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«Chi agi­sce ricor­rendo ad una vio­lenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la poli­tica, il diritto di mani­fe­stare paci­fi­ca­mente, mette in un angolo i movi­menti che vogliono espri­mere - anche in piazza - un’altra visione del mondo». Il manifesto, 3 maggio 2015

Che senso ha ince­ne­rire la giu­sta lotta per il diritto al cibo con una raf­fica di molo­tov? Come si pos­sono con­tra­stare la povertà e la fame nel mondo, se si dan­neg­giano negozi, se si incen­diano le auto di cit­ta­dini incol­pe­voli, se si mette in campo solo una anar­chica voglia di distru­zione? Cosa signi­fica mani­fe­stare indos­sando una maschera antigas?

Ha ragione il sin­daco di Milano, Pisa­pia, a defi­nire imbe­cilli que­sti tra­ve­stiti di nero che si diver­tono a fare i cat­tivi. A volto coperto. Tut­ta­via non basta qual­che agget­tivo per cata­lo­gare dei com­por­ta­menti scon­si­de­rati. Per­ché chi agi­sce ricor­rendo ad una vio­lenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la poli­tica, il diritto di mani­fe­stare paci­fi­ca­mente, mette in un angolo i movi­menti che vogliono espri­mere — anche in piazza — un’altra visione del mondo.

Gli effetti del van­da­li­smo anti-Expo del primo mag­gio non sono solo quelli che abbiamo visto nelle imma­gini tv. Ce ne sono altri, meno evi­denti. Eppure molto con­creti. Per­ché secondo il pre­ve­di­bile copione, la legit­tima pro­te­sta e la con­te­sta­zione della ras­se­gna uni­ver­sale sono state offu­scate pro­prio dal fumo nero che si è levato dai tanti foco­lai di incen­dio pro­vo­cati dai piro­mani di professione.

Que­sti cosid­detti black bloc cono­scono bene le regole della comu­ni­ca­zione, sanno benis­simo che il sen­sa­zio­na­li­smo delle loro azioni viene usato per igno­rare i com­por­ta­menti, paci­fici, altrui. E que­sto ruolo non gli va più con­cesso: i movi­menti devono essere i primi a sen­tirsi dan­neg­giati per quanto è acca­duto. E com­por­tarsi di con­se­guenza, pren­dendo le distanze e difen­den­dosi da chi ha nulla a che fare con la politica.

L’Expo può essere e deve essere cri­ti­cato. Per­ché non risol­verà i pro­blemi degli affa­mati della Terra. Per­ché l’economia mon­diale non può restare nelle mani delle mul­ti­na­zio­nali che, come dice Van­dana Shiva, pen­sano soprat­tutto a nutrire se stesse, non certo il Pia­neta. Per­ché come accade con i grandi eventi, sem­pre molto costosi, dif­fi­cil­mente sedi­men­terà qual­cosa che durerà nel tempo. Per­ché biso­gna essere dav­vero otti­mi­sti per cre­dere che risol­le­verà il nostro Pil di qual­che deci­male. Per­ché una delle “voca­zioni” del paese, il turi­smo, non si ali­menta con le mani­fe­sta­zioni a ter­mine ma con una stra­te­gia e inve­sti­menti di ampio respiro.

La vio­lenza ha messo in un angolo anche l’altro Primo Mag­gio, quello più auten­tico e sto­rico: la festa del lavoro che non c’è. La messa a soq­qua­dro di Milano ha fatto pas­sare in secondo piano la pro­te­sta sin­da­cale con­tro il governo e i suoi fal­laci e pate­tici pro­clami sulle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti del Jobs Act. E ha messo in sor­dina il forte mes­sag­gio lan­ciato da un luogo sim­bo­lico dell’accoglienza agli immi­grati in fuga da guerre, dispe­ra­zione, fame. Forse Poz­zallo, pic­colo paese sici­liano, rap­pre­sen­tava il vero con­tral­tare all’abusata reto­rica del pre­si­dente del Con­si­glio all’inaugurazione dell’Expo.

Tutto que­sto è stato “bru­ciato” da chi ama distrug­gere le cose e anche le idee e le opi­nioni costruite fati­co­sa­mente. E soprat­tutto quelle die­tro le quali si nascon­dono. Per­ché agi­scono insi­nuan­dosi e con­fon­den­dosi nei cor­tei, nei movi­menti. Ai quali diamo un mode­sto con­si­glio: la pros­sima volta si scenda in piazza con un effi­ciente ser­vi­zio d’ordine. Un tempo si orga­niz­za­vano come stru­mento di auto­di­fesa. In primo luogo dalla poli­zia che, sta­volta, ha fatto un’opera di con­te­ni­mento, evi­tando di pro­vo­care uno scon­tro gene­ra­liz­zato che avrebbe avuto ben altre con­se­guenze. Adesso i ser­vizi d’ordine devono ser­vire anche per distin­guersi da chi pensa che ferire il cen­tro di una città sia la solu­zione. Ma una pre­senza orga­niz­zata in piazza non si improv­visa, richiede una coe­sione poli­tica e sociale che manca sia nei movi­menti che nella sini­stra di alternativa.

«Siamo chiamati ad assumerci di più la nostra responsabilità che non possiamo solo chiedere a chi governa, a cui dobbiamo chieder senza sconti di assumersi la loro parte. Ma non possiamo essere cittadini a intermittenza». Agenzia askanews, Milano, 2 maggio 2015

Un documento di analisi e denuncia ma anche una proposta su come superare un modello agricolo industriale che ha fallito, fondato sulla sottrazione e su processi che distruggono la vita e punta solo al profitto di pochi: è il Manifesto Terra Viva, presentato da Navdanya International, Banca Etica e Fondazione Triulza al padiglione della società civile di Expo 2015. Frutto del lavoro di un panel internazionale di ricercatori, è stato presentato da Vandana Shiva, presidente di Navdanya International, don Luigi Ciotti, presidente di Libera, Maurizio Martina, ministro delle Politiche Agricole, Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica ed Etica Sgr, Sabina Siniscalchi, vicepresidente vicario di Fondazione Triulza.

«La crisi che stiamo affrontando è profonda e sta portando milioni di persone alla violenza, nella fame, a fuggire dalla loro terre, tutto questo è collegato al fatto che il suolo è stato sfruttato, il modo in cui produciamo il cibo sta distruggendo la salute del pianeta e la nostra» ha detto l'ambientalista indiana.

Il lavoro del Manifesto parte dai dati: al suolo urbanizzato entro il 2030 si aggiungerà una città estesa come il Sudafrica, la terra fertile è stata erosa a una velocità tra le 10 e le 40 volte superiore alla sua capacità di rigenerazione, il 40% delle guerre degli ultimi 60 anni è stato causato da clima, suolo, risorse: la crisi in Siria e il terrorismo di Boko Haram sono figli anche dei mutamenti climatici.

«Il modello economico che abbiamo è basato sullo sfruttamento e ci porta alla disuguaglianza, l'1 percento della popolazione controlla metà della ricchezza mondiale, è molto ingiusto e non sostenibile. Papa Francesco sta sottolineando questi temi perché l'umanità si svegli in tempo».

I cittadini devono essere protagonisti di questo percorso, e sono chiamati in causa con precise responsabilità, come spiega don Ciotti. «Noi dobbiamo impegnarci non basta dire che bravo papa Francesco, non basta battere le mani, lui chiede ma deve essere responsabilità e impegno di tutti a sporcarci le mani, di terra che vuole dire dignità, libertà è vita per le persone. Siamo chiamati ad assumerci di più la nostra responsabilità che non possiamo solo chiedere a chi governa a chi amministra le istituzioni, a cui dobbiamo chieder senza sconti di assumersi la loro parte. Ma c'è una parte che chiama gioco anche noi come cittadini, non possiamo essere cittadini a intermittenza».

