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L'articolo di presentazione del ricco servizio di Carteinregola, il battagliero e rigoroso sito sull'urbanistica romana, 3 gennaio 2015

Il “Progetto Fori”, che prevede la realizzazione del più grande parco archeologico del mondo, che da Piazza Venezia si estenderebbe fino ai Castelli, è uno dei punti più importanti del programma elettorale di Ignazio Marino (1). Quest’estate il Sindaco e il Ministro Franceschini hanno nominato una Commissione Paritetica per “l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma”, che in questi giorni ha consegnato una relazione in cui lascia nell’ambiguità il previsto smantellamento della Via dei Fori Imperiali. Ma in un’intervista a Repubblica del 3 gennaio, l’Assessore alla Rigenerazione Urbana Giovanni Caudo assicura che il Comune andrà avanti con il Progetto, come promesso dal Sindaco Marino: «Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci» per «ricostituire l’integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra Mercati Traianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro della Pace voluto da Vespasiano». «Un progetto che accetta la sfida dell’innovazione e della sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche, tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci» e che si allunga da via dei Cerchi fino al Giardino degli Aranci e oltre: «Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbana senza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l’attraversi»(2).

Per la Roma di oggi e di domani, la fruizione collettiva dei beni culturali e ambientali può essere ritenuta un elemento peculiare della dimensione pubblica, attraverso la quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza: i beni culturali e ambientali devono essere “vissuti” non devono essere percepiti come “estranei” e non devono essere recintati. Per questo, ci impegniamo a fare di questo luogo magnifico e unico un luogo vissuto da tutti, il cuore del futuro della città.
(da “Roma è vita” programma di Ignazio Marino Sindaco) (1)

In questi tempi bui, in una Capitale che si è scoperta sprofondata nella mafia e nella corruzione, dove la gente deve fare i conti ogni giorno con una crisi economica di cui non si vede l’uscita e con l’inadeguatezza dei servizi necessari a una vita decente (trasporti efficienti, strade sicure, spazi pubblici decorosi, servizi sociali garantiti), parlare del Progetto Fori può sembrare un lusso. Anzi peggio: un esercizio di stile per intellettuali che continuano a ignorare il malessere generalizzato che ha già cominciato a tracimare. Ma invece proprio il Progetto Fori può diventare il simbolo della determinazione della città a uscire dal pantano, a non dare per scontato un destino segnato da menefreghismo-speculazione-malaffare e a ritrovare la rotta verso la propria identità più autentica.

Un’identità con radici che affondano dall’antichità fino alla storia recente, quando un vasto fronte di entusiasti illuminati (3) capisce che una scelta come quella di restituire i Fori alla loro interezza e alla città può diventare l’inizio di un nuovo mondo. Una scelta forte, intensa, ma anche difficile, che può essere strumentalizzata e resa impopolare. E che forse per questo ha rallentato il coraggio di chi aveva promesso in campagna elettorale di “cambiare tutto”. Infatti quest’estate la valutazione dell’intero progetto, già in fase di elaborazione e presentato nel corso di un convegno nel marzo del 2014 (4), viene affidata a una Commissione di “esperti”. Che si riuniscono, “audiscono”, relazionano: il documento consegnato nei giorni scorsi (5) è un’accurata disamina che più che uno strumento per andare avanti sembra l’ennesima pietra tombale cartacea su un progetto che aspetta di essere realizzato da decenni.

Nella relazione (6) la Commissione Paritetica lamenta il «ridotto tempo a disposizione (meno di quattro mesi) per affrontare un tema di enorme complessità, con il quale si sono confrontate varie Commissioni, progettisti, studiosi, associazioni, da oltre un trentennio». Appunto, diremmo noi. Invece i membri chiedono un altro mandato, in cui sia reso “permanente” l'”organismo paritetico” e gli sia affidato un lavoro ancora più importante: non solo l'”approfondimento dei vari temi affrontati” e la “verifica della fattibilità (in termini di tempi, costi, procedure, etc.) di una serie di progetti proposti” , ma anche “un’opportuna azione di monitoraggio” e il “coordinamento dei vari soggetti (istituzionali e non, pubblici e/o privati) che a diverso titolo saranno impegnati a svolgere le attività…“. In proposito ci chiediamo perchè debba essere tale Commissione nominata da Sindaco e Ministro a occuparsi di un progetto che sarebbe del tutto naturale fosse gestito dai vari soggetti istituzionali preposti. E anche in quale veste tale Commissione dovrebbe svolgere un’azione di “coordinamento”, anche “tra soggetti pubblici e privati”.

E soprattutto non possiamo non rilevare che mentre si invocano maggiori approfondimenti e l’inevitabile allungamento dei tempi per il Progetto Fori, l’idea avanzata poche settimane fa - con un tweet - di coprire l’arena del Colosseo sta facendo passi da gigante, inducendoci a pensare che anche per i beni culturali si riservi la corsia preferenziale a quelle iniziative che possono garantire “ritorni economici”. Infatti in questo caso la Commissione Paritetica si esprime subito favorevolmente, anche per la possibilità di ospitare “iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento“(7). Cioè utilizzare il nuovo spazio ricavato nella suggestiva cornice dell’Anfiteatro Flavio per spettacoli ed eventi, comprese le kermesse commerciali per lanciare ogni sorta di prodotto (come è già accaduto per il Ponte Vecchio a Firenze usato come passerella dalla Ferrari (8). Ed è di questi giorni la notizia – di scala diversa ma emblematica della visione sempre più mercificata di ogni frammento urbano – dell’intenzione del neo assessore ai Lavori Pubblici Maurizio Pucci di utilizzare i sampietrini eliminati dal rifacimento di alcune strade per “fare cassa” (9)

Se non riusciremo a capire che su questioni come queste si sta giocando una partita importante per tutti, non solo per gli accademici e per gli appassionati di archeologia, abbandoneremo la città alla sua lenta agonia. Perchè su queste scelte si fronteggiano due mondi: il mondo di chi pensa che la nostra storia e la nostra città facciano parte di noi e che debbano essere trattate con rispetto e dignità, e il mondo di chi le considera merci, riducendole a mera risorsa economica da sfruttare.

Ricostruire la grande area archeologica dai Fori all’Appia Antica, dove la gente possa andare per restare, per camminare, per scoprire, dove il tempo possa rallentare e si possa respirare la bellezza della città vuol dire ritrovare un modo diverso di vivere. Riportare alla luce nel centro della città il suo cuore antico e aprirgli un varco che segue la sua storia, restituire uno spazio che non esiste e che non ha uguali nel mondo, vuol dire ridare ai cittadini romani una città nuova. Riportare le persone a vivere il centro e rimettere le persone al centro della città.

una planimetria del Progetto Fori

Riferimenti
Il testo integrale del servizio di Carteinregola, corredato da documenti, note e immagini, è visibile qui. L'intervista all'assessore Giovanni Caudo su eddyburg qui.

«Bologna: la procura apre un’inchiesta sulle frasi pronunciate nei confronti di Isabella Conti, primo cittadino di San Lazzaro che ha bocciato un mega progetto edilizio. Al vaglio gli sms in cui politici del suo partito e imprenditori le facevano pressioni». La Repubblica, 3 gennaio 2015

Blocca un mega-progetto edilizio e per lei, giovanissima sindaco Pd di un paese alle porte di Bologna, comincia un calvario. Pressioni di ogni tipo, una pioggia di sms, telefonate e mail di compagni di partito ed esponenti delle coop che vedono sfumare la costruzione di centinaia di appartamenti. Fino alla minaccia raccolta da un dipendente comunale al quale un ex consulente del comune sibila: «Ma che cosa intende fare, questa? Vuole passare un guaio? Vuole che le capiti qualcosa?». Troppo per Isabella Conti, 32 anni, avvocato, da pochi mesi primo cittadino di San Lazzaro, che corre dai carabinieri e denunciare l’accaduto, anche a costo di creare un caso politico e giudiziario. E infatti la procura della Repubblica di Bologna ha immediatamente aperto un’inchiesta.

Tutto nasce da un provvedimento urbanistico del paese dell’hinterland bolognese. Un insediamento da 582 alloggi, più una scuola e un centro sportivo, al centro di polemiche violente da quasi un decennio. Il progetto, da sempre osteggiato dagli ambientalisti e dai comitati cittadini, era stato varato dalla giunta precedente, targata sempre Pd. Ma nel novembre scorso la giovane sindaco Conti ne decreta lo stop con una delibera che avvia la decadenza del Poc (Piano operativo comunale). Uno strappo già annunciato dalla Conti in campagna elettorale, prima della sua elezione nel maggio 2014. L’occasione le si presenta quando, in seguito al fallimento della Cesi, una coop rossa che insieme alla Coop Costruzioni e altre due aziende, doveva realizzare l’opera, al Comune non viene presentata una fideiussione da parte della cordata vincente. E la Conti coglie il pretesto e ferma tutto anche se le aziende annunciano di essere pronte a fare causa al Comune per 20 milioni di euro. È in questo clima che cominciano le pressioni tramite sms e posta elettronica. Al vaglio degli inquirenti ci sono alcuni messaggi spediti da politici e imprenditori per convincerla a fare la “scelta giusta” e tornare sui suoi passi. Pressioni politiche, fin qui. Messaggi per consigliarle di valutare la sua decisione, per evitare eventuali problemi politici e azioni di risarcimento danni. Ma a un certo punto, a metà dicembre, all’orecchio del sindaco arriva altro. Un dipendente comunale le riferisce le frasi minacciose di un consulente del Comune, un professionista vicino al partito democratico. «Ma cosa intende fare questa? Vuole passare un guaio?», parole che Isabella Conti riferisce immediatamente ai carabinieri e che gli inquirenti, il procuratore aggiunto Valter Giovannini e la pm Rossella Poggioli, non prendono certo sottogamba. L’inchiesta è appena partita nella massima riservatezza. Ma tutto il mondo politico, dal Pd ai grillini al Forza Italia, esprime solidarietà alla Conti. E così i vertici di Legacoop. «Sono molto dispiaciuta — ha detto la presidente Rita Ghedini, ex senatrice — spero che non sia niente di rilevante. Quella di cui si parla è un’operazione di rilievo economico e speravo che rimanesse tale».

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Osservatorio Urbano Territoriale - Vicenza, 3 gennaio 2014 (m.p.r.)

Vicenza, 30 dicembre 2014
Gentilissimi Signori,

giusto vent’anni fa, nel 1994, l’UNESCO iscriveva la città di Vicenza, luogo nel quale si conservano le opere più note del Palladio, nella Lista del Patrimonio Mondiale (Vicenza City of Palladio 712 C “i” e “ii”). Com’è noto, nel 1996, il riconoscimento è stato esteso a tutto il complesso delle ville progettate da Palladio e disseminate nel territorio del Veneto (sono venticinque), dando particolare rilievo a quelle ubicate nella provincia di Vicenza (sedici).

Molti cittadini, direttamente impegnati e non in associazioni per la tutela del paesaggio culturale, del patrimonio naturale e ambientale, ritengono che il grande valore di questo patrimonio culturale non sia stato adeguatamente promosso se non in quanto fruttuoso catalizzatore turistico imperniato sulla capacità attrattiva delle singole opere palladiane (la Basilica, Palazzo Chiericati, Palazzo Barbaran da Porto, il Teatro Olimpico, la Villa La Rotonda, tra le tante) quasi sempre isolate (estraniate) dal loro contesto.

In particolare nulla di specifico è stato messo in campo al fine di conservare il paesaggio e l’ambiente a ridosso del centro storico di Vicenza, intimamente legati alla genesi e alla ragion d’essere di questi straordinari monumenti. Un paesaggio culturale che, citando gli stessi scritti di Palladio, ha rappresentato la fonte privilegiata della sua straordinaria ispirazione e che, malgrado i pesanti cambiamenti imposti dallo sviluppo economico ed edilizio più recente, è riuscito ad arrivare a noi ancora ricco di evocativa bellezza.

Lo scorso mese di agosto (12/08) ho fatto pervenire alla vostra attenzione una lettera nella quale esprimevo tutta la preoccupazione, mia e di molti concittadini, per gli effetti devastanti provocati al paesaggio palladiano dal completamento di un imponente quartiere multifunzionale, costruito su una piccola e fragilissima lingua di terra circondata dai due fiumi che attraversano la città, il Bacchiglione e il Retrone, e posta all’imbocco del centro storico. L’insediamento edilizio sorto per ospitare funzioni direzionali, commerciali e residenziali si trova a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda, opera simbolo della produzione architettonica palladiana, a ridosso della Villa Valmarana ai Nani, meravigliosamente affrescata dal Tiepolo, e ancora, a un passo dalle rinomate Scalette di Monte Berico che rappresentano lo scenografico accesso da sud alla dolce collina che domina la città.

A distanza di pochi giorni (21/08) ho ricevuto una cortese e rassicurante risposta da parte della dott.ssa Totcharova, ma da allora non ho avuto più alcuna notizia. Per quanto mi è dato sapere, nessun atto è stato compiuto per sanzionare l’immenso danno, quasi certamente irrimediabile, arrecato al patrimonio culturale mondiale, esito di due atti amministrativi (varianti agli strumenti urbanistici) approvati dall’Amministrazione comunale nel 2004 e nel 2009. Conseguenza di queste scellerate decisioni, è stata la cancellazione dell’originaria bellezza di questo pezzo di paesaggio, la distruzione di un patrimonio culturale che, secondo i dettami della convenzione internazionale sottoscritta dall’Amministrazione comunale di Vicenza all’epoca del riconoscimento e continuamente rinnovata, non solo avrebbe dovuto essere tutelato, ma anzi potenziato. Un gesto irresponsabile e arrogante che ha cancellato in modo definitivo la vista alla collina da sud, alterando, contestualmente, quella verso il centro storico.

Ora, come se ciò non bastasse, un’altra follia sta per segnare in modo indelebile il destino del patrimonio culturale mondiale legato all’opera palladiana. Ciò che appare ancora più grave è che alcune scelte urbanistiche devastanti per il nostro territorio stanno per essere assunte senza che i cittadini possano in alcun modo discutere e ragionare pubblicamente ed esprimersi su quanto si va proponendo, avendo elementi certi per poter capire se tutto ciò è necessario e utile alla comunità locale.

Nei prossimi giorni (08/01) l’Amministrazione comunale si appresta ad approvare lo studio di fattibilità relativo al potenziamento della linea ferroviaria AV/AC che collega Verona a Venezia (si veda http://www.comune.vicenza.it/uffici/dipterr/mobilita/tav/). Il progetto, presentato con un pesante corredo infrastrutturale richiesto espressamente dall’Amministrazione comunale, stravolgerà il sistema urbanistico della città intaccando tanto il centro storico quanto le aree immediatamente attigue (le importanti aree tampone) grazie alla realizzazione di un gran numero di opere complementari.

L’opera che preoccupa tutti maggiormente è un lungo tunnel (14 metri di ampiezza, 17 di altezza e 1.150 di lunghezza) che attraverserà la collina di Monte Berico da ovest a est. In particolare, lo sbocco a est del tunnel è stato collocato proprio sotto la Villa Valmarana ai Nani (quindi a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda) per farlo poi proseguire oltre il fiume Bacchiglione grazie ad un nuovo ponte di servizio a cui ne sarà affiancato un secondo, con la funzione di convogliare il traffico proveniente da sud. E’ evidente che il tunnel, oltre ad arrecare i danni ai capolavori d’arte e d’architettura appena citati, comprometterà per sempre la bellezza del paesaggio rurale di frangia che circonda la città creando, allo stesso tempo, fortissimi disagi ai quartieri residenziali posti a sud.

Per tutte queste ragioni, sono a chiedervi un deciso intervento di approfondimento che possa costituire un segnale di speranza per i cittadini di Vicenza i quali, per le ragioni sopra addotte, vivono un forte senso di frustrazione e di impotenza essendo sempre più convinti che la gran parte delle istituzioni internazionali sono realtà astratte, incapaci di sostenere le comunità nel loro impegno per la tutela del patrimonio culturale e per la qualità paesaggistica e ambientale delle realtà locali.

Vi sarò molto grata per l’attenzione che porrete a questa mia segnalazione. Conto di avere notizie al più presto.

Con sincera cordialità,

Francesca Leder
University of Ferrara
Committee Member of OUT Osservatorio urbano territoriale - Vicenza

Riferimenti
Si sullo stesso argomento su eddyburg l'articolo di Francesco Erbani "Un tunnel sotto le ville del Palladio" Rivolta a Vicenza. Sugli interventi già attuati a Vicenza si veda la denuncia di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura, e le considerazioni di Chiara Mazzoleni Consumo di suolo e dissesto territoriale. Istruzioni per come attuarli

Dopo il parere del tavolo degli esperti l'assessore Caudo (intervistato da Paolo Boccacci) pronto a abbattere la strada del Ventennio. Finalmente parole chiare e la promessa di riprendere il progetto Fori, realizzando la visione di Antonio Cederna e proseguendo il lavoro di Luigi Petroselli. La Repubblica online, 3 gennaio 2015

Qualè il piano del Campidoglio, assessore Caudo?
«Nel disegno urbano, i Fori devono diventare un'area aperta, proprio comeafferma l'ex soprintendente La Regina, da vivere prima ancora come cittadiniche come turisti. Si deve consentire di realizzare singoli interventi ma dentroun quadro unitario e, infine, si deve stabilire una modalità di coordinamentotra tutti i soggetti interessati, in primis lo Stato e Roma Capitale»
Ma il Campidoglio è per lo smantellamento della via e la riunificazione degliantichi Fori?
«Certamente. La commissione di esperti ha rimesso in discussione il vincolomonumentale su via dei Fori Imperiali, anche se sulla rimozione della stradamantiene una posizione contraddittoria e restituisce posizioni diverse. Per noila rimozione dello stradone tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci perliberare e dare continuità ai Fori Imperiali non può e non deve più continuaread essere un tabù. Chiunque, dopo aver visto la bellissima ricostruzionevirtuale del Foro di Augusto di Piero Angela, ha maturato la convinzione chenon può esserci un nastro di asfalto sopra i Fori. Ed è quanto prevedeva già ilProgetto di Leonardo Benevolo e di Francesco Scoppola nel 1988, bisognaripartire da lì».
Dunque la via è questa?
«La Commissione scrive che l'area archeologica «va resa più frequentabile e piùvissuta dai cittadini, anche solo per la lettura di un giornale o di un libro,per una chiacchierata o per una semplice passeggiata o per il normaleattraversamento, accompagnando i bambini a scuola o con le buste della spesa,valorizzando i tracciati esistenti» E io sottoscrivo in pieno questa tesi, comequella per cui bisogna «evitare ogni forma di separatezza tra la città modernadi Roma, con i suoi bisogni e i suoi problemi, e quella antica».
Ora serve un progetto definitivo.
«I prossimi mesi, come chiede il sindaco Marino, ci vedranno impegnati amettere a frutto questo lavoro e ad aggiornare il piano urbanistico complessivodel Progetto Fori, lo faremo e lo discuteremo con il ministero Beni culturali.Bisogna avere il coraggio di un progetto unitario di grande respiro. SulColosseo e sulla proposta di ricostruire l'arena non ho elementi per potermiesprimere, mi fido di quanto ha detto La Regina e mi richiamo alla sua prudenzanel valutare le modalità con cui si possono portare avanti interventi incomplessi monumentali così delicati. Oltre, ovviamente, all'opportunità difarli».
Veniamo allo smantellamento di via dei Fori.
«Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci. Un progettoche sono convinto riuscirà a dare ancora corpo alle diverse stratificazioni chel'area ha avuto, compresa quella degli anni '30, ma che sceglie di ricostituirel'integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra MercatiTraianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro dellaPace voluto da Vespasiano. Un progetto che accetta la sfida dell'innovazione edella sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche,tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci».
E poi?
«Bisogna ripristinare le trasversali tra l'area archeologica e la città modernache gli è cresciuta sopra e intorno. Ad esempio quella che, da piazza Monti,alla Suburra, attraverso via Baccina arriva al Foro di Augusto, lo attraversa epassando dietro il Campidoglio e dopo aver intersecato la via Sacra procedeverso il Velabro, il tempio di Vesta e quindi il Tevere e si prolunga fin versoil basamento dell'Aventino con la risalita fino al giardino degli Aranci, peraltro da poco ultimata. Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbanasenza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l'attraversi».
Come si trasformerà piazza del Colosseo?
«Con la sistemazione di uno spazio pedonale che restituisca il rapporto con lepreesistenze archeologiche ridando dignità ad esempio alla Meta sudans dallaquale si misuravano tutte le distanze ai tempi dell'antica Roma. Unasistemazione che superi l'attuale aiuola che «arreda« la piazza, che risolval'uscita dalla stazione metro Colosseo e indirizzi i flussi pedonali versol'inizio della via Sacra e, oltre l'arco di Costantino, verso l'ingresso alPalatino».
E via dei Cerchi?
«Sarà pedonalizzata e si aprirà un accesso al Palatino. Palazzo Rivaldi saràtemporaneamente centro servizi e spazio espositivo in attesa dellarealizzazione della stazione della Metro C che potrà ospitarne uno piùfunzionale. Mentre a piazza Venezia, venuto meno il collegamento stradale convia dei Fori Imperiali, si può superare l'attuale sistemazione a rotatoria, chela fa sembrare uno spartitraffico. Ora, dopo i lavori della commissione,possiamo dare corpo al Progetto Fori come previsto dal Prg del 2008 e dare vitaall'area archeologica più importante del mondo che sarà il cuore vivo epulsante di una città millennaria ora estesa su un territorio metropolitano dicui sarà possibile comprendere e apprezzare la modernità e declinarla al futuro».

La Repubblica, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)

C’era una volta il paesaggio palladiano. Ora, appena fuori dal centro storico di Vicenza, sotto Monte Berico, che di quel paesaggio è un emblema, dovrebbe essere aperto un tunnel. Ha forma ovoidale, è lungo poco meno di un chilometro e mezzo, alto sedici metri, largo quattordici. È diviso in due sezioni, quella superiore servirà per le auto, quella inferiore ospiterà un canale scolmatore che, in caso di piena, agevolerà il deflusso delle acque dal fiume Retrone. Tutt’intorno le strade verranno ridisegnate e sarà costruito un ponte. A questo frastuono di opere pubbliche dovranno adattarsi la Rotonda e la Villa Valmarana “Ai nani”. La Rotonda è il capolavoro di Andrea Palladio (1566), modello di architetture fino a tutto l’Ottocento, ed è a qualche centinaio di metri dall’imboccatura del tunnel. La Villa “Ai Nani”, completata nei primi decenni del Settecento, affrescata dai due Tiepolo, Giambattista e Giandomenico, è proprio sopra l’uscita del tunnel.

Il tunnel andrà in discussione in Consiglio comunale il 9 gennaio. La giunta di Achille Variati (centrosinistra) stringe i tempi per portare a casa un’opera che figura come complementare a un’altra opera: il passaggio a Vicenza del Tav Padova-Verona. Tempi da record: lo studio di fattibilità è stato presentato l’11 dicembre e poi letto ed esaminato fra panettoni e cenoni.
Ma le proteste in città montano. Si muovono Italia Nostra e Legambiente. Fra i più attivi Out, Osservatorio urbano territoriale, e Civiltà del verde, due associazioni di cittadini. Preoccupati i proprietari della Villa “Ai Nani”: nei giorni scorsi hanno manifestato direttamente al sindaco Variati l’ansia per la statica dell’edificio, un rischio di inimmaginabile gravità visto il patrimonio di affreschi custodito. Una lettera allarmata è stata inviata all’Unesco affinché salvaguardi un bene – il paesaggio palladiano – che la stessa Unesco tutela dal 1994.

Alla vigilia di Natale, dunque, Vicenza ha scoperto un progetto che ne altererà il volto. In bene, secondo la Camera di Commercio, la Confindustria – grandi patrocinatori sia del Tav che delle opere complementari – e il Comune. In male, stando alle denunce dei comitati, preoccupati del definitivo peggioramento di un paesaggio già compromesso da un mastodontico insediamento ancora in costruzione di fronte all’imboccatura del tunnel: intorno al nuovo tribunale, definito un pugno nello stomaco persino dal sindaco Variati, sono sorti enormi palazzi per residenze e uffici a Borgo Berga, nel punto di confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione e non rispettando, secondo un esposto dei comitati, le distanze di legge dagli argini (anche il tribunale sarebbe dunque abusivo). La storia va avanti da anni, coinvolge la famiglia Berlusconi, per un certo periodo proprietaria dell’area, un tempo occupata dal cotonificio Rossi. Sotto accusa anche la Soprintendenza, che non avrebbe vigilato sul mancato rispetto delle sue prescrizioni. Artefice dell’operazione il gruppo Maltauro, il colosso delle costruzioni finito nel gorgo delle tangenti Expo.
Ma non bastava. Al cazzotto di Borgo Berga si aggiunge, protestano i comitati, il tunnel, ritenuto dal sindaco “la conditio sine qua non” del Tav, indispensabile a fluidificare il traffico. Ma il tunnel non è previsto da nessuno strumento urbanistico vigente ed è invece voluto da un consorzio privato, Iricav Due, posseduto al 27 per cento dalla Salini Impregilo, e general contractor di Rfi, la società delle Ferrovie dello Stato che realizza l’alta velocità da Verona a Padova (4 miliardi il costo, cantieri a dicembre 2015, ma nel tratto vicentino non sarebbe alta velocità: da Vicenza a Milano si risparmieranno una manciata di minuti). Due nuove stazioni, inoltre, sono previste in zone che il Piano di assetto idrogeologico stima a rischio di allagamento. Una di queste è dietro al tribunale, l’altra nella zona della Fiera: ed è proprio per evitare qui le esondazioni che sarebbe necessario il canale scolmatore nel tunnel.
Un’ultima questione. Progettista del tunnel è Gianmaria De Stavola, un tempo esponente della Margherita, la stessa formazione dalla quale proviene il sindaco Variati. Alla cui campagna elettorale De Stavola risulta abbia contribuito. Non con una gran cifra, 3 mila euro, ma ha pur sempre contribuito.
Riferimenti
Sui controversi interventi già attuati a Vicenza si veda su eddyburg la denuncia di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura, e di Chiara Mazzoleni Consumo di suolo e dissesto territoriale. Istruzioni per come attuarli

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 30 dicembre 2014

L'assessore alla cultura del Comune di Roma ha scritto al ministro responsabile del patrimonio culturale che se l'idea di usare il Colosseo come location per spettacoli fosse confermata, «non esiterebbe a valersi dei regolamenti e delle leggi per deprecare un tanto danno e un tanto pericolo». Ma il ministro, prendendo la parola in Senato, ha assicurato che «comunque, in un modo o in un altro, sarà provveduto affinchè, in omaggio al pubblico sentimento, non abbiano luogo nell'anfiteatro Flavio rappresentazioni musicali e drammatiche». Ottimo finale: perché in effetti il Colosseo è un monumento in sé, non ha bisogno di essere usato come contenitore di qualcosa per acquistare ai nostri occhi il diritto di continuare ad esistere.

Ottimo, se non fosse che questo lieto finale è andato in scena non ieri, ma l'anno in cui nasceva mia nonna Maria: il 1921.

Ieri, invece, un'inclita commissione nominata dall'attuale ministro preposto a ciò che rimane dello stesso patrimonio culturale, ha deciso che «quanto alla recente proposta di ricostruzione dell’arena del Colosseo, la Commissione esprime parere favorevole, nella convinzione che essa possa offrire un’ulteriore opportunità di comprensione e fruizione del monumenti, rendendo visitabili anche gli ambienti sotterranei ed ospitando iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento». L'imbarazzante messaggio veicolato da questo stile curiale è che gli 'esperti' danno disco verde alla mercificazione della location Colosseo. A buon rendere.

E questo è il meno. L'eccelsa commissione nasceva nientemeno che per redigere «uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma». Ma lo studio che è saltato fuori sembra invece uno scialbo compitino: più simile a un sunto di wikipedia che a una qualunque cosa che si possa definire strategica. E il 'coraggio' che c'è voluto ad avallare la buffonata dell'arena del Colosseo è evidentemente scomparso come nebbia al sole quando la reverenda commissione si è trovata a prendere l'unica decisione importante che c'era da prendere: quella della rimozione della fascistissima, autostradale Via dei Fori Imperiali. Pazienza che questo fosse l'obiettivo di sindaci di Roma come Argan e Petroselli, e il sogno di intellettuali e urbanisti come Antonio Cederna, Italo Insolera o Vezio De Lucia: l'aulica commissione decide altrimenti (sebbene a maggioranza), preferendo rifarsi a Massimiliano Fuksas. E scusate se è poco.

E poi la chicca: se Via dei Fori Imperiali non si tocca, la Commissione vorrebbe invece demolire un pezzo di una strada rinascimentale, la Via Alessandrina. Quel che rimane si potrebbe sempre ribattezzare Via del Revisionismo.

Infine, la sullodata commissione – che candidamente si autocandida a diventare permanente: come tutte le strutture provvisorie che sorgono, più o meno abusivamente, in Italia – dispensa buoni consigli, «sentendosi come Gesù nel Tempio»: «Evitare gli opposti estremismi della contrapposizione tra tutela e valorizzazione, superando sia la finta modernizzazione che in nome di uno sviluppo senza qualità, mercifica la storia semplicemente perché non la conosce, sia certe posizioni sostanzialmente conservatrici rispetto ad ogni pur blanda proposta di innovazione». Ah, signora mia, non ci sono più le mezze stagioni: e nemmeno gli opposti estremismi di una volta.

La verità che «il principale problema per lo svolgimento dei lavori della Commissione è stato rappresentato dal ridotto tempo a disposizione (meno di quattro mesi) per affrontare un tema di enorme complessità, con il quale si sono confrontate varie Commissioni, progettisti, studiosi, associazioni, da oltre un trentennio. Lo scarso tempo a disposizione ha impedito l’approfondimento adeguato in particolare di alcuni nodi problematici di enorme complessità a partire dal tema centrale rappresentato dal destino di Via dei Fori Imperiali». Lo scrive la commissione stessa, in un accesso di lucidità: ma poi procede come se nulla fosse.

Perché non siamo mica nel 1921: quando l'assessore alla cultura del Comune di Roma si chiamava Corrado Ricci. E il ministro, Benedetto Croce.

La sacrosanta protesta del Comitato per la bellezza, lanciato da Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino. Si spera che altre seguiranno. 31 dicembre 2014, con postilla

Il governo Renzi ha impugnato nella seduta del 24 dicembre scorso la legge urbanistica regionale toscana approvata nel novembre scorso togliendo un appoggio sostanziale allo stesso piano regionale concordato col Ministero per i Beni culturali. L’impugnativa non è causata da un eccesso di permissività come è accaduto in passato (e come la cementificazione del Paese dimostra ovunque), ma, al contrario, perché alcune norme della legge urbanistica promossa dal presidente toscano Enrico Rossi e firmata dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson “riguardanti l’approvazione delle previsioni urbanistiche per le medie e grandi strutture di vendita, costituiscono ostacolo alla libera concorrenza”. Inoltre le stesse violano la “competenza esclusivamente statale in materia di concorrenza di cui all’articolo 117 della Costituzione”. Analogamente succede per altre norme edilizie contenute nella legge toscana.

Insomma, se una Regione (l’unica al momento, le altre risultano più o meno latitanti) applica il Codice per il Paesaggio co-pianificando i propri assetti col Ministero per i Beni culturali, viene prontamente “punita” perché viola il sacro principio della “libera concorrenza”. In realtà la legge toscana prevede che i progetti per nuovi centri commerciali passino al vaglio di una conferenza dei servizi (Comuni, Città Metropolitana, ecc.) incaricata di valutarne l’impatto sul paesaggio e anche sull’economia della zona. Il modello “americano” (negli Usa già considerato obsoleto) dei mega-centri commerciali ha già provocato, infatti, seri danni, in più parti d’Italia cementificando paesaggi intatti, intensificando una circolazione automobilistica già pesante, svuotando di piccoli negozi borghi storici spesso abitati da persone anziane, così private di servizi alla porta di casa.

La Regione Toscana si è così resa “colpevole” di non aver rispettato le misure liberalizzatrici del governo Monti e, ancor più, quelle del decreto Sblocca Italia del governo Renzi che riducono o cancellano controlli e tutele territoriali e paesaggistiche al fine di incentivare al massimo una ripresa edilizia che i più considerano illusoria e comunque pericolosamente speculativa. Si tratta infatti di misure che cozzano in maniera frontale con la conclamata necessità di non continuare a consumare suoli liberi, agricoli o boschivi, di non procedere oltre in una impermeabilizzazione (cemento+asfalto) dei terreni che è fra le cause di fondo delle frequenti alluvioni nelle città.

