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«Ma la rete dei cittadini ha raccolto 1,8 milioni di firme per proporre alla Commissione Ue una legge che riconosca le risorse idriche come bene dell’umanità, dunque da escludere dal mercato interno e dai trattati internazionali». Il manifesto, 24 marzo 2014 (m.p.r.)

Si chiude oggi a Bruxelles la Conferenza europea dell’Acqua. Il Forum italiano dei movimenti e la Rete europea erano ieri in sit in davanti al parlamento per protestare, poiché dalla manifestazione, che riunisce istituzioni e multinazionali, sono state escluse le realtà sociali e l’Ice - European citizens initiative, che nel 2013 ha raccolto oltre 1 milione e 800 mila firme per proporre alla Commissione europea un provvedimento legislativo basato su tre punti: riconoscere l’accesso all’acqua da bere e per i servizi igienici come bene dell’umanità; escluderlo dalle «norme del mercato interno» e dalle liberalizzazioni; sottrarre la materia dai trattati internazionali.
La norma è stata discussa nel parlamento europeo a marzo 2014 e poi è sparita dall’agenda. «La commissione ci ha risposto – racconta Corrado Oddi del Forum italiano - che il principio andava bene ma non toccava all’Ue legiferare in materia di concorrenza e privatizzazioni, a differenza di quanto ci ripetono i governi italiani, e che per i trattati occorreva fare attenzione. Poi però nel Ttip – il Trattato transatlantico sul commercio si parla anche di risorse idriche. L’intenzione della Rete europea è tornare a fare pressione sul parlamento che si è insediato l’anno scorso perché ci dia risposte».
In Italia la vittoria ai referendum del 2011 aveva sancito la volontà di portare l’acqua fuori da logiche di profitto e di mercato ma la resistenza degli enti locali ha aperto la strada alle nuove iniziative del governo Renzi che, di fatto, vanno nella direzione opposta: l’esecutivo infatti sta utilizzando una serie di strumenti per favorire processi di fusione e aggregazione tra aziende che gestiscono i servizi pubblici locali (tra cui anche l’acqua) consegnandoli ai privati, obiettivo perseguito senza mai dichiararlo apertamente.
Il taglio di risorse che costantemente soffoca gli enti è l’arma per costringerli ad accettare questo tipo di misure. Il primo passo è stato il piano sulla Spending review che punta al taglio delle società partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan «riduzione da 8mila a mille». Poi c’è stato il decreto Sblocca Italia: gli articoli dedicati al servizio idrico prevedono la creazione di un gestore unico regionale, se si sceglie di avere degli ambiti territoriali devono corrispondere alle province o città metropolitane. Un meccanismo che non tiene conto dei bacini idrici naturali e, soprattutto, induce le realtà più piccole (e spesso pubbliche) ad essere divorate dalle grandi multiutilities come Acea, Hera, Iren, A2A.
«L’esecutivo – prosegue Oddi – punta a creare un oligopolio: Iren in Piemonte, Liguria e nell’area nord dell’Emilia; A2A in Lombardia; Hera nel resto dell’Emilia Romagna, Padova e Trieste; ad Acea il centro Italia con Toscana, Lazio e Campania. Il comune di Bologna e le altre amministrazioni faranno scendere la loro quota in Hera dal 51 al 35%, come voleva il decreto Ronchi abolito dai referendum. Il modello Hera prevede la divisione degli utili come una variabile indipendente, così si accumula un disavanzo che viene coperto dalle bollette o dal sistema creditizio. Già oggi l’indebitamento ha raggiunto un livello non più sostenibile». Il governo però amplierà il loro giro di affari e Cassa depositi e prestiti ha già pronti 500milioni per finanziare le fusioni. Ad Acea la gestione dell’acqua di gran parte del centro Italia. In Campania la multiutility di Caltagirone ha già un piede nell’area Sarnese-Vesuviana, la legge regionale in discussione potrebbe assegnarli il resto della torta.
Il consiglio comunale di Napoli ha approvato la delibera che assegna la gestione all’azienda speciale pubblica Abc per cercare di bloccare l’operazione di occupazione da parte di Acea. La norma regionale però potrebbe mettere le competenze di più di 500 comuni nelle mani di 12 sindaci all’interno del consiglio di indirizzo, da cui però sono escluse le città metropolitane cioè il comune partenopeo e l’Abc. La legge di stabilità dà un’ulteriore spinta: quanto incassato dagli Enti Locali per la vendita delle quote delle società partecipate può essere speso al di fuori del patto di stabilità. E poi c’è il ddl Madia in discussione al Senato sulla riforma della pubblica amministrazione: «Praticamente è il Job act applicato ai servizi pubblici – spiega Simona Savini del Forum italiano dei movimenti per l’acqua – cioè un decreto con norme generali che dà una delega in bianco al governo per disciplinare una materia fondamentale, sottratta al parlamento. I principi che richiama sono una ulteriore spinta verso le fusioni. Del resto la stessa Confindustria ha più volte detto che sono passati quattro anni dal referendum, è tempo che il governo ci metta mano. Lo stanno facendo». Intanto che l’esecutivo produce le norme, si è mossa l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico che ha messo a punto un nuovo metodo tariffario che, di fatto, reinserisce la remunerazione del capitale investito consentendo ai gestori di aumentare i guadagni ma facendo anche salire i costi per gli utenti. Solo nel 2013 le tariffe sono cresciute del 7,4%, negli ultimi 10 anni dell’85%.
Prosegue la tardiva ma coerente demolizione del progetto infrastrutturale padano del centrodestra (e non solo) da parte del principale quotidiano. Corriere della Sera Lombardia, 22 marzo 2015

Dopo nove anni di «tragicommedia» - così l’ha definita qualcuno l’altra sera a Pavia durante l’affollata assemblea dei comitati contrari - l’autostrada Broni-Mortara arriva al suo capitolo finale. Lo scempio che dovrebbe sconvolgere la Lomellina, creando un muro (la nuova arteria sarebbe tutta in rilevato alto mediamente 5 metri, con l’impiego mostruoso di 19 milioni di metri cubi di ghiaia) lungo 67 chilometri è stato bocciato dalla Commissione ministeriale di valutazione dell’impatto ambientale che, con una serie articolata di argomentazioni, l’ha definita in sostanza inutile e dannosa, basata su calcoli sbagliati, con un consumo altissimo di suolo in una zona dal delicatissimo equilibrio. E, soprattutto, la Commissione del ministero ha ribadito l’illegalità della procedura sin qui seguita, poiché non si tratta di un’autostrada regionale, dal momento che il tratto Castello d’Agogna-Stroppiana è in territorio piemontese.

Forse è presto per cantare vittoria, ma l’altra sera nella riunione cui hanno partecipato anche una ventina di sindaci, si percepiva un cauto ottimismo sull’esito finale dell’inter autorizzativo che dovrebbe concludersi a giugno. Infrastrutture Lombarde, l’ente proponente, ha intanto preparato una serie di integrazioni al progetto che saranno presentate in Regione la prossima settimana. Ma si tratta di modifiche che, a quanto pare, non incidono suoi rilievi più significativi emersi dal documento del ministero con cui è sancita l’incompatibilità ambientale dell’opera. In sostanza la Sabrom, società controllata da Impregilo-Salini che ha la concessione per la progettazione, la costruzione e la gestione dell’autostrada, avrebbe ridimensionato l’interconnessione con la A-7 a Gropello, spostato l’attraversamento del Terdoppio (avvicinandolo tra l’altro all’abitato di Alagna Lomellina) ed eliminato due svincoli, quello di Tromello e quello di Mortara.

Di fronte alla bocciatura del progetto, contro cui ormai si è creato un fronte compatto di sindaci e associazioni del territorio, la Regione mantiene un imbarazzato silenzio. Proseguire o no nel piano di costruzione di autostrade lombarde dopo il flop della Brebemi e della finanza di progetto, in tempo di scandali sulle grandi opere e di esborsi non previsti (come i 60 milioni messi dalla giunta Maroni per la Brebemi in aggiunta ai 300 dello Stato), mentre la viabilità ordinaria è al collasso? Il punto è che quei progetti erano stati strenuamente sostenuti da Formigoni e dalla giunta di cui faceva parte anche la Lega. Ora manca una exit strategy, per cui è inutile chiedere a Palazzo Lombardia che cosa intende fare. L’assessore alle Infrastrutture, Alessandro Sorte, fa sapere che non sa che cosa dire, l’entourage del presidente Maroni prende tempo, poi annuncia un comunicato che non arriva mentre i telefoni suonano ripetutamente a vuoto.

E’ evidente che continuare a sostenere i faraonici progetti dell’era del Celeste appare un po’ difficile. Ma anche abbandonare tutto implica problemi rilevanti. La Sabrom ha già fatto sapere che se la costruzione della Broni-Mortara dovesse saltare, Palazzo Lombardia dovrebbe pagare i costi di progettazione che ammontano a 70 milioni di euro. Gli errori rilevati dal ministero sul progetto sono tanti (da un’errata stima del traffico futuro al calcolo del Pm 10 prodotto, sino al riferimento a leggi ormai abrogate). E questo, dice qualcuno, potrebbe aprire una controversia tra Sabrom e Regione. Ma è anche vero che quel progetto fu interamente approvato e condiviso da Infrastrutture Lombarde. Un bel rebus.

Una notizia agghiacciante. Il rimedio peggio del male. Comunque ci siamo abituati. La stessa politica del territorio, ma in più a Napoli di direbbe: "a pazziella 'mmano a' creatura". La Repubblica, 23 marzo 2015

Roma. Renzi farà davvero il ministro delle Infrastrutture. L’interim sarà breve e non arriverà certo fino alle regionali (31 maggio). Ma non brevissimo. Il premier ha tutta l’intenzione di usare qualche settimana per modificare nel profondo l’assetto del dicastero di Porta Pia. È l’occasione per impegnarsi in quella che lui chiama «la lotta agli inamovibili che fanno blocco », intendendo i burocrati dei gabinetti e degli uffici legislativi. Di loro parlerà oggi alla School of Government della Luiss in una conferenza sul “dovere di decidere”. «Difenderò la centralità della decisione contro i ritardi e gli scaricabarile», racconta ai collaboratori che lo hanno sentito ieri.

Il periodo alle Infrastrutture servirà dunque ad applicare uno spoil system che attraverserà sicuramente i tecnici del ministero e potrebbe arrivare fino alla squadra di sottosegretari e viceministri. Solo dopo questo lavoro si giungerà alla scelta del nuovo titolare. Renzi continua a ripetere che l’identikit è un passo successivo, anche se alla fine sarà un politico e non un tecnico «perché questo governo vuole mantenere la coerenza del messaggio di un ritorno alla responsabilità della politica». Ma prima, come dicono a Palazzo Chigi, «si metterà un po’ d’ordine al ministero» per consentire alla «macchina di correre».

Renzi considera le Infrastrutture molto più di «un ministero. Dallo sblocco dei cantieri passa un pezzo decisivo della ripresa in Italia», dice in queste ore. «I fondi europei, il piano dei porti, i lavori autostradali, i soldi per l’edilizia, la sicurezza delle strade, la banda larga è compito del ministero delle Infrastrutture». Competenze molto ampie e fondamentali per evitare che «la crescita sia microscopica ». Renzi ai suoi collaboratori ripete che «le condizioni macroeconomiche faticosamente costruite in Europa adesso ci sono e nascono dal cambio di clima dovuto anche al risultato delle Europee. Se il Pd non avesse preso il 41 per cento saremmo ancora a discutere di austerity, debito e privatizzazioni ». Dunque, il Jobs Act e gli incentivi, le altre riforme sono indispensabili per la credibilità sui mercati e nella Ue. «Ma occorre stimolare gli investimenti pubblici e privati», dice il premier. E dalle Infrastrutture deve partire l’iniziativa maggiore.

Il dopo Lupi si conferma però difficile per gli strascichi che lascia nel Nuovo centro destra e per le polemiche sugli indagati che rimangono saldamente al loro posto nell’esecutivo, oltre che per la corsa di Vincenzo De Luca in Campania. Il Movimento 5stelle non vuole mollare l’osso. Aveva presentato la mozione di sfiducia contro il ministro dimissionario. Adesso invece usa l’arma del blog di Beppe Grillo. «Ogni scarrafone è bello a mamma sua - scrive il comico - e gli scarrafoni piddini per l’ebetino sono molto più scarrafoni di Lupi che si è dimesso per un Rolex al figlio e un biglietto aereo alla moglie (meglio un aereo di Stato per la moglie?).

Ma se a ogni pioggia l’Italia frana, se i cittadini muoiono, se le strade sono devastate, se il welfare è scomparso, è anche colpa loro». La conclusione è ancora più violenta: «Gli scarrafoni del Pd rimangono al loro posto. Del resto il loro partito è una fogna, quale posto migliore?». Sul doppiopesismo attaccano anche il Mattinale, la nota che fa capo a Renato Brunetta, e Daniela Santanchè, ossia Forza Italia. «Con l’intervista a Repubblica Renzi ha inaugurato la stagione della giustizia fai da te: i sottosegretari del suo governo che sono indagati ai suoi occhi sono una casta intoccabile, come se per loro la morale, l’etica e la legalità non esistessero», dice la Santanchè. La nota di Brunetta, Il Mattinale, considera le dichiarazione di Renzi «uno stupefacente documento contemporaneo di faccia tosta».

Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata

Nota scritta in occasione di Convegno sul tema “Catanzaro tra passato e presente” organizzato dalla Fondazione Imes e Italia Nostra per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. La hanno tenuto un Convegno su “Catanzaro tra passato e presente” per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. Il convegno è stato un primo momento per mettere in campo proposte alternative a quelle delle forze che guidano l’amministrazione locale e che si muovono su una linea di continuità con gli interessi della speculazione edilizia e della rendita fondiaria.

Da decenni Catanzaro ha sconfinato dalle sue mura. Ha seguito, come molte città, un modello insediativo diffuso che è andato – per quanto la riguarda - nelle più svariate direzioni (Siano, S.Elia, Mater Domini, Gagliano, S.Maria, Cava, e poi, da Cz Lido a Sellia fino a Cropani e Botricello, da Cz Lido a Copanello fino a Montepaone e Soverato). Il continuum urbano di Cz, fatto di residenze, attività commerciali e di servizio, qualche piccola impresa, presenta un aspetto frantumato, sparpagliato, di disordine. Un territorio informe e pieno e di contraddizioni. E con un centro storico che sembra aver smarrito la sua identità dopo lo sventramento dei primi anni sessanta. L’insediamento dell’Università e della Regione a Germaneto hanno creato un nuovo polo urbano che, in assenza di politiche adeguate, rischia di dare un colpo definitivo alla città storica.

L’evoluzione urbana della città è stata, quindi, caratterizzata da un’occupazione a macchia d’olio del suolo. Naturalmente, i governi nazionali e locali hanno dato il loro contributo: con l’abbandono di fatto di qualsiasi idea di pianificazione del territorio, e poi con la politica dei condoni, con continue sanatorie, varianti, cambi di destinazione, opere infrastrutturali e quant’altro. I cambiamenti sono stati affidati a processi apparentemente spontanei, ma in realtà rispondenti a precisi interessi della speculazione e della rendita, e hanno prodotto costi sociali e ambientali molto alti. I confini geografici della città non corrispondono più ai suoi confini amministrativi e richiamano l’urgenza di pensare ai problemi della città con strumenti programmatici di area vasta. Come affrontare altrimenti questioni come la mobilità, i rifiuti e, ancora, la sanità e l’università?

Il mito dell'automobile

Pensiamo, per citare uno dei problemi, all’impatto della motorizzazione privata e al fenomeno del pendolarismo, esploso con lo spostamento massiccio di popolazione dal centro cittadino alle aree periurbane. Ai problemi del traffico si sono date risposte che hanno rappresentato rimedi peggiori del male. Invece di dotarsi di un trasporto pubblico locale degno di questo nome, efficiente e capace di riconnettere un territorio molto vasto, disarticolato e frammentato, si è pensato di costruire tangenziali, sopraelevate, tunnel, che hanno creato ancora più traffico e inquinamento. Le automobili si sono impadronite della città, hanno occupato strade, piazze, marciapiedi, sono causa di incidenti, di stress, di malattie. Hanno infine impoverito la vita di relazione e la vivibilità della città. Tutto ciò è avvenuto nella totale indifferenza dei cittadini, senza reazioni e senza avvertire particolari differenziazioni tra destra e sinistra. D’altra parte, non poteva essere altrimenti. Siamo cresciuti, infatti, nel mito dell’automobile, che fa il paio con un altro mito, quello della casa in proprietà (di cui parlerò più avanti).

L’automobile è considerata corum populi il principale strumento di mobilità, una scelta di libertà. Mito dell’automobile e mito della casa, dunque, sono la cifra caratterizzante dello sviluppo urbano e, direi, dello sviluppo in generale. Uno sviluppo che, da un lato, si basa sul ricambio sempre più veloce di beni e prodotti - l’economia del ricambio, appunto, o anche dell’”usa e getta” (si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso) - e dall’altro lato si basa sul grande spreco di suolo, di risorse, di energia. Si sono costruiti milioni di immobili e realizzate infrastrutture non sempre utili e senza alcun riguardo verso le nostre campagne, verso le montagne, verso le coste, i laghi e i fiumi. E verso il paesaggio. C’è un gran parlare di debito pubblico e di crisi finanziaria, ma si parla poco dell’enorme debito accumulato con la natura per una gestione urbanistica dissennata.

La vicenda di Catanzaro racconta, nella sua emblematicità, la storia urbanistica del Mezzogiorno e di gran parte del nostro paese e impone a tutti una riflessione sulla necessità di mettere in discussione un modello di sviluppo e, in particolare, un modello di espansione edilizia e urbana che ha fatto proliferare periferie degradate e ha distrutto le città per come le abbiamo conosciute anche noi, nati dopo il secondo dopoguerra. Ma l’espansione, come dicevo, è anche la principale responsabile delle ferite inferte al territorio. E’ tra le cause di tanti disastri ambientali (frane, alluvioni, fenomeni pericolosi e irreversibili di inquinamento delle falde acquifere). Le nostre case sono diventate più vulnerabili perché anche normali eventi naturali si abbattono su una situazione compromessa dal cattivo uso che l’uomo ha fatto e fa del suolo e delle risorse naturali. Infine l’espansione ha la principale responsabilità degli innumerevoli scempi a un paesaggio tanto straordinario da meritarci l’appellativo di “Bel Paese”. Nella logica espansiva, infatti, il paesaggio è res nullius, non un bene da salvaguardare, ma cosa di nessuno, da poter mortificare e persino annullare.

Se, dunque, negli anni settanta e ottanta, e in modo sempre più accelerato negli anni novanta, siamo passati dalla città compatta alla città estesa, che resta il modello urbano dominante, il tema ora è invertire la rotta. La sfida è passare dall’espansione alla manutenzione urbana. La stessa rigenerazione, come si dice, va inserita dentro un’azione paziente e più complessiva di manutenzione e di risanamento del territorio. Qualcosa di diverso - ma non per forza divergente - del rammendo o ricucitura urbana di cui parla Renzo Piano. Solo questo passaggio, tra l’altro, rende possibile avviare un’azione per il risanamento e la tutela del territorio e del paesaggio. Passare dall’espansione alla manutenzione presuppone leggi regionali, piani regolatori, piani casa, piani operativi coerenti con questo obiettivo. Il contrario di quanto avviene oggi. Infatti tutti concordano nel mettere uno stop o un freno al consumo di suolo, salvo poi mettere in atto comportamenti, a livello istituzionale, che sacrificano l’interesse generale sull’altare degli interessi di parte. Il fatto è che i cosiddetti “diritti edificatori” sono considerati intoccabili e persino gli abusi edilizi sono ancora tollerati da chi dovrebbe vigilare.

Nonostante le buone intenzioni e le belle parole è prevalente l’idea secondo cui tutto il territorio è urbanizzabile, negoziabile, edificabile. La rendita immobiliare e urbana si nutre di questa convinzione, che è l’esatto opposto di un’idea di programmazione. Così, grazie all’urbanistica “contrattata” tra amministrazioni locali e proprietari dei suoli (e costruttori) le aree urbane sono cresciute mediamente del 300%. Dal 2000 ad oggi sono stati cementificati circa tre milioni di ettari di terreno agricolo. Si sono realizzati milioni di nuovi alloggi, migliaia di super/ipermercati, decine di migliaia di nuovi km di strade. E’ stata l’apoteosi del cemento e dell’asfalto. Si è rinunciato a riconvertire spazi urbani inutilizzati o degradati, a intervenire prioritariamente sul patrimonio edilizio esistente, che dovrebbe essere recuperato e riqualificato – specialmente quello risalente a più di cinquant’anni, che rappresenta il 50% del totale -.

Il mito della casa

Contemporaneamente l’espansione urbana ha creato gravi distorsioni sul piano economico e sociale. Pensiamo al rapporto tra espansione e casa. L’espansione si è alimentata del mito della casa in proprietà, magari della villetta fuori le mura come indice di benessere, segno di un nuovo status raggiunto. E il mito della casa in proprietà è stato un grande incentivo all’espansione. Milioni di giovani coppie sono state indotte ad acquistare un appartamento impegnando, per 20-30 anni, metà del reddito familiare. Una scelta irrazionale, spesso avulsa da ogni serio ragionamento sul proprio futuro, specie in una situazione dominata da un percorso di vita e di lavoro molto accidentato. Molte giovani coppie hanno acquistato casa al di fuori di una obiettiva considerazione sul lavoro, che è sempre più mobile, e senza una valutazione sulle conseguenze che l’investimento sulla casa avrebbe avuto sugli altri consumi o, magari, sulla impossibilità di investire in direzioni più utili come, ad esempio, la pensione integrativa. Tutte cose sacrificate al mito della casa in proprietà.

Non voglio qui entrare nel merito della questione abitativa in Italia e dell’assenza di un mercato dell’affitto degno di questo nome. Voglio soltanto ricordare che l’espansione edilizia e urbana è stata funzionale a un’idea superata dell’abitare, non più adatta ai tempi moderni, ha finito sostanzialmente con l’ingrassare la rendita fondiaria e immobiliare. Non è un caso che il livello della rendita annua oggi in Italia si aggira intorno ai 400 miliardi di euro, cioè è quasi pari all’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. E nel sistema bancario l’ammontare dei mutui da estinguere è di circa 350 miliardi, con gravi sofferenze per milioni di famiglie – soprattutto quelle che hanno comprato negli ultimi dieci/quindici anni - che si sono indebitate per inseguire il sogno della casa, ma ora spesso non ce la fanno a onorare le scadenze. Il tutto, com’è evidente, è stato un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita. Soldi transitati dalle tasche dai redditi medi o medio-bassi ai redditi alti. Qui sta anche l’origine di tante e nuove diseguaglianze, ingiustizie, iniquità fiscali.

Abbiamo parlato dell’espansione e dei suoi effetti nefasti. Ma paradossalmente anche i processi di rigenerazione urbana possono diventare ulteriori regali alla rendita ed essere fonte di distorsioni se la progettazione degli interventi non è agganciata ad una corretta considerazione del contesto sociale e se prescinde dalle condizioni abitative o non tiene conto delle esigenze reali del territorio. E’ sempre presente infatti il rischio che la rigenerazione comporti la gentrification ovvero la sostituzione dei vecchi residenti con residenti più facoltosi. A parte alcuni esempi positivi, concentrati soprattutto nei quartieri pubblici (quelli delle case popolari), la rigenerazione produce effetti non sempre desiderabili in conseguenza della crescita dei prezzi immobiliari. A trarne vantaggio sono i ricchi, che così beneficiano anche degli investimenti pubblici, mentre gli altri, il più delle volte, devono abbandonare il campo.

Dal valore di scambioal valore d'uso

Quindi non basta soltanto un cambio di paradigma dall’espansione alla manutenzione. Il punto è spostare il baricentro dal “valore di scambio” al “valore d’uso”. Dalla mera ricerca del profitto, come si diceva una volta, a una maggiore attenzione verso gli interessi della collettività, a cominciare dai residenti e delle fasce sociali più deboli. La politica di manutenzione va sostenuta con forte determinazione, con provvedimenti urbanistici efficaci, con misure fiscali adeguate. Altrimenti è sempre la spinta del mercato a prevalere, in sostanza la spinta di chi ritiene più conveniente continuare a costruire ex novo. Il massimo che la lobby dei costruttori è disposta a cedere è la rottamazione/ricostruzione degli edifici più vecchi o fatiscenti – che in alcuni casi è pure necessaria – ma non è comprensiva né esaustiva delle politiche di manutenzione e rigenerazione urbana per come le intendiamo noi. Passare dal valore di scambio al valore d’uso negli interventi urbani significa, ad esempio, incorporare le nuove domande abitative nei processi di trasformazione; significa che i processi di rigenerazione non seguano solo la logica della “valorizzazione”; significa utilizzare e riqualificare gli spazi disponibili tenendo conto dei bisogni sociali effettivi. Significa migliorare i servizi. Tutto ciò è possibile solo con un prelievo sulla rendita urbana. Spostare il baricentro sul valore d’uso si può a condizione di restituire alla collettività, ai cittadini, una parte degli enormi guadagni di cui hanno beneficiato e ancora beneficiano i proprietari fondiari, i costruttori, le banche. Ci vuole una vera riforma fiscale, ma ancora non sappiamo se quella annunciata dell’attuale governo conterrà misure di equità, capaci di ridimensionare il peso e il ruolo della rendita finanziaria e immobiliare in Italia.

Un uso sapiente della leva fiscale potrebbe, invece, rimettere in sesto le dissestate finanze locali e consentire di trovare i finanziamenti per intervanti innovativi:

1. Con l’istituzione di un’imposta in grado di intercettare le plusvalenze immobiliari, il capital gain derivante dagli interventi di rigenerazione e, più in generale, dai programmi di riqualificazione urbana. Il Comune potrebbe così trovare le risorse da riutilizzare in un’opera continua di manutenzione, che non può essere una una tantum.
2. Ripristinando l’Imu sulla prima casa per le famiglie più facoltose, quelle che superano i sessanta – settanta mila euro.
3. Estendendo gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie anche alla messa in sicurezza degli edifici contro il rischio sismico o altre calamità naturali.

Naturalmente occorre sapere utilizzare bene – e senza dispersioni – anche i fondi europei a disposizione.

Per concludere, i processi di trasformazione urbana - e quelli di riqualificazione in particolare – hanno una stretta correlazione con i processi economici e hanno un impatto diretto sull’assetto sociale, sui rapporti di forza, sui nuovi equilibri che si determinano sul territorio. In una parola possono essere un fattore di rafforzamento della rendita urbana o diventare un fattore si sviluppo sostenibile. Dipende dalla capacità delle forze in campo.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 22 marzo 2015

Mentre all'orizzonte si scorge, finalmente, un compromesso accettabile per il Piano del Paesaggio della Regione Toscana (che sarà votato mercoledì prossimo nella forma uscita dal lavoro congiunto Regione-Mibact), si profila un pericolo ancora più grave per la Regione Umbria.

Sabato prossimo scadono, infatti, i termini entro i quali il Governo può impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale approvato dal Consiglio regionale dell'Umbria (legge regionale 1 del 2015). E ci sono ottimi motivi per il quale dovrebbe essere il Ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a proporre al Consiglio dei ministri di rivolgersi alla Corte.

Questo Programma è infatti finalizzato esclusivamente allo sviluppo economico, ma pretende di essere sovraordinato al futuro Piano Paesaggistico. In altre parole, quello stravolgimento del Piano in senso di consumo del territorio che i consiglieri toscani del Pd e di Forza Italia hanno fatto nella fase finale del lavoro delle commissioni del Consiglio Regionale, in Umbria si fa – più comodamente – prima ancora di scrivere il Piano. Fissando, cioè, a quest'ultimo un recinto ben preciso: stabilendo prima le esigenze (vere? clientelari? indotte da interessi privati, o addirittura corruttivi?) dello 'sviluppo' e solo dopo permettendo la tutela di quel che rimane. Un'idea di 'mani sul territorio' che viene ipocritamente fatta passare per 'valorizzazione' del paesaggio.

E i comuni umbri saranno addirittura obbligati a seguire il Programma Strategico (sovraordinato) e a disattendere il Piano Paesaggistico (sottoordinato), quando (prevedibilmente molto spesso) saranno in contrasto: insomma, corrompere le leggi per poi corrompere legalmente l'ambiente. E le stesse soprintendenze non avranno, in pratica, più gli strumenti per far applicare i vincoli, che saranno ridotti a mere invocazioni. Il delitto perfetto.

Tutto questo è illegale (contrasta frontalmente con gli articoli 135 e 143 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio), ma è soprattutto radicalmente incostituzionale. Perché rende carta straccia il secondo comma dell'articolo 9 della Costituzione («La Repubblica tutela il paesaggio ... della Nazione»), che essendo un principio fondamentale non può essere subordinato a nessun'altra esigenza. Non posso prima decidere cosa voglio cementificare e poi decidere cosa devo tutelare: devo fare esattamente il contrario, o sono fuori dalla Costituzione.

In pratica si vede già quale sarà il primo caso di applicazione di questo scempio giuridico: la solita Orte-Mestre, l'inutile autostrada di 400 km promossa dal politico del Nuovo Centro Destra Vito Bonsignore (indagato nell'inchiesta di Firenze), e finanziata con uno sgravio fiscale di 2 miliardi e mezzo di euro dallo Sblocca Italia Renzi-Lupi.

In Umbria – che ne sarà integralmente attraversata, da sud a nord - a gennaio 2014 (mentre si lavorava a questa legge) il Consiglio regionale si pronunciò a favore, bipartisan: FI e PD all'unisono. Ormai sta emergendo che – oltre al consumo di suolo e al devastante scempio paesaggistico del 'cuore verde' d'Italia – i cittadini e le imprese umbri ne sarebbero robustamente penalizzati a causa dei pedaggi per remunerare il concessionario. Va cadendo la favola che ne potrebbero essere esenti: il diritto europeo non tollera queste 'discriminazioni'. Ma la prevalenza del Piano Strategico Territoriale sul Piano Paesaggistico Regionale, aprirà un'autostrada giuridica alla autostrada di cemento di Bonsignore.

Come nel caso del Piano toscano, solo un forte movimento di opinione può costringere il Partito Democratico a ricordasi di non essere (ancora) del tutto identico a Forza Italia. Solo così possiamo sperare di salvare il futuro dell'Umbria.

Poco a poco emerge il vero scandalo: non è l'affollamento di marioli nel palcoscenico della politica, ma il fatto che si decidano opere che non servono a vivere meglio e far funzionare meglio il territorio, ma solo ad arricchire i corrotti. Un servizio di Giorgio Meletti e un commento di Marco Ponti. Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2015

INFINITE E COSTOSE
ECCO LE OPERE INUTILI A SPESE DEICITTADINI
di Giorgio Meletti

Da Orte-Mestre a Expo: i progetti che non hanno mai sentito la crisi, finanziati da tutti i governi

L’ arma retorica è sempre la stessa, il “partito del no” come male assoluto. Meno di un mese fa Raffaella Paita, candidata Pd alla Regione Liguria, l’ha sfoderata per difendere il Terzo Valico, una ferrovia inutile che da 35 anni fa sognare il partito del cemento. “Quando una forza di sinistra dice no al Terzo Valico fa una cosa di destra”. Errore blu. Nessuno a destra dice no al Terzo valico. A meno che non si sostenga che la Procura di Firenze abbia fatto una cosa di destra arrestando il capo del “partito del sì”, Ercole Incalza.

In attesa del vaglio giudiziario sulla sua presunta corruzione, sotto processo insieme alle persone fisiche ci sono proprio le grandi opere. Non perché in esse si può essere annidato il ma- laffare, ma proprio perché è il malaffare – stando ai primi risultati dell’inchiesta fiorentina – a farle decidere e progettare. E soprattutto a farle piacere ai politici, di destra, centro e sinistra: quando c’è da far colare cemento dissanguando le casse dello Stato vanno sempre d’accordo. I pm di Firenze indicano gli scempi con nomi e cifre. Dei progetti indagati ce ne sono quattro fondamentali.

I LAVORI PER L’EXPO di Milano, un paio di miliardi già spesi, rappresentano plasticamente il primo cancro dei lavori pubblici all’italiana: i tempi infiniti. Ormai è tardi per dare lo stop, ma è tardi anche per l’Expo: inizia a maggio e i padiglioni dell’esposizione non saranno pronti. La disperata accelerazione finale dei cantieri fa impennare i costi, ed è il secondo cancro. Terminare i lavori per l’Expo dopo l’Expo sarà l’apoteosi dell’inutilità, il terzo cancro.

IL TERZO VALICO è affetto da tutti e tre i cancri. Tempi biblici: l’opera fu annunciata come necessaria e urgente nel 1982 dai presidenti di Lombardia e Liguria, Giuseppe Guzzetti e Alberto Teardo. Il primo è oggi padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Il secondo, antesignano del craxismo disinvolto, fu arrestato poco dopo il fatidico annuncio.

Infatti il Terzo Valico porta male. Dopo Teardo sono finiti in galera quasi tutti i principali tifosi della grande opera inutile, da Luigi Grillo (democristiano, poi berlusconiano, infine alfaniano, per anni presidente della commissione Lavori pubblici del Senato) a Claudio Scajola. L’opera piace anche a sinistra: prima di Paita l’ha sostenuta per vent’anni il governatore uscente della Liguria, Claudio Burlando. La grande opera non cammina senza accordi trasversali: tutti si danno ragione e rispondono con le supercazzole a chi osi chiedere perché si butti tanto denaro per niente. Adesso tocca a Matteo Renzi metterci la faccia e dire se ha senso spendere 6,2 miliardi per una ferrovia di una sessantina di chilometri che collegherà il porto di Genova con la ridente Tortona. Dicono che servirà a far defluire meglio i container dal porto di Genova, ma non spiegano perché spendono 60 milioni a chilometro per una ferrovia ad alta velocità: vogliono mandare i container a 300 all’ora? Ecco il quarto cancro: progetti vaghi, approssimativi.

IL TUNNEL SOTTO FIRENZE dell’alta velocità ferroviaria ha un costo previsto di 1,5 miliardi ed è simbolo della progettazione alla speraindio. Tanto che l’inchiesta da cui scaturisce l’arresto di Incalza parte dalla Italferr, società di progettazione di Fs. Nel settembre 2013 hanno arrestato la presidente Maria Rita Lorenzetti, politica ammanigliatissima che si vanta nelle intercettazioni di poter mettere tutto a posto grazie ai rapporti con Incalza. E da mettere a posto c’era un progetto che fa acqua da tutte le parti per un’opera voluta a tutti i costi dopo decenni di dubbi sulla sua fattibilità. L’hanno fermata i magistrati un anno e mezzo fa.

LA ORTE-MESTRE è affetta da tutti i quattro cancri già detti più un quinto, il peggiore: il project financing, la finzione del finanziamento privato che serve solo a rinviare alle prossime generazioni la presentazione del conto. Come dimostra il caso Brebemi, se si consente ai privati di farsi prestare i soldi da banche che pretendono e ottengono la garanzia dello Stato, è chiaro che il rischio dell’operazione pesa sul contribuente. Se, come nel caso della Brebemi, l’affare va male, lo Stato viene chiamato a pagare tutto. La Orte-Mestre - figlia del centro-destra veneto e della sinistra emiliana guidata da Pier Luigi Bersani - costerà 10 miliardi, due dei quali pubblici. Sugli otto miliardi privati c’è garanzia dello stato? Il promotore Vito Bonsignore (uomo Ncd con amicizie trasversali) giura di no. Ma i documenti che potrebbero rassicurare i contribuenti sono segretati, perché così vogliono le sacre regole del project financing. Scritte dal loro profeta, Incalza.

LE VERE COLPE DEL MINISTERO
SPRECARE MILIARDI
È ANCHE PEGGIO CHE RUBARE
di Marco Ponti

Forse non hanno rubato niente. Ma hanno fatto danni economici molto più gravi al Paese, ai contribuenti e agli utenti delle infrastrutture. Consideriamo la “madre di tutti gli sprechi”, l’alta velocità ferroviaria (AV). Le stime variano, ma i sovracosti rispetto ai preventivi sono stati dell’ordine del 100%. C’è da credere che un manager privato che sfori il preventivo di un investimento del 30% sia rapidamente accompagnato alla porta dal padrone furioso, ma non succede lo stesso nel settore pubblico, sembra.

PARTE DI TALI SOVRACOSTI sono frutto di una nobile iniziativa ambientalista: richiedere alle linee AV pendenze e curvature che consentano il transito anche dei treni merci, ha comportato un sovracosto almeno del 30%, così il progetto accanto alla sigla AV ci ha potuto mettere anche AC (per Alta Capacità), a futura memoria. Peccato che treni merci in grado di viaggiare ad alta velocità non esistono. E se ci fossero sfascerebbero i binari. Poi la Regione Toscana, con uno sforzo di fantasia veramente incredibile, ha chiesto ed ottenuto che le gallerie tra Firenze e Bologna consentissero anche il transito di treni merci supervoluminosi (sagoma C++), dilatando ulteriormente, e di molto, i costi per quella tratta.

Se qualcuno però avesse dubbi sull’ordine di grandezza di tali extracosti, esiste la famosa analisi comparativa del Sole 24 Ore tra la linea Milano-Torino, e una analoga linea AV di pianura in Francia (non in Bangladesh): i costi sono risultati quadrupli. Basta vedere gli infiniti sovrappassi stradali, che collegano risaie con altre risaie. Ogni tanto vi transita qualche veicolo. Ma purtroppo la linea ferrovia- ria è rimasta quasi deserta: vi passa poco più del 10% del traf- fico che potrebbe sostenere (40 treni al giorno su 330 circa di capacità). E questo con tariffe che coprono probabilmente appena i costi di esercizio della linea, ma nemmeno un euro degli 8 mi- liardi circa che l’investimento è costato ai contribuenti. Se le tariffe, come per le autostrade, do- vessero coprire una quota di qualche consistenza dell’investimento, e quindi essere molto più alte delle attuali, non vi passerebbe nessun treno, a riprova di quanto poco i viaggiatori siano in realtà disposti a pagare per quel servizio.
Ma nessuno ha risposto per questo folle spreco dei nostri soldi. Anche le autostrade deserte sono uno spreco, ma nei peggiore dei casi gli utenti ne pagano il 60%, che è diverso dallo 0% per la linea di AV presa ad esempio. Però adesso anche nelle autostrade, meno micidiali per i contribuenti, provano a spremere gli utenti rendendo a pedaggio strade che prima non lo erano, come la Tirrenica, e che hanno un traffico modesto.

NEL CASO DI TUTTE LE INFRASTRUTTURE, occorre fare sempre congetture, rischiando di prendere cantonate: le ferrovie non hanno obblighi di fare analisi trasparenti ex-ante, né economiche e neppure finanziarie (toccherebbero al ministero dei Trasporti, che però non le fa). Ma non fa neppure analisi ex-post, per analizzare come i soldi dei contribuenti sono stati spesi. E i piani finanziari delle concessioni autostradali sono addirittura secretati per legge. Queste sono responsabi- lità gravissime del ministero dei Trasporti. Da sempre: la situazione non è cambiata da quando vi lavora l’ingegner Ercole Incalza, che, si ripete, forse non ha rubato nemmeno un euro.

Guardiamo ancora i numeri: solo per la linea AV Milano-Torino sono stati sprecati 6 miliardi (probabilmente di più: dato il traffico, bastava velocizzare la linea esistente). La letteratura sulle tangenti parla di un massimo del 10% (a chi scrive, ex-consulente delle ferrovie, era stato detto in via confidenziale un più modesto 6%, ma era la sola quota per i politici). Sarebbero 800 milioni di tangenti. Molto meglio allora le tangenti che le progettazioni sovradimensionate al di là di ogni logica. Se poi va male, i corrotti a volte li prendono.

Chi decide, pianifica, finanzia e approva grandi opere inutili non dovrà rispondere mai, farà anzi probabilmente carriera, e si farà legittimamente molti amici, tra i costruttori e nella sfera politica, che serve ai tecnici per passi successivi di carriera. Ma il consenso e le amicizie si estendono anche alla sfera sindacale, che ha sempre appoggiato grandi spese, si spera solo per motivi occupazionali.

BUTTAR VIA soldi dei contribuenti per comprarsi il consenso è storia antica: in America ha persino dei nomi tecnici: “pork-barrel policy”, “revolving doors”, “logrolling”. Ma buttarli via quando son scarsi, e servono a bisogni sociali essenziali, è un po’ più difficile da accettare. L’ex ministro Maurizio Lupi, sicuramente in buona fede, ha dichiarato: “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà”. Era un convegno del Pd sulle ferrovie. Applausi scroscianti.

Una nota dell’associazione “Venezia Cambia 2015”, del 20 marzo 2015, e una di Luigi Scano del 26 agosto 2001, che è interessante leggere oggi perché racconta come e chi “liberò” le Procuratie vecchie dai vincoli del PRG

Newsletter Venezia Cambia 2015
GIÙ LE MANI DALLE PROCURATIE VECCHIE
di Giampiero Pizzo

Venezia Cambia 2015 ha sventato l'altro ieri il tentativo dei vertici del Comune di svendere le Procuratie Vecchie.

I Direttori delle Direzioni Affari Generali, Patrimonio e Urbanistica hanno redatto e presentato alla Municipalità di Venezia un accordo vergognoso, sottoscritto dal Commissario Zappalorto e dalle Assicurazioni Generali; un accordo con il quale si apprestavano ad adottare una variante urbanistica per la rimozione del vincolo d’uso pubblico gravante sulle Procuratie Vecchie di Piazza San Marco. Si tratta di una decisione che avrebbe consentito, ancora una volta (non è bastato il regalo a Miuccia Prada?) e su ampia scala, la trasformazione in abitazioni di lusso, a fronte di pochi denari per le casse comunali, di un bene comune insostituibile. Il danno per la Città e per l’erario sarebbe enorme.

Il nostro intervento, durante il consiglio della municipalità di Venezia, e i puntuali rilievi di Venezia Cambia 2015 hanno indotto il Commissario a non procedere (va ricordato che la delibera di adozione della variante urbanistica era già stata pubblicata in bozza assieme all’accordo sul sito del Comune) e ad attendere il prossimo Sindaco per ogni decisione in merito.

Venezia Cambia 2015, indignata per la superficialità, l’opacità e per le omissioni dell’accordo, prende sin d’ora le distanze da qualsiasi candidato Sindaco che intenda avallare simili operazioni lesive dell’immagine dell’Amministrazione Comunale. Si tratta di un tentativo grave: per questo Venezia Cambia 2015 propone la rimozione dei tecnici che hanno redatto con tanta incompetenza questo vergognoso documento a spese della città. Vogliamo sperare che il silenzio di tanti politici di lunga data in merito a questa vicenda sia solo dovuto ai troppi impegni pre-elettorali: altrimenti la loro distrazione sarebbe allarmante e imperdonabile.

La nostra Città ha ora più che mai bisogno di onestà e di azioni cittadine come queste; dobbiamo insieme contrastare i bassi e vili interessi di pochi che minano il vivere comune e che pregiudicano il futuro comune.

Venezia vive, Venezia è salva se i suoi cittadini non si arrendono.

La Nuova Venezia, 26 agosto 2001
L’ASSOCIAZIONE POLIS
SULLE PROCURATIE VECCHIE

di Luigi Scano

Le Assicurazioni Generali intendono realizzare nelle Procuratie Vecchie venticinque appartamenti prestigiosissimi e costosissimi. Il Sindaco Paolo Costa ne è contrariato, e pensa di utilizzare le risorse di persuasione morale di cui dispone per indurre le Assicurazioni Generali a rinunciare, graziosamente, all’intento. Del quale sono preoccupati e scandalizzati l’Assessore all’edilizia privata Paolo Sprocati, il Rettore dell’Istituto universitario di architettura Marino Folin, il Direttore dei Civici musei Giandomenico Romanelli, e altri illustri personaggi. I quali tutti, così come il Sindaco, muovono dall’assunto che il progetto delle Assicurazioni Generali sia perfettamente conforme alle disposizioni dei vigenti strumenti urbanistici. La qual cosa è vera, quantomeno per quel che riguarda la possibilità di attivare nelle Procuratie Vecchie un’utilizzazione per abitazioni ordinarie, cioè per comuni appartamenti monofamiliari: ma non sempre è stato così.

Nel piano regolatore per la città storica messo a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della “giunta rosso-verde” diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), e adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno), nelle “unità edilizie speciali preottocentesche a struttura modulare”, tra le quali erano classificate le Procuratie Vecchie, non compariva tra le utilizzazioni compatibili quella, appunto, per abitazioni ordinarie. In altri termini, non si sarebbero potuti realizzare, nelle Procuratie Vecchie, così come, per esempio, nelle Fabbriche Nuove di Rialto, o nel Palazzo dei X Savi, normali appartamenti.
Quello strumento urbanistico fu, dopo il 1993 (all’epoca della giunta diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino) diffusamente e rozzamente rimaneggiato, soprattutto per eliminare i “lacci e laccioli” posti al libero dispiegarsi delle attività economiche. Ne sortì il nuovo piano regolatore per la città storica, adottato alla fine del 1996. Esso da un lato ammise il mutamento dell’uso da quello in atto, compreso quello abitativo ordinario, a un altro uso, in tutte le unità edilizie, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 120 metri quadrati: cinque o sei mesi fa sui giornali locali si ravvisarono e si dibatterono gli esiti nefasti di tale innovazione in termini di sottrazione di infinite unità immobiliari al loro uso originario e più autentico. Da un altro lato inserì l’utilizzazione per abitazioni ordinarie fra quelle compatibili nelle “unità edilizie speciali preottocentesche a struttura modulare”, nelle quali una tale utilizzazione non aveva mai avuto storicamente luogo.
L’osservazione al nuovo piano presentata dall’associazione Polis, tendente a ripristinare, in questi come in altri casi, le disposizioni del piano del 1990-1992, non fu accolta dal consiglio comunale, la cui maggioranza, com’è noto, era composta dalle stesse formazioni politiche che costituiscono la maggioranza odierna. E Paolo Costa, Paolo Sprocati, Marino Folin, Giandomenico Romanelli, e gli altri illustri personaggi dianzi citati, dov’erano all’epoca? avessero almeno battuto un colpo!

a Repubblica, 20 marzo 2015

IL LIMITE di trecento metri dal mare non basterà. Gli ampliamenti degli alberghi lungo le coste non sarà consentito neppure a quella distanza, se oggi passerà a Roma la cosiddetta “linea Marson”, l’assessore toscano che ha firmato la prima versione del Piano del paesaggio che da martedì è in revisione al ministero dei Beni culturali. Per Enrico Rossi oggi sarà il quarto giorno consecutivo a Roma dedicato all’ultimo atto politico della legislatura.

Il governatore chiuso in una stanza del ministero dei Beni culturali con Marson e i tecnici di Dario Franceschini, sta rileggendo ad alta voce punto per punto il Piano che andrà in consiglio regionale per il voto definitivo il 25 marzo. Oggi pomeriggio il governatore tornerà di nuovo dal ministro per gli ultimi aggiustamenti al testo che saranno esaminati nel weekend e confrontati con i vincoli contenuti nel Codice dei beni culturali. Lunedì Franceschini dovrebbe dare il via libera al documento che in consiglio approderà in una versione decisamente “riveduta e corretta” rispetto a quella che era uscita dall’ultima seduta della commissione Ambiente, dove erano stati approvati gli emendamenti firmati da Ardelio Pellegrinotti e Matteo Tortolini del Pd.

Due i punti più controversi su cui Rossi è dovuto intervenire per cercare un compromesso onorevole tra l’impianto rigoroso della Marson e le modifiche dei Democratici, considerate ormai troppo “spinte” anche dallo stato maggiore del Pd toscano. Il primo riguarda le strutture ricettive vicine al mare: se sulle spiagge ogni tipo di allestimento non rimovibile era già vietato, adesso il ministero sembra orientato a bloccare anche eventuali aumenti di volume anche di hotel a trecento metri dalla riva, un limite che interessa in particolare gli operatori della Versilia. E l’altro capitolo in discussione, forse il più delicato, è quello delle cave di marmo sulle Apuane. Sopra i 1.200 metri non saranno permessi ampliamenti delle attività in funzione se non a certe condizioni e sembra difficile che possa passare la novità delle riaperture di miniere dismesse e abbandonate. Su questo le polemiche erano già state molto vivaci in consiglio e l’assessore Marson si era detta contraria alla modifica del Piano.

Rossi continua a inseguire una mediazione. Su twitter spiega che «nessuna cancellazione del lavoro fatto nella commissione » sarebbe stato fatto e parla di una «revisione degli elaborati, una risistemazione delle sue parti e un’ultima verifica di conformità al Codice dei beni culturali. Insomma nessuna smentita per nessuno ma un lavoro serio e collaborativo». Rossi posta anche una foto in cui si vede la stanza in cui il Piano viene letto ad alta voce.

Raccontano che Franceschini abbia fatto pure una battuta su tutta questa mobilitazione sul Piano, rivolgendosi a Marson: «Assessore, lei ha messo d’accordo Settis, Asor Rosa, Repubblica e Corriere della Sera. A questo punto cosa può fare un ministro?», ha detto sorridendo. «Ho le mani legate».

Un titolo a effetto, ma una realtà inquietante. «Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti” “Molti militanti subiscono senza reagire le scorribande dei capibastone”. Orfini: purtroppo questa è la verità». Roma è piena di lupetti. La Repubblica, 19 marzo 2015

Un partito «non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini». Un partito che, anche quando funziona, «subisce inane lo scontro correntizio e le scorribande dei capibastone». È impietosa la fotografia che Fabrizio Barca ha scattato al Pd Roma, spedito nei circoli dal commissario Matteo Orfini dopo l’esplosione dell’inchiesta Mafia Capitale.

In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo «per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un gruppo , quest’ultimo, che Dante avrebbe ben inserito fra gli ignavi.

All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dormiente dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù.

Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma non sarebbe stato commissariato».

Riferimenti

Il "rapporto intermedio" si puó leggere nel blog di Fabrizio Barca

«Se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza».

In molti paesi le donne hanno assunto un ruolo determinante nelle economie nazionali, ma il tema di come la forma della città ed il paesaggio urbano tengano conto dell’universo femminile difficilmente viene affrontato. Se l’organizzazione spaziale delle città tende ad assumere le stesse caratteristiche che si riscontrano nella struttura sociale, se essa è stata modellata a misura del genere dominante, se il modo in cui le donne vivono e si muovono al suo interno si differenzia in relazione al diverso ruolo che esse ricoprono nella società, se quindi, almeno a livello simbolico, essa continua ad essere lo spazio degli uomini e implicitamente, la casa quello delle donne, ci si potrebbe domandare come possa diventare più attenta ai bisogni dei suoi abitanti semplicemente favorendo l’opera di architette, ingegnere e urbaniste.

La domanda è stata recentemente posta da articolo del Guardian a proposito della mostra Urbanistas: women innovators in architecture, urban and landscape design, e la risposta che se ne trae è tutto sommato positiva. L’esposizione riguarda l’opera di cinque professioniste selezionate, la cui appartenenza al genere femminile sembra essere rappresentata ancora una volta dalla dimensione della cura. Fare dello spazio pubblico un valore sociale, non sprecare prezioso suolo urbano, dare importanza alle questioni climatiche ed ecologiche che riguardano il modo in cui mutano le città, avere insomma un approccio soft (e conservativo) alla pianificazione sarebbe ciò che le differenzia dalla visione hard (e distruttiva) dei loro colleghi maschi, ritenuta implicitamente responsabile di molti dei problemi che riguardano le trasformazioni urbane.

Se da un lato l’esperienza delle Urbanistas, nell’ambito della pratica professionale corrente, si differenzia perché farebbe della connotazione di genere uno strumento con il quale pensare in maniera differente allo spazio urbano, dall’altro si deve però constatare che una approccio così parziale, solo legato alla dimensione del progetto, non riesce a diventare un programma per condizionare i processi di trasformazione urbana da una prospettiva di genere. Cosa che non si limita affatto alle professioniste dell’ambiente costruito, più o meno in grado di imporre nell’esercizio della loro professione la centralità di temi che si da per scontato i loro colleghi maschi ignorino.

Kate Henderson, la direttrice della Town and Country Planning Association, ha dichiarato qualche tempo fa di avere spesso modo di sentirsi isolata, in quanto ad appartenenza di genere, nel contesto professionale in cui opera. D’altra parte a decidere sul corpo delle città sono principalmente gli uomini, dato che la politica è un ambito ancora fortemente dominato dal genere maschile, malgrado il crescente numero di donne in posti di comando. Nella polis, così come nella città, il pensiero e l’opera delle donne continuano ad essere poco influenti, anche se da tempo le professioni dell’ambiente costruito attingono dal genere femminile.

Nello spazio pubblico i corpi femminili sono purtroppo ancora relegati nell’immaginario della domesticità o ancorati al desiderio sessuale maschile e tutto ciò è considerato normale, basta percorrere le strade di una città qualsiasi. Non è certo una novità che il corpo femminile sia utilizzato per finalità commerciali, ma che sia possibile evitare questa interferenza con il paesaggio urbano, soprattutto se essa finisce per rafforzare i peggiori stereotipi di genere, lo prova la decisione della città di Grenoble di rinunciare ai proventi derivanti dalla cartellonistica pubblicitaria.

La recente proposta di regolamentare la prostituzione di strada nel quartiere dell’EUR a Roma - non a caso un ambito della città a forte specializzazione funzionale che sta facendo i conti con la fallimentare gestione urbanistica delle sindacature di Veltroni e Alemanno - rappresenta molto bene quanto il vecchio immaginario maschile, che associa prostituzione a degrado, sia diventato l’argomento che consente di non prendere in considerazione i veri problemi di quell’area. C’è una evidente ipocrisia nel far credere all’opinione pubblica che la priorità sia mettere ordine nella situazione attuale, già dominata dalla forte presenza di prostitute, e non affrontare le conseguenze di scelte urbanistiche che hanno lasciato in eredità una serie di contenitori non finiti, come la Nuvola sede del Nuovo Centro Congressi, o abbandonati, come nel caso del vecchio parco di divertimenti Luneur.

La questione centrale che ancora va posta a chi decide sulle città, è quella a cui rimanda la vicenda del cosiddetto “quartiere a luci rosse”, con il suo connubio di fallimenti urbanistici e di degrado generato dalla città pensata per funzioni separate. Il tema, che è stato affrontato da Dolores Hayden nel 1980 in What Would a Non sexist City Be Like?, è quello dell’integrazione, rispetto al quale le domande da porsi restano la differenze funzionali e percettive della sua struttura e come essa riesca a rappresentare i suoi differenti abitanti. Hayden, da urbanista, riconduce la questione del sessismo insito nell’organizzazione urbana ai suoi aspetti spaziali, riconoscendo tuttavia che il problema è politico, nel senso più pieno del termine. Il saggio, che ha evidenziato la necessità di considerare lo spazio costruito non più secondo le categorie rigide, contiene una serie di soluzioni progettuali in grado di superare la separazione tra abitazioni e luoghi di lavoro. L’intento è di scardinare le basi dello sviluppo urbano contemporaneo al di là di un diverso progetto spaziale: sono le basi sociali ed economiche, che affidano alle donne il lavoro domestico non retribuito, a dover essere radicalmente trasformate.

In sintesi, se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie - per dirla con Simone de Beauvoir – non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza, nemmeno se essi ricordano parti del corpo femminile come nel caso del progetto di Zaha Hadid per lo stadio dei mondiali di calcio in Qatar. Il punto centrale resta il diverso progetto spaziale a patto che il suo ordinamento sociale sia radicalmente trasformato a partire dal ribaltamento della visione che l’ha fin qui dominato. Senza ipocrisie e moralismi.

Riferimenti
L. Bullivant, How are women changing our cities?, The Guardian, 5 marzo 2015.

«Comunali. Casson vince le primarie con il 55,6%. Un’indicazione forte contro la politica vecchia e poco trasparente. Quella stagione va chiusa. Giochiamo insieme per vincere». Intervista di Ernesto Milanesi al candidato sindaco del PD veneziano. Il manifesto, 17 marzo 2015

A furor di popolo, cam­biando verso anche al Pd del Naza­reno. Felice Cas­son è il can­di­dato sin­daco del cen­tro­si­ni­stra a Vene­zia. Dome­nica ha trion­fato nei sestrieri quanto nelle isole e in ter­ra­ferma: 7.168 pre­fe­renze che val­gono il 55,62%. Il gior­na­li­sta Nicola Pel­li­cani non è andato oltre i 3.147 voti (24,42%) e Jacopo Molina, l’ultrà di Renzi, si è fer­mato a 2.573 (19,96%).

Un suc­cesso cla­mo­roso, nitido e poli­ti­ca­mente ine­qui­vo­ca­bile. Alle Pri­ma­rie hanno par­te­ci­pato in quasi 13 mila, come nella con­sul­ta­zione di cin­que anni fa e quindi in asso­luta con­tro­ten­denza. La pro­po­sta di “alter­na­tiva in Comune” ha con­vinto la stessa base del Pd, che esige di girare pagina dopo lo scan­dalo Mose. Infine, con Cas­son si con­ferma l’«anomalia» di Vene­zia nei con­fronti della vec­chia guar­dia Ds quanto della “rot­ta­ma­zione” senza com­pli­menti.

Ma è già tempo di orga­niz­zare la cam­pa­gna elet­to­rale “vera”: altri due mesi di incon­tri, con­ve­gni, dibat­titi sem­pre nel solco trac­ciato al momento della can­di­da­tura. Cas­son, 61 anni, è rico­no­sciuto per il pro­filo estra­neo alle logi­che di lobby e salotti. Da magi­strato si è occu­pato di Gla­dio, Tan­gen­to­poli, Petrol­ki­mico e incen­dio della Fenice. Da sena­tore è fra i dis­si­denti Pd e ha voluto Cor­ra­dino Mineo al suo fianco nelle pri­ma­rie. Da appas­sio­nato di basket, sa bene quanto pesano fidu­cia e disci­plina nel gioco di squa­dra.

Dome­nica sera, ha stap­pato la bot­ti­glia del suc­cesso final­mente con un bel sor­riso. E ieri si è risve­gliato… più Felice, anche se già impe­gnato dalle prime riu­nioni come can­di­dato sin­daco dell’intera coa­li­zione. «Abbiamo segnato un bel cane­stro da tre punti, ma dob­biamo tutti insieme gio­care per vin­cere la par­tita che vale Ca’ Far­setti» com­menta.

Chiusa la com­pe­ti­zione delle Pri­ma­rie, qual è il clima?
«Voglio rin­gra­ziare Pel­li­cani e Molina, per­ché si sono subito dimo­strati più che dispo­ni­bili a col­la­bo­rare. Una dimo­stra­zione di quanto il cen­tro­si­ni­stra a Vene­zia sia unito. E mi hanno fatto pia­cere i mes­saggi e le tele­fo­nate che ho rice­vuto dai ver­tici del Pd, dal governo, da sin­daci come Igna­zio Marino».

Cas­son can­di­dato sin­daco, nono­stante Renzi?
Ma no, per carità. Renzi, cor­ret­ta­mente, non è inter­ve­nuto e nem­meno avrebbe potuto. E il Pd sa benis­simo che sono ele­zioni ammi­ni­stra­tive…

Dun­que, qual è la let­tura giu­sta di que­ste Pri­ma­rie?
Un’indicazione espli­cita, forte e per­fino natu­rale con­tro l’apparato della poli­tica vec­chia e soprat­tutto poco tra­spa­rente. Ad ogni ini­zia­tiva pub­blica, i cit­ta­dini lo mani­fe­sta­vano con­ti­nua­mente: vole­vano cam­biare, sul serio e senza più dele­ghe in bianco. La vicenda, giu­di­zia­ria e non, legata al Mose ha lasciato un segno inde­le­bile: la città ha biso­gno di chiu­dere quella sta­gione con una poli­tica dav­vero diversa.

I cas­soni del Mose, ormai, sono pronti…
Nel 2017, secondo gli ultimi annunci, dovrebbe anche comin­ciare a fun­zio­nare. Ma restano sem­pre aperte le que­stioni legate da un lato agli effet­tivi costi di gestione del Mose e dall’altro alla manu­ten­zione delle 78 para­toie fra il Lido e Chiog­gia, che esi­ge­ranno ulte­riori ingenti risorse.

Una “ver­tenza Vene­zia” con il governo?
Diventa indi­spen­sa­bile un “patto con la città”. Da palazzo Chigi dovranno venire a Vene­zia, per­ché oltre al Mose c’è il bilan­cio da far qua­drare (e non certo sulle spalle dei dipen­denti comu­nali e dei cit­ta­dini) insieme al futuro della città più bella del mondo, che neces­sita di cer­tezze da Roma.

Grandi Navi: un altro tema che con­trap­pone il turi­smo di massa alla sal­va­guar­dia della laguna. Che si fa?
L’ho detto subito, pre­sen­tando il pro­gramma. Lo scavo del Canale Con­torta non solo è una distru­zione che va anche con­tro la legge dello Stato, ma sarebbe un’opera sba­gliata dal punto di vista dell’assetto idro­geo­lo­gico. È ciò che, per altro, abbiamo sem­pre soste­nuto quando ci si accu­sava di essere quat­tro gatti con la voca­zione del “Signorno”. Prendo atto volen­tieri che già nelle Pri­ma­rie non era­vamo più soli. E aggiungo che occorre pren­dere una deci­sione in tempi rapidi, ma non sulla testa di Vene­zia…

Il can­di­dato del cen­tro­si­ni­stra che vuol diven­tare sin­daco cosa garan­ti­sce in ter­mini di discon­ti­nuità con il pas­sato?
Pre­messa: non mi sono mai sognato di soste­nere che negli ultimi vent’anni Vene­zia è stata male ammi­ni­strata dal cen­tro­si­ni­stra. Se mai, ci sono stati alcuni che non lo hanno fatto bene. Di certo in giunta ora potrà sedersi solo chi si impe­gna ad ammi­ni­strare a tempo pieno: nes­suno ordina di fare l’assessore e quindi biso­gna dav­vero dedi­carsi a Vene­zia, non un paio di giorni alla set­ti­mana. E viene altret­tanto facile inter­pre­tare la volontà dei cit­ta­dini: addio al manuale Cen­celli, alle logi­che di par­tito o peg­gio ancora di cor­rente. A Ca’ Far­setti ci sarà posto solo per le com­pe­tenze, il merito, la pro­fes­sio­na­lità e la mas­sima trasparenza.

Il paesaggio tutelato dal Codice dei Beniculturali è a rischio, sia che governi la destra sia che governi la sinistra,nel Paese e nelle Regioni. La Sardegnanon fa eccezione, come dimostrano le vicende recenti.

L' isola si era data una legge urbanistica nel1989, frutto di un appassionato dibattito al tempo del governo di sinistrapresieduto dal sardista Mario Melis. Un passo lungo, qualche innovazioneardita. Come la tutela della fascia dei300 mt dal mare resa inedificabile, il raddoppio della estensione del vincoloposto negli anni '70. Non era scontato. Il confronto nei partitidella sinistra era titubante. Il Pci/Pds nche in Sardegna, guardava, a coninteresse agli argomenti del movimento ambientalista. Ma restava affezionato alla tesi“sviluppista” incline al compromesso (gli accordi in deroga saranno alla basedel naufragio della pianificazione delpaesaggio del 1993).

Dal 2006 la Regione ha un piano paesaggistico(Ppr), ancora per volontà di una maggioranza di sinistra guidata da RenatoSoru. Bella sfida per allineare l'isola al Codice dei beni culturali e delpaesaggio. Il piano fu approvato molti di quelli che avevano condiviso ilpiano tentassero di impedirnel’approvazione definitiva. Da qui ledimissioni del presidente Soru, allora sottovalutate.
Dopo di ciò Cappellacci, uomo di Berlusconi e da questi pesantementesponsorizzato, ha provato a buttare via tutto. Fortunatamente senza successoperché il Ppr, nonostante la virulenza dell'azione, ha resistito agli assaltied è ancora in vigore. Ma la coalizione di destra il segno lo ha lasciato,approvando nel 2009 il piano casa. Una legge destabilizzante il quadro dei vincoli, specialmente nei
litorali, pensata per favorire i grandi speculatori al riparo dell'espediente lessicale per richiamare il bisogno di case dei meno abbienti.

All'epoca tutti gli esponenenti dell'opposizione di sinistra dichiaravano guerra al “piano villetta”, “inutile”, “grande inganno”, “fuorviante”,“illegittimo”, ecc. Totale la condanna del fai-da-te innescato dalle deroghe, fonte di guai per l'isola. Evocavano i tanti casi di compromissione del patrimonio ambientale/paesaggistico, contro lo sviluppo durevole della Sardegna, da perseguire caso mai con strategie e norme lungimiranti. Magari con semplificazioni e accelerazioni delle procedure, spiegavano. Mai con le eccezioni alle regole.

Da un anno la sinistra è tornata al governo della Regione. E la sua azione sembra ora contraddire scelte del passato acquisite e difese fino a ieri. La crisi è continuamente evocata; e per dare risposte al disagio delle imprese edili si è pensato di guardare con più indulgenza ai pessimi programmi della destra. Obiettivo la riedizione meno indigesta del “piano casa” , tenendo nello sfondo quello di Cappellacci, che era stato pensato allora soprattutto per ridurre il livello esemplare di tutela deciso nel 2006 ( Cfr. E. Salzano, Lezioni di Piano, Corte del Fòntego editore, Venezia 2013). Le conseguenze sonotutte immaginabili, basta dare un'occhiata al testo approvato dalla commissione consiliare qualche giorno fa, ancorapiù permissivo di quello della Giunta. Il complesso delle previsioni consente incrementi percentuali di volumi in tutte le zone omogenee, dai centri storici alle zone costiere più prossime alla battigia, quindi a beni paesaggistici, in deroga alle norme vigenti e ai piani urbanistici comunali.

Il presidente della Regione Pigliaru (assessore nella giunta Soru) è quindi intervenuto per richiamare la coalizione ad una maggiore aderenza al programma di governo, sconfessando il testo licenziato dalla commissione (il ddl 130A ) molto lontano dalla modernità del Ppr.

I malumori si sono diffusi nella maggioranza, ovvero nel Partito Democratico, il cui segretario è oggi Renato Soru contrario allo stravolgimento del Ppr. Tant'è che sono annunciate correzioni al ddl, specie dopo il recente confronto nella direzione PD, per cui non vale la pena di soffermarsi sui dettagli del precario disegno di legge. Occorre però interrogarsi sui contenuti più intemperanti del provvedimento, alcuni molto preoccupanti, come la programmata resurrezione di sepolte lottizzazioni in aree costiere o gli incrementi smodati concessi agli alberghi pure nei 300 mt dal mare e quindi nelle rive. Milioni di metri cubi distribuiti a caso, sottratti al controllo della pianificazione locale e privi della valutazione dell'impatto ambientale conseguente. Fughe che fanno temere per le scelte future, se stessero nel solco dell'idea, ben espressa in “SbloccaItalia”. Secondo cui le norme per la tutela del paesaggio e dell'ambiente sono d'impedimento alla crescita del Pil.

Anche in Sardegna è evidente il disorientamento della sinistra su questi temi, specie quando governa. Si sconta – come altrove – la complicata convivenza di visioni molto distanti nel PD, un dato della sua evoluzione al tempo di Renzi: “una grande forza di centro che corteggia la destra” – è la definizione di un autorevole esponente dem.

È come se lo spirito del Patto del Nazareno sorvolasse l'Italia pronto a materializzarsi qua e là. Così non stupiscono importanti analogie tra il dibattito in Sardegna e quello in corso in Toscana, al centro le buone idee dell'assessore Anna Marson sulla tutela dei paesaggi di quella regione. Un dibattito, quasi tutto interno al PD, con singolari somiglianze nelle due Regioni, specie per le ostilità ai principi di salvaguardia dei beni comuni annidate in settori di quel partito, e quindi nelle aggressioni prefigurate a parti pregiate del territorio (altre volumetrie nei 300 mt nelle coste sarde, come i nuovi fronti di cava sulle Alpi Apuane sopra i 1200 mt).

Gli sviluppi non sono prevedibili in Sardegna. Si spera che il presidente Francesco Pigliaru, al quale spetta la sintesi della controversia, scelga di allearsi con Renato Soru. È il solo modo per tentare di ricondurre alla ragione le norme per l'edilizia in discussione: sarebbe meglio se ricomprese in un provvedimento meno estemporaneo, ad esempio nella nuova legge urbanistica più volte annunciata in questi mesi.

Agenzia ANSA. Firenze, 16 marzo 2015

Non si stravolga il il piano paesaggistico della Toscana che «deve prevedere norme cogenti per le rispettive amministrazioni comunali e deve essere condiviso con il ministero dei Beni Culturali. Le osservazioni tecnico-scientifiche devono rimanere vincolanti nei confronti delle amministrazioni locali, valorizzando ruolo e valore delle competenze specialistiche ed al coinvolgimento dell'intellettualità».

E' quanto chiede la Cgil Toscana che lancia un appello affinché vengano salvaguardate le cave, le coste e le aree di pregio ambientale della regione. «Come Cgil Toscana abbiamo espresso in tutte le sedi di confronto il nostro parere positivo e favorevole al piano con le integrazioni fatte dal presidente Rossi alcune settimane fa - spiega il sindacato in una nota -, punto avanzato di sintesi tra esigenze del lavoro, dell'ambiente e di un concetto alto di paesaggio e di beni culturali, frutto di un impegno di anni che ha coinvolto le migliori intelligenze e passioni sul tema. Siamo di fronte al fondato rischio che gli interessi corporativi rompano tale equilibrio, non a favore del lavoro a fronte dell'ambiente sia chiaro».

Per la Cgil «non si possono più abbattere le vette cimali sopra i 1200 metri. Sotto i 1200 metri non si deve poter aprire una nuova cava senza il parere della commissione regionale. Si deve lavorare una quota significativa del marmo estratto entro tempi certi in loco, valorizzando l'intera filiera, istituendo un distretto del marmo apuo-versiliese dotato di strumenti che rendano effettivo il controllo delle attività ed il rispetto delle norme. Così come è necessario salvaguardare il profilo delle nostre coste e delle aree di rilevante pregio ambientale».

L'abile strategia del padrone extraistituzionale di Venezia: saltare in groppa a uno dei progetti alternativi per le grandi navi e allearsi con gli altri poteri forti per rilanciare il progetto metro Aeroporto-Arsenale-Lido. La Nuova Venezia, 15 marzo 2015

Venezia. Un terminal a San Nicolò, lungo la diga rinforzata per il Mose e a due passi dall'aeroporto Nicelli, in una posizione più riparata grazie anche a una nuova scogliera ad hoc, dove tutte le operazioni potrebbero essere più sicure. In tutto ci sarebbero tre banchine per 8 grandi navi da crociera, più la sublagunare per portare passeggeri e merci dalla città al terminal. E' il piano B per le crociere presentato dal Porto allegato alla documentazione per il canale Contorta.
Paolo Costa, presidente dell'Autorità portuale, l'aveva detto sibillino qualche giorno fa: «Ho invitato Cesare De Piccoli e il suo gruppo a un confronto qui nella nostra sede, saprei io dove fare un nuovo terminal per le crociere alla bocca di porto di Lido». Sembrava una boutade, tanto più che era inserita in un fiume di discorsi in cui l'ex sindaco di Venezia non retrocedeva di un millimetro sul canale Contorta come unica ipotesi alternativa al passaggio delle grandi navi da crociera a San Marco. Ma ora un'attenta lettura dei circa trecento documenti depositati nei giorni scorsi dal Porto alla commissione di valutazione d'impatto ambientale svela che proprio nelle ultime settimane non solo Costa ha pensato molto all'ipotesi Lido, ma si è addirittura rivolto ai «maghi» dei masterplan, la OneWorks di Giulio De Carli, famosa per aver disegnato il piano di sviluppo del Marco Polo e l'intero piano aeroportuale nazionale.
E il risultato di questo vero e proprio studio di fattibilità (senza cifre, però) si può vedere nelle illustrazioni che pubblichiamo. Costa e De Carli hanno immaginato un terminal a San Nicolò, lungo la diga rinforzata per il Mose e a due passi dall'aeroporto Nicelli, in una posizione più riparata grazie anche a una nuova scogliera ad hoc, dove tutte le operazioni potrebbero essere più sicure. In tutto ci sarebbero tre banchine per 8 grandi navi da crociera (6 homeport, cioè che partono e arrivano da Venezia, e 2 in transito), superando così una delle critiche delle compagnie, presentate in conferenza di servizi attraverso un appunto della loro associazione Clia, al piano De Piccoli, che prevedeva solo 5 approdi.
Dal disegno spuntano poi tre terminal crocieristici per lo sbarco-imbarco dei passeggeri, gli accosti per i taxi e le linee pubbliche, i parcheggi e perfino un porto turistico: non bisogna dimenticare che proprio in quell'area, sulla diga del Mose, Piergiorgio Baita e con lui gli altri soci del fondo Real Venice volevano costruire una delle più grandi darsene d'Europa, con i 500 posti barca e 750 posti auto, prima del naufragio dell'operazione EstCapital. Già questo basterebbe per dar fiato alle trombe di ambientalisti e cittadini del Lido, che si vedrebbero arrivare otto bestioni stando alle misure odierne –da più di 30o metri di lunghezza, circa 6o di altezza e 140 mila tonnellate di stazza — davanti alle spiagge meno turistiche ma più amate. Ma non è finita qui. Proprio perché uno dei punti critici del progetto Venis Cruise è la gestione del trasporto di passeggeri e bagagli anche se in quel caso si prevede che il terminal vero e proprio, con check-in e check-out, resti alla Marittima attuale, mentre qui il crocierista si imbarca e sbarca al Lido – nella tavola spunta un quadratino con la scritta «Fermata metropolitana – Terminal crociere».
Ritorna dunque in ballo l'idea della sublagunare, nata nei primi anni Duemila quando sindaco era Costa, ideata dalla Mantovani di Baita. Un'altra tavola allegata ne ipotizza il tracciato: il terminal delle crociere sarebbe il capolinea (salvo un ipotetico prolungamento verso Punta Sabbioni e Jesolo), poi le altre 12 fermate sarebbero Lido Nicelli, Lido, Sant'Elena Biennale, Arsenale, San Marco, Giudecca, San Basilio Zattere, Stazione Marittima, Stazione Santa Lucia, Cannaregio, Murano e l'aeroporto. Totale 20 chilometri e 101 metri di tracciato, da percorrere in 34 minuti. «E' un'ipotesi di tracciato totalmente diversa da quelle del vecchio progetto di sublagunare (Aeroporto-Arsenale, ndr) – scrive OneWorks – che permette di catturare un bacino di utenza ampiamente più grande».
La frequenza oraria prevista sarebbe dai 20 ai 40 treni l'ora e ogni treno - senza conducente, come le metropolitane moderne - avrebbe 3 vagoni («aumentabili a 4») e trasporterebbe tra i 300 e i 500 passeggeri. Secondo lo studio, ci sono infatti oltre 150 mila passeggeri potenziali nei giorni di picco, tra i 105 mila «pendolari», 30 mila crocieristi, 17.400 passeggeri «cittadini» e 2 mila in arrivo dall'aeroporto. Cosa ne fa Costa di tutto questo? Guarda al futuro, se il presente («per 1015 anni») è il Contorta. «Nell'ambito di una valutazione delle alternative che presumono una diversa localizzazione della Stazione Passeggeri, l'analisi dovrà avere un approccio di tipo "multicriteria", con orizzonti temporali necessariamente più lunghi e con maggiori risorse», scrive in una delle osservazioni, a cui sono allegate le tavole.

Riferimenti
Sulla strategia sottesa alla sublagunare si veda una postilla del 2011, sempre valida. I padroni di Venezia sono sempre gli stessi, e i loro ispiratori pure.


La Repubblica, 16 marzo 2015

Ora il Piano del Paesaggio della Regione Toscana è, anche formalmente, una questione nazionale. Nella sostanza lo era fin dall’inizio: perché esso decide il futuro di un pezzo importantissimo di quello che la Costituzione chiama il «paesaggio della Nazione». Ma anche perché aveva l’ambizione di indicare a tutto il Paese un futuro sostenibile, capace di tenere insieme sviluppo, ambiente e salute. Una via in cui la tutela dell’ambiente non fosse affidata ai vincoli delle soprintendenze (indispensabili, in mancanza di meglio), ma ad un progetto politico responsabile.

A tutto questo serviva il testo voluto dal presidente Enrico Rossi, scaturito dal lavoro di Anna Marson (assessore alla Pianificazione della Regione Toscana) e adottato dal Consiglio regionale nello scorso luglio. Ma dopo l’estate qualcosa è cambiato: il vento dello Sblocca Italia (la legge a favore del cemento scritta dal ministro Lupi, e approvata a novembre) ha cominciato a soffiare anche sulla Toscana, ridando forza e voce ai centri di interesse che Rossi era riuscito a contenere. Così, nelle ultime settimane, il Piano è stato smontato pezzo a pezzo in Commissione, grazie al sistematico voto congiunto di un Pd che ormai non risponde più a Rossi e di una Forza Italia scatenata: una specie di Patto del Nazareno contro il futuro del Paesaggio toscano. Se passasse così com’è stato ridotto, il Piano sarebbe un atroce boomerang. Facciamo solo qualche esempio: nuovi fronti di cava potrebbero essere aperti sulle Alpi Apuane anche sopra i 1200 metri (cambiando per sempre lo skyline della regione); le strutture su tutta la linea di costa potrebbero ampliarsi a piacimento, e si potrebbe costruire perfino nel Parco di San Rossore; case potrebbero sorgere anche negli alvei dei fiumi soggetti ad alluvioni, e lo sprawl urbano potrebbe mangiarsi quel che rimane dei meravigliosi spazi rurali della piana di Lucca.

Di fronte a questo concretissimo rischio (si vota domani), Rossi ha chiesto aiuto al governo: una scelta paradossale, che segnala il coma irreversibile del regionalismo. Ma è il ministero per i Beni culturali l’unico freno di emergenza che può evitare che il paesaggio toscano cappotti in parcheggio.

Il Piano dev’essere, infatti, approvato e condiviso dal ministero: che solo in presenza di forti garanzie può contenere i suoi vincoli. Per questo Rossi incontrerà Dario Franceschini, sperando paradossalmente in un “no”: quel “no” che può permettergli di tornare a Firenze ricacciando nell’angolo gli interessi delle lobby che parlano attraverso i ventriloqui dell’assemblea regionale.

Ma quel “no” arriverà? Come si è capito anche dalle forti dichiarazioni della sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni (che ha la delega al Paesaggio), la struttura tecnica del Mibact considera il Piano irricevibile. Ci auguriamo che i tecnici potranno fare il loro lavoro, e che non prevarrà invece la linea politica di un governo che sembra aver fatto del motto «padroni in casa propria» (parola d’ordine del ventennio berlusconiano) uno slogan positivo.

Dario Franceschini saprà dimostrare di essere diverso da Maurizio Lupi, santo patrono del consumo di suolo? E che ruolo giocherà il toscanissimo Matteo Renzi, che sembra fermo ad un’idea di sviluppo territoriale che era già vecchia negli anni Sessanta?

Da ciò che avverrà nelle prossime ore non capiremo solo se la Toscana dei nostri figli sarà resa simile alla Calabria di oggi: ma capiremo anche se “sviluppo” continuerà ad essere sinonimo di “cemento”. O se, finalmente, cambieremo verso.

Il testo della conferenza organizzata dall'Associazione Bianchi Bandinelli in cui uno dei protagonisti del "Progetto Fori" ribadisce alcuni punti essenziali, a partire dall'opportunità della demolizione di via dei Fori Imperiali. 9 marzo 2015 (m.p.g.) ​
In ricordo di Italo Insolera Dopo anni di silenzio e disinteresse politico sulla questione urbanistica dei Fori imperiali, ossia sul disegno futuro e l’immagine della città di Roma, il Sindaco Ignazio Marino ha proposto il tema di un uso diverso di quell’area, più rispettoso dei principali monumenti antichi, con forti limitazioni del traffico automobilistico sulla strada che attraversa l’area monumentale. Il Sindaco ha inoltre promosso l’istituzione di una Commissione di esperti designati dal Ministero dei beni culturali e dalla Città di Roma con il compito di elaborare uno studio per un piano strategico di sistemazione e sviluppo dell’area archeologica centrale di Roma.

La Commissione, presieduta dal Prof. Giuliano Volpe e composta di studiosi stranieri, il Prof. Michel Gras, l’architetta Jane Thompson, e italiani, la Prof. Laura Ricci, la Prof. Tiziana Ferrante, il Prof. Eugenio La Rocca, il Prof. Claudio Strinati e da me stesso, con la partecipazione del Prof. Claudio Parisi Presicce, della Dr. Federica Galloni, della Dr. Mariarosaria Barbera e dell’Arch. Agostino Burreca, è stata istituita il 1 agosto 2014 ed ha terminato i lavori il successivo 30 dicembre. La relazione finale della Commissione, resa pubblica, propone una serie di interventi intesi a migliorare le condizioni della zona monumentale antica; alcuni sono fattibili in tempi brevi e con poca spesa, altri sono di natura più complessa e collegati con la realizzazione di opere pubbliche, in particolare della linea C della metropolitana; tra questi il grande centro di servizio previsto fin dal 1988 sotto il livello stradale della via dei Fori imperiali tra il Colosseo e il Largo Corrado Ricci. L’attuazione dell’intero programma darebbe di certo un assetto più decoroso alla parte centrale della città, sollevandola dalle condizioni di decadimento e migliorando lo stato di molti monumenti. Tuttavia, nell’ampio panorama dei problemi esaminati la sistemazione dei Fori imperiali, obiettivo per il quale era scaturita la necessità di istituire la Commissione stessa, non ha ricevuto un’attenzione pari alla sua importanza. Non esiterei a definirne la trattazione del tutto deludente: non vi sono stati approfondimenti sugli aspetti già studiati né proposte innovative di alcun genere, ancorché dichiarate auspicabili. La posizione assunta, non del tutto unanimemente ma quasi, è stata quella di “non abbandonare la prospettiva di una soluzione innovativa che porti alla sostituzione dell’attuale via, mantenendone il tracciato e la funzione, e alla ricomposizione del contesto archeologico”. A questo, cioè alla ricomposizione del contesto archeologico, si potrebbe arrivare secondo la Commissione con un viadotto carrabile e pedonale che consentirebbe di riunificare le parti dei diversi Fori oggi frammentarie e rese incomprensibili dalla presenza della strada; al tempo stesso il viadotto consentirebbe “la conservazione del ‘segno’ costituito dall’asse della via dei fori imperiali”.

In questo modo non si è neanche tentato di aprire la strada a soluzioni nuove, non osando rinunciare né alla riunificazione dei complessi monumentali ora disarticolati, né al mantenimento della via dei Fori imperiali, concepita come un “segno” storico da perpetuare tramite un suo simulacro con la carreggiata sostenuta da esili pilastri. La scelta di conservare il “segno” della strada senza concrete motivazioni di ordine urbanistico appare legata a forme di malinteso storicismo. La proposta di un ponte, o viadotto, che possa scavalcare i Fori imperiali completamente scavati per mantenere il collegamento stradale tra piazza Venezia e il Colosseo era stata formulata da Pierluigi Romeo nel 1979, e fu ripresa con il progetto di Massimiliano Fuksas nel 2004, e poi nuovamente in forma più elaborata da Raffaele Panella nel 2013. Questa soluzione costituisce un indubbio progresso rispetto allo stato delle cose perché consente il completamento delle esplorazioni e la riunificazione delle aree scavate; la costruzione del viadotto sarebbe però del tutto inutile, come vedremo. Inoltre, si manterrebbe così la separazione tra il livello d’uso attuale, cittadino, e quello archeologico destinato al turismo. Esistono però anche altri modi più semplici e meno costosi per ottenere gli stessi risultati.

Dopo le demolizioni dell’intero quartiere che aveva occupato l’area dei Fori imperiali, avviate nel 1929 secondo i progetti di Corrado Ricci ad est della via Alessandrina ed estese tra il 1931 e il 1933 a tutti i restanti spazi, si giunse in pochi anni a una definitiva sistemazione con soluzioni provvisorie ma opportune, perché servirono a sventare programmi di edificazione in parte già avviati e per fortuna subito sospesi. Il vuoto creato tra le rovine suscitava aspirazioni edificatorie e vanità architettoniche: persino Le Corbusier si era proposto con il progetto di una costruzione tra la Basilica di Massenzio e il Colosseo. È evidente che vi fosse fin da allora, tra chi aveva promosso, attuato e seguito il programma di abbattimento degli edifici e di sfondamento della Velia, la previsione o almeno l’aspirazione di un ampliamento degli scavi nei vasti spazi rimasti liberi a ridosso della nuova via dell’Impero e sistemati con aiuole. Vi sono molti indizi di questa previsione; ne ricordo solo uno, evidentissimo: il muraglione di sostegno della via Alessandrina costruito dopo le demolizioni di Corrado Ricci è predisposto con una serie di arcate che dopo un successivo scavo del Foro di Traiano avrebbero consentito di collegare l’area della piazza con l’emiciclo orientale. L’intento fu tuttavia vanificato prima dal prevalere delle esigenze di rappresentazione retorica del regime, che imponevano una decorosa e immediata ricomposizione degli spazi liberati dalle costruzioni, e poi per il sopravvenire della guerra. Quello stato di cose, tra Piazza Venezia e il Colosseo, si mantenne quindi immutato e indiscusso per circa quarant’anni. Se però l’assetto di quell’area non aveva subito mutamenti, la città si era trasformata radicalmente: l’espansione edilizia nel suburbio, avvenuta nelle forme e governata nei modi descritti da Italo Insolera nella sua storia urbanistica di Roma moderna (1962), aveva modificato l’equilibrio tra il centro urbano e le periferie; la legge urbanistica del 1967 (la cosiddetta ‘legge ponte’), aveva tutelato i quartieri del centro storico ma, influendo sui valori immobiliari, ne aveva accentuato il distacco da quelli periferici; il traffico automobilistico, divenuto insostenibile, ostacolava l’agibilità degli spazi pubblici e la percezione degli aspetti storico-artistici del paesaggio urbano e, soprattutto, creava un inquinamento atmosferico assai nocivo per la conservazione dei monumenti antichi.

Credo che sia utile ricordare le ragioni che agli inizi degli anni Ottanta condussero alla proposta di un assetto diverso dei Fori imperiali. Se alcuni dei motivi che allora imponevano urgenti cambiamenti sono superati, altri persistono e nel frattempo ne sono sorti di nuovi ancora. Tutto scaturì da una pressante esigenza di conservazione del patrimonio esistente: infatti, la maggiore concentrazione di monumenti marmorei di Roma, nell’area archeologica centrale, era esposta al danneggiamento e al rapido decadimento derivanti dall’elevato grado di inquinamento atmosferico.. La previsione, sensata e in parte gradualmente attuata, di ridurre e poi di eliminare il transito dei veicoli a motore dalla via dei Fori imperiali, privandola così della sua primaria funzione urbana, metteva seriamente in dubbio la necessità di mantenere la sistemazione degli anni Trenta. Si apriva in tal modo per la prima volta la prospettiva concreta dell’esplorazione e del recupero quasi integrale delle grandi piazze antiche in un complesso unitario che dal Foro romano e dal Palatino si potesse estendere fino al Circo Massimo, al Colosseo e ai Mercati di Traiano. Il programma di uno scavo che avrebbe dovuto eliminare la via dei Fori imperiali fu presentato dalla Soprintendenza con una mostra tenuta nella Curia dei Senato al Foro romano nel 1981. Prese poi forma il progetto urbanistico predisposto su incarico della Soprintendenza da Leonardo Benevolo con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Ferdinando Castagnoli, Ippolito Pizzetti, Claudio Podestà, Guglielmo Zambrini; il lavoro, che resta un’elaborazione concettuale fondamentale per la questione dei Fori imperiali, è stato pubblicato nel 1985: Roma. Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale (1985). Un secondo livello di progettazione, ancora a cura di Leonardo Benevolo e Francesco Scoppola con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Massimo De Vico Fallani, Sergio Giovanale, Carlo Pavolini, Claudio Podestà, Lucio Quaglia, Alessandro Quarra, comparve nel 1988: Roma. L’area archeologica centrale e la città moderna.

La discussione che scaturì da queste proposte fin dal 1981 fu però viziata da contrapposizioni politiche e ideali che spostarono il dibattito dagli aspetti programmatici di conservazione monumentale e di rinnovamento urbanistico alle valutazioni di ordine storico sulle trasformazioni subite da Roma durante il regime fascista. In realtà vi erano solo la necessità e, molto pragmaticamente, l’opportunità di far tesoro dei costi sociali già sostenuti. L’abbattimento di un intero comparto urbano densamente abitato e il trasferimento dei residenti, appartenenti ai ceti sociali meno abbienti, in quartieri di periferia apposta edificati comportarono costi elevatissimi. Oggi un intervento così radicale in una parte storica della città, come quello attuato durante il Fascismo, compiutamente descritto da Antonio Cederna nel suo Mussolini urbanista (1979), non sarebbe ammissibile sotto il profilo normativo, etico e culturale, e non sarebbe comunque sostenibile per l’impegno economico necessario; tuttavia la trasformazione è avvenuta e di là da ogni giudizio non vi è che da prenderne atto e considerare lo stato delle cose in previsione della migliore sistemazione dei monumenti antichi e dello sviluppo della città.

La questione del decadimento dei marmi romani aggrediti dall’inquinamento si pose nel 1978 quando, a seguito di alcuni distacchi di superfici scolpite dalla colonna di Marco Aurelio, la Soprintendenza eseguì accertamenti su tutti i monumenti marmorei della città. Presento qui alcune delle immagini che mostrai il 21 aprile del 1979 in una conferenza tenuta in Campidoglio su invito di Giulio Carlo Argan, allora sindaco di Roma. Con quelle ricognizioni si ebbe il modo di costatare, per la prima volta, la gravità dei danni arrecati alle superfici marmoree dalle emissioni degli autoveicoli, specialmente di quelli a combustione di gasolio, e dalle polveri prodotte dall’usura delle ruote di gomma. I monumenti non avevano ricevuto manutenzioni da molto tempo, e quindi recavano i segni di un lungo decadimento. I danni più insidiosi, però, perché attivamente progressivi erano dovuti alla grande accelerazione provocata dalle nuove forme d’inquinamento atmosferico comparse nel corso del Novecento. Per la Colonna Traiana abbiamo i preziosissimi calchi del Museo della Civiltà Romana, realizzati nel 1862 per volontà di Napoleone III, i quali documentano lo stato in cui si trovava il monumento a quell’epoca; l’esecuzione dei calchi aveva infatti comportato un’accurata ripulitura delle superfici. L’inquinamento dovuto alle emissioni degli autoveicoli induceva sulle superfici dei monumenti un processo chimico che trasformava il marmo in gesso e lo esponeva quindi all’erosione del vento e al dilavamento della pioggia. La penetrazione degli agenti inquinanti in profondità provocava inoltre la formazione di croste che si distaccavano facendo perdere ampie porzioni lapidee. La situazione era aggravata dalle emissioni degli impianti di riscaldamento, ancora in parte a carbone ma per lo più a gasolio; gli uni e gli altri influivano sull’inquinamento atmosferico generale della città in maniera massiccia per la diffusione su tutta la grande cintura intensamente edificata della periferia urbana. Fu quindi possibile appurare che l’inquinamento stava provocando danni non solo ai marmi con figurazioni scolpite, come le grandi colonne istoriate di Traiano e di Marco Aurelio, e gli archi di Tito, Settimio Severo, Costantino, ma anche alla ornamentazione architettonica e persino alle superfici non decorate dei monumenti. Di minore entità, ma non irrilevante, si presentavano le alterazioni subite dalle superfici di travertino in monumenti come il Colosseo e il teatro di Marcello. Il danno maggiore consisteva naturalmente nelle perdite irrimediabili arrecate a quei rilievi storici e a quei complessi scultorei che rappresentano le principali manifestazioni dell’arte ufficiale romana. Il decadimento era però del tutto generalizzato e si estendeva ad altri materiali lapidei come il tufo, e richiamo il caso del Tabularium, e metallici, e ricordo la statua equestre di Marco Aurelio. La questione della protezione di questo patrimonio fu sollevata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali nel dicembre del 1978, e suscitò preoccupazione presso l’opinione pubblica internazionale. Per riferire su questo stato di cose fu nominata una Commissione ministeriale per le opere d’arte all’aperto, presieduta da Cesare Gnudi, illustre storico dell’arte e Soprintendente ai beni artistici di Bologna. La Commissione si espresse con una relazione finale nell’aprile del 1980, e gli atti furono pubblicati dal Ministero nel 1981. Nel confermare il grave stato dei monumenti romani, la Commissione sollecitò per la loro conservazione provvedimenti urgenti, straordinari, che in effetti furono adottati in sede legislativa nel 1981, ma raccomandò anche misure di pianificazione territoriale idonee a ridurre le fonti di inquinamento.

Per la riduzione dell’inquinamento dell’atmosfera urbana qualche beneficio si ebbe dopo molto tempo, soprattutto in conseguenza dello sviluppo tecnologico degli impianti di riscaldamento e a seguito della sostituzione del gasolio con il metano. Gli interventi di conservazione eseguiti negli anni Ottanta sono stati temporaneamente risolutivi nel frenare la progressione dei danni, ma non potevano essere di durata illimitata. Ne era stata prevista l’efficacia per almeno vent’anni, dopodiché si sarebbero dovute ripetere le operazioni di manutenzione: sono ora passati trent’anni e non si sono ancora compiute nuove ripuliture dei marmi, con il rischio che riprendano i fenomeni di disgregazione della materia. Infatti, se l’entità dei danni è ora più contenuta, essa non è per nulla eliminata. I monumenti dell’area archeologica centrale, liberati dall’aggressione diretta delle emissioni dei veicoli a motore, soffrono ancora per l’inquinamento generale dell’area urbana; inoltre, uno dei capisaldi per la conoscenza dell’arte romana di età antonina, la colonna di Marco Aurelio, è tuttora molto esposto agli agenti inquinanti. Il peggioramento del suo stato di conservazione è evidente per il progressivo annerimento delle superfici. Periodici controlli, seguiti da accurate manutenzioni, sarebbero comunque necessari anche sugli altri monumenti.

Il decadimento dei monumenti romani, architetture ricoperte di raffigurazioni scolpite nel marmo, costituisce ancora oggi il più grave problema conservativo per il patrimonio artistico italiano. Non esistono altri complessi di opere d’arte così importanti e di tali dimensioni esposti all’aperto e per loro natura non ricoverabili mediante ripari protettivi. La questione è stata però completamente rimossa e non se ne parla più. Le informazioni date dalla stampa lo scorso 3 marzo sulle ricerche compiute dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro sull’attuale incidenza dell’inquinamento a Roma sono troppo sintetiche e quindi fuorvianti. La perdita delle superfici misurata tra i 5,2 e i 5,9 micron riguarda la progressione annua del danno arrecato alla materia marmorea sana esposta all’aperto, e non a superfici scolpite già molto alterate, interessate per di più da profonde lesioni, com’è nel caso dei principali monumenti marmorei antichi di Roma. In tali condizioni gli effetti dell’inquinamento non sono lineari ma discontinui, e provocano estesi e profondi distacchi di particolari scultorei rilevanti, talvolta di intere figure. Questo stato di cose non trova particolare ascolto né suscita preoccupazione. L’attenzione è ora rivolta in maniera quasi esclusiva alla capacità dei beni culturali di rendere un utile economico, e gli interessi della produttività connessi con il turismo prevalgono regolarmente su quelli della cultura e della tutela del patrimonio storico e artistico della nazione, che sono invece compresi tra i principi fondamentali della costituzione italiana. I problemi della protezione e della conservazione di questo patrimonio interessano solo se vi è del clamore a seguito di guasti, anche secondari, com’è avvenuto nel caso dei crolli di murature (per lo più moderne) di Pompei. Il graduale e progressivo disfacimento delle più preziose testimonianze dell’arte romana sembra invece essere un destino ineluttabile non meritevole di attenzione; eppure le operazioni di conservazione non hanno costi esorbitanti, richiedono soprattutto la cura manuale di operatori competenti ed esperti.

Il primo intervento inteso alla riduzione delle fonti di inquinamento, rivelatosi efficace sulla dimensione locale, fu il divieto di transito automobilistico sulla strada che attraversava il Foro alle pendici del Campidoglio: la via del Foro romano, talvolta ricordata come via della Consolazione. La limitazione, avvenuta nel 1979, favorì il progetto di rimozione della strada per unificare le due parti dell’area monumentale e per restaurare il Clivo capitolino. I lavori iniziarono nel 1980 e si protrassero per alcuni anni con scavi e restauri, e ripristinarono il percorso antico tra il Campidoglio e la piazza del Colosseo. Fu allora possibile consentire il libero attraversamento del Foro, che era stato per molti anni, con il Palatino, un parco archeologico frequentato soprattutto da turisti. Da quel momento l’area del Foro divenne nuovamente una parte della città che si poteva semplicemente attraversare, o in cui si poteva passeggiare per osservare i monumenti o sostare in contemplazione del paesaggio. L’eliminazione della via del Foro romano fu la prima importante trasformazione dopo l’assetto degli anni Trenta, l’unica che si sia risolta nella ricomposizione di un grande contesto di interesse storico e nel ripristino di percorsi pedonali alternativi alle strade ingorgate di veicoli. Il progetto di riunificare l’area archeologica e di restaurare il Clivo capitolino, contrastato da più parti, era stato assecondato dal Sindaco di Roma Luigi Petroselli, il quale fece smantellare la strada rendendo così possibili le attività di scavo e di restauro. Petroselli aveva compreso che Roma poteva a stento competere con le più grandi capitali sul versante della produzione culturale, e che momenti di effimera vitalità nel cinema, nelle arti figurative, nell’architettura, avevano posto la città nella condizione di occupare talvolta una posizione elevata, ma mai di assumere un ruolo di primo piano a livello mondiale. Egli aveva ben visto che il vero primato di Roma, mai sufficientemente sostenuto con lungimiranza politica, era dovuto alle sue testimonianze storiche, che l’indiscussa e incomparabile grandezza di questa città consisteva nei suoi caratteri archeologici, da sempre oggetto d’interesse universale e fonte inesauribile di accrescimento e di rinnovamento urbano.

L’odierno affollamento del Foro non consente di ospitare un numero maggiore di visitatori senza modificare i criteri di ammissione e senza regolarne i flussi, ma queste modifiche sono possibili, e ancor più lo saranno con l’ampliamento degli spazi. L’abolizione del libero ingresso al Foro romano, decisa nel 2005, è stata un’umiliante sconfitta culturale che per di più non ha prodotto benefici economici. Con il biglietto unico per il Colosseo e il Palatino già si raccoglieva l’intera massa di turisti interessati alla visita dell’area archeologica. L’aumento degli incassi è dovuto solo all’incremento delle presenze turistiche a Roma: le variazioni sono infatti proporzionali a quelle dei flussi turistici nella città.

L’incremento del turismo ha indirizzato sull’area archeologica di Roma milioni di visitatori. Per il Colosseo e il Foro romano, ove si sono superati i limiti di sostenibilità, sono necessari maggiori spazi per ospitare il pubblico. Nel Colosseo il completamento della pavimentazione lignea è l’unico provvedimento che può consentire di fare fronte alle nuove esigenze di spazio per la visita e può inoltre permettere una migliore percezione dei caratteri monumentali. La riproduzione dei meccanismi predisposti in antico per il sollevamento di bestie e materiali e per l’allestimento degli spettacoli renderebbe d’altra parte comprensibile il funzionamento della struttura e attirerebbe la curiosità del pubblico. L’intervento sarebbe complesso e oneroso ma possibile, perché sono stati compiuti studi, sperimentazioni e parziali realizzazioni. Con una regolare apertura notturna si potrebbero inoltre restituire ai visitatori le sensazioni della spettrale monumentalità al chiarore lunare o nei lividi colori aurorali, così tanto ambite e provate quando il Colosseo era facilmente accessibile a qualunque ora del giorno e della notte. Occasionali e contenute manifestazioni culturali sarebbero compatibili, come già si è sperimentato più di una volta, ma il Colosseo non potrebbe ospitare spettacoli di massa: occorrerebbe infatti intervenire in maniera molto pesante sulla cavea. Il triste esempio di Pompei, ove il teatro maggiore è stato rovinato per essere adibito alla rappresentazione di spettacoli, dovrebbe mettere in guardia sui rischi di una ristrutturazione. Inoltre, il Colosseo ha già il suo grande pubblico del turismo internazionale.

Nel Foro romano i visitatori devono poter percorrere i luoghi aperti già in antico, ossia la piazza, le strade e, laddove esistono i requisiti di agibilità, anche gli interni degli edifici. Gli spazi sono tuttavia insufficienti e il grande affollamento rende ormai la visita faticosa, distoglie dalla contemplazione e lede l’aura del paesaggio di rovine. Il Palatino può accogliere altro pubblico per la visita del palazzo dei Cesari, e dei grandiosi edifici lungo le sue pendici, ma contiene anche monumenti delicati con pitture parietali che non possono sostenere una maggiore frequentazione: l’Aula Isiaca, la Casa dei Grifi, la Casa di Augusto e la Casa di Livia, e così anche le opere d’arte esposte nel Museo Palatino. Gli spazi naturalmente destinati alla visita del grande pubblico sono quelli pianeggianti, delimitati dalle alture, ove sono sorte le grandi piazze del Foro romano e dei cinque Fori imperiali. La sistemazione e l’apertura dei Fori imperiali ai visitatori che ora si affollano nel Foro romano offrirebbe un grande beneficio alla domanda turistica, e costituirebbe al tempo stesso un enorme arricchimento per l’immagine della città.

Come si riuscì ad aprire liberamente il Foro romano istituendo il biglietto d’ingresso al piano terra del Colosseo, fino allora gratuito, così è possibile fin d’ora una manovra del tutto analoga aumentando il prezzo di accesso al Colosseo-Palatino e consentendo la piena gratuità per il Foro romano e, in prospettiva, per i Fori imperiali. Il costo del biglietto per il Colosseo e Palatino è oggi molto basso rispetto agli standard internazionali, e può essere aumentato fino a 35 euro. Anche con una riduzione temporanea degli ingressi di circa il 20 per cento in ragione del prezzo più alto, si avrebbe un incremento degli introiti del 140 per cento. Si risolverebbero così i problemi dell’affollamento dilatando gli spazi aperti al pubblico, che devono peraltro riassumere la funzione di punto nodale per il transito pedonale nel rapporto con i quartieri cittadini gravitanti sull’area archeologica. La creazione di uno spazio unitario liberamente frequentabile e transitabile – si ricordi che il Foro di Nerva era detto anche forum transitorium o forum pervium – risolverebbe la questione, tutta erariale, della gestione di monumenti amministrati dallo Stato e dal Comune. D’altra parte è bene ricordare che se la tradizionale competenza amministrativa e scientifica del Comune di Roma contribuisce in maniera irrinunciabile alla cura del patrimonio storico e artistico della città, il complesso monumentale dei Fori imperiali appartiene in gran parte al Demanio dello Stato. L’unificazione funzionale (libera apertura al pubblico) e non di gestione (custodia e cura dei monumenti) dello spazio archeologico del Foro romano e dei Fori imperiali può esser attuata immediatamente senza alterare l’attuale ripartizione dei compiti rispettivamente esercitati dallo Stato e dal Comune di Roma. La pretestuosa rappresentazione di difficoltà della gestione ha il solo ed evidente fine di giustificare la creazione di strutture che sottraggano la cura del patrimonio monumentale alla competenza delle naturali sedi istituzionali. La sventurata, recente, esperienza dei commissariamenti di soprintendenze dovrebbe bastare ad allontanare lo spettro di operazioni concepite per finalità non coerenti con l’interesse pubblico. Queste comporterebbero peraltro la distruzione di consolidate strutture, statali e comunali, di elevata potenzialità scientifica, con ogni prevedibile ripercussione negativa sulla cura del patrimonio archeologico.

La ripresa degli scavi, nel 1997, negli spazi a ridosso della via dei Fori imperiali, adibiti a giardini e a parcheggi, ha riportato alla luce ampie porzioni del Foro di Traiano, del Foro di Cesare, del Foro Transitorio e del Foro della Pace, e in misura minore del Foro di Augusto. L’incremento delle conoscenze è stato enorme per gli aspetti topografici, storicoartistici e per la ricostruzione delle vicende edilizie della città in età tardoantica e altomedievale. L’intera area si trova in fase di trasformazione, ma senza un programma definito. Si è ottenuto così il risultato di aver generalizzato la frammentazione delle aree scavate e separate tra loro ai margini della strada. Ai bordi degli scavi, in molti casi palesemente intesi come definitivi, e nei restauri già eseguiti si è adottato il criterio di conservare poco selettivamente i resti che documentano le trasformazioni edilizie subite dall’area nel corso dei secoli. In tal modo non sono comprensibili né le singole fasi storiche né la successione delle trasformazioni urbane. Ne è risultata una sistemazione incongrua con porzioni di aree scavate pressoché inagibili e separate tra loro, incomprensibili e prive di particolare fascino per l’affollamento di muri che si compenetrano e si sovrappongono. È il fallimento di un grande programma.

Lo scoprimento dei livelli antichi dei Fori ha un senso se concepito come la prima fase, quella conoscitiva, di una trasformazione dell’area e non per una sua autonoma finalità. Deve poi subentrare la sistemazione, con la scelta e la ricomposizione degli elementi atti a rappresentare le trasformazioni che i luoghi hanno subito nel tempo e la rievocazione di significati storici. Il paesaggio che emerge dall’assetto di uno scavo è sempre un’astrazione simbolica, una cosa che non è mai stata ma che ha la capacità di rievocare quello di cui mediante lo scavo si è riconosciuta l’esistenza; un paesaggio la cui storicità si realizza nel presente. Il più bell’esempio di una tale sistemazione è il Foro romano, una creazione del Novecento, in gran parte dovuta a Giacomo Boni, il quale seppe sottrarre senza remore elementi non funzionali alla composizione del paesaggio e alla rappresentazione più efficace della sua dimensione temporale. Non è vero che furono eliminate le testimonianze di età medievale per preferire quelle di epoca classica. Boni documentò quello che la scienza del suo tempo considerava necessario ma asportò livelli e strutture di età antica e medievale per giungere all’assetto che nel Foro tuttora si mantiene. Una prospettiva analoga è da immaginare per i Fori imperiali, quando all’esplorazione dovranno subentrare le sistemazioni funzionali all’uso degli spazi e la composizione di un nuovo paesaggio urbano.

Gli scavi recenti dei Fori imperiali non sono andati oltre le aspirazioni e le speranze che si potevano avere già negli anni Trenta, dopo le grandi demolizioni; aspirazioni peraltro già concepite molto tempo prima e manifestate apertamente nel 1911 da Corrado Ricci quando progettava le prime demolizioni sul versante orientale della via Alessandrina:
"Non v’ha certo chi non vegga che l’impresa più bella e più completa per la liberazione dei Fori sarebbe quella, ripetutamente proposta, di scoprirli del tutto abbattendo interamente le case vecchie e recenti che sorgono tra la via del Foro Traiano, via Marforio, Tor de’Conti e via di Campo Carleo, ossia tutto l’enorme quartiere solcato da via delle Chiavi d’Oro, Cremona, Priorato, Alessandrina, in un senso; Carbonari, Marmorelle, Bonella e Croce Bianca nell’altro. Ma non v’ha pure chi non vegga e riconosca le enormi difficoltà finanziarie e di economia cittadina che si oppongono a tale magnifico progetto sino al punto da confinarlo, per ora e per molto ancora, nel mondo dei sogni."

È indubbio che alla base del nuovo assetto degli anni Trenta non vi sia stato solo l’intento di creare un asse viario tra Piazza Venezia e il Colosseo, che non avrebbe richiesto così vaste demolizioni; tra le tante sollecitazioni esercitate per attuare il programma nella forma più drastica, seppure con finalità contrastanti, dovettero essere assai influenti quelle che rappresentavano il sogno di Corrado Ricci.

Ho prima accennato alla posizione assunta dalla Commissione del 2014 in difesa della “conservazione del segno costituito dall’asse della via dei Fori imperiali” mediante un ponte da costruirsi per scavalcare l’area degli scavi, senza prendere in esame soluzioni che possano invece consentire la rimozione della strada. Una prima possibilità riguarda la creazione di percorsi carrabili oltre che pedonali, per limitate esigenze di collegamento, alle quote archeologiche tra Piazza Venezia e il Colosseo. Anche mediante accorti restauri i Fori dovrebbero svolgere nuovamente la funzione di spazi transitori, oltre che di visita e di sosta. L’altra soluzione, che può peraltro combinarsi con la prima, riguarda un percorso carrabile sulla via Alessandrina. Questo è l’unico tracciato storico che ancora sopravvive dopo l’abbattimento dell’intero quartiere. Ha un’ampiezza sufficiente per sostenere il passaggio di autoveicoli e mezzi di trasporto pubblico nelle due direzioni e nella misura ora consentita sulla via dei Fori. La via Alessandrina è già un viadotto, sostenuto sul versante dei Mercati di Traiano da una sequenza di archi ideati per il collegamento con il Foro di Traiano di cui si prevedeva lo scavo. L’apertura degli archi non sarebbe altro che il compimento di una sistemazione già predisposta.È veramente strano come nelle attuali previsioni vi sia in primo luogo la demolizione della via Alessandrina. Anche volendola rimuovere, questo dovrebbe avvenire al compimento delle sistemazioni dell’intera area, quali che siano, se non altro per ovvi motivi di agibilità durante i lavori e per la loro esecuzione. I fondi donati dall’Azerbaigian potrebbero essere impiegati per un importante restauro, più utilmente che per una demolizione: si potrebbero innalzare nuovamente colonne abbattute che contribuirebbero a creare il nuovo paesaggio archeologico.

A mio avviso non vi sono motivi che possano oggi concretamente impedire la rimozione della via dei Fori imperiali, non per compiere un atto demolitorio ma per attribuire nuove funzioni e una rinnovata immagine a quella parte di Roma.
In un modo o nell’altro le grandi vicende urbanistiche di Roma hanno dovuto fare i conti con le testimonianze dell’antichità, e questo è avvenuto mediante il riuso, la riscoperta, la distruzione. Ancora oggi, qualunque concezione si voglia avere di Roma nello stato presente e nelle sue prospettive di trasformazione, resta dominante il rapporto con la storia e con le sue vestigia. Come in tanti altri luoghi, il sostrato millenario ha influito sulla forma della città, ma a Roma anche gli aspetti salienti del paesaggio sono composti di edifici antichi, monumenti, rovine costruite solidamente ‘per l’eternità’. Ruderi che per secoli hanno dominato, imponenti e solitari, le vedute aperte della campagna, ora assediati da fabbricati anonimi, sono divenuti elementi d’identità storica e di originalità architettonica in nuovi quartieri di periferia. Il paesaggio di Roma è senza uguali al mondo per la dimensione e la quantità di testimonianze storiche. Fin dal Medio Evo i monumenti antichi vi hanno rappresentato un’epoca lontana, un mondo finito ma a noi nondimeno familiare in quei suoi aspetti formali che Umanesimo e Rinascimento hanno trasferito nella cultura moderna. I caratteri storici ancora latenti possono svolgere a Roma più che in ogni altro luogo un ruolo importante nell’innovazione della città, nel suo adeguamento alle esigenze dei tempi, nell’invenzione di nuove forme di paesaggio. Tutto questo può essere allora concepito solo nel disegno di una città che nel rinnovarsi sappia pur sempre mantenersi digna antiquitate.

Roma, 9 marzo 2015.

Ieri a Torino è stato consegnato il dossier dall’associazione Ambiente Venezia: «Lesi i diritti dei cittadini, ignorate le critiche». Comitati sul piede di guerra anche per quanto riguarda il canale Contorta, altra «grande opera». La Nuova Venezia, 15 marzo 2015

Un esposto sul Mose al Tribunale permanente dei popoli. Si riaccendono i riflettori sulla grande opera. Ieri a Torino una delegazione dell’associazione «Ambiente Venezia» ha consegnato al presidente del Tribunale Franco Ippolito un esposto che chiede l’apertura di un procedimento. «Per accertare», si legge nel documento firmato da Armando Danella, Luciano Mazzolin, Stefano Micheletti e Stefano Fiorin, «se nell’iter del progetto Mose siano stati rispettati i diritti dei cittadini».

Il Tribunale dei popoli – di cui fanno parte i giudici Mireille Fanon Mendes France (Francia), Antoni Pigrau (Spagna), Roberto Schiattarella e Vladimiro Zagrebelsky (Italia) – ha aperto ieri i lavori della sessione dedicata a «Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità e grandi opere». Conferenza deedicata alla Tav e alle grandi opere, tra cui il Mose. «Riteniamo che il progetto Mose, in corso di realizzazione», dice Danella, «contenga in sè profili di violazione dei diritti fondamentali che oggi permangono». Tra queste azioni, il comitato include «il contrasto dei movimenti di opposizione e e della comunità scientifica non asservita agli interessi di parte». E le «mancate risposte alle critiche anche circostanziate della pubblica opinione. Soprattutto dopo che la magistratura ha rivelato quel clima malavitoso di corruzione, concussione e finanziamento illecito del Consorzio Venezia Nuova». Infine una «manipolazione e omissione di dati e informazioni per alimentare la continuità dell’errore». I comitati, già autori di altri esposti alla Procura, alla Corte dei Conti e all’Unione europea, chiedono ora che sia il Tribunale internazionale a pronunciarsi. Battaglia che continua, quella sul Mose e sulle garanzie che la collettività chiede per la sua realizzazione e la gestione e manutenzione, che costerà almeno 50 milioni di euro l’anno.
Comitati sul piede di guerra anche per quanto riguarda il canale Contorta, altra «grande opera» proposta dall’Autorità portuale per far entrare le grandi navi in laguna e farle arrivare alla Stazione Marittima dalla bocca di porto di Malamocco. In questi giorni l’Autorità portuale ha inviato al ministero per l’Ambiente le risposte alle 27 pagine di osservazioni della commissione Via. «Risposte esaurienti», secondo il presidente Costa, «per un’opera che si dovrà fare comunque, essendo di pubblico interesse». «L’unica cosa di pubblico interesse è che il governo rimuova il predente Costa», attacca Marco Zanetti di VeneziaCambia2015. Andreina Zitelli ribadisce la richiesta che «vengano pubblicati i 300 file di integrazioni prodotti dal Porto». «È dovere del ministro Galletti, che deve tutelare la laguna e non la crocieristica».

Qui il PDF dell'esposto dell'Associazione Ambiente Venezia

Ecco perché vogliono a tutti i costi realizzare grandi opere spesso dannose, sempre costose e mai prioritarie. Sono la base procedurale e materiale di un "articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori". Il Fatto quotidiano, 16 marzo 2015
Ercole Incalza, storico dirigente del ministero dei Lavori pubblici, è stato arrestato su richiesta della procura di Firenze. Quattro persone sono finite in carcere mentre sono in corso oltre 100 perquisizioni: oltre a Incalza, l’imprenditore Stefano Perotti, il presidente di Centostazioni spa (Gruppo Fs) Francesco Cavallo e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. L’operazione è condotta dai carabinieri del Ros. Nel mirino la gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Agli indagati, a quanto si apprende una cinquantina, compresi alcuni politici, vengono contestati i reati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà degli incanti ed altri delitti contro la Pubblica amministrazione. L eperquisizioni hanno toccato gli uffici di diverse società, tra cui Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, controllata da Ferrovie dello Stato) e Anas international Enterprise. In primo piano nell’indagine, i rapporti tra Incalza e l’imprenditore Perotti, a cui sarebbero state affidate nel tempo la progettazione e la direzione dei lavori di diverse grandi opere in ambito autostradale e ferroviario, dietro compenso.

Incalza è stato un superburocrate delle Infrastrutture. Esordì nel 2001 come capo della segreteria tecnica di Pietro Lunardi nel secondo governo Berlusconi, poi nei 14 anni successivi ha “servito” Antonio Di Pietro (governo Prodi). Fu quindi Altero Matteoli (ancora con Berlusconi) a promuoverlo capo struttura di missione, con la successiva conferma di Corrado Passera (Monti), Lupi (governo Letta) e di nuovi Lupi (governo Renzi). Poi l’addio in sordina nel gennaio scorso, mantenendo comunque un ruolo di superconsulente. Nella sua trentennale carriera, Incalza è stato indagato ben 14 volte, uscendone però sempre indenne. Il suo nome ricorre nelle carte delle principali inchieste sulla corruzione nelle grandi opere, da Mose a Expo passando per la “cricca” di Anemone e Balducci. Cosa che non ha fermato la sua carriera in seno al ministero oggi delle Infrastrutture.

Tutte le principali Grandi opere – in particolare gli appalti relativi alla Tav ed anche alcuni riguardanti l’Expo, ma non solo – sarebbero state oggetto dell’”articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”. Le indagini sono coordinate dalla procura di Firenze, perché – sempre secondo quanto è stato possibile apprendere – tutto è partito dagli appalti per l’Alta velocità nel nodo fiorentino e per il sotto-attraversamento della città. Da lì l’inchiesta si è allargata a tutte le più importanti tratte dell’Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altri Grandi Opere, compresi alcuni relativi all’Expo.

Corriere della Sera Milano, 16 marzo 2015, postilla (f.b.)

Prima che sia troppo tardi, qualcuno avverta il presidente Maroni e la giunta della Regione Lombardia che c’è un’altra Brebemi in arrivo dalle parti di Pavia, un’altra inutile autostrada sulla quale bruciare milioni di soldi pubblici che potrebbero essere meglio spesi, per esempio, a rappezzare buche o rafforzare ponti. Non si può restar zitti davanti a una bancarotta annunciata come la Broni-Mortara, un miliardo e 300 milioni di investimento per un nastro di cemento che mangia mille ettari di terreno, bocciata dal Ministero dell’Ambiente e da 45 sindaci della zona, che rischia di diventare un’autostrada nel deserto con poche auto e ancor meno introiti. Non si può lasciar correre nell’anno del rilancio dell’agricoltura e dello sviluppo sostenibile, come sostiene il ministro Martina, l’ennesima faraonica opera pubblica nata nel segno della grandeur di Roberto Formigoni e Infrastrutture Lombarde, l’agenzia regionale decapitata dall’inchiesta sugli appalti di Expo. Qualche risposta si deve ai territori, alle associazioni, agli agricoltori e ai cittadini che chiedono di riconsiderare un progetto nato vecchio, fuori tempo e fuori luogo.

È vero che Milano e la Lombardia soffrono di un deficit infrastrutturale e che le tangenziali scoppiano nelle ore di punta, ma non si può realizzare una mobilità a macchia di leopardo con autostrade qui e là, che a volte sono doppioni di quelle esistenti e altre volte diventano uno spreco di risorse. Serve un piano della viabilità regionale per alleggerire le arterie più intasate con una valutazione d’impatto ambientale, e anche tempi certi nelle realizzazioni. La Broni-Mortara — come la Brebemi, la nuova autostrada da Milano a Brescia che rischia il flop per mancanza di utenti, o la Pedemontana, sulla quale per ora viaggia soltanto un terzo delle auto previste — arriva a tempo scaduto: era una buona intuizione negli anni Settanta, quando l’onda lunga del boom spingeva il traffico privato e il consumo di suolo non aveva raggiunto le punte attuali; è poco strategica oggi, per i costi esorbitanti e la nuova mobilità che sta prendendo altri indirizzi. Quanto ai costi, è inutile sottolineare che la formula del project financing, nata per convogliare investimenti privati sui grandi progetti, non sempre si rivela un affare per i contribuenti: chi paga in caso di mancato raggiungimento dei ricavi previsti?

Comunque la si giri, la Regione non può stare alla finestra. E nemmeno il ministro alle Infrastrutture. I danni da pagare, per certi impegni presi, prima o poi presentano il conto.

postilla

Netta stroncatura della politica autostradale lombarda (e padana in genere) questa del Corriere della Sera, che arriva alla fine di una clamorosa debacle economica resa evidente a tutti dopo i dati sul traffico e i nuovi finanziamenti implorati al governo. Occorre però ribadire un'altra volta, ai critici ormai numerosi di questa demenza infrastrutturale, quanto su questo sito si diceva parecchi anni fa nelle sistematiche critiche al progetto di Autostrada della Lomellina: non si tratta di una infrastruttura per la mobilità, ma anche dichiaratamente di un alimentatore di "sviluppo" territoriale, fatto su misura per produrre riprodurre e disseminare sprawl insediativo. Che oltre ad essere micidiale per l'ambiente, l'agricoltura, il paesaggio, la qualità abitativa, la stessa efficienza, ha una caratteristica “positiva” che l'ha reso sinora vincente contro ogni evidenza: coincide con le strategie di sviluppo socioeconomico di varie generazioni politiche, e non solo in Lombardia, o in Italia. Quella che è stata definita la “banda di strada” è il coacervo di interessi che a partire dal ciclo dell'auto, attraverso quello edilizio-immobiliare, alimenta il sistema disperso poeticamente soprannominato Città Infinita, purtroppo costituita di risorse quanto mai finite. Prima si capisce questo legame, cioè prima lo capiscono anche i suoi oppositori, prima si potrà davvero affrontare la questione dell'iceberg, e non solo afferrarne la cima. Su La Città Conquistatrice riproposta la descrizione e analisi più puntuale del progetto dell'autostrada della Lomellina: Fabbrica dello Sprawl (f.b.)

«Gli oppositori del progetto chiedono che tutto non si esaurisca con la pubblicazione di tutta la documentazione, ma si provveda alla riapertura dei termini per le osservazioni». Il Gazzettino, 15 marzo 2015

Recapitate le corpose integrazioni richieste al Porto dal Ministero dell'Ambiente, ora gli oppositori del progetto chiedono che tutto non si esaurisca con la pubblicazione di tutta la documentazione, ma si provveda alla riapertura dei termini per le osservazioni. A sostenerlo è Andreina Zitelli, elemento di spicco del fronte anti-Contorta e docente di valutazione ambientale. All'indomani della richiesta di integrazioni formulata dalla commissione nazionale Via, Zitelli aveva già sostenuto che le tare sollevate dalla commissione erano tante e tali da richiedere una riformulazione totale del progetto.

L'autorità portuale ha invece prodotto una corposa integrazione, nella quale è stato fatto girare nuovamente il modello dinamico della laguna. «Trecento file di integrazioni - specifica Zitelli - richiedono che vengano non solo pubblicati nel sito del Ministero ma anche che si riapra la pubblicazione per nuove Osservazioni. Dato poi le dichiarazioni sulle pretese ragioni di "imperativo interesse pubblico" del Contorta rilasciate dal presidente Paolo Costa rinnoviamo la domanda dell'inchiesta pubblica e riteniamo un dovere da parte del Ministro Galletti di accordarla alla Città di Venezia e, a maggior ragione, per il fatto che il Ministro dell'Ambiente, appunto, ha come primo compito la tutela della laguna».
Zitelli e il fronte che si oppone allo scavo del nuovo canale per far arrivare le grandi navi in Marittima, torna alla carica ricordando che la Commissione aveva chiesto tra le altre cose una nuova e approfondita campagna di caratterizzazione dei sedimenti, poiché il sito di scavo del canale non coincideva con le campagne già svolte nella laguna e prodotte alla Commissione. «Non vorremmo - conclude Zitelli - che si scordasse che é precipuo obiettivo della valutazione di impatto ambientale tutelare un ambiente unico e irripetibile, difeso dalle Direttive europee come quello della laguna. Per risolvere il problema vi sono più ipotesi che vanno valutate e confrontate».


Abbiamo pubblicato o ripreso numerose denunce e appelli (vedi i collegamenti in calce) perché terminasse il lavorio del PD toscano volto a svuotare d'ogni contenuto di tutela il piano paesaggistico, che ci era sembrato l'eccellente prodotto della collaborazione tra il presidente Rossi e l'assessora Marson. Con la sua lettera a Paolo Baldeschi il presidente risponde a proposito di una delle questioni coinvolte: le cave nelle Alpi apuane. Su questo punto la risposta è parziale, sul resto (ossia sullo svuotamento totale, a botte di emendamenti, del Piano paesaggistico) il silenzio è totale. Non possiamo che riprendere il titolo e il contenuto di un nostro articolo: Sconfitta di Enrico Rossi?, togliendo il punto interrogativo (e.s.)


La lettera di Enrico Rossi
Presidente della Regione Toscana
Ringrazio lei e gli altri cittadini che mi avete scritto. Vi rispondo conpiacere fornendovi anche alcune informazioni che forse non sono in vostropossesso.

Il nostro obiettivo è sempre stato quello di tenere insieme lavoro ebellezza. Proprio per questo saranno vietate le aperture di nuove cave sopra i1.200 metri ed incentiveremo la filiera produttiva locale. Una scelta che ciconsente da un lato di tutelare le vette e i crinali apuani e dall'altro di farsì che una maggiore occupazione e ricchezza ricada sul territorio.

Ritengo che il documento che abbiamo elaborato, superando contrapposizionie diatribe su cui non sempre le posizioni più estreme risultano essere le piùfondate, rappresenti un punto di arrivo per tutti. E’ del tutto normale che sutemi così importanti si discuta e si confrontino posizioni diverse ed ancheestreme, tra chi vorrebbe chiudere le cave e chi invece vorrebbe continuare afar tutto come prima. In democrazia le proposte si discutono e si cercanosoluzioni il più possibile condivise, senza le quali anche le migliorielaborazioni rischiano di restare esercizi puramente accademici. E’ proprio daquesto confronto che scaturiscono le soluzioni più avanzate. Ne è riprova chela Toscana sarà la prima e unica regione ad avere approvato un piano checontiene sia la parte vincolistica che precise direttive per gli ambititerritoriali della nostra regione, a cui dovranno conformarsi gli strumentiurbanistici dei Comuni.

La legge sulle cave che il Consiglio Regionale ha approvato dichiarapubblici i beni stimati, raddoppia le tasse di concessione dovute agli Entilocali e stabilisce che il marmo scavato dovrà essere lavorato, sempre più, alivello locale.

E’ la prima volta che la Regione affronta questi temi perdotarsi di regole di carattere sociale e ambientale. Sono certo che la vostrasensibilità ambientale vi faccia comprendere ed apprezzare lo sforzo che stiamocompiendo per dare, finalmente, una risposta positiva a queste importantiquestioni.

Agli imprenditori del marmo ho chiesto anche di investire nellasalvaguardia ambientale così come hanno fatto gli industriali del cuoio con gliimpianti di depurazione.

Assumersi le responsabilità di governo del territorioè oggi una grande sfida perché richiede di interpretare e governare fenomenicomplessi, di trovare equilibri tra interessi diversi e spesso contrastantiascoltando le (buone) ragioni di tutti, ma allo stesso tempo tenendo ferma lapropria responsabilità che è quella di promuovere sviluppo e salvaguardia delterritorio.

Spero di avere contribuito a fare chiarezza su questa vicenda e le invio imiei più cordiali saluti.
Enrico Rossi
La replica di Paolo Baldeschi
opinionista di eddyburg


Caro presidente Enrico Rossi,
La sua lettera credo sia rivolta a tutti coloro che, come me, sperano chelei mantenga l'impegno di fare della Toscana una regione più progredita nellatutela e nella valorizzazione del proprio territorio; mi permetto perciò dirisponderle, credo anche a nome di gran parte dei suoi interlocutori critici.

IlPit-Piano paesaggistico, avrebbe potuto essere il coronamento di una politicacoraggiosa e innovativa - di cui la Legge 65 del 2014 è un importante tassello.Tuttavia, in questi giorni, la maggioranza del Pd, in sintonia con l'opposizione,sta radicalmente cambiando con emendamenti pervasivi il Piano già controdedottoe approvato dalla Giunta regionale.

Lei ha affermato, in un'intervista apparsasul Corriere fiorentino, che si tratta di limature e di parole, come se si trattassedi quisquilie. Ma la disciplina di un piano è fatta essenzialmente di parole:sostituire "evitare" con "contenere" o, addirittura"armonizzare" non è cosa di poco conto. Nel primo caso, si tratta diuna direttiva chiara e ineludibile. Nel secondo, ci si affida alla buona volontàdei Comuni; nel terzo le parola è soggetta a qualsiasi interpretazione.

Questoesercizio di svuotamento del Piano è stato e viene condotto dal suo partito inmodo sistematico nella sesta commissione in accordo con i consiglieri di ForzaItalia. Un'opera di demolizione dello spirito e delle finalità del Piano cheaddirittura viene estesa al quadro conoscitivo, materia che ha come fondamentosolide analisi e su cui i consiglieri regionali sono incompetenti, sia nellasostanza, sia istituzionalmente.

Non spetta, infatti, ai politici decidere -per fare un esempio - se un territorio è esondabile e se ciò costituisce unacriticità (criticità di cui la sesta commissione invitava i Comuni a non tenereconto). Qui ci troviamo davanti a un'operazione di censura oltremodoilliberale, che rasenta lo stile del MinCulPop, la censura di dati comprovati einoppugnabili, oltre che la censura delle idee. Così si dà, addirittura, vialibera alle discariche ed infrastrutturazioni edilizie nelle balze e neicalanchi del Valdarno, via libera alle nuove espansioni che compromettono laleggibilità dei centri di crinale, via libera alle nuove espansioni lungo l'Arno.

Queste sì sono "posizioni estreme" che vanno contro non solo a ognievidenza scientifica, ma anche contro il semplice buon senso. E dimostrano l'insofferenzadi qualsiasi regola, che è un tipico tratto di arretratezza, culturale primaancora che politica; in controtendenza rispetto a quanto sta facendo l'Europapiù moderna che ovunque si dà regole e progetti condivisi con i cittadini perpianificare il proprio futuro.

In conclusione, ciò che noi cittadini possiamo constatare è che il suopartito, almeno nel Consiglio regionale, non solo ha rovesciato il programma ele alleanze elettorali, ma anche un valore fondamentale della sinistra: che gliinteressi delle popolazioni, la loro salute, la loro sicurezza, il lorobenessere, prevalgono sugli interessi privati, soprattutto quando questi sipresentano come rendite parassitarie e ingiustificati privilegi.

Caro Presidente, lei ha ancora l'occasione di tenere fede al mandato percui è stato eletto. Lo faccia non solo per i cittadini toscani, ma per leistesso.
Paolo Baldeschi

Riferimenti

A proposito dells guerra sul paesaggio della Toscana abbiamo inserito su eddyburg i seguenti articoli (s.e.o.):

10 febbraio. Paolo Baldeschi, Dario Parrini: dottor Jekyll e mr Hyde
22 febbraio, Edoardo Salzano, Sconfitta di Enrico Rossi?
22 febbraio, Ella Baffoni Paesaggio. Il PD cambia verso
27 febbraio, Associazioni nazionali, Giù lemani dal piano paesaggistico della Toscana
09 marzo, Tomaso Montanari, SOS per il piano toscano delpaesaggio
12 marzo, Marco Gasperetti, Allarme di Pardi

13 marzo, Francesco Erbani, Toscana guerra sul paesaggio

Fra qualche giorno il PD veneziano, i suoi alleati e i cittadini veneziani che, pagando due euro, vorranno partecipare alle primarie, decideranno chi sarà il loro candidato alle elezioni per il sindaco. La Repubblica, 13 marzo 2015, con postilla

Primarie a otto mesi dal patatrac di giugno, quelle che si tengono domenica a Venezia tra gli elettori del centrosinistra. Primarie con tre candidati sindaci del Pd che si contendono un difficile dopo Orsoni, l’ex primo cittadino coinvolto nello scandalo del Mose, dimessosi da sindaco dopo aver chiesto il patteggiamento ed essere stato di fatto sfiduciato dal partito. Primarie vivaci, con scintille soprattutto tra i due aspiranti che, secondo i pronostici, si contendono il primato. Uno è Felice Casson, magistrato che ora siede in Senato con i Democratici (sottofamiglia civatiana). Si era già candidato nel 2005, non alle primarie ma alle elezioni vere, contro Massimo Cacciari. Che lo sconfisse contro ogni pronostico.

Il suo avversario diretto è un giornalista e un figlio d’arte. Si chiama Nicola Pellicani, una vita al giornale la Nuova di Venezia e Mestre, ma soprattutto animatore di quella Fondazione intitolata al padre, già vicesindaco della città, parlamentare del Pci, politico a suo tempo vicinissimo a Giorgio Napolitano, e scomparso nel 2006. Proprio in quell’anno nasce la Fondazione Gianni Pellicani, pensatoio che sforna proposte e progetti per Venezia. Il terzo candidato è un ex consigliere comunale (si è dimesso dopo che Orsoni ha chiesto il patteggiamento, poi negato): l’avvocato 37enne Jacopo Molino, un renziano della prima ora.

Ma la complessa geografia interna al Pd c’entra fino a un certo punto in questa competizione. Pellicani, per dire, rivendica l’appoggio dei renziani, oltre che dei bersaniani: «Mi hanno chiesto di candidarmi dopo che si era già fatto avanti Casson, e così io sono partito con un mese di ritardo, mettendo a disposizione le idee e le soluzioni indicate dalla Fondazione, ho capito che questa esperienza poteva diventare un progetto politico». E il magistrato-senatore: «Con Pellicani c’è l’apparato del partito, con me ci sono le persone». Mentre Molina rivendica un «rinnovamento profondo, ma senza alcun timore di pestare i piedi ai portatori di interessi, che a Venezia sono molti».

Ridotta all’osso, la questione pare semplice, e in questi termini la pone l’ex sindaco Massimo Cacciari, che della Fondazione Pellicani è presidente: «Mi auguro prevalga una candidatura in continuità con le precedenti amministrazioni, che per 25 anni, e al di là della responsabilità personale di Orsoni nella vicenda Mose, hanno sempre governato bene la città; si tratta di contemperare le ragioni della salvaguardia di questo territorio particolarissimo con le sacrosante esigenze di sviluppo, altrimenti Venezia è spacciata; l’unico candidato che può garantire questo esito è Pellicani».

Insomma: secondo Cacciari, Casson punterebbe solo a fare lo “sceriffo” e il “giustiziere”, facendo leva sull’indignazione dei veneziani - soprattutto i 50mila che vivono in laguna, ma ci sono anche i 200mila di Mestre, e Pellicani è mestrino - vestendo i panni del rottamatore con un programma che, sempre per Cacciari, dice solo dei no: «Alle grandi navi, al porto di Marghera, al turismo». Insomma, una candidatura tutta “rossoverde”, e non a caso ad appoggiare Casson c’è anche Rifondazione comunista: un suo ex consigliere comunale, Sebastiano Bonzio, si era candidato alle primarie, ma poi si è ritirato dalla gara. Il “prima”, quel che è successo a Venezia a partire dal 4 giugno, è ben presente nelle riflessioni di Pellicani: «In questa città ci vuole una nuova classe politica, e ci vogliono anche nuovi dirigenti nell’amministrazione; Venezia è bloccata da anni, il Comune non dialogava col Porto e con le categorie produttive e bisogna colmare il gap; questo non significa affatto assecondare alcuni interessi, ma riportare la politica al centro di tutto». Casson ribatte e accusa: «Pellicani dice che in caso di vittoria non avrà assessori della vecchia giunta, che però adesso sono tutti schierati con lui; la gente vuole un cambiamento radicale, e solo io posso assicurarlo: sono l’alternativa non solo a Orsoni, ma anche a tutte le giunte che l’hanno preceduto».

C’è dunque un problema nel Pd, e non da poco. Anche a Venezia alle europee del maggio scorso Renzi è andato benissimo, ma il timore di Pellicani è che se vincesse Casson i «moderati guarderebbero altrove, e infatti il centrodestra tifa per lui». Le categorie produttive osservano e aspettano: Matteo Zoppas, presidente di Confindustria a Venezia, non si esprime e rimanda tutto agli esiti di un sondaggio commissionato tra gli associati, «per capire quali sono le priorità in vista delle elezioni». Più esplicito Vittorio Bonacini, titolare dell’hotel Continental e presidente dell’associazione albergatori: «Tutti i candidati sono rispettabilissimi, ma Pellicani è una persona straordinaria, figlio di un mostro sacro della politica, ma senza tessere di partito; grazie alla sua fondazione, esprime una grande conoscenza della città; solo se vince lui queste primarie, alle elezioni vere arriveranno anche i voti dei moderati: altrimenti a prevalere saranno gli altri».

postilla


Ha ragione Massimo Cacciari: il candidato del PD che meglio potrebbe garantire la continuità con la politica dell'ultimo ventennio è Nicola Pellicani. Molti pensano che quella sia stata una politica nefasta, non tanto per la corruzione provocata dal regime MoSE, quanto per l'asservimento dell'intero centro sinistra ai grandi poteri economici, rappresentato dagli enti del porto e dell'aeroporto, dal Consorzio Venezia Nuova, e dal coacervo d'interessi grandi e piccoli che lucrano sulla mercificazione della città. Pellicani E' certamente il candidato del PD più vicino a questo mondo e ad esse gradito. Ma molti dei veneziani critici dell'establishment che ha condotto Venezia all'attuale degrado ritengono che il rischio non sia solo l'ipotesi Pellicani-sindaco il rischio, ma anche il forte condizionamento che il PD in quanto tale eserciterebbe sull'eventuale affermazione di Casson alle primarie. Si spera che qualche novità positiva emerga dopo le primarie del PD. Non è detto che il candidato scelto con queste primarie (alle quali può partecipare chiunque abbia almeno 16 anni e paghi 2 euro). diventi Sindaco.

Rischia lo stravolgimento il provvedimento dell’assessore Anna Marson che tutela le Alpi Apuane minacciate dalle cave e le coste La sottosegretaria Borletti: “Il Mibact potrebbe non approvarlo”». La Repubblica, 13 marzo 2015

E il paesaggio? Nel gran rumore di soprintendenti che cambiano sede e nell’attesa che arrivino i super direttori di venti musei, in molti s’interrogano: e il paesaggio? La riforma del ministero per i Beni culturali avvia i motori, ma il paesaggio non sembra al centro degli interessi. In Toscana — un paesaggio italiano esemplare — in questi giorni si scaricano pericolose tensioni. Qui è in approvazione il piano paesaggistico messo a punto nell’assessorato di Anna Marson, urbanista, docente a Venezia.

Ma il testo originale più procede verso il varo più viene stravolto da emendamenti provenienti dal partito di maggioranza, il Pd (e in particolare dalla componente renziana) che in commissione vota di concerto con Forza Italia. Il presidente Enrico Rossi ha tentato una mediazione, che non ha sortito grandi effetti. La battaglia politica è serrata. Condizionata anche dalla campagna per le elezioni regionali di maggio. Ogni votazione riserva sorprese. Volano le accuse di «voler ingessare il territorio » e di «bloccare lo sviluppo». Sono state modificate persino le cosiddette “schede d’ambito”, le descrizioni, cioè, delle caratteristiche salienti di alcuni territori, e si è messo in evidenza, per esempio, il “valore identitario delle cave di marmo”. Ma una disciplina rigorosa per le attività di cava, tale da non manipolare il paesaggio delle Alpi Apuane, è proprio uno dei punti cardine del piano. Contro la quale disciplina si sono mobilitati coloro che invece vorrebbero estrarre quanto più possibile, squarciando montagne anche in aree protette.

I punti controversi sono tanti. In pericolo le dune e altre zone costiere, denunciano gli ambientalisti. Dove si parla di “evitare” certi interventi, si preferisce “limitare”. E poi: quanto il piano deve essere prescrittivo, quanto cioè esso deve dettare regole e non solo indicazioni di massima? Senza contare la salvaguardia di una caratteristica tipica del paesaggio rurale toscano, in specie dei vigneti, fatto di tante tessere diverse e sempre più minacciato da grandi estensioni uniformi.

Il Codice per i beni culturali (approvato fra 2004 e 2008) stabilisce che i piani paesaggistici siano redatti insieme dalle Regioni e dal Mibact, cioè dalle soprintendenze. I piani sono uno strumento fondamentale per conoscere un territorio, per evidenziarne i valori, ma soprattutto per stabilire che cosa si può fare e che cosa no. Ad essi devono adattarsi tutti gli altri documenti urbanistici, compresi i piani comunali. La riforma del Mibact, però, mette a soqquadro le soprintendenze, che ora tengono insieme arte, architettura e, appun- to, paesaggio, e declassa le direzioni regionali, che prima erano protagoniste della copianificazione.

Il futuro appare incerto. Ma il presente non è migliore. Di piani paesaggistici approvati ce n’è uno solo, quello della Puglia, faticosamente redatto sotto la guida di Angela Barbanente, assessore e docente a Bari, e dell’urbanista Alberto Magnaghi. Sono stati individuati come beni paesaggistici meritevoli di tutela masserie, pascoli, lame, gravine. E ci si è dati regole per la rimettere in sesto le aree degradate.

«Siamo maledettamente indietro», ammette Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario del Mibact con delega al paesaggio. «Abbiamo uno strumento unico, ma è poco amato». Poco amato proprio mentre altri rischi incombono per le procedure accelerate e commissariate previste per le Grandi Opere dallo Sblocca Italia. Ma neanche il ministero ha sciolto i suoi nodi. Il Codice stabilisce che esso debba fissare «le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio». Ma queste linee non sono mai state elaborate.

Nel fuoco delle polemiche di questi giorni Marson insiste sui punti-chiave del suo piano, sul bisogno di «superare il concetto della sola tutela» e di passare a «codificare nuove regole ». Altro punto qualificante: il piano non deve occuparsi solo dei paesaggi eccellenti, di cui la Toscana può menar vanto, «ma anche dei paesaggi delle periferie, delle campagne urbanizzate, delle lottizzazioni, delle zone industriali degradate, dei bacini fluviali a rischio».

La Toscana è il suo paesaggio, insiste Marson. E un paesaggio non è solo attrattività turistica, «ma un valore aggiunto per diverse iniziative economiche». Alcuni esempi: le zone rurali ricche di casali di altissima fattura; diversi sistemi di città e di borghi che attirano imprenditoriali innovativi; e poi la rete di cantine, «un esempio di ritorno alla magnificenza civile degli insediamenti industriali del primo Novecento».

Cosa succederà? Il voto è previsto la prossima settimana. Cosa farà Anna Marson? «Dirò in aula quel che penso, e se vogliono, mi cacceranno ». «Valuteremo il piano che uscirà dal Consiglio regionale, sperando che non venga stravolto», interviene Ilaria Borletti, «il ministero lo approverà solo se sarà conforme al Codice ».

«La sicurezza della navigazione perseguita come prioritaria col decreto Clini-Passera può considersi come intervento di rilevante interesse pubblico, per la legge italiana deroga alla normativa comunitaria». E' questo l'interesse pubblico? La Nuova Venezia, 13 marzo 2015 (m.p.r.)

«Il Contorta si può fare anche se avesse un'incidenza negativa sull'ambiente e sul sito di importanza comunitaria. Perché rappresenta un «intervento di interesse pubblico» che la legge prevede sia prioritario». E la tesi sostenuta dal presidente dell'Autorità portuale Paolo Costa nella lettera di accompagnamento alle risposte inviata ieri alla commissione Via. Costa ha scritto ai ministri dell'Ambiente Gianluca Galletti, delle Infrastrutture e Trasporti Lupi, oltre che al presidente della Regione Luca Zaia e al commissario Vittorio Zappalorto.

«La tutela della sicurezza della navigazione», scrive Costa, «perseguita come prioritaria dal governo con il decreto Clini-Passera può essere considerata come intervento di rilevante interesse pubblico, che la legge italiana contempla come deroga alla normativa comunitaria». In mancanza di alternative, insomma, il progetto si potrebbe fare comunque. E le alternative sul tappeto, precisa Costa, non sono ricevibili per motivi «tecnici». Ancora, si tratta di dar corso a una direttiva del Comitatone - l'unico convocato a Roma senza il sindaco, sostituito dal commissario - che non prevede, dice Costa, di individuare «siti alternativi alla Marittima», ma «vie d'accesso alternative alla Marittima». Scartate dal Porto Marghera e il Lido non resterebbe che il Contorta.

Tesi ovviamente contestata dalle associazioni e anche dai candidati sindaci alle primarie Casson, Molina e Pellicani, pur con sfumature diverse. Dunque, avanti con il Contorta. Nella cassa di documenti inviata a Roma per rispondere alle 27 pagine di osservazioni della commissione Via, il Porto ritiene di aver dato con la documentazione integrativa «risposte utili a soddisfare tutti i chiarimenti richiesti». Di più, nella lunga lettera inviata da Costa al governo di ribadisce come lo scavo del canale Contorta non sia affatto uno «sfregio» alla laguna, come sostengono gli ambientalisti e i tanti critici alla grande opera. Ma anzi «un modo per attuare con interventi concreti il Piano morfologico della laguna». Cioè la ricostruzione delle barene che andrebbe fatta utilizzando i milioni di metri cubi di fanghi scavati dai fondali. «Ci sono i 70 milioni di euro necessari, che lo Stato non avrebbe mai messo», dice Costa, «e la qualità dei sedimenti stando agli ultimi studi è compatibile con il suo reimpiego in laguna».

Infine, i tempi. Il ministro per l'Ambiente Gianluca Galletti ha esortato a «concludere l'esame del progetto per giungere all'urgente individuazione di una soluzione alternativa al transito delle grandi navi davanti al bacino San Marco». II Porto ha chiesto che siano rispettati i tempi (entro il 10 aprile) per togliere l'incertezza agli operatori. Ma i comitati studiano ricorsi.

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