La nuova agricoltura che Terra Viva propone è parte di un processo che punta a ridefinire il concetto di democrazia e libertà.

Ilfatto quotidiano.it, 1° maggio 2015 (m.p.r.)

Il Museo Civico archeologico di Cirò Marina dal 9 aprile ospita, provvisoriamente, l’acrolito di Apollo Aleo, proveniente dal Museo Archeologico di Reggio Calabria ma recuperato nel 1929, durante la prima campagna di scavi nell’area archeologica di Punta Alice. Un pezzo straordinario allontanato dal suo contesto. Il santuario scavato nel 1924 da Paolo Orsi e poi, tra gli anni Settanta e Novanta, interessato da campagne di scavo e di rilievo eseguite dall’Istituto Germanico e dalla Soprintendernza archeologica della Calabria. Un edificio datato al VI secolo a.C., ma la cui attività di luogo sacro si protrasse almeno per due secoli. Santuario del quale restano per breve altezza lo zoccolo del muro perimetrale della cella e le basi del colonnato centrale e dei pilastridell’ambiente ad ovest della cella. Le condizioni di conservazione più che precarie. Con le superfici dei blocchi, quasi tutti distaccati, alveolizzate.

La musealizzazione all’aperto poco più di un’idea. Con il pannello didattico, appoggiato a terra, leggibile solo in parte. L’accessibilità all’area recintata assicurata da un cancello. Sempre aperto. Al taglio dell’erba spontanea, provvedono gli animali al pascolo. Un luogo quasi incantato. Con il mare all’orizzonte e prima il faro. Ma quasi a ridosso dell’area archeologica le strutture industriali dello Stabilimento Syndial. Un frammento di paesaggio nel quale le scelte industriali del passato continuano a mostrarsi nella loro ingombrante fisicità. Ma intanto meritoriamente si è deciso di provvedere alla risistemazione dell’area archeologica. Aggiudicata la gara di appalto per i lavori di ‘scavo, restauro e musealizzazione del santuario dedicato ad Apollo Aleo’, finanziati con fondi Por Calabria, Fesr 2007-2013 per un importo di quasi500 mila euro. Tra le misure previste anche interventi conservativi, adeguamenti funzionali e di sicurezza, oltre ad un centro polifunzionale.

“Una struttura molto flessibile, predisposta ad ogni tipo di attività artistica e culturale, darà servizi e potrà accogliere manifestazioni ed istallazioni volte a valorizzare in ogni caso il sito e il territorio in generale“, si legge nelle Relazioni tecniche generali. Mentre nelle Relazioni specialistiche si specificano luoghi e modalità delle indagini, alle quali sono da aggiungersi “scavi preventivi laddove il progetto prevede la realizzazione della struttura del punto informativo“. Insomma sembra che si sia pensato proprio a tutto. Naturalmente compresa la scelta della ditta che si occuperà dei lavori, l’impresa edile Serafina Sammarco, che ha avuto la meglio anche su società con chiare competenze nell’ambito dei Beni Culturali. Circostanza questa che potrebbe essere poco rilevante se non fosse che nella cifra complessiva a disposizione il 43,51%, pari a 212.953,85 euro, come da capitolato, sarà per lavori di scavo archeologico.

Cifra alla quale vanno aggiunti i 51.142,70 euro, pari al 10,51% dell’intera cifra, per il restauro archeologico. Eccezione questa alla quale la Relazione specialistica Scavo, restauro e musealizzazioneha pensato. Basterà fare ricorso ad “archeologi specializzati di provata esperienza che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno cinque anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti Universitari e … a topografi-disegnatori che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno sette anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti universitari“. Quindi alla mancanza di competenze specifiche l’impresa ovvierà con il coinvolgimento di professionisti che rispondano ai requisiti indicati. Ma non è tutto.

A suscitare una certa preoccupazione è il criterio stesso che ha indirizzato la scelta finale, ovvero il ribasso percentuale sulla cifra complessiva. Un 21,80%, che ha sbaragliato la concorrenza. Un ribasso lontano da quelli ben oltre il 50% registrati a Pompei, in diversi appalti per il restauro di parti della città antica. Ma in ogni caso meritevole di una giusta attenzione. Perché quel che è accaduto al teatro della città campana, restaurato impropriamente e al centro prima di ribassi e poi di rialzi praticati dalla Caccavo srl è un caso emblematico. Di come, spesso il ribasso preceda il rialzo, non di rado comportando interventi sbagliati con materiali inadeguati. Passare dall’abbandono, motivato dalla mancanza di risorse, ad un intervento inappropriato, causato da incerte competenze, sarebbe una sciagura. Che il tempio di Apollo ‘protettore del mare e della navigazione’ non merita.

Si cominciano a misurare gli effetti del MoSE, i cui lavori hanno già sconvolto equilibri antichi, provocato modifiche disastrose dell’ecosistema, della fauna e della flora, determinato uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della Laguna. Una ragionevole Grande Opera sarebbe la demolizione del MoSE e il ripristino della situazione preesistente. La Nuova Venezia, 1° maggio 2015

La laguna è un colabrodo. E nella bocca di porto di Malamocco la corrente e le modifiche dovute ai lavori del Mose hanno scavato buche profonde fino a 50 metri. Una “Fossa delle Marianne” in piena laguna. Che sconvolge equilibri antichi, provoca modifiche dell’ecosistema, della fauna e della flora. E uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della laguna. Un timore da tempo avanzato dai pescatori e dagli esperti di morfologìa lagunare. Adesso documentabile, con le fotografie scattate da un appassionato chioggiotto dall’ecoscandaglio a bordo della sua barca.

Nei pressi del Faro Rocchetta, agli Alberoni, il fondale un tempo abbastanza piatto e omogeneo presenta adesso voragini impressionanti. Entrando dal mare in bocca di porto lo strumento segnala dapprima una profondità media di 12-14 metri, con punte di 15. Poi, improvvisamente, all’altezza della conca di navigazione, ecco le prime buche di oltre 30 metri. Si risale a 27,9, poi di nuovo una “fossa” e si precipita a 43,8. Entrando verso il canale dei Petroli, proprio davanti al Faro Rocchetta, nuove buche oltre i 40 metri.
È l’area dove per costruire il Mose e la vicina conca di navigazione il Consorzio Venezia Nuova aveva costruito un terrapieno in sassi. La modifica delle profondità per la posa dei cassoni sul fondale e geotessuti per mantenere nel punto dove saranno posate le paratoie una profondità omogenea, hanno prodotto più avanti le nuove profondità. La forte corrente in entrata, che “sbatte” contro la nuova penisola, e più in generale lo scavo e la modifica dei fondali produce ogni giorno trasformazioni. Da tempo ambientalisti e studiosi lanciano l’allarme. La laguna perde ogni anno circa un milione di metri cubi di sedimenti. Significa che con la marea se ne vanno in mare pezzi importanti della morfologia lagunare e delle barene. Trasformazioni che hanno prodotto un’accelerazione della corrente in entrata al Lido e una velocità maggiore di propagazione. Mentre la corrente calante (dozana) ha una velocità minore.

Secondo alcuni tecnici è anche colpa delle nuove lunate costruite al largo del Lido e di Malamocco. Che hanno anch’esse modificato la circolazione delle acque e delle correnti. Ecosistema in pericolo, dunque. Già nel 2002 l’Atlante della laguna, edito dall’assessorato Ambiente del Comune, segnalava le zone “rosse”, giudicate in pericolo di erosione. Barene che scompaiono, canali sempre più profondi. Da allora nulla si è fatto. E i lavori del Mose hanno nel frattempo aggravato la situazione.
La Repubblica, edizione Napoli, 30 aprile 2014

MA Marcello Fiori è un incompreso profeta della valorizzazione del patrimonio culturale o un dilapidatore (doloso o colposo) della finanza pubblica? Leggendo l’ordinanza con cui la Corte dei conti ha in parte accolto le richieste del sostituto procuratore Luciano, disponendo il sequestro di 2.164.932 euro appartenenti all’ex commissario straordinario di Pompei, ora coordinatore dei club Forza Silvio, si capisce che saranno queste due tesi a fronteggiarsi nel processo contabile che lo vedrà imputato.

Le due domande intorno alle quali si concentrerà il dibattimento sono le seguenti: la valorizzazione rientrava, o no, nei poteri del commissario? E i lavori condotti al Teatro Grande di Pompei sono atti di valorizzazione, o no? A questa prospettiva bisognerebbe, in verità, affiancarne un’altra, ancor più radicale.Per il Teatro Grande è ormai purtroppo divenuta pertinente la confusione che, nel linguaggio comune, chiama spesso “ristrutturazione” il “restauro”. Perché si è trattato di una vera e propria ristrutturazione — rectius cementificazione — di un monumento antico: e il danno vero è quello prodotto dal cemento, e dagli altri interventi estranei e sfiguranti. E dunque il vero danno (anche erariale) non è solo quello dei finanziamenti impiegati, ma anche quello inferto al monumento, e poi anche quello rappresentato dalle spese che ne comporterà la (forzatamente parziale) rimessa in pristino. Ma questa sarà, semmai, materia di un altro processo, strettamente legato all’indagine penale. Veniamo invece alla questione affrontata nell’ordinanza. Il commissariamento di Pompei era stato motivato con la situazione di grave pericolo in atto nell’area archeologica, e con la necessità di attuare subito la messa in sicurezza. Ora, va contro il senso comune ( oltre che contro la lettera e lo spirito dei poteri straordinari conferiti al commissario) rubricare come “messa in sicurezza” la spesa di 5.966.000 euro per ricostruire la struttura portante del palcoscenico del teatro, per realizzare il piano di calpestio di quest’ultimo, le torri-luce con relativo impianto e i camerini. Non si tratta evidentemente di tutela, ma di qualcosa che potrebbe, semmai, essere rubricata sotto il nome di valorizzazione.

Ma questa confusione tra misure ordinarie e straordinarie, per non dire quella tra effimero e stabile, non è un’invenzione del commissario Fiori: questi si è limitato a interpretare (saranno i processi a dirci se spingendosi fino al compimento di reati e alla produzione di danni all’erario) la retorica corrente della procedura di emergenza come strumento per il governo dell’ordinario. Pompei è nello stesso Paese del Mose e dell’Expo: e soprattutto nello stesso Paese dello Sblocca Italia e nel disegno di legge Madia sulla mitologica “semplificazione”. Due leggi, queste ultime, con le quali il governo Renzi ha dimostrato di non voler affatto rompere con il regime dell’emergenza: come se per “fare” (ciò che tutti vogliamo) non fosse necessario disboscare in modo razionale la giungla delle norme contraddittorie, ma fosse possibile (e anzi preferibile) aggirare le singole leggi con la figura eccezionale del commissario, o della corsia di emergenza. Durante l’audizione parlamentare preliminare all’approvazione dello Sblocca Italia, la Banca d’Italia ha inutilmente provato a mettere in guardia circa il potenziale criminogeno delle procedure eccezionali: avendo buon gioco a prevedere che l’unico frutto della legge sarebbe stata (oltre al cemento) la corruzione. E dunque i processi a Fiori saranno importanti perché potranno dimostrare, ex post e su un caso preciso ed eccellente, quanto sia necessario abbandonare questa strada, sempre contrabbandata come innovativa, e in verità già tante volte disastrosamente sperimentata.

C’è, infine, la seconda questione. Ammesso, e non concesso, che il commissario potesse fare anche valorizzazione, sfigurare un monumento per trasformarlo in “set” è valorizzazione o no? Se io fossi l’avvocato difensore di Fiori, convocherei come testimoni il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Giuliano Volpe e il professore di archeologia Daniele Manacorda. Che sono gli entusiastici sostenitori dell’idea di costruire arena e spalti nel Colosseo, per adibirlo a location di spettacoli di cassetta su cui lucrare i diritti televisivi. Un’idea che non solo subordina la conoscenza alla spettacolarizzazione, ma che interpreta la valorizzazione come messa a reddito, trasformandola in una scelta “politica” (la propugna il ministro, non il soprintendente) totalmente separata dalla tutela. E, anzi, potenzialmente in conflitto con quest’ultima: perché non si dica che adibire il Colosseo a luogo di spettacoli di massa sarebbe compatibile con una corretta conservazione e fruizione del monumento.

La Pompei di Fiori come laboratorio della valorizzazione-spettacolarizzazione dell’età di Renzi? È forse presto per dirlo, ma è certo che il processo contabile che si celebrerà a Napoli promette di avere un significato che trascende di gran lunga il caso specifico, pur clamoroso.

Pare chiudersi con un bilancio piuttosto positivo la vicenda iniziata tempo fa con la spettacolare occupazione del grattacielo lasciato in rovina da Ligresti. La Repubblica Milano, 30 aprile 2015, postilla

TREDICI piani di hotel e altri diciotto di appartamenti. Dopo sedici anni di abbandono la torre Galfa torna a vivere. Il gruppo Unipol Sai, insieme al Comune di Milano, ha presentato ieri il progetto di riqualificazione per il “grattacielo fantasma” alto 103 metri, nell’area fra il Pirellone e Palazzo Lombardia, disegnato nel 1956 dall’architetto Melchiorre Bega. Un investimento da 100 milioni di euro per recuperare i 31 piani lasciati al degrado degli inizi del Duemila e farli tornare a essere uno degli edifici simbolo dello skyline della città.

«L’incuria e l’abbandono ne avevano deturpato l’immagine, snaturandone il suo alto valore architettonico – ha detto Gian Luca Santi, direttore generale Immobiliare di Unipol Sai, proprietaria dell’immobile – . Il nostro obiettivo era riqualificarlo senza alterare la sua identità. Pensiamo di essere arrivati a una proposta valida, con un intervento di qualità con le tecnologie più avanzate anche dal punto di vista energetico». I lavori dovrebbero partire all’inizio del 2016 e la consegna è prevista entro la fine del 2017. Il nuovo progetto è curato dall’architetto Patrice Kanahm: dal piano meno uno fino al dodicesimo gli spazi saranno occupati da un nuovo albergo del gruppo Melià.

Quelli più alti avranno invece una destinazione residenziale con servizi dedicati ai futuri inquilini. E quindi aree fitness, un ristorante e box per le auto. Il tutto verrà realizzato conservando l’immagine della torre così come era stata disegnata da Bega, assicurano. «Ma con un nuovo involucro ad alta efficienza energetica – spiega Kanah - . È il primo restauro di un edificio contemporaneo, una grande sfida tecnica per restituirlo alla memoria della città, valorizzando le peculiarità originarie come la facciata a vetrata continua ». Sul retro che dà su via Campanini nascerà una nuova struttura in cristallo, una sorta di spina dorsale dove verranno posizionati tutti gli impianti, le scale di sicurezza e gli ascensori ultra veloci.

La torre si trova fra via Galvani e via Fara (il nome Galfa deriva dalle loro iniziali) e ha una superficie di circa 27mila metri quadrati. Era il 1956 quando l’imprenditore Attilio Monti chiese a Bega di progettare un grattacielo da trasformare nella sede degli uffici della sua società petrolifera Sarom. Un edificio che diventa realtà a un passo dall’area dove Gio Ponti, negli stessi anni, tirava su i 127 metri del Pirellone. Innovativo per l’epoca, con la sua struttura in cemento armato senza pilastri e ricoperto da vetri. Nel 1980 viene acquistato Banca popolare di Milano, che lo lascia definitivamente abbandona nel 2001 e lo cede nel 2006 al gruppo Fonsai, allora di proprietà della famiglia Ligresti, acquistato da Unipol nel 2012.

Uno scheletro vuoto per anni, che sempre nel 2012 viene occupato per dieci giorni dal gruppo di artisti del collettivo Macao per mettere al centro la questione degli spazi abbandonati di Milano. «La torre Galfa era diventato uno dei simboli dell’abbandono – ha detto il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris – .Questo progetto si inserisce nel lavoro dell’amministrazione per la rigenerazione e la riqualificazione del patrimonio esistente. È un progetto di grande delicatezza, di restauro e di continuità con tutta l’area, compatibile con il parere della zona. Penso che tutti saranno contenti».

postilla
Può piacere o no la destinazione d’uso di quei volumi, può piacere o no –esteticamente, intendo - il tipo di architettura da centri direzionali di metà ‘900, ma la vera assurdità da cui era nata la spettacolare occupazione del gruppo Macao qualche anno fa pare davvero superata, e con tutti i limiti del caso in modo positivo. C’è un edificio alto, in una zona dove tutti gli edifici sono alti (stiamo accanto al Pirellone, al nuovo Formigone, nonché al quartiere Porta Nuova, distanze di qualche decina, centinaio di metri al massimo), dove si incrociano linee multiple di trasporto collettivo, e non c’è neppure realizzazione di nuovi volumi, solo recupero di quelli esistenti. Certo, starà poi ad altre decisioni, prime fra tutte quelle sui trasporti e la gestione del traffico, a far sì che questo episodio edilizio si trasformi anche in qualità urbana, ma un piccolo passo avanti è innegabile. E certamente nel caso specifico, con una localizzazione del genere, le classiche battute che vedono sempre e comunque il male assoluto nel metro cubo (come chi parlava di “consumo di suolo” per il quartiere adiacente) paiono fuori luogo. Ma il pur benintenzionato benaltrismo avrà certamente da dire anche a questo proposito (f.b.)

“Devastando egoisticamente il pianeta e ostentando una spietata noncuranza verso l’ambiente, abbiamo contribuito a tutti i disastri naturali” dice la scrittrice indiana. “Faremmo bene a ricordare che non siamo noi i padroni”. La Repubblica, 29 aprile 2015

CHISSÀ cos’è stato a far tremare la Terra domenica mattina. Da un punto del fondale marino, per motivi sconosciuti e cause impreviste, si è sprigionata dell’energia. Un’energia la cui potenza è stata tale da percorrere una faglia lungo il fondale e ripercuotersi sulla terra sino a raggiungere Dacca in Bangladesh, Nuova Delhi in India e Lahore in Pakistan. Ma è stato nel regno himalayano del Nepal che l’energia ha trovato il suo massimo sfogo. Un epicentro che ha trasformato per sempre la vita di quella terra e il suo paesaggio.

In metafisica “bindu”, o “punto”, è il luogo dove ha inizio la creazione. Un accumulo di energia in grado di irradiare a sua volta energia. L’iconografia tantrica paragona il bindu a Shiva: tutta la creazione e la distruzione. Nel Buddismo, bindu è il cadere della goccia. Lo scorso 25 aprile è stato come se iconografia, filosofia e una malvagia forza distruttrice si fossero abbattute a circa 55 chilometri da Katmandu sotto forma di una goccia di magnitudo 7,9.

Stavo finendo i miei preparativi per un lungo sabbatico che mi allontanerà da tutto, e a casa, per iniziare ad abituarmi, avevo staccato tv e Internet. Quella mattina mi trovavo in ufficio per controllare alcune cose online, quando su Facebook e Twitter è apparsa la notizia del terremoto che aveva colpito Delhi. Non le ho dato peso, pensando si trattasse della solita propensione all’iperbole tanto diffusa nel lessico dei social media. Anziché sorridere scriviamo “lol” o “rolf”, e invece di piangere digitiamo “col”. Poi però mi sono accorta che la devastazione aveva colpito anche altri luoghi.

La goccia, cadendo, ha fatto tremare la terra a Katmandu. Come una corsa sulle montagne russe che si conclude in maniera drammatica, una delle destinazioni più ricercate al mondo aveva smesso di esistere. Valanghe di neve sono precipitate lungo i pendii del monte Everest. Edifici crollati. Templi e torri ridotti a macerie. Persone seppellite dalle rovine, o spazzate via. E Katmandu e le zone circostanti, verso le quali tutto il mondo — scalatori, balordi, famiglie in vacanza, tipi solitari in cerca di salvezza, filosofi e depravati, religiosi e scalmanati, monaci e hippy — converge, hanno assistito a quel fatale cadere della goccia.

Il mondo si affretta a prestare soccorsi. E nel mezzo di tutta quella sofferenza, lo squallore di una nazione che nell’Indice globale della fame occupa la 54esima posizione su 81 appare eviden- te. Pensate che il Nepal, oltre a rifornire i bordelli dell’India e di altre regioni del Sud-Est asiatico, è anche una fabbrica di bambini. Secondo alcuni resoconti, infatti, Israele avrebbe inviato delle incubatrici per trasferire in tutta sicurezza i circa 24 neonati che negli ultimi giorni sono nati in Nepal da madri surrogate per conto di coppie di genitori israeliani.

Frugo Internet per saperne di più. Il numero delle vittime aumenta con il passare dei minuti. I racconti sui morti e sui feriti stanno facendo il giro del mondo. La lista delle devastazioni si fa sempre più lunga. Tiro un respiro profondo e mi domando: «Perché?». Saccheggiando egoisticamente la Terra e ostentando una spietata noncuranza verso l’ambiente, noi umani abbiamo contribuito a tutti i disastri naturali. Questa volta, però, la nostra colpa è probabilmente pari a quella della goccia che è caduta. E mi viene da pensare che il popolo nepalese stia pagando il prezzo dell’avidità umana. Il sovrappopolamento ha compromesso la capacità portante della catena “delle colline di mezzo”, soprattutto nella valle di Katmandu. La deforestazione, dovuta all’esigenza di raccolti, combustibile e mangimi, e l’erosione hanno causato alluvioni. La nostra ricerca del Nirvana, da conseguire attraverso la scalata di pareti di roccia, la marijuana o l’illusione, ci ha spinti a cercare destinazioni che non sono pronte a far fronte a un aumento della popolazione. Sfruttiamo un’economia povera affinché possa soddisfare le nostre futili esigenze. Abusiamo della natura perché pensiamo di averne il diritto. Il silenzio delle montagne riecheggia di un vocio incessante e del suono metallico dei registratori di cassa.

Ci impossessiamo di un regno sulle montagne e lo riduciamo in macerie come se vi avessimo conficcato in lungo e in largo dei candelotti di dinamite a un metro e mezzo di distanza l’uno dall’altro. Per certi versi, con la nostra mancanza di rispetto verso la natura e gli ecosistemi, abbiamo fatto cadere la goccia. Si tratta di una colpa collettiva di cui dobbiamo farci carico e alla quale dobbiamo cercare di porre rimedio. Dal momento che quanto è accaduto non è che un monito di quel che ci attende. Faremmo bene a ricordare che la Terra non è nostra, e non possiamo farne ciò che vogliamo. Siamo solo di passaggio. ( Traduzione di Marzia Porta)

Da qualche giorno, sul cancello dei giardini della Marinaressa, uno splendido spazio alberato di circa 2200 metri quadrati di fronte al bacino di San Marco...>>>

Da qualche giorno, sul cancello dei giardini della Marinaressa, uno splendido spazio alberato di circa 2200 metri quadrati di fronte al bacino di San Marco, sono affissi due cartelli: uno con la scritta “chiuso per restauro”, l’altro con l’annuncio che saranno riaperti in occasione della Biennale d’Arte, che vi allestirà uno dei suoi eventi collaterali.

L’area, di proprietà dell’autorità portuale, è da alcuni anni in concessione al comune, che dopo aver ripristinato percorsi e panchine, sistemato e reimpiantato alberi, nel 2010 l’ha riaperta al pubblico con una grande festa popolare. Ora, a causa del federalismo demaniale, il comune ne diviene proprietario a pieno titolo. Ma non si tratta di una buona notizia. Dal momento che il federalismo demaniale consiste, in realtà, nell’attribuzione ai comuni del ruolo di intermediario nello smantellamento del patrimonio statale, il passaggio di proprietà coincide quasi sempre nella sottrazione di un bene pubblico ai cittadini.

E questo sembra il destino dei giardini della Marinaressa che, situati in una posizione di grande pregio, lungo la riva dei Sette Martiri di fronte alla quale parcheggiano grandi alberghi galleggianti e maxi yachts, sono un’occasione imperdibile per i tanti mecenati a caccia di buoni affari.

Giustamente, lo Yorkshire Sculpture Park, l’associazione inglese che ne è entrata in possesso, ha espresso grande soddisfazione per “l’unica ed eccitante opportunità” di esibire sei grandi sculture in bronzo, legno di cedro e resina poliuretana di Ursula von Rydingsvard in «un parco pubblico con veduta mozzafiato sul bacino e San Giorgio Maggiore». Nell’ottobre del 2014, ha anche reso noto di essersi messa d’accordo con il comune per far ridisegnare il giardino da un progettista di fiducia della stessa associazione.

Poche notizie sono trapelate, invece, dal comune durante la gestione del commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che ogni giorno cede ai privati qualche bene pubblico. Quello che si sa è che l’autorità portuale ha chiesto e concordato 5.731 euro per l’occupazione del suolo per i sei mesi di durata della Biennale, pari a 955 euro mensili, e concesso alla società inglese un diritto di prelazione per il futuro.

Qualche cittadino ha protestato, ma in attesa del “garden designer” il giardino è stato devastato. Sono stati tolti alberi senza le necessarie autorizzazioni, nessun progetto è stato discusso e approvato e il commento del dirigente del settore Verde Pubblico è stato: «capisco le proteste dei cittadini che si sono preoccupati, infatti per legge bisogna giustificare la rimozione degli alberi… ma tra poco il giardino sarà bellissimo». Inutili sono state anche le richieste di rispettare le norme del piano regolatore che destina l’area a “parco ad uso pubblico” e non prevede possibilità di concessione ai privati.

Ma ormai, a Venezia, le destinazioni del piano regolatore vengono modificate a nostra insaputa e norme e vincoli vengono cancellate in cambio di quattro soldi o per far piacere agli amici. Pochi mesi fa, una variante urbanistica è stata allegata anche alla convenzione con la quale il commissario ha concesso i Giardinetti Reali a San Marco alla Venice Gardens Foundations.

In un primo momento, il comune aveva individuato il mecenate di turno in Renzo Rosso, il quale però ha preferito sponsorizzare il ponte di Rialto. Così il commissario, senza neppure lanciare il bando per una manifestazione di interesse, ha affidato direttamente la gestione dei Giardinetti alla Venice Gardens, che si è appositamente costituita.

L’accordo prevede che la fondazione, presieduta da Adele Re Rebaudengo spenda 3 milioni e 800 mila euro per interventi che prevedono, oltre alla demolizione di un bunker e alla costruzione di una nuova serra, l’apertura di un collegamento tra i giardini e piazza San Marco, attraverso il museo Archeologico e il Correr.

In cambio, Venice Gardens gestirà, per 19 anni, la coffee house e la nuova serra. Inoltre potrà organizzare all’interno dei giardini, che hanno una dimensione di circa 6 mila metri quadrati, attività di studio e di ricerca, e creerà “una linea di articoli da giardino”. Il commissario ha detto che si tratta di «un miracolo, nato da una volontà comune di restituire alla città i suoi Giardini Reali». Il subcommissario Natalino Manno ha aggiunto «non sono veneziani, ma sono persone di elevata cultura» e la sopraintendente Renata Codello ha definito l’accordo «quasi un regalo di Natale alla città».

Tanto a proposito dei Giardini della Marinaressa che dei Giardinetti Reali, la stampa si è profusa in elogi riconoscenti alla munificenza dei mecenati. “Nuove piante ai Giardini della Marinaressa”, “Mecenati adottano i giardinetti” “ I giardinetti torneranno a splendere” sono alcuni dei titoli con i quali si racconta al cittadino derubato che gli è stato fatto un regalo.

Si metta il cuore in pace, chi ancora pensa che in qualche modo il «problema periferie» possa avere qualche tipo di sbocco nella trasformazione qualsivoglia dello spazio fisico. Corriere della Sera, 29 aprile 2015, postilla (f.b.)

A Ferguson il problema, oltre alla violenza degli agenti, era stato identificato nella mancanza di rappresentanza: sindaco e capo della polizia bianchi nel sobborgo nero di St Louis. Ma a Baltimora il sindaco è una donna di colore figlia di un venerato leader della battaglia per i diritti civili: una democratica che ha deciso di andare fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità delle forze dell’ordine per la morte di Freddie Gray, giovane afroamericano morto il 12 aprile per fratture vertebrali patite durante l’arresto. E il capo della polizia — Anthony Batts, anche lui nero — ha già accusato i sei agenti che hanno arrestato Gray: responsabili quantomeno di omesso soccorso. Per questo è finito nel mirino del sindacato degli agenti.

A Baltimora, a differenza di Ferguson, la famiglia della vittima non ha soffiato sul fuoco della rivolta, chiedendo pace e proteste composte. I leader religiosi, compatti, hanno spinto la gente ad esprimere la loro rabbia in modo civile. E, quando sono cominciati i saccheggi, i pastori cristiani sono scesi in piazza: insieme ai capi musulmani di Nation Islam sono andati a tirare fuori i ragazzi neri dai negozi devastati, rimandandoli a casa.

Baltimora non è Ferguson. Eppure qui la rivolta è stata per certi versi addirittura peggiore di quella scoppiata nella cittadina del Missouri: saccheggi e roghi in pieno giorno, bande di ragazzi a volto scoperto, gang divise da un odio profondo che si alleano per tendere agguati alla polizia. E così lo stato d’emergenza, l’arrivo di soldati e blindati della Guardia Nazionale e il coprifuoco, si stampano come un marchio indelebile su una città gloriosa, con un grande retaggio storico e culturale, che dista appena 40 chilometri dalla capitale, Washington.

Perché? Una risposta viene anche dalle foto-simbolo della giornata di follia di questa metropoli del Maryland: madri afroamericane che si vanno a riprendere i figli, ragazzini nei loro hoodie — le felpe con cappuccio — neri. Hanno un’aria minacciosa, ma queste madri-tigre, dolorosamente diverse da quelle asiatiche che spingono i figli sul sentiero dell’eccellenza scolastica, li prendono per il collo: volano schiaffi, li allontanano a spintoni da saccheggi e roghi. Ragazzi cresciuti nell’abbandono degli slum , in famiglie spesso devastate. Molti di loro non hanno mai conosciuto l’autorità paterna. E le madri-lavoratrici, che tirano fuori le unghie con disperazione per cercare di evitare che si mettano nei guai, possono fare poco per non farli bivaccare sui marciapiedi del ghetto. Per evitare che la scuola sia solo un parcheggio senza speranza (ammesso che la mattina ci si presenti in classe).

Così il ponte sull’autostrada che collega la periferia di West Baltimore dove sorgono le Gilmor Homes, desolato quartiere di case popolari nelle quali è cresciuto Freddie Gray, col centro e la Baltimore University, anziché un collegamento, finisce per essere una frontiera. Di là il ghetto, di qua la società bianca e affluente. La distanza tra i due mondi non è solo di condizione economica, con povertà e disoccupazione che dilagano nei quartieri occidentali: i neri che hanno voglia di studiare e discrete capacità riescono a ottenere borse di studio e a laurearsi. Ma in un tessuto sociale così devastato, in quartieri infestati dalla droga e dalla disillusione, chi vuole emanciparsi deve avere una grande forza interiore: lavorare sodo senza una famiglia alle spalle e sfidare amici che lo trattano da «traditore», uno che aspira a una vita da bianco.

È anche per questo che, un anno dopo la creazione di una task force della Casa Bianca per affrontare i problemi razziali, le sommosse continuano a ripetersi e, ora, arrivano fino alle porte della capitale. Il primo comandamento distillato dai saggi di Obama: il poliziotto del Ventunesimo secolo deve essere un guardiano della società che difende l’ordine, ma è anche attento a conquistarsi la fiducia della comunità. Parole che non hanno diminuito la durezza degli interventi degli agenti negli inferni suburbani d’America: almeno dodici neri disarmati uccisi negli ultimi 18 mesi. E, mentre a Baltimora gli afroamericani dicono «basta», ad Annapolis — altra periferia di Washington, quella bianca delle accademie militari — si manifesta a sostegno della polizia che «fa un duro lavoro per proteggere i cittadini e non deve farsi intimidire».

postilla
Ci risiamo, con la questione periferie, e all’osservazione di Gaggi secondo cui «Baltimora non è Ferguson» si potrebbe automaticamente aggiungere che no, certo, e neppure la banlieu parigina, o i quartieri misti di Londra teatro dei saccheggi qualche estate fa, ogni caso è differente, ha caratteri propri salvo quella connotazione comune della «periferia». Riavvolgendo il nastro però salta anche all’occhio quanto parlare di periferia ed evocare le solite immagini di degrado edilizio e urbanistico possa essere fuorviante. Anche solo rivedendo brevemente i contesti citati, si tratta di luoghi e sistemi diversissimi sul versante della collocazione, dell’organizzazione, della qualità. Abbastanza estremo poi il caso di Ferguson, dove manca del tutto anche la solita scenografia dei palazzoni un po’ grigi e dei giardinetti spelacchiati da periferia standard. Il che dovrebbe di nuovo ribadire il concetto: se qualche architetto vuole riprogettare panchine e spazi pubblici, se qualche urbanista o sociologo vuole impegnarsi in processi di partecipazione e animazione su tematiche di degrado locale, niente di male, anzi. Ma sempre sapendo che il loro lavoro col «problema periferie» c’entra piuttosto marginalmente: non capirlo, non riconoscerlo, continuare a sfruttare quel disagio per dispiegare professionalità varie, potrebbe anche finire per fungere da cortina fumogena, e non è una bella cosa (f.b.)

Una «mossa da politico consumato» che probabilmente aiuterà a Felice Casson a vincere le elezioni, ma getterà sconcerto tra i molti che hanno votato per lui alle primarie anche per opporsi alla politica del PMR. La Nuova Venezia, 28 aprile 2015
La mossa è da politico consumato. E ha già provocato molti consensi e qualche critica. Ieri pomeriggio a Mestre, alla vigilia della presentazione della lista, il candidato sindaco del centrosinistra Felice Casson ha annunciato che il suo capolista sarà Nicola Pellicani, avversario sconfitto alle primarie. «Oggi è l’ultimo giorno delle primarie», ha spiegato Casson, «si chiude una fase e se ne apre un’altra». Un segnale lanciato ai “moderati” che avevano combattuto la sua discesa in campo minacciando addirittura scissioni. «Quel problema non c’è mai stato», assicura Casson. Ma adesso Pellicani e il suo seguito di comitati civici mestrini è pienamente recuperato. «Si apre una nuova fase», conferma Pellicani, «alleanza basata sui contenuti, per vincere tutti insieme».
Qualche malumore nel Pd per la scelta repentina, maturata poche ore fa. Il segretario comunale Rosteghin aveva offerto a Pellicani, come del resto a Jacopo Molina un posto nella lista del Pd. «Ma ho scelto la civica di Casson», spiega Pellicani, «perché il senso della mia candidatura era civico, non di partito». Quello che sembrava impossibile solo un mese e mezzo fa adesso si avvera. Miracoli della politica. «Del resto», dice Casson, «nella mia lista ci sono solo persone che non hanno fatto parte di partiti o dell’amministrazione della città».
Rinnovamento, dunque. Parola che adesso tiene insieme i due ex avversari. «Per il lavoro che ha svolto sulla città di terraferma e sulla Città metropolitana», scandisce Casson, «Nicola avrà sicuramente un ruolo di rilievo se vinceremo le elezioni nella prossima amministrazione». Significa che farà l’assessore? Non è detto, frena Casson. «Intanto bisogna prendere i voti, poi si deciderà. La democrazia si basa sui voti». Una sfida per certi versi rischiosa, quella che Pellicani ha ieri accettato. Perché la macchina delle preferenze non ammette distrazioni.
E molti di coloro che lo avevano sostenuto alle primarie, in particolare il Pd, lavoreranno adesso per le loro liste. «Mi metto in gioco», dice l’ex avversario di Casson. Giovanni Pelizzato, annunciato come capolista è adesso sceso al numero 2. Non è stato «sostituito» in corsa, ma «affiancato», ci tiene a precisare Casson, «dal candidato alle primarie». Dopo il programma e le primarie adesso si presentano le liste. E si corre per vincere le elezioni del 31 maggio.
Stamattina Casson presenterà la sua lista. E da lunedì 4 maggio scatterà la corsa al voto. Chiedono a Casson cosa diranno coloro che sono “scesi in campo” perché non c’era più in corsa il candidato moderato, sconfitto proprio dal senatore. «Chiedetelo a loro», sorride, «la dimostrazione è che adesso siamo qua, assieme». Tam tam di malcontento dai centristi? «Non ho mai visto il problema, ma adesso è superato». Chi ha ceduto quote di sovranità per accettare l’alleanza, impensabile prima delle primarie? «Nessuno», dice Casson, «esiste un programma di base accettato da tutti. Su quello lavoreremo per cambiare questa città». E le scintille, quasi gli insulti volati nella campagna delle primarie? «Adesso dobbiamo vincere le elezioni», ha detto Casson.

Corriere della Sera Milano, 26 aprile 2015

MILANO - Il Parco nazionale dello Stelvio ha compiuto 80 anni, ma il suo futuro è rebus. Dopo lo «spezzatino», con la divisione in 3 parti (Lombardia e province autonome di Trento e Bolzano), gli ambientalisti accusano la Regione di immobilismo, perché il Pirellone non ha ancora stabilito, con una legge ad hoc, chi e come gestirà la porzione di oasi protetta che rientra nei confini lombardi.
Con lo smembramento, il 47% della superficie del Parco (61.444 ettari) è ricaduta nel territorio della nostra regione, ma Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, non nasconde che «ci si aspettava un atteggiamento meno notarile e contabile della Regione nelle trattative con le Province autonome», così come chiede «all’assessore regionale all’Ambiente se esista una strategia sulla protezione della natura».

Il Parco nacque il 24 aprile 1935, ma 80 anni dopo c’è stata la rivoluzione. Sulla spinta degli autonomisti altoatesini, il governo ha capovolto la sua gestione: non più unitaria ma a favore degli enti locali. Di fatto si è sancita la soppressione del Consorzio del Parco nazionale dello Stelvio, sorto nel 1993, e la nascita di un Comitato di coordinamento ed indirizzo che dovrà garantire solo la linea politica. In sostanza, la futura governance del Parco sarà in mano a Regione Lombardia e Province di Trento e Bolzano, ciascuno per la sua parte di territorio.

Adesso però rimane l’incognita lombarda: c’è un vuoto legislativo da colmare con urgenza. Anche perché finora né l’assessore regionale all’Ambiente, Claudia Maria Terzi, né il sottosegretario alla Macroregionale alpina, Ugo Parolo, hanno fatto passi concreti. «Lo smembramento del Parco dello Stelvio è da scongiurare — spiega ancora Di Simine — perché si rischia di disperdere un patrimonio di ricerche e conoscenze scientifiche sviluppati nell’arco di 80 anni, per far nascere uno “spezzatino” di aree gestite secondo criteri e norme differenti nei tre versanti, in cui l’unica cosa che appare certa è l’attenuazione delle tutele ambientali». Legambiente preme per una marcia indietro di Governo e Regione Lombardia. Intanto, le firme raccolte con la petizione online per salvare il «polmone» del Nord dallo spezzatino sono salite ieri a 51.774. Buon anniversario, dunque: ottant’anni di vita, ma i prossimi saranno decisivi per il suo futuro.

Svelato l'accordo che il Commissario Zappalorto ha trovato con le Generali. Per il momento bloccato, da un movimento di cittadini, fino all'insediamento della nuova giunta. Dura la reazione di Italia Nostra: «come per il Fontego, si svende il patrimonio pubblico per una mancia”. Due articoli di La Nuova Venezia, 25 aprile 2015 (m.p.r.)


PROCURATIE VECCHIE, SPUNTANO GLI ALLOGGI

di Enrico Tantucci
Ci saranno appartamenti e posti-letto ricavati in una parte delle Procuratie Vecchie su cui è stato rimosso il vincolo di uso pubblico in seguito all’accordo stipulato tra il commissario straordinario Vittorio Zappalorto per il Comune e le Assicurazioni Generali. Non si tratta del complesso di miniappartamenti che le Generali volevano già realizzare diversi anni fa - poi bloccati dal no del Comune alla speculazione edilizia - ma pur sempre di alloggi a uso foresteria che saranno realizzati per essere messi a disposizione degli ospiti delle attività di ricerca, studio e rappresentanza che la compagnia assicuratrice vorrà insediare negli oltre 13 mila metri quadrati di pregiati spazi nel cuore di Piazza San Marco che tornano interamente a sua disposizione. In cambio il Comune riceverà un “obolo” di 3 milioni di euro per la rinuncia all’uso pubblico su tutta l’area e il comodato gratuito ventennale su una porzione di 640 metri quadrati di Procuratie che resteranno a sua disposizione.

L’accordo prevede «l’esclusione delle attività alberghiere», da quelle che potranno essere insediate da Generali negli spazi che tornano a sua disposizione, ma prevede destinazione d’uso commerciale al piano terra, destinazione d’uso direzionale per parte del primo piano e dell’ammezzato attualmente utilizzate direttamente dal Gruppo Generali e destinazione d’uso residenziale per parte del secondo piano e del secondo ammezzato. Ed è qui che saranno realizzati i nuovi alloggi a uso foresteria - al Comune saranno riservati 15 pernottamenti l’anno per i suoi ospiti - il cui numero e dimensione non è precisato, ma è rimandato al progetto di ristrutturazione e riuso che le Generali dovrebbero presentare entro l’anno al Comune e alla Soprintendenza, per iniziare subito i lavori. Gli alloggi potranno essere realizzati purché collegati alle «attività svolte nell’edificio o comunque funzionali alle esigenze di enti pubblici e soggetti privati insediati e perché non assuma carattere prevalente rispetto all’insieme delle destinazioni d’uso private» degli spazi restanti.
Ma niente paura. Alle Generali basterà pagare un po’ di più al Comune per aumentare a suo piacimento le destinazione d’uso privato - previsto dall’accordo al 30 per cento degli spazi totali - rispetto a quelle di interesse generale, che sarebbero l’altro 70 per cento. Con un altro «obolo» di un milione di euro potrà «assoggettare a destinazioni d’uso private tutte le superfici aventi destinazione d’interesse generale (con l’eccezione, per la durata del comodato, degli spazi concessi al Comune di Venezia, col limite dell’uso diretto da parte del Gruppo Generali». Ma se la compagnia assicuratrice sarà un po’ più generosa con il Comune, e gli verserà altri 9 milioni di euro potrà «assoggettare a destinazioni d’uso private tutte le superfici aventi destinazione d’interesse generale, senza limiti d’uso».
Un altro contentino è previsto per il Comune da Generali, in vena di regali: «qualora tutte le superfici utili del Bene fossero assoggettate a destinazioni private, la durata del comodato gratuito sarà prorogata di 10 anni». Da parte loro, le Assicurazioni Generali assicurano che gli alloggi a uso foresteria da realizzare non sono ancora stati precisati nel numero, perché il progetto non è stato ancora concluso e che serviranno comunque agli ospiti delle iniziative culturali o di ricerca organizzati negli spazi delle Procuratie Vecchie. Tutto sta, in base agli accordi, nelle mani delle Generali. Al Comune basta aver monetizzato, sia pure al ribasso.

ITALIA NOSTRA DURISSIMA: «È UN'INDECENZA»

di Enrico Tantucci

«È un’indecenza che si pensi di poter rinunciare all’uso pubblico da parte del Comune per un complesso monumentale come quello delle Procuratìe Vecchie - in cambio, oltretutto, di pochi spiccioli per una compagnia di quel peso economico - e che in più si dia via libera alla realizzazione di alloggi all’interno di esse, sia pure ammantandoli con la giustificazione che si tratterebbe di foresterie ad uso degli ospiti delle iniziative culturali o scientifiche programmate dalle Generali nei nuovi spazi». È il duro giudizio sulla vicenda del presidente della sezione veneziana di italia Nostra Lidia Fersuoch- «Ormai a Venezia si svende il patrimonio pubblico al miglior offerente - insiste Fersuoch - e i 3 milioni che il Comune ricaverà dall’operazione-Procuratìe fanno il paio con i 6, non ancora incassati, per la rinuncia all’uso pubblico sul Fontego dei Tedeschi per realizzare il grande magazzino voluto da Benetton. In più, con la gestione commissariale, queste cose si scoprono solo quanto sono state già decise e mai discusse con la comunità veneziana, senza neppure un minimo di trasparenza».

Anche l’architetto Marco Zanetti, del movimento Venezia Cambia, che ha presentato articolate osservazioni anche in Consiglio di Municipalità sulla cessione dell’uso pubblico delle Procuratìe, conferma tutte le perplessità sulla vicenda degli alloggi ad uso foresteria. «Dalla convenzione» spiega «non è chiaro, né precisato quanti e di che dimensioni saranno e neppure chi ne sarà l’effettivo utilizzatore. Tutto è lasciato volutamente nel vago e nell’incertezza, con un’urgenza sospetta e immotivata con cui è stato adottato questo provvedimento da parte del commissario Zappalorto». Ora la palla passerà al nuovo sindaco, ma sull’operazione Procuratìe Vecchie e i suoi risvolti immobiliari, urge fare piena luce.

Riferimenti:
Tra gli altri si veda su Eddyburg di Paola Somma Di chi è Piazza San Marco?, e i due articoli di Giampietro Pizzo e Luigi Scano in Venezia. Giù le mani da Piazza San Marco

«Un "no" che pesa, quello messo nero su bianco dall’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che potrebbe definitivamente portare alla bocciatura del progetto di scavo del nuovo canale Contorta Sant’Angelo». La Nuova Venezia, 24 aprile 2015

Le risposte del Porto non sono sufficienti. Ci sono troppe criticità importanti che restano aperte sul progetto Contorta. Un «no» che pesa, quello messo nero su bianco dall’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che potrebbe definitivamente portare alla bocciatura del progetto di scavo del nuovo canale Contorta Sant’Angelo. Lo ha reso noto ieri l’associazione Ambiente Venezia, che invita adesso il governo a «prendere atto dell’irrealizzabilità della proposta dell’Autorità portuale». Le risposte fornite dal Porto alle 134 osservazioni formulate dalla commissione Via del ministero per l’Ambiente, secondo l’Ispra non sono adeguate a fugare i timori. «In oltre l’80 per cento dei quesiti», dice il portavoce Luciano Mazzolin, «le risposte sono giudicate non esaustive e vengono messe in evidenza le criticità dal punto di vista ambientale e della conservazione della laguna. Ci fa piacere che vengano in questa sede scientifica ripresi i contenuti di tante osservazioni inviate dal mondo civile e scientifico. Bisogna adesso archiviare definitivamente questo disastro lagunare e proseguire sulle alternative credibili alle grandi navi come il terminal al Lido già definito progettualmente, unica soluzione che può mantenere l’attività crocieristica a Venezia e coniugare lavoro e salvaguardia dell’ecosistema lagunare».

Sulla vicenda ieri hanno presentato una interrogazione urgente anche i senatori del Pd Laura Puppato e Felice Casson, candidato del centrosinistra a sindaco di Venezia. Chiedono al governo che il rapporto del’Ispra, «organismo scientifico nazionale preposto alla congruità delle risposte fornite dal proponente alle richieste della commissione Via» venga reso pubblico. Chiedono anche garanzie che la valutazione scientifica sia tenuta in debito conto. «Senza condizionare la valutazione finale della commissione e senza venire superata dalla politica, come successo spesso nell’iter del progetto Mose». «Preoccupano le affermazioni del presidente del Porto», scrivono Casson e Puppato, «che annuncia un parere favorevole della commissione Via». I due senatori chiedono infine al presidente del Consiglio, ai ministri delle Infrastrutture e dell’Ambiente «il rispetto dell’impegno di trasparenza e di correttezza, oltre che di celerità, già assunto dal governo dopo la mozione del Senato il 6 febbraio del 2014. «Per garantire l’industria crocieristica, il lavoro e la salvaguardia della laguna». Una battaglia che va avanti.

Cosa si aspetta la gente da Expo, e soprattutto come intende vivere la metropoli dei flussi la fascia più giovane della popolazione? Alcune stimolanti risposte e questioni. La Repubblica Milano, 23 aprile 2015, postilla (f.b.)

C’è “Piacere Milano”, il progetto che prevede che i milanesi mettano a disposizione le loro case, le loro cucine e il loro tempo per invitare a cena un visitatore dell’Esposizione. E le isole digitali del Comune, con il wi-fi gratuito e le prese per ricaricare cellulare e tablet. È la Milano condivisa della “sharing economy”. In cui credono i giovani visitatori di Expo: oltre uno su tre è interessato all’economia della condivisione, secondo una ricerca realizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo con la Cattolica e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo.

I dati sono stati presentati ieri, durante l’incontro “Milano (è) una città condivisa?”. La ricerca, curata da Alessandro Rosina, ha coinvolto 1.783 persone tra i 19 e i 32 anni. Il 91 per cento dei giovani sente propri i temi di Expo, oltre la metà dice che probabilmente visiterà il sito e sei su dieci sono pronti a sperimentare almeno una delle opportunità della sharing economy. «Questi servizi trovano già un ampio bacino di interesse tra i giovani e sono un’alternativa alle forme standard del mercato – spiega Rosina – Questo non solo per la convenienza economica, ma anche per l’aspetto sociale del vivere l’esperienza di condivisione in sé». Così, oltre un terzo dei ragazzi che sta considerando di visitare l’Esposizione, sta valutando soluzioni all’insegna dello sharing.

Non a caso, gli alloggi offerti sul sito Airbnb oggi sono oltre 7.600, con un aumento del 107 per cento rispetto all’anno scorso. E da maggio a ottobre si stima che ogni giorno 7mila persone a Milano saranno a caccia di una soluzione “ alternativa” per l’alloggio. «Le esperienze della sharing economy contribuiscono a definire nuovi spazi di socialità e inclusione – dice l’assessore alle Politiche del lavoro Cristina Tajani - Sono aspetti che meritano il sostegno del pubblico: per questo abbiamo deciso di mettere a disposizione uno spazio in vicolo Calusca». A dicembre la giunta ha approvato il documento “ Milano Sharing city”: alla “chiamata” di Palazzo Marino, per condividere tempo e competenze con il resto della città, hanno già risposto 42 operatori e 33 esperti.

Che la Milano dell’Expo sia all’insegna della condivisione, lo dimostrano anche le tante iniziative pronte ad accogliere i 20 milioni di visitatori attesi a partire dall’apertura dei cancelli di Rho Pero. Come il bike sharing, che dal giovedì alla domenica sarà attivo fino alle 2 del mattino, con le sue 3.600 bici tradizionali e mille elettriche. O il car sharing, disponibile 24 ore su 24, e il “Tim2go”, il servizio di tablet sharing lanciato da Tim. Con una cifra che va da 10 a 15 euro al giorno si potrà noleggiare un tablet Samsung Galaxy S e avere a disposizione applicazioni e contenuti sulla visita al sito o l’accesso allo streaming video degli eventi.

postilla

Comunque lo si voglia leggere, anche al netto di eventuali retropensieri su metodi e obiettivi della ricerca specifica, lo scenario proposto indica un’idea di città piuttosto diversa da quella a cui pensiamo legittimamente criticando questo o quell’aspetto dell’evento e di chi ne decide le modalità. Impressiona la quota straripante di approcci positivi e soprattutto l’idea di trasversalità estrema fra spazi e flussi nella percezione della metropoli. Coincide, si avvicina, questa percezione, all’idea di città pensata e proposta da chi si ritiene progressista, ma spesso se non sempre pare sbilanciato da tutt’altra parte, magari in ambiti del tutto strategici quanto lontani mille miglia dalla vita di questo mercato delle menti e delle sensibilità, tutto da scoprire e con cui interagire? Una bella domanda, se non altro da porsi seriamente (f.b.)

La Repubblica, 22 aprile 2015 (m.p.g.)

«Un impegno mantenuto e una scelta di civiltà: il ritorno della storia dell’arte e della musica nelle scuole», ha annunciato il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Ma in questi giorni un vasto movimento di insegnanti di storia dell'arