livello nazionale. Del tutto prevedibile quindi che nel nuovo clima inaugurato dal Presidente del Consiglio con le sue note esternazioni («e adesso mettiamo mano alle Soprintendenze») la tendenza a non restare indietro si sia fatta sentire.

I "valzer dei soprintendenti"

Per esempio, una pratica in uso da tempo in Sicilia è quella dei continui trasferimenti o "rotazioni" - ad arbitrio dei politici di turno - dei soprintendenti e di altri funzionari, indipendentemente, per lo più, dalle loro qualifiche o attitudini. In occasione di una delle maggiori di queste operazioni, che, ai tempi di Raffaele Lombardo, interessò ben 72 dirigenti, la stampa adottò con umorismo forse involontario l'espressione di "valzer dei soprintendenti"[1]. Questa consuetudine, che a un osservatore esterno ricorda irresistibilmente il "movimento dei prefetti" del ministero degli Interni (con la differenza che il prefetto è, istituzionalmente, longa manus dell'esecutivo, mentre un soprintendente è o dovrebbe essere un funzionario tecnico indipendente), purtroppo non ha suscitato proteste di rilievo, né localmente né altrove, ed è stata subita remissivamente da parte degli stessi interessati. Persino i pochi politici in qualche misura sensibili ai temi della cultura non hanno affrontato alla radice il problema (per esempio richiamando in vita l'atrofizzato Consiglio dei Beni Culturali, oggi addirittura nemmeno rinnovato, e sottoponendo al suo parere la delicata materia delle nomine), ma, duole dirlo, hanno seguito la prassi ormai consolidata di scelte discrezionali disancorate da criteri obiettivi prefissati, in aperta violazione dello spirito e della lettera delle disposizioni legislative[2]. Col risultato che anche decisioni di per sé ineccepibili nel merito hanno offerto il pretesto o l'alibi, dopo l'uscita di scena del politico che le aveva ispirate, ai nuovi "giri di valzer" e talora alle brutali ritorsioni dei successori.

Riesami, sospensioni e revoche a Siracusa

Questa premessa era necessaria per meglio comprendere la vicenda - ancora aperta - di Siracusa, in parte nota al vasto pubblico grazie a Gian Antonio Stella e Tomaso Montanari[3], ma che vale la pena di ripercorrere per sommi capi.

Essa ebbe inizio quando l'assessore Maria Rita Sgarlata, essa stessa apprezzata archeologa, assunta la carica dopo la breve e surreale esperienza di Antonino Zichichi, si trovò davanti la questione delle nomine dei funzionari cui era scaduto il contratto. Al ruolo di soprintendente di Siracusa fu destinata la persona che obiettivamente aveva più titoli per ricoprirlo, la dottoressa Beatrice Basile, in passato responsabile della sezione archeologica di Siracusa, poi soprintendente a Ragusa ed Enna, all'epoca direttrice del museo archeologico "Paolo Orsi", e, al termine del suo contratto, disponibile per una nuova destinazione. La revoca dell’incarico all'allora soprintendente di Siracusa, l'arch. Orazio Micali, certamente con molti meno titoli, fu giustificata con la riorganizzazione degli uffici, e non attribuendogli addebiti specifici: e, anche se in quel caso la riorganizzazione effettivamente ci fu (per esempio riguardo alla ristrutturazione del sistema dei parchi archeologici), tale motivazione, per altro male argomentata, come vedremo in sede di ricorso dell'interessato sarà, con ragione, ritenuta insufficiente dal giudice.

Mentre tutti in città, più o meno sinceramente, riconoscevano i meriti e i titoli della nuova soprintendente, la sua nomina e la sostituzione del predecessore suscitarono le furiose proteste di alcuni politici locali nonché dell'associazione dei costruttori, già in fermento per la recente adozione del piano paesistico. Si badi che, in via di fatto, la dottoressa Basile non aveva e non ha "detto di no" a nessun progetto di rilievo, con l'eccezione - di cui si dirà - dell'assurda isola artificiale presente nella prima versione del progetto del porto turistico nell'area ex Spero, per la semplice ragione che non gliene fu dato il tempo. Si temeva però che potesse farlo. Che per esempio difendesse il piano paesistico da poco adottato o la perimetrazione del parco archeologico, ma soprattutto che si differenziasse dai suoi predecessori. E qui va richiamata una circostanza essenziale: che negli ultimi anni a Siracusa la soprintendenza ha, come dire, "male abituato" costruttori e affaristi, rilasciando con grande facilità pareri favorevoli, per esempio, a villaggi turistici in zone vincolate (uno costruito, altri ancora sulla carta), a ben due progetti di porti turistici concorrenti (uno, quello di Caltagirone, rimasto miseramente in tronco per le vicende di quest'ultimo e l'altro, quello con l'isola artificiale annessa, nell'area ex Spero, entrambi con vistosi profili di illegittimità emersi successivamente)[4], a una palazzina sulla balza Acradina[5], a centri commerciali, ed altro ancora. Si temeva, detto in soldoni, che "finisse la festa".

Dopo alcuni mesi, durante i quali nessun addebito da parte dell'Assessorato era stato mosso alla soprintendente, l'assessore Sgarlata, passata ad altro incarico, fu sostituita ai Beni Culturali dalla professoressa Giuseppina Furnari, dello stesso partito di un politico siracusano di spicco, l'on. Pippo Gianni, fra quelli che più si erano opposti, anche con interrogazioni parlamentari, alle nomine della Sgarlata, mentre nel gabinetto dei Beni Culturali entrava il dr. Martino Russo, già dirigente regionale all'Industria e collaboratore proprio di quel politico quando questi era responsabile di quell'assessorato. Che si debba a ciò (gli interessati smentiscono), alle concomitanti pressioni degli avversari del piano paesistico, o alle due cose insieme, sta di fatto che il nuovo assessore Furnari non mancherà sin da subito di applicare a sua volta, o comunque a lasciare che fosse applicato, l'usuale spoil system e a ribaltare la situazione. La strada più semplice sarebbe stata quella di reintegrare nel suo ruolo il predecessore della Basile, arch. Micali, che nel frattempo aveva vinto il ricorso da lui presentato contro il provvedimento di rimozione, ma la cosa fu resa impossibile dalla condanna in primo grado per abuso d'ufficio e falso che, per un'altra vicenda risalente a quando era funzionario a Messina, lo aveva colpito nel frattempo.

Cosa fare allora? Si imbastì ugualmente un "riesame" della posizione di tutti i soprintendenti, con la generica motivazione dei "profili di illegittimità" delle procedure di affidamento degli incarichi, emersi dal contenzioso giudiziario del Micali e di un altro funzionario, e della mancata registrazione dei contratti. Apparve subito chiaro, e fu fatto notare pubblicamente, come il tentativo fosse pretestuoso, visto che l'eventuale illegittimità avrebbe, se mai, potuto riguardare la rimozione del Micali (il quale però, come s'è detto, non poteva essere reintegrato) ma non certo la nomina della Basile e che la mancata registrazione dei contratti avrebbe potuto, al più, portare a una sospensione della parte economica e non del contratto stesso. Come si disse allora, si era cercato, senza successo, di "azzerare tutti per colpirne una"[6]. E allora, in un climax che ricorda la favola del lupo e dell'agnello, si tentò un'altra strada. Era circolata in quei giorni una lettera anonima relativa all'ormai nota piscina prefabbricata della Sgarlata. A questa fece seguito, senza comunicazione dell'oggetto, e senza dare all'interessata la possibilità di contraddittorio, un'ispezione che si concluse col sequestro di alcuni fascicoli. Del tutto irritualmente e illegittimamente, dell'ispezione non fu redatto alcun verbale né della relazione conclusiva fu data visione alla soprintendente se non, dietro sua richiesta, alcune settimane dopo il provvedimento di sospensione, a sua volta motivato genericamente "per accertamenti".

Ma, nel merito, quali erano gli addebiti che si muovevano alla soprintendente? Era preponderante la vicenda della piscina dell'assessore Sgarlata (la quale nel frattempo s'era dimessa dopo essere stata pesantemente attaccata dal Presidente della Regione) e si parlava di mancato rispetto dei termini del procedimento. Se fosse stata interpellata circa tali addebiti, come previsto dalla legge, la dottoressa Basile avrebbe potuto replicare – come poi farà – che analogo criterio nel rilascio di tali permessi era stato seguito dalla soprintendenza di Siracusa in tutti i casi analoghi, sia sotto la propria gestione che sotto quella del suo predecessore, senza che l'amministrazione vi avesse mai trovato niente da eccepire. Ma, come s'è detto, non le fu data la possibilità di replicare agli addebiti che porteranno alla sua immediata sospensione[7]. A completare il quadro, va aggiunto che, mentre dalla procura, rumorosamente investita del caso dal presidente Crocetta, non era e non è ancora giunto alla dottoressa Basile alcun avviso di garanzia, il suo sostituto ad interim, arch. Carmelo Rizzuto, è imputato per aver illegittimamente autorizzato un ampliamento della villa di Ispica dell’allora presidente Raffaele Lombardo. Analogo double standard, del resto, era adottato anche a livello politico dal presidente Crocetta: per limitarsi al caso di Siracusa, questi "cacciava via" (per usare le sue parole) l'assessore Sgarlata, nemmeno indagata, mentre, ironia della sorte, proprio in quelle settimane il principale antagonista della Sgarlata a Siracusa (e allora sostenitore con voto determinante della giunta Crocetta) riceveva un avviso di garanzia con l'accusa di corruzione assieme al suo ex collaboratore Martino Russo (allora nel gabinetto della Furnari) per la vicenda del parco fotovoltaico di Monreale (2009-2010), nella quale le intercettazioni della Guardia di Finanza avrebbero svelato "un vorticoso giro di mazzette"[8].

Colpirne tre per educarne cento

Ma l'opera non era completa e l'epurazione della soprintendenza andava portata fino in fondo. Preannunciata minacciosamente alla metà di settembre, con l'avallo, a quanto sembra, dello stesso Crocetta[9], ai primi di novembre era disposta la proposta di nuove assegnazioni per i dirigenti Rosa Lanteri, Alessandra Trigilia e Aldo Spataro, responsabili rispettivamente delle sezioni archeologica, paesaggistica e architettonica, la prima dei tre vincitrice un anno fa del premio intitolato a Umberto Zanotti-Bianco. Con motivazioni , se possibile, ancora più risibili di quelle usate per la Basile, cioè richiamando addirittura la normativa anticorruzione. La quale per altro, se anche fosse applicabile nel caso in ispecie, prevederebbe che non si possa ricoprire lo stesso ruolo per più di cinque anni, mentre due degli interessati vi erano stati nominati solo da tre o quattro, e la terza, pur avendo prestato servizio all'interno dell'ufficio per più di cinque anni, non vi aveva ricoperto l'incarico di dirigente responsabile per uguale periodo. Una misura poi che, se non si fosse trattato di un pretesto, avrebbe dovuto interessare tutte le soprintendenze, ma che, singolarmente, si rivolgeva solo a quelle di Siracusa e di Agrigento: proprio quelle, cioè, i cui piani paesistici erano più fortemente contestati. Tanto più odiosa, infine, in quanto volta a colpire tre funzionari già "sotto tiro" e oggetto di richieste di risarcimento milionarie da parte di imprese costruttrici, esponendoli a danni ulteriori. Perché delle due l'una: o quelle richieste erano e sono infondate, come risulta da tutti i ricorsi amministrativi finora avviati dalle ditte e respinti dai tribunali[10], e allora l'amministrazione ha il dovere di difendere fino in fondo i propri funzionari, così come ha fatto in giudizio l'avvocatura dello Stato, o, se invece essa le ritiene in qualche misura giustificate, deve motivare con questi addebiti specifici la loro rimozione. Come se ciò non bastasse, il provvedimento, a firma del dirigente generale Salvatore Giglione, veniva emanato il giorno prima che il nuovo assessore Antonio Purpura assumesse il suo incarico, quasi a volerlo mettere davanti al fatto compiuto. Inutile sottolineare la scorrettezza, a dir poco, di tale condotta.

In tal modo si è cercato di "normalizzare" la soprintendenza di Siracusa e di mettere in riga, uno per uno, i tre responsabili della redazione e della difesa (finora) del piano paesistico, esattamente come richiesto dal "partito del cemento" cittadino, a severo monito di chi osasse imitarli.

La situazione, attualmente, è complicata dal sovrapporsi dei decreti di nomina dei successori, i quali hanno già preso servizio, con quelli di revoca, non accettati dai destinatari e al momento, a quel che si sa, sospesi a seguito dell’intervento del nuovo assessore. Ovviamente tutti e tre gli "epurati", se del caso, potranno presentare ricorso, ma i provvedimenti, nella loro rozza illegittimità, sono immediatamente efficaci, a meno che, com'è auspicabile, non vengano revocati, mentre i tempi della giustizia sono quelli noti. Ed è in queste condizioni, con il personale disorientato e intimidito e gli uffici in disordine, che la soprintendenza nei prossimi mesi rischia di dover affrontare una serie di impegni di estrema delicatezza: discussione e approvazione del piano paesistico, pareri su lottizzazioni, villaggi e porti turistici, revisione del Prg, proposte di nuova delimitazione di aree protette, ed altro ancora.

"E quindi abbiamo deciso di sostituire il soprintendente..."

Quale sia stata l'intenzione della dirigenza dei Beni Culturali (per fortuna non condivisa, come ora sappiamo, dal nuovo assessore) è spiegato con chiarezza in un'intervista che il dirigente generale Giglione, firmatario del provvedimento, ha ritenuto di rilasciare[11]. Si tratta di un documento prezioso, in un certo senso rivelatore, e che merita citare e commentare per esteso.

«Non vogliamo che le soprintendenze diventino centri di potere, e laddove è necessario interverremo» - questo l'esordio - Le soprintendenze devono occuparsi della tutela, in osservanza delle leggi, ma non essere «freno fine a se stesso. La prima mossa è stata Siracusa, ma interverremo ovunque sia necessario, come stiamo già facendo altrove». A Siracusa, prosegue Giglione, «abbiamo notato una situazione strana, in merito alla mancata omogeneità del trattamento di alcune pratiche. E quindi abbiamo deciso di sostituire il soprintendente Beatrice Basile. Decisione che, non appena annunciata, ha scatenato un putiferio che ci ha convinto ancor più che qualcosa non andava. Quest'attaccamento eccessivo ai ruoli è stata per me la dimostrazione che occorreva cambiare rotta». Si può osservare che, se la soprintendente che sulla base di lettere anonime il dirigente di Palermo «aveva deciso di sostituire» avesse avuto, come la legge prevede, la possibilità di presentare le proprie osservazioni prima della sostituzione, si sarebbe chiarito che quella «mancata omogeneità» di trattamento semplicemente non esisteva. Quanto alle proteste (non da parte dell'interessata, che non ha aperto bocca fino a pochi giorni fa) ma di cittadini, personalità della cultura e associazioni del più vario orientamento, queste erano il minimo che ci si potesse attendere, dopo settimane di attacchi e di mobbing, a quell'annuncio. Evidentemente per l'ing. Giglione il fatto che associazioni e cittadini interessati alla difesa dei beni paesistici difendano il soprintendente che difende quei beni quando, proprio per tale ragione, viene attaccato e poi sospeso è la prova del nove che «qualcosa non va”! Quanto alla «rotazione» degli altri tre, per l'ing. Giglione essa «è un fatto amministrativo normale. D'altronde - sostiene - per i tre funzionari nulla cambia: stesso stipendio, stessa città”». Di che si lamentano, se lo stipendio corre uguale! E poi, aggiunge Giglione, «noi applichiamo la legge Severino e il piano anticorruzione che non è certo punitivo, bensì preventivo. Quello che può destare sospetto non è l'avvio di una rotazione, semmai l'eccessiva difesa di qualche permanenza». Pare di sognare: mentre si apprende che funzionari indagati con l'accusa di corruzione sono stati lasciati al loro posto per anni e anni (è esplosa da poco la vicenda, con tanto di arresti, di funzionari del servizio Via), altri che possono vantare solo premi e benemerenze e verso i quali nessun addebito di alcun genere è stato mosso, se non, se mai, da parte di politici indagati (loro sì!) per corruzione, vengono illegittimamente fatti "ruotare" prima dei termini previsti dalla stessa legge che s'invoca a sostegno, e per di più in presenza di un contratto già sottoscritto dal precedente dirigente generale! E attenzione, prosegue minacciando l'ing. Giglione, anche altre soprintendenze sono nel mirino. «A Siracusa come nel resto della Sicilia la soprintendenza è sempre un centro della gestione del potere locale. È normale che le decisioni degli uffici interferiscano con la costruzione di strutture ricettive, nascita di edifici eccetera. In un territorio cosi ricco di beni da tutelare, il ruolo della soprintendenza e dei suoi uomini diviene nevralgico. Nulla di personale contro nessuno, ma quando ci siamo accorti di pratiche espletate in maniera troppo veloce ed altre che languono, oppure iter autorizzati [sic] e altri fermi, abbiamo deciso di intervenire come la legge ci impone. Il nostro compito è garantire l'imparzialità e su questa scia continueremo. Un principio che è obbligo di legge». Peccato che la stessa indignazione che l’Assessorato manifesta per le pratiche a suo dire "troppo veloci" non l'abbia mostrata, per esempio, nei confronti del soprintendente Micali. Il quale ad esempio, unico firmatario di un’autorizzazione rilasciata in ventiquattr’ore, per un impianto fotovoltaico sul tetto dell’abitazione di un notabile di Augusta in pieno centro storico, d'altro verso aveva bloccato e tenuto fermo per mesi un parere già sottoscritto dal responsabile dell'unità operativa competente (guarda caso una degli epurati) facendo così scattare il silenzio-assenso, con conseguente successivo annullamento da parte del Tar del relativo provvedimento (guarda caso ancora, riguardante uno dei villaggi turistici che tanto stanno a cuore al partito del cemento) e alimentando, per altro vanamente, nuove aspettative circa l'edificabilità di quell'area[12].

Ma, a parte la critica per l'asserita eccessiva velocità, manca nell'intervista del dirigente ogni accenno ad addebiti concreti, a cominciare dalla famosa piscina. Le vere ragioni del provvedimento invece sono espresse poco appresso: «Non ho nulla di personale nei confronti dei dirigenti, che, tra l'altro, non conosco, così come nei confronti della dottoressa Basile: un'ottima archeologa, una grande professionista e di cui riconosco l'elevata professionalità. Il punto nodale è proprio questo: quando si parla di beni culturali e gestione, occorre comprenderne i ruoli. Un grande archeologo può lavorare meglio all'interno di un museo, per esempio, che alla guida di un ente amministrativo». Finalmente un po' di sincerità! Per i tecnici (archeologi e storici dell'arte) ci sono i musei, se ne stiano lì a catalogare i loro cocci e non piantino grane. Le decisioni che contano, quelle che possono "interferire", per esempio, con le "strutture ricettive" o la "nascita di edifici", non toccano a loro. L'ideale (lo si capisce dal paragone che Giglione fa poco dopo con sé stesso)[13] sarebbero degli amministrativi come lui, gente insomma che sa stare al mondo, intercambiabile e buona per tutte le stagioni e tutti gli incarichi. E se ancora a ciò non siamo arrivati e ci sono ancora dei tecnici fra i piedi (ma, Renzi aiutando, ci si arriverà), pazienza, si farà in modo che il soprintendente non sia scelto secondo il suo curriculum e i suoi meriti ma per le sue attitudini "pratiche" (a valutarle ci penserà l'ing. Giglione), e che possibilmente si occupi di qualcosa che non ha la minima attinenza con i beni che gli sono affidati. Che, per esempio, nella capitale della Magna Grecia non capiti, non sia mai, un archeologo, in modo da ridurre al minimo il rischio di "interferenze".

Con buona pace, a Siracusa, delle ombre di Paolo Orsi e di Luigi Bernabò Brea.

Oggi in Sicilia, domani in tutta Italia?

Come anticipato dallo stesso Giglione, Siracusa è solo un inizio. Si ha notizia dalla stampa di altri trasferimenti: per esempio di funzionari che ricoprivano "ruoli molto delicati" (gestione di fondi europei, tutela, gare di appalto) spostati di dipartimento alla Soprintendenza di Palermo. Anche in questo caso, almeno a detta dei loro rappresentanti sindacali, senza alcuna valida giustificazione[14].

Che d'altronde la piaga dei trasferimenti arbitrari dei tecnici in Sicilia non riguardi il solo settore dei Beni Culturali, è provato da una vicenda non meno scandalosa di quella della dottoressa Basile e dei suoi tre colleghi di Siracusa, anche se non con il pretesto ipocrita della lotta alla corruzione: l'allontanamento dal suo ufficio dell'ingegnere capo del Genio Civile di Messina, Gaetano Sciacca. La colpa, nel suo caso, è stata di essersi opposto con fermezza ad alcune ben individuate iniziative edilizie in un territorio martoriato dalle frane e dalle alluvioni e perennemente a rischio. Ciò gli ha valso l'ostilità implacabile del locale partito del cemento e la conseguente rimozione[15]. E purtroppo, anche in tale occasione, il "rivoluzionario" Crocetta ha dimostrato da che parte sta.

Ma da che parte stanno, a questo punto, devono dirlo tutte le persone coinvolte in questi episodi. A cominciare dal nuovo assessore ai Beni Culturali, il quale ha adesso la possibilità di porre rimedio a una situazione incresciosa di cui non porta la responsabilità. Da alcune sue recentissime dichiarazioni apprendiamo che, per fortuna, non condivide la filosofia "rotatoria" del suo dirigente generale. E, in particolare, non sembra condividere gli esiti di un provvedimento insieme ingiusto e odioso emanato, con irridente protervia, il giorno prima del suo insediamento. Ma, in questa occasione, gli si offre l'opportunità di fare qualcosa di assai più importante della correzione di un abuso. Quella di distinguersi da tutti i suoi predecessori e di fissare in via definitiva, meglio se attraverso atti di indirizzo e circolari e col supporto del Consiglio dei Beni Culturali, delle linee guida vincolanti riguardo alle nomine dei dirigenti, che le rendano effettivamente conformi alle leggi e alla Costituzione. E con riferimento non solo all'art. 9 ma anche all'art. 97, a tutela - come ammonisce, nella citata deliberazione, la Corte dei Conti - «della necessaria indipendenza di azione che la dirigenza deve possedere rispetto al decisore politico».

La rimozione dell'ing. Sciacca e quella, tentata, dei funzionari di Siracusa, infatti, richiama con forza proprio il tema dell'indipendenza dei dirigenti e, contestualmente, quello della corruzione, invocato così poco a proposito in quei provvedimenti. Come in tutti gli uffici, anche nelle soprintendenze la corruzione può farsi strada, e nelle forme più varie: magari solo accelerando l'iter di un pratica legittima o addirittura millantandone l'esito positivo, senza nemmeno intervenire, presso qualche postulante. Ciò certo può accadere. Ma chi conosce la dinamica degli appalti in Sicilia, ormai messo in luce da infinite inchieste giudiziarie, è in grado di ricostruire un meccanismo che si ripete con pericolosa regolarità: quello dell'impresa che si rivolge al politico del luogo perché si faccia "garante" del proprio progetto e ne spiani la strada, facilitandone l'iter presso tutti gli uffici interessati (comune, genio civile, soprintendenza, regione). Il corrispettivo, in molti casi, non è più la vecchia tangente, agevolmente tracciabile, ma una sorta di patrocinio informale, a volte monopolistico, sulle assunzioni di personale in quel complesso. Talché, ad esempio, accade che i poveri giovani in cerca di lavoro finiscono col presentare direttamente a quel politico, prima ancora che all'impresa, il proprio curriculum. Trattandosi di assunzioni da parte di privati, il fatto corruttivo sotto il profilo penale è difficilmente individuabile. Purtroppo questo fenomeno, triste e umiliante, è diffusissimo e può essere colto facilmente, a prima vista, dal semplice esame della provenienza geografica degli assunti in ciascun complesso, qualora questa venga a coincidere in prevalenza col bacino elettorale del politico in questione (il caso dei centri commerciali, anche a Siracusa, è illuminante). Naturalmente, perché il sistema funzioni, va assicurata la "benevolenza" degli uffici, e soprattutto che non ci sia il rischio che a qualche funzionario, diciamo, poco accomodante, salti in mente di mettersi di traverso. Ed è per questa ragione che proprio la "rotazione" dei funzionari, sulla carta intesa a limitare i fenomeni corruttivi, rischia di avere l'effetto opposto se applicata ad hominem e prima della scadenza degli incarichi (in via "preventiva", per usare le parole dell'ing. Giglione). Tanto più se contro funzionari che, non foss'altro per gli attacchi che hanno ricevuto e ricevono, danno prova di essere tutto meno che a rischio di corruzione!

Attenzione, infine. L'esternazione del direttore generale non è estemporanea. Ripete, a volte usando le identiche parole (le soprintendenze come "centro di potere", "freno", ecc.), concetti espressi negli ultimi mesi dal Presidente del Consiglio e dai suoi esegeti[16]. La differenza sta nel fatto che in Sicilia si è cercato di passare brutalmente dalle parole ai fatti. Come s'è detto all'inizio, in ciò si può scorgere una sorta di "prova generale". Dalla reazione che questa e analoghi conati susciteranno nel mondo della cultura e nella società civile dipenderà se saranno replicati in Italia[17]. I casi della dottoressa Basile e dell'ingegnere Sciacca non sono soltanto, quindi, gravi in sé, e non è solo per doverosa solidarietà verso funzionari integri e incolpevoli che vanno denunciati. Devono anche essere avvertiti come un pericoloso precedente e un campanello d'allarme.

[1] Ad es. La Sicilia, Ecco il valzer dei soprintendenti, 2 set. 2010. Ma anche, anni dopo, La Repubblica (Palermo), Beni culturali, valzer di soprintendenti, la Sgarlata sceglie sei donne su nove. Premiata l'area Crocetta, ecc., 25 ott. 2013.

[2] Ai sensi dell'art. 19, c. 1 del d.lgs. 165/2001 (ripreso quasi testualmente dal Contratto Collettivo Regionale di Lavoro del personale con qualifica dirigenziale, art. 33, comma 8), "ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute". Come di recente precisato dalla Corte dei Conti, ricade sull'amministrazione, quando si trova ad operare scelte discrezionali, l'obbligo di ancorarle a criteri oggettivi e fissati ex ante, "tali da poter formare oggetto di evidente riscontrabilità riguardo all’effettivo perseguimento dell’interesse pubblico in gioco; interesse pubblico che si consustanzia nell’individuazione del più capace tra i diversi aspiranti". Ciò "a tutela, tra l’altro, della necessaria indipendenza di azione che la dirigenza deve possedere rispetto al decisore politico" (Deliberazione Sez. Reg. Controllo Lazio, n° 51/2012 Prev.). La prassi invalsa in Sicilia ripropone invece costantemente proprio quanto sopra denunciato, ossia scelte spesso fondate esclusivamente "ex intuitu personae" e sganciate, di fatto, da ogni parametro oggettivo. L'ulteriore specificazione rispetto alla normativa nazionale di cui all'art. 9, comma 1 della l. r. 10/00 sulla dirigenza ("applicando di norma il criterio di rotazione degli incarichi") ovviamente incoraggia quei comportamenti e ne aggrava gli effetti. Si consideri poi come la risoluzione anticipata dei contratti che ai sensi dell'art. 41, comma 1° del citato Contratto Collettivo potrebbe essere invocata solo “per motivate ragioni organizzative e gestionali” corra il rischio di essere adottata arbitrariamente, per esempio attraverso “riorganizzazioni” meramente strumentali o fittizie.

[3] T. Montanari, Azzerare tutti per colpirne una, Il Fatto Quotidiano, 13 ago. 2014 ; Id., Meno funzionari, più cemento, 10 set. 2014; G. A. Stella, Se il sovrintendente è difeso dal geometra, Corriere della Sera, 6 nov. 2013; Id., Bravi, scomodi, dunque rimossi, 8 nov. 2014.

[4] Quest'ultimo sarà opportunamente ridimensionato proprio ad opera della dottoressa Alessandra Trigilia (uno dei tre funzionari poi rimossi) e della soprintendente Basile. Si veda, per qualche dettaglio, G. A. Stella, Quel «no» alla speculazione che costa 200 milioni, Corriere della Sera, 9 giu. 2012.
La storia, ancora da scrivere, dei tanti progetti di porti turistici a Siracusa, succedutisi caoticamente a partire dagli anni '70 e tutti abortiti (spesso per contrasti fra i rispettivi referenti politici), testimonia nel modo più chiaro l'inconcludenza e l'incapacità progettuale delle sue classi dirigenti.

[5] Il parere di massima (favorevole ma con prescrizioni) della dottoressa Trigilia l'11 lug. 2013 fu avocato dallo stesso soprintendente Micali, «vista la scadenza dei termini istruttori e la necessità di non prorogare i termini anche per aspetti economici e occupazionali del settore edile» (!), con esito positivo e senza le prescrizioni.

[6] Cf. Montanari, Azzerare, cit.

[7] Pubblicamente lo farà solo parecchio dopo, si veda la sua intervista del 18 nov. 2014, Livesicilia.it.

[8] La Repubblica (Palermo), 24 lug. 2014; ivi la smentita dell'on. Gianni.

[9] «Crocetta ha convocato a Palazzo d'Orleans il dirigente generale del Dipartimento Beni Culturali, Rino Giglione, per avviare la rotazione di tutto il personale (!) in servizio alla Sovrintendenza di Siracusa», La Sicilia, 15 set. 2014.

[10] Cf. C. Maiorca, Sovrintendenza Siracusa, Purpura e i funzionari anti-cemento rimossi, L'Oraquotidiano.it, 12 nov. 2014

[11] I. Di Bartolo, Soprintendenze, intervenuti di fronte a pratiche molto veloci a fronte di altre che languono, La Sicilia, 14 nov. 2014.

[12] Accolto il ricorso. Ognina, villaggio turistico. Il Tar: "Si può costruire", La Sicilia, 25 ott. 2014. E invece, con buona pace de La Sicilia, non si può costruire! Il Tar ha sì annullato, e non poteva fare altrimenti giusta l'oscena legge sul silenzio-assenso, quel parere "imboscato" dal soprintendente e giunto fuori tempo, ma restano ferme le prescrizioni del piano paesistico e soprattutto la successiva Valutazione d'impatto ambientale, che di quelle, del parere della soprintendenza e di altre norme comunitarie sovraordinate non potrà non tenere conto.

[13] «Io stesso ho ricoperto vari incarichi tra gli uffici regionali, non vedo nulla di strano nella mobilità».

[14] La soprintendenza di Palermo, a corto di personale, avrebbe inoltrato diversi atti di interpello, cf. Sicilia: governo, personale e pasticci: Dipendenti spostati senza riflettere, Blogsicilia.it, 14 nov. 2014.

[15] G. A. Stella, Rimosso l'ingegner Sciacca che voleva salvare Messina. Qui costruiscono sulle frane. Da capo del Genio civile al Comune bloccò palazzi di 8 piani su crinali a rischio, Corriere della Sera, 20 ott. 2014.

[16] Illuminante in proposito la lettura dello sciagurato articolo-manifesto di Giovanni Valentini, Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d'Italia, La Repubblica, 9 mar. 2014, apparso, non certo per caso, alla vigilia dell'insediamento del governo Renzi: «Le soprintendenze - ha detto allora il neopresidente del Consiglio - sono un potere monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini». E ancora: «Troppo spesso, in realtà, le soprintendenze diventano fattori di conservazione e protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo e dell'economia. Oppure, in qualche caso, centri di potere personale. La Penisola è piena... di opere bloccate o incompiute, a causa di ritardi, pastoie e lungaggini burocratiche, ecc.». Che antenne sensibili hanno i dirigenti generali!

[17] Da segnalare, a Siracusa, lo sconsolato - e ahimè tardivo - intervento dell'ex soprintendente Giuseppe Voza: Così la politica regionale sta snaturando i beni culturali, La Sicilia, 19 nov. 2014.

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«Le prospettive aperte, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile. Ma il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, esclusi da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy». Today.it, 24 Novembre 2014

Appena è diventata ufficiale la notizia, ampiamente anticipata, del premio International Highrise conferito al Bosco Verticale di Milano, si sono scatenate le critiche dei dubbiosi. Intendiamoci: la maggior parte dei commenti su stampa e web erano ampiamente positivi, ma più che alla sostanza parevano badare all'aura mistica in perfetto stile archistar che aleggia sempre attorno a questi progetti. E le motivazioni ufficiali del premio parevano addirittura più simbolicamente barocche del pieghevole pubblicitario dell'immobiliare, nello sperticarsi in lodi sulla capacità del progetto di riportare l'uomo alla natura, o addirittura di costituire un modello per la città densa del terzo millennio.

I dubbiosi, magari polemici, magari addirittura scurrili nella loro diffidenza faziosa, coglievano però un punto assai evidente: e che sarà mai un palazzone con le vasche a fioriera? La risposta potrebbe darla la schiera di tecnici internazionali che ha reso possibile non solo piantare a quell'altezza alberi maturi e farli convivere con appartamenti abitati, ma anche avviare una sperimentazione socio-ambientale. Però si tratta di una risposta ancora in linea con l'approccio tutto interno all'architettura del premio International Highrise.

Assumono una prospettiva più interessante, le critiche anche più sarcastiche al Bosco Verticale, se le inquadriamo in una più generale perplessità su alcuni progetti di verde urbano a dir poco ideologici, che in ordine sparso si stanno conquistando parecchia notorietà da qualche anno. Il primo è stato quello della High Line a Manhattan, ex viadotto ferroviario dismesso che invece di essere abbattuto è stato – nel quadro di una assai più ampia politica di valorizzazione immobiliare e riqualificazione – arredato a verde con tecniche innovative, e rivenduto all'opinione pubblica come nuovo modello di parco, anziché passeggio, o area pedonale che dir si voglia. Lì vicino, al Pier 55 sul fiume Hudson, i medesimi promotori hanno già presentato e portato parecchio avanti nel processo di approvazione finale un secondo e più grande “parco tecnologico” montato su piloni, che più o meno come il ponte ferroviario è del tutto artificiale e serve un'area di valorizzazione e riqualificazione di iniziativa privata. A Londra si sta concludendo il percorso del Garden Bridge sul Tamigi, organizzato come una specie di green shopping mall ad accesso limitato e forse a pagamento, negazione dello spazio pubblico, mentre a Singapore la limitatezza dello spazio (così ci raccontano) obbliga gli amministratori della città-stato a cercare i parchi in cielo, con giganteschi Alberi artificiali.

Cos'hanno tutti questi diversissimi progetti in comune, tra di loro e con le torri “a fioriere” del Bosco Verticale di Milano? Come intuiscono vagamente i critici nei loro sfottò, una certa tendenza a prendere per i fondelli il pubblico: da un lato aprono potenziali prospettive per la città del futuro, ma in buona sostanza ne chiudono di assai più vaste. Le prospettive aperte, inutile sottolinearlo, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile, ma tutto si intuisce ha un prezzo. In questi casi il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, noi strabordante maggioranza esclusi prima da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e anche quando liberamente accessibili come nel caso della High Line, facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy. Nel caso delle torri milanesi, evidentemente, la privatizzazione doppia del bosco salta ancora di più all'occhio, e il “modello per la città futura” non dichiarato lo intuiscono anche i più distratti: è la fortezza dei ricchi assediata dal disastro. Ma siamo sicuri che i progettisti-progressisti, invece, volessero con la loro provocatoria opera di architettura esattamente denunciare questo rischio. O no?
Today/Città Conquistatrice

Gli affari spingono senza tregua per devastare una Piana che per decenni si è voluta mantenere intatta; per distruggere un millenario assetto idrogeologico e unire in un’unica marmellata centri urbani che hanno voluto rimanere distinti; per far prevale gli interessi economici privati sugli interessi della collettività. Cittadini Area fiorentina, 22 novembre 2014

Lo scorso 6 novembre AdF (Aeroporto di Firenze) ha presentato in Palazzo Vecchio il
Master Plan 2014-29 con la previsione della nuova pista di Peretola sulla cui lunghezza (2.000 m. secondo il Piano di Indirizzo Territoriale della Regione), 2.400 m. secondo ENAC) è da tempo in corso un contenzioso. Il crono programma della Società diretta daMarco Carrai prevede l’apertura dei cantieri ad agosto, dopo il rilascio, in aprile, della Valutazione di Impatto Ambientale ministeriale. Nell’ arco di 15 anni si prevede un investimento di circa 300 Mln., ripartito a metà tra pubblico e privato.

Con il nuovo Aeroporto di Firenze i passeggeri annui passerebbero dagli attuali 2 ai4,5 Mln. Ma con la fusione degli aeroporti di Pisa e di Firenze e la loro promozione in serie A finirà per prevalere la maggiore appetibilità di Firenze, smentendo la frottola del “Vespucci” come city airport per viaggiatori d’affari e della sua complementarietà con il “Galilei” di Pisa. Una volta che a Peretola si realizzasse una pista di 2.400 m. alcune compagnie low cost che attualmente operano su Pisa, potrebbero preferire direttamente Firenze.

Non è escluso che AdF punti in realtà a rivedere il PIT regionale, vista la quantità di controindicazioni e di spese che la nuova pista comporta, (salta l’operazione stadio/Mercafir, è da rifare il PUE di Castello, è a rischio la Scuola dei Carabinieri, ecc.) cercando di garantirsi piena disponibilità su tutto il territorio aperto tra Firenze e Sesto F.no e orientando a suo piacimento la pista. Del resto, in primis, le ipotesi erano addirittura 5. AdF chiede persino di rivedere il progetto di Linea 2 della tramvia: vorrebbe infatti farla giungere in sotterranea dentro la nuova stazione passeggeri.

Il Sindaco di Prato Matteo Biffoni che pur appoggiato da Renzi si era affermato nelle ultime amministrative con il No all’ampliamento dell’aeroporto di Peretola, ha cambiato verso, rinunciando al ricorso al TAR, promosso dai Comitati nei confronti dell’approvazione del PIT, i cui termini scadevano il 14 novembre. La decisione, passata a tappe forzate in Consiglio comunale dopo spasmodiche riunioni del PD e malgrado l’opposizione della cittadinanza, segna la resa dei sindaci della Piana al dictat di Renziche vuole imporre la nuova pista entro il 2017, quando a Firenze si svolgerà un G7.

Essa segna probabilmente la definitiva cancellazione del Parco della Piana, palesemente incompatibile con la nuova pista e infatti scomparso da qualsiasi dibattito.

Circa le conseguenze disastrose di un aeroporto internazionale piazzato al centro di un’area metropolitana che contiene 1/4 della popolazione dell’ intera Toscana basti qui ricordare lo spostamento del Fosso Reale, il rifacimento della viabilità e del reticolo idrografico minore in terreni idraulicamente fragili, la coesistenza con depositi di carburanti, industrie chimiche, centrali elettriche, inceneritori, oltre che centri abitati,laboratori di ricerca ed oasi ambientali.

La questione Aeroporto riguarda la Piana ma è soprattutto una questione di Firenze. Il cambio di classificazione del “Vespucci” porterà ad un aumento esponenziale dei voli, compresi quelli che sorvoleranno direttamente Firenze (il 18%, fino a 500 m. da terra).

Per chi volesse approfondire la questione rimandiamo a nostri precedenti notiziari, al sito “Piana Sana” e in particolare alle sue ottime mappe interattive.

Ci preme rimarcare invece la palese contraddizione tra le giustamenteorgogliose affermazioni del presidente Rossi, circa la recente approvazione della nuova Legge Urbanistica Toscana, che impone per la prima volta in Italia il principio dello stop al consumo di suolo, e il funesto sfregio territoriale che la Regione impone alla Piana fiorentina. Il PIT in questo caso non èuno strumento di indirizzo generale ma, per quanto riguarda l’ambito 6 (Firenze, Prato. Pistoia)un sempmpiceaccarastamento delle scelte di AFE e dei potericle la sostengono

il pit in questo caso non è

Approvata la legge lombarda che favorisce il consumo di suolo, ben riassunta dalla dichiarazione del rappresentante di Forza Italia che abbiamo usato tra virgolette come titolo. Articoli da la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 21 novembre 2014


la Repubblica Milano

CEMENTO LIBERO SI POTRÀ EDIFICARE
UNA SUPERFICIEIL TRIPLO DI MILANO

di Andrea Montanari

Una colata di cemento grande tre volte la superficie di Milano. Pari a ben oltre mezzo miliardo di metri quadrati di territorio lombardi attualmente non edificati dove nei prossimi due anni e mezzo si potrà costruire. Questo l’effetto più immediato della nuova legge sul consumo del suolo approvata l’altra notte in Consiglio regionale con i soli voti della maggioranza di centrodestra che governa la Regione. Per rendersene conto, basta incrociare i dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale con quelli sul potenziale consumo di suolo per i prossimi anni, in base ai Pgt, ovvero i piani del governo del territorio già approvati dai comuni lombardi. Di cui 1126 su 1544 sono già stati ufficialmente comunicati. Il totale delle aree di potenziale trasformazione previsto è già approvato ammonta a 414.193.400 metri quadrati. Un dato che sale a circa 550.000.000 metri quadrati con la proiezione sul totale dei comuni lombardi. E visto che la superficie totale di Milano è di 182.000.000 mq i conti sono presto fatti. Nonostante la Lombardia sia già una delle regioni più urbanizzate e cementificate d’Europa, dove negli ultimi anni il suolo è stato consumato al ritmo di 140mila metri quadrati al giorno. L’equivalente di venti campi di calcio.

La nuova legge prevede che per trenta mesi, inizialmente dovevano essere 36, tutto resterà come prima. Nel senso che i progetti in essere che rientrano nei Pgt approvati potranno essere confermati da sindaci e costruttori entro due anni e mezzo.

Il testo uscito dall’aula del Pirellone è stato effettivamente parzialmente modificato, ma non è detto che l’effetto finale sarà quello di evitare nuovo consumo del suolo. Non è affatto vero che da oggi non si potrà più costruire su aree agricole. Molti terreni coltivati infatti secondo gli attuali Pgt sono aree trasformabili. Il che significa che entro 30 mesi una quota di queste aree potrebbe andare persa. È vero che la nuova legge prevede sa subito uno stop alle varianti, ma c’è una scappatoia. Basterà che i comuni utilizzino lo strumento del Piano integrato di Intervento, cioè dimostrino un interesse pubblico, per esempio una strada o una pista ciclabile.

L’aumento fino al 30 per cento degli oneri di urbanizzazione per le edificazione su suoli liberi, ad esempio — sostiene Legambiente — rischia di essere un blando disincentivo per i privati, troppo modesto per essere efficace. Considerata la scarsa incidenza di questo contributo sul costo finale dell’edificio. Per paradosso, invece, potrebbe addirittura diventare «uno stimolatore di appetiti per le finanze esigue di molti comuni, che confidano di tornare a far cassa sulla svendita del territorio». Il periodo transitorio ridotto a trenta mesi non sembra dare ulteriori garanzie. Sia perché la legge non esclude la possibilità di proroghe, ma soprattutto perché le nuove norme non impediscono ai comuni di confermare le precedenti previsioni di ampliamento contenute nei Pgt, anche oltre la decorrenza del termine. Per non parlare del fatto che la nuova legge non prevede controlli o sanzioni.

I dati sul consumo del suolo in Lombardia elaborati da Legambiente e dal Centro di Ricerca sui consumi di suolo mostrano una situazione allarmante. Dal 1999 al 2007 sono stati urbanizzati 34.163 ettari e si sono persi in maniera definitiva 43.275 ettari su superfici agricole. Mentre in meno di dieci anni le aree antropizzate sono passate dal 12,6 per cento al 14.

Ambientalisti divisi, opposizione compatta: “Favoriti i costruttori”

Per Roberto Maroni e per l’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi «è una svolta epocale», ma per il coordinatore del centrosinistra in Regione Umberto Ambrosoli resta «una legge pessima. Abbiamo votato contro perché in Lombardia per l’ambiente si e si deve fare di più».

Anche dopo il via libera del Consiglio regionale la nuova legge sul consumo del suolo continua a dividere. Non solo il mondo politico, visto che le nuove norme sono state approvate con i soli voti della maggioranza di centrodestra, ma anche quello ambientalista che definisce «ammazzasuolo » le nuove norme. «In Lombardia si continuerà a spalmare cemento sui suoli agricoli» attacca il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. Si spacca anche il Wwf. La delegata Paola Brambilla esprime «grande apprezzamento » e parla di «risultato importante che dovrebbe ora sti- il governo». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd Enrico Brambilla che osserva: «La maggioranza si è approvata la sua legge. Nessuno si do- vrà stupire se nei prossimi anni il consumo del suolo aumenterà ». L’assessore Beccalossi fa notare «che i miglioramenti apportati al testo sono utili, anmolare che grazie all’accoglimento di emendamenti importanti dell’opposizione », Il Movimento Cinque Stelle denuncia insulti e aggressioni in aula. Pare che dai banchi del centrodestra sia volata addirittura una bestemmia. I grillini chiamano in causa il presidente del Consiglio regionale ciellino Raffaele Cattaneo per non essere intervenuto.

Gianmarco Corbetta dell’M5S ribadisce il giudizio «negativo su una legge sbagliata». Per contro Stefano Bruno Galli della lista Maroni invita «i Cinque Stelle ad avere rispetto per le istituzioni». Un clima aspro e teso che anche mercoledì notte ha addirittura rischiato ad un certo punto di far slittare il voto finale a ieri. Il ciellino Luga Del Gobbo prova a gettare acqua sul fuoco. Ricordando che alla fine le opposizioni «hanno deciso di confrontarsi su contenuti abbandonando la strada dell’ostruzionismo». Fabio Altitonante di Forza Italia ammette che le nuove norme non scontenteranno la categoria dei costruttori. «Conosciamo bene l’importanza del settore, che in Lombardia occupa quasi 300mila persone, per un valore superiore a venti miliardi di euro l’anno. Con questa legge daremo più agevolazioni e incentivi, favorendo i progetti di recupero e riqualificazione».

Corriere della Sera Milano
NUOVA LEGGE:
DIVISI SUL NO AL CEMENTO

di Laura Guardini, Paolo Marelli


MILANO - Come a Cassinetta di Lugagnano — «apripista» nel 2007 — Solza, Ronco Briantino, Ardesio, Ozzero, Pregnana Milanese e altri ancora tra i 1.531 comuni lombardi che hanno già scelto il «consumo di suolo zero»: questa è la prospettiva che il territorio regionale può vedersi aperta, fra 30 mesi, dalla nuova legge approvata l’altra notte dal consiglio regionale, con 41 voti della maggioranza e 27 «no» di Pd, M5S e Patto Civico.

Sei sono i punti cardine della nuova normativa: da subito sono impossibili varianti su suoli con destinazione agricola; sono previsti incentivi per il recupero di aree ed edifici dismessi; scende da 3 anni a due e mezzo il tempo utile per realizzare i progetti di nuove costruzioni su aree ex agricole divenute edificabili: in Lombardia si tratta di 600 milioni di metri quadrati. E ancora: le infrastrutture sovracomunali (autostrade e ferrovie) rientrano nel computo del suolo «mangiato»; la soglia del consumo dovrà basarsi sulle indicazioni Istat relative all’aumento della popolazione. Infine, la legge prevede disincentivi, con un balzello del 5% a carico dei costruttori che intendono edificare «dentro il tessuto urbano» e un aumento degli oneri di urbanizzazione da un minimo del 20 a un massimo del 30% al di fuori dei centri abitati.

Dopo nove mesi di veti incrociati, litigi e modifiche in corso d’opera, è così finalmente arrivata al traguardo la nuova normativa che manda in pensione quella del 2005. Una vittoria del cemento secondo alcuni, del verde secondo altri: nello stesso mondo ambientalista le due maggiori organizzazioni, Wwf e Legambiente, esprimono parere opposti.

Paola Brambilla, presidente regionale del Wwf, esulta e parla di «un risultato importante che ora dovrebbe stimolare il governo all’emanazione di una legge che riconosca il valore ecologico del suolo»: si tratta di considerare la terra come bene comune, come «casa di tutti gli habitat naturali». È invece una bocciatura quella espressa da Damiano Di Simine, numero uno di Legambiente Lombardia: «Il futuro non sono le lottizzazioni, ma le ristrutturazi0ni dei vecchi edifici. Dopotutto il mercato immobiliare è da tempo senza domanda: c’è chi costruisce, ma non c’è chi compra. Tanto che nella nostra regione ci sono 1,4 milioni di vani vuoti, a cui si sommano centinaia di capannoni e uffici non utilizzati».

Su questo stesso tema, che cavalca da anni, torna anche Coldiretti, ricordando che sono ben più di 4 mila i chilometri quadrati (una superficie equivalente alle province di Cremona e Mantova) sottratti dal cemento all’agricoltura tra il 1990 ed oggi: «Finalmente l’argomento è stato affrontato — dice il presidente regionale Ettore Prandini —. Meglio sarebbe se lo stop alle costruzioni fosse immediato. Ma durante la finestra dei 30 mesi di edificazione possibile, probabilmente sarà ancora la crisi a fare da calmiere e a frenare il cemento. Per questo noi auspichiamo che almeno una parte di quei 600 milioni di metri quadrati tornino all’originaria destinazione agricola».

Il presidente Roberto Maroni e la maggioranza sottolineano che «si tratta di una svolta epocale, resa possibile con un provvedimento coraggioso e fortemente voluto». L’assessore al Territorio, Viviana Beccalossi, ricorda« le misure di incentivazione per gli interventi di recupero e ristrutturazione del costruito e la valorizzazione dei terreni dismessi».

«Questa è una brutta legge, il suolo lombardo aveva bisogno di ben altro. Abbiamo cercato di ridurre il danno e in parte ci siamo riusciti», dicono invece i capigruppo di Pd e Patto Civico, Enrico Brambilla e Lucia Castellano. Negativo anche il giudizio dei Cinque stelle: «È una legge sbagliata — sottolinea Gianmarco Corbetta — che favorirà comunque il consumo di suolo». Via libera invece all’unanimità del consiglio regionale all’istituzione della «Banca della terra lombarda», che punta a «mantenere e incrementare la produttività agricola e a favorire il ricambio generazionale, affidando ai giovani e alle donne le terre demaniali abbandonate».

pronti a rivedere i loro strumenti urbanistici, conformandoli alle nuove regole.». La Nazione, 19 novembre 2014


Firenze. Nasconde la soddisfazione di un «noi l'avevamo detto e l'abbiamo fatto», dietro l'offensiva contro il decreto legislativo Lupi in materia di urbanistica. Nega che si tratti di una rivincita, non sol politica, per lui e per l'assessore regionale Anna Marson, «spesso criticata, a volte poco compresa». Ma è palese che per il governatore Enrico Rossi la battaglia contro l'eccesso di cemento, principale imputato di un'Italia che si sbriciola e finisce sott'acqua, è una fanfara suonata alla legge urbanistica toscana, approvata dal consiglio un mese fa e pronta a entrare in vigore, dal 27 novembre. Una legge che vieta di costruire case nelle aree rurali, privilegiato il recupero sull'edificazione costruire nuove case nei territori non urbanizzati, che accelera gli iter urbanistici, che privilegia il recupero dell'esistente al consumo ulteriore di suolo e che demanda alla conferenza di co-pianificazione di aree vaste le scelte e gli equilibri sui nuovi insediamenti, anche produttivi.
«Non possiamo aspettare anni - dichiara con orgoglio Rossi con a fianco l'assessore Marson - per vedere i piani operativi dei Comuni adeguarsi alla legge toscana. Per questo metteremo a disposizione i 7 milioni di euro che risparmieremo dal taglio dei consiglieri e degli assessori, per quei Comuni
pronti a rivedere i loro strumenti urbanistici, conformandoli alle nuove regole. E' una sfida che lancio
ai sindaci della Toscana, la Regione darà i contributi alle progettazioni con un bando che sarà pronto a gennaio».

Rossi e la Marson non si lasciano sfuggire l'occasione per rielencare i dettami della legge 65. «Abbiamo messo il vincolo di inedificabilità, già dal 2012, su 1.000 chilometri quadrati di territorio pianeggiante, aree a forte rischio idraulico, pari al 7% della pianura toscana. Diversi Comuni mi chiamano per aggirare questo vincolo, ma sbatteranno contro i divieti. Vogliamo spezzare l'alleanza tra mattone e finanza, si è cementificato troppo e le conseguenze sono oggi davanti agli occhi di tutti. Con le leggi sull'urbanistica e con il prossimo piano del paesaggio abbiamo impresso alla Toscana una svolta epocale. Che spero serva da esempio a Regioni e Governo».

Da qui l'attacco al ddl Lupi, reo di «consentire edificazioni su aree che dovrebbe essere tutelate. Chiederemo modifiche» annuncia Rossi, non escludendo ricorsi. Anche gli agricoltori sarebbero contenti, visto che Anna Marson sforna delle slides con «10.500 nuovi agricoltori in Toscana, dal 2008 a oggi, 600 dei quali giovani. Con l'impegno di tagliare i tempi, da 6 anni di media a 2, per le autorizzazioni edilizie, e di premiare i Comuni che non faranno la corsa alle alle licenze per costruire, la Regione si candida a modello per gli urbanisti di tutta Italia. Fa i conti con argini travolti, milioni di danni e territori che si sbriciolano, ma fa leva su una legge che dovrebbe scongiurare dissesti futuri.

Il volontariato salva beni comuni per la collettività, evitando rischi di degrado e privatizzazioni. Ma non ci riesce quando come a Poveglia i privati prevalgono grazie al potere pubblico. La Nuova Venezia 18 novembre 2014

Isole come risorsa per la città. Potenzialità immense e non del tutto valorizzate per difendere il paesaggio, recuperare luoghi abbandonati, creare nuova economia e occasioni di lavoro. Ci voleva un gruppo di ragazzi, i bravi Cerchidonda, per mettere intorno a un tavolo soggetti privati che a vario titolo stanno realizzando progetti per la valorizzazione di isole della laguna. Patrimonio immenso che non sempre le amministrazioni sanno di avere. Dibattito intenso con un grande pubblico ieri nel teatrino dei Frari, nell’ambito della rassegna «Ecofestival».
I Lazzaretti. Esperienza pilota quella che Girolamo Fazzini conduce da ormai trent’anni. Grazie al lavoro dei volontari un’isola dalla grande storia, il Lazzaretto Nuovo, è stata recuperata e restaurata. Oggi il Tezon grando, l’edificio più grande e ben conservato dopo le Teze dell’Arsenale, è un libro aperto che racconta la storia degli appestati e della quarantena, ma anche l’archeologia e la storia della laguna, con percorsi naturalistici e campi di studio dell’Università. «Ne abbiamo fatti una trentina, con le nostre sole risorse», dice orgoglioso Fazzini. Che adesso vuole trasformare il Lazzaretto Vecchio, restaurato e affidato anch’esso ai volontari di Archeoclub, nel museo archeologico lagunare. Il progetto era pronto, con la supervisione di Luigi Fozzati. I fondi in parte stanziati. Ma nulla si muove.
Certosa. Diversa ma complementare l’esperienza della Certosa. 15 ettari in laguna nord, ex convento e poligono di tiro, affidata nel 2007 a Vento di Venezia, la società del velista Alberto Sonino. Che vi ha realizzato grazie anche all’aiuto di Comune e Regione e ai contributi europei, una darsena di prim’ordine e un polo produttivo. E adesso insieme al Comune costruirà il più grande parco urbano della laguna. «Attività compatibili», dice, «che possono dare lavoro nel rispetto dell’ambiente».
Sant’Erasmo, Vignole, Mazzorbo. Si chiama «Green gold Islands, territori al setaccio» il progetto di Michele Brunello, Sandro Bisà e Giuditta Vendrame, presentato anche all’ultima Biennale, che si propone di trovare un nuovo equilibrio tra agricoltura e città. «Le isole come territorio dei desideri di una città, Venezia, che può essere laboratorio della modernità», dice Brunello. Nel «liquido amniotico» di una città d’arte invasa dal turismo si trova lo sbocco futuro. Valorizzando ambiente e attività agricole e anche edifici rurali restaurati nel rispetto dei luoghi.
Poveglia. Andrea Barina, dell’associazione «Poveglia per tutti» spiega come i cittadini possano, mettendosi insieme, influire sulle scelte di programmazione per le isole della laguna. Il Demanio l’ha affidata all’imprenditore Luigi Brugnaro. Ma la partita non è chiusa.

Riferimenti

Per l'isola di Poveglia vedi su eddyburg l'articolo Poveglia in bilico. L'isola raffigurata nell'icona è il Lazzaretto Novo.

«Deve essere ripri­sti­nata una stra­te­gia invisa al nostro attuale pre­mier: le poli­ti­che devono basarsi sulla pia­ni­fi­ca­zione di ter­ri­to­rio e paesaggio». Il manifesto, 18 novembre 2014 (m.p.r.)

Le cifre che stanno venendo fuori a pro­po­sito dei disa­stri ter­ri­to­riali di que­sti giorni – con eventi meteo esa­spe­rati dai cam­bia­menti cli­ma­tici che si abbat­tono su un ter­ri­to­rio inde­bo­lito dalla iper­ce­men­ti­fi­ca­zione – sono da auten­tica guerra.

Un Rap­porto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono regi­strati quasi mille morti da dis­se­sto idro­geo­lo­gico, per oltre 15 mila eventi cala­mi­tosi e un danno eco­no­mico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno. Se si com­puta dagli anni ses­santa, a par­tire dal disa­stro del Vajont e dalle allu­vioni di Vene­zia e Firenze i morti diven­tano più di 4 mila.

L’Italia paga le con­se­guenze di decenni di incu­ria e di sostan­ziale attacco alle sue stesse carat­te­ri­sti­che eco-paesaggistiche. Esse, fino a qual­che decen­nio addie­tro, ave­vano cor­re­lato vir­tuo­sa­mente ambiente e inse­dia­menti; di più, ave­vano sem­pre con­no­tato que­sti ultimi secondo le carat­te­ri­sti­che eco­lo­gi­che e cul­tu­rali dei con­te­sti. Da cui il sopran­nome di Bel­paese. Negli ultimi decenni, la grande tra­sfor­ma­zione ha signi­fi­cato grande cemen­ti­fi­ca­zione: il Bel­paese si è tra­sfor­mato in «città dif­fusa»; con salti di senso comune, e anche seman­tici e les­si­cali. Le grandi com­po­nenti eco-paesaggistiche del ter­ri­to­rio ita­liano sono state via via rino­mi­nate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diven­tata «mega­lo­poli padana»; la «grande conur­ba­zione costiera» ha occu­pato l’intera cimosa lito­ra­nea adria­tica; e ana­lo­ga­mente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la cam­pa­gna urba­niz­zata romana» e «Gomorra», l’infernale mar­mel­lata inse­dia­tiva del napo­le­tano, inqui­nata, con­ge­stio­nata, ad alto tasso di illegalità.

E ancora la città costiera con­ti­nua cala­bra, a fronte dello svuo­ta­mento dell’interno; gli orridi abu­sivi sici­liani – che offen­dono un pae­sag­gio altri­menti note­vole; le «grandi mac­chie urbane» delle città sarde.

Gli entu­sia­smi per la moder­niz­za­zione antro­piz­zata del Paese si sono da tempo tra­sfor­mati in pre­oc­cu­pa­zioni per le con­se­guenze di un inse­dia­mento abnorme e quanto dan­noso e para­dos­sale: oggi in Ita­lia abbiamo, oltre a qual­che miliardo di volumi indu­striali e com­mer­ciali e tante incom­piute infra­strut­tu­rali spesso inu­tili, un edi­fi­cio ogni 4 per­sone, ma un allog­gio su 4 e oltre 20 milioni stanze risul­tano vuote; tut­ta­via fanno noti­zia i disa­giati, tut­tora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occu­panti, pro­ba­bil­mente legit­ti­mati da tale situa­zione). Con costi ambien­tali e sociali che infatti sono cre­sciuti sem­pre più.

Oggi, la cri­ti­cità di que­sta con­di­zione irrompe in tutta la sua dram­ma­tica evi­denza. Da Genova a Milano, dal Pie­monte al Veneto, da Roma alla Sici­lia, i tem­po­rali cau­sano disa­stri: rilievi e ver­santi abban­do­nati fra­nano sugli inse­dia­menti sot­to­stanti; la piog­gia rigon­fia fiumi, tor­renti e ruscelli, che diven­tano con­dotte for­zate, tro­vano le aree di pro­pria per­ti­nenza tra­sfor­mate in brani di città e rom­pono alla fine gli argini, anche per­ché le costru­zioni hanno bloc­cato le vie di fuga dell’acqua. Si regi­strano così i feno­meni dei «vasconi urbani», den­tro cui anne­gano oggi quar­tieri di Genova e Milano, come di Roma e, qual­che mese fa, di città e paesi emi­liani, veneti o sardi.

Il Governo tenta adesso di sca­ri­care ogni colpa sui pre­de­ces­sori o sulle Regioni; ma – fino alla dram­ma­tica emer­genza di que­sti giorni – ha per­pe­tuato e addi­rit­tura ali­men­tato le cause del disa­stro. Lo dimo­strano il Ddl Lupi –che pre­ten­de­rebbe di accen­tuare ulte­rior­mente la dere­gu­la­tion e svuo­tare la pia­ni­fi­ca­zione di potere nor­ma­tivo e descrit­tivo – e lo «Sblocca Ita­lia». Quest’ultimo prov­ve­di­mento è teso a pro­muo­vere altre atti­vità ad alto impatto ambien­tale: dalle tri­vel­la­zioni, a nuovi impianti a rischio, alle auto­strade, a nuova Alta Velo­cità. Al suo interno, prima degli eventi tra­gici degli ultimi giorni, la lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico era appena una cita­zione di oppor­tu­nità: 3 miliardi dichia­rati per 200 milioni real­mente disponibili.

E a fronte dei quasi 5 miliardi stan­ziati per le ope­ra­zioni ad alto impatto; tra cui si resu­sci­tano pro­getti di auto­strade da tempo supe­rati, come la biz­zarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla mas­so­ne­ria filo­de­mo­cri­stiana. Nelle ultime ore – sull’onda emo­tiva degli eventi — l’esecutivo annun­cia lo sblocco di 2,2 miliardi anti­dis­se­sto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.

Serve che gli impe­gni si tra­du­cano in risorse reali e per un pro­gramma molto più ampio: è neces­sa­rio un piano di risa­na­mento del ter­ri­to­rio da 50 miliardi di euro nei pros­simi dieci anni; di cui almeno il 10% da impie­gare subito. Se si pensa di ricor­rere per que­sto ai «300 miliardi di euro di inve­sti­menti euro­pei pro­messi da Jun­ker» si rischia di restare agli annunci o di dila­zio­nare troppo le ope­ra­zioni. Lo «Sblocca Ita­lia» – come hanno già pro­po­sto gli ambien­ta­li­sti – deve diven­tare «Salva Ita­lia», fina­liz­zando le risorse per intero e soltanto al risa­na­mento del ter­ri­to­rio, e can­cel­lando tutte le altre opere inu­tili e dan­nose con­te­nute nel provvedimento.

Deve essere ripri­sti­nata una stra­te­gia invisa al nostro attuale pre­mier: le poli­ti­che devono basarsi sulla pia­ni­fi­ca­zione di ter­ri­to­rio e paesaggio.

«Paghiamo il prezzo di anni di assue­fa­zione al pen­siero unico che esalta la com­pe­ti­ti­vità, il con­su­mi­smo, la cre­scita ad ogni costo, l’individualismo pro­prie­ta­rio. Ideo­lo­gie che hanno len­ta­mente avve­le­nato la nostra vita quo­ti­diana riu­scendo a far brec­cia in cia­scuno di noi». Il manifesto, 18 novembre 2014

La que­stione urbana delle grandi città, la que­stione delle peri­fe­rie — bal­zata oggi agli onori della cro­naca nazio­nale con gli epi­sodi di Tor Sapienza — rischiano di diven­tare i nuovi incubi dei governi degli anni a venire sovrap­po­nen­dosi tra­gi­ca­mente alla crisi eco­no­mica in corso e pro­du­cendo una miscela esplo­siva dalle con­se­guenze imprevedibili.

Quando le que­stioni si fanno com­plesse da ana­liz­zare per ritardi sto­rici, per defi­cit di ana­lisi, inca­pa­cità o altro e quando le solu­zioni non sono a por­tata di mano, c’è un mec­ca­ni­smo effi­cace che mette quiete le coscienze: la ricerca del capro espia­to­rio. Ce lo ha inse­gnato la sto­ria; sull’argomento tanto ha scritto l’antropologo e filo­sofo fran­cese René Giscard. È il mec­ca­ni­smo attra­verso il quale si iden­ti­fica irra­gio­ne­vol­mente in una per­sona (o in un gruppo) la causa respon­sa­bile di tutti i pro­blemi non risolti, quasi sem­pre con l’obiettivo nasco­sto di evi­tare di affron­tare le vere cause o i veri respon­sa­bili. Que­sta volta il ruolo di capro espia­to­rio è toc­cato al mal­de­stro e incauto Marino sulle cui spalle sono state fatte cadere tutte le respon­sa­bi­lità di un disa­stroso declino delle con­di­zioni urbane di Roma che per­dura in realtà sot­to­trac­cia da anni.

La per­sona si pre­senta adatta al ruolo: fuori dalle lob­bies poli­ti­che, non romano, uomo che prende da solo deci­sioni che le regole del poli­ti­ca­mente cor­retto vor­reb­bero che fos­sero invece con­cer­tate con gli appa­rati, per­sona che non riscuote par­ti­co­lari sim­pa­tie dei media. Pec­cato che in altre grandi città ita­liane, gover­nate da sin­daci eletti fuori dalle con­sor­te­rie poli­ti­che e per espressa volontà popo­lare, come Doria a Genova, Pisa­pia a Milano, De Magi­stris a Napoli, le cose non vadano poi così diver­sa­mente, tanto che è più che lecito chie­dersi se il declino urbano delle grandi città non sia piut­to­sto da ricer­care ben più in alto o ben più in pro­fon­dità. Per­ché alle varie anime del Pd romano non par vero di poter indi­care il capro espia­to­rio di quanto acca­duto nel sin­daco Marino, e cosi rimet­tere in moto la vec­chia mac­china clien­te­lare, men­tre a sini­stra, si denun­cia - non certo a torto - il mon­tare dell’intolleranza xeno­foba, che offre var­chi di con­se­gna agli impren­di­tori poli­tici della paura, sem­pre attivi nella destra ita­liana. In realtà i fatti degli ultimi giorni meri­tano uno sguardo non solo meno stru­men­tale e rav­vi­ci­nato, ma soprat­tutto più ampio e generale.

Quando dopo il quin­di­cen­nio di governo delle sini­stre (Rutelli prima e Vel­troni dopo), venne can­di­dato per la seconda volta al ruolo di sin­daco della capi­tale lo stesso Rutelli, la sini­stra rimase atto­nita dalla scon­fitta subita cui con­tri­bui­rono pesan­te­mente gli abi­tanti delle peri­fe­rie, quelle che un tempo veni­vano chia­mate «le cin­ture rosse, lo zoc­colo duro del Pci». Tanto che il medio­cre Ale­manno rimase lui stesso incre­dulo per il con­senso rice­vuto che gli per­mise di salire al colle del Cam­pi­do­glio. Le fan­ta­sma­go­rie del cosid­detto «Modello Roma» (il Pil urbano al 4.5%, Roma come loco­mo­tiva d’Italia, Roma come Bar­cel­lona, Dubai…), ave­vano fatto velo a un cre­scente disa­gio delle con­di­zioni di vita nelle peri­fe­rie, tanto che in quei tempi riscosse un certo suc­cesso media­tico la parola «risen­ti­mento» per espri­mere lo stato d’animo degli abi­tanti. Risen­ti­mento per essere stati lasciati soli al loro destino, risen­ti­mento per avere il Pd abban­do­nato ogni lavoro sul ter­ri­to­rio (sman­tel­la­mento di tutte le sezioni di par­tito che tanto ave­vano sto­ri­ca­mente con­tri­buito alla for­ma­zione di una eman­ci­pa­zione delle coscienze). Pochi e ina­scol­tati furono coloro che ten­ta­rono di spie­gare come i «suc­cessi» di Vel­troni non ave­vano alcun riscon­tro in que­sti luo­ghi lon­tani dal cen­tro dove, invece, si con­ti­nuava a cemen­ti­fi­care oltre ogni ragio­ne­vole misura, creando nuove e mostruose peri­fe­rie urbane.

L’approvazione del Piano Rego­la­tore Gene­rale, alla fine del man­dato Vel­troni, non segnò una inver­sione di ten­denza rispetto al pas­sato: il blocco degli immo­bi­lia­ri­sti con­ti­nuava quasi indi­stur­bato a deci­dere per Roma uno svi­luppo ancora inso­ste­ni­bile con la com­pli­cità di appa­rati ammi­ni­stra­tivi e politici.

La disfatta di Ale­manno è tutta a suo «merito», la sini­stra non c’entra; il sin­daco ex squa­dri­sta, eletto «a sua insa­puta» dal moto di risen­ti­mento pro­fondo con­tro la sini­stra, tra­scorse il suo man­dato tra gaffe e inef­fi­cienza; ma ciò nono­stante il Pd non aveva più la forza per imporre al ruolo di sin­daco un uomo del suo appa­rato. Così che Igna­zio Marino, il «mar­ziano», l’uomo fuori dal gioco delle con­sor­te­rie poli­ti­che cat­turò il favore del popolo romano che di pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica non ne voleva più sen­tir par­lare. Que­sto, in breve e sche­ma­ti­ca­mente per spie­gare la pre­senza di un sin­daco mai accet­tato dalla gran parte del Pd e tanto più avverso per aver scelto per­so­nal­mente molti uomini (e donne) della sua giunta.

Ma è stata la crisi eco­no­mica e le poli­ti­che comu­ni­ta­rie ad aver ulte­rior­mente aggra­vato una situa­zione già di per sé esplo­siva. Le con­di­zioni di ulte­riore e pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento della popo­la­zione delle peri­fe­rie hanno aggra­vato le con­di­zioni di vita delle per­sone favo­rendo il dif­fon­dersi di atti­vità cri­mi­nali, spac­cio della droga, infil­tra­zioni camor­ri­sti­che. A ciò si aggiunge l’insostenibile con­di­zione di disoc­cu­pa­zione che affligge i gio­vani spesso arruo­lati in atti­vità di spac­cio e micro­cri­mi­na­lità. Le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste hanno creato disu­gua­glianze feroci pro­du­cendo una lotta dar­wi­niana per la soprav­vi­venza così che sono sal­tati tutti i vin­coli di soli­da­rietà che in pas­sato si sta­bi­li­vano tra per­sone povere, tra per­sone che strin­ge­vano patti di mutua col­la­bo­ra­zione e coo­pe­ra­vano per sopravvivere.

Poi c’è la spen­ding review che favo­ri­sce la sven­dita ai pri­vati dei ser­vizi che i comuni non sono più in grado di garan­tire o la cui fun­zio­na­lità comun­que com­por­te­rebbe sacri­fici sotto forma di tasse tale da ren­dere impo­po­lare l’amministrazione che pra­ti­casse tale obiet­tivo. Molte ammi­ni­stra­zioni inol­tre, per fare cassa rila­sciano con­ces­sioni a edi­fi­care senza badare molto alle con­se­guenze urba­ni­sti­che e a quelle del con­sumo di suolo, o ai dis­se­sti idro­geo­lo­gici: ogni minuto in Ita­lia scom­pa­iono quat­tro­cento metri qua­drati di suolo coperti dal cemento. Il rila­scio di con­ces­sioni ad edi­fi­care è diven­tato uno dei prin­ci­pali modi di repe­rire denaro ali­men­tando una bolla immo­bi­liare simile a quella che pro­vocò la crisi ame­ri­cana dei sub­prime. L’immobiliare, afferma Tocci, è stato il pro­se­gui­mento della finan­zia­riz­za­zione con altri mezzi, con la com­pli­cità di molte archi­star che valo­riz­zano ter­ri­tori con i loro oggetti sra­di­cati dai luo­ghi e in linea con l’immaginario globale.

Roma ne è esem­pio con lo sta­dio del nuoto a Tor Ver­gata rima­sto uno sche­le­tro nel deserto o con la costo­sis­sima Nuvola che divora immense risorse finan­zia­rie per non par­lare del ven­ti­lato pro­getto di costruire un nuovo sta­dio in un’area a rischio idro­geo­lo­gico a Tor di Valle in barba al Piano Rego­la­tore e al buon senso con discu­ti­bili cri­teri di pre­sunta uti­lità pub­blica.

Meglio sarebbe se il sin­daco desi­stesse da que­ste ini­zia­tive sba­gliate e ripren­desse invece il dia­logo con la città che lotta e che sof­fre come pure fati­co­sa­mente sta pro­vando a fare con gli abi­tanti di Tor Sapienza distin­guendo fra le buone ragioni delle pro­te­ste dei cit­ta­dini romani e le stru­men­ta­liz­za­zioni dei nuovi bar­bari ed inqui­na­tori della coscienza civica.

In que­sto qua­dro deso­lante arri­vano a col­mare la misura gli immi­grati con tutto il loro carico di pene e sof­fe­renze, mai accolti come si dovrebbe da parte di una città vera­mente capi­tale e uti­liz­zati a scopo elet­to­rale da pro­pa­gande di segno oppo­sto. Così che diven­tano anch’essi i capri espia­tori di tutti i mali pro­dotti dal neo­li­be­ri­smo. Paghiamo il prezzo di anni di assue­fa­zione al pen­siero unico che esalta la com­pe­ti­ti­vità, il con­su­mi­smo, la cre­scita ad ogni costo, l’individualismo pro­prie­ta­rio. Ideo­lo­gie che hanno len­ta­mente avve­le­nato la nostra vita quo­ti­diana riu­scendo a far brec­cia in cia­scuno di noi.

È da qui che biso­gna ripar­tire: da un pro­getto di con­vi­venza e con­vi­via­lità e di acco­glienza che fac­cia rina­scere nelle nostre città quei prin­cipi di vita asso­cia­tiva e fio­rire della cul­tura che fecero dei comuni ita­liani ed euro­pei i luo­ghi da cui nac­que il Rinascimento.

Un governo della città che si apra ad una demo­cra­zia pub­blica fon­data sulla par­te­ci­pa­zione delle comu­nità locali e dei quar­tieri, con nuove isti­tu­zioni di pros­si­mità che sap­piano inter­pre­tare e rap­pre­sen­tare il biso­gno di sicu­rezza, di soli­da­rietà, di con­di­vi­sione che pure sono sen­titi dai cit­ta­dini romani e scon­fig­gere la piaga dell’egoismo, della com­pe­ti­zione sel­vag­gia, della cac­cia all’untore che inde­bo­li­sce le comu­nità a tutto van­tag­gio di ideo­lo­gie raz­zi­ste e xeno­fobe che avve­le­nano gli animi e i cuori e lasciano die­tro di se solo mace­rie e rovine fisi­che e morali, e distrug­gono la con­vi­venza civile e demo­cra­tica. Ci pia­ce­rebbe ripren­dere con tutti quelli che lo vor­ranno il filo di un impe­gno civile col­let­tivo per non lasciare la nostra bella città nelle mani dei poteri forti e della cat­tiva poli­tica che l’hanno sevi­ziata ed oltrag­giata o dei mesta­tori dell’odio sociale e della guerre etni­che e di religione.

«Il Paese frana sotto la pioggia e passa la legge che sblocca i cantieri. Il Presidente del Consiglio invece di sostituirsi a giornali e storici nella ricerca di responsabilità, si chieda cosa deve fare il governo. Invece di pensare alle leggi regionali, pensi a quelle che firma lui». La Repubblica, 17 novembre 2014

Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.

Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.
Per dare un titolo a questa brutta storia, negli anni Settanta Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Antonio Cederna parlarono di “rapallizzazione”: perché Rapallo e tutta la Liguria erano il luogo simbolo della distruzione del paesaggio e della deformazione delle città. Per sapere che quella regione non ha cambiato verso, non importa leggersi le statistiche che ci dicono che, tra il 1990 ed il 2005, in Liguria si è massacrato il territorio più che in Calabria e in Campania: basta accendere la televisione.Ma è stato tutto il Nord a pensare che lo sviluppo fosse perfettamente sinonimo di cemento. E continua a pensarlo.
Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).
È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di ri-ferimento sulla Negrarizzazione, Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza, 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.
Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento. La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.
Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.
Vezio De Lucia ha spiegato (Nella Città dolente, 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.

La Repubblica, 16 novembre 2014

Milano invasa da Seveso e Lambro, Genova e la Liguria che spiano col fiato sospeso i loro torrenti, Alessandria allagata. Il disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega- piani risolutori. Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future. Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna. Ma non ci sono scuse: non è vero né che questi disastri siano imprevedibili, né che siano recente novità, dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme).

È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento. Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia. Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare. Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata.
Quali sono i costi di questa mancata manutenzione? Secondo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti. E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni. Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio. Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia. Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »). Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere.
E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto. Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».
Anziché leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi. Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano. A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.
Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale. Anzi, nel recente Sblocca-Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio. Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici. Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli- Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perché superflua. Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.
«Bisogna riportare alla legalità leparti della città coinvoltenei fatti di violenza, ma nonsenza interventi pubblici volti a risanarle, partendo dai bisogni delle persone (casa, lavoro, istruzione) e interloquendo con loro».Tanto più che spesso la violenza nasce da azioni o inazioni del potere

Laviolenza che si sta diffondendo nelle periferie urbane, a partire da Milano eRoma, ha cause e protagonisti sociali diversi, ma è lesito sia di unadisattenzione della politica italiana degli ultimi quarantanni verso lecondizioni di vita dei cittadini, sia di scelte orientate verso strategie dimarketing volte a rendere le città competitive in termini di attrazione e di consumo. Strategie che hannoriguardato le parti delle città più appetibili sul mercato, a partire daquelle pregiate sotto il profilo storico-architettonico.

Lepolitiche di marketing per loro natura sono indifferenti alle condizioni divita delle persone (e perciò al loro disagio). In questottica leperiferie, soprattutto quelle per così dire di nuova generazione, hanno subito icambiamenti delle funzioni produttive urbane ma senza godere dei beneficiderivanti dalle politiche di rigenerazione. E se le aree attraenti dal punto divista economico sono entrate in un processo di riconversione perché oggettodi interesse pubblico e privato, quelle che non avevano le qualità urbanistiche,spesso sorte illegalmente, sono diventate sempre più terra di nessuno. O meglio, sono diventate luoghi conflittuali dove è inevitabile,in assenza di governo, che prevalga la logica del più fortenellesercizio del controllo del territorio.

Laviolenza connessa alle condizioni sociali difficili, immediatamente richiama ilproblema della sicurezza urbana e riconduce alla Tolleranza Zero dellallora sindacoGiuliani, applicata pedissequamente anche nelle nostre città. Ma se in Americadel Nord ha portato come conseguenza, non tanto quella di intervenire sullecause della violenza e del degrado, quanto alla diffusione di esplicite formedi privatizzazione, per cui i residenti proprietari della loro abitazionepagano le tasse ai privati in cambio di pulizia, allontanamento delle personesgradevoli, controllo e sicurezza. In Italia siamo ben lontani da questifenomeni di privatizzazione, sia come cultura che come pratica politica, ciò nontoglie però che laver ignorato lecondizioni materiali dei cittadini abbia portato un numero crescente di personead essere più esposte al degrado e alla violenza, oltreche al controllo del territorio da parte della criminalità organizzata.

Inaltre parole, il non aver governato i processi di espansione e di inurbamentodi nuove popolazioni, ha portato ad accentuare quei fenomeni di città duale,così come sono stati descritti da ManuelCastells il quale però siriferiva soprattutto alle megalopoli dei Paesi in rapido sviluppo e non allecittà dei Paesi a sviluppo avanzato come lItalia -, e che più recentementeha portato Bernardo Secchi nei suoi ultimi sforzi intellettuali a dedicareattenzione alla città dei ricchi e a quella dei poveri.
Unodegli effetti di questa assenza di governo, o se si vuole, di cattiva politica,è stato che gli interessi comuni che costituivano la base dellegame sociale di una comunità urbana sono stati smantellati, in campo è rimastain forma esasperata la necessità di difendere gli interessi individuali: lesasperazione è tantopiù grande quanto più siè fragili e marginali. Tutto ciò è accaduto anche perché siè abbandonato lo strumento dellapianificazione (che significa visione del futuro e regole condivise), mentresono state adottate pratiche politiche suscettibili di modifiche a secondadegli interessi particolari in campo (si pensi alla corruzione) e dellappeal mediatico.

È questo il disastro urbano che abbiamooggi di fronte, e i segni di violenza sia che si tratti di occupazione abusivae di espulsione violenta degli abitanti regolari dalle case ALER di Milano, siache si tratti di assalto al centro di accoglienza di Tor Sapienza a Roma sonoi manifesti avvisi di un degrado umano e sociale diffuso, grazie per lappunto a decennidi cattiva politica e di sguardi rivolti altrove.

Che fare? Certamente bisogna riportare alla legalità le parti della città coinvolte nei fattidi violenza, ma ciò nonpuò avveniresenza interventi pubblici volti a risanare le periferie, partendo dai bisogniprimari delle persone (casa, lavoro e istruzione) e interloquendo con loro.

In Italia la risposta privata (speculativa) al bisogno di abitazioni produce immani quartieri di case vuote, e non consente a migliaia di abitanti di soddisfare il proprio bisogno. Ora lo stock di potenziale offerta pubblica è ceduto al mercato: è il neoliberismo nell'era renzista, baby. Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014

La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione. Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa. Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.

Ebbene, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine. La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta – probabilmente alla prima data utile – ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%. L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari). Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): «Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso – sostiene il sindacalista – proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni, favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita».

Va detto che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” – il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà –, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo. D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo).

Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà. D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, «anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica». Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.

L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi – assieme alla Spagna
– con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28). Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi. La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.

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