La “libera concorrenza” in materia territoriale e ambientale - quella consentita dalle leggi e quella di cui l’abusivismo più sfrenato si è appropriato a danno della collettività - ha provocato disastri, ha prodotto milioni di metri quadrati di alloggi, di uffici, di capannoni vuoti, invenduti, inutilizzati. Chi si dispone a sottoporla a controlli in nome dell’interesse generale dovrebbe essere premiato, additato ad esempio. Invece succede il contrario. C’è pure un risvolto politico nella questione toscana: il governatore uscente Enrico Rossi non appartiene strettamente all’area renziana; egli, ricandidatosi alla presidenza, avrebbe portato legge urbanistica e piano paesaggistico fra le operazioni-simbolo del proprio mandato, avendo contrastato l’opposizione dei cavatori delle Apuane, dei lottizzatori della costa e non solo, degli immobiliaristi, degli speculatori sui terreni agricoli, delle imprese che vogliono forzare la coltura viticola ben al di là delle zone “vocate”, ecc. Una strategia che cozza contro quella del governo Renzi centrata al contrario sulla “liberalizzazione” e sul favore generale nei confronti dell’imprenditoria. Eppure il governo vorrebbe incrementare il turismo. Come? Imbruttendo definitivamente paesaggi straordinari che sono la prima attrattiva turistica italiana? Non si sa se il ministro competente Franceschini abbia opposto riserve ad una impugnativa oggettivamente grave, di fatto senza precedenti. Sulla quale si dovrà pronunciare nei prossimi mesi la Corte costituzionale.

Per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino.


postilla

Il pretesto della concorrenza è utile ai saccheggiatori del Belpaese per continuare a praticare la peggiore devastazione del territorio che l'Italia abbia mai visto. Si tratta di una concorrenza ben diversa da quella che ci hanno insegnato Adamo Smith e Luigi Einaudi: è la concorrenza spietata del grosso che mangia il piccolo, del ricco che sgranocchia il povero, del potente che rottama (o asfalta) il debole. E' la concorrenza come la vedono gli arroganti e i mascalzoni nell'Italia, e nel Primo mondo, di oggi.
Nel merito, non preoccupa troppo il
vulnus alla legge urbanistica della Toscana (ne sono minacciati solo pochi articoli marginali). Preoccupano invece la sordità di persone un po' meno rozze dell'attuale Comandante che lo fiancheggiano nonché, e soprattutto, la scarsa capacità d'indignazione dei nostri compatrioti. Che aspettiamo a scendere in piazza?

Lacivettapress.it, 30 e 31Dicembre 2014 (m.p.r.)

CIRCOLARE CHOC DEL DIRIGENTE BB.CC.
GLI ATTI IN USCITA SPETTANO AL SOPRINTENDENTE

di Marina De Michele

La rivoluzione di Rino Giglione: le pratiche, prima firmate dai dirigenti e vistati dal vertice, ora competono solo al Capo. In questo modo, con mano libera sulle nomine di sole dieci persone, la politica si impadronisce di un settore delicatissimo della Sicilia.

Il Dirigente Generale dei Beni Culturali, Rino Giglione, è uomo d’azione; e neppure il gravoso compito di dover assolvere a due incarichi - seppure, a quanto pare, in barba alla legge Severino - gli impedisce di mettere in atto una sua vera e propria rivoluzione nel sistema regionale dei Beni Culturali. Mentre da un lato “normalizza” la Soprintendenza di Siracusa, prima con la rimozione del Soprintendente e poi con la “rotazione” dei dirigenti… sospetti (sono difesi nientemeno che dagli ambientalisti!), dall’altro infligge un duro colpo alla già residuale autonomia tecnica delle Soprintendenze dell’isola.

Nella circolare 21, il Dirigente Generale declina la propria personale interpretazione della legge 10 del 2000 (sulla dirigenza) e della Legge Severino (di cui, si direbbe con qualche dimenticanza, è convinto assertore). Dalle pieghe di un involuto ragionamento reso nel più faticoso burocratese, una disposizione emerge chiara: l’obbligo per i Soprintendenti, da ora in avanti, e in contrasto con quanto sostenuto da tutti i suoi predecessori, di firmare gli atti in uscita non per “visto” ma per piena ed esclusiva assunzione di responsabilità, anche nel merito del contenuto tecnico dei provvedimenti.

Questione di lana caprina, si dirà; non era così anche prima? Non era indispensabile la firma del Soprintendente perché un atto in uscita assumesse rilevanza esterna? Non proprio: e la differenza non è di poco conto. Fino ad oggi, e con tanto di autorevoli circolari sull’argomento, la responsabilità del contenuto tecnico del provvedimento, e di conseguenza la firma, si attestava al dirigente dell’unità operativa competente, nella qualità di responsabile del procedimento; il “visto” del Soprintendente attestava l’attività di controllo e di coordinamento dell’ufficio, e conferiva efficacia esterna all’atto.

Quindi il Soprintendente non aveva alcuna voce in capitolo sul contenuto tecnico (per intenderci, e a titolo di esempio: il rilascio di un’autorizzazione oppure no, e le motivazioni relative)? Non del tutto. Veniva riconosciuta al Soprintendente la facoltà di sostituirsi al dirigente nella produzione del contenuto tecnico dei provvedimenti, ma solo in via eccezionale e in due casi ben definiti: inerzia o motivato dissenso. Vale a dire, qualora il dirigente non adempisse all’obbligo di emanazione di un atto di propria competenza, oppure il contenuto dell’atto non fosse condiviso dal Soprintendente nel merito tecnico. In tal caso però, si imponeva una procedura formale: un provvedimento di avocazione dell’atto, contenente le motivazioni della mancata condivisione, inviato anche al Dirigente Generale, che ne controllava la correttezza.

Quindi, ogni provvedimento era in realtà il frutto di una responsabilità condivisa e di un indispensabile confronto nel merito; e, in ogni caso, la limitazione del potere di avocazione da parte del Soprintendente costituiva una forma di garanzia dell’autonomia tecnica del dirigente, assicurando nel contempo al Soprintendente la possibilità di correzione di eventuali anomalie di funzionamento dell’ufficio.

Oggi, la situazione è diversa. L’aver accentrato nel Soprintendente tutta la responsabilità, sia tecnica che amministrativa, dell’atto decisorio gli conferisce una straordinaria autonomia rispetto al dirigente, dalle cui decisioni può discostarsi senza più la necessità di procedere ad un formale atto di avocazione. Non è, come si potrebbe pensare, una questione di tecnicismo burocratico né semplicemente una diminuzione del ruolo del dirigente di unità operativa. Di fatto, la Soprintendenza non viene più intesa come un organismo complesso, che assomma diverse specificità tecniche, e in cui la responsabilità tecnico-scientifica degli atti non può che ricadere in capo alle diverse strutture competenti per materia; di fatto, essa si trasforma in un ufficio monolitico, con un unico vertice decisorio.

Tutto, in ultima analisi, ricade e si attesta al Soprintendente. Come ai vecchi tempi, si dirà; ma allora le Soprintendenze erano tematiche (e quindi non c’era pericolo che un soprintendente architetto dovesse occuparsi di scavi archeologici o un bibliografo di restauro architettonico) e quando, soprattutto, i Soprintendenti divenivano tali per concorso; con tanto di titoli, punteggi prestabiliti e regole certe.

Oggi, il sistema di reclutamento dei vertici delle Soprintendenze, grazie alle innovazioni della legge 10 del 2000, è sotto gli occhi di tutti. Titoli e curriculum non sono più che parole vuote, e la discrezionalità che la sciagurata legge consente ha trasformato ogni giro di nomine in un’arena in cui si azzuffano politici di ogni risma, per piazzare i propri candidati. E adesso, il gioco è fatto: chi riuscirà a far insediare al vertice di una Soprintendenza il proprio uomo avrà in mano un’intera provincia. E lo stesso Soprintendente che volesse conservare una sua autonomia tecnica nei confronti della politica, dovrà affrontare in toto e da solo le conseguenze di eventuali decisioni scomode alla politica, senza potersi far forte della condivisione delle scelte con i dirigenti del suo ufficio; e sarà quindi più debole e ricattabile.

Con la mano libera sulle nomine di sole dieci persone, la politica si impadronirà definitivamente dell’intera Regione; mare compreso (e così la finiamo anche con questi medievali no alle trivellazioni nel Canale di Sicilia!)

“TRA I DIRIGENTI UN GEOLOGO ALLA GUIDA DEL CONTENZIOSO, UN FILOSOFO ALL'AMBIENTE …”
Intervista di Marina De Michele all'avvocato Salvo Salerno

L’avv. Salvo Salerno: “Sono tutti intercambiabili, nessuno necessario, l'unico requisito lo dà il politico. Vengono nominati senza i requisiti in dispregio di parte della legge 1. E’ un sistema drogato, vera causa dell’inefficienza amministrativa dilagante”

L'avvocato Salvo Salerno è rappresentante sindacale per la Funzione Pubblica - Area della Dirigenza della Cgil e dirigente regionale, consigliere dell'Ufficio Legislativo e Legale della Regione, fino a poche settimane fa responsabile dell'Ufficio legale dell'Azienda Foreste Demaniali.

Da tempo rappresenta una voce critica, per lo più erroneamente inascoltata, sulle problematiche di una dirigenza regionale 'infeudata' come lui la definisce, caratterizzata da una mobilità e premialità frutto del mero 'padrinaggio' politico. Risale a due anni fa un suo articolato intervento sul tema della 'delegittimazione' dei dirigenti nell'era Crocetta che si può supporre essere stato tra le cause, insieme al suo parere negativo sulla riforma Caltabellotta della forestale, per le quali ha successivamente perso l'incarico di responsabile dell'ufficio legale.

Avvocato, ci fa comprendere cosa accade alla Regione Sicilia?
La Legge 15 maggio 2000 n. 10, pur non sempre a torto indicata come la causa principale del collasso della dirigenza regionale, è stata disattesa dalla classe politica anche nelle sue previsioni più positive e strategiche. Pensiamo al Ruolo Unico (art. 6) che, in sostituzione delle vecchie tabelle professionali, ora racchiude tutti i dirigenti. In tale bacino l'Amministrazione avrebbe dovuto pescare i dirigenti da incaricare, e con cui stipulare i relativi contratti di incarico (art. 9), in una logica aperta di incontro della domanda e offerta delle prestazioni dirigenziali.

Dove si è voluto creare il black out da parte dei governi Cuffaro, Lombardo e Crocetta? Semplice! In un espediente solo apparentemente secondario e cioè nella mancata attuazione della seconda parte dell'articolo 6 che espressamente prevede che il Ruolo Unico sia "articolato in modo da garantire la necessaria specificità tecnica e/o professionale anche ai fini dell'attribuzione degli incarichi in relazione alle peculiarità delle strutture… e per promuovere la mobilità e l'interscambio professionale degli stessi [dirigenti]… tra amministrazioni…”. Niente suddivisione del Ruolo Unico in sezioni tecniche e professionali quindi, e i profitti malsani sono arrivati puntuali e copiosi per la politica.

Vuole chiarire?
Senza distinzione dei dirigenti secondo le qualità tecniche e professionali ai fini dell'attribuzione dell'incarico, succede che tutti insieme i dirigenti vadano bene per qualsiasi incarico. Salta il meccanismo selettivo dell'articolo 9 che subordina l'incarico al possesso anche del requisito professionale e nessun confronto di titoli e meriti è così più necessario per il conferimento dell'incarico. Decide solo il politico, cioè il Presidente e l'Assessore, attraverso il loro strumento diretto che è il Dirigente Generale. Capita così di vedere un geologo alla guida di un Ufficio del Contenzioso, un filosofo di quello ambientale, un legale dell'agricolo e così via. Tutti intercambiabili, nessuno necessario, l'unico requisito lo dà il politico.

Ma Crocetta in un'intervista del 6 settembre a La Repubblica si è lamentato di non poterli mandare via e di non potersi avvalere di un numero ancor maggiore di esterni!
Crocetta dimentica di dire di aver contribuito, con i suoi predecessori, a drogare il sistema. Una volta incaricato e insediato, quel dirigente acquisirebbe "sul campo" (parole dello stesso governatore) i requisiti non posseduti e pertanto, da quel momento, diventa idoneo all’incarico stesso. Così una pedagogista, neppure dipendente regionale, diventa Segretario generale della Regione, o un geometra, senza essere dirigente, diventa capo di uno dei più grossi enti regionali, e ancora un ingegnere si permette di far scrivere a un agronomo le direttive sul contenzioso, sebbene disponga di un legale, e potrei continuare. Ecco la vera causa dell’inefficienza amministrativa dilagante.

La Corte Costituzionale, con sentenza del 5 febbraio 2010 (la n° 34), ha dichiarato l'illegittimità dello spoil system dei dirigenti intermedi. Se ne tiene conto alla Regione?
No. Il particolare legame tra l'assessore, e naturalmente il gruppo politico che su di lui ha investito, e il dirigente "liberamente" nominato può far sì che quest'ultimo orienti la propria azione non più all’applicazione oggettiva della legge, secondo il principio dell'imparzialità e del servizio alla Nazione (artt. 97 e 98 della Costituzione), ma secondo altri criteri, facilmente deducibili. Anche per questo è possibile che un dirigente generale - non importa se bravo o meno -, disinteressandosi delle norme sul procedimento amministrativo o sulle procedure contrattuali, possa rimuovere come birilli i dirigenti sottordinati non funzionali all'obiettivo politico. O che a un archeologo prestigioso possa essere preferito un architetto, nella guida della Soprintendenza archeologica più importante. Naturalmente una gran mole di titoli professionali "spazzatura" è l'ulteriore conseguenza di un tale sistema drogato che così si alimenta di continuo. Perché è ovvio che il dirigente "fidato" accumula incarichi che poi spenderà nel suo curriculum per conseguire sempre nuovi incarichi. Persino l'avvio, oggi, di una procedura formalmente rigorosa e trasparente di selezione dei nuovi incarichi in base ai titoli finirebbe così per premiare proprio i dirigenti più infedeli alla Costituzione e più fedeli ai potenti di turno.

E cosa ne è stato dei dirigenti regionali "originali" entrati per concorso pubblico per esami?
Per lo più penalizzati. Oggi, per colpa della politica, il numero dei dirigenti regionali, tra puri e "spuri", è balzato al numero di quasi 1800 unità, il 95 % dei quali è parcheggiato in "terza fascia", mentre la prima fascia - quella che dovrebbe esprimere i dirigenti generali - contempla solo due unità e la seconda - che dovrebbe fare da base per la prima - ne contempla solo 42, tra cui però soggetti che non hanno mai sostenuto un concorso, che sono entrati silenziosamente provenendo da altri e diversi enti o da “particolari” enti. Risultato: tutti in terza fascia, compresi gli attuali dirigenti generali, che una sentenza recente del TAR Palermo (15/05/2014 N. 01244) ha praticamente dichiarato abusivi, proprio perché in terza fascia!

Una panoramica devastante: è possibile uscirne, trovare una scappatoia?
Intanto fare ordine partendo dalla sterilizzazione dei titoli dirigenziali formatisi grazie agli incarichi politici (incarichi commissariali, nei Gabinetti, nelle Partecipate etc.), dall'azzeramento degli attuali dirigenti generali e dalla verifica di tutte le posizioni dirigenziali di seconda e terza fascia con espulsione dalla seconda fascia dei dirigenti non entrati nella Regione grazie a un concorso pubblico per esami. In seconda fascia andrebbero quindi inseriti solo i dirigenti regionali che possano dimostrare il superamento di un concorso pubblico per esami ai ruoli di dirigente e non di funzionario. I dirigenti "scartati" potrebbero essere mantenuti in terza fascia ad esaurimento. Per loro solo la partecipazione ad un apposito concorso per esami, e non per soli titoli, dovrebbe eventualmente aprire le porte della seconda fascia.

Alla luce di questa nuova configurazione, dovrebbero poter accedere alla prima fascia solo i dirigenti di seconda fascia che possano documentare competenze, titoli e preparazione per gli incarichi apicali. Solo da qui gli incarichi di dirigente generale. Sarebbe necessaria anche la riduzione drastica dei dirigenti generali "esterni" ai soli casi di documentata indisponibilità di professionalità interne. I dirigenti generali esterni possono avere una certa utilità nel management delle società partecipate, ma se impiegati nell'amministrazione pubblica diretta, risultano spesso deleteri perché non dotati del senso della terzietà e, come tutti gli operatori privati, la loro azione risponde non alla Nazione ma all’interesse di parte, quando non anche personale.

Ovviamente a monte di questo "utopistico" sistema perfetto, sarebbe indispensabile l'istituzione di organismi veramente indipendenti di valutazione dei dirigenti e la rifondazione della ricerca e formazione di eccellenza in ambito pubblico, sostenendo enti e organi regionali che svolgono tali funzioni, quali ad esempio il CERISDI e l'OPCO, presso i quali distaccare i dirigenti regionali per sessioni seminariali e/o periodi formativi, nonché la celebrazione di nuovi concorsi pubblici per esami, una volta attuati i punti precedenti.

Ma il cosa fare è un preciso obbligo morale per una politica che voglia dirsi e ritenersi effettivamente diversa. Lei crede davvero che oggi sia possibile un cambiamento?

Riferimenti

Si veda su eddyburg di Giuseppe Palermo Soprintendenze e tentativi di epurazione: prove generali in Sicilia?

soft dei suoi contenuti formativi. La Repubblica online, blog Articolo 9, 30 dicembre 2014

Alcuni docenti vicentini hanno scritto al Giornale di Vicenza spiegando perché non porteranno i loro allievi a vedere la mostra supertrash Tutankhamon Caravaggio Van Gogh.
Sarebbe bello che l'amministrazione comunale di Vicenza, la fondazione bancaria sponsor e le redazioni dei giornali che accettano di pubblicarne le pubblicità o recensioni compiacenti la leggessero, e la meditassero.
Sarebbe bello se i miei colleghi storici dell'arte delle università e delle soprintendenze la sottoscrivessero, facendola propria.
Da parte mia, lo faccio riproducendola tutta qua sotto:

«Siamo un gruppo di docenti del Liceo “Pigafetta” che ha deciso di non accompagnare le proprie classi in Basilica Palladiana alla mostra dal titolo: Tutankhamon Caravaggio Van Gogh - La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento.
«L’arte non può essere solo emozione effimera e spettacolarizzazione, evento mediatico valutato positivamente o meno sulla base del consenso di un pubblico indifferenziato, ma costruzione di conoscenza, strumento in grado di dare identità, di creare desiderio di capire, di affinare capacità di rispondere a domande che le opere pongono.
«L’insegnamento della Storia dell’Arte dovrebbe sensibilizzare i giovani rendendoli protagonisti consapevoli ovvero contribuendo a formare cittadini in grado di dare pieno valore a ciò che la nostra Costituzione recita all’Articolo 9 in merito allo sviluppo della cultura, alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione”.
«Perché è appunto nella conoscenza che si costruisce coscienza.
«Tra le principali motivazioni che ci spingono come insegnanti a non effettuare la visita, vi è lo scarso valore scientifico e didattico di eventi come questo, che si rivelano enormi calderoni dove le opere esposte sono legate da un generico filo (il ritratto, il paesaggio, la notte…). Di nuovo, di veramente utile all’educazione del grande pubblico o allo studioso, poco o nulla.
«La partecipazione con le classi alle precedenti mostre si è rivelata infatti un’esperienza scarsamente significativa sul piano educativo e piuttosto faticosa: organizzazione farraginosa, gruppi contingentati, tempi strettissimi, uscita solo in gruppo senza dare possibilità di rivedere o assaporare con un po’ di calma quanto visto e spiegato e questo a fronte di un biglietto non certo economico. Il tutto con l’unico evidente scopo: contare più visitatori, scalare le classifiche delle “mostre più viste”, mettere a segno un’operazione di successo.
«Eventi che potrebbero trovare sede da qualsiasi parte, che non stabiliscono un legame, anche labile, con la città.
«Quest’anno non cederemo alle varie sollecitazioni o alle richieste di alcune famiglie e di qualche allievo, liberissimi peraltro di visitare individualmente la mostra che certo annovera opere d’indiscusso pregio e valore; preferiamo insegnare ai nostri studenti ciò che pensiamo sia il significato profondo di patrimonio storico e artistico: qualcosa che deve essere, per quanto possibile, coeso, valorizzato e sviluppato in quelle specificità che sono proprie ed uniche di un luogo, di un territorio, qualcosa di svincolato da mere logiche mercantili.
«Sembra un po’ bella senz’anima, la nostra città, quando accetta tutto e magari se ne compiace, non protesta per le scelte operate dalle varie amministrazioni, non sempre mosse da logiche autenticamente culturali. Perché, come già detto, è nella conoscenza che si crea consapevolezza, fondamento di libertà e di sana democrazia.
«Francesca Lora, Mara Seveglievich, Luisella Ferrarese, Giuseppa Viviani, Clelia De Benedictis, Gianmaria Sberze, Diana Sartori, Marzia Zanella, Cristina Nizzero, Nicola Curcio, M. Elisa Cattelan, Elisabetta Xausa, Francesca Gottin, Cristina Ceccato Donato Mascia, Stefania Lievore, Marta Nori, Delia Bianco, Marina Savio, Giuseppe Muschitiello, Eleonora Iacobacci, Anna Farella, Silvia Rigotto, Annamaria Alfano, Felicetta Martino, Maurizio Zanon, Alessandra Milan, Tiziana Ponso, Rosamaria Torrisi, Maria Antonietta Mattiello»

Ricerche USA sull'influenza delle tipologia insediative sui comportamenti sociali rivelano interessanti corrispondenze. Sarebbe bello se anche nello Stivale ci fossero analoghe ricerche. Millennio urbano, 29 dicembre 2014 Sono le caratteristiche insediative ad orientare le persone verso gli schieramenti politici o viceversa? Negli Stati Uniti è noto da tempo come gli abitanti delle aree urbane dense votino in prevalenza per i democratici, mentre quelli della dispersione suburbana per i repubblicani, ed una recente ricerca ha messo in luce il fatto che l’orientamento politico e la scelta del posto in cui vivere tendano a coincidere. Invece nel nostro paese analoghe rilevazioni sono ancora di là da venire, anche se si potrebbero trovare analogie con le dinamiche statunitensi ad esempio in quelle regioni, come la Lombardia e il Veneto, fortemente caratterizzate dalla dispersione insediativa e da quasi un quarto di secolo inclini a far prevalere lo schieramento politico di centro destra.

Tornando dall’altra parte dell’Atlantico, un nuovo rapporto del Pew Research Center sulla crescente polarizzazione politica mostra quanto grande sia il divario tra liberal, che coincidono con i democratici, e conservatori, identificabili invece con i repubblicani, riguardo a comportamenti e stili di vita. Il fatto che gli appartenenti ai due gruppi tendono a socializzare e ad informarsi solo al loro interno – anche se i conservatori lo fanno in modo più radicale – era già noto da tempo e tuttavia l’ aspetto che spicca di più, perché raramente misurato, sono le divisioni ideologiche tra chi preferisce vivere in luoghi caratterizzati dalla percorribilità pedonale e chi invece si affida alla dipendenza dall’auto tipica dello sprawl suburbano.

La correlazione tra modelli insediativi e voto

L’istituto che ha svolto la ricerca ha chiesto agli intervistati de preferiscono vivere in una zona dove “le case sono più grandi e più distanziate, le ma scuole, i negozi ed i ristoranti si trovano a diversi chilometri di distanza,” oppure dove “le case sono più piccole e più vicine tra di loro, e le scuole, i negozi e ristoranti sono raggiungibili a piedi”. Gli intervistati si sono equamente divisi tra il 49 per cento che sceglie la prima ubicazione e il 48 per cento che preferisce la seconda. Il fatto che il divario circa la preferenza del luogo in cui vivere corrisponda all’orientamento politico all’interno dei due gruppi è la novità messa in luce dalla ricerca. Mentre i tre quarti degli intervistati “costantemente conservatori” preferiscono una ubicazione suburbana come luogo in cui vivere, e solo poco più di un quinto sceglie un ambito urbano caratterizzato dalla pedonalità, tra gli americani “coerentemente liberali” le percentuali sono invertite.

Se da una parte la distribuzione del voto hanno da tempo mostrato una correlazione tra l’orientamento liberal e la densità tipica dei centri urbani – che potrebbe spiegarsi con il fatto che gli abitanti delle città americane sono più spesso poveri ed appartenenti a minoranze – la relazione tra le preferenze di un certo modello insediativo e l’ideologia politica non erano necessariamente così evidenti. Si tendeva a considerare probabile che chi vive in città semplicemente non possa permettersi di vivere nei sobborghi. Al di là delle condizioni economiche non era stata presa in considerazione la possibilità che ci fosse una precisa scelta che ha a che fare con le caratteristiche insediative. Specularmente gli elettori delle circoscrizioni non urbane potevano semplicemente essere conservatori in quanto più prossimi al mondo rurale, espressione di un modello sociale che attribuisce un grande valore alla disponibilità di spazio e di risorse, anche se non particolarmente incline ad usare l’auto per ogni necessità.

Al di là delle condizioni economiche

Il sondaggio dimostra che in effetti i liberal preferiscono potersi spostare a piedi ed i conservatori invece danno più valore allo spazio ed alla privacy. I liberal d’altra parte hanno maggiori preoccupazioni ambientali, sono consapevoli di quanto sia più efficiente vivere in case più piccole e cercano di evitare l’uso dell’auto. Le aree più dense ad accessibilità pedonale contribuiscono inoltre a creare un senso di comunità, basata sugli incontri che si possono fare camminando o sul trasporto pubblico, che prevede anche la diversità economica, etnica, culturale, eccetera. Inoltre, chi preferisce la condizione urbana tende a dare più valore allo spazio pubblico piuttosto che a quello privato.

Al contrario i conservatori non conferiscono alcun valore alla condivisione ed alla diversità e preferiscono investire i loro soldi nei giardini privati piuttosto che in un parco pubblico. Nell’indagine del Pew Research Center emerge che essi hanno più probabilità dei liberal di affermare che è importante per loro di vivere vicino solo a ai loro simili e, rispetto ai democratici, i repubblicani tendono ad essere meno giovani, istruiti e cosmopoliti.

Insomma la questione sulla quale invita a riflettere il rapporto sembra un po’ essere quella ben nota dell’uovo e della gallina: sono le scelte urbanistiche ad esse in grado di modificare gli orientamenti individuali in relazione alla desiderabilità di un certo modello sociale o è la politica che veicola la propria idea di società anche attraverso gli strumenti dell’urbanistica?

Riferimenti

Pew Research Center for People & the Press, Political Polarization in the American Public.
Ben Adler, Why liberals like walkability more than conservatives, Grist, 13 giugno 2014.
Sullo stesso argomento si veda anche, M. Barzi, La città è di sinistra e la campagna è di destra?, Millennio Urbano, 8 marzo 2013.

«Nella legge di stabilità 300 ml di euro per l'autostrada nata "senza soldi statali". Aiuti anche dalla Regione Lombardia, 60 ml sottratti dal fondo destinato all’edilizia sanitaria. Svelato il grande inganno chiamato project financing il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati». Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2014

L’autostrada meno trafficata d’Italia la dovevano pagare i privati. E invece no. Perché alla fine tra le pieghe della legge di Stabilità 2015 approvata nelle scorse settimane dal governo spunta uno stanziamento pubblico di 300 milioni per la A35 meglio conosciuta come Brebemi. Contributo che la società concessionaria controllata da Intesa Sanpaolo e dal gruppo Gavio aveva chiesto per riequilibrare il suo piano economico e che va ad aggiungersi agli altri 60 milioni assegnati dalla Regione Lombardia prima di Natale.

A sollevare il caso è stato ieri l’Eco di Bergamo ricordando anche che il finanziamento della Regione aveva suscitato non poche polemiche anche fra lo stesso governatore Roberto Maroni, favorevole alla concessione, e il ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture Maurizio Lupi il quale, solo pochi giorni fa, era sembrato contrario. Durante un conferenza stampa a Palazzo Lombardia aveva, infatti, evidenziato che i vertici della Brebemi spa si erano spesso vantati di essere riusciti a costruire l’autostrada solo con soldi privati: «Mentre ora ci chiedono un contributo pubblico» aveva detto. Non solo. Durante la discussione per l’approvazione della legge regionale finanziaria 2015, il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Enrico Brambilla ha duramente criticato la decisione della Regione di partecipare al riequilibrio del piano economico della Brebemi-A35 attraverso un contributo da 60 milioni da versare in tre anni, dal 2015 al 2017. Ad aggravare la questione, secondo Brambilla, è che i 60 milioni sono stati stanziati togliendoli dal fondo destinato all’edilizia sanitaria.

Dalla maggioranza è stato però fatto notare come anche il governo Renzi, che ha come principale partito all’interno lo stesso Pd, abbia deciso di sostenere Brebemi. Sono così affiorati i fondi pubblici inseriti attraverso un emendamento, nella legge di stabilità 2015 con un nome tecnico che passa inosservato. Si chiama “Fondo interconnessione tratte autostradali” e ha una dotazione complessiva di 300 milioni di euro che verranno stanziati, 20 milioni di euro all’anno, dal 2017 al 2031. Alla ripartizione delle risorse, da utilizzare esclusivamente in erogazione diretta, si provvede con delibera Cipe (il comitato che coordina gli investimenti statali) su proposta del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

«Nata con la promessa di autofinanziarsi, la Brebemi diventa ora l’autostrada più sussidiata del mondo», ha commentato Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia. A rendere i contributi pubblici «una farsa», secondo Balotta, ci sono poi gli sconti del 15 per cento (fino a maggio) per i pendolari annunciati da Brebemi. Dalla sua inaugurazione, avvenuta a luglio, la “direttissima” di 61 chilometri che collega Milano, Bergamo e Brescia viene utilizzata da meno di 17 mila veicoli al giorno contro i 60 mila previsti. «Inoltre - conclude l’esponente di Legambiente - lo sconto di 1,60 centesimi non basterà a far cambiare idea agli automobilisti, perché il pedaggio costerà comunque il 45 per cento in più della parallela A4».

Di certo è stato svelato il grande inganno chiamato project financing di cui aveva già scritto il Fatto Quotidiano nell’agosto scorso. Il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati perché le casse pubbliche sono vuote. Solo che alla fine paga comunque lo Stato.

«Nasce l'associazione "Preserve Venice" Fabio Carrera di Sant'Elena, docente in Usa, ha elaborato interessanti strategie di risparmio sui trasporti o riduzione del moto ondoso e tante altre». La Nuova Venezia, 28 dicembre 2014 (m.p.r.)

Di Venezia conosce tutto, «dal tetto della Basilica ai fondali», come dimostra il sito che questo dicembre festeggia il 25 anniversario di vita e tutte le informazioni che si trovano su Venipedia, il portale di circa 18 mila articoli e 25 mila pagine, fondato da lui. Stiamo parlando del cinquantenne Fabio Carrera, veneziano di Sant'Elena emigrato all'estero, oggi docente al Worcester Polytechinic Institute del Massachusetts. E lui che, grazie all'aiuto 700 studenti, ha elaborato interessanti strategie di risparmio sui trasporti o riduzione del moto ondoso e tante altre, presentate all'Hotel Bauer all'interno del ciclo di appuntamenti «Incontri con la città».

In questa occasione è stata anche annunciata la nascita dell'Associazione "Preserve Venice", nata da Carrera e dal veneziano Manuel Vecchina, con lo scopo di restaurare dal basso tramite crowfounding i cosiddetti "beni erratici", quelli che possono essere rimossi impropriamente e che da oggi sono invece finanziabili e segnalabili sul sito PreserVenice. Tornando a Carrera e alla sua Venezia che ha stupito e incuriosito il pubblico presente per l'ecclettismo e alcune soluzioni proposte, come quella dei trasporti. Secondo Carrera infatti il sistema attuale di trasporto è per prodotti, mentre invece sarebbe molto più utile per tutti farlo per destinazioni: «Oggi le barche dei trasporti fanno circa 3000 chilometri al giorno», ha detto Carrera durante la presentazione, «come se si andasse quotidianamente da qui all'Islanda, ma perché non ridurre il carico per tutti studiando un sistema per destinazioni? Per esempio, invece di portare il pane a ogni panificio e girare per tutta Veneia, si potrebbe portare tutto quello che necessita una zona e da lì smistare le merci. Noi abbiamo calcolato che dividendo Venezia in 40 zone si otterrebbe un risparmio considerevole di traffico e moto ondoso».

Gli studi fatti negli anni, con tanto di numeri e statistiche visibili sul sito, sono stati elaborati parlando con le categorie e con i diretti interessati e non riguardano solo il commercio, ma anche il censimento dei suoni delle campane e degli oltre 2300 approdi per interventi di manutenzione. «Vogliamo che tutto questo sia a disposizione di tutti», ha detto, «in modo che ognuno possa trarre beneficio, dal singolo che può vedere le 4850 botteghe censite alle istituzioni con le quali siamo sempre disponibili a incontrarci».

«Ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione». La Repubblica, 29 dicembre 2014 (m.p.r.)

Ho avuto occasione di sfogliare un corposo studio sui costi dell’energia elettrica in Italia. Esso è stato redatto da Rse, società dello Stato che sviluppa attività di ricerca nel settore. Alla fine quello che più impressiona un lettore generico è che la bolletta elettrica per gli italiani è la più cara di tutte. Lo sapevamo, ma non con così tanta differenza. Paghiamo la luce il doppio della media famiglia francese.

Viene spontanea e diretta la domanda: ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione. Andiamo per ordine. Fino a tutti gli anni Novanta esisteva il monopolista Enel e qualche azienda municipalizzata che producevano e distribuivano l’energia elettrica. Il suo prezzo veniva stabilito dallo Stato sulla base principalmente dei costi del petrolio e del carbone, tenendo comunque conto della situazione generale del Paese. Le aziende elettriche non avevano i bilanci in rosso, non erano forse efficientissime, ma tutto sommato non pesavano più di tanto sui contribuenti.
Arrivò poi una direttiva europea che impose di introdurre il mercato dell’elettricità (anche quello del gas). Un po’ difficile da comprendere come si possano applicare le regole di mercato su un prodotto “invisibile” al cliente. La modalità che noi scegliemmo fu quella di vendere gli impianti migliori dell’Enel a francesi e tedeschi. Poi dopo la svendita ci siamo messi a competere con loro in Italia. Il governo francese scelse diversamente: mantenne intatta la sua azienda di Stato (la Electricité de France - EdF), lasciando aperte agli altri le ulteriori quote di mercato disposte a competere. Alla luce di quanto è successo, sono stati più bravi loro. Le ragioni del mercato erano molto semplici: più concorrenza avrebbe portato a maggiore efficienza così che l’utente francese avrebbe avuto l’energia elettrica a minor prezzo. I governi dell’epoca decisero di fare ancor di più: privatizzarono l’Enel e la quotarono in Borsa, tenendosi il 30%. Lo Stato fece cassa ma il risparmiatore certamente no. All’epoca (circa 12 anni fa) ogni azione Enel valeva più di 8 euro, oggi 3,7. Per di più l’azienda è oggi oberata di debiti. Alcune aziende municipali seguirono la stessa strada (Acea, Aem,…), un disastro per i piccoli azionisti.
Per quanto riguarda il mercato va anche detto che è molto poca l’energia elettrica che viene gestita secondo le sue regole, in quanto deriva per il 30% da fonti rinnovabili immesse in rete con il beneficio di apparire bene di importazione meno caro di quello prodotto dalle centrali nucleari francesi. Allora continua ad aver ancora senso tenere ferme tantissime moderne centrali a gas? Sotto il profilo del regime tariffario, gli utenti finali si distinguono principalmente in due categorie: clienti in regime di mercato libero che si riforniscono direttamente senza intermediari e clienti in regime di maggiore tutela.
I clienti in regime di mercato libero rappresentano sia utenti industriali/ commerciali sia domestici che hanno esercitato il diritto a scegliere un proprio fornitore. In questo caso la tariffa elettrica applicata è definita sulla base di condizioni economiche determinate in regime concorrenziale fra gli operatori (venditori/compratori). Per le famiglie con consumi molto bassi si applica un regime cosiddetto di “maggior tutela” garantito dallo Stato. Il problema è che per poter soddisfare i consumi ed il benessere di una famiglia di oggi con tenore di vita “europeo” occorre impegnare una potenza di circa 6KW (lavatrice, condizionatore, ferro da stiro, forno,..). E guarda caso le tariffe odierne vanno a penalizzare proprio questa fascia di utenti, che finisce per pagare per tutti e che comprende anche negozi, artigiani e piccoli uffici.
La prima azione “democratica” da compiere consisterebbe nel far pagare in maniera proporzionale alla quantità utilizzata, in regime di mercato infatti chi consuma di più dovrebbe godere di sconti corrispondenti. Ma il vero nodo sta nella “struttura della bolletta”. Nonostante ci sia una diversificazione degli utenti finali per tipologia di consumo e di trattamento tariffario, tutti sono accomunati dalla stessa struttura di prezzo del kilowattora consumato, che include le seguenti componenti: costo di approvvigionamento (combustibili, produzione, commercializzazione,..); costo per il servizio di gestione del sistema elettrico italiano; costo dei servizi di trasmissione e distribuzione (trasporto dell’energia dalla centrale di produzione fino al cliente Terna ed Enel); oneri generali di sistema (incentivazione alle fonti rinnovabili ed altre voci); imposte.
È tra queste componenti che si deve andare a trovare la riduzione dei costi. Su quelli di approvvigionamento, una volta ottimizzata la gestione operativa delle centrali alimentate con combustibili tradizionali, il risparmio dipende dai prezzi internazionali del petrolio (in questo periodo la congiuntura sarebbe favorevole). Una sforbiciata sui costi di funzionamento del Gse (gestore della rete) e di altre società collegate non farebbe male (spending rewiew). Per quanto riguarda i servizi di trasmissione ad alta tensione e di distribuzione gli oneri pretesi dalle due società Terna ed Enel sono molto più alti rispetto a quelli praticati in Europa. Gli utili delle due società appaiono comunque eccessivi perché dovuti a questi elevati margini. Non sono necessarie strategie energetiche, ma urgenti misure di equità.

La Repubblica, 28 dicembre 2014

SIAMO davvero un Paese singolare: da tre giorni infuria la polemica sugli scavi di Pompei chiusi a Natale e a Capodanno (e il 1° maggio: come tutti gli altri musei e siti monumentali statali). E allora? Il Louvre chiude il 1° gennaio, il 1° maggio, l’11 novembre (armistizio della Grande Guerra) e il giorno di Natale.

IL British Museum chiude il 24, 25, 26 dicembre e il Venerdì Santo. Il Metropolitan di New York è chiuso a Natale e a Capodanno, oltre che nel giorno del Ringraziamento e il primo lunedì di maggio. Si potrebbe continuare a lungo: notando anche che moltissimi grandi musei del mondo chiudono anche un giorno ogni settimana (il Louvre di martedì), mentre Pompei è aperta sempre, 362 giorni all’anno.

Insomma, dall’elenco dei mille veri scandali del povero patrimonio culturale italiano possiamo depennare almeno questa polemichetta natalizia, tristanzuola e provinciale. La netta sensazione è che anche in questo caso abbia colpito la proverbiale pigrizia della macchina italiana dell’informazione: lo “scandalo Pompei” è ormai diventato come le “bombe d’acqua”, il “bollino rosso” sui giorni del rientro e altri topoi di larghissimo consumo. Luoghi comuni che ci sollevano dall’ingrato compito di pensare. E invece si parla pochissimo del fatto che a Pompei sono appena state riaperte dodici domus , e che finalmente funziona la governance formata dal generale Giovanni Nistri, a capo del Grande Progetto, e da Massimo Osanna, a capo della Soprintendenza Speciale.

Naturalmente Pompei non è il migliore dei mondi possibili: basta notare che per trovare gli orari dei musei stranieri che ho citato in apertura ho impiegato 4 minuti in tutto, mentre il sito web di Pompei dice che gli scavi sono aperti «tutti i giorni», senza menzione dei tre sacrosanti giorni di chiusura. E questo, sì, che è uno scandalo: e si vorrebbe tanto un ministro per i Beni culturali meno attratto da twitter e più dedito a curare gli spettrali siti Internet del nostro patrimonio.

Ma sgolarsi sullo “scandalo di Pompei” permette di rimanere alla top ten del patrimonio, cioè a quei pochi luoghi che fanno notizia qualunque cosa se ne scriva. E di rimanere comodamente seduti in poltrona, attaccati alla rete e senza guardare al di là del proprio naso. Per rimanere in Campania chi si pone, per non fare che un esempio, il problema clamoroso del Rione Terra di Pozzuoli? Una città romana estesissima, a tratti ancora più conservata di Pompei e che culmina spettacolarmente nel tempio marmoreo di Augusto, trasformato in cattedrale. Una città in gran parte recuperata grazie alla competenza e all’abnegazione dell’archeologa Costanza Gialanella: ma mai aperta al pubblico per l’incapacità e il disinteresse della Regione Campania, che pure ha finanziato il restauro. E che dire delle duecento (!) chiese monumentali del centro di Napoli, completamente chiuse e inaccessibili da decenni, spesso dal terremoto del 1980? L’elenco sarebbe infinito, e coprirebbe tutta l’Italia. Perché il nostro è davvero un patrimonio negato: ma non per i tre giorni in cui Pompei chiude. Siamo seri.

Insistere nella realizzazione della cosiddetta TAV Torino-Lione è una clamorosa stupidaggine, ma non aiutano a sgonfiare il pallone di menzogne propalate dei difensori della costosa e devastante iniziativa quanti scelgono lo strumento degli attentati. Il Fatto quotidiano, 27 dicembre 2014

Quando si parla di Tav vi sono una serie di elementi fuori discussione, cioè non “di parte”, benché il progetto resti controverso e non più di Alta velocità (nome improprio). Era nato come una linea di alta velocità, cioè principalmente destinata ai passeggeri, tra Torino e Lione. Poi, data l’esiguità delle previsioni ufficiali per i passeggeri (16 treni al giorno su 250 di capacità della linea), è stato degradato a progetto merci. Infine, data l’evidente non necessità di una linea veloce per le merci, al solo tunnel di base, con costi previsti passati da circa 23 miliardi a 9.

I dati sul traffico merci sono eloquenti: la linea esistente, recentemente rimodernata, ha una capacità ufficiale di 20 milioni di tonnellate annue. Attualmente ne passano 4 e il traffico complessivo (autostrada compresa) è in declino da prima della crisi.

Del progetto è stata fatta un’analisi costi-benefici da parte dei promotori a posteriori rispetto alla decisione politica di realizzarlo (e con queste premesse appare difficile un responso negativo). L’analisi è stata criticata per eccesso di ottimismo da molti studiosi indipendenti, per vistosi errori tecnici e ottimismo delle previsioni di traffico. A tali circostanziate critiche non è mai stata data risposta. Si noti tra l’altro che gli studiosi critici di quell’analisi chiedevano solo che si facessero studi indipendenti e comparativi per decidere priorità di spesa, non per dire dei “sì” o dei “no”, e ciò secondo le migliori prassi internazionali. Neppure a questa istanza è stata data risposta.

Per quanto riguarda gli aspetti finanziari del progetto, cioè il rapporto costi pubblici-ricavi, cruciale in una fase di scarsità di risorse pubbliche, non esiste alcuno studio, se non uno che calcola questi risultati solo in base ai costi e ai ricavi di esercizio, senza includervi i costi di investimento(!). Lo studio dell’opera non è nemmeno giunto al livello di progetto esecutivo, per cui l’incertezza dei costi rimane elevata anche a livello di preventivo. E il contributo finanziario europeo appare “auspicato”, ma tutt’altro che certo.

La corte dei conti francese ha espresso una valutazione fortemente negativa sul progetto, rinforzata recentemente da perplessità molto più generali su tutta la politica ferroviaria del Paese. La revisione delle priorità effettuata per le grandi opere francesi (pur dopo l’esclusione da tale revisione di questo progetto, in quanto “internazionale”), ha valutato come non prioritaria la prosecuzione della linea dal tunnel a Lione, “per insufficienza di traffico” (questa tratta, avendo anche il traffico locale, sarà comunque più trafficata del solo tunnel di base).

Ora, le proteste ambientaliste o pseudo tali, sono spesso opportunistiche, fatte al fine di ottenere compensazioni delle più inverosimili (si veda il caso di Firenze e di Bologna). Nel caso del Tav Torino-Lione tuttavia appaiono nel complesso motivate ed informate.

Ma il ricorso alla violenza in tali proteste appare del tutto funzionale agli interessi dei promotori dell’opera (“cui prodest?” non è una domanda peregrina, a volte). Infatti giustamente “lo Stato non può cedere alla violenza…” e questa violenza, secondo chi scrive, potrebbe effettivamente prendere una deriva terroristica. Certo che la mamma dei cretini è sempre incinta, ma forse alcuni di questi non sono tanto cretini, anche se a pensar male si va all’inferno.
Postilla

Veramente "a pensar male "si fa peccato", quindi non si va necessariamente all'inferno. Ciò che è rilevante è che, secondo il fortunato aforisma di Giulio Andreotti, "a pensar male spesso ci si azzecca"

». Ma non bastava. La Repubblica, 20 dicembre 2014

Le opere dei depositi dei musei italiani rimangono l’oscuro oggetto dei desideri di coloro che in quei depositi non hanno mai messo piede. Ora il presidente di Federalberghi (nonché senatore di Forza Italia, nonché membro del comitato di presidenza di Civita) Bernabò Bocca rilancia l’idea.
Sorvoliamo. E concentriamoci sulla “politica culturale” che una simile proposta presuppone. In tutto il mondo l’impresa privata concorre a mantenere il patrimonio culturale pubblico non sostituendosi allo Stato, ma sommandosi all’azione di quest’ultimo. E lo fa attraverso il mecenatismo: cioè attraverso atti di generosità senza ritorni immediati. In Italia, al contrario, si è scelta la strada delle sponsorizzazioni: operazioni commerciali che fanno leva sul patrimonio pubblico. E ora si vorrebbe fare un altro passo su questa strada: si vorrebbe che fosse lo Stato a fare il mecenate per l’impresa privata, concedendo in comodato gratuito alle grandi catene alberghiere le opere d’arte che appartengono a tutti, anche agli indigenti. E dal mecenatismo allo sfruttamento privato di un bene pubblico c’è davvero un bel tratto di strada.

Allora uno è costretto perfino a rivalutare (si fa per dire) l’idea avanzata da Domenico Scilipoti (proprio lui) e poi da Laura Puppato, e perfino dalla Commissione dei Saggi del Quirinale: che era quella di affittare quelle stesse opere ai privati, ma almeno a titolo oneroso. Perché forse sarebbe troppo desiderare un Paese in cui gli albergatori si occupino di portare i nostri alberghi ad un livello europeo, e lo Stato si occupi di mantenere dignitosamente i nostri musei, depositi compresi. Senza noleggi, affitti e comodati. Come se fossimo un Paese civile. O, almeno, ci provassimo.

Concedere quelle opere in comodato d’uso ai trentaquattromila hotel italiani, perché ci arredino le hall. Plaude Philippe Daverio («Almeno le opere d’arte abbandonate negli scantinati serviranno a qualcosa»), plaude perfino il senatore Corradino Mineo, qui allineatissimo alla maggioranza. E non dice no la sottosegretaria ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni: «Noi non abbiamo preclusioni, la proposta è suggestiva. Sorvoliamo (per un attimo) sui problemi di conservazione e sicurezza, e sul fatto che queste preziose riserve sono (in tutto il mondo) i polmoni dei musei: che “respirano” studiandoli, esponendoli a rotazione, permettendone la visita a chi ne faccia richiesta.

«La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato elimina dal Testo Unico per l’edilizia un articolo-cardine della legge n.10/1977 (Bucalossi). Da quel momento i Comuni sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente. Una follia». Left, 20 dicembre 2014

Il governo Renzi annuncia lo stop al consumo di suolo, ma con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità va in direzione opposta. I Comuni continueranno a usare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”. A danno dell’ambiente, del paesaggio e dei servizi. Impermeabilizzato il 7,3 % di suolo italiano. Napoli il Comune con più cemento e asfalto. Poi Milano. Lombardia e Veneto le regioni più impermeabilizzate. Restano per questo in superficie in tutta Italia 270 milioni di tonnellate di acqua piovana all’anno.

Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità. Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la legge di stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti. Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa con la legge di stabilità.

La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato, a sei giorni dalla sua uscita di scena per far posto al nuovo governo Berlusconi, elimina dal Testo Unico per l’edilizia su proposta del ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini (una lunga milizia a sinistra, prima nel Psi , poi nella Sinistra indipendente, nominato nel 2008 da Giulio Tremonti presidente della potente Cassa depositi e prestiti) un articolo-cardine, il n.12, della legge sui suoli n.10/1977 voluta dal repubblicano Pietro Bucalossi. Esso prescriveva che «i proventi delle concessioni e della sanzioni» dovevano essere versati in un conto corrente vincolato, per essere «destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali».
Tutto cancellato. Da quel momento i Comuni - ai quali il governo centrale trasferisce sempre meno soldi - sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente.
Una follia perché in tal modo i piani urbanistici vengono stravolti con cento varianti, pur di far correre l’edilizia che, non a caso, galoppa dal 2001 al 2008, sino alla gelata della recessione mondiale. A danno ovviamente dell’ambiente urbano e del paesaggio, a danno dei servizi primari e secondari da fornire ai cittadini. Nel primo caso strade, fogne, luce, gas, illuminazione pubblica, aree a verde, parcheggi, ecc. Nel secondo, asili, scuole materne e poi di ogni livello, consultori, chiese, verde attrezzato di quartiere e altro ancora.
Di più: quel denaro fresco che entra nella casse comunali col pagamento delle concessioni edilizie ha un effetto positivo effimero. Non nel medio e lungo periodo: fatti i dovuti investimenti nei servizi, al Comune, e quindi, alla lunga, ai suoi abitanti quel vorticare di concessioni edilizie tornerà in fronte come un boomerang. Con l’aggravante di ritrovarsi un territorio e un paesaggio degradato dall’abbinamento cemento+asfalto. Quel boom dei primi otto anni del nuovo secolo ha almeno sanato la “fame di case” a prezzo o a fitto equo, medio-basso? Neanche per sogno: si trattava di condominii, di ville e villette “di mercato”. Molte erano seconde e terze case destinate a sfasciare definitivamente territorio e paesaggio. Quindi la domanda di case economiche o sociali - per giovani coppie, per famiglie immigrate, ecc. - non ha ricevuto da questo boom edilizio risposte di sorta. Così si è creato un enorme stock di alloggi e di uffici vuoti, invenduti, sfitti, in tutte le città italiane, a fronte del quale fioccano le occupazioni di case, popolari e non.
Non c’erano mezzi legali per frenare, per ridurre questa folle corsa? C’era il Codice per il paesaggio che prescrive, da anni ormai, ad ogni Regione di co-pianificare col Ministero dei Beni culturali e di approvare poi quel piano paesaggistico in grado di obbligare gli italiani alla virtù e alla saggezza. Sì, ma soltanto una regione per ora, la Toscana, per merito della giunta presieduta da Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, ha redatto e approvato, fra polemiche roventi di cavatori, immobiliaristi, costruttori, speculatori vari, il piano paesaggistico e con esso la nuova legge urbanistica. E le altre? Più ombre che luci, a volte buio pesto. La fresca legge lombarda forse riuscirà a peggiorare le cose.
Malgrado la crisi, anche nell’ultimo triennio, secondo i dati dell’Ispra, il consumo di suolo ha galoppato follemente. Eppure la superficie agricola italiana si era già ridotta nel quarantennio 1971-2011 del 28 %, circa 5 milioni di ettari in meno, una superficie pari a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna sommate insieme. Mentre l’abbandono ormai cronico della montagna fa precipitare a valle acqua, tronchi, fango, terra in quantità inusitate durante le piogge battenti di ogni stagione ormai. In pianura questa fiumana violenta trova terreni già allagati perché resi “impermeabili” da asfalto e cemento per superfici immense e che quindi non assorbono più una massa d’acqua enorme: 270 milioni di tonnellate all’anno. Milano è, dopo Napoli, il Comune più impermeabilizzato con oltre il 60 % della superficie seguito a ruota col 48 % da Monza. Acqua di sopra e acqua di sotto: la falda sotterranea è risalita rapidamente con la chiusura dei complessi siderurgici e tessili. Per cui Seveso, Lambro e altri corsi d’acqua straripano sempre più spesso.
Ultima beffa. Meno soldi da Roma? Si “fa cassa” con gli oneri di urbanizzazione (fra dieci anni qualcuno pagherà) e si alzano le tasse comunali. Dal 1997, cioè dalla prima legge Bassanini sul federalismo amministrativo, esse sono state inasprite del 200 %, contro il 35-36 % di quelle statali. Se questo è il federalismo, torniamo ad un regionalismo, equilibrato e “controllato”. L’“autocorrezione” dei vari enti ha prodotto in realtà un’“autocorruzione” diffusa, inquinante, insostenibile.

«Noi pensiamo che il fine non giustifica i mezzi, e che negli interventi di trasformazione della città le cubature non possono essere usate come “moneta urbanistica”, seppure “a fin di bene”». Carteinregola, 22 dicembre 2014

Oggi in Assemblea Capitolina si vota la dichiarazione di pubblico interesse della “Proposta dello Stadio della Roma a Tor di Valle” – Studio di fattibilità”. Su Roma città aperta la diretta audio fm 88.9, sul sito di Roma Capitale lo streaming della diretta del dibattito. I lavori proseguiranno anche nel pomeriggio. Intanto M5S ha diramato un comunicato in cui mette i dubbio la validità della seduta per violazione dell’orario di convocazione (art. 35 comma 4 del regolamento del Consiglio comunale)

Lo diciamo ancora una volta: siamo contrari alla dichiarazione di pubblico interesse della proposta, non perchè siamo contro al progetto di un nuovo Stadio della Roma, ma perchè non condividiamo i principi su cui si fonda e le modalità con cui è stato condotto. Ma siamo – come sempre – anche per una corretta informazione – e soprattutto per una corretta opposizione. Contrapponendo le nostre ragioni a quelle dell’Assessore Caudo con argomentazioni serie e fondate, senza ventilare interessi illeciti, imbrogli e falsi ideologici per contestare scelte che, anche se non condividiamo, fino a prova contraria sono assolutamente legittime. Ne riportiamo una sintesi, rimandando per approfondimenti ai nostri precedenti articoli/dossier.

Il punto di dissenso

Se dovessimo riassumere in un unico punto il nostro dissenso dalla Delibera del Nuovo Stadio, si potrebbe ridurre a questo: l’Assessore Caudo guarda ai risultati concreti per la città, considerando l’ “operazione Stadio”consentita dai due commi come un’opportunità da cogliere, per portarsi a casa quelle che considera importanti risorse non solo per il quadrante ma per tutta la Capitale. Noi invece pensiamo che il fine non giustifica i mezzi, e che negli interventi di trasformazione della città le cubature non possono essere usate come “moneta urbanistica”, seppure “a fin di bene”.

Per l’Assessore i vantaggi dell’operazione sono quantificabili sia in termini economici (secondo i suoi calcoli il “guadagno pubblico” sarebbe circa il 25% del ricavato degli investimenti privati), sia in termini infrastrutturali. E le nuove strutture per la mobilità non servirebbero solo il nuovo Stadio ma tutto il quadrante, con interventi sui collegamenti su ferro esistenti e con i parcheggi al servizio dell’impianto sportivo e dell’annesso Business Center, che diventerebbero parcheggi di scambio per i pendolari che vivono fuori dal GRA. Anche il nuovo quartiere con edifici direzionali, commerciali, recettivi, contribuirebbe al decentramento di funzioni e servizi allentando la pressione e gli impatti sul centro storico.

Secondo noi invece le trasformazioni urbane non possono essere il risultato di una stratificazione di proposte dei privati, seppure valutate e guidate dalla mano pubblica volta per volta, ma devono essere il frutto di una pianificazione lungimirante, che costruisca un’idea di città condivisa con i cittadini. Come del resto prometteva il programma del Sindaco Marino di cui è autore l’assessore Caudo. Una contraddizione di principio, che non è sfuggita all’Istituto Nazionale di Urbanistica, che, nel suo documento di qualche tempo fa, non a caso aveva sottolineato come tutta l’operazione fosse l’ennesimo caso di “urbanistica contrattata” concludendo che “l’esame di proposte imprenditoriali e il negoziato sui loro contenuti e condizioni sono necessità ineliminabili della città e della metropoli contemporanea” (3). Un sistema che noi – al contrario di quanto sostiene l’INU – invece vogliamo credere che non sia inevitabile, come non vogliamo rassegnarci all’idea che per dotare delle infrastrutture necessarie i quartieri che tutte le amministrazioni che si sono succedute da almeno vent’anni hanno abbandonato a se stessi, sia necessario mettere in conto nuove cubature. E se non escludiamo aprioristicamente che a Tor di Valle, all’interno del GRA, accanto alla stazione della metro B, in un’area già in parte urbanizzata, possa avere senso inserire una nuova centralità, riteniamo che non sia con questi commi, con questa tempistica, con queste modalità che impediscono adeguati studi preliminari ed escludono la città dal dibattito, che si possa progettare una trasformazione così consistente.

Le nostre ragioni

1) Non siamo contrari alla realizzazione di un nuovo stadio: quelli esistenti – Olimpico e Flaminio – non sono più adatti, per motivi diversi e – soprattutto l’Olimpico – per gli impatti gravissimi dal punto di vista della sicurezza e della mobilità dei quartieri limitrofi. Argomento di cui nessuno sembra preoccuparsi, a partire dal prefetto Pecoraro che consente che si riproponga ad ogni partita una situazione inaccettabile e pericolosa nelal zona Faminio/Prati/Ponte Milvio. Realizzare un nuovo stadio, con soluzioni innovative all’altezza delle città moderne soprattutto per la sicurezza ci sembra indispensabile e anche di pubblico interesse. Nè ci sembra criticabile – in tempi in cui ci si spertica in elogi della rigenerazione urbana – costruire uno stadio moderno al posto di un ippodromo abbandonato. Tuttavia ci sono questioni che dovrebbero essere affrontate fin d’ora, come la possibilità il rischio della moltiplicazione degli stadi di ogni sorta (da quello della Lazio a qualsiasi altra squadra e sport) che – dato il precedente – potrebbe diventare il grimaldello per costruire interi quartieri direzional/commerciali in luoghi non forniti delle necessarie infrastruttre per lo stadio. In nome dell’equilibrio economico.

2) L’ambiguità della necessità dell’ “equilibrio economico”. A nostro avviso il Sindaco e l’Assessore alla Trasformazione Urbana della Capitale avrebbero dovuto avere voce in capitolo e respingere questa formulazione dei commi della Legge di stabilità, pretendendo una legge fatta come si deve con tutte le precisazioni necessarie. Invece i commi in questione, mentre descrivono molto dettagliatamente tutte le minacce in caso di inadempienza da parte dell’amministrazione nella turboapprovazione della proposta dei privati, nulla dicono su cosa si intende per tipi di intervento “strettamente funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici” se non che sono esclusi “nuovi complessi di edilizia residenziale” (4). Secondo noi gli edifici del Business Center non dovrebbero essere una soluzione praticabile per garantire l’equilibrio economico per coprire i costi delle infrastrutture necessarie. Altrimenti si aprirebbe (si aprirà) la porta alla realizzazione di altri milioni di cubature, volti a garantire la sostenibilità economica di altri stadi previsti in luoghi non adeguatamente provvisti di infrastrutture. E neanche il criterio che le cubature del BC vanno a coprire i costi di infrastrutture al servizio non solo dello stadio ma di tutta la città ci sembra adeguato. Perchè ripropone il solito schema “cubature in cambio di opere che le casse pubbliche non possono affrontare”, che è stata una delle sciagure subite dalla città. Una pratica che ha messo in mano all’iniziativa di privati, quindi sottomesse alla legge del profitto, scelte che avrebbero dovuto essere guidate da una regia mirata esclusivamente all’interesse pubblico.

3) Interrompiamo la logica dello scambio servizi/infrastrutture/riqualificazione con nuove cubature ai privati. E’ triste, in questi giorni in cui si scopre che da anni un’organizzazione mafiosa ha predato sistematicamente le risorse pubbliche per foraggiare politici e pubblici amministratori (e temiamo che il bilancio finale sarà ben più salato), pensare che per avere quei minimi e doverosi servizi per i cittadini – una ferrovia che funziona come una metro, una strada messa in sicurezza, una stazione in più della metropolitana, un parco nell’ansa del Tevere – il Comune debba regalare ai privati che mettono i soldi necessari il diritto di costruire nuovi edifici. Non sappiamo se all’estero funzioni così, ma secondo noi il pubblico interesse dell’operazione avrebbe dovuto limitarsi al progetto “A” – lo Stadio con annessi uffici, qualche albergo, anche negozi e centro Nike – che rientra nell’area dell’Ippodromo e nelle previsioni del PRG. Con la condizione per il privato di realizzare le infrastrutture necessarie alla sua sostenibilità per la città, quindi con la sistemazione della mobilità su ferro e della rete viaria. E se l’equilibrio economico non fosse stato raggiungibile, la risposta avrebbe dovuto essere “no grazie”, con la possiblità per il privato di individuare un’altra area, in cui i costi risultassero inferiori perchè già in parte infrastrutturata (5).

4) Fretta e pressioni al posto di pianificazione. Vogliamo prima i dati. Resta il fatto che molte contestazioni riguardano proprio il tipo di interventi messi come condizione preliminare del progetto dello Stadio – in particolare la realizzazione di un prolungamento della metro B con una stazione “Tor di Valle” – a fronte di una situazione della mobilità insostenibile che le opere proposte non risolverebbero adeguatamente. Tuttavia non ce la sentiamo di esprimerci al riguardo, non avendo a disposizione dati oggettivi frutto di studi preventivi, che tuttavia non ci risulta siano stati commissionati neanche dall’assessorato. E ritieniamo ingiustificabile che non ci siano stati dibattiti pubblici sull’argomento nè che tutti i documenti non siano stati messi a disposizione dei cittadini on line (nei giorni scorsi sono state pubblicate sul sito del Dipartimento urbanistica le slides con i dati della presentazione dell’Assessore Caudo)

5) A proposito di trasparenza e partecipazione. Ci limiteremo a citare un passaggio del programma elettorale del Sindaco Marino, che oggi chiama a raccolta in Campidoglio i tifosi della Roma per perorare la delibera:

“I processi di rigenerazione devono avvenire promuovendo il più ampio coinvolgimento dei soggetti interessati al fine di assicurare che gli interventi migliorino la vivibilità e la qualità delle parti di città coinvolte e ne sia garantita la sostenibilità sociale ed economica. A tal fine istituiremo i Laboratori di Città che descriviamo più avanti con i quali promuoviamo non la solita partecipazione ma il protagonismo di cittadini e anche delle imprese che in forme civiche prendono parte ai processi di rigenerazione” “La qualità è anche aprirsi alla partecipazione. I Laboratori di Città e l’Agenzia di rigenerazione urbana serviranno anche a costruire nuovi percorsi di partecipazione informata dei cittadini alle scelte urbanistiche della città. Vanno poi aperti nuovi canali di comunicazione e dibattito pubblico, gestiti dall’amministrazione pubblica, che devono svolgersi sia in maniera decentrata, nei luoghi della città dove le cose avvengono, ma anche in uno spazio da creare al centro, un “forum” dedicato, perché molte di queste trasformazioni interessano l’intera comunità urbana”

Le leggende metropolitane

§ 1) Lo Stadio e il Business Center sorgerebbero nell’ agro romano. L’area (privata) nel PRG è classificata “verde privato e attrezzature sportive” , si trova all’interno del raccordo anulare, e dove già esiste un grande impianto sportivo abbandonato – l’ippodromo di Tor di Valle. A 500 metri si estende il popoloso EUR Torrino, e anche dall’altra parte del Tevere, oltre l’autostrada per Fiumicino insiste un consistente quartiere.

§ 2) Lo Stadio e il Business Center sorgerebbero in area esondazione /area a rischio idrogeologico. L‘area non è a rischio esondazione. Il rischio riguarda il quartiere di Decima, soggetto all’esondazione del fosso di Vallerano, la cui sistemazione è stata individuata dall’amministrazione comunale come una delle opere che condizionano la dichiarazione di pubblico interesse (6). Nella conferenza dei servizi l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere ha inserito delle prescrizioni, che ci riservaimo di valutare quando i relativi atti saranno disponibili (cosa che ci auguriamo avvenga l più presto)

§ 3) Il Comune poteva/doveva indicare un altra location (ad esempio Tor Vergata). A chi continua a tirare fuori dal cappello Tor Vergata, come se fosse una location alternativa credibile, lo diciamo una volta per tutte: i famosi commi non prevedono che sia il Comune a scegliere il luogo, a meno che sia il Comune stesso a costruire lo stadio. In caso contrario può solo esprimersi sul pubblico interesse della proposta del privato. E ipotizzare di buttare giù una struttura per la quale sono già stati sborsati 250 milioni di euro di soldi pubblici, che costerebbe un altro bel po’ per la demolizione, ci sembra davvero improponibile

§ 4) L’area non è edificabile – il PRG non prevede edificazioni. Nel PRG l’area è verde privato attrezzato e attrezzature sportive. Già oggi il proprietario potrebbe edificare un 112.000 mq di SUL (pari a circa 358 mila mc).. E se si avvalesse del “Piano Casa” potrebbe ulteriormente aumentarle (e trasformare l’Ippodromo in appartamenti)

§ 5) Si potrebbe riqualificare lo Stadio Olimpico/lo Stadio Flaminio. Lo stadio Flaminio non ha le dimensioni e i requisiti richiesti dalle attuali normative. Lo stadio Olimpico è situato in un’area inadatta, chiusa tra il Tevere e Monte Mario, con rischi per la sicurezza pubblica e un blocco totale della mobilità del quadrante Roma Nord durante le partite. Tantomeno è fornito di parcheggi o di linee di metropolitana.

§ 6) Il Comune dovrà sborsare risorse pubbliche. Il Comune non farà alcun investimento economico, neanche per le opere infrastrutturali, che saranno compensate con diritti edificatori

§ 7) Lo Stadio può diventare un relitto nel deserto come le Vele di Calatrava o la Nuvola di Fuksas. Nessun punto in comune tra le opere: infatti lo stadio è un’opera privata realizzata da privati, mentre le Vele e la Nuvola sono stati costruiti (e non terminati) con denaro pubblico

§ 8) Le cubature realizzate per il Business Center sono una speculazione edilizia che arricchirà i privati mentre al Comune resteranno le briciole (si rimanda all’intervento dell’assessore per valutare i vantaggi economici per il Comune)

§ 9) Il Comune non può stabilire l’interesse pubblico di un progetto che potrebbe dimostrarsi irrealizzabile dopo una sentenza che potrebbe modificare l’assetto proprietario dell’area, oggetto di un fallimento. E’ un problema del privato, non del Comune. Se il privato non potrà più mantenere la proposta avanzata, automaticamente decadrà.

§ 10) Se viene dichiarato il pubblico interesse lo Stadio si farà a tutti i costi Il percorso del progetto è ancora lungo, prevede una conferenza decisoria della Regione Lazio e soprattutto che il proponente accetti le condizioni poste da Roma Capitale. Se anche una sola delle richieste vincolanti non venisse rispettata, l’operazione finirebbe su un binario morto.

A futura memoria

Non possiamo nascondere che la diffidenza dei cittadini anche rispetto alle assicurazioni date dall’Assessore è giustificata da molti anni di promesse mancate, o di deroghe e norme modificate in corso d’opera. Anche la famosa esclusione di cubature residenziali tra le edificazioni per il raggiungimento dell’equilibrio economico, non è escluso che ritornino sulla scena. Sappiamo che basta un codicillo infilato nottetempo da qualche manina in una commissione parlamentare (come è già successo), magari in un provvedimento che tratta di tutt’altro (come è già successo), che viene approvato grazie alla fiducia (come è già successo) che tutto può cambiare. E tutti gli accordi e i buoni propositi possono sciogliersi come neve al sole.

Solo a Piero Fassino poteva venire in monte di affidare il futuro delle periferie di Torino a un architetto che ha firmato il progetto di un grattacielo per realizzare il qualenel rispetto la legge sarebbe stata necessaria un’area di ottantamila metri quadrati (otto ettari!). La Repubblica, ed. Torino, 22 dicembre 2014

Renzo Piano metterà la firma sul ridisegno o, come direbbe lui stesso, sul «rammendo » delle periferie di Torino. L’idea è del sindaco Piero Fassino, che l’ha chiamato a fare da padre nobile e gran consigliere per i progetti che l’amministrazione comunale presenterà con l’obbiettivo di guadagnarsi una fetta della torta da 200 milioni di euro che il governo ha stanziato con il nuovo “piano periferie”. «Ho parlato con Piano nei giorni scorsi — fa sapere Fassino — e gli ho chiesto di accompagnarci nella definizione dei progetti che presenteremo al governo per attingere al nuovo fondo del piano periferie».

L’archistar e senatore a vita ha accettato di buon grado, non vedendo l’ora di mettere a disposizione di Torino la sua esperienza. Per giunta in un campo di cui ha fatto una missione, dopo la sua nomina a senatore, devolvendo il suo stipendio a questo scopo. «Nei prossimi giorni — aggiunge il primo cittadino — sarà a Torino per cominciare a valutare il da farsi». E non c’è tempo da perdere, dato che il maxiemendamento alla legge di stabilità approvato al Senato prevede che i progetti vadano presentati entro il 30 giugno. Una scadenza che non spaventa l’assessore alle Periferie, Ilda Curti: «Sei mesi di lavoro non sono molti, ma nemmeno pochi: Torino è una città che ha fatto scuola in questo campo». E l’intenzione del sindaco è proprio quella di fare del capoluogo subalpino la città capofila del “piano periferie” di cui proprio l’architetto genovese è stato tra i massimi ispiratori, dato che da un anno è partito con il suo progetto G124, dal numero del suo ufficio da senatore a Palazzo Giustiniani, trasformato in un laboratorio di sei giovani architetti per progettare la riqualificazione delle periferie delle città italiane. Un piano chiesto e ottenuto da Fassino, in veste di presidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, al ministro Maurizio Lupi: «Progetti concreti — spiega il sindaco — per intervenire sulle aree periferiche della città, sulla scia della sollecitazione data un anno fa da Piano».

Il coinvolgimento dell’architetto Piano è una trovata che il primo cittadino ha già avuto modo di anticipare l’altro giorno ai capigruppo di maggioranza, Michele Paolino (Pd), Barbara Cervetti (Moderati) e Michele Curto (Sel). Proprio il capogruppo Curto aveva chiesto di non lasciare il tema delle periferie alla «propaganda della destra» e di dedicarvi più attenzione, tanto che anche lui sta lavorando a una proposta “a costo zero” per finanziare progetti di rigenerazione nelle periferie.
La squadra di Piano ha già lavorato quest’anno a Torino, concentrandosi nell’analisi di una zona come Borgo Vittoria. I due giovani architetti incaricati, Federica Ravazzi e Michele Bondanelli, che come altri loro quattro colleghi sono stati pagati da Piano devolvendo il suo emolumento da senatore, si sono dedicati a due aree verdi del quartiere e all’analisi territoriale della zona attorno a corso Grosseto e a Basse di Stura.

I progetti per il “piano periferie” saranno valutati a Palazzo Chigi da un comitato formato da esperti. Le candidature dovranno avere come obbiettivi «la riduzione dei fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, il miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale». Ma potranno essere «anche interventi di ristrutturazione edilizia». Anche se il piano punterà più sulle misure sociali e sui servizi piuttosto che sulla riqualificazione «fisica», urbana ed edilizia. Per l’attuazione degli interventi il governo ha stanziato una somma complessiva di 200 milioni di euro, che sarà distribuita in tre scaglioni: 50 milioni nel 2015 e gli altri 75 milioni l’anno nel 2016 e nel 2017.

Una concentrazione di interessi che rischia di ripetere, se non adeguatamente percepita e valutata, gravi squilibri fra centro e periferia, solo di natura inedita rispetto al passato della terziarizzazione novecentesca. Corriere della Sera Milano, 21 dicembre 2014, postilla (f.b.)

Duomo, Galleria, via Manzoni, piazza dei Mercanti, Cordusio, piazza Affari, piazza Castello. È qui che si gioca la partita sulla nuova anima commerciale del centro città sempre più ostaggio di palazzi vuoti, quasi fantasma?

I protagonisti del riassetto immobiliare della metropoli ne sono certi: «Sull’asse Castello-Duomo passano 20-25 milioni di turisti l’anno, spesso interessati allo shopping . Far scappare gli investitori stranieri che hanno acceso i loro riflettori sulla zona sarebbe un errore, è un caso unico in Italia». Che, tradotto, significa una richiesta a chi governa: «Più strategia, visione, incentivi, pedonalizzazioni, servizi». In una città che a eccezione delle nuove aree come Porta Nuova e Citylife sta dicendo basta al consumo di suolo — restano in ballo ancora il Portello e lo scalo Farini —, di fatto si apre in via definitiva il fronte del riutilizzo del patrimonio immobiliare storico, occasione per una ristrutturazione degli immobili.

«Milano non ha mai fatto riqualificazioni edilizie. Si tratta di un’occasione da non perdere» dicono dal mercato immobiliare. Ma tra cambi di destinazioni d’uso, vincoli architettonici da rispettare o superare, le «battaglie» con burocrazia e regole — da sempre il disincentivo all’approdo di capitali esteri in Italia —, la grande shopping area del centro resta uno scenario piuttosto lontano. La trasformazione dei palazzi a cui s’interessano i fondi sovrani asiatici (Gic di Singapore) e mediorentali (Qatar e Abu Dhabi) e i fondi americani (come Blackstone), è una partita tutta da giocare. Anche per i «capitani coraggiosi» dell’investimento.

postilla

Qualcuno si ricorderà sicuramente il termine “terziarizzazione strisciante” applicato ai centri storici, quando nella seconda metà del'900 in ampie aree urbane, vuoi senza trasformazioni edilizie di rilievo, vuoi con qualche anche importante manomissione del tessuto tradizionale, avveniva uno svuotamento e successivo riempimento con altre funzioni. Si tratta in fondo del medesimo processo che ancora oggi spesso rende difficile applicare decentemente politiche ambientali, del traffico, o la semplice promozione di una maggiore articolazione funzionale. Ecco, forse continuare a vivere la grandi manovre di questi operatori interessati a “valorizzare il centro”, come se fossero avulse da ciò che accade altrove nelle aree metropolitane, per esempio nell'assetto degli ex “superluoghi” ovvero i classici scatoloni extraurbani, potrebbe far perdere di vista una importante occasione. Perché appare ovvio come, ad esempio, la possibilità di abbondantissimi spazi nelle zone più pregiate del nucleo metropolitano, fa diminuire di interesse la localizzazione nei vari shopping mall o outlet classici da svincolo autostradale, con buona pace di chi pensava a quegli scatoloni come strumento di rilancio anche economico di un certo rilievo. Meditiamo: evitare il dirigismo astratto in materia commerciale andrà anche benissimo, ma considerare qualunque strategia diversa dal puro plauso al “mercato” come strisciantemente incostituzionale sarebbe stupido. Una prospettiva di città metropolitana in fondo significa anche quello, riflettere sul rapporto fra spazio e commercio (f.b.)

Una piccola casa editrice (Corte del fòntego), in lotta contro i marosi della crisi dell'editoria, una coraggiosa collana di valutazione critica e di documentazione storica su Venezia e la sua Laguna hanno celebrato ieri il loro decimo (l'una) e quinto (l'altra) compleanno. Pubblichiamo l'intervento dell'editore pronunciatoin occasione di un brindisi con gli autori

Benvenuti, grazie di essere venuti numerosi.
Il prossimo sarà il quinto anno della collana «Occhi aperti su Venezia».
Sembra ieri quando abbiamo cominciato a pubblicare i primi titoli un po’ per caso, un po’ per colpa di Salzano, un po’ perché credevo - sbagliando - che lavorare con testi di sole 38-40.000 battute sarebbe stato più riposante rispetto ai volumi corposi e laboriosi della collana Voci sulla città che mi hanno impegnato per i cinque anni precedenti.

Cinque più cinque fa dieci: e dunque nel 2015 Corte del fontego compirà dieci anni.
Non è poco per una microscopica casa editrice che ha minacciato e minaccia di chiudere all’arrivo di ogni primavera. (Così avrebbe voluto anche il mio commercialista. Ma adesso si è arreso ai libretti, sa che rappresentano qualcosa di utile - almeno per alcuni - e non mi spaventa più con gli studi di settori. Anzi so che presenta lunghe relazioni in cui spiega che siamo un po' matti).Dunque festeggeremo anche i dieci anni e andremo avanti, fin che potremo. Nuovi titoli si affacciano a febbraio, su Venezia e la modernità, sul Fontego dei Tedeschi, sull’Arsenale, sul Mulino Stucky; ci saranno nuove ristampe e nuove traduzioni.

Naturalmente, non sarà per sempre! A un certo punto ci fermeremo! come prima o poi si chiudono tutte le esperienze, anche le migliori: nel nostro caso potrà essere per esaurimento degli argomenti più pregnanti - che tanto connotano i libretti rossi -, o per esaurimento... mio, rispetto soprattutto alle fatiche di gestire questa piccola impresa anche in ogni suo imponderabile e finanziario aspetto, fatiche che mi sottraggono parte del divertimento profondo che ho ricavato in questo progetto fin dal primo giorno. Lidia, tra l’altro, che di Occhi aperti è direttore scientifico, è oberata da più alti e pressanti impegni, sia come presidente della associazione prestigiosa che tutti conosciamo, sia come studiosa della Laguna.

Cosa faremo in un lontanissimo futuro lo abbiamo già deciso: torneremo a fare i topi d'archivio! Aver lavorato insieme per tanti anni ordinando il meraviglioso archivio storico di Noale e poi aver pubblicato le circa 1000 pagine dell’inventario è stata la nostra lunga gavetta insieme. E tutta questa esperienza comune ci è tornata utilissima per avviare la collana Occhi aperti su Venezia: esperienza che si può riassumere nel motto del mio professor di paleografia, Paolo Sambin, RIGORE, RIGORE, RIGORE.

Un progetto, il nostro - lo ricordo - che consiste nel proporre brevi saggi, anche critici, sui problemi della città e della sua Laguna, scritti da studiosi e specialisti, ma con una forte adesione al mandato che ci siamo imposte: semplicità, chiarezza, efficacia dei testi; rigore e completezza delle informazioni.

Siamo consapevoli che lavorare con noi non è stato sempre facilissimo: siamo delle rompiscatole (ma anche maranteghe e megere). Ma credo che la forma unitaria, omogenea, riconoscibile, che la collana ha assunto nel tempo ci abbia dato ragione. Senza Lidia, senza il suo continuo controllo scientifico, la collana Occhi aperti su Venezia avrebbe avuto le gambe corte. Ma senza Eddy Salzano non ci sarebbero state neanche le gambe. Un giorno di qualche anno fa mi disse: peccato che fai solo libri grandi! Sarebbe utile pubblicare il materiale che ho assemblato in un breve saggio sulla scandalosa faccenda del Lido. Effettivamente era un peccato ma io proprio non facevo opuscoli di quella natura e di quella misura.

Ma già pochi giorni dopo, si affacciava tra le elucubrazioni dell’editore curioso la solita pericolosa domanda, quella che apre orizzonti nuovi, ma anche le più insidiose incognite. «Ma perché no?». È cominciata così, con un “perché no,” abbastanza timido e prudente, la costruzione del progetto, presto riconoscibile nella sua grafica e nella divisione in tre filoni (la stringente attualità, la storia e urbanistica, la Laguna).

In pochi anni, la collana si è fatta quasi da sé, sotto la spinta degli stessi argomenti, sempre urgenti, sempre pressanti, che chiedevano di essere raccontati, spiegati, approfonditi, quasi in tempo reale. Oggi raccoglie firme illustri di molti dei protagonisti di questa città sempre in prima linea ad affrontare gli esiziali problemi che la affliggono; raccoglie firme di studiosi che hanno dedicato molti anni della loro vita alla conoscenza della Laguna; raccoglie infine firme di architetti e urbanisti che propongono letture e visioni inedite della città o di parti di essa.

Voglio ringraziarli tutti: Giorgio Agamben; Angela Maria Alberton; Debora Antonini; Shaul Bassi, con Isabella di Lenardo; Stefano Boato, anche con il prezioso aiuto di Carlo Giacomini; Lorenzo Bonometto, che qui è di casa; Donatella Calàbi, sempre accompagnata dalle preziose illustrazioni di Paolo Morachiello; Franca Cosmai, archivista come noi; Massimo Favilla; Luigi Fozzati; Aleramo Lanapoppi, che è poi Paolo; Franco Mancuso; Angelo Marzollo; Giannandrea Mencini; Sergio Pascolo; Paolo Pirazzoli; Tudy Sammartini, con Giulia Volpato; Rossana Serandrei Barbéro, con Sandra Donnici, ha generosamente riassunto anni e anni di ricerca in un esile libretto per partecipare anche a noi l’esistenza dei foraminiferi; Paola Somma, l’urbanista che ci ha regalato un ragionamento - dispiegato in ben tre titoli - sulla mercificazione della città; Elena Svalduz; Enrico Tantucci; Giuseppe Tattara; Silvio Testa; Nelly-Elena Vanzan Marchini; Maria Rosa Vittadini; Alberto Vitucci.

Concludo questo breve saluto con un brano di una lettera privata che ci ha commosso, giunta quando era comparso, due anni fa, l’annuncio sui quotidiani della nostra chiusura:

«Ho letto di recente un articolo ... che riferisce di una possibile, minacciata chiusura della Casa editrice. Trovo la notizia preoccupante e inaccettabile. Oltre alla sparizione delle librerie nella città storica, ora dobbiamo tollerare pure questo? Fin dalla loro prima comparsa ho grandemente apprezzato le pubblicazioni della collana “Occhi aperti su Venezia”. La mia libreria dice che si continuano a vendere bene. Lo immagino, dato il rigore, la facilità di lettura malgrado i contenuti impegnativi, la varietà dei temi, la limpida veste grafica, il prezzo più che accessibile, la formula “modulare” e agile, l’autorevolezza degli autori, le notizie su quanto sta accadendo a Venezia. Mi riferisco alla “privatizzazione” di pezzi di città, al turismo e lo spopolamento, alle grandi navi, tutti argomenti di cui personalmente ho appreso, e soprattutto compreso, molto di più attraverso “Occhi aperti” che non dagli articoli della stampa locale, spesso troppo criptici sugli interessi in gioco. In conclusione, ritengo che un’esperienza di informazione e di cultura così meritevole e originale, così preziosa e istruttiva, non possa terminare. Deve poter essere portata avanti come strumento di conoscenza, e questo per il bene stesso della città.... ».

Non aggiungo altro. Vi ringrazio ancora tutti di cuore. Buon Natale.

Un intervento ambiguo di un autorevole opinionista a proposito dell'ultimo libro di Salvatore Settis e del futuro di Venezia: privatizzare ulteriormente la città é un auspicio o un timore? con postilla. Corriere della Sera, 18 dicembre, 2014

Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale», sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda, Salvatore Settis (Se muore Venezia, Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde, aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne i problemi, vi diffonde la corruzione.

A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda» , l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5 (almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a norma di legge, Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato, nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si sarebbe arrestata sei mesi prima.
Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia. «La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di Venezia?
In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e, senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia».
Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane, veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400 strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più gran parte».
Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli pensava che le città del futuro, Manhattan in primis, avrebbero dovuto essere modellate su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis, l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la 49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma “alla veneziana”».
Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious New York: «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora, facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia — questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel risultato di gettare tutto ciò al vento.
È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e veneziani hanno affidato le loro città.

postilla

Affermare, da parte di un opinionista così autorevole (e per di più, ci dicono, così ascoltato ai piani alti del Palazzo) che oggi, occorra intrecciare Venezia e i grattacieli fa aggricciare la pelle a chi sa che in questa città vistose pressioni si propongono di punteggiare i margini della Laguna, che di quella città è parte integrante, di vistosi grattacieli (quello proposto dal couturier Cardin ne è vistosa testimonianza, ma il cosiddetto waterfront é soggetta dai tempi del "doge" De Michelis e della proposta di Expo 2000, fino a oggi e, forse, domani.
Ma la colpa non é delle leggi speciali né dal flusso del denaro pubblico. È dell'uso perverso che il personale politico di quel denaro pubblico ha fatto, dell'infrazione sistematica delle regole rigorose prescritto da quelle leggi, del trasferimento progressivo di potere, competenze, risorse dal pubblico al privato. Colpe di un personale politico (romano, veneto e veneziano) dominato, dall'inizio degli anni Novanta e via via divenuto più grave, dall'ideologia della "innovazione" e della "modernizzazione", della sostituzione del privato al pubblico, dell'assunzione di una concezione distorta dello "sviluppo" (identificato nella crescita del PIL) e nella prassi del continuo cedimento del potere di decisione ai grandi poteri privati. Precisamente, i potentati dalle "grandi firme" della moda e quelli delle infrastrutture e delle costruzioni. Nella mappa dei poteri veneziani gli amministratori non appaiono come gli arbitri e i governatori dei poteri privati, ma i loro servi consapevoli o inconsapevoli. E' piu che giusto l'invito di Settis, ripreso da Giavazzi. di cogliere l'occasione delle prossime elezioni amministrative per imboccare una strada alternativa. Ma ciò sarà possibile solo se i nuovi eletti non siano coinvolti nè con le loro azioni ne con le proprie omissioni, con chi ha gestito la città nell'interesse dei grandi gruppi privati; perché, insomma, ci sia piu Stato e meno mercato.
Perciò desta un qualche stupore la frase finale dell'articolo di Giavazzi. Chi lo stima pensa che sia sarcastica: che esprima il timore di un possibile futuro al quale i cittadini devono reagire. Ma si potrebbe sospettare che in quella frase si nasconda invece il suggerimento a una ulteriore spinta alla privatizzazione della città. Se così fosse il suggerimento sarebbe certamente ben accolto nel Palazzo, donde risponderebbero al suggeritore: stiamo già alacremente lavorando in quella direzione, e le azioni dell'attuale governatore della città (a Ca' Farsetti come a Palazzo Chigi, un nuovo personaggio non eletto che decide in dispregio alle regole della democrazia. rappresentativa).
Così come stupisce che l'attenzione di Giavazzi (come quella di numerosi altri autorevoli osservatori delle malefatte dei politici di oggi, si fermi alla deprecazione della corruzione e trascuri del tutto la nefandezza delle scelte che quei politici hanno compiuto: dal Mose alle nuove ferite inferte alla Laguna, all'incentivazione della deregulation e dalle colate di cemento.

L'intervento di trasformazione della Manifattura Tabacchi a Firenze: un progetto pesante, morfologicamente ed esteticamente sbagliato...>>>

L'intervento di trasformazione della Manifattura Tabacchi a Firenze: un progetto pesante, morfologicamente ed esteticamente sbagliato, banale nelle destinazioni e con l'aggravante di alterare irrimediabilmente un complesso di valore architettonico e di significato culturale che meriterebbe di essere valorizzato ben diversamente. Potrebbe essere la prima di una serie di operazioni - 59 per l'esattezza, di cui 49 da parte di privati - proposte a investitori stranieri e contenute nel dossier "Florence, city of the opportunities” (sic), con il Sindaco Dario Nardella nell'inconsueto ruolo di promotore immobiliare.

Il percorso seguito dall'amministrazione fiorentina per arrivare a questo risultato, si spera non definitivo, è esemplare e anticipa quanto potranno fare i Comuni italiani, promossi dall'articolo 26 della legge Sblocca Italia al rango di potenziali speculatori edilizi. Il progetto riguarda la ex Manifattura Tabacchi, un complesso di 400.000 metri cubi e 103.000 mq di superficie, posto in un'area strategica dei viali di circonvallazione, oggi posseduto da Manifattura Tabacchi Spa, di cui è azionista al 50% Metropolis, una società che riunisce vari operatori in liquidazione (Ligresti, Btp, Consorzio Etruria) e per la restante metà Fintecna, società interamente controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, il cui ruolo si è "evoluto" nell'acquisizione e "valorizzazione" del patrimonio pubblico.

La Manifattura Tabacchi è un'architettura del razionalismo italiano, una vera e propria cittadella costituita da edifici funzionali, vincolata con un Decreto ministeriale dal 1997 che la dichiara particolarmente importante, in quanto «complesso rappresentativo dei canoni funzionali degli anni Trenta improntati a una sobrietà monumentale di stampo classicista». La tutela integrale del complesso viene confermata nel 2005 da un nuovo Decreto in cui si sottolinea che gli edifici che lo compongono, tutti, fanno parte di un "unicum" dotato di notevole organicità. Il provvedimento coincide con l'interesse del quartiere che vede nella Manifattura un luogo identitario e uno potenziale spazio per servizi in una zona povera di spazi pubblici; con queste finalità si forma il Comitato per la tutela della ex Manifattura Tabacchi che da anni ne propone utilizzazioni (anche) a favore della città, presentando osservazioni puntuali e proposte alternative.

Nel 2007 la proprietà presenta un primo piano di recupero, inaccettabile perché non conforme e non conformabile neanche in variante agli strumenti urbanistici vigenti. Nel 2011, a seguito dell'approvazione del nuovo Piano Strutturale, viene presentato un nuovo piano, cui nel 2012 la Soprintendenza di Firenze Pistoia e Prato, cambiando radicalmente parere, dà il via libera. Il progetto, approvato in variante nel marzo del 2014, stravolge l'architettura e l'impianto morfologico della Manifattura con demolizioni e aggiunte, fra cui spiccano due torri alte 53 metri, particolarmente stridenti in un complesso basso e disposto in orizzontale.

A motivare questo improvviso ripensamento vi è il parere consultivo del Comitato Tecnico Scientifico del Mibact - sollecitato in extremis dal Sindaco Renzi - che, con talune titubanze e riserve e suggerendo qualche modifica, accoglie il progetto. Curiosa la motivazione: trattandosi di edilizia "fortemente seriale" (ma nel precedente Decreto costituiva un "unicum") sono possibili amputazioni e aggiunte; la Manifattura risulta, perciò, demolibile in parte, mentre alla parte rimasta è consentito aggiungere ulteriori corpi. Come dire che essendo gli Uffizi di Firenze una tipologia duplicata, tanto vale demolirne una metà per sostituirla con qualcosa più profittevole per il "real estate market". Deludenti, infine, gli usi proposti, analoghi a quelli della stragrande maggioranza dei 59 interventi promossi dall'amministrazione fiorentina, cioè residenza, attività commerciali e uffici, ripartiti in misura decrescente e con qualche pizzico di uso pubblico. Nella fattispecie, nella ex-Manifattura sono previsti 700 appartamenti con un corredo di attività direzionali, commerciali e ricettive, in direzione opposta alle necessità di diversificazione e modernizzazione dell'economia fiorentina. Ma, al di là della specifica bassa qualità del progetto, l'aspetto strutturalmente negativo è che l'intera operazione "Florence's opportunities" ancora un volta rovescia il principio per cui è compito dell'amministrazione proporre le attività da insediare e conseguentemente i siti e gli edifici più opportuni. Qui invece si parte dai "contenitori", presentati come materia prima appetibile, malleabile ai voleri di società di investimento, fondi, operatori immobiliari: una platea di "valorizzatori" che mira a fare profitti nel breve periodo ed è improbabile possa mettersi a capo di progetti innovativi.

Alla base di tutto ciò, vi è il deficit politico culturale che ha caratterizzato l'amministrazione Renzi e, per ora, anche quella di Nardella: l'assenza di una strategia che scelga e operi per una Firenze meno legata alla banalizzazione della rendita medicea, più orientata a diventare un grande laboratorio scientifico multiculturale, aperto al mondo. La distruzione dell'importante complesso architettonico della Manifattura Tabacchi (perché di questo si tratta) è, invece, un tassello in direzione opposta, prefigura un futuro in cui, con un'offerta immobiliare "a la carte", sarà il mercato a decidere la localizzazione delle attività, i pesi insediativi e i bisogni di accessibilità: con il corollario, promesso dal disegno di legge Lupi, di una Soprintendenza ridotta al rango di ufficio protocollo. I bandi sono aperti e per i lettori di eddyburg che fossero interessati riportiamo dal booklet : "The complex of the Tobacco Factory is perhaps the most important opportunity of transformation of the city of Florence, by position, size and function". Appunto: un'opportunità che rischia di essere sprecata.

Firenze, nel 1962, con il Sindaco Giorgio La Pira e l' Assessore all'Urbanistica Edoardo Detti anticipò nel nuovo piano regolatore la breve stagione riformista del centro-sinistra. Ora, nel 2014, si candida ad anticipare una stagione di controriforme.

La Nuova Sardegna, 16 dicembre 2014


Sisaprà a gennaio se la Sardegna è idonea ad accogliere i 90mila mc di rifiutiradioattivi made in Italy - dicono i responsabili della selezione per ubicareil deposito. Difficile prevedere le reazioni alle contropartite, alle promessedi occupazione e investimenti generati dal mostro nella regione che se loprenderà. Una ragion di Stato condivisa- potrebbe essere lo slogan perminimizzare un nuovo sfregio al territorio sardo -, per un'altra inaccettabileviolenza alla “Terra madre”, come lachiama Carlo Petrini.

Lanatura già oltraggiata, impedita - in grandi parti dell'isola - a mostrarsi conil suo volto protettivo, fiaccata nel ruolo come la “Madre dell'ucciso” diFrancesco Ciusa. Basta guardarsi attorno per capire che occorre proteggere iluoghi fantastici che hanno resistito nonostante tutto. Altro che nucleare. Lohanno detto i manifestanti contro laragion di Stato degli allenamenti per la guerra di cui i sardi si fanno carico- pericoli per la salute compresi - a Capo Frasca, Quirra, Teulada, ecc. 220kmq, il 60% delle basi italiane sono sarde. Manon inizia e non finisce qui la storia di manomissioni subite. Nel solco deldisegno di sfruttamento di questao quella periferia tenuta in uno statodi arretratezza e dipendenza dal centro, «dai bisogni del centro che le imponela sua legge» - notava Braudel.

Dall'isolainnocente sono stati portati via beni preziosi senza investirci nulla, e chi ciha investito qualcosa non ha lasciato, in genere, buoni ricordi. Si pensi al patrimonio boschivo diventatolegna o carbone da bruciare in Continente, energia gratis che ha contribuitotra Otto e Novecento allo sviluppo di regioni più fortunate e gelose dei loro alberi.O al via libera alle industrie meno compatibili con i suoi caratteri, quandonell'interesse nazionale edell'Autonomia regionale - sarebbe stato meglio risparmiarla dall'oltraggiodell'inquinamento, dono di imprenditori inaffidabili sovvenzionati da noi. NelSulcis e nel golfo dell'Asinara i casi eclatanti della disfatta con molte propaggini.

Oggi450mila ettari di territorio sonocontaminati e la disoccupazione moltiplica la rabbia per lo spreco irrimediabile di risorse. Le potenzialità diagricoltura e pastorizia sottovalutate, credo per la difficoltà a centralizzarela spesa a beneficio di cricche. Bendisposte a finanziare le imprese da cui -come dicono a Roma chissà da quanto tempo- “ce famo un sacco de sordi”.

Diamo un'occhiata alla storia e alle comunitàlocali allarmate dai veleni sparsi e perrinnovati programmi di speculazione sulla bassa densità di popolazione -sigh!Battaglie simulate con bombe vere,termodinamico, eolico, cardi giganti, eajò trivelle, tutto in assenza di unavisione più che di un piano energetico. Nessunopuò dirsi al sicuro quando entra in azione il partito sardo del sì, delsignorsì che “coniugare sviluppo e ambiente” si può senza limiti: dal ciclo edilizio a sfinimento, sino alleconseguenze estreme dell'uranio nel sangue, del piombo nel vino, del benzene in aria e in mare, dei canali murati,fino al ridicolo e all'orrore nella costa di Sorso, l'albergo reversibile,discarica tossica nella bassa stagione, con discredito della comunità che hascommesso su un litorale tra i piùintegri.

L'abissodell'esaurimento di ogni scampolo di incanto e di biodiversità è a due passi.Per questo è bene fermare l'applicazione di leggi pensate per realizzarespiccioli di Pil e chissenefrega dei luoghi belli. La Regione ha protestato contro le servitù e il nucleare in casa, e pure contro le leggi chenegano l'Autonomia, come “Sblocca-Italia”. Potrà difenderla l'isola, invocandola specialità del suo paesaggio - questo sì d'interesse transnazionale - senzacontraddirsi. Il governo Pigliaru, nello sfondo il principio di sussidiarietà,ha aperto il confronto sul disegno di legge della giunta, il piano-casa foreverche non persuade. Specie perchéattribuisce direttamente ai proprietari di immobili la facoltà di intervenire,anche in contrasto con i piani comunali e quindi con impatto casuale, direi imponderabile su una miriade diterritori dei quali il legislatore regionale non può sapere granché, come lo Stato non sa nulladell'effetto delle trivellazioni ad Arborea o chissà dove nell'isola.

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