In un caso abbastanza raro di giornalismo professionale e informativo per il cittadino, i tristi retroscena dell'uso privato di risorse pubbliche nel racconto in presa diretta di un protagonista di primo piano. Corriere della Sera Milano, 30 gennaio 2015
Sul dopo Expo interviene Marco Cabassi, 54 anni, ex proprietario dei terreni acquistati da Arexpo per i padiglioni del semestre internazionale. «Il prezzo attuale è irragionevole dice: chiedono 340 milioni quando la cifra d’acquisto è stata di 120 milioni, di cui 40 pagati a noi al costo di esproprio. Neanche il peggior privato azzarderebbe tanto». L’imprenditore ricostruisce la vicenda dei terreni e le vicissitudini con la Regione: «Abbiamo discusso per mesi, prima sono venuti a chiederci il terreno in comodato d’uso perché lo Stato non voleva spendere. Poi è cambiato tutto. Ci hanno voluto fuori dai piedi. Con le inchieste della Procura abbiamo capito perché: vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo».
«Pronto? Sono Marco Cabassi…».
Il costruttore?
«Sviluppatore ed ex proprietario dell’area Expo, quella che secondo lei sarebbe stata venduta a peso d’oro».
Beh, non è stata regalata.
«Abbiamo venduto i terreni a prezzo d’esproprio. E oggi Arexpo chiede tre volte tanto. Neanche il privato più scaltro riuscirebbe a farlo…».
Vuol dire che per voi non è stato un affare?
«Noi siamo stati espulsi da quell’area. Non avevamo scelta. Ci hanno detto: o la vendete al prezzo d’esproprio delle aree standard o vi espropriamo comunque, col rischio di incassare fra qualche anno. Avevamo già subito 8 espropri sulla stessa area, per quasi 700.000 metri quadrati. L’ultimo per costruire il carcere di Bollate: dopo 18 anni aspettiamo ancora il dovuto. Alla fine il prezzo per oltre 250.000 metri quadri dell’area Expo è stato di circa 42 milioni, in buona parte tornati allo Stato sotto forma di imposte. Ma la verità è un’altra...».
La sua verità...
«I fatti. Nel 2006 ci hanno chiamati con una proposta: visto che lo Stato vuole fare l’Expo, ma non vuole spendere e non vuole rischiare, dateci i terreni in comodato d’uso gratuito per 9 anni. A Expo finito i terreni tornano a voi e potrete svilupparli. Che poi è l’attività che portavamo avanti da anni, avendo presentato un progetto insieme a Fondazione Fiera».
Avreste avuto la possibilità di costruire su un’area valorizzata a spese dello Stato…
.«No, perché l’accordo prevedeva che tutte le opere che sarebbero state realizzate sul terreno, sarebbero comunque rimaste di proprietà pubblica. Così lo Stato non spendeva e non rischiava nulla. Ci hanno cercato loro, l’accordo iniziale era questo. Noi ci siamo limitati ad ascoltare. Abbiamo detto subito che ci voleva una strategia per il dopo, che ogni Expo è legato alla funzione che si vuole dare al post evento. E abbiamo fatto alcune ipotesi».
Ipotesi immobiliari, immagino.
«Ci siamo chiesti che cosa poteva servire a Milano. Una cittadella della giustizia? Un nuovo Ortomercato? Un centro di ricerca agroalimentare? La sede della Rai? Il progetto pubblico–privato sviluppato da Fondazione Fiera e da noi avrebbe dovuto partire da una futura esigenza pubblica della città. Fra l’altro, il Comune di Milano, che deteneva circa il 10% delle aree, si era riservato una quota del 6% dell’ intero sviluppo».
Risposte dalla Regione?
«Zero. È troppo presto per pensarci, ci hanno detto, adesso ci sono altre priorità. Siamo stati quasi derisi».
Nel progetto per l’Expo si parlava dei terreni?
«Certo. Nel dossier di Parigi si diceva che l’area era messa a disposizione dai proprietari che poi dovevano svilupparla. La disponibilità immediata delle aree era stata un elemento qualificante della vittoria contro Smirne, che invece aveva un’area frammentata fra molti proprietari».
Poi il comodato d’uso è saltato e l’area è stata comprata dalla Regione.
«Sa cosa dicevano in Regione quando hanno preso i terreni? Finalmente ce li siamo tolti dai piedi… Alludevano a noi. Avevano piani che si sono capiti con le inchieste della Procura. Vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo. Quei 340 milioni che oggi Arexpo chiede per l’area sono una cifra fuori da una logica imprenditoriale normale».
Quanto è costata l’intera area Expo?
«Poco più di centoventi milioni. Due terzi pagati alla Fondazione Fiera, che è un ente d’ interesse pubblico. Circa un terzo a noi».
Perché Arexpo, che è una società pubblica, dovrebbe guadagnarci?
«Non lo chieda a me. So solo che quel prezzo di vendita dei terreni insieme alla crisi del mercato e alla mancanza di programmazione, scoraggiano ogni investimento».
Intravede come aveva detto Gae Aulenti le rovine di Beirut?
«Voglio bene a Milano e auguro tutto il bene possibile alla mia città. Ma non mi va di passare per uno che ha speculato sulle aree. Le responsabilità di questo stallo sul dopo Expo sono chiare».
Come erano i vostri rapporti con l’allora presidente della Regione Formigoni?
«Gelidi»
E con il sindaco dell’Expo, Letizia Moratti
?«Istituzionali ma cordiali. Lei i patti iniziali voleva rispettarli».
Avete un dialogo con chi governa oggi Milano?
«Dialoghiamo volentieri con chi ha a cuore le sorti della città».
Dottor Cabassi, il suo nome è legato anche al caso Leoncavallo: siete proprietari dell’immobile simbolo di un’occupazione abusiva...
«Sono ancora dentro gli occupanti, dopo oltre 20 anni, tre sentenze esecutive favorevoli a noi e 58 accessi dell’ufficiale giudiziario. Ma speriamo ancora in una soluzione sensata e condivisa».
Fino a poco tempo fa c’era un solo posto in Italia in cui si diceva ancora che la mafia non esiste, ed era il Nord, in particolare l’Emilia Romagna. L’idea che qua fossimo diversi e che la nostra diversità offrisse una barriera insormontabile al radicamento mafioso era così forte dal mettere al bando chiunque ne parlasse e con le stesse accuse rivolte a chi trent’anni fa ne parlava per il sud: procurare un immotivato allarme e screditare ingiustamente il territorio. Roberto Saviano, Beppe Sebaste e tanti altri giornalisti e scrittori - compreso il sottoscritto - bollati da prefetti, politici e anche alcuni magistrati come visionari e paranoici, deformati da una concezione esageratamente e volutamente noir di questa nostra isola così felice.
La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.g.)
Oggi parte a Firenze la prima operazione di crowdfunding di massa per il patrimonio culturale mai tentata in Italia. Come sempre succede per le cose migliori di questo Paese, la svolta nasce da un apparente vicolo cieco. L'Opera del Duomo stava cercando un classico sponsor che finanziasse il restauro del Battistero: ma quando il sindaco Dario Nardella ha (finalmente) proibito di coprire il monumento con grandi cartelloni pubblicitari, i potenziali investitori sono scomparsi come nebbia al sole. A questo punto si è fatta avanti Unicoop Firenze, proponendo di organizzare una raccolta di fondi nei suoi popolarissimi supermercati e punti vendita. E l'Opera ha detto sì.
Saranno accettate donazioni dai cinque euro in su, e chi ne darà più di dieci vedrà il proprio nome iscritto nei registri ufficiali dei benefattori dell'Opera. Con altri dieci euro si potrà partecipare a una visita guidata del Battistero: che solitamente ne costa (scandalosamente) trenta.La campagna 'Abbraccia il Battistero' è innovativa e importante in sé. E non tanto perché le coop 'rosse' vanno in soccorso di un ente di fatto legatissimo alla Curia: quanto perché essa riannoda i fili tra i non-luoghi dei centri commerciali e la città storica, e cerca di riportare i cittadini fiorentini (e soprattutto quelli delle periferie) nel monumento per eccellenza civico (e non solo religioso) della città. Unicoop si è impegnata a integrare i fondi che saranno raccolti: ma il punto non è solo il restauro materiale, quanto invece il restauro dei nessi morali, sociali, costituzionali che legano il popolo alle pietre di Firenze.
E questa esperienza può diventare un modello nazionale: perché indica una concretissima alternativa alle sponsorizzazioni (come quella di Della Valle al Colosseo). Queste ultime sono operazioni di marketing attraverso le quali un imprenditore punta a guadagnare molto più di quanto ha investito, sfruttando l'associazione tra il proprio marchio e il monumento. Un meccanismo che inevitabilmente contribuisce alla mercificazione di quel patrimonio culturale a cui la Costituzione affida invece il compito di contribuire alla costruzione dell'eguaglianza, e al pieno sviluppo della persona umana. Mentre il nostro Codice dei Beni Culturali dedica un articolo alle sponsorizzazioni e nessuno al mecenatismo, in Francia cinque successive leggi approvate tra il 2003 e il 2009, hanno regolato e incoraggiato la pratica del (vero) mecenatismo, che grazie alla defiscalizzazione e ad una sensibilizzazione di massa, oggi riesce a incanalare verso la cultura un miliardo di euro all'anno, cifra che eguaglia l'intero bilancio annuale del nostro Mibact. Le campagne del Louvre (l'ultima ha finanziato il restauro della Nike di Samotracia con un milione di euro raccolto in 6700 donazioni) si chiamano Tous mécènes!, tutti mecenati: esattamente lo stesso spirito della campagna fiorentina.
Daniela Mori e Claudio Vanni, di Unicoop Firenze, hanno detto esplicitamente che l'operazione «non vuole in alcun modo sostituire lo Stato, che deve invece ricominciare a fare la sua parte nel finaziamento del patrimonio culturale, ma affiancarlo». Questo spirito, e il fatto che Unicoop non abbia voluto mettere il proprio marchio sui cartelloni che annunciano l'iniziativa, sono del tutto inediti in Italia. Se le sponsorizzazioni sono operazioni commerciali e il mecenatismo dei paperoni ha un inevitabile sapore paternalistico ed esclusivo, il crowdfunding è invece inclusivo, essenzialmente democratico e profondamente in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione: un mecenatismo popolare che punta a restaurare i monumenti creando conoscenza. Una specie di rivoluzione.
«I dati forniti dal Porto per sostenere l'ipotesi di scavo non soddisfano la commissione. Che adesso ha rinviato al mittente il progetto, chiedendo nuovi studi. II termine per rispondere scade il 20 febbraio». La Nuova Venezia, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
«Si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza». La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
Nell'Emilia che crollava per il terremoto, la ‘ndrangheta era arrivata prima dei soccorsi. «O comunque in contemporanea», scrive il gip di Bologna, a corollario della maxi inchiesta che svela quello che da troppo tempo non si vuol vedere. Anche l’Emilia Romagna, infatti, è infestata dalle cosche calabresi. Sono a Parma, sono a Reggio, a Modena, a Piacenza. Dovunque. Sono nel cratere dei comuni devastati dal sisma del 2012, si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza. Ridevano mentre i capannoni di Mirandola cadevano giù, annusando l’odore del business. È già successo all’Aquila. Succede anche nella prospera regione rossa, preda del clan Grande Aracri di Cutro, piccolo paese del crotonese lontano un migliaio di chilometri da questa terra.
Non si tratta di gentarella, si tratta Silvano Vernizzi, commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e altri cinque dirigenti e di altri cinque funzionari regionali. La Nuova Venezia, 28 gennaio 2015
Dalle costole dell'indagine sul Mose, il pubblico ministero della Procura di Venezia Stefano Ancilotto ha sfilato una nuova inchiesta, puntando l'obiettivo sull'assegnazione dei lavori per il project financing "Via del mare: collegamento A4, Jesolo e Litorali": un progetto da 250 milioni di euro, per il quale la commissione tecnica regionale ha dichiarato vincitore l'Ati capeggiata da Adria Infrastrutture. Non proprio un'azienda qualunque, essendo la società che era amministrata da Claudia Minutillo - già segretaria-braccio destro di Giancarlo Galan quand'era governatore e che guidava a bacchetta l'ex assessore ai Lavori pubblici Renato Chisso - uno degli indagati-cardine dell'inchiesta Tangenti Mose, sul giro di false fatturazioni che ha costituito i fondi neri di Mantovani e Consorzio Venezia Nuova.
Nella nuova indagine non si parla di tangenti, ma di turbativa d'asta. Il pubblico ministero Ancilotto ha iscritto al registro degli indagati la commissione tecnica che ha assegnato ad Adria (proponente del project financing) la realizzazione del primo stralcio della Via del Mare, ora cantierabile e per la quale in questi mesi si sta discutendo in Regione l'iter del secondo stralcio. Sei gli indagati: il commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e Stefano Angelini (residente a Preganziol), Paola Noemi Furlanis (residente a Portogruaro), Antonio Strusi (residente a San Donà di Piave), Adriano Rasi Caldogno (Mestre, attuale direttore generale dell'Asl di Feltre), Mauro Trapani (Vicenza). Ieri sono partiti gli avvisi a comparire, per un interrogatorio - alla presenza dei loro avvocati Marco Vassallo e Paolo Rizzo - in calendario per il 29 gennaio.
Per il pm la commissione non avrebbe preventivamente individuato il criterio matematico per valutare le offerte dei partecipanti, né calcolato il costo degli espropi, ammettendo Adria Infrastrutture nonostante la sua proposta contemplasse un contributo pubblico superiore all'importo massimo previsto dalla legge, permettendole anche di modificare in corso di gara in maniera sostanziale la proposta iniziale. Una serie di favori, dunque, anche se nell'ipotesi di reato non vengono contestate né tangenti, né pressioni da parte di politici come Galan e Chisso (ai quali invece nell'inchiesta tangenti vengono proprio contestati anche interessi privati in project financing autorizzati dalla Regione). «La Procura contesta irregolarità di natura prettamente amministrativa sulle quali il Tar Veneto si è già espresso, dichiarando la totale legittimità di quelle procedure», commenta l'avvocato Marco Vassallo, facendo riferimento al ricorso di Net Engineering, «si tratta di accuse che contraddicono le stesse dichiarazioni di Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo, caposaldi dell'accusa, che hanno messo a verbale che il loro nemico in Regione era proprio Vernizzi, che gli aveva messo i bastoni tra le ruote».
Una strada è un pezzo di mondo: asfalto o sampietrini, vetrine, tavoli e sedie che premono, gente che ci vive, auto che cercano spazio, lavori in corso, sviluppo, degrado e imprevisti. O forse, in realtà, è tutto prevedibile perché è già successo altrove, un po’ ovunque: un destino globale, anzi glocale. L’unicità è un’illusione, cambia soltanto la lingua che la esprime, il risultato è uno stereotipo universale. Prendi allora una strada nel cuore di una capitale, prendi via Urbana, rione Monti, Roma, scopri la carta degli imprevisti e registra divisioni ideologiche, astuzie, minacce, una specie di scontro di civiltà improbabile come quello per l’ascensore in piazza Vittorio (da qui, dodici minuti a piedi) descritto in un romanzo di Lakhous Amara.
Siamo nel quartiere dove è tornato Giorgio Napolitano e dove hanno vissuto e sono diversamente rimpianti il regista Mario Monicelli e un leggendario senzatetto di nome Angelo. Una ex provincia di fantasiosi pizzaioli, falegnami e rigattieri. Poi la scena è cambiata: al posto delle botteghe sono spuntati negozi d’abiti e bar clonati, mentre gli inquilini degli appartamenti sono saliti di grado e d’affitto. Qualcuno, il giornalista del Foglio Michele Masneri, ha provato a trarne materia per un romanzo, “Addio Monti”. Ma non era finita. Non ancora. Succede questo. L’Italgas inizia lavori che richiedono il blocco della strada, via Urbana appunto.
Dovrebbero concludersi con l’estate, ma è Roma: passa l’autunno, inizia l’inverno e s’affaccia l’eterno. A qualcuno il blocco piace, o fa comodo. Una taverna conquista metri quadrati, un’altra la imita, nessuno interviene. Su una pagina Facebook compare un apprezzamento per il nuovo assetto, nato per caso, ma perché non protratto per scelta? Il post riceve mille like. In questi tempi pretestuosi: i “like” diventano una “petizione”. La profezia si autoavvera. Flash mob per la pedonalizzazione, domeniche di struscio, operai che rallentano la posa dei sampietrini (quindi si fermano) spiegando: «Tanto diventa pedonale». La petizione prende forma e firme: una, cento, mille. Nomi illustri: il premio oscar Paolo Sorentino, l’olimpionica Novella Calligaris. Uno vive all’Esquilino, l’altra a Prati. Firmano mentre fanno acquisti, ricambiando sconti o complimenti. Nasce un comitato di opposizione, che cerca sostegno con metodi analoghi. Qualcuno si esprime civilmente. Un antiquario scrive all’assessore: “C’è chi sostiene che il commercio nelle strade pedonali vada meglio io non ne sono affatto certo e comunque nel dubbio preferisco guadagnare di meno e stare in una strada normale, seppur tenuta meglio”. Qualcun altro scade e imbratta l’insegna di un “nemico”, in quella che diventa una “battaglia”.
In realtà i destini di una strada sono spesso segnati e non li cambiano né l’autodeterminazione dei residenti, né lo svagato progetto delle amministrazioni pubbliche. Prendi Ludlow street, nel Lower East Side di Manhattan, rue de Sèvignè nel Marais, a Parigi, o Odenberger Strasse a Prenzlauer Berg, Berlino. Indirizzi storici, popolari, a tratti e in parte addirittura malfamati. Trascorrono decenni tra luci e ombre, canoni fissi e gente che s’inventa la vita. Poi qualche commerciante di livello superiore apre un negozio raffinato, qualche artista si trasferisce lì, arrivano i primi ristoranti di buon livello e, sopra, prende casa una coppia di giornalisti. Il neologismo dall’inglese è una delle parole più brutte del dizionario: gentrificazione. Un progressivo imborghesimento, simile a quello che negli individui è determinato dall’età. Come tutti rimpiangono la gioventù, così gli abitanti della prima ora hanno nostalgia del passato, quando al posto del condominio di lusso c’era un cinema, della vineria una farmacia. Non hanno avuto in dotazione il telecomando per premere il fermo immagine. Stessa sorte è però toccata ai loro successori, portatori del cambiamento.
A ognuno piace il mondo come l’ha determinato. È convinto che sia un microcosmo ideale, figlio di un’idea originale. In realtà le stesse dinamiche stanno accadendo altrove e in modo ugualmente inesorabile: le insegne variano, ma si assomigliano sempre più. Se le grandi arterie sono conquistate dalla “global street”, quella di Zaraland o dei negozi del lusso, uguale a Chicago come a Hong Kong, queste vene diventano “glocal street”. Propongono nomi adeguati (romaneschi e latini, nel caso di via Urbana). Attirano quella che viene universalmente chiamata movida. C’è chi si adegua e sente anzi il piacevole soffio dell’internazionalità. Altri preferiscono traslocare in direzione di presunte oasi destinate a durare il tempo che separa un’era dal successivo strato di gentrificazione: dieci anni, se va bene. Il tempo di imborghesirsi, veder sorgere locali tutti uguali e aspettare invano che una pubblica amministrazione intervenga.
postilla
Ognuno è libero di scrivere quel che gli pare, ci mancherebbe altro. Però così come è avvenuto e avviene con l'ormai famigerato rammendo delle periferie, anche nelle trasformazioni a senso unico dei quartieri più centrali pare il caso di tentare un minimo di chiarezza in più. Perché tanto per iniziare qui si mescolano in un minestrone appetitoso ma indigeribile due cose diversissime, come la città clone e la sostituzione sociale detta gentrification, oltretutto già da sola oggi usata in mille sfumature diverse nel mondo. La città clone è quella colonizzata da un genere standard di esercizi commerciali, che rende identici posti a mille chilometri di distanza che sarebbero di per sé diversissimi. A volte un processo così si accompagna anche alla gentrification vera e propria, che non è affatto un “neologismo” ma una cosa esistente da sempre nelle città, e che la sociologia urbana ha battezzato così mezzo secolo fa. Oggi certa cultura immobiliarista, e una stampa che ci è o ci fa, provano a ribaltare il tavolo rivendendo a tante amministrazioni locali l'idea secondo cui gentrification corrisponde a riqualificazione, rivitalizzazione, semplicemente perché aumenta le quotazioni immobiliari, unico criterio qualitativo per la città, secondo loro. Mentre invece, come noto, la fisiologica trasformazione dei quartieri (che non va ostacolata, ma quantomeno seguita e studiata) dovrebbe far sì che in centro come in periferia si mirasse teoricamente a costruire cittadinanza, sicurezza, identità. Invece di ostentare certo cinismo superficiale di maniera con toni “global” (f.b.)
«Hanno fatto "sparire" i 50 milioni destinati alla difesa della città e della sua laguna, sono gli stessi che amministrano la Fondazione beneficiaria dei finanziamenti. Siamo di fronte ad un vero e proprio sistema di potere, lo stesso che è emerso con la vicenda del Mose». La Nuova Venezia, 26 gennaio 2015 (m.p.r.)
La Repubblica, 26 gennaio 2015
Già, perché è il titolo (da film di Natale, da pizzeria a domicilio di Melbourne o da serial americano sulla mafia) ad aver colpito l’immaginario collettivo. Nessuno parla dei contenuti del sito, mentre da due giorni dilaga sulla rete una colossale ondata di prese in giro, domande retoriche, reazioni indignate su quell’imbarazzante verybello.
Certo, se l’Expo deve presentare l’Italia al mondo, questa sfiducia nella lingua nazionale appare un pessimo inizio: si fa davvero fatica ad immaginare la Francia alle prese con un verybeau. I più depressi sono apparsi gli insegnanti: che cercano di liberare i loro giovani allievi dai tic indotti dagli sms, dalle chat e dal diluvio di jobsact e simili, e che ora si sentono sparare alla schiena anche da un ministero “della Cultura” tanto arreso e sbracato. Questa botta di provincialissima esterofilia è, poi, apparsa ancora più ridicola perché nel sito manca proprio la versione inglese, annunciata come coming soon: il 7 febbraio, pare. E sarà moltobeautiful, c’è da giurarlo.
Quanto al sito stesso, Riccardo Luna ha scritto che «ha una quantità imbarazzante di errori di progettazione». Ma sono i contenuti a lasciare allibiti: nessuno ha notato che l’Italia del bello viene presentata solo attraverso i mille eventi che cadono nell’arco temporale di Expo. Un grande luna park a pagamento, insomma: e forse era destino, perché in fondo anche luna park è un’espressione italo-inglese. Un baraccone (per dirla con la Crusca) che mette in ombra e nasconde tutto il patrimonio diffuso gratuito e permanente, sul quale non si spende una parola. Insomma, la più commerciale e diseducativa delle scelte.
Si è notato che il titolo del sito riprende (plagia? cita?) quello di una linea di cosmetici per bambine, e del suo sito: verybella.it. E quando un governo mette il patrimonio storico e artistico della nazione sullo stesso piano degli educativissimi trucchi per bambine: beh, allora gli anglismi e gli ammiccamenti pseudogiovanilistici sono il minore dei nostri problemi.
«Accogliendo le osservazioni critiche presentate anche dal Comune e dalle associazioni, i tecnici della commissione per la Valutazione dell'Impatto ambientale hanno richiesto nuovi studi e approfondimenti». La Nuova Venezia, 25 gennaio 2015 (m.p.r.)
Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ne fa un'altra giusta: interviene per evitare uno dei numerosissimi danni ai beni comuni provocati dalla nefasta legge Delrio e dalla conseguente frettolosa liquidazione delle province. La Repubblica, 25 gennaio 2015
«Domani porteremo in giunta una manifestazione di interesse e poi sottoscriveremo un protocollo con la provincia di Livorno per l’acquisto. Ci vorrà un po’ di tempo ma la compreremo noi». Il Parco Minerario dell’Isola d’Elba è salvo.
Tenerla in piedi costa circa 250 mila euro fra personale e altre spese. Il grosso di quella somma, circa 150 mila euro, viene girato dal Demanio al Comune di Rio Marina ogni anno attraverso il Parco dell’Arcipelago, sotto cui ricade l’area mineraria, e dal Comune alla società. Circa 80 mila euro arrivano dai biglietti. L’ultimo bilancio si è chiuso in avanzo di poche migliaia euro, ma solo perché la Regione ha concesso l’estrazione controllata di minerale che la società rivendeva ai collezionisti con un ricavo di altri 20 o 30 mila euro, altrimenti era sempre in perdita di 10-15 mila euro. Ecco, credo che il ragioniere capo della Provincia che ha bandito l’asta abbia trovato difficoltà ad intravedere in tutto questo un asset strategico. Poi, ritengo anch’io potessero esserci soluzioni diverse, ma chi compra non si ritroverà in mano, credo, la grande occasione per farci i soldi: è tutto vincolato».
La Repubblica online, blog "Articolo 9"
Si chiama verybello.it l'ultima, campale, disfatta culturale del Ministero per i Beni culturali.
Se anche fosse stata un''idea' originale, usare un titolo da film di Natale per battezzare il portale della cultura italiana durante Expo sarebbe stata una scelta inutilmente degradante. Un angloitalico grottesco per un sito che non ha nemmeno la versione inglese. Ma la cosa incredibile è che non è un'idea originale, ma un imbarazzante plagio dal sito di verybella.it, che è la «prima linea di make-up e style per bambine». E davvero si vorrebbe sapere quanto si è fatto pagare, per questo plagio, l'anonimo creativo. Chissà se sarà la Corte dei Conti a cercare una risposta. Resta l'imbarazzo cocente: per un Paese che comunica il proprio patrimonio culturale con le stesse strategie e le stesse parole con le quali si vendono i cosmetici per bambine. E, più o meno, con lo stesso progetto educativo.
Di fronte all'ondata di disappunto, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini avrebbe potuto scusarsi. E magari licenziare il creativo-plagiaro. Invece il ministro ha twittato: «In 6 ore 500.000 accessi a verybello.it! Come speravamo grande pubblicità da ironie, critiche e cattiverie sul web... Verygrazie!». Non volevo crederci. Me l'ha girato un'amica, aggiungendo: «a questo punto, visto il successo, il governo registrerà anche i siti culturali "spaghettiandmeatballs", "mammamia" e "mafiaboys". Anche per questo tipo di motivi, noi ci siamo trasferiti a Zurigo».
E se invece di andarcene noi, ci decidessimo finalmente a trasferire altrove questa classe 'dirigente'. S'intende, con un caloroso veryprego!
La Repubblica, 24 gennaio 2015
Non è la prima volta che si prova a privatizzare il più illustre parco minerario italiano: nel 2004 Giulio Tremonti tentò di conferirlo nientemeno che alla Coni Servizi spa, che a sua volta avrebbe dovuto venderlo per finanziare il debito del Coni (allora ammontava a 380 milioni di euro). Era l’epoca della Patrimonio dello Stato spa, la società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. Un’idea, questa, che ciclicamente risorge: solo poche settimane fa è stato Marco Carrai, intimo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ad auspicare la creazione del «Fondo Patrimonio Italia, dove conferire gli asset morti dello Stato per estrarne valore».
Ma a minacciare il futuro del Parco dell’Elba è oggi qualcosa di molto più banale: la sciatteria con la quale stiamo affrontando la soppressione delle province. Tra i mille nodi insoluti che riguardano i dipendenti e le competenze, un enorme punto interrogativo copre il futuro del patrimonio culturale provinciale: musei, biblioteche, archivi, istituti. Dall’inizio di quest’anno la loro gestione è passata a Regioni e Comuni, ma — denunciano le associazioni che raccolgono i professionisti di archivi, biblioteche e musei — «il rischio è che per molti beni culturali la riforma si traduca in un fallimento, e che centinaia di musei, biblioteche, reti e sistemi territoriali vadano incontro a una drammatica chiusura o a un drastico ridimensionamento di attività e servizi».
Ecco, la messa all’asta del parco dell’Elba è il primo, vero disastro determinato da questa situazione di nongoverno: e c’è da giurare che non sarà l’ultimo. Liquidando la sua quota nel Parco Minerario, la Provincia di Livorno si comporta come un inquilino che, dovendo subire uno sfratto, si disfi del mobilio, affibbiandolo al primo che passa. Ed è proprio così che la vede Nicola Casagli, ordinario di Geologia applicata all’Università di Firenze: «È un’idea astrusa di stampo burocratico che espone il Parco a ogni genere di speculazioni. Di fatto si tratta il Parco come se fosse una dismissione di attrezzature non più utilizzate. Per la verità l’anno scorso la Provincia di Livorno si era posta il problema e aveva promosso un accordo fra Provincia, Parco e Università di Firenze. Inspiegabilmente, l’accordo è stato fatto saltare dal presidente del Parco senza motivazione ». Beppe Tanelli, il primo presidente del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano (nel cui territorio ricade in gran parte il Parco Minerario), rincara la dose, dichiarando che «è auspicabile che la disinvolta e ridicola messa in vendita sia un’altra bufala». Il sindaco del Comune di Rio nell’Elba (che possiede l’altro 30 per cento di azioni della srl che controlla il Parco) è stato colto in contropiede, e ha reagito denunciando la natura «predatoria» dell’operazione. Già, perché il rischio è che il Parco se lo compri una società (magari straniera) interessata a commercializzare su larga scala i minerali pregiati da collezione, abbandonando ogni nesso con il territorio e ogni progetto di conoscenza, ricerca, divulgazione. Ci sono pochi giorni per fermare l’asta, e il professor Casagli annuncia che «l’Università di Firenze conferma il proprio interesse nel Parco minerario ed è disponibile a fornire ai Comuni interessati tutto il supporto necessario per salvare un bene così importante per tutti i cittadini». C’è da sperare che qualcuno lo ascolti, e che questa storia gloriosa non si esaurisca in un’asta caricaturale. Virgilio, nel X dell’ Eneide, canta le «inesauribili miniere» dell’Elba: ma la catastrofe delle province italiane nemmeno un poeta-mago poteva prevederla.
Schema del dialogo tra Edoardo Salzano, Sergio Pascolo, Mariarosa Vittadini, Enrico Tantucci, organizzato da Corte del fòntego editore, a Venezia, palazzetto Bru Zane, il 15 gennaio 2015. In calce il link alla registrazione su youtube
1 il paradosso:
EDOARDO SALZANO: Venezia è una città nella quale alla perfezione dell’assetto urbanistico si accompagna una grave difficoltà, da parte dei residenti, a continuare ad abitarla: “Ogni anno qualche migliaio di persone abbandona Venezia rinunciando a vivere in una delle più straordinarie strutture urbane del mondo. Come spiegare questo paradossi?”. Questa è la domanda che pone Sergio Pascolo, autore di "Abitando Venezia”. Gli chiedo di argomentarla.
SERGIO PASCOLO: vorrei precisare che quando diciamo “una delle più straordinarie strutture urbane del mondo” oggi, più che qualche decennio fa, significa anche una delle città più attuali del mondo; infatti ovunque si sta facendo una riflessione profonda sulla crescita urbana e sull’insostenibilità dei modelli ormai obsoleti basati sulla crescita infinita e sregolata permessa dalla diffusione del trasporto individuale con l’automobile; oggi si sta discutendo proprio della necessità di fissare nuovi paradigmi dello spazio urbano che riportino la città a dimensione umana; la condizione di pedonalità, il rapporto continuo con la natura (l’acqua) il vivere muovendosi all’aria aperta e potendo incontrare persone, sono i valori che costruiscono questi nuovi paradigmi necessari per la città del XXI secolo; mentre molte città cercano di perseguire questi obiettivi anche con progetti impegnativi e difficili Venezia è già così ma viene abbandonata – Abitare = Vivere = Lavorare= Tempo libero: qualità complessiva della vita
2. l ragioni del disagio:
EDOARDO SALZANO: a me sembra che le ragioni essenziali del disagio, i suoi fattori, siano tre:
1. il prezzo, in termini economici, del vivere a Venezia (la casa, i prodotti, i servizi per la casa)
2. il disagio provocato dalla congestione: le code e la ressa ai vaporetti, le movida nei campi più frequentati, …
3. l’assenza, da almeno un ventennio, di un governo che si faccia carico dei problemi degli abitantistabili.
MARIAROSA VITTADINI: Il problema dei trasporti è stato storicamente un fattore potente di abbandono della città da parte dei suoi abitanti. Per il costo generalizzato, come lo chiamano i trasportisti, fatto dei costi diretti e soprattutto del tempo di viaggio. Ma fatto anche di profonde ragioni culturali. Negli anni sessanta e settanta l’automobile è stata una conquista sociale, un simbolo di ricchezza e averla sotto casa un fattore di libertà. Venezia è stata vissuta come una città difficile, scomoda, frenante. Da qui molte politiche di omogeneizzazione della città finalizzate ad una presunta efficienza. Emblematica la storia di piazzale Roma, della concentrazione di uffici e attività e del rovesciamento della città storica intorno alla testa di ponte.
Il grandissimo successo dell’automobile nel mondo ne ha fatto uno dei principali problemi per la città. Inquinamento, congestione (che vuol dire lentezza, incertezza sui tempi di spostamento, disagio collettivo oltre che individuale), limitazioni crescenti e anche disaffezione stanno cambiando radicalmente le cose. Non c’è ragionamento sulla città di domani, etichettata come amichevole, intelligente, eco-sostenibile, resiliente e così via che non inizi con la riduzione delle mobilità automobilistica, la riconquista della salute e del piacere di muoversi a piedi e la trasformazione dell’auto in un servizio piuttosto che in un bene privato. Questa aspirazione d’altrove a Venezia è già un fatto, con una qualità dello spazio che fa del semplice camminare una continua gioia per gli occhi e una continua avventura di scoperta della storia. delle tradizioni, dei valori culturali ed artistici. Ma gli amministratori di Venezia non se ne sono accorti e perseguono con impegno degno di miglior causa l’ostinazione a omogeneizzare Venezia a vecchi modelli, magari sentendosi innovativi quando propongono la metropolitana sub lagunare da Tessera a Fondamente Nuove.
Accade così che si aggiungano così nuovi parcheggi a Piazzale Roma, al Tronchetto, alla Marittima, alla radice del ponte translagunare. Arrivare presto e più vicino possibile, rosicchiando i margini per far posto alle auto: quelle privilegiate degli addetti al porto, quelle dei turisti che partono con le grandi navi, quelle dei turisti che possono permettersi alte tariffe giornaliere. Anche per i residenti, certo, riservando loro quote minime. Tuttavia per quelli che abitano Venezia il problema automobile è veramente minimo. Il servizio acqueo funziona benissimo quando non è congestionato dai turisti, anche se recentemente i tagli ai finanziamenti ne hanno minato la regolarità. La ferrovia, l’aeroporto una fin troppo estesa rete autostradale collegano efficacemente al resto del mondo. Il problema sono piuttosto i trasporti di vicinato, una terraferma ad insediamento disperso, fondata sull’uso obbligatorio dell’automobile, dove gli investimenti si concentrano sulle autostrade e contribuiscono potentemente alla ulteriore dispersione. Il SFRM vent’anni dopo la decisione di farlo non ha partorito neppure una linea e soprattutto non è riuscito a raccordare Venezia e la sua area metropolitana. Si arriva più facilmente dalla Francia o dalla Germania che da Spinea.
EDOARDO SALZANO: Sul tempo avrei qualcosa da aggiungere. Io sostengo che per valutare la qualità del trasporto, della mobilità, non basti misurare la durata del percorso, ma anche la sua qualità. Altro è una brutta metropolitana, altro è un bel tram, come a Strasburgo, altro ancora è un vaporetto nell’arciplago che è Venezia. La riflessione di Maria Rosa sugli effetti della mobilità interamente affidata al mezzo individuale mi induce ad anticipare un tema su cui fra poco vorrei tornare: Venezia, proprio per il modo in cui storicamente si è organizzata la sua mobilità, ha molto da insegnare al mondo. Se non ricordo male era Le Corbusier che diceva che a Venezia si era raggiunto un obiettivo che era stato proposto ma raramente raggiunto dall’urbanistica moderna: la separazione del traffico pedonale da quello meccanico. Ma sentiamo anche Sergio.
SERGIO PASCOLO: sui PREZZI: sicuramente quello del costo della casa è il problema maggiore e non può che essere affrontato con un ri-equilibrio del mercato tramite interventi di housing sociale; per quanto riguarda il costo generale della vita credo che si debbano considerare molti aspetti; per esempio non avere bisogno dell’automobile è un grande risparmio nell’economia di una famiglia; è chiaro però che i servizi di trasporto pubblico, di car sharing e quant’altro debbano essere efficientisssimi; uno stile di vita diverso, migliore più sano, più ecocompatibile è un valore e non va considerato un difetto rispetto all’omologazione con altri stili di vita urbana; E questo corrisponde a significativi risparmi; sulle RAGIONI del disagio: ne aggiungerei una quarta a mio avviso fondamentale: la mancanza di prospettive di lavoro per la fascia più importante della popolazione attiva, quella che si butta nella vita reale appena finiti gli studi; quella fascia di popolazione da 25 a 40 anni, gli anni più dinamici di invenzione e crescita, non c’è oggi e non ci sarà in futuro se la città non cambia passo
EDOARDO SALZANO: La questione del lavoro è certamente nodale. Ci torneremo tra poco. Ho invece qualche perplessità quando si parla di social housing. In Italia significa una forma nuova di speculazione. Il comune, o lo Stato, danno al proprietario del un suolo più cubatura di quanta ne consentirebbe il piano urbanistico, e in cambio ottiene che il proprietario riservi, per qualche tempo, un po’ di alloggi a un costo inferiore a quello di mercato. Il problema, e l’obiettivo, devono essere quelli di offrire abitazioni a chi non può permettersi di pagare gli intollerabili prezzi che fa il mercato. Si tratta perciò di avere edilizia pubblica da dare in uso a prezzi accessibili a chi effettivamente dimostra di avere, e di conservare i requisiti giusti.
3. l'autodifesa:
EDOARDO SALZANO: I cittadini tentano di difendersi in molti modi. Voglio sottolinearne due:
1. Chi ha una stanza in più, diventa affittacamere. Conseguenza negativa: diminuiscono le abitazioni per gli abitanti stabili.
2. Nei luoghi della movida gli abitanti recintano pezzi del suolo pubblico, la città viene negata,
MARIA ROSA VITTADINI: L’autodifesa passa attraverso molti modi. Vivere ai margini, ad esempio. Alla Giudecca o a Castello o a S. Elena dove la pressione turistica è minore si vive molto bene e si esce dal proprio quartiere più spesso per uscir da Venezia che per andare a S. Marco. Anche perché le attività e i negozi tra Rialto e S. Marco sono ormai solo a misura di turista e molti negozi e servizi necessari all’abitare si trovano a Mestre (e questo è un grave problema dell’abitare a Venezia).
EDOARDO SALZANO: Hai ragione, Mariarosa. Ma non possiamo pensare di obbligare gli abitanti di Venezia a vivere ai margini della loro città. E temo che la situazione della Giudecca sia del tutto transitoria. Comunque, hai toccato un tema centrale: il peso dell’attuale forma del turismo. Sergio, Enrico, avete qualcosa da dire su questo argomento? O sulla ghettizzazione crescente degli spazi pubblici come risposta all’effetto movida?
SERGIO PASCOLO: Chi ha pensato e pensa ancora oggi al turismo come unica fonte di economia ne ha evidentemente considerato le grandi OPPORTUNITA’ ma non le MINACCE che invece sono molto rilevanti proprio per la qualità della vita; adesso le minacce sono sempre più evidenti ……
4. Le cause:
EDOARDO SALZANO: Perché succede questo? Perché viviamo le contraddizioni paradossali tra qualità urbana e disagio degli abitanti permanenti? Abbiamo toccato una delle cause: La prevaricazione del turismo. Anzi, dei due tipi di turismo attualmente dominanti: il turismo mordi e fuggi e il turismo di lusso. Ma ce ne sono altre due rilevanti: le convenienze personali e l’assenza di governo.
Insomma, quattro cause fondamentali del veneziano disagio di abitare Venezia:
1. Turismo mordi e fuggi: conseguenze: una mandria di bufali in una cristalleria
2. Turismo di lusso: la ghettizzazione e privatizzazione della città
3. Le convenienze degli abitanti (quelli che gravitano attorno al turismo di massa, gli affittacamere, ecc)
4. L’assenza di un governo efficace della città
MARIAROSA VITTADINI: Prevaricazione significa che la facilità e la convenienza di lavorare nel turismo vincono sistematicamente su qualsiasi altra attività. Gli spazi si convertono in negozietti di ricordini e cianfrusaglie, le attività artigianali si inaridiscono nelle produzione di mascherette, con un ricambio rapidissimo dato l’alto livello degli affitti. Nelle vetrine delle Mercerie si trovano, a carissimo prezzo, gli stessi abiti e le stesse firme di ogni altra città, ovviamente prodotti altrove. E’ naturale? è fatale? Si se non si governa in alcun modo. In altri paesi esiste una alleanza forte tra attività e amministrazioni, che si aiutano non tanto in termini finanziari quanto in termini stimolo di innovazioni, creazione di occasioni per attività di eccellenza, reti di relazioni.
Venezia e la sua storica capacità di rapportarsi con l’ambiente lagunare ne farebbero un campo privilegiato per gli studi sulle acque, sulla laguna, sul cambiamento climatico. Dove i ricercatori producano ricerca e non, come ora avviene, vetrina di lusso per presentare le ricerche condotte altrove. Invece Venezia pur avendo due università non è capace di radicare gli studenti che fuggono ogni giorno per le loro case di terraferma e dopo la laurea se ne vanno perché non trovano qui alcuna possibilità di costruirsi un avvenire con quello che hanno imparato.
ENRICO TANTUCCI: cause e responsabilità (soprattutto delle Amministrazioni comunali degli ultimi mandati, da Cacciari a Costa e Orsoni), con alcuni rapidi esempi significativi di ciò che non si è fatto e si poteva fare, e su come la prevaricazione del turismo ha influito sul problema dell'abitare sia in termini di disponibilità di alloggi che di comportamenti e di scelte anche amministrative.
SERGIO PASCOLO: le convenienze degli abitanti sono conseguenza della mancanza d’altro rispetto al turismo; la prevaricazione è diventata esclusiva e quindi comprensibile in quanto priva di alternative credibili; per quanto riguarda la limitazione del turismo è già stato detto molto da molti: bisogna creare un sistema di programmazione controllata degli arrivi turistici come si sta facendo in molte città europee (vedi Barcellona e Berlino) La prenotazione obbligatoria e programmazione per lo meno dei viaggi organizzati è fattibile senza grandi difficoltà e comporterebbe una significativa limitazione dell’ altrimenti inevitabile esponenziale ed insopportabile aumento degli afflussi. Spero che non ci sia più da discutere se fare o non fare la limitazione ma solo sul come realizzarla; qui le nuove tecnologie possono essere di grande aiuto; Recentemente i contributi di Scurati e quelle del Prof. Fabio Carrero hanno messo in evidenza le possibilità; è un tema specifico che va portato avanti
5 La strategia in atto
EDOARDO SALZANO: se queste sono le cause allora è chiaro che non è certamente sufficiente l’autodifesa individuale o localistica dei cittadini per rimuoverle. E’ necessario un forte governo pubblico, espressione della volontà dei cittadini, ed è necessaria una chiara strategia. Un governo pubblico diverso da quello che guida la città da qualche decennio, e una strategia diversa da quella seguita da chi oggi ci governa. Domandiamoci intanto quali sono oggi il governo della città e quale sia la strategia dominante, A me sembra che esiste oggi una precisa strategia, che fa capo a poteri che stanno dietro all’attuale governo della città (da vent’anni, un’amministrazione complice) . E che può riassumersi nella mercificazione della città.
Due distinzioni essenziali:
1. città come patrimonio / città come risorsa,
2. città come bene / città come merce
Oggi sono egemoni i gruppi sociali che utilizzano la città, la sua qualità, come una risorsa da sfruttare (il turismo come petrolio, Venezia come giacimento: estraggo, trasformo in altro da sé, vendo)
E oggi, per chi governa la città, compiti essenziali sono di fatto due:
1. promuovere, incoraggiare, servire lo sfruttamento economico della città
2. fare cassa per compensare la diminuzione delle risorse che arrivano dal bilancio dello stato
Un esempio: ci si indebita per fare il carnevale, e si cancella dal bilancio comunale l’acquisto di libri per le librerie comunali: più feste, più promotionE, e meno cultura.
SERGIO PASCOLO: Vendere piuttosto che Fare mi sembra sia la malattia della società e dell’ economia occidentale di questo secolo; sicuramente è stata la malattia dell’Amministrazione Comunale; molte città hanno fatto grandi trasformazioni urbane a vantaggio dei cittadini proprio a partire dalla logica contraria: la città deve acquisire (terreni, edifici) e gestire le trasformazioni; la vendita del patrimonio è in ogni caso una politica distruttiva del bene comune che nella vita urbana è altrettanto importante del bene individuale…..oltre alla vendita del Patrimonio di pregio in città palazzi sul Canal grande e molti altri – il Comune ha venduto anche aree a Marghera che erano da considerare preziose per poter avere in mano la Regia di qualsiasi trasformazione urbane per il futuro
6. una strategia alternativa
EDOARDO SALZANO: Una coppia di domande su cui vorrei concludere questa prima fase dell’incontro di stasera, per aprire un dibattito con gli altri presenti:
1. Come costruire una strategia alternativa?
2. E soprattutto e di conseguenza: come costruire un blocco sociale in grado di implementarla?
Io credo che una strategia alternativa debba partire proprio dal rovesciamento di quelle coppie di parole che ho prima enunciato: bisogna vedere Venezia e la sua Laguna come patrimonio e non come risorsa, come bene e non come merce.
Venezia e la sua Laguna sono:
1. un modello di equilibrato rapporto tra lavoro e natura, tra storia e natura, tra cultura e natura tra conservazione e trasformazione
2. un deposito di insegnamenti da proporre al mondo intero, perché il rapporto tra ambiente e lavoro è un tema centrale in tutto il mondo
3. un patrimonio che richiede un’enorme applicazione di lavoro per essere restaurata, manutenuta, studiata, raccontata, presentata a chi vuole conoscerla nei suoi mille spessori – e non per usarla come scenografia per un selfie
Ecco, credo che partire da Venezia come patrimonio e da Venezia come occasione di lavoro qualificato sia un punto di partenza giusto per costruire una nuova strategia e un nuovo “blocco sociale”
MARIA ROSA VITTADINI: Lavorare e produrre a Venezia non è certo solo per i residenti. Si lavora e si produce per il mondo intiero e i turisti sono anch’essi una componente di domanda interessante . Lo straordinario ambiente veneziano può offrire opportunità di incontro, di cultura, di creatività per una vastissima gamma di attività di produzione ad alta intensità di cultura, ad esempio in materia di comunicazione o di ricerca scientifica o per attività artistiche o, ancora, per un artigianato di qualità . Quanti studenti e ricercatori e artisti sarebbero ben felici di passare a Venezia qualche mese alimentando con il loro lavoro le reti internazionali della loro disciplina solo che fosse possibile abitare e lavorare a Venezia.
EDOARDO SALZANO: torniamo così al tema del turismo. Domandiamoci adesso: quale turismo è omogeneo a una visione di Venezia come patrimonio? E come governarlo?
MARIAROSA VITTADINI: L’arrivo dei circa 30 milioni di turisti pone un serio problema di sopravvivenza per la città. Tutte le misure per gestire tali flussi come il tiket di ingresso (paradossalmente fatto pagare solo a coloro che pernottano negli alberghi) o le card di prenotazione volontaria con vari sconti sui servizi non sono serviti a frenare la massa dei “giornalieri” che passano poche ore in città. La misura principale per costoro è stata la istituzione della grande ZTL per i bus turistici, con tariffe di ingresso calibrate sulle prestazioni ambientali dei veicoli. Un bus euro 0, ovvero vecchio e inquinante in massimo grado, paga 340 euro e può portare i turisti al Tronchetto oppure ai terminal di Tessera o di Fusina. Per ciascun passeggero fa poco più di 5 euro: una tariffa che non scoraggia nessuno. Se è vero, come credo che la congestione turistica deriva dalla massa e dalla brevità del tempo della visita prima ancora che porre ticket o improbabili numeri chiusi si può pensare al rallentamento degli arrivi.
Si arriva solo per acqua e per acqua si accede alla città principalmente dai margini e non dal canal grande. Per percorrere il ponte occorre un permesso, così come succede normalmente negli accessi regolati delle città in ogni parte d’Europa. E allora sì il permesso può essere governato sulla base del tetto massimo di turisti sostenibili. Certo se non si può arrivare dal ponte si può arrivare dai terminal: via acqua, ovvero lentamente, e anche qui in base alla prenotazione e al rispetto del numero sostenibile di visitatori. Tutte formule davvero da subito fattibili, solo che ci sia la volontà politica. Ma proprio questa difetta: gli interessi legati a questo tipo di turismo sono oggi assai forti e ben rappresentati nelle istituzioni.
EDOARDO SALZANO: La direzione di marcia giusta per il governo del turismo era già stata proposta all’inizio degli anni 80. Luigi Scano: Il razionamento programmato dell’offerta turistica.
SERGIO PASCOLO: Partire dal lavoro; è necessario creare le basi perché si stabiliscano e crescano diventando sempre più rilevanti, nuove attività oltre a quelle legate al turismo. Questo è fondamentale per ri-creare una base sociale equilibrata generazionalmente; oggi le persone giovani che iniziano la loro carriera professionale vogliono avere opportunità, cercano occasioni e sinergie. A Venezia non trovano nulla e se ne vanno per lavorare e fare famiglia altrove in Italia o all’estero. Esistono molte sinergie da rafforzare ed è possibile farlo con un grande progetto pubblico che coinvolga tutte le istituzioni cittadine; è fondamentale però che questo progetto sia trasmesso in modo chiaro e trasparente nei suoi obiettivi, perché possa essere capito e condiviso, nella sua necessità (pena la scomparsa della città stessa) e nella sua opportunità per tutti nel medio e lungo periodo…..
partire dall’attrarre attività e quindi capitali, selezionandoli, per coerenza con le sinergie ricercate
partire da progetti di sinergia per la creazione di un comun sentire; bisogna creare un clima di fiducia nel nuovo futuro della città; bisogna creare la consapevolezza che un nuovo futuro è possibile ed è migliore di quello offerto dal turismo soffocante; per dare respiro alla città si potrebbero seguire i percorsi di Programmi come L’European Green Capital Award, o altri che riguardano la città resiliente e la città vivibile del futuro in uno scenario internazionale
EDOARDO SALZANO: Un grande progetto pubblico: un New Deal roosveltiano per Venezia. Quesito forse è lo slogan che occorrerebbe lanciare.
Ma apriamo un dibattito più ampio
Qui i video dell'evento
Al netto dell'ovvia non necessaria corrispondenza fra il dire e il fare, il governo francese pare aver colto in senso di cosa significa oggi intervenire in modo non semplicione sulle periferie. La Repubblica, 23 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Prima ha parlato di «apartheid», ora di «ripopolamento » delle banlieue. Manuel Valls è in prima linea sulle banlieue considerate da molti esperti come un potenziale vivaio di odio. Gli attentati di Parigi sono stati compiuti da nemici interni, terroristi cresciuti in casa, in quei quartieri da tempo abbandonati dalla République. Per lottare contro la ghettizzazione delle banlieue, ha detto Valls, bisogna organizzare una «politica di ripopolamento» dei quartieri più sensibili, abitati in grande maggioranza da immigrati, di prima, seconda e terza generazione. Il premier non vuole solo una politica di nuovi alloggi o infrastrutture, ma misure che possano lottare contro la «segregazione sociale»”, un concetto che aveva già espresso tre giorni fa.
«Paragonare la Repubblica francese all’apartheid è un errore. Sono costernato», ha tuonato Nicolas Sarkozy, rompendo così il clima di unità nazionale, due settimane dopo le stragi. «Bisogna essere grandi, non piccoli», ha replicato il premier socialista, aggiungendo: «Pensate che ora ci mettiamo a perdere tempo con le polemiche?». Il premier è tornato anche a spiegare la sua risposta sociale agli attentati nella capitale. «Non sopporto che in alcune scuole non si trovino che studenti figli di famiglie povere, provenienti solo dall’immigrazione, dallo stesso ambiente culturale e dalla stessa religione » ha detto Valls, ricordando di essere cresciuto in una cittadina di periferia, Evry, sud di Parigi.
E proprio sul ruolo delle scuole, il governo ha annunciato un piano per lottare contro la radicalizzazione dei giovani. «La scuola non può fare tutto, ma è un elemento essenziale» ha commentato il premier. «La laicità deve imporsi dappertutto, perché permette la fraternità e permette a ciascuno di vivere insieme ». Il governo ha indetto per il 9 febbraio una conferenza nazionale in cui saranno elaborati metodi di insegnamento di valori come il rifiuto del razzismo o l’eguaglianza tra uomo e donna. Il pacchetto di misure, di cui alcune già note, comporta un investimento di 250 milioni di euro per il prossimo triennio. Tra i provvedimenti più simbolici la creazione di una «Giornata della Laicità», indetta nelle scuole il 9 dicembre, in riferimento a quel giorno del 1905 in cui venne adottata la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa. La ministra dell’Istruzione, Najat Vallaud- Belkacem, ha annunciato che mille tutor selezionati verranno incaricati di fornire le linee guida su «laicità» e «insegnamento morale e civico» ai professori. «La trasmissione della conoscenza è il modo migliore di combattere l’oscurantismo», ha avvertito la ministra, deplorando «la disinformazione», le «teorie del complotto», il «sospetto generalizzato» veicolati ai giovani attraverso web e social network. Tutti problemi a cui Parigi intende rispondere anche attraverso un «percorso educativo civico», con tanto di valutazione finale, dalle elementari al liceo, e la sottoscrizione da parte di genitori e studenti di un’apposita «Carta della Laicità».
postilla
Almeno così d'istinto, la dichiarazione sulla centralità della scuola del primo ministro francese, così intimamente legata al concetto di periferia, non può non evocare il nome di Clarence Perry, giovane sociologo dei servizi che nella Chicago del piano di Daniel Burnham, alla vigilia della prima guerra mondiale studiava le potenzialità politiche, culturali, identitarie di un nuovo spazio pubblico, appunto l'edificio scolastico, la cui localizzazione baricentrica (per puri motivi funzionali) al centro dei quartieri ne faceva uno straordinario strumento per costruire cittadinanza. Ma Perry ovviamente, e giustamente, ragionava in termini di mezzi, non di fini, come oggi fa Valls, riteneva che quella forma del quartiere periferico, quella localizzazione e organizzazione del complesso scolastico, potessero svolgere un ruolo di medium, e amplificare un messaggio di inclusione. Fece l'involontario azzardo, la sua teoria ancora acerba, di confrontarsi direttamente con gli architetti una decina d'anni dopo, introducendone alcune riflessioni nello studio sulla “unità di vicinato”. Grande successo e immediato tradimento delle premesse: il mezzo diventava fine, il fine originario spariva nel nulla, lasciandoci quei progetti spaziali sulle periferie che non hanno mai risolto alcun problema, semplicemente perché non se lo pongono neppure il problema centrale, che non è architettonico o urbanistico, ma ovviamente, di cittadinanza e inclusione. Riflettere su questo aspetto, indipendentemente dagli sviluppi pratici dell'intuizione di Valls, forse serve a farci uscire dal vicolo cieco delle periferie intese come pura espressione geografica, già stigmatizzato ad esempio da Enzo Scandurra sul manifesto (f.b.)
«Il nostro appello al confronto e a lavorare al programma è ai cittadini attivi, ad amici importanti di Venezia come il professor Settis per costruire una rete internazionale: oggi parte il percorso di Venezia Cambia 2015 verso le elezioni». Roberta De Rossi e Vettor Maria Corsetti, La Nuova Venezia e Il Gazzettino, 21 gennaio 2015
Il GazzettinoUNA CIVICA CHE GUARDA A SETTIS
Un bel convegno con l'archistar ecologicamente corretta, e sponsorizzato da un grande produttore del principale materiale per le trasformazioni edilizie: se non altro è chiarissimo cosa si intenda in genere sulla stampa per “rammendo delle periferie”. Corriere della Sera, 21 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Non c’è bisogno di costruire sempre un Guggenheim in stile Gehry per fare buona architettura, non c’è bisogno di progetti su grande scala (musei, grattacieli o stadi che siano) per poter trasformare davvero una città e non è nemmeno necessario scegliere la via del glamour a tutti i costi (il fascino della super residenza costosa e del parco da miliardario) per sentirsi una archistar, anzi il tempo delle archistar può dirsi ormai davvero finito. Mario Cucinella (fondatore nel 1992 dello studio MCA) sintetizza in questi paradossi l’intervento che terrà sabato 24 gennaio, alla Fiera di Bergamo, nell’ambito del convegno annuale della Fondazione Italcementi sul tema Rammendo e rigenerazione urbana per il nuovo Rinascimento , un convegno in cui protagoniste saranno prima di tutto quelle stesse periferie dove per lungo tempo si è concentrato il lato più oscuro della urbanizzazione.
Cucinella (nato nel 1960, tra i suoi progetti più recenti il Villaggio residenziale per l’Expo di Milano) segue tra l’altro in qualità di tutor il gruppo di lavoro incaricato di studiare la periferia di Catania, e in particolare il quartiere Librino, nell’ambito del «G124», il laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città messo in piedi da Renzo Piano e che oltre a Catania sta studiando le periferie di Roma e Torino. E proprio Piano, senatore a vita per meriti architettonici oltre che progettista del Centre Pompidou di Parigi e dell’ampliamento dell’Harvard Art Museum di Boston, aprirà con un suo video il convegno di sabato che vede tra i partecipanti Giampiero e Carlo Pesenti, Emanuela Casti, Michele Molè, Silvano Petrosino, Geminello Alvi, Francesco Daveri, Aldo Mazzocco, Giorgio Gori.
«Periferie come Librino o come Scampia a Napoli — spiega Cucinella — dimostrano da una parte il fallimento della ricostruzione degli anni Settanta, quella ricostruzione globale che è stata prima di tutto una manovra politica, un paradigma da esibire e che ha portato solo emarginazione. Ma dall’altro che non ci devono essere mai cittadini di serie A e di serie B perché in quelle stesse periferie prodotto di quell’idea sbagliata di architettura ci sono persone che vivono e lottano tutti i giorni per recuperare una giusta dimensione dell’esistenza». Ma Cucinella va oltre: «Il degrado è solo il sintomo evidente di un malessere ben più grave, sociale e non solo progettuale, che per essere curato deve essere prima di tutto studia-to e conosciuto bene. I politici ma anche certi famosi architetti preferiscono invece teorizzare senza sapere, senza essere mai andati a vedere una di quelle periferie così degradate». Il risultato? «Un populismo contro tutto e contro tutti».
Partendo sempre dall’esperienza del Librino, Mario Cucinella (che tra i buoni modelli cita anche il laboratorio «A di Città» di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria) definisce i modi per un buon rammendo delle periferie: «A volte può bastare progettare una piccola biblioteca di quartiere, mettere una nuova panchina in un giardinetto o disegnare il percorso pedonale tra una scuola e una palestra per creare nuove opportunità e per migliorare la qualità della vita. Questa è la mia idea di rammendo: qualcosa che non sia imposto, ma che sia ragionato, qualcosa che serva prima di tutto a mettere insieme e non a dividere».
Per fare questo bisogna parlare con chi vive nel degrado delle periferie: «Non si possono fare interventi dall’alto, non c’è più bisogno dell’architetto-personaggio e non bisogna neppure più inseguire l’effetto a tutti i costi con progetti che facciano parlare i giornali o le tv, altrimenti si rischiano nuovi fallimenti. I giovani architetti, come quelli che lavorano con me al Librino, in questo sono davvero eccezionali, perché riescono a far parlare le persone dei propri bisogni, riescono insomma a entrare nel cuore della gente. Forse perché sono più consapevoli e non inseguono più i sogni della celebrità. Anche se la cosa più grave resta la totale assenza dello Stato, mentre la distanza tra cittadini e istituzioni continua a crescere giorno dopo giorno».
Seguendo la lezione di Piano, Cucinella ipotizza dunque «una serie di interventi sulle periferie che sappiano essere inclusivi e che non siano mai estranei agli abitanti». Anche perché nell’idea delle grandi aree metropolitane che tanto piace ai politici «non esisterà più la divisione tra centro e periferia». Proprio quelle periferie spesso indicate come bacino di elezione della violenza e del degrado («Lo ripeto, la violenza e il degrado sono i sintomi di un malessere più generale») e dove oggi, più che in altre aree urbane, si trovano a convivere popoli e religioni. Eppure per l’architetto Cucinella (che ha firmato anche progetti per scuole ecosostenibili, centri di assistenza e ministeri in Palestina, a Gaza e ad Algeri) non ci sono dubbi: «Finché c’è tolleranza, finché non si giudica l’altro, finché non si hanno pregiudizi contro chi non la pensa come noi ogni confronto, anche quello tra religioni, è fonte solo di nuove idee, mai di conflitti».
postilla
Un produttore di cemento e una grande firma delle trasformazioni edilizie che da sempre usano quel cemento, con vari risultati qualitativi, per tenerci le terga all'asciutto, darci un tetto sopra la testa, a volte contemplare pensosi l'insieme degli edifici, chiedendoci se non si poteva far meglio. Forse bastano queste poche note sugli ingredienti, a capire quanto il cosiddetto “dibattito sulle periferie” nelle forme saldamente imboccate sulla stampa (ma forse non nelle ultime dichiarazioni del premier francese, che parevano un pochino più serie) non abbia alcun rapporto col disagio, le forme di convivenza, i conflitti. Certo, come accade in qualunque comunicazione promozionale di settore, che si tratti di scarpe sportive o apparecchiature mediche, non può mancare lo sfondo del mondo in cui viviamo, o i suoi problemi generali. Ma va da sé: le soluzioni non sono ovviamente da riferire a quei problemi generali, e riguardano invece singole emergenze, sintomi, aspetti particolari. Ci sono gravi problemi di qualità abitativa, che dipendono a volte dal tipo di progettazione e costruzione, ok. A patto di non scambiare sul serio questa cosa col “problema delle periferie” (f.b.)
amara sorpresa: il lavoro è disomogeneo e peggiora l’aspetto del monumento: la pulitura, troppo approfondita, scopre strati profondi della pietra, mentre in altri sono ancora presenti le croste nere. Vacilla dunque la tutela del monumento». Il manifesto, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)
È questo il j’accuse lanciato da sessanta restauratori. Si sono riuniti e hanno firmato un documento che invita al dibattito pubblico, rivolgendo un appello al ministro Franceschini e al presidente del Consiglio di stato, sostanzialmente a chi firmò la sentenza che legittimò la scelta di consegnare l’appalto a ditte edili (Gherardi / Aspera). Il loro consiglio è: meglio riconsiderare quella decisione, prima che sia troppo tardi. È lesiva per una categoria professionale apprezzata in tutto il mondo e pericolosa anche per il patrimonio stesso.
Quando tre anni fa, il Segretario generale del Mibact, architetto Cecchi, la direttrice regionale del Lazio Federica Galloni e l’archeologa responsabile dell’Anfiteatro Flavio Rossella Rea decisero di affidare quel lavoro a un’impresa generale di edilizia, i restauratori dettero battaglia, ma il Tar respinse il ricorso.
Eppure prima dell’«estromissione», una ditta specialistica di restauro aveva approntato un cantiere pilota, mettendo a punto le metodologie giuste di intervento per quella delicata pulitura.
L'apostolo per bene del neoliberismo italiano si occupa di nuovo di Venezia. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Denuncia il Mose, quando ormai è fatto, e difende il colpo mortale alla Laguna sostenendo l'allargamento del Canale dei Petroli e le grandi navi a Porto Marghera. Corriere della Sera, 19 gennaio 2015
Le primarie del Partito democratico per il sindaco di Venezia sono la dimostrazione che in Italia il consenso politico continua a poter essere acquistato. Con la differenza che ora comprarlo costa non più di qualche spicciolo: quanto necessario per organizzare poche migliaia di cittadini e spedirli a votare alle primarie del Pd. Decapitate dall’inchiesta sul Mose, le imprese che negli scorsi vent’anni, grazie a leggi ad hoc, hanno sottratto ai contribuenti 2,3 miliardi di euro (cifra documentata in Corruzione a norma di legge, Rizzoli 2015) sono rapidamente risorte e stanno per vincere di nuovo. La politica sembra non aver capito nulla. O meglio: io spero che non abbia capito nulla perché la drammatica alternativa è che ancora una volta essa sia connivente, come lo fu in passato quando approvò le leggi che hanno consentito che il Mose si trasformasse in un «furto legale» ai danni dei contribuenti.
«Per salvare Venezia e la sua laguna, il crocerismo e il lavoro, c’è una sola strada: attrezzare un nuovo terminal crociere al di fuori delle bocche di porto per le navi incompatibili». Non sempre Pirani ci azzecca a proposito di Venezia. Questa volta si, ed è un piacere. La Repubblica, 19 gennaio 2015
MOLTI , e tra questi la sottosegretaria ai Beni e alle Attività culturali Ilaria Borletti Buitoni, hanno giudicato scandalosa la recente sentenza del Tar che ha annullato le ordinanze della Capitaneria di Porto di Venezia che limitavano il passaggio delle grandi navi nel Bacino di San Marco.
In realtà, coloro che in laguna si oppongono a un crocerismo incompatibile hanno commentato positivamente la sentenza, perché i giudici amministrativi hanno messo a nudo l’inconsistenza dei provvedimenti che, al netto delle roboanti dichiarazioni del governo che li hanno accompagnati nel 2013, quando furono assunti, si limitavano a ridurre per l’anno scorso da 808 a 708 i passaggi di questi mostri del mare davanti a San Marco, abbassandone da quest’anno a 96mila tonnellate la stazza lorda massima, come se una nave di tale misura fosse piccola e compatibile con la città e la laguna.
Tanto per capire, il Titanic stazzava 46mila tonnellate e dunque le navi che avrebbero potuto continuare a passare a man salva nel cuore della città erano comunque enormi, lunghe anche trecento metri, come la Norwegian Jade o la Queen Elizabeth contro le quali i veneziani hanno più volte manifestato. «Via i giganti del mare», avevano dichiarato i ministri Lupi (Infrastrutture e Trasporti) e Orlando (allora all’Ambiente), e molti se l’erano bevuta, mentre in laguna gli oppositori, che infatti si erano appellati contro le ordinanze anche alla Commissione europea, avevano parlato di «spuntatina di capelli».
Nella sua sentenza, il Tar ha dimostrato la totale mancanza di un’istruttoria che giustificasse le ordinanze della Capitaneria, pressata dal ministro Lupi. Non c’è, quindi, a monte delle decisioni alcuna indagine sui rischi connessi al passaggio delle grandi navi che possa condurre alle misure di “mitigazione” assunte. La sentenza, conclude il Tar, restituirà alle Amministrazioni coinvolte «la possibilità di disciplinare ex novo la fattispecie in esame, previo svolgimento di tutti i necessari adempimenti istruttori, onde pervenire a una coerente e concreta analisi delle tipologie di rischi effettivamente connessi al passaggio delle navi…».
Se si pensa che nel Piano di assetto del territorio (Pat), assunto nel 2012 dal Comune di Venezia, si dispone, su suggerimento dei movimenti ambientalisti veneziani, l’estromissione dalla laguna delle navi incompatibili, con la determinazione delle soglie di rischio che facciano da discriminante, si vede come tutte le amministrazioni coinvolte — Comune, Regione, Governo — abbiano praticamente buttato al vento tre anni senza fare alcunché.
La motivazione è stata più volte trattata in questa rubrica e riguarda la pervicacia di una parte di questo governo nel perseguire, fin dalla tragedia del Giglio, un’unica alternativa al passaggio delle grandi navi davanti a San Marco, e cioè il devastante scavo in laguna del Canale Contorta Sant’Angelo, reiterazione ossessiva delle stesse logiche ottonovecentesche che a forza di scavi, di imbonimenti di barene, di canali industriali stanno riducendo la laguna a un braccio di mare. Tutto il resto sono solo bubbole per gettare fumo negli occhi e prendere tempo.
Il progetto di scavo del Canale è ora all’attenzione della Commissione nazionale di Valutazione di impatto ambientale, e la mole delle critiche e delle osservazioni presentate da cittadini e associazioni e prestigiose istituzioni scientifiche (più di 300) è tale che se la Commissione ascolterà la voce della ragione e non le pressioni della lobby del porto, di Paolo Costa e del ministro Lupi, non potrà che bocciare il pericoloso disegno. Così come dovrebbe bocciare ogni ipotesi di nuovo terminal a Porto Marghera, che esattamente come per il Contorta presuppongono il raddoppio del Canale dei Petroli, il cui scavo, ricordiamo, ha significato tra il 1970 e il 2010 la perdita di 5800 ettari di barene portando la profondità della laguna da qualche decina di cm a 1,5/2 metri. È a questo che si devono ascrivere gli effetti sulla velocità di propagazione delle maree e di conseguenza delle correnti nella città.
Per salvare Venezia e la sua laguna, il crocerismo e il lavoro, c’è una sola strada: attrezzare un nuovo terminal crociere al di fuori delle bocche di porto per le navi incompatibili, mantenendo la Marittima come snodo logistico per i passeggeri e come attracco per quel naviglio che, determinate finalmente le soglie di rischio, potrà continuare a entrare in laguna. I progetti già ci sono e dovranno essere vagliati dagli organi competenti.
Poi c’è in ballo la campagna elettorale, in cui i cittadini potranno costringere i candidati sindaci a prendere una posizione preventiva sugli scavi della Contorta e sul passaggio delle grandi navi nella laguna. Visto che è il futuro di Venezia in discussione non si potrà decidere prima dell’elezione del nuovo sindaco.
«Non ci sono alibi — dice Silvio Testa, portavoce del Comitato No-GrandiNavi — per estromettere dalla laguna le navi incompatibili, come chiedono migliaia di veneziani, ci sono possibilità realizzabili a breve, senza continuare a devastare un ambiente fragile, unico al mondo, ricco di storia e di cultura. «Venezia è laguna », dicono i veneziani: «non si può distruggere l’una credendo di salvare l’altra».
L’unicità della città deve portare il Paese a decidere in funzione della preservazione di questo patrimonio dell’umanità, e non della preoccupazione che non arrivino abbastanza turisti che vogliono attraversarla a bordo di un pachiderma. Con tutto il rispetto per la rilevanza economica del settore turismo e per Confindustria Venezia.
Il manifesto, 18 gennaio 2015 (m.p.r.)
La chiusura dell’Università Statale di Milano per impedire un’assemblea ha funzionato alla grande. Si chiama autogol, e in rovesciata. La Rete Attitudine No Expo non avrebbe saputo fare di meglio per “reclamizzare” l’appuntamento nazionale convocato per preparare le mobilitazioni in vista dell’esposizione universale. Una doppia pagina sul Corriere della Sera, polemiche che continuano ai vertici delle istituzioni milanesi, insomma una visibilità mai ottenuta prima. Ma sembra acqua passata ormai, comprese le precisazioni del rettore Gianluca Vago che difende la sua scelta puntando il dito contro gruppi aggressivi e violenti, e il cerchiobottismo del sindaco Giuliano Pisapia secondo cui la libertà di opinione è fondamentale così come il rispetto delle regole. Amen.
Il problema ormai è un altro. Lo sanno bene le centinaia di persone che hanno riempito per ore le stanze di via Mascagni 6. La questione sembrerà banale ma è questa: l’Expo ci sarà, e adesso che si fa? Facile dire mobilitazione ad oltranza, perché una partecipazione democratica e orizzontale la si può garantire solo dopo un lungo percorso di confronto (e critica) tra i diversi soggetti che hanno deciso di giocarsi la partita fino in fondo. Insieme. Si comincia il primo maggio, ma non basta ragionare su quella data. L’Expo durerà sei mesi e il dopo Expo, con la sua coda di speculazioni e immancabili scandali, potrebbe durare anni. Si deve ragionare sul futuro. Per il momento si sa con certezza che maggio comincerà con tre o quattro giorni di mobilitazione, se sarà May Day è ancora presto per dirlo. Ma sicuramente sarà molto più.
Come mobilitarsi? In quali forme? E con quali priorità? E ancora. Come è possibile tenere le fila di un movimento che vuole caratterizzarsi per la sua portata internazionale, pur sapendo che a volte ci sono realtà diverse che faticano anche solo a condividere un pezzo di marciapiede? I nodi si scioglieranno strada facendo, ma la sensazione è che il “movimento” abbia cominciato nel modo migliore. Guardarsi in faccia è il primo passo. I milanesi hanno dovuto fare gli onori di casa a soggetti provenienti da tutta Italia: Torino, Napoli, Roma, Abruzzo. E comprendere anche altri linguaggi: c’erano militanti dalla Grecia, dalla Spagna, dalla Francia e della Germania. Forse la prima piccola avanguardia internazionalista.
Ci sono tre o quattro questioni dirimenti che possono reggere l’impalcatura di un nuovo soggetto ancora da definire. L’Expo è un investimento che usa soldi pubblici in piena crisi economica strutturale; è un esperimento dal punto di vista delle politiche del lavoro, considerando che migliaia di finti lavoratori presteranno la loro manodopera gratis; è, o potrebbe essere, il cavallo di Troia delle multinazionali che cercheranno di imporre gli Ogm; e, più in generale, è la “madre” di tutti i grandi eventi, con il suo inevitabile corollario di malaffare e pessima gestione del territorio.
Gli interventi e le assemblee sono stati decine. Impossibile darne conto con completezza. Si è parlato anche di Expo al femminile, smascherando la retorica politicamente corretta di “Women for Expo” per mettere l’accento sulle migliaia di prostitute che soddisferanno i milioni di visitatori. “Io non lavoro gratis per Expo” invece è una campagna già avviata per contestare quei finti 18 mila posti di lavoro magnificati dall’evento. Quasi ovvia la partecipazione del movimento No Tav della Val di Susa, che per vicinanza geografica ben conosce l’esito delle Olimpiadi di Torino 2006. E ancora. Ci sono i movimenti di sostegno all’agricoltura contadina che contestano l’agrobusiness.
E poi la testimonianza di tante esperienze già attive nei territori, come La Fornace di Rho, dove si stanno costruendo i padiglioni del lunapark planetario per alimentare il pianeta. Ancora, il movimento per il diritto alla casa, che dà voce alla disperazione di chi è destinato a non raccogliere nemmeno le briciole dell’evento. Il tutto con l’obiettivo di smontare non solo l’esposizione universale in sé ma soprattutto la sua retorica di rilancio e rinascita di un paese moribondo: la nuova Milano da sgranocchiare, la creazione di posti di lavoro che non ci sono o chissà quale il prestigio internazionale. Forse già adesso non ci crede nessuno, ma è bene che ci sia qualcuno che si sta attrezzando a dirlo ad alta voce.
L'entusiasmo muscolare degli attivisti biciclettari e in genere anti-auto, di sicuro potrebbe dispiegarsi meglio riflettendo un istante sulla forma urbana dentro cui ci si sposta: perché è caduta in disuso la scuola (e in genere lo spazio pubblico) come fulcro del quartiere? La Repubblica, 18 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Sono pochi, pochissimi, i bambini italiani che vanno a scuola da soli, senza essere accompagnati dai genitori. E il loro numero continua a diminuire. Secondo i dati del Consiglio nazionale delle ricerche sono appena il 16 per cento dei piccoli che frequentano le scuole elementari. Il 70 per cento, invece, viene portato in auto. Ma non è sempre stato così. Anzi. Negli Anni Settanta i numeri erano capovolti. E l’autonomia dei bimbi cala, oggi, all’8 per cento nel Nord e sale al 30 per cento nel Sud. Il Cnr spiega, poi, che queste percentuali si alzano insieme al titolo di studio di madre e padre. Altre ricerche dicono, ancora, che soltanto metà dei ragazzini delle medie va a scuola senza accompagnamento adulto. Accade quindi, in Italia, che i nostri ragazzi ricevano il motorino e le sue chiavi senza aver mai sperimentato la libertà e la responsabilità di dover organizzare spostamenti autonomi.
Il pediatra-ricercatore Francesco Tonucci (del portale online “Un pediatra per amico”), ricorda che in Inghilterra nel 1970 andavano a scuola a piedi (e da soli) otto bambini su dieci, vent’anni dopo il rapporto era crollato a uno su dieci e oggi è di nuovo in risalita: il 32 per cento. L’accompagnamento di massa è una tipicità occidentale e metropolitana, ma altrove in Europa è stata affrontata e risolta. Grazie a piste ciclabili, diffusione del messaggio e moral suasion. In Germania — dove le città hanno numeri di residenti raffrontabili con le nostre — la percentuale dei bambini sciolti dai genitori nel percorso casa-scuola è del 76 per cento.
Una risposta consapevole ai bimbi auto-dipendenti è quella pratica chiamata Bike to school che si sta diffondendo nel nostro Paese. I pionieri sono stati i genitori della “Di Donato” di Roma, scuola materna, elementare e media multietnica all’Esquilino. Ci provarono nella settimana europea della mobilità sostenibile, venerdì 20 settembre 2013. In onore del Critical mass adulto, i genitori scelsero di radunarsi sul colle a gruppi sempre crescenti ogni ultimo venerdì del mese per dirigersi verso la scuola: oggi i venerdì in bicicletta sono diventati quattro al mese: i baby bikers sono cresciuti. Come gli ispiratori critici, i ciclomarmocchi in rotta per la classe spesso nel percorso rallentano le auto dietro di loro: segnale politico. Gli eventi Bike to school sono diventati nazionali, Roma è rimasta capofila e in questa stagione scolastica ha pedalato verso scuola nell’ultimo venerdì prima della chiusura natalizia — 19 dicembre 2014 — contando oltre 60 istituti partecipanti, ciascuno con tre-quattro percorsi possibili. Nell’evento precedente, quello del 28 novembre, in un gruppo della Di Donato con pettorina verde c’era anche il sindaco Ignazio Marino: ha accompagnato i bambini fino al portone della scuola. A Napoli si sono attivati diversi istituti superiori: un percorso è stato individuato e praticato a Scampia, con patrocinio del Comune. Aderiscono da due anni all’iniziativa genitori e figli di Caserta, Milano, Torino, Genova e Bologna.
E scrivono nei gruppi aperti su Facebook: «I bambini percepiscono che non è sano passare, la mattina, da un ambiente chiuso (la casa) a un altro (la macchina) e infine a un terzo (la classe) senza fare alcuno sforzo né attività fisica». Anna Becchi, madre della Di Donato, racconta: «Ho tre figli, sono un’attivista del gruppo romano #salvaiciclisti e insieme abbiamo voluto dimostrare che andare a scuola in bici è bello e si può fare, soprattutto se si è in tanti. La prima volta eravamo una trentina, adesso non li conto più».
Già. Perché i bimbi vivono la loro lunga giornata tra banchi, tv in salotto, corsi pomeridiani. Tutto sempre al chiuso. «Assistiti e vigilati da adulti, ma il rischio è una condizione necessaria per procedere nello sviluppo cognitivo, sociale, delle capacità e delle competenze», dice Tonucci. I bambini che vanno a scuola accompagnati in macchina, sostiene la letteratura medica, sono meno reattivi di quelli che vanno in bicicletta o a piedi. Giocano meno, sono spesso in sovrappeso, hanno minore sicurezza e minore autostima. Durante l’adolescenza soffriranno di più la solitudine. Chi si è abituato a spostarsi in macchina tenderà a conservare l’abitudine da adulto. Il numero di bambini investiti da automobili con alla guida genitori che portano i loro figli a scuola è il doppio della media.
E infine, come dice il pediatra Tonucci: «I nostri figli in bicicletta o a piedi per strada rendono più sicura la città».
postilla
Francamente, vengono i nervi, ogni volta che si leggono questi articoli dove qualcuno ha scoperto la pietra filosofale, la soluzione panacea ai problemi urbani dell'umanità tappandosi occhi e orecchie rispetto a cosa dovrebbe poi significare quell'aggettivo, “urbano”. Ovvero al contesto dentro cui sono maturati i problemi, e a cui si dovrebbe guardare sempre: perché si va e viene da scuola (come da ogni altra cosa) in auto? Certo esistono aspetti abitudinari, psicologici, di ansia dei genitori e nonni da iper protezione dei pupi, ma ancora: cosa stuzzica questa ansia, se non un ambiente generale che non si percepisce come sicuro? Di questo, buona parte del cosiddetto dibattito sulla mobilità dolce non parla mai, salvo con quella rituale richiesta di piste ciclabili, che pare ormai assimilabile a quella dei militari per strada a tutela del cittadino, o all'essere giovani per occupare dei posti, quanto a banalità. Ci si muove in auto perché lo spazio dentro a cui ci spostiamo è stato concepito male, senza seguire il criterio minimo individuato da un sociologo dei servizi scolastici nel 1913: l'edificio con la scuola dell'obbligo si deve trovare a una distanza percorribile facilmente a piedi in tutta sicurezza rispetto alle abitazioni. Quel sociologo si chiamava Clarence Perry, dieci anni dopo perfezionò il tutto nella teoria della “unità di vicinato”, che però venne al volo sequestrata da un commando mascherato di architetti, e rapidamente ridotta a un confuso ammasso di slogan estetizzanti, pronti a evaporare, nonostante alcune positive sperimentazioni negli odiati quartieri razionalisti del '900. Forse tornare a quel concetto base, dove c'è un bambino in età scolare, la porta della casa da cui esce, e quella della scuola all'altra estremità, aiuta. Oppure siamo come sempre “oltre”? (f.b.)
status di supporto inerte e diventa bene comune. Tecnicamente, la legge introduce un’invalicabile “linea rossa” tra città e campagna: nessun nuovo edificio su terreni fertili. L’impugnativa governativa afferma che proprio questa norma contravviene al principio costituzionale di libera concorrenza». Perunaltracitta.org, 3 gennaio 2015
Secondo alcuni giornali sarebbe stata proprio l’ex vigilessa fiorentina in capo, in capo ora al Dipartimento legislativo alle dirette dipendenze dell’ex sindaco di Firenze, a dare l’alt alla nuova legge urbanistica toscana in un’Italia distratta ormai dai preparativi natalizi (nella stessa vigilia di Natale avrebbe anche regalato a Berlusconi il comma salva evasori). L’impugnativa alla LRT 65/2014 (Norme per il governo del territorio), che ritarderà l’entrata in vigore della legge, si colloca nel segno della fiducia sconfinata nell’autoregolazione del mercato edilizio che ormai sta segnando il passo (e di questo sì, abbiamo le prove).
Della buona legge abbiamo già scritto, ma merita qui ricordarne almeno due aspetti virtuosi. Concettualmente, la legge supera il meccanicismo della LRT 1/2005 e introduce uno strumento di matrice ecologista: con il concetto di «patrimonio territoriale» infatti, quale risultato della coevoluzione di abitanti e ambiente naturale, da «promuovere e garantire» per le generazioni future, il territorio abbandona lo status di supporto inerte e diventa bene comune. Tecnicamente, la legge introduce un’invalicabile “linea rossa” tra città e campagna: nessun nuovo edificio residenziale su terreni fertili; né centri commerciali o capannoni che vìolino i princìpi del grande piano regionale (PIT): violazione o compatibilità saranno certificate da una «conferenza di copianificazione» in cui il parere sfavorevole della Regione è vincolante.
L’impugnativa governativa afferma che proprio quest’ultima norma contravviene al principio costituzionale di libera concorrenza tutelato dalla ripartizione delle competenze prevista dall’art. 117 Cost. Tuttavia, il Consiglio di Stato con la sentenza 2060/2012 stabilisce che «le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa economica». Bene ricordarlo. Del resto, privata di potestà regolativa, che urbanistica sarebbe?
Le mode sono una bella cosa, come tante altre, quando vengono considerate strumenti ed espressione di cambiamento. Quando invece diventano un fine, un'ideologia, anche le migliori intenzioni naufragano. Jenner Meletti e Carlo Petrini sui distretti alimentari locali, la Repubblica 16 gennaio 2015, postilla (f.b.)
POMODORI A GENNAIO E INSALATA DI SERRA:
ANCHE IL KM0 PUO' FARE MALE ALL'AMBIENTE
di Jenner Meletti
«KM ZERO », quasi un mito. Vedi il cartello appeso davanti al negozio o al ristorante e immagini il contadino che ogni mattina, magari a piedi, viene a portare qui l’insalata, la gallina, i pomodori. Agnelli che non arrivano dall’altra parte del mondo, latte portato da una stalla vicina, così puoi ascoltare i muggiti delle mucche. «Solo noi italiani — dice Sandra Chiarato della Coldiretti veneta — potevamo inventare un marchio come questo. In Cornovaglia, davanti ai ristoranti, c’erano i cartelli “Kilometri 100” e avevano un grande successo. Km 0 poteva nascere solo in questo nostro Paese dove abbiamo ogni ben di Dio sottocasa». C’è una legge del 2008, nella Regione Veneto, fatta proprio per «orientare e sostenere i consumi dei prodotti agricoli a chilometro zero». «L’idea di consumare ciò che la terra produce vicino a casa tua — raccontano Luca Motta della Coldiretti veneta e i funzionari del Csqua, il centro servizi qualità alimentare della Regione — è ottima, e non solo perché meno chilometri si percorrono, meno si inquina. Comprando dal produttore o nel mercato dei contadini puoi salvare frutta e verdura che altrimenti andrebbero perdute. Il nostro è soprattutto un movimento culturale: per non dimenticare i prodotti della nostra terra, per spiegare a tutti che il “cibo” non è solo quello che si trova incellofanato nei banchi dei supermercati ».
Quando un’idea diventa business, c’è però chi ne approfitta. «La legge non ha ancora i regolamenti attuativi e adesioni e controlli sono ancora su base volontaria. E così puoi trovare fruttivendoli con il cartello Km 0 che vendono banane ed ananas. Radicchi a gennaio, ciliegie a maggio, meloni e cocomeri a luglio, pomodori per tutta l’estate… Devi produrre nella stagione giusta e solo ciò che è legato al territorio. Un pomodoro maturato a gennaio qui al nord potrà essere geograficamente a chilometro zero, ma resta una scelta assurda: come puoi risparmiare CO2 sui chilometri senza tenere conto del gasolio bruciato nelle serre? ».
C’è però chi contesta l’utilità del Km 0, anche quando è realizzato secondo le regole. «Io penso — dice Dario Bressanini, docente di scienze chimiche e ambientali all’università di Insubria e autore del libro Pane e bugie — che il Km 0 sia un’illusione. Non basta dire: la frutta e la verdura sono prodotte qui vicino dunque non inquinano. Se usi la tua auto per andare a comprare un solo chilogrammo di verdura a 10 chilometri di distanza — lo studio è stato fatto dalla Lincoln University — generi più CO 2 che facendola arrivare direttamente dal Kenya. Se pensate di spendere meno e di trovare una qualità migliore, fate bene a servirvi dal contadino. Ma non pensate di salvare l’ambiente».
Secondo il Defra — il ministero dell’ambiente e dell’agricoltura britannico — il food mile, che si può tradurre con miglio alimentare, non può essere una misura attendibile dell’impatto ambientale totale. Non basta seguire il viaggio delle merci: è stato calcolato infatti che il 48% dei chilometri sono percorsi dal compratore. Un furgone che trasporta 100 polli in un punto vendita fa muovere le cento auto di chi va a comprare un solo pollo. «Helman Schlich e Ulla Fleisner dell’università di Giessen hanno accertato che il costo energetico totale dell’agnello importato dalla Nuova Zelanda è inferiore a quello prodotto in Germania, dove l’agnello deve essere tenuto al coperto, riscaldato e nutrito con mangimi per cinque mesi. Produrre un chilo di pomodori in Svezia, ovviamente in serra, costa 66 megajoule (unità di misura dell’energia spesa dall’aratura alla raccolta e non solo per il trasporto, ndr) mentre farli arrivare dalla Spagna costa “solo” 5,4 mj. E questo vale, con numeri diversi, anche per le fragole del Sud Africa, le mele dell’Argentina, la verdura del Nord Africa…». Chi ama i farmers market o gli spacci delle aziende contadine conosce però il «peso» dei chilometri. I Gas, gruppi di acquisto solidale, con un solo furgone vanno a prendere la frutta e la carne per un intero condominio. Sono circa 80, in Veneto, i ristoranti, bar, panifici, gastronomie a Km 0. La trattoria Ballotta, a Torreglia, la porta dei Colli Euganei, è stata la prima ad aderire all’iniziativa. «Al primo posto — dice Fabio Legnaro, il titolare — ci vuole l’onestà. Io in inverno non uso pomodoro di serra ma la conserva preparata in estate. I piselli li surgelo a primavera. Onestà vuol dire, in questi giorni, proporre in menù, come freschi, solo i radicchi, le verze, le cicorie e poco altro. Km 0 adesso è al 20% del totale, a giugno arriveremo al 70%, con una media annuale del 40%».
«L’Italia dipende dall’estero — dice Dario Bressanini — per il 70% del grano tenero, per il 40% di quello duro, per il 25% del mais, per il 90% della soia e per il 50% della carne. La nostra bilancia agroalimentare è in rosso per 10 miliardi di euro all’anno. Non è certo con la cipolla bio di Tropea o le lenticchie di Castelluccio — peraltro buonissime — che riusciremo a pareggiare i conti».
UNA RICETTA VINCENTE,
SE SI RISPETTA IL BUON SENSO
di Carlo Petrini
Letteralmente, non ha ragione il proverbio per il quale «se ciascuno pulisce davanti alla propria casa, tutta la città sarà pulita». Perché la città ha anche edifici pubblici, spazi non abitati, zone di servizio o di passaggio. Ma è anche vero che quanto sicuramente ognuno di noi può fare è proprio pulire davanti a casa propria. A chiusura di ogni incontro pubblico su questioni globali si leva sempre una mano per chiedere: «Ma noi cittadini, nella nostra quotidianità, cosa possiamo fare?». Ecco: cominciamo a pulire davanti alla nostra casa.
Con i nostri gesti quotidiani di acquisto, con le scelte alimentari. Stabiliamo che c’è una parte della nostra vita quotidiana che ci obbliga a fare chilometri: beviamo caffè, tè, mangiamo cioccolata, banane. Queste sono le piazze, i giardini, le zone della città che non possiamo pulire. Qualcuno si preoccuperà di rendere quei consumi quanto più sostenibili possibile (non possiamo pulirle, quelle strade in comune, ma possiamo contribuire a non sporcarle, se le attrezzano con cestini e noi rispettiamo le regole del vivere in comunità), allora serviranno ancora chilometri, ma almeno saranno bio ed equi. Ma non viviamo solo di caffè e banane.
Viviamo anche di pane, verdura, carne, frutta, latte, formaggi: questo è il pezzetto di strada davanti a casa nostra. Qui possiamo fare la differenza. Badando alla stagionalità di quel che scegliamo, che è un accorciatore di distanze. Prediligendo i mercati della vendita diretta. Perché il Km 0 è un modo diverso di dire buon senso civico ed ecologico. E solo chi non ha voglia di prendere sul serio né la civiltà né l’ecologia prende alla lettera quel vecchio proverbio per dire che i comportamenti del singolo non bastano, non servono a niente. E intanto la città resta sporca.
postilla
Quando diversi anni fa si recensivano su queste pagine le memorie dei due giornalisti fondatori del movimento per la “Dieta delle Cento Miglia”, il tentativo era quello di sottolineare come anche agendo su un organo abbastanza improprio come la pancia, si potesse stimolare la riflessione su temi ambientali di una notevole rilevanza. Ci provavano in molti, con percorso logici diversi, come il direttore della rivista Regional Planning Association quando raccontava il suo acquisto di una mela di produzione locale in centro a New York, risalendone poi le precondizioni territoriali e di distribuzione commerciale. Tanto per chiarire, in un paio di battute, che quello slogan del distretto locale di produzione alimentare è appunto solo uno slogan, e da solo serve solo a dar aria ai denti, se non si accompagna a quella cosa che, gira e rigira, si chiama ancora pianificazione territoriale, a una dimensione sufficiente a includere ragionevoli bacini alimentari (come in Italia ci spiegava già Giovanni Astengo all'epoca della Costituente e delle circoscrizioni amministrative da riformare, o prima di lui Patrick Abercrombie, o il dibattito ancora precedente sulla greenbelt). Da lì, da quella definizione preliminare, si può partire a sviluppare le idee che, più o meno, riassume poi anche Carlo Petrini nel suo intervento, altrimenti procedendo per slogan, o per progetti settoriali frammentati di educazione, o promozione, o politiche fiscali, magari si fanno due o tre passetti in avanti in un aspetto, per vederne decine indietro in altri. Il resto, sono mode, più o meno carine, da seguire se ci piace, ma da non sopravvalutare (f.b.)
Riferimenti diretti ai temi citati nella Postilla: Ascolto il tuo stomaco, città (Mall dicembre 2007); Tom Philpot, La Grande Mela prodotta qui (Mall gennaio 2008); Giovanni Astengo et. al., Piano Regionale Piemontese 1947 (Mall dicembre 2005)