Patrimoniosos.it, 10 dicembre 2014 (m.p.r.)
Quando parla della Sicilia, Salvatore Settis è combattuto tra rabbia e amore. La rabbia per una regione che non vuole chiedere aiuto e calpesta se stessa, l'amore per un'Isola che è tra i luoghi più ricchi di bellezza nel mondo.
Archeologo e storico dell'arte, Settis è stato direttore della Normale di Pisa dove insegna, del Getty center for the history and art di Los Angeles e del Consiglio superiore dei Beni culturali; è componente dell'Istituto tedesco di Archeologia, dell'Accademia dei Lincei e del Comitato scientifico dell'European research Counsil e presidente del Consiglio scientifico del Louvre. Ma, soprattutto, è uno strenuo difensore del patrimonio inteso come parte di un popolo. Davanti alle denunce, alle immagini, alle segnalazioni di un patrimonio identitario che, giorno dopo giorno, continua a morire, Settis si sorprende poco. E addita la colpa di quest'incuria culturale a chi gestisce la cosa pubblica e non lo fa. Affatto.
«È stata una pessima idea affidare alla Regione siciliana, unica in Italia, la tutela totale dei beni culturali - afferma il docente - Il ministero per i Beni culturali conta in tutte le regioni, anche in quelle a statuto speciale come la Sardegna, eppure in Sicilia non conta nulla. L'Isola fa storia a sé, non si compara, resta chiusa in se stessa. Ed è un isolamento a cui ha condotto l'atteggiamento di tanti politici siciliani che, da assessori o presidenti della Regione o, ancora, legati alla gestione dei beni culturali, si occupano della tutela del patrimonio come se la Sicilia fosse uno Stato a sé. Come se lo stretto di Messina definisse un confine netto, non solo geografico, con il resto dell'Italia».
La "bizzarria", come la definisce il professore Settis, è che la devoluzione piena alla Regione dei suoi beni culturali sia avvenuta nello stesso anno in cui fu istituito il ministero per i Beni culturali. Il Governo, infatti, ritenne necessario dar vita a un dicastero preposto alla cultura, all'arte, al patrimonio storico e ambientale e, appena sei mesi dopo, tolse a se stesso la competenza di tutelare i beni culturali di una delle regioni con la più alta densità di patrimonio. Una bizzarria, appunto.
«Questo rivela la povertà politica italiana già nel 1975 - dice l'archeologo -. Ma commettere un errore non significa tuttavia continuare a ripeterlo. In Sicilia, la mancanza di comparazione con altre regioni dà alle amministrazioni una sorta di delirio di onnipotenza. La Regione siciliana ha così l'illusione di poter fare tutto con conseguenze negative per il territorio. E' questa condizione che conduce, ad esempio, a decisioni come quelle di allontanare i soprintendenti più competenti, come accaduto di recente. E tutto ciò lascia intendere che la competenza conti sempre meno in Sicilia».
Gestione e politica, poi, significa soldi. E quando si parla di beni culturali in Sicilia e denaro lo scenario è quello di sprechi e occasioni perdute. Ma Settis dice di più.
«In situazione dominata da questo delirio di onnipotenza da parte della Regione - afferma il docente - e dall'illusione di essere al riparo dalle critiche, l'investimento delle risorse economiche a disposizione del territorio spesso viene indirizzato sulla base della simpatia politica o di decisioni extra-tecniche. Credo che il caso del Teatro greco di Siracusa che si sbriciola sia un caso di scuola: i nostri monumenti perdono pezzi per mancanza di manutenzione. Invece è proprio l'attenzione costante, l'intervento programmato che Giovanni Urbani ha sempre raccomandato, la priorità. Se ciò manca, tutto crolla. I beni culturali, in fondo, sono come il nostro corpo: bisogna curarlo costantemente. Lo sbriciolarsi del Teatro greco di Siracusa è, appunto, il sintomo di una malattia: sono sicuro che metteranno a posto le pietre fratturate, ma bisogna curare le ragioni della malattia».
Professore, perché è così difficile in Sicilia coniugare la salvaguardia del patrimonio con lo sviluppo del territorio?
«La difficoltà nasce da una carenza di cultura istituzionale. Un assessore regionale dovrebbe sapere che nelle Soprintendenze e nei musei debbano lavorare figure di altissima competenza e questo, invece, accade in alcune istituzioni e in altre no. Di certo, la maggioranza degli assessori regionali non ha mostrato attenzione alla vera competenza; piuttosto molti sono stati attenti al fatto che soprintendenti e direttori di musei fossero ubbidienti più che preparati. Una vera cultura istituzionale è quella capace di dare alla competenza il suo valore. Ancora, sul difficile connubio tra tutela e sviluppo conta la concezione stessa del patrimonio: anche in Sicilia vale la Costituzione della Repubblica, almeno così dovrebbe essere. L'art. 9 è chiaro: dice che il paesaggio e il patrimonio appartengono ai cittadini e fanno parte dell'identità nazionale e del possesso a titolo di sovranità, allora questo deve essere il punto dominante. Non la rincorsa ai turisti che, certo, hanno diritto ad ammirare e godere la bellezza dei luoghi. Ma il patrimonio è di chi vive in questi luoghi. Non si può trasformare una città d'arte e cultura in una Disneyland per turisti ma la prima cosa, quella fondamentale, è custodire il patrimonio per i cittadini che ne sono i proprietari legittimi. E questo senso istituzionale che manca e non solo in Sicilia. L'art. 9 dice che il livello di tutela e i criteri di valorizzazione del patrimonio debbono essere identici in tutto il territorio italiano: non è così. E il caso massimo è proprio la Sicilia che non viene più comparata al resto d'Italia».
Salvatore Settis ricorda, a tale proposito, che quando era presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali chiese notizie del patrimonio siciliano senza, tuttavia, ottenere notizie. Gli uffici del ministero, infatti, non sapevano alcunché della Sicilia e dei suoi beni. La situazione non è cambiata oggi perché il ministero non conosce nemmeno le statistiche, i numeri di musei e luoghi d'arte e cultura siciliani.
«E allora - dice Settis - se la situazione è questa, come si può sperare di essere riconosciuti per quello che si è: uno dei più grandi fiori all'occhiello del patrimonio italiano? Forse nessuna regione della Penisola può competere con la Sicilia per bellezza».
La gestione di monumenti e musei è spesso legata anche al loro ritorno economico. Un piccolo gioiello-museo come quello di Lentini, per esempio, è fanalino di coda in Italia e mantenere luoghi che non offrono prospettive di introito è spesso al centro del problema gestionale siciliano. Qual è il suo commento?
«Lo affido, ancora, al principio dell'art. 9 della Costituzione che asserisce come il valore culturale dei beni sia al di sopra di qualsiasi significato economico. Non possiamo accettare il fatto che, se un museo non ha incassi sufficienti a coprire i costi del suo mantenimento, debba chiudere. Se questo è il criterio, allora chiudiamo tutte le scuole elementari e medie d'Italia perché certamente non portano guadagni. Musei, teatri, luoghi d'arte sono aspetti della cultura vitali per la salute mentale dei cittadini tutti, per la creatività di un popolo e per le nuove generazioni a cui si potranno assicurare le condizioni della creatività che poi, a loro volta, dedicheranno al futuro in ogni settore e professione. Se parliamo di ragioni meschine, quando si parla di cultura, allora stiamo commettendo suicidio. Anzi, stiamo per premere il grilletto».
Cosa pensa dei prestiti delle opere d'arte e delle grandi mostre che la Sicilia non allestisce?
«Il business delle mostre va rivisto seppur non radicalmente. Non sono affatto convinto che si facciano troppe mostre in Italia ma il punto dev'essere "cosa si fa". Una mostra, rispetto alle collezioni permanenti, è un'occasione per pensare e ha senso quando riesce ad accostare oggetti che di solito si trovano in musei diversi, in chiese diverse. Ad esempio, le mostre di Raffaello al Prado o al Louvre che consentono di vedere, insieme, opere di uno stesso autore, di uno stesso periodo. E questa è un'occasione unica. Oggi invece prevale l'idea di mostre del tutto pretestuose in cui o si chiede in prestito un pezzo, come i frontoni del Partenone all'Hermitage o il quadro "La ragazza con l'orecchino di perla" a Bologna che diventa un'icona. Noi invece non abbiamo bisogno di icone da adorare ma di arte che ci faccia pensare. Le opere prestate dalla Sicilia, come il Satiro di Mazara, se comparato con altre statue, in un contesto, ha senso. Se invece si prende un oggetto, unico ed iconico, no. E a dimostrazione di ciò vi è il fatto che far circolare le opere siciliane nel mondo non fa, poi, arrivare turisti in Sicilia. L'assenza quasi totale, l'incapacità di produrre grandi mostre in Sicilia è molto chiara a differenza di regioni simili, per bellezza e patrimonio, come la Toscana che, invece, allestisce eventi nel segno della grande arte. Spero che non sia sempre così».
Come può allora la Sicilia salvare il suo patrimonio e guardare al futuro?
«Ci vuole umiltà. E vorrei ricordare che l'articolo 9 della Costituzione venne proposto da un siciliano, il catanese Concetto Marchesi, che era un grande latinista e rettore dell'Università di Padova, poi senatore della Repubblica. Fu proprio lui ad evidenziare come fosse necessario evitare che le regioni, a cominciare dalla Sicilia, tenessero per sé il patrimonio e la sua gestione facendone strazio. Con Aldo Moro, propose di evitare la regionalizzazione dei beni culturali. Se oggi Marchese fosse vivo, direbbe: quanto avevo ragione».
Uno degli interventi di apertura della presentazione veneziana del nuovo libro di Salvatore Settis (Se Venezia muore",Giulio Einaudi editore). La stringente attualità di un libro sulla memoria storica delle città.Un appassionato appello ai "cittadini resistenti" perchè salvino un patrimonio dell'umanità
Ma il caso del ‘restauro’-distruzione del Fondaco non è isolato. Il restauro di un’architettura monumentale a Venezia non è più un semplice gesto filologico, ma una rilettura. Non per nulla la mail di invito alla presentazione del volume esordiva con una domanda di Tadao Ando, quando gli proposero il progetto: «Ma si può fare architettura moderna a Venezia?». La punta della Dogana ora, di fatto, è un’opera di Ando, così come il Fondaco dei Tedeschi è definito “il progetto di Koolhaas”, e sarà un’opera di Koolhaas. Non esiste più l’edificio antico, risucchiato dalla modernità.
«A Venezia - scrive Settis - nessun architetto può ignorare che la città si sta svuotando ... E dunque nessun architetto dovrebbe mai prestarsi a costruire nulla ... che favorisca la morte della città storica negandone l’unicità».
Il volume che illustra queste cannibalizzazioni, dicevamo, è stato presentato alla Querini. Il pubblico, numeroso, seguiva anche da un grande schermo nella sala attigua all’auditorium. Questa sala in realtà era “un’antica corte medievale”, ora coperta da un velum di acciaio, rivestita da pannelli, con una pavimentazione colorata. La corte veneziana non si legge più, diventa altro. E la vera da pozzo su cui si inciampa, sembra messa lì a caso, macabro resto che non ha più alcun senso in quel contesto.
Così l’intervento di restauro espresso in un linguaggio contemporaneo per essere autentico, diventa il suo opposto: uno snaturamento, un falsoParadossalmente, è più vera la Fenice: almeno la ricostruzione “Com’era dov’era”, frutto - sostiene Cacciari - della prudenza, vuole riproporre la “verità formale”, in cui il cittadino si riconosceva. Risarcisce la perdita di identità che aveva subito la cittadinanza.
Altrettanto paradossalmente siamo legati a questo teatro falsissimo credo perché è l’ultima cosa fatta a Venezia pensando a noi cittadini. Sono passati quasi 20 anni dalla decisione di Cacciari. Ora tutto si fa per i turisti, o meglio per le forze economiche che stanno o hanno già trasformato la città a velocità supersonica in nome dello sviluppo e del turismo.
La riflessione sul corpo vivo della città, sui cittadini, sulle loro esigenze che possono non collimare con le visioni dei grandi architetti, può aiutare noi superstiti abitanti a ritrovare un senso, una dignità e una forza unitaria nell’agire e nel difendere ciò che Settis chiama «il diritto alla città». «ogni città - scrive - è viva traduzione della propria storia, ma anche volto e traduzione in pietra del popolo che la abita». «Convivono ..., nella nostra esperienza, una città di mura e una città di uomini e nella città degli uomini c’è un’anima, quella della loro comunità: una città invisibile», ma non per questo meno forte e importante.
La città invisibile, la comunità, saldamente tessuta dai fili invisibili della sue storie e della storie dei suoi cittadini, però, sta morendo.
Quante volte abbiamo sentito dire dei palazzi cittadini: ‘eh, è stato trasformato in albergo, ma piuttosto che cadesse a pezzi’ ... Cosa opporre a chi argomenta così? Ca’ Corner della Regina oggi è perfettamente restaurata. Ma non è più della città.
Se abbandoniamo al mercato un palazzo che è parte della nostra storia, come ha detto Montanari in occasione di altre privatizzazioni, «l’avremo perduto anche se sarà perfettamente conservato».
Per Ca’ Corner Italia Nostra ha fatto ricorso al Tar, ma i veneziani non si sono mobilitati. Non si sono resi conto che il cerchio si stava stringendo attorno a loro.
E ora ecco il ‘salto di qualità’ che ci si poteva aspettare: si mettono in vendita non solo edifici provvidenzialmente già vuotati, ma anche edifici vissuti, pieni: di storia, di funzioni, di valori per la cittadinanza, di futuro.
Su l’Espresso Turano commentava desolato che le tre sedi storiche erano state ritenute «inutilmente belle»; cioè sprecate per gli studenti. Il futuro dei quali (che è il nostro) non interessa, è qui e l’oggi che conta. E i saldi di fine anno del Commissario-liquidatore lo confermano.
Il 25 novembre il Commissario ha deciso di alienare entro l’anno una delle Ville Heriot, alla Giudecca, sede dell’università dell’Arte. Anche in questo caso il giardino è utilizzato dai bambini della scuola vicina. E ora è la volta delle Procuratie di Piazza San Marco.
E nel cittadino monta il convincimento che ci sia un disegno predefinito: la bellezza che in fin dei conti è solo un accidente, un esito del nostro modo di vivere, della nostra civiltà, ha ora un prezzo e i veneziani non possono pagarlo. Meglio dunque delocalizzarli in terraferma, affinché tanta ricchezza-bellezza possa esser messa nelle mani di chi la sa far fruttare.
Incalza Settis: «La monocultura del turismo ... esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire». «Ai cittadini di Venezia è lasciato un ruolo residuale e gregario: agognare qualche beneficio economico purché accettino il suicidio della loro città». Quel patrimonio invece ci spetta di diritto, come abbiamo il «diritto ... all’integrità della Laguna che in millenaria simbiosi ne accompagna la storia e la vita». E, mi preme sottolineare, Settis scrive “Laguna” con l’iniziale maiuscola, per darle forza di idronimo.
Chi vuole scavare il Contorta, un nuovo canale portuale in Laguna centrale, ben sapendo - perché fior di studi lo provano - che sarebbe esiziale per la Laguna, ha definito Venezia un quartiere.
E Settis scrive: «L’ipotesi di fare di Venezia un quartiere fra i tanti di una qualche Veneto City la svilisce a residuo fossile di una dimensione tramontata del vivere sociale».
Si chiama waterfront, ora, la gronda lagunare, e il nome nella sua sfolgorante modernità ammicca e prelude all’arrivo di nuove modernità e sviluppi; nuove edificazioni, banchinamenti, poli intermodali, e porti, autostrade, svincoli scavati nel corpo vivo della Laguna.
La Laguna continua a venir considerata come terra di nessuno, da piegare agli interessi dei potenti di turno, il porto e l’aeroporto, che da concessionari dello Stato e nel vuoto della politica sono diventati di fatto soggetti politici propositivi. Un potere enorme, che lo Stato non contiene.
Né, lo Stato, si fa promotore di studi per risolvere il problema delle grandi navi (che come suggerisce Giorgio Conti è meglio definire navi grandi). In questa vicenda in cui deliberatamente si cancella la Laguna, un gruppo di tecnici volonterosi ha supplito - come dice Maria Rosa Vittadini - a una funzione pubblica, studiando e presentando, giorni fa, un progetto di avamporto galleggiante, removibile, che per il suo impatto contenuto è da considerare il male minore, se si vuole conservare il crocerismo a Venezia (cosa peraltro opinabile).
E ancora, nella totale assenza della politica a Ve si vogliono far passare velocemente progetti che ipotecheranno il futuro della città. Parlo anche dell’Arsenale: le scelte che si faranno su quello straordinario spazio saranno l’ultima occasione per invertire la rotta.
Dice Settis: «Contribuendo al processo ... di smantellamento dello Stato, le stesse istituzioni che dovrebbero presidiarlo lo tradiscono impunemente, si trasformano da custodi del pubblico bene in alfieri degli interessi privati». Se le istituzioni, lo Stato, i commissari sono contro la città, tocca a noi.
Cito le conclusioni di Settis: «Ai veneziani, ma anche ai cittadini del mondo che hanno a cuore Venezia, spetta un compito vitale e una grave responsabilità: mostrare e dimostrare che la diversità e la bellezza non sono una pesante eredità del passato, ma uno straordinario dono per vivere il presente e una straordinaria dote per costruire e garantire il futuro ... perché se Venezia muore non sarà solo Venezia a morire: morrà l’idea stessa di città, la forma della città come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione di civiltà, come impegno e promessa di democrazia».
In un’intervista apparsa sulla stampa locale il 7 dicembre, Renata Codello, Soprintendente per i Beni Architettonici, ha ribadito il suo convincimento ... >>>
Più che il contenuto di tali dichiarazioni, che poco aggiunge ad altre sue precedenti, sorprende il silenzio della Soprintendente a proposito della decisione - resa nota due giorni prima, il 5 dicembre- assunta dal commissario prefettizio Vittorio Zappalorto di «cedere» le Procuratie Vecchie, che pure fanno parte della piazza, alle Assicurazioni Generali. Tale decisione è l’ultimo tassello di una lunga contrattazione avviata dalle precedenti amministrazioni comunali con i proprietari del complesso architettonico, su una parte del quale “grava” il vincolo di uso pubblico.
L’idea dell’ex sindaco Orsoni era di togliere il vincolo di destinazione d’uso al compendio, fatta eccezione per circa 3000 metri quadri con affaccio sulla piazza, che sarebbero dovuti rimanere per trent’anni nella disponibilità del comune, se le Generali avessero versato qualche milione di euro. A suo tempo, l’offerta venne giudicata non abbastanza vantaggiosa dalle Generali che, ben coscienti che «questa proprietà è una cosa unica al mondo…. ha un valore inestimabile», hanno saggiamente aspettato le svendite al ribasso del commissario.
Ora, infatti, il comune rinuncerà ad ogni contenzioso e siglerà un accordo bonario che riduce da 3000 a 800 metri quadrati la parte da destinare ad usi pubblici. «In cambio, ha detto il commissario, la compagnia verserà alcuni (?) milioni per la valorizzazione immobiliare nel frattempo avvenuta dell’area delle Procuratie». Più che soddisfatti sono anche gli amministratori delle Generali, che hanno dichiarato: «al momento non è stata ancora individuata la destinazione, ma sarà compatibile e in perfetta sintonia con la città di Venezia e con la monumentalità del posto… detto questo, gli spazi sono nostri». Bontà loro, che non hanno (non ancora) accatastato la piazza a proprio nome.
Se la contemporaneità delle dichiarazioni del commissario e quelle della soprintendente è ovviamente casuale, induce però a porsi almeno due domande. La prima è se il processo di valorizzazione immobiliare di cui parla Zappalorto non coincida con la riqualificazione esaltata dalla sopraintendente, ed in vista di quali utilizzatori finali siano state restaurate le pietre della piazza. E’ una domanda retorica, dal momento che è dimostrato che il degrado viene tollerato, se non promosso (almeno a partire dal concerto dei Pink Floyds) dalle pubbliche amministrazioni finche lo spazio è pubblico, ma diventa intollerabile quando riduce le amenità ambientali incorporate dai privati investitori.
La seconda questione è se la ripulitura della piazza, in senso fisico e umano – è di oggi la notizia di un “presidio fisso interforze per blindare San Marco” - sia un elemento non secondario del processo in corso di feudalizzazione della società, e quindi degli spazi urbani ai quali i cittadini hanno diritto di accedere o tramite un pagamento o grazie alla concessione di un signore.
Se è così, aspettiamoci, magari con il prossimo patto di stabilità, la recinzione dello square e la consegna delle chiavi ai proprietari che vi si affacciano e che vi possono atterrare con le loro mongolfiere.
Corriere della Sera, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)
Alla prossima frana, non osino chiedere aiuto allo Stato. Alla prossima frana, non osino strillare davanti alle telecamere. Non osino invocare risarcimenti per i danni. Perché lo sanno tutti, a Messina, che è da pazzi costruire nei letti dei torrenti Trapani e Boccetta. Eppure, appena rimosso il funzionario che si opponeva, sono ripartiti i cantieri. Come se tante tragedie non fossero mai avvenute. È una pazzia doppia, quella di Messina. Perché i numeri dell’anagrafe dicono che la città, a dispetto di piani di sviluppo megalomani che prevedevano una metropoli di mezzo milione di persone, perde abitanti. Ne aveva, nel 1981, oltre 260 mila. Ne ha, oggi, quasi 20 mila in meno. Ed è tappezzata di cartelli: «vendesi», «affittasi». Al punto che Lucio D’Amico sulla Gazzetta del Sud, parlando dei nuovi cantieri, scrive che «i costruttori tireranno un sospiro di sollievo, ma poi dovrebbero spiegare a chi venderanno». Analisi certificata dall’Osservatorio immobiliare 2014 di Nomisma. Che parla di crollo nelle compravendite sullo Stretto, tra il 2012 e 2013, del 47%.
Prosegue dopo un decennio la battaglia contro una scelta sbagliata e costosa, per una ragionevole e meno dispendiosa. A pensar male la pervicace volontà autostradale ha proprio nel risparmio la sua ragione. Proposta delle associazioni ambientaliste, link al testo integrale
Il documento affronta la storia dei progetti per il corridoio stradale tirrenico, le osservazioni presentate dalle Associazioni Ambientaliste al progetto definitivo del 2011 e i problemi non risolti, la fragilità del piano economico-finanziario, la riapertura della procedura di infrazione in sede di Unione Europea, i problemi irrisolti di intermodalità, le proposte di adeguamento e messa in sicurezza della SS.Aurelia.
Le proposte si possono così sintetizzare:
Ø Destinare i 270 Milioni che il Governo sembrava disposto a fornire a SAT o più in generale le risorse pubbliche disponibili, alle più urgenti opere di adeguamento e messa in sicurezza della Strada Statale Aurelia, iniziando necessariamente dai tratti ancora a due corsie ed eliminando i più pericolosi incroci a raso e immissioni dirette.
Ø per quanto riguarda i tratti già in esercizio e quelli in fase di realizzazione esonerare il pedaggio per il traffico locale di ambito provinciale che potrà così restare sull’Aurelia potenziata e sicura. Si riduce così drasticamente il potenziamento della viabilità alternativa e si riducono i costi ambientali ed economici del progetto.
Ø eliminare il sistema di esazione con barriere e sistemi chiusi utilizzando solo le innovazioni tecnologiche come il multilane free flow, con l’obiettivo di far pagare chi attraversa la Maremma (TIR e traffico veicoli) ed escludendo tutto il traffico locale, sia dei residenti, delle imprese e del trasporto pubblico, dal pedaggio. Gli attuali sistemi tecnologici di riconoscimento, selezione e pagamento automatico consentono sistemi flessibili e selezionati di gestione.
Ø Gli incassi dei pedaggi di attraversamento della Maremma devono essere reimpiegati per la messa in sicurezza ed adeguamento dell’Aurelia, con priorità alle tratte ancora a due corsie ed agli attraversamenti a raso più pericolosi.
Ø ritornare al progetto Anas di adeguamento della Strada Statale Aurelia implica anche rivedere con l’adozione di una norma la concessione a SAT, escludendo dall'affidamento di questa tratta la concessionaria.
«Test di mercato tramite affidamento diretto del comune a Nai Global: negozi e ristoranti» quello che il mercato vuole. Tutt'altro emerge nei tavoli di lavoro in cui i cittadini si esprimono, di cui nell'articolo di Elisa Lorenzini (Corriere del Veneto) e dal comunicato stampa di Italia Nostra, firmato da Paolo Lanapoppi (m.p.r).
Tra qualche tempo, a quanto è stato comunicato, verranno lanciati dei bandi per le concessioni
dei singoli lotti. E’ presumibile che essi verranno ceduti ai migliori offerenti, anche se il
subcommissario Scognamiglio ha dichiarato in una riunione con alcune associazioni che dovrà
contare molto anche la qualità dei prodotti aziendali trattati. In un incontro con la cittadinanza il subcommissario ha illustrato il suo piano e poi ha ceduto la parola all’azienda che il Comune ha assunto (per ora non si sa a quali costi) per reperire gli “investitori”. Il rappresentante di quell’azienda (specializzata nel settore immobiliare e nella ricerca di investitori professionali) si è anche sbilanciato ad accennare al tipo di attività che vorrebbe vedere installate nel nostro Arsenale: “fashion (si cerca sempre l’inglese per essere più moderni), arti visive, musica, etc.” Alla stampa ha dichiarato che ci sarebbero già 50 brand (vuol dire marchi) internazionali disposti a insediarsi nell’Arsenale.
Ciò che interessa non è dunque una testimonianza della storia navale, civile e artistica del nostro
Paese e dell’Europa intera, ma una serie di contenitori per brand e fashion. Sarà praticamente
impossibile leggere negli edifici rimaneggiati, rivestiti, trasformati la solennità e bellezza
dell’antichissima fabbrica navale. Contro queste proposte la comunità veneziana si è già levata
con molta forza: non solo le associazioni, ma anche individui singoli stanno protestando sia nelle
sedi ufficiali sia nei social network. Sta nascendo così un’idea unitaria dell’uso da fare del
compendio, tale da esaltarne insieme la bellezza, la storia e il messaggio di vita: farne un polo della
civiltà del mare, che comprenda la testimonianza dell’antico e una visione del presente e futuro,
forse anche un centro per gli studi sulla laguna e per la produzione e il restauro di barche antiche e
moderne. Invece che agenzie immobiliari, il Comune dovrebbe affidarsi all’esperienza e sapienza
dei nostri grandi storici dell’arte e dei direttori dei grandi musei marittimi del mondo.
Il meraviglioso Arsenale di Venezia è una grande opportunità e una forte responsabilità, di fronte
non solo ai residenti ma a tutto il mondo civile: chi verrà a visitarlo dovrà uscirne più ricco, più
completo come uomo e come cittadino del mondo. A questo serve la bellezza, non a incassare
profitti.
Due articoli del tutto indipendenti in sezioni diverse del giornale, convergono nell'evitare accuratamente un tema chiave della città futura: lo spazio pubblico e la sua gestione, ben oltre la forma fisica del progetto. Massimo Gaggi e Luca Molinari, Corriere della Sera 6 dicembre 2014, postilla (f.b.)
Unico dettaglio che non consente di rilassarsi: le finestre, tre metri per tre, che arrivano fino al pavimento, non sono state ancora montate, ci sono solo reti e funi di protezione. E il vento di dicembre è micidiale. Ma presto questa penthouse diventerà un accogliente trionfo di marmi, cristalli e legni pregiati. Un appartamento di un piano, circa 800 metri quadrati, già venduto.
Cim Group e Macklowe Properties, le imprese che stanno completando la più alta torre d’appartamenti dell’emisfero occidentale, non danno informazioni sui clienti e sui prezzi pagati. Ufficialmente gli appartamenti di 432 Park Avenue, appena 104 unità immobiliari — e quindi molte di un intero piano per viste sconfinate senza vicini della porta accanto — in un edificio di 96 piani (ma quelli bassi sono destinati ai servizi comuni: club esclusivo, ristorante, palestra, piscina), sono in vendita a prezzi variabili tra i 17 e gli 83 milioni di dollari. In realtà l’attico che sto attraversando con passo incerto è stato pagato 95 milioni. E non è nemmeno un record. Nel mondo globalizzato della polarizzazione dei redditi e della formazione di grandi fortune, si moltiplicano, dal Medio Oriente alla Russia, i super-ricchi pronti a spendere decine di milioni, magari anche cento, per una residenza davvero esclusiva.
Londra, Singapore, Montecarlo, Dubai, ma soprattutto New York: quello di isolarsi in un «nido delle aquile» sopra Manhattan sembra il sogno di molti miliardari. Ed è proprio questo mercato che alimenta la febbrile attività dei costruttori newyorchesi impegnati a realizzare a Midtown, negli isolati attorno alla 57esima strada, una decina di nuovi grattacieli di appartamenti che stanno cambiando ancora una volta la skyline di New York. Torri che sembrano matite, sottilissime e altissime. Passati di moda i grandi palazzi per uffici dalla facciata piatta che richiedono molti ascensori per il gran traffico di gente, adesso si guadagna con le residenze esclusive: gli ascensori sono diventati velocissimi (quelli di 432 Park impiegheranno appena 55 secondi per arrivare al 96esimo piano), ne bastano due o tre per ogni torre. E poi le nuove tecniche costruttive consentono di realizzare edifici sottilissimi. Come il condominio al 111 West della 57esima. La costruzione è iniziata da poco: sarà alto quando 432 Park, ma ancora più sottile. Una base di appena quindici metri, una vera lama che taglia il cielo.
Chi ci abiterà? Industriali indiani e cinesi, sceicchi ancora pieni di petrodollari, oligarchi russi, ma anche imprenditori e finanzieri americani, a giudicare dalle facce di chi entra ed esce dai condomini di extralusso già costruiti nella zona. Una concentrazione di ricchezza che ha ispirato al sindaco de Blasio l’immagine delle due New York, i ricchi e gli esclusi. In realtà quella che si sta formando nel centro di Manhattan, tra Central Park e il Rockefeller Center, è una concentrazione impressionante di opulenza in poche mani. Un fenomeno che la rivista Fortune ha cercato di rendere in cifre: il costo dei 104 appartamenti della torre di Park Avenue, 3,12 miliardi di dollari, supera il valore di tutti gli edifici residenziali della città di Trenton, la capitale del New Jersey, ed è il doppio dell’intero patrimonio immobiliare di Juneau, la capitale dell’Alaska. Tony Malkin, capo dell’azienda familiare che gestisce l’Empire State osserva le nuove torri con sufficienza: «Postmoderne? A me sembrano medievali: i ricchi che si proteggono isolandosi dalla città sottostante come 700 anni fa». Siamo o non siamo nella San Gimignano del Ventunesimo secolo?
COME RIDARE L'ANIMA
AI PALAZZI-MONSTRE
di Luca Molinari
Da qualsiasi direzione si guardi il Corviale, la grande astronave in cemento armato planata alle porte di Roma alla fine degli anni Sessanta per ospitare almeno ottomila persone, offre una sensazione di straniamento che raramente un’architettura riesce a dare. Da quando è stata costruita e solo parzialmente abitata, quest’opera ha avuto il potere di calamitare una serie di «leggende metropolitane» e luoghi comuni che esprimono molto bene l’impatto simbolico che opere di questa dimensione hanno avuto sulla comunità dei suoi abitanti. C’è chi diceva che il Corviale aveva fermato con la propria sagoma il delicato vento Ponentino, mentre altri affermavano che in quel labirinto ci si sarebbe potuti perdere senza salvezza.
Ma la storia è purtroppo molto più semplice e triste perché l’edificio venne abitato solo parzialmente e, soprattutto, gli spazi immaginati per ospitare tutte le funzioni pubbliche e collettive vennero subito abbandonati all’occupazione più selvaggia generando in poco tempo un degrado diffuso che non lasciava alcuna speranza . Non si tratta di un caso unico ed estremo, perché la storia del Corviale è uguale a quella di altre «mega strutture» sognate dagli architetti durante gli anni Sessanta per cercare di risolvere il problema drammatico delle nuove periferie urbane. Di fronte alla pressione migratoria fortissima e alla necessità di rispondere a una domanda crescente di alloggi l’architettura moderna più evoluta cercò di dare forma a vere e proprie strutture urbane di nuova generazione capaci di raccogliere in un unico, enorme organismo le diverse funzioni che prima si cercava di tenere separate come l’abitare, i servizi educativi e sanitari di base, alcuni spazi pubblici e le strutture commerciali primarie. Queste nuove, imponenti strutture nate in molte delle periferie delle nostre città tra Europa, Stati Uniti e Giappone abbinavano i sistemi costruttivi rapidi prefabbricati a un uso dei linguaggi moderni più severi e avanzati illudendosi che i suoi abitanti si sarebbero presto ambientati in un diverso frammento di città del futuro.Quello che invece nessuno di questi progettisti poteva immaginare è che, invece, queste visioni di un domani radioso sarebbero diventate rapidamente pezzi di città dormitorio e simboli di un’alienazione sociale devastante.
Ma da almeno un decennio è in corso un processo interessante che, abbandonata la demonizzazione di questi luoghi, li considera come frammenti di vita di comunità di abitanti da aiutare a migliorare la qualità degli edifici e la possibilità di trasformarli. E così si sono avviate demolizioni parziali, nuove costruzioni che s’integrano con l’esistente, definizioni di strategie partecipate per usare i luoghi in maniera differente, cambi di destinazioni d’uso che stanno mutando l’identità di questi luoghi sparsi in tutto il mondo (all’estero da ricordare gli esperimenti di Amsterdam Nord e di Bijenkorf a Rotterdam), al punto che non sarà difficile, tra qualche anno, entrare al Corviale e trovare un chilometro verde capace di trasformarlo in un luogo pieno di vita.
postilla
Ci sono due punti di vista complementari ed essenziali per capire quanto sia elusa la questione centrale: quello esplicitato del rischio cittadella fortificata nel grattacielo di lusso, e quello sfiorato degli ambienti inutilizzati dentro l'unità di abitazione razionalista. Temi che evidentemente non riguardano solo i due esempi specifici, highrise newyorchese o mega-steccone romano, trattati dai due articoli, e lasciano inevasa la questione pubblico/privato, che invece salta davvero all'occhio a un secondo sguardo. Nel complesso di lusso o gated comunity che dir si voglia, lo spazio pubblico è umiliato ad ambiente condominiale, ovvero si compra insieme all'appartamento e al diritto di entrarci. In quello razionalista, che vorrebbe riassumere in sé tutta la città, da sempre quegli ambienti risultano fallimentari, per un motivo o l'altro. Il che metterebbe in primo piano sino a che punto la sola progettazione spaziale e architettonica (su cui si soffermano in esclusiva questi articoli, e non solo loro), NON sia il problema. E implicitamente rilancia, insieme al corrente dibattito sulla densificazione urbana e il contenimento di consumo del territorio, la bistrattata progettazione razionalista, proprio quella degli ambienti comuni interni agli edifici multipiano. Perché? Perché forse, oltre gli studi tecnici spaziali degli architetti novecenteschi, è rimasto scoperto tutto il campo della gestione, di quegli spazi, chi deve farsene carico, quale qualità minima debbano possedere e mantenere e via dicendo. Se si vuole discutere della città del futuro, insomma, e non continuare inutilmente a guardare a un mitico passato, forse è il caso di riconsiderare in positivo anche questo lascito del '900, riconoscendone e colmandone le lacune (f.b.)
Su Today, vedi l'idea (sbagliata) di le Corbusier
Ora basta. Una lettera aperta per cercar di capire se Venezia è ancora una città: se oltre all'Urbs c'è anche una Civitas (e può esserci anche una Polis).
Vi state accorgendo di ciò che stanno facendo anche alla nostra città? Stanno divorando tutto, nella città e nella sua Laguna. I monumenti e le barene, gli spazi pubblici e i palazzi, la cultura e la salute, i campi e le isole. Da Poveglia a villa Hériot, dall’Arsenale alle Procuratie nove, da Ca’ Soranzo agli alberi del Lido….
Nessuno reagisce, nessuno scende in piazza per contrastare qualcosa che non è una serie di iniziative estemporanee da criticare su punti marginali, ma un disegno di saccheggio della città quale non s’era mai visto nei secoli.
Abbiamo almeno tentato di raccogliere un dossier, o almeno un elenco sommario, del patrimonio che è stato affidato alle generazioni cui apparteniamo? La nostra città è davvero diventata un maiale da vendere a pezzi al miglior offerente in omaggio al “patto di stabilità? E per di più, negli ultimi mesi, da parte un funzionario non eletto da nessun cittadino.
Venezia, 5 dicembre 2014
Ulteriore porzione dell'incomparabile bene comune di Venezia e Laguna sacrificato a Mercato e Patto di stabilità. Un funzionario non eletto può svendere a pezzi una città senza andare in galera? Ci sono cittadini capaci di sollevarsi, o Venezia non è più una città? La NuovaVenezia, 5 dicembre 2014
Anche l’uso pubblico delle Procuratie Nuove - di proprietà delle Assicurazioni Generali, ma in questi anni sedi delle uffici giudiziari - sacrificate sull’altare del rispetto del Patto di Stabilità, che il Comune sta disperatamente inseguendo.
«Stiamo chiudendo un accordo bonario con le Generali - anticipa infatti il commissario straordinario Vittorio Zappalorto - rinunciando al contenzioso che abbiamo in atto proprio sull’uso pubblico delle Procuratie, che la compagnia assicuratrice invece contesta. Manterremo solo circa 800 metri quadri a uso pubblico e lasceremo invece oltre 3 mila metri quadri a disposizione delle Generali. In cambio la compagnia ci verserà alcun milioni di euro per la valorizzazione nel frattempo avvenuta dell’area immobiliare delle Procuratie».
Un ottimo affare, evidentemente, per le Generali, che non avranno più l’opposizione del Comune sull’uso dei prestigiosi spazi, dove in passato avevano anche elaborato un progetto per la realizzazioni di appartamenti di lusso, subito fermato e una “mancia” per il Comune nel tentativo di far quadrare i conti e recuperare entro fine anno i 60 milioni di sforamento tendenziale del Patto certificati anche dalla Corte dei Conti. Ma Zappalorto non applicherà - intanto, come chiedevano i Revisori a scopo preventivo, ritenendo ormai probabile lo sforamento del Patto - fin da novembre ai dipendenti comunali le penalizzazioni previste dallo sforamento del Patto del 2014.
«Le penalizzazioni le applicheremo solo quando il Patto sarà effettivamente sforato - ha dichiarato ieri Zappalorto - e stiamo appunto lavorando per evitarlo. Penso che entro Natale riusciremo a concludere la vendita alla Cassa Depositi e Prestiti di Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per una trentina di milioni di euro, superando le varie pastoie burocratiche. Abbiamo già incassato inoltre 10 milioni di euro di fondi pregressi di Legge Speciale dallo Stato. Un’altra decina milioni di euro dovrebbero arrivare appunto dall’accordo con le Generali per la valorizzazione e la rinuncia all’uso pubblico delle Procuratie Vecchie e da altri diritti di superficie similari».
Forti dubbi invece nutre il commissario sulla possibilità di avere dalla Regione gli 8 milioni di euro di fondi di Legge Speciale che pure Palazzo Balbi dovrebbe a Ca’ Farsetti e questo renderebbe da possibile a pressoché certa la vendita di Villa Hèriot, fortemente contestata.
Il manifesto, 30 novembre 2014
Per la seconda volta in un anno, ieri archeologi, bibliotecari, archivisti, storici dell’arte e restauratori hanno manifestato a piazza del Pantheon a Roma contro il «modello Expo» adattato ai beni culturali. Sotto una pioggia battente, centinaia di giovani professionisti hanno denunciato il ricorso programmatico dello Stato e dalle sue propaggini locali al lavoro gratis o al volontariato. È stato denunciato il bando della Soprintendenza capitolina che cerca volontari per svolgere attività gratuite nei musei e nelle aree archeologiche della Capitale. Proprio come a Milano, dove il Touring club sta reclutando mille volontari per svolgere il ruolo di guide ai monumenti durante l’Expo, a Roma si ricorre al lavoro gratuito o a prestazioni pagate simbolicamente (3 euro l’ora) per svolgere servizi di prima accoglienza, informazione e accompagnamento. I tagli, il ricorso sistematico ai privati e il fatale blocco del turn-over e dei concorsi (quando si fanno, non si assume) hanno spinto il Ministero dei beni culturali a credere che il volontariato sia un’attività sussidiaria all’assunzione di figure specializzate.
La trasformazione è stata ufficializzata mentre il Mibact è passato da Massimo Bray a Dario Franceschini. Con il precedente milanese, si può dire che è diventata sistema in tutto il paese. Un sistema che elude la normativa del codice degli appalti, già funestato dal ricorso generalizzato alle gare al massimo ribasso. Oggi è diventata la regola anche nel mondo dei beni culturali dove, solo pochi giorni fa, il ministro Franceschini e il sottosegretario Luigi Bobba hanno siglato un protocollo inter-istituzionale per il reclutamento di 2 mila «giovani» da impiegare gratuitamente per la tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio. Lo Stato userà manodopera volontaria sotto forma di «servizio civile». Abolito negli anni Duemila, oggi viene recuperato per trovare un’occupazione a costo zero per laureati o diplomati. Una prima contestazione contro questo accordo è avvenuta venerdì all’entrata dei Musei Capitolini, bloccata simbolicamente con un nastro rosso. Lo slogan era: «Noi non siamo a costo zero».
La mobilitazione di ieri è stata promossa dall’Associazione Nazionale Archeologi (Ana) e da Confassociazioni (160 associazioni, con 275 mila iscritti) e ha voluto affermare un principio elementare: «La cultura è lavoro e il lavoro si paga». Nella sua semplicità rivoluzionaria, questo slogan può essere applicato all’università, o al giornalismo, al lavoro nello spettacolo come a quello artistico. Rivela una condizione comune e coglie uno degli elementi del postfordismo applicato alla cultura: il sistema degli appalti e dei subappalti applicato tanto nei beni culturali, quanto nella logistica (ad esempio) e il ricorso alle cooperative che sfruttano i «cottimisti» del lavoro culturale: gli archeologi, i bibliotecari o gli archivisti. Lo stesso accade ai facchini nella logistica.
Cresce dunque la mobilitazione, spinta dal progressivo riconoscimento di una condizione comune anche agli studenti. Alla manifestazione di ieri hanno partecipato Link e la Rete della Conoscenza. E cresce anche la capacità di coordinamento e auto-organizzazione alla quale partecipano anche storici dell’arte o l’associazione nazionale dei restauratori. Insieme hanno elaborato un manifesto contro il «dumping spregiudicato» del lavoro volontario. Sull’onda del protagonismo culturale e politico degli archeologi si è formato un coordinamento con Confassociazioni e le altre realtà mobilitate. Tra le richieste c’è quella dell’assunzione dei vincitori l’ultimo concorso di Roma Capitale e il ritiro del bando della Soprintendenza capitolina. La domanda che spiega il senso del conflitto in corso è: «Se siamo abituati a pagare il medico, perché non paghiamo archeologi o restauratori che curano il nostro patrimonio culturale?».
Ulteriore passo del neoliberismo renziano: con un'operazione in cui Politica e Mercato collaborano. I poveri ancora più poveri ed emarginati, il Potere degli immobiliaristi più forte e più ricco. E i beni comuni diminuiscono ancora. Sbilanciamoci.info, 4 novembre 2014
Il governo accelera sulla dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica. Ma solo un porzione minima della popolazione residente oggi in quegli alloggi potrebbe affrontare l’acquisto all’asta. E così l’operazione rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo alla rendita immobiliare
Un decreto del Ministro Lupi, in corso di pubblicazione dopo il concerto avuto presso la Conferenza Unificata Stato – Regioni e Comuni, detta nuovi criteri ai fini dell’accelerazione della dismissione del patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica (quelle che vengono comunemente chiamate le case popolari). In questo modo, il governo attua quanto previsto dall’articolo 3 della legge 80 del 2014 (il cosiddetto “piano casa Lupi”), che ha per titolo proprio “misure per l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico.”
Può destare stupore che la Conferenza Unificata abbia dato il relativo consenso nella seduta dello scorso 16 ottobre, in quanto si viene ad intervenire su patrimoni di proprietà di Regioni e ed enti locali. Si stabilisce, infatti, che le nuove norme, in deroga alle precedenti disposizioni procedurali previste dalle leggi vigenti, si applichino “agli immobili di proprietà dei comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli istituti autonomi case popolari (gli IACP) comunque denominati”. Lo Stato, quindi, interviene dettando norme e criteri di alienazione su immobili non suoi e sui quali Regioni e comuni esercitano una competenza esclusiva.
Per quanto stupefatti, il testo uscito dalla Conferenza unificata, nelle linee essenziali, è tale e quale a come vi è entrato. Ricapitoliamone i passi salienti:
gli organi di gestione presentano i piani di vendita (addirittura divengono operativi con il silenzio assenso della Regione); c’è una graduatoria di priorità (condomini misti, immobili fatiscenti) ma la procedura si applica a tutto il patrimonio, senza salvaguardie; gli immobili fatiscenti o i cui costi di manutenzione sono “dichiarati” insostenibili possono essere ceduti in blocco; la tutela per gli assegnatari è il diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione dell’asta.
Il decreto demanda agli Istituti e alle Regioni l’individuazione di eventuali ulteriori forme di tutela che, comunque, vista l’attuale situazione deficitaria in materia di offerta di alloggi pubblici, non potrà essere quella dell’assegnazione di un alloggio alternativo.
Qual è il giro di affari potenziale di questa manovra? Malgrado l’ERP sia lasciato al degrado e rappresenti sempre più un settore marginale dell’intervento pubblico, il suo valore rappresenta un “tesoro nascosto” e l’interesse a smobilizzarlo può essere alto.
Le case popolari gestite dagli Istituti o Aziende regionali sono poco più di 800 mila. Aggiungendo ad esse quelle di proprietà dei comuni e degli altri enti territoriali possiamo parlare di circa 1 milione di immobili. Il prezzo medio di vendita di un alloggio ERP nel 2011 è stato di 39.144 euro. Secondo Federcasa, il valore di mercato si aggira intorno ai 70/80 mila euro ad alloggio, per un totale quindi di 70/80 miliardi.
Quale porzione degli assegnatari potrebbe acquistare l’alloggio in cui risiede, sulla base di una dismissione che parta dal prezzo di mercato? Ai prezzi con cui il patrimonio è stato finora messo in vendita (circa il 50% in meno del valore di mercato) hanno acquistato una percentuale che oscilla tra il 20 e il 25% di coloro che hanno ricevuto l’offerta. Si parla di vendere all’asta con priorità nei condomini misti. Essi esistono, però, in quanto già gli Istituti o i comuni hanno messo in vendita i palazzi e solo una parte dei residenti ha comprato. Come è pensabile che possano comprare oggi all’asta quando prima non hanno potuto acquistare l’alloggio a un prezzo molto inferiore?
Forniamo alcuni dati sulla composizione sociale e reddituale di chi abita nel comparto. Riferendosi al comparto principale dell’ERP (gli alloggi gestiti dagli IACP, ATER, ecc.), abbiamo questi risultati:
un terzo delle famiglie ha redditi inferiori a 10 mila euro l’anno;
la morosità, attestata nel 2011 intorno al 20% del totale degli assegnatari, è in ulteriore aumento a causa dell’impoverimento di massa causato dalla crisi;
vi è una fortissima presenza di anziani (sono segnalate oltre 400 mila persone con più di 65 anni nel comparto);
145 mila sono le persone con disabilità.
E’ del tutto lampante che solo un porzione minima dell’intera popolazione residente oggi nell’ERP, valutabile in non più del 10 – 15%, potrebbe affrontare l’acquisto all’asta o esercitare il previsto diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione.
In pratica, si realizzerebbe il paradosso che potrebbero acquistare la casa popolare solo coloro che possiedono un reddito superiore alla decadenza (quelli che dovrebbero essere accompagnati verso il social housing, rimettendo l’alloggio nel circuito dell’affitto sociale).
Se il patrimonio venisse quindi posto in vendita all’asta (per singoli alloggi o come abbiamo visto per immobili interi) sulla base del prezzo di mercato, la conseguenza ovvia sarebbe che passerebbe di mano a terzi soggetti, almeno per le parti più appetibili dal mercato.
Si sommerebbero tre effetti negativi: rischi speculativi molto alti (specialmente nel caso delle aste di interi fabbricati); conseguenze sociali devastanti (se gli immobili abitati passano a terzi, lo sfratto degli abitanti è la logica conseguenza); dissesto del comparto ERP, di fatto trasformato, più di quanto sia ora, in “bad company”, essendo previsto il mantenimento del patrimonio più degradato e senza interesse da parte del mercato.
Tre ragioni, ognuna di per sé valida, per affermare che sarebbe saggio ritirare un progetto che è al tempo stesso socialmente iniquo e senza prospettiva per il settore ERP.
Sembra davvero inconcepibile che il governo si avvii nell’avventura senza ritorno del completo azzeramento dell’intervento pubblico nelle politiche abitative, in una condizione generale di acuta sofferenza abitativa segnata da dati incontrovertibili: 700 mila famiglie, utilmente collocate nelle graduatorie comunali senza risposta; oltre 200 mila sfratti nei soli ultimi 3 anni (di cui il 90% per morosità); circa 1 milione e mezzo di famiglie in difficoltà a pagare l’affitto; una carenza di almeno 1 milione di alloggi sociali.
Eppure, una strada alternativa sarebbe percorribile.Tre sono le mosse per renderla praticabile: ritirare i processi di dismissione che mettono a rischio la coesione sociale, investire sul recupero e riuso ai fini della residenza sociale del già costruito, finanziare questa operazione cominciando a tagliare finalmente le unghie alla rendita immobiliare parassitaria.
La riflessione alimentare e ambientale globale stimolata dai temi di Expo 2015, al tempo stesso introduce e schiva certi aspetti territoriali su cui vale certamente la pena soffermarsi meglio. Corriere della Sera, 4 dicembre 2014, postilla (f.b.)
La Rivoluzione Verde, termine coniato per indicare un processo basato sull’innovazione tecnologica applicata all’agricoltura il cui inizio si fa risalire alla seconda metà degli Anni 40, ha mostrato nel lungo periodo i suoi fallimenti. Le stime delle Nazioni Unite, infatti, mostrano che oggi ancora una persona su otto soffre la fame, e, nonostante le statistiche in questo senso mostrino un considerevole miglioramento dai primi Anni 90, si tratta ancora di un livello inaccettabile.
La promessa di avere cibo sicuro, abbondante e nutrizionalmente adeguato per tutti, quindi, è stata disattesa. Tale fallimento, evidente a decenni di distanza dall’avvio del processo di innovazione che avrebbe dovuto affrancare l’umanità dalla fame, è nelle assunzioni sulle quali è stato basato, secondo cui abbondanti risorse idriche ed energia a basso costo sarebbero sempre state disponibili a supportare l’agricoltura moderna nel quadro di un clima stabile.
I dati sullo stato dell’agricoltura mondiale mostrano invece criticità nuove, con cui il settore agricolo non si era ancora misurato. In alcune delle maggiori aree a vocazione cerealicola il tasso di incremento delle rese delle colture sta diminuendo sensibilmente, in quanto si è ormai quasi raggiunto il limite della massima resa ottenibile. I sistemi agricoli sono profondamente cambiati nella loro struttura e, principalmente a causa della mancanza di meccanismi di regolazione ecologica, le monocolture basate su una alta dipendenza dall’utilizzo di pesticidi hanno preso il sopravvento. L’impiego di sostanze chimiche negli ultimi 50 anni è aumentato in maniera drastica fino a raggiungere le 2,6 milioni di tonnellate all’anno, con un giro di affari su scala globale pari a oltre 25 miliardi di dollari americani.
Tornando ai numeri della fame mondiale di cui si è accennato, è importante riflettere sul fatto che quel miliardo di persone che ancora non ha accesso a cibo in quantità e qualità sufficiente per condurre una vita sana e attiva, non è in realtà legato a una mancanza di risorse. Globalmente, infatti, viene già prodotto cibo in quantità sufficiente da sfamare tra i nove e i dieci miliardi di persone, cifra che corrisponde al picco di popolazione previsto per il 2050. Il vero problema alla base di una ancora così ampia diffusione della fame nel mondo è la congiunzione di povertà e ineguaglianza che colpisce una porzione assai ampia della popolazione mondiale.
Appare quindi evidente e necessario che l’umanità elabori un nuovo e alternativo paradigma di sviluppo agricolo che promuova fortemente dei sistemi produttivi che siano ecologicamente fondati, altamente biodiversi, più resilienti e sostenibili, e inseriti in un quadro di maggiore giustizia sociale. La base per questi nuovi sistemi è tutt’altro che teorica e si ritrova nella miriade di sistemi agricoli fondati sui principi dell’ecologia realizzati e perpetrati da almeno il 75% degli 1,5 miliardi di piccoli proprietari terrieri, aziende a conduzione familiare e popolazioni indigene sparsi per il mondo. Il loro contributo alla produzione agricola mondiale è di inestimabile valore: nelle circa 350 milioni di piccole unità produttive che coltivano, producono non meno del 50% della produzione globale destinata al consumo domestico.
Da questi sistemi produttivi l’agroecologia trae il suo fondamento. L’agroecologia si basa su principi propri dell’ecologia che vengono applicati nella gestione sostenibile degli agroecosistemi attraverso la sostituzione degli input esterni con i processi che naturalmente alimentano un agroecosistema, quali, per dire, la fertilità del suolo e il controllo biologico delle specie che vi coabitano.
Motore di questo profondo cambiamento che l’agricoltura moderna dovrà intraprendere sono quindi i sistemi che traspongono nella pratica quella ricca e variegata conoscenza tradizionale basata su una profonda integrazione con l’ambiente. Determinante è stato il mantenimento di un’ampia diversità genetica e tecnica che ha consentito negli anni di costruire e mantenere sistemi stabili nel tempo. È soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che risiede la maggior parte della popolazione contadina indigena depositaria di questo sapere. Dunque è proprio il Sud del mondo a detenere il maggiore potenziale agroecologico per produrre abbastanza cibo a livello globale procapite non solo per sfamare l’attuale popolazione, ma anche quella dei prossimi decenni.
postilla
Dando per scontato che il dibattito sulle tecniche di sfruttamento agricolo del pianeta sia ampiamente aperto, è da sottolineare come esista un potenziale importantissimo ruolo delle città, e aree metropolitane, almeno come luogo di elaborazione e sperimentazione di modalità diverse e più avanzate di uso del territorio, sia in funzione agricolo-alimentare che urbana e sociale. E il riferimento non è tanto al ruolo, pur documentatamente importante, della classica agricoltura urbana, o della complementare necessità di contenere il consumo di suolo pro capite proprio per destinare superfici a scopi ambientali e alimentari. Ma prevalentemente al medesimo aspetto toccato dall'Autore, ovvero delle specifiche tecnologie di coltura, che in ambiente urbano vedono l'emergere della cosiddetta vertical farm, purtroppo oggi penalizzata da certi approcci ideologici estetizzanti e immobiliaristi. La base di questa teoria in realtà è la stessa dell'articolo, ovvero l'urgente necessità da un lato di incrementare la produzione alimentare, dall'altro di farlo riducendo e tendenzialmente azzerando gli impatti negativi sulla biodiversità e l'ambiente in generale, accumulati soprattutto dalla novecentesca rivoluzione verde che ha mutato il significato di agricoltura in senso industriale. Una discussione ampiamente aperta, ovviamente, che ho provato ad affrontare in un seminario nell'ambito di Iconemi sui temi Expo, e che merita certamente di essere sviluppata da vari punti di vista. Il testo completo è in corso di pubblicazione, il link è semplicemente al powerpoint della conferenza Altri articoli sul tema della Vertical Farm al sito Città Conquistatrice (f.b.)
Siracusa. La Sicilia, com'è noto, dal 1977 ha una gestione dei Beni Culturali autonoma. A tale peculiare ordinamento, che la distingue anche dalle altre regioni a statuto speciale, si deve, fra gli altri inconvenienti, che quel che vi accade spesso sfugge all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale. In virtù di ciò, risulta anche agevole sperimentarvi o anticiparvi, senza destare troppo clamore e a mo' di ballons d'essai, pratiche non ancora invalse a livello centrale. Può ben dirsi che, in questo senso, la Sicilia spesso ha svolto e svolge la funzione di laboratorio e di incubatore. Sia che si sia trattato di assumere e poi stabilizzare caterve di precari negli organici dell'amministrazione, di dare in gestione ai privati quante più attività possibile (con risultati spesso disastrosi, si pensi agli scandali delle biglietterie), di ospitare eventi mondani nelle aree archeologiche, di indirizzare i propri beni museali verso le destinazioni più diverse e bizzarre (un fragilissimo Antonello a Rovereto, le teste romane di Pantelleria al meeting di Comunione e Liberazione, cose così!), l'Isola assai spesso ha anticipato o assecondato, spingendosi di norma più avanti, l'ultimo trend che si annunciava a livello nazionale. Del tutto prevedibile quindi che nel nuovo clima inaugurato dal Presidente del Consiglio con le sue note esternazioni («e adesso mettiamo mano alle Soprintendenze») la tendenza a non restare indietro si sia fatta sentire.
I "valzer dei soprintendenti"
Per esempio, una pratica in uso da tempo in Sicilia è quella dei continui trasferimenti o "rotazioni" - ad arbitrio dei politici di turno - dei soprintendenti e di altri funzionari, indipendentemente, per lo più, dalle loro qualifiche o attitudini. In occasione di una delle maggiori di queste operazioni, che, ai tempi di Raffaele Lombardo, interessò ben 72 dirigenti, la stampa adottò con umorismo forse involontario l'espressione di "valzer dei soprintendenti"[1]. Questa consuetudine, che a un osservatore esterno ricorda irresistibilmente il "movimento dei prefetti" del ministero degli Interni (con la differenza che il prefetto è, istituzionalmente, longa manus dell'esecutivo, mentre un soprintendente è o dovrebbe essere un funzionario tecnico indipendente), purtroppo non ha suscitato proteste di rilievo, né localmente né altrove, ed è stata subita remissivamente da parte degli stessi interessati. Persino i pochi politici in qualche misura sensibili ai temi della cultura non hanno affrontato alla radice il problema (per esempio richiamando in vita l'atrofizzato Consiglio dei Beni Culturali, oggi addirittura nemmeno rinnovato, e sottoponendo al suo parere la delicata materia delle nomine), ma, duole dirlo, hanno seguito la prassi ormai consolidata di scelte discrezionali disancorate da criteri obiettivi prefissati, in aperta violazione dello spirito e della lettera delle disposizioni legislative[2]. Col risultato che anche decisioni di per sé ineccepibili nel merito hanno offerto il pretesto o l'alibi, dopo l'uscita di scena del politico che le aveva ispirate, ai nuovi "giri di valzer" e talora alle brutali ritorsioni dei successori.
Riesami, sospensioni e revoche a Siracusa
Questa premessa era necessaria per meglio comprendere la vicenda - ancora aperta - di Siracusa, in parte nota al vasto pubblico grazie a Gian Antonio Stella e Tomaso Montanari[3], ma che vale la pena di ripercorrere per sommi capi.
Essa ebbe inizio quando l'assessore Maria Rita Sgarlata, essa stessa apprezzata archeologa, assunta la carica dopo la breve e surreale esperienza di Antonino Zichichi, si trovò davanti la questione delle nomine dei funzionari cui era scaduto il contratto. Al ruolo di soprintendente di Siracusa fu destinata la persona che obiettivamente aveva più titoli per ricoprirlo, la dottoressa Beatrice Basile, in passato responsabile della sezione archeologica di Siracusa, poi soprintendente a Ragusa ed Enna, all'epoca direttrice del museo archeologico "Paolo Orsi", e, al termine del suo contratto, disponibile per una nuova destinazione. La revoca dell’incarico all'allora soprintendente di Siracusa, l'arch. Orazio Micali, certamente con molti meno titoli, fu giustificata con la riorganizzazione degli uffici, e non attribuendogli addebiti specifici: e, anche se in quel caso la riorganizzazione effettivamente ci fu (per esempio riguardo alla ristrutturazione del sistema dei parchi archeologici), tale motivazione, per altro male argomentata, come vedremo in sede di ricorso dell'interessato sarà, con ragione, ritenuta insufficiente dal giudice.
Mentre tutti in città, più o meno sinceramente, riconoscevano i meriti e i titoli della nuova soprintendente, la sua nomina e la sostituzione del predecessore suscitarono le furiose proteste di alcuni politici locali nonché dell'associazione dei costruttori, già in fermento per la recente adozione del piano paesistico. Si badi che, in via di fatto, la dottoressa Basile non aveva e non ha "detto di no" a nessun progetto di rilievo, con l'eccezione - di cui si dirà - dell'assurda isola artificiale presente nella prima versione del progetto del porto turistico nell'area ex Spero, per la semplice ragione che non gliene fu dato il tempo. Si temeva però che potesse farlo. Che per esempio difendesse il piano paesistico da poco adottato o la perimetrazione del parco archeologico, ma soprattutto che si differenziasse dai suoi predecessori. E qui va richiamata una circostanza essenziale: che negli ultimi anni a Siracusa la soprintendenza ha, come dire, "male abituato" costruttori e affaristi, rilasciando con grande facilità pareri favorevoli, per esempio, a villaggi turistici in zone vincolate (uno costruito, altri ancora sulla carta), a ben due progetti di porti turistici concorrenti (uno, quello di Caltagirone, rimasto miseramente in tronco per le vicende di quest'ultimo e l'altro, quello con l'isola artificiale annessa, nell'area ex Spero, entrambi con vistosi profili di illegittimità emersi successivamente)[4], a una palazzina sulla balza Acradina[5], a centri commerciali, ed altro ancora. Si temeva, detto in soldoni, che "finisse la festa".
Dopo alcuni mesi, durante i quali nessun addebito da parte dell'Assessorato era stato mosso alla soprintendente, l'assessore Sgarlata, passata ad altro incarico, fu sostituita ai Beni Culturali dalla professoressa Giuseppina Furnari, dello stesso partito di un politico siracusano di spicco, l'on. Pippo Gianni, fra quelli che più si erano opposti, anche con interrogazioni parlamentari, alle nomine della Sgarlata, mentre nel gabinetto dei Beni Culturali entrava il dr. Martino Russo, già dirigente regionale all'Industria e collaboratore proprio di quel politico quando questi era responsabile di quell'assessorato. Che si debba a ciò (gli interessati smentiscono), alle concomitanti pressioni degli avversari del piano paesistico, o alle due cose insieme, sta di fatto che il nuovo assessore Furnari non mancherà sin da subito di applicare a sua volta, o comunque a lasciare che fosse applicato, l'usuale spoil system e a ribaltare la situazione. La strada più semplice sarebbe stata quella di reintegrare nel suo ruolo il predecessore della Basile, arch. Micali, che nel frattempo aveva vinto il ricorso da lui presentato contro il provvedimento di rimozione, ma la cosa fu resa impossibile dalla condanna in primo grado per abuso d'ufficio e falso che, per un'altra vicenda risalente a quando era funzionario a Messina, lo aveva colpito nel frattempo.
Cosa fare allora? Si imbastì ugualmente un "riesame" della posizione di tutti i soprintendenti, con la generica motivazione dei "profili di illegittimità" delle procedure di affidamento degli incarichi, emersi dal contenzioso giudiziario del Micali e di un altro funzionario, e della mancata registrazione dei contratti. Apparve subito chiaro, e fu fatto notare pubblicamente, come il tentativo fosse pretestuoso, visto che l'eventuale illegittimità avrebbe, se mai, potuto riguardare la rimozione del Micali (il quale però, come s'è detto, non poteva essere reintegrato) ma non certo la nomina della Basile e che la mancata registrazione dei contratti avrebbe potuto, al più, portare a una sospensione della parte economica e non del contratto stesso. Come si disse allora, si era cercato, senza successo, di "azzerare tutti per colpirne una"[6]. E allora, in un climax che ricorda la favola del lupo e dell'agnello, si tentò un'altra strada. Era circolata in quei giorni una lettera anonima relativa all'ormai nota piscina prefabbricata della Sgarlata. A questa fece seguito, senza comunicazione dell'oggetto, e senza dare all'interessata la possibilità di contraddittorio, un'ispezione che si concluse col sequestro di alcuni fascicoli. Del tutto irritualmente e illegittimamente, dell'ispezione non fu redatto alcun verbale né della relazione conclusiva fu data visione alla soprintendente se non, dietro sua richiesta, alcune settimane dopo il provvedimento di sospensione, a sua volta motivato genericamente "per accertamenti".
Ma, nel merito, quali erano gli addebiti che si muovevano alla soprintendente? Era preponderante la vicenda della piscina dell'assessore Sgarlata (la quale nel frattempo s'era dimessa dopo essere stata pesantemente attaccata dal Presidente della Regione) e si parlava di mancato rispetto dei termini del procedimento. Se fosse stata interpellata circa tali addebiti, come previsto dalla legge, la dottoressa Basile avrebbe potuto replicare – come poi farà – che analogo criterio nel rilascio di tali permessi era stato seguito dalla soprintendenza di Siracusa in tutti i casi analoghi, sia sotto la propria gestione che sotto quella del suo predecessore, senza che l'amministrazione vi avesse mai trovato niente da eccepire. Ma, come s'è detto, non le fu data la possibilità di replicare agli addebiti che porteranno alla sua immediata sospensione[7]. A completare il quadro, va aggiunto che, mentre dalla procura, rumorosamente investita del caso dal presidente Crocetta, non era e non è ancora giunto alla dottoressa Basile alcun avviso di garanzia, il suo sostituto ad interim, arch. Carmelo Rizzuto, è imputato per aver illegittimamente autorizzato un ampliamento della villa di Ispica dell’allora presidente Raffaele Lombardo. Analogo double standard, del resto, era adottato anche a livello politico dal presidente Crocetta: per limitarsi al caso di Siracusa, questi "cacciava via" (per usare le sue parole) l'assessore Sgarlata, nemmeno indagata, mentre, ironia della sorte, proprio in quelle settimane il principale antagonista della Sgarlata a Siracusa (e allora sostenitore con voto determinante della giunta Crocetta) riceveva un avviso di garanzia con l'accusa di corruzione assieme al suo ex collaboratore Martino Russo (allora nel gabinetto della Furnari) per la vicenda del parco fotovoltaico di Monreale (2009-2010), nella quale le intercettazioni della Guardia di Finanza avrebbero svelato "un vorticoso giro di mazzette"[8].
Colpirne tre per educarne cento
Ma l'opera non era completa e l'epurazione della soprintendenza andava portata fino in fondo. Preannunciata minacciosamente alla metà di settembre, con l'avallo, a quanto sembra, dello stesso Crocetta[9], ai primi di novembre era disposta la proposta di nuove assegnazioni per i dirigenti Rosa Lanteri, Alessandra Trigilia e Aldo Spataro, responsabili rispettivamente delle sezioni archeologica, paesaggistica e architettonica, la prima dei tre vincitrice un anno fa del premio intitolato a Umberto Zanotti-Bianco. Con motivazioni , se possibile, ancora più risibili di quelle usate per la Basile, cioè richiamando addirittura la normativa anticorruzione. La quale per altro, se anche fosse applicabile nel caso in ispecie, prevederebbe che non si possa ricoprire lo stesso ruolo per più di cinque anni, mentre due degli interessati vi erano stati nominati solo da tre o quattro, e la terza, pur avendo prestato servizio all'interno dell'ufficio per più di cinque anni, non vi aveva ricoperto l'incarico di dirigente responsabile per uguale periodo. Una misura poi che, se non si fosse trattato di un pretesto, avrebbe dovuto interessare tutte le soprintendenze, ma che, singolarmente, si rivolgeva solo a quelle di Siracusa e di Agrigento: proprio quelle, cioè, i cui piani paesistici erano più fortemente contestati. Tanto più odiosa, infine, in quanto volta a colpire tre funzionari già "sotto tiro" e oggetto di richieste di risarcimento milionarie da parte di imprese costruttrici, esponendoli a danni ulteriori. Perché delle due l'una: o quelle richieste erano e sono infondate, come risulta da tutti i ricorsi amministrativi finora avviati dalle ditte e respinti dai tribunali[10], e allora l'amministrazione ha il dovere di difendere fino in fondo i propri funzionari, così come ha fatto in giudizio l'avvocatura dello Stato, o, se invece essa le ritiene in qualche misura giustificate, deve motivare con questi addebiti specifici la loro rimozione. Come se ciò non bastasse, il provvedimento, a firma del dirigente generale Salvatore Giglione, veniva emanato il giorno prima che il nuovo assessore Antonio Purpura assumesse il suo incarico, quasi a volerlo mettere davanti al fatto compiuto. Inutile sottolineare la scorrettezza, a dir poco, di tale condotta.
In tal modo si è cercato di "normalizzare" la soprintendenza di Siracusa e di mettere in riga, uno per uno, i tre responsabili della redazione e della difesa (finora) del piano paesistico, esattamente come richiesto dal "partito del cemento" cittadino, a severo monito di chi osasse imitarli.
La situazione, attualmente, è complicata dal sovrapporsi dei decreti di nomina dei successori, i quali hanno già preso servizio, con quelli di revoca, non accettati dai destinatari e al momento, a quel che si sa, sospesi a seguito dell’intervento del nuovo assessore. Ovviamente tutti e tre gli "epurati", se del caso, potranno presentare ricorso, ma i provvedimenti, nella loro rozza illegittimità, sono immediatamente efficaci, a meno che, com'è auspicabile, non vengano revocati, mentre i tempi della giustizia sono quelli noti. Ed è in queste condizioni, con il personale disorientato e intimidito e gli uffici in disordine, che la soprintendenza nei prossimi mesi rischia di dover affrontare una serie di impegni di estrema delicatezza: discussione e approvazione del piano paesistico, pareri su lottizzazioni, villaggi e porti turistici, revisione del Prg, proposte di nuova delimitazione di aree protette, ed altro ancora.
"E quindi abbiamo deciso di sostituire il soprintendente..."
Quale sia stata l'intenzione della dirigenza dei Beni Culturali (per fortuna non condivisa, come ora sappiamo, dal nuovo assessore) è spiegato con chiarezza in un'intervista che il dirigente generale Giglione, firmatario del provvedimento, ha ritenuto di rilasciare[11]. Si tratta di un documento prezioso, in un certo senso rivelatore, e che merita citare e commentare per esteso.
«Non vogliamo che le soprintendenze diventino centri di potere, e laddove è necessario interverremo» - questo l'esordio - Le soprintendenze devono occuparsi della tutela, in osservanza delle leggi, ma non essere «freno fine a se stesso. La prima mossa è stata Siracusa, ma interverremo ovunque sia necessario, come stiamo già facendo altrove». A Siracusa, prosegue Giglione, «abbiamo notato una situazione strana, in merito alla mancata omogeneità del trattamento di alcune pratiche. E quindi abbiamo deciso di sostituire il soprintendente Beatrice Basile. Decisione che, non appena annunciata, ha scatenato un putiferio che ci ha convinto ancor più che qualcosa non andava. Quest'attaccamento eccessivo ai ruoli è stata per me la dimostrazione che occorreva cambiare rotta». Si può osservare che, se la soprintendente che sulla base di lettere anonime il dirigente di Palermo «aveva deciso di sostituire» avesse avuto, come la legge prevede, la possibilità di presentare le proprie osservazioni prima della sostituzione, si sarebbe chiarito che quella «mancata omogeneità» di trattamento semplicemente non esisteva. Quanto alle proteste (non da parte dell'interessata, che non ha aperto bocca fino a pochi giorni fa) ma di cittadini, personalità della cultura e associazioni del più vario orientamento, queste erano il minimo che ci si potesse attendere, dopo settimane di attacchi e di mobbing, a quell'annuncio. Evidentemente per l'ing. Giglione il fatto che associazioni e cittadini interessati alla difesa dei beni paesistici difendano il soprintendente che difende quei beni quando, proprio per tale ragione, viene attaccato e poi sospeso è la prova del nove che «qualcosa non va”! Quanto alla «rotazione» degli altri tre, per l'ing. Giglione essa «è un fatto amministrativo normale. D'altronde - sostiene - per i tre funzionari nulla cambia: stesso stipendio, stessa città”». Di che si lamentano, se lo stipendio corre uguale! E poi, aggiunge Giglione, «noi applichiamo la legge Severino e il piano anticorruzione che non è certo punitivo, bensì preventivo. Quello che può destare sospetto non è l'avvio di una rotazione, semmai l'eccessiva difesa di qualche permanenza». Pare di sognare: mentre si apprende che funzionari indagati con l'accusa di corruzione sono stati lasciati al loro posto per anni e anni (è esplosa da poco la vicenda, con tanto di arresti, di funzionari del servizio Via), altri che possono vantare solo premi e benemerenze e verso i quali nessun addebito di alcun genere è stato mosso, se non, se mai, da parte di politici indagati (loro sì!) per corruzione, vengono illegittimamente fatti "ruotare" prima dei termini previsti dalla stessa legge che s'invoca a sostegno, e per di più in presenza di un contratto già sottoscritto dal precedente dirigente generale! E attenzione, prosegue minacciando l'ing. Giglione, anche altre soprintendenze sono nel mirino. «A Siracusa come nel resto della Sicilia la soprintendenza è sempre un centro della gestione del potere locale. È normale che le decisioni degli uffici interferiscano con la costruzione di strutture ricettive, nascita di edifici eccetera. In un territorio cosi ricco di beni da tutelare, il ruolo della soprintendenza e dei suoi uomini diviene nevralgico. Nulla di personale contro nessuno, ma quando ci siamo accorti di pratiche espletate in maniera troppo veloce ed altre che languono, oppure iter autorizzati [sic] e altri fermi, abbiamo deciso di intervenire come la legge ci impone. Il nostro compito è garantire l'imparzialità e su questa scia continueremo. Un principio che è obbligo di legge». Peccato che la stessa indignazione che l’Assessorato manifesta per le pratiche a suo dire "troppo veloci" non l'abbia mostrata, per esempio, nei confronti del soprintendente Micali. Il quale ad esempio, unico firmatario di un’autorizzazione rilasciata in ventiquattr’ore, per un impianto fotovoltaico sul tetto dell’abitazione di un notabile di Augusta in pieno centro storico, d'altro verso aveva bloccato e tenuto fermo per mesi un parere già sottoscritto dal responsabile dell'unità operativa competente (guarda caso una degli epurati) facendo così scattare il silenzio-assenso, con conseguente successivo annullamento da parte del Tar del relativo provvedimento (guarda caso ancora, riguardante uno dei villaggi turistici che tanto stanno a cuore al partito del cemento) e alimentando, per altro vanamente, nuove aspettative circa l'edificabilità di quell'area[12].
Ma, a parte la critica per l'asserita eccessiva velocità, manca nell'intervista del dirigente ogni accenno ad addebiti concreti, a cominciare dalla famosa piscina. Le vere ragioni del provvedimento invece sono espresse poco appresso: «Non ho nulla di personale nei confronti dei dirigenti, che, tra l'altro, non conosco, così come nei confronti della dottoressa Basile: un'ottima archeologa, una grande professionista e di cui riconosco l'elevata professionalità. Il punto nodale è proprio questo: quando si parla di beni culturali e gestione, occorre comprenderne i ruoli. Un grande archeologo può lavorare meglio all'interno di un museo, per esempio, che alla guida di un ente amministrativo». Finalmente un po' di sincerità! Per i tecnici (archeologi e storici dell'arte) ci sono i musei, se ne stiano lì a catalogare i loro cocci e non piantino grane. Le decisioni che contano, quelle che possono "interferire", per esempio, con le "strutture ricettive" o la "nascita di edifici", non toccano a loro. L'ideale (lo si capisce dal paragone che Giglione fa poco dopo con sé stesso)[13] sarebbero degli amministrativi come lui, gente insomma che sa stare al mondo, intercambiabile e buona per tutte le stagioni e tutti gli incarichi. E se ancora a ciò non siamo arrivati e ci sono ancora dei tecnici fra i piedi (ma, Renzi aiutando, ci si arriverà), pazienza, si farà in modo che il soprintendente non sia scelto secondo il suo curriculum e i suoi meriti ma per le sue attitudini "pratiche" (a valutarle ci penserà l'ing. Giglione), e che possibilmente si occupi di qualcosa che non ha la minima attinenza con i beni che gli sono affidati. Che, per esempio, nella capitale della Magna Grecia non capiti, non sia mai, un archeologo, in modo da ridurre al minimo il rischio di "interferenze".
Con buona pace, a Siracusa, delle ombre di Paolo Orsi e di Luigi Bernabò Brea.
Oggi in Sicilia, domani in tutta Italia?
Come anticipato dallo stesso Giglione, Siracusa è solo un inizio. Si ha notizia dalla stampa di altri trasferimenti: per esempio di funzionari che ricoprivano "ruoli molto delicati" (gestione di fondi europei, tutela, gare di appalto) spostati di dipartimento alla Soprintendenza di Palermo. Anche in questo caso, almeno a detta dei loro rappresentanti sindacali, senza alcuna valida giustificazione[14].
Che d'altronde la piaga dei trasferimenti arbitrari dei tecnici in Sicilia non riguardi il solo settore dei Beni Culturali, è provato da una vicenda non meno scandalosa di quella della dottoressa Basile e dei suoi tre colleghi di Siracusa, anche se non con il pretesto ipocrita della lotta alla corruzione: l'allontanamento dal suo ufficio dell'ingegnere capo del Genio Civile di Messina, Gaetano Sciacca. La colpa, nel suo caso, è stata di essersi opposto con fermezza ad alcune ben individuate iniziative edilizie in un territorio martoriato dalle frane e dalle alluvioni e perennemente a rischio. Ciò gli ha valso l'ostilità implacabile del locale partito del cemento e la conseguente rimozione[15]. E purtroppo, anche in tale occasione, il "rivoluzionario" Crocetta ha dimostrato da che parte sta.
Ma da che parte stanno, a questo punto, devono dirlo tutte le persone coinvolte in questi episodi. A cominciare dal nuovo assessore ai Beni Culturali, il quale ha adesso la possibilità di porre rimedio a una situazione incresciosa di cui non porta la responsabilità. Da alcune sue recentissime dichiarazioni apprendiamo che, per fortuna, non condivide la filosofia "rotatoria" del suo dirigente generale. E, in particolare, non sembra condividere gli esiti di un provvedimento insieme ingiusto e odioso emanato, con irridente protervia, il giorno prima del suo insediamento. Ma, in questa occasione, gli si offre l'opportunità di fare qualcosa di assai più importante della correzione di un abuso. Quella di distinguersi da tutti i suoi predecessori e di fissare in via definitiva, meglio se attraverso atti di indirizzo e circolari e col supporto del Consiglio dei Beni Culturali, delle linee guida vincolanti riguardo alle nomine dei dirigenti, che le rendano effettivamente conformi alle leggi e alla Costituzione. E con riferimento non solo all'art. 9 ma anche all'art. 97, a tutela - come ammonisce, nella citata deliberazione, la Corte dei Conti - «della necessaria indipendenza di azione che la dirigenza deve possedere rispetto al decisore politico».
La rimozione dell'ing. Sciacca e quella, tentata, dei funzionari di Siracusa, infatti, richiama con forza proprio il tema dell'indipendenza dei dirigenti e, contestualmente, quello della corruzione, invocato così poco a proposito in quei provvedimenti. Come in tutti gli uffici, anche nelle soprintendenze la corruzione può farsi strada, e nelle forme più varie: magari solo accelerando l'iter di un pratica legittima o addirittura millantandone l'esito positivo, senza nemmeno intervenire, presso qualche postulante. Ciò certo può accadere. Ma chi conosce la dinamica degli appalti in Sicilia, ormai messo in luce da infinite inchieste giudiziarie, è in grado di ricostruire un meccanismo che si ripete con pericolosa regolarità: quello dell'impresa che si rivolge al politico del luogo perché si faccia "garante" del proprio progetto e ne spiani la strada, facilitandone l'iter presso tutti gli uffici interessati (comune, genio civile, soprintendenza, regione). Il corrispettivo, in molti casi, non è più la vecchia tangente, agevolmente tracciabile, ma una sorta di patrocinio informale, a volte monopolistico, sulle assunzioni di personale in quel complesso. Talché, ad esempio, accade che i poveri giovani in cerca di lavoro finiscono col presentare direttamente a quel politico, prima ancora che all'impresa, il proprio curriculum. Trattandosi di assunzioni da parte di privati, il fatto corruttivo sotto il profilo penale è difficilmente individuabile. Purtroppo questo fenomeno, triste e umiliante, è diffusissimo e può essere colto facilmente, a prima vista, dal semplice esame della provenienza geografica degli assunti in ciascun complesso, qualora questa venga a coincidere in prevalenza col bacino elettorale del politico in questione (il caso dei centri commerciali, anche a Siracusa, è illuminante). Naturalmente, perché il sistema funzioni, va assicurata la "benevolenza" degli uffici, e soprattutto che non ci sia il rischio che a qualche funzionario, diciamo, poco accomodante, salti in mente di mettersi di traverso. Ed è per questa ragione che proprio la "rotazione" dei funzionari, sulla carta intesa a limitare i fenomeni corruttivi, rischia di avere l'effetto opposto se applicata ad hominem e prima della scadenza degli incarichi (in via "preventiva", per usare le parole dell'ing. Giglione). Tanto più se contro funzionari che, non foss'altro per gli attacchi che hanno ricevuto e ricevono, danno prova di essere tutto meno che a rischio di corruzione!
Attenzione, infine. L'esternazione del direttore generale non è estemporanea. Ripete, a volte usando le identiche parole (le soprintendenze come "centro di potere", "freno", ecc.), concetti espressi negli ultimi mesi dal Presidente del Consiglio e dai suoi esegeti[16]. La differenza sta nel fatto che in Sicilia si è cercato di passare brutalmente dalle parole ai fatti. Come s'è detto all'inizio, in ciò si può scorgere una sorta di "prova generale". Dalla reazione che questa e analoghi conati susciteranno nel mondo della cultura e nella società civile dipenderà se saranno replicati in Italia[17]. I casi della dottoressa Basile e dell'ingegnere Sciacca non sono soltanto, quindi, gravi in sé, e non è solo per doverosa solidarietà verso funzionari integri e incolpevoli che vanno denunciati. Devono anche essere avvertiti come un pericoloso precedente e un campanello d'allarme.
[1] Ad es. La Sicilia, Ecco il valzer dei soprintendenti, 2 set. 2010. Ma anche, anni dopo, La Repubblica (Palermo), Beni culturali, valzer di soprintendenti, la Sgarlata sceglie sei donne su nove. Premiata l'area Crocetta, ecc., 25 ott. 2013.
[2] Ai sensi dell'art. 19, c. 1 del d.lgs. 165/2001 (ripreso quasi testualmente dal Contratto Collettivo Regionale di Lavoro del personale con qualifica dirigenziale, art. 33, comma 8), "ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute". Come di recente precisato dalla Corte dei Conti, ricade sull'amministrazione, quando si trova ad operare scelte discrezionali, l'obbligo di ancorarle a criteri oggettivi e fissati ex ante, "tali da poter formare oggetto di evidente riscontrabilità riguardo all’effettivo perseguimento dell’interesse pubblico in gioco; interesse pubblico che si consustanzia nell’individuazione del più capace tra i diversi aspiranti". Ciò "a tutela, tra l’altro, della necessaria indipendenza di azione che la dirigenza deve possedere rispetto al decisore politico" (Deliberazione Sez. Reg. Controllo Lazio, n° 51/2012 Prev.). La prassi invalsa in Sicilia ripropone invece costantemente proprio quanto sopra denunciato, ossia scelte spesso fondate esclusivamente "ex intuitu personae" e sganciate, di fatto, da ogni parametro oggettivo. L'ulteriore specificazione rispetto alla normativa nazionale di cui all'art. 9, comma 1 della l. r. 10/00 sulla dirigenza ("applicando di norma il criterio di rotazione degli incarichi") ovviamente incoraggia quei comportamenti e ne aggrava gli effetti. Si consideri poi come la risoluzione anticipata dei contratti che ai sensi dell'art. 41, comma 1° del citato Contratto Collettivo potrebbe essere invocata solo “per motivate ragioni organizzative e gestionali” corra il rischio di essere adottata arbitrariamente, per esempio attraverso “riorganizzazioni” meramente strumentali o fittizie.
[3] T. Montanari, Azzerare tutti per colpirne una, Il Fatto Quotidiano, 13 ago. 2014 ; Id., Meno funzionari, più cemento, 10 set. 2014; G. A. Stella, Se il sovrintendente è difeso dal geometra, Corriere della Sera, 6 nov. 2013; Id., Bravi, scomodi, dunque rimossi, 8 nov. 2014.
[4] Quest'ultimo sarà opportunamente ridimensionato proprio ad opera della dottoressa Alessandra Trigilia (uno dei tre funzionari poi rimossi) e della soprintendente Basile. Si veda, per qualche dettaglio, G. A. Stella, Quel «no» alla speculazione che costa 200 milioni, Corriere della Sera, 9 giu. 2012.
La storia, ancora da scrivere, dei tanti progetti di porti turistici a Siracusa, succedutisi caoticamente a partire dagli anni '70 e tutti abortiti (spesso per contrasti fra i rispettivi referenti politici), testimonia nel modo più chiaro l'inconcludenza e l'incapacità progettuale delle sue classi dirigenti.
[5] Il parere di massima (favorevole ma con prescrizioni) della dottoressa Trigilia l'11 lug. 2013 fu avocato dallo stesso soprintendente Micali, «vista la scadenza dei termini istruttori e la necessità di non prorogare i termini anche per aspetti economici e occupazionali del settore edile» (!), con esito positivo e senza le prescrizioni.
[6] Cf. Montanari, Azzerare, cit.
[7] Pubblicamente lo farà solo parecchio dopo, si veda la sua intervista del 18 nov. 2014, Livesicilia.it.
[8] La Repubblica (Palermo), 24 lug. 2014; ivi la smentita dell'on. Gianni.
[9] «Crocetta ha convocato a Palazzo d'Orleans il dirigente generale del Dipartimento Beni Culturali, Rino Giglione, per avviare la rotazione di tutto il personale (!) in servizio alla Sovrintendenza di Siracusa», La Sicilia, 15 set. 2014.
[10] Cf. C. Maiorca, Sovrintendenza Siracusa, Purpura e i funzionari anti-cemento rimossi, L'Oraquotidiano.it, 12 nov. 2014
[11] I. Di Bartolo, Soprintendenze, intervenuti di fronte a pratiche molto veloci a fronte di altre che languono, La Sicilia, 14 nov. 2014.
[12] Accolto il ricorso. Ognina, villaggio turistico. Il Tar: "Si può costruire", La Sicilia, 25 ott. 2014. E invece, con buona pace de La Sicilia, non si può costruire! Il Tar ha sì annullato, e non poteva fare altrimenti giusta l'oscena legge sul silenzio-assenso, quel parere "imboscato" dal soprintendente e giunto fuori tempo, ma restano ferme le prescrizioni del piano paesistico e soprattutto la successiva Valutazione d'impatto ambientale, che di quelle, del parere della soprintendenza e di altre norme comunitarie sovraordinate non potrà non tenere conto.
[13] «Io stesso ho ricoperto vari incarichi tra gli uffici regionali, non vedo nulla di strano nella mobilità».
[14] La soprintendenza di Palermo, a corto di personale, avrebbe inoltrato diversi atti di interpello, cf. Sicilia: governo, personale e pasticci: Dipendenti spostati senza riflettere, Blogsicilia.it, 14 nov. 2014.
[15] G. A. Stella, Rimosso l'ingegner Sciacca che voleva salvare Messina. Qui costruiscono sulle frane. Da capo del Genio civile al Comune bloccò palazzi di 8 piani su crinali a rischio, Corriere della Sera, 20 ott. 2014.
[16] Illuminante in proposito la lettura dello sciagurato articolo-manifesto di Giovanni Valentini, Tutti i no delle soprintendenze che ostacolano i tesori d'Italia, La Repubblica, 9 mar. 2014, apparso, non certo per caso, alla vigilia dell'insediamento del governo Renzi: «Le soprintendenze - ha detto allora il neopresidente del Consiglio - sono un potere monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini». E ancora: «Troppo spesso, in realtà, le soprintendenze diventano fattori di conservazione e protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo e dell'economia. Oppure, in qualche caso, centri di potere personale. La Penisola è piena... di opere bloccate o incompiute, a causa di ritardi, pastoie e lungaggini burocratiche, ecc.». Che antenne sensibili hanno i dirigenti generali!
[17] Da segnalare, a Siracusa, lo sconsolato - e ahimè tardivo - intervento dell'ex soprintendente Giuseppe Voza: Così la politica regionale sta snaturando i beni culturali, La Sicilia, 19 nov. 2014.
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«Le prospettive aperte, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile. Ma il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, esclusi da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy». Today.it, 24 Novembre 2014
Appena è diventata ufficiale la notizia, ampiamente anticipata, del premio International Highrise conferito al Bosco Verticale di Milano, si sono scatenate le critiche dei dubbiosi. Intendiamoci: la maggior parte dei commenti su stampa e web erano ampiamente positivi, ma più che alla sostanza parevano badare all'aura mistica in perfetto stile archistar che aleggia sempre attorno a questi progetti. E le motivazioni ufficiali del premio parevano addirittura più simbolicamente barocche del pieghevole pubblicitario dell'immobiliare, nello sperticarsi in lodi sulla capacità del progetto di riportare l'uomo alla natura, o addirittura di costituire un modello per la città densa del terzo millennio.
I dubbiosi, magari polemici, magari addirittura scurrili nella loro diffidenza faziosa, coglievano però un punto assai evidente: e che sarà mai un palazzone con le vasche a fioriera? La risposta potrebbe darla la schiera di tecnici internazionali che ha reso possibile non solo piantare a quell'altezza alberi maturi e farli convivere con appartamenti abitati, ma anche avviare una sperimentazione socio-ambientale. Però si tratta di una risposta ancora in linea con l'approccio tutto interno all'architettura del premio International Highrise.
Assumono una prospettiva più interessante, le critiche anche più sarcastiche al Bosco Verticale, se le inquadriamo in una più generale perplessità su alcuni progetti di verde urbano a dir poco ideologici, che in ordine sparso si stanno conquistando parecchia notorietà da qualche anno. Il primo è stato quello della High Line a Manhattan, ex viadotto ferroviario dismesso che invece di essere abbattuto è stato – nel quadro di una assai più ampia politica di valorizzazione immobiliare e riqualificazione – arredato a verde con tecniche innovative, e rivenduto all'opinione pubblica come nuovo modello di parco, anziché passeggio, o area pedonale che dir si voglia. Lì vicino, al Pier 55 sul fiume Hudson, i medesimi promotori hanno già presentato e portato parecchio avanti nel processo di approvazione finale un secondo e più grande “parco tecnologico” montato su piloni, che più o meno come il ponte ferroviario è del tutto artificiale e serve un'area di valorizzazione e riqualificazione di iniziativa privata. A Londra si sta concludendo il percorso del Garden Bridge sul Tamigi, organizzato come una specie di green shopping mall ad accesso limitato e forse a pagamento, negazione dello spazio pubblico, mentre a Singapore la limitatezza dello spazio (così ci raccontano) obbliga gli amministratori della città-stato a cercare i parchi in cielo, con giganteschi Alberi artificiali.
Cos'hanno tutti questi diversissimi progetti in comune, tra di loro e con le torri “a fioriere” del Bosco Verticale di Milano? Come intuiscono vagamente i critici nei loro sfottò, una certa tendenza a prendere per i fondelli il pubblico: da un lato aprono potenziali prospettive per la città del futuro, ma in buona sostanza ne chiudono di assai più vaste. Le prospettive aperte, inutile sottolinearlo, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile, ma tutto si intuisce ha un prezzo. In questi casi il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, noi strabordante maggioranza esclusi prima da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e anche quando liberamente accessibili come nel caso della High Line, facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy. Nel caso delle torri milanesi, evidentemente, la privatizzazione doppia del bosco salta ancora di più all'occhio, e il “modello per la città futura” non dichiarato lo intuiscono anche i più distratti: è la fortezza dei ricchi assediata dal disastro. Ma siamo sicuri che i progettisti-progressisti, invece, volessero con la loro provocatoria opera di architettura esattamente denunciare questo rischio. O no?
Today/Città Conquistatrice
Gli affari spingono senza tregua per devastare una Piana che per decenni si è voluta mantenere intatta; per distruggere un millenario assetto idrogeologico e unire in un’unica marmellata centri urbani che hanno voluto rimanere distinti; per far prevale gli interessi economici privati sugli interessi della collettività. Cittadini Area fiorentina, 22 novembre 2014
Lo scorso 6 novembre AdF (Aeroporto di Firenze) ha presentato in Palazzo Vecchio il
Master Plan 2014-29 con la previsione della nuova pista di Peretola sulla cui lunghezza (2.000 m. secondo il Piano di Indirizzo Territoriale della Regione), 2.400 m. secondo ENAC) è da tempo in corso un contenzioso. Il crono programma della Società diretta daMarco Carrai prevede l’apertura dei cantieri ad agosto, dopo il rilascio, in aprile, della Valutazione di Impatto Ambientale ministeriale. Nell’ arco di 15 anni si prevede un investimento di circa 300 Mln., ripartito a metà tra pubblico e privato.
Con il nuovo Aeroporto di Firenze i passeggeri annui passerebbero dagli attuali 2 ai4,5 Mln. Ma con la fusione degli aeroporti di Pisa e di Firenze e la loro promozione in serie A finirà per prevalere la maggiore appetibilità di Firenze, smentendo la frottola del “Vespucci” come city airport per viaggiatori d’affari e della sua complementarietà con il “Galilei” di Pisa. Una volta che a Peretola si realizzasse una pista di 2.400 m. alcune compagnie low cost che attualmente operano su Pisa, potrebbero preferire direttamente Firenze.
Non è escluso che AdF punti in realtà a rivedere il PIT regionale, vista la quantità di controindicazioni e di spese che la nuova pista comporta, (salta l’operazione stadio/Mercafir, è da rifare il PUE di Castello, è a rischio la Scuola dei Carabinieri, ecc.) cercando di garantirsi piena disponibilità su tutto il territorio aperto tra Firenze e Sesto F.no e orientando a suo piacimento la pista. Del resto, in primis, le ipotesi erano addirittura 5. AdF chiede persino di rivedere il progetto di Linea 2 della tramvia: vorrebbe infatti farla giungere in sotterranea dentro la nuova stazione passeggeri.
Il Sindaco di Prato Matteo Biffoni che pur appoggiato da Renzi si era affermato nelle ultime amministrative con il No all’ampliamento dell’aeroporto di Peretola, ha cambiato verso, rinunciando al ricorso al TAR, promosso dai Comitati nei confronti dell’approvazione del PIT, i cui termini scadevano il 14 novembre. La decisione, passata a tappe forzate in Consiglio comunale dopo spasmodiche riunioni del PD e malgrado l’opposizione della cittadinanza, segna la resa dei sindaci della Piana al dictat di Renziche vuole imporre la nuova pista entro il 2017, quando a Firenze si svolgerà un G7.
Essa segna probabilmente la definitiva cancellazione del Parco della Piana, palesemente incompatibile con la nuova pista e infatti scomparso da qualsiasi dibattito.
Circa le conseguenze disastrose di un aeroporto internazionale piazzato al centro di un’area metropolitana che contiene 1/4 della popolazione dell’ intera Toscana basti qui ricordare lo spostamento del Fosso Reale, il rifacimento della viabilità e del reticolo idrografico minore in terreni idraulicamente fragili, la coesistenza con depositi di carburanti, industrie chimiche, centrali elettriche, inceneritori, oltre che centri abitati,laboratori di ricerca ed oasi ambientali.
La questione Aeroporto riguarda la Piana ma è soprattutto una questione di Firenze. Il cambio di classificazione del “Vespucci” porterà ad un aumento esponenziale dei voli, compresi quelli che sorvoleranno direttamente Firenze (il 18%, fino a 500 m. da terra).
Per chi volesse approfondire la questione rimandiamo a nostri precedenti notiziari, al sito “Piana Sana” e in particolare alle sue ottime mappe interattive.
Ci preme rimarcare invece la palese contraddizione tra le giustamenteorgogliose affermazioni del presidente Rossi, circa la recente approvazione della nuova Legge Urbanistica Toscana, che impone per la prima volta in Italia il principio dello stop al consumo di suolo, e il funesto sfregio territoriale che la Regione impone alla Piana fiorentina. Il PIT in questo caso non èuno strumento di indirizzo generale ma, per quanto riguarda l’ambito 6 (Firenze, Prato. Pistoia)un sempmpiceaccarastamento delle scelte di AFE e dei potericle la sostengono
Approvata la legge lombarda che favorisce il consumo di suolo, ben riassunta dalla dichiarazione del rappresentante di Forza Italia che abbiamo usato tra virgolette come titolo. Articoli da la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 21 novembre 2014
la Repubblica Milano
di Andrea Montanari
Una colata di cemento grande tre volte la superficie di Milano. Pari a ben oltre mezzo miliardo di metri quadrati di territorio lombardi attualmente non edificati dove nei prossimi due anni e mezzo si potrà costruire. Questo l’effetto più immediato della nuova legge sul consumo del suolo approvata l’altra notte in Consiglio regionale con i soli voti della maggioranza di centrodestra che governa la Regione. Per rendersene conto, basta incrociare i dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale con quelli sul potenziale consumo di suolo per i prossimi anni, in base ai Pgt, ovvero i piani del governo del territorio già approvati dai comuni lombardi. Di cui 1126 su 1544 sono già stati ufficialmente comunicati. Il totale delle aree di potenziale trasformazione previsto è già approvato ammonta a 414.193.400 metri quadrati. Un dato che sale a circa 550.000.000 metri quadrati con la proiezione sul totale dei comuni lombardi. E visto che la superficie totale di Milano è di 182.000.000 mq i conti sono presto fatti. Nonostante la Lombardia sia già una delle regioni più urbanizzate e cementificate d’Europa, dove negli ultimi anni il suolo è stato consumato al ritmo di 140mila metri quadrati al giorno. L’equivalente di venti campi di calcio.
La nuova legge prevede che per trenta mesi, inizialmente dovevano essere 36, tutto resterà come prima. Nel senso che i progetti in essere che rientrano nei Pgt approvati potranno essere confermati da sindaci e costruttori entro due anni e mezzo.
Il testo uscito dall’aula del Pirellone è stato effettivamente parzialmente modificato, ma non è detto che l’effetto finale sarà quello di evitare nuovo consumo del suolo. Non è affatto vero che da oggi non si potrà più costruire su aree agricole. Molti terreni coltivati infatti secondo gli attuali Pgt sono aree trasformabili. Il che significa che entro 30 mesi una quota di queste aree potrebbe andare persa. È vero che la nuova legge prevede sa subito uno stop alle varianti, ma c’è una scappatoia. Basterà che i comuni utilizzino lo strumento del Piano integrato di Intervento, cioè dimostrino un interesse pubblico, per esempio una strada o una pista ciclabile.
L’aumento fino al 30 per cento degli oneri di urbanizzazione per le edificazione su suoli liberi, ad esempio — sostiene Legambiente — rischia di essere un blando disincentivo per i privati, troppo modesto per essere efficace. Considerata la scarsa incidenza di questo contributo sul costo finale dell’edificio. Per paradosso, invece, potrebbe addirittura diventare «uno stimolatore di appetiti per le finanze esigue di molti comuni, che confidano di tornare a far cassa sulla svendita del territorio». Il periodo transitorio ridotto a trenta mesi non sembra dare ulteriori garanzie. Sia perché la legge non esclude la possibilità di proroghe, ma soprattutto perché le nuove norme non impediscono ai comuni di confermare le precedenti previsioni di ampliamento contenute nei Pgt, anche oltre la decorrenza del termine. Per non parlare del fatto che la nuova legge non prevede controlli o sanzioni.
I dati sul consumo del suolo in Lombardia elaborati da Legambiente e dal Centro di Ricerca sui consumi di suolo mostrano una situazione allarmante. Dal 1999 al 2007 sono stati urbanizzati 34.163 ettari e si sono persi in maniera definitiva 43.275 ettari su superfici agricole. Mentre in meno di dieci anni le aree antropizzate sono passate dal 12,6 per cento al 14.
Ambientalisti divisi, opposizione compatta: “Favoriti i costruttori”
Per Roberto Maroni e per l’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi «è una svolta epocale», ma per il coordinatore del centrosinistra in Regione Umberto Ambrosoli resta «una legge pessima. Abbiamo votato contro perché in Lombardia per l’ambiente si e si deve fare di più».
Anche dopo il via libera del Consiglio regionale la nuova legge sul consumo del suolo continua a dividere. Non solo il mondo politico, visto che le nuove norme sono state approvate con i soli voti della maggioranza di centrodestra, ma anche quello ambientalista che definisce «ammazzasuolo » le nuove norme. «In Lombardia si continuerà a spalmare cemento sui suoli agricoli» attacca il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. Si spacca anche il Wwf. La delegata Paola Brambilla esprime «grande apprezzamento » e parla di «risultato importante che dovrebbe ora sti- il governo». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd Enrico Brambilla che osserva: «La maggioranza si è approvata la sua legge. Nessuno si do- vrà stupire se nei prossimi anni il consumo del suolo aumenterà ». L’assessore Beccalossi fa notare «che i miglioramenti apportati al testo sono utili, anmolare che grazie all’accoglimento di emendamenti importanti dell’opposizione », Il Movimento Cinque Stelle denuncia insulti e aggressioni in aula. Pare che dai banchi del centrodestra sia volata addirittura una bestemmia. I grillini chiamano in causa il presidente del Consiglio regionale ciellino Raffaele Cattaneo per non essere intervenuto.
Corriere della Sera Milano
NUOVA LEGGE:
DIVISI SUL NO AL CEMENTO
di Laura Guardini, Paolo Marelli
MILANO - Come a Cassinetta di Lugagnano — «apripista» nel 2007 — Solza, Ronco Briantino, Ardesio, Ozzero, Pregnana Milanese e altri ancora tra i 1.531 comuni lombardi che hanno già scelto il «consumo di suolo zero»: questa è la prospettiva che il territorio regionale può vedersi aperta, fra 30 mesi, dalla nuova legge approvata l’altra notte dal consiglio regionale, con 41 voti della maggioranza e 27 «no» di Pd, M5S e Patto Civico.
Sei sono i punti cardine della nuova normativa: da subito sono impossibili varianti su suoli con destinazione agricola; sono previsti incentivi per il recupero di aree ed edifici dismessi; scende da 3 anni a due e mezzo il tempo utile per realizzare i progetti di nuove costruzioni su aree ex agricole divenute edificabili: in Lombardia si tratta di 600 milioni di metri quadrati. E ancora: le infrastrutture sovracomunali (autostrade e ferrovie) rientrano nel computo del suolo «mangiato»; la soglia del consumo dovrà basarsi sulle indicazioni Istat relative all’aumento della popolazione. Infine, la legge prevede disincentivi, con un balzello del 5% a carico dei costruttori che intendono edificare «dentro il tessuto urbano» e un aumento degli oneri di urbanizzazione da un minimo del 20 a un massimo del 30% al di fuori dei centri abitati.
Dopo nove mesi di veti incrociati, litigi e modifiche in corso d’opera, è così finalmente arrivata al traguardo la nuova normativa che manda in pensione quella del 2005. Una vittoria del cemento secondo alcuni, del verde secondo altri: nello stesso mondo ambientalista le due maggiori organizzazioni, Wwf e Legambiente, esprimono parere opposti.
Paola Brambilla, presidente regionale del Wwf, esulta e parla di «un risultato importante che ora dovrebbe stimolare il governo all’emanazione di una legge che riconosca il valore ecologico del suolo»: si tratta di considerare la terra come bene comune, come «casa di tutti gli habitat naturali». È invece una bocciatura quella espressa da Damiano Di Simine, numero uno di Legambiente Lombardia: «Il futuro non sono le lottizzazioni, ma le ristrutturazi0ni dei vecchi edifici. Dopotutto il mercato immobiliare è da tempo senza domanda: c’è chi costruisce, ma non c’è chi compra. Tanto che nella nostra regione ci sono 1,4 milioni di vani vuoti, a cui si sommano centinaia di capannoni e uffici non utilizzati».
Su questo stesso tema, che cavalca da anni, torna anche Coldiretti, ricordando che sono ben più di 4 mila i chilometri quadrati (una superficie equivalente alle province di Cremona e Mantova) sottratti dal cemento all’agricoltura tra il 1990 ed oggi: «Finalmente l’argomento è stato affrontato — dice il presidente regionale Ettore Prandini —. Meglio sarebbe se lo stop alle costruzioni fosse immediato. Ma durante la finestra dei 30 mesi di edificazione possibile, probabilmente sarà ancora la crisi a fare da calmiere e a frenare il cemento. Per questo noi auspichiamo che almeno una parte di quei 600 milioni di metri quadrati tornino all’originaria destinazione agricola».
«Questa è una brutta legge, il suolo lombardo aveva bisogno di ben altro. Abbiamo cercato di ridurre il danno e in parte ci siamo riusciti», dicono invece i capigruppo di Pd e Patto Civico, Enrico Brambilla e Lucia Castellano. Negativo anche il giudizio dei Cinque stelle: «È una legge sbagliata — sottolinea Gianmarco Corbetta — che favorirà comunque il consumo di suolo». Via libera invece all’unanimità del consiglio regionale all’istituzione della «Banca della terra lombarda», che punta a «mantenere e incrementare la produttività agricola e a favorire il ricambio generazionale, affidando ai giovani e alle donne le terre demaniali abbandonate».
pronti a rivedere i loro strumenti urbanistici, conformandoli alle nuove regole.». La Nazione, 19 novembre 2014
Rossi e la Marson non si lasciano sfuggire l'occasione per rielencare i dettami della legge 65. «Abbiamo messo il vincolo di inedificabilità, già dal 2012, su 1.000 chilometri quadrati di territorio pianeggiante, aree a forte rischio idraulico, pari al 7% della pianura toscana. Diversi Comuni mi chiamano per aggirare questo vincolo, ma sbatteranno contro i divieti. Vogliamo spezzare l'alleanza tra mattone e finanza, si è cementificato troppo e le conseguenze sono oggi davanti agli occhi di tutti. Con le leggi sull'urbanistica e con il prossimo piano del paesaggio abbiamo impresso alla Toscana una svolta epocale. Che spero serva da esempio a Regioni e Governo».
Da qui l'attacco al ddl Lupi, reo di «consentire edificazioni su aree che dovrebbe essere tutelate. Chiederemo modifiche» annuncia Rossi, non escludendo ricorsi. Anche gli agricoltori sarebbero contenti, visto che Anna Marson sforna delle slides con «10.500 nuovi agricoltori in Toscana, dal 2008 a oggi, 600 dei quali giovani. Con l'impegno di tagliare i tempi, da 6 anni di media a 2, per le autorizzazioni edilizie, e di premiare i Comuni che non faranno la corsa alle alle licenze per costruire, la Regione si candida a modello per gli urbanisti di tutta Italia. Fa i conti con argini travolti, milioni di danni e territori che si sbriciolano, ma fa leva su una legge che dovrebbe scongiurare dissesti futuri.
Il volontariato salva beni comuni per la collettività, evitando rischi di degrado e privatizzazioni. Ma non ci riesce quando come a Poveglia i privati prevalgono grazie al potere pubblico. La Nuova Venezia 18 novembre 2014
Riferimenti
Per l'isola di Poveglia vedi su eddyburg l'articolo Poveglia in bilico. L'isola raffigurata nell'icona è il Lazzaretto Novo.
Le cifre che stanno venendo fuori a proposito dei disastri territoriali di questi giorni – con eventi meteo esasperati dai cambiamenti climatici che si abbattono su un territorio indebolito dalla ipercementificazione – sono da autentica guerra.
Un Rapporto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono registrati quasi mille morti da dissesto idrogeologico, per oltre 15 mila eventi calamitosi e un danno economico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno. Se si computa dagli anni sessanta, a partire dal disastro del Vajont e dalle alluvioni di Venezia e Firenze i morti diventano più di 4 mila.
L’Italia paga le conseguenze di decenni di incuria e di sostanziale attacco alle sue stesse caratteristiche eco-paesaggistiche. Esse, fino a qualche decennio addietro, avevano correlato virtuosamente ambiente e insediamenti; di più, avevano sempre connotato questi ultimi secondo le caratteristiche ecologiche e culturali dei contesti. Da cui il soprannome di Belpaese. Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici e lessicali. Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
E ancora la città costiera continua calabra, a fronte dello svuotamento dell’interno; gli orridi abusivi siciliani – che offendono un paesaggio altrimenti notevole; le «grandi macchie urbane» delle città sarde.
Gli entusiasmi per la modernizzazione antropizzata del Paese si sono da tempo trasformati in preoccupazioni per le conseguenze di un insediamento abnorme e quanto dannoso e paradossale: oggi in Italia abbiamo, oltre a qualche miliardo di volumi industriali e commerciali e tante incompiute infrastrutturali spesso inutili, un edificio ogni 4 persone, ma un alloggio su 4 e oltre 20 milioni stanze risultano vuote; tuttavia fanno notizia i disagiati, tuttora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occupanti, probabilmente legittimati da tale situazione). Con costi ambientali e sociali che infatti sono cresciuti sempre più.
Oggi, la criticità di questa condizione irrompe in tutta la sua drammatica evidenza. Da Genova a Milano, dal Piemonte al Veneto, da Roma alla Sicilia, i temporali causano disastri: rilievi e versanti abbandonati franano sugli insediamenti sottostanti; la pioggia rigonfia fiumi, torrenti e ruscelli, che diventano condotte forzate, trovano le aree di propria pertinenza trasformate in brani di città e rompono alla fine gli argini, anche perché le costruzioni hanno bloccato le vie di fuga dell’acqua. Si registrano così i fenomeni dei «vasconi urbani», dentro cui annegano oggi quartieri di Genova e Milano, come di Roma e, qualche mese fa, di città e paesi emiliani, veneti o sardi.
Il Governo tenta adesso di scaricare ogni colpa sui predecessori o sulle Regioni; ma – fino alla drammatica emergenza di questi giorni – ha perpetuato e addirittura alimentato le cause del disastro. Lo dimostrano il Ddl Lupi –che pretenderebbe di accentuare ulteriormente la deregulation e svuotare la pianificazione di potere normativo e descrittivo – e lo «Sblocca Italia». Quest’ultimo provvedimento è teso a promuovere altre attività ad alto impatto ambientale: dalle trivellazioni, a nuovi impianti a rischio, alle autostrade, a nuova Alta Velocità. Al suo interno, prima degli eventi tragici degli ultimi giorni, la lotta al dissesto idrogeologico era appena una citazione di opportunità: 3 miliardi dichiarati per 200 milioni realmente disponibili.
E a fronte dei quasi 5 miliardi stanziati per le operazioni ad alto impatto; tra cui si resuscitano progetti di autostrade da tempo superati, come la bizzarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla massoneria filodemocristiana. Nelle ultime ore – sull’onda emotiva degli eventi — l’esecutivo annuncia lo sblocco di 2,2 miliardi antidissesto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.
Serve che gli impegni si traducano in risorse reali e per un programma molto più ampio: è necessario un piano di risanamento del territorio da 50 miliardi di euro nei prossimi dieci anni; di cui almeno il 10% da impiegare subito. Se si pensa di ricorrere per questo ai «300 miliardi di euro di investimenti europei promessi da Junker» si rischia di restare agli annunci o di dilazionare troppo le operazioni. Lo «Sblocca Italia» – come hanno già proposto gli ambientalisti – deve diventare «Salva Italia», finalizzando le risorse per intero e soltanto al risanamento del territorio, e cancellando tutte le altre opere inutili e dannose contenute nel provvedimento.
Deve essere ripristinata una strategia invisa al nostro attuale premier: le politiche devono basarsi sulla pianificazione di territorio e paesaggio.
«Paghiamo il prezzo di anni di assuefazione al pensiero unico che esalta la competitività, il consumismo, la crescita ad ogni costo, l’individualismo proprietario. Ideologie che hanno lentamente avvelenato la nostra vita quotidiana riuscendo a far breccia in ciascuno di noi». Il manifesto, 18 novembre 2014
La questione urbana delle grandi città, la questione delle periferie — balzata oggi agli onori della cronaca nazionale con gli episodi di Tor Sapienza — rischiano di diventare i nuovi incubi dei governi degli anni a venire sovrapponendosi tragicamente alla crisi economica in corso e producendo una miscela esplosiva dalle conseguenze imprevedibili.
Quando le questioni si fanno complesse da analizzare per ritardi storici, per deficit di analisi, incapacità o altro e quando le soluzioni non sono a portata di mano, c’è un meccanismo efficace che mette quiete le coscienze: la ricerca del capro espiatorio. Ce lo ha insegnato la storia; sull’argomento tanto ha scritto l’antropologo e filosofo francese René Giscard. È il meccanismo attraverso il quale si identifica irragionevolmente in una persona (o in un gruppo) la causa responsabile di tutti i problemi non risolti, quasi sempre con l’obiettivo nascosto di evitare di affrontare le vere cause o i veri responsabili. Questa volta il ruolo di capro espiatorio è toccato al maldestro e incauto Marino sulle cui spalle sono state fatte cadere tutte le responsabilità di un disastroso declino delle condizioni urbane di Roma che perdura in realtà sottotraccia da anni.
La persona si presenta adatta al ruolo: fuori dalle lobbies politiche, non romano, uomo che prende da solo decisioni che le regole del politicamente corretto vorrebbero che fossero invece concertate con gli apparati, persona che non riscuote particolari simpatie dei media. Peccato che in altre grandi città italiane, governate da sindaci eletti fuori dalle consorterie politiche e per espressa volontà popolare, come Doria a Genova, Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, le cose non vadano poi così diversamente, tanto che è più che lecito chiedersi se il declino urbano delle grandi città non sia piuttosto da ricercare ben più in alto o ben più in profondità. Perché alle varie anime del Pd romano non par vero di poter indicare il capro espiatorio di quanto accaduto nel sindaco Marino, e cosi rimettere in moto la vecchia macchina clientelare, mentre a sinistra, si denuncia - non certo a torto - il montare dell’intolleranza xenofoba, che offre varchi di consegna agli imprenditori politici della paura, sempre attivi nella destra italiana. In realtà i fatti degli ultimi giorni meritano uno sguardo non solo meno strumentale e ravvicinato, ma soprattutto più ampio e generale.
Quando dopo il quindicennio di governo delle sinistre (Rutelli prima e Veltroni dopo), venne candidato per la seconda volta al ruolo di sindaco della capitale lo stesso Rutelli, la sinistra rimase attonita dalla sconfitta subita cui contribuirono pesantemente gli abitanti delle periferie, quelle che un tempo venivano chiamate «le cinture rosse, lo zoccolo duro del Pci». Tanto che il mediocre Alemanno rimase lui stesso incredulo per il consenso ricevuto che gli permise di salire al colle del Campidoglio. Le fantasmagorie del cosiddetto «Modello Roma» (il Pil urbano al 4.5%, Roma come locomotiva d’Italia, Roma come Barcellona, Dubai…), avevano fatto velo a un crescente disagio delle condizioni di vita nelle periferie, tanto che in quei tempi riscosse un certo successo mediatico la parola «risentimento» per esprimere lo stato d’animo degli abitanti. Risentimento per essere stati lasciati soli al loro destino, risentimento per avere il Pd abbandonato ogni lavoro sul territorio (smantellamento di tutte le sezioni di partito che tanto avevano storicamente contribuito alla formazione di una emancipazione delle coscienze). Pochi e inascoltati furono coloro che tentarono di spiegare come i «successi» di Veltroni non avevano alcun riscontro in questi luoghi lontani dal centro dove, invece, si continuava a cementificare oltre ogni ragionevole misura, creando nuove e mostruose periferie urbane.
L’approvazione del Piano Regolatore Generale, alla fine del mandato Veltroni, non segnò una inversione di tendenza rispetto al passato: il blocco degli immobiliaristi continuava quasi indisturbato a decidere per Roma uno sviluppo ancora insostenibile con la complicità di apparati amministrativi e politici.
La disfatta di Alemanno è tutta a suo «merito», la sinistra non c’entra; il sindaco ex squadrista, eletto «a sua insaputa» dal moto di risentimento profondo contro la sinistra, trascorse il suo mandato tra gaffe e inefficienza; ma ciò nonostante il Pd non aveva più la forza per imporre al ruolo di sindaco un uomo del suo apparato. Così che Ignazio Marino, il «marziano», l’uomo fuori dal gioco delle consorterie politiche catturò il favore del popolo romano che di professionisti della politica non ne voleva più sentir parlare. Questo, in breve e schematicamente per spiegare la presenza di un sindaco mai accettato dalla gran parte del Pd e tanto più avverso per aver scelto personalmente molti uomini (e donne) della sua giunta.
Ma è stata la crisi economica e le politiche comunitarie ad aver ulteriormente aggravato una situazione già di per sé esplosiva. Le condizioni di ulteriore e progressivo impoverimento della popolazione delle periferie hanno aggravato le condizioni di vita delle persone favorendo il diffondersi di attività criminali, spaccio della droga, infiltrazioni camorristiche. A ciò si aggiunge l’insostenibile condizione di disoccupazione che affligge i giovani spesso arruolati in attività di spaccio e microcriminalità. Le politiche neoliberiste hanno creato disuguaglianze feroci producendo una lotta darwiniana per la sopravvivenza così che sono saltati tutti i vincoli di solidarietà che in passato si stabilivano tra persone povere, tra persone che stringevano patti di mutua collaborazione e cooperavano per sopravvivere.
Poi c’è la spending review che favorisce la svendita ai privati dei servizi che i comuni non sono più in grado di garantire o la cui funzionalità comunque comporterebbe sacrifici sotto forma di tasse tale da rendere impopolare l’amministrazione che praticasse tale obiettivo. Molte amministrazioni inoltre, per fare cassa rilasciano concessioni a edificare senza badare molto alle conseguenze urbanistiche e a quelle del consumo di suolo, o ai dissesti idrogeologici: ogni minuto in Italia scompaiono quattrocento metri quadrati di suolo coperti dal cemento. Il rilascio di concessioni ad edificare è diventato uno dei principali modi di reperire denaro alimentando una bolla immobiliare simile a quella che provocò la crisi americana dei subprime. L’immobiliare, afferma Tocci, è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi, con la complicità di molte archistar che valorizzano territori con i loro oggetti sradicati dai luoghi e in linea con l’immaginario globale.
Roma ne è esempio con lo stadio del nuoto a Tor Vergata rimasto uno scheletro nel deserto o con la costosissima Nuvola che divora immense risorse finanziarie per non parlare del ventilato progetto di costruire un nuovo stadio in un’area a rischio idrogeologico a Tor di Valle in barba al Piano Regolatore e al buon senso con discutibili criteri di presunta utilità pubblica.
Meglio sarebbe se il sindaco desistesse da queste iniziative sbagliate e riprendesse invece il dialogo con la città che lotta e che soffre come pure faticosamente sta provando a fare con gli abitanti di Tor Sapienza distinguendo fra le buone ragioni delle proteste dei cittadini romani e le strumentalizzazioni dei nuovi barbari ed inquinatori della coscienza civica.
In questo quadro desolante arrivano a colmare la misura gli immigrati con tutto il loro carico di pene e sofferenze, mai accolti come si dovrebbe da parte di una città veramente capitale e utilizzati a scopo elettorale da propagande di segno opposto. Così che diventano anch’essi i capri espiatori di tutti i mali prodotti dal neoliberismo. Paghiamo il prezzo di anni di assuefazione al pensiero unico che esalta la competitività, il consumismo, la crescita ad ogni costo, l’individualismo proprietario. Ideologie che hanno lentamente avvelenato la nostra vita quotidiana riuscendo a far breccia in ciascuno di noi.
È da qui che bisogna ripartire: da un progetto di convivenza e convivialità e di accoglienza che faccia rinascere nelle nostre città quei principi di vita associativa e fiorire della cultura che fecero dei comuni italiani ed europei i luoghi da cui nacque il Rinascimento.
Un governo della città che si apra ad una democrazia pubblica fondata sulla partecipazione delle comunità locali e dei quartieri, con nuove istituzioni di prossimità che sappiano interpretare e rappresentare il bisogno di sicurezza, di solidarietà, di condivisione che pure sono sentiti dai cittadini romani e sconfiggere la piaga dell’egoismo, della competizione selvaggia, della caccia all’untore che indebolisce le comunità a tutto vantaggio di ideologie razziste e xenofobe che avvelenano gli animi e i cuori e lasciano dietro di se solo macerie e rovine fisiche e morali, e distruggono la convivenza civile e democratica. Ci piacerebbe riprendere con tutti quelli che lo vorranno il filo di un impegno civile collettivo per non lasciare la nostra bella città nelle mani dei poteri forti e della cattiva politica che l’hanno seviziata ed oltraggiata o dei mestatori dell’odio sociale e della guerre etniche e di religione.
«Il Paese frana sotto la pioggia e passa la legge che sblocca i cantieri. Il Presidente del Consiglio invece di sostituirsi a giornali e storici nella ricerca di responsabilità, si chieda cosa deve fare il governo. Invece di pensare alle leggi regionali, pensi a quelle che firma lui». La Repubblica, 17 novembre 2014
Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.
La Repubblica, 16 novembre 2014
Che fare? Certamente bisogna riportare alla legalità le parti della città coinvolte nei fattidi violenza, ma ciò nonpuò avveniresenza interventi pubblici volti a risanare le periferie, partendo dai bisogniprimari delle persone (casa, lavoro e istruzione) e interloquendo con loro.
In Italia la risposta privata (speculativa) al bisogno di abitazioni produce immani quartieri di case vuote, e non consente a migliaia di abitanti di soddisfare il proprio bisogno. Ora lo stock di potenziale offerta pubblica è ceduto al mercato: è il neoliberismo nell'era renzista, baby. Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014
La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione. Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa. Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.
Ebbene, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine. La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta – probabilmente alla prima data utile – ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%. L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari). Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): «Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso – sostiene il sindacalista – proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni, favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita».
Va detto che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” – il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà –, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo. D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo).
Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà. D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, «anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica». Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.
L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi – assieme alla Spagna
– con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28). Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi. La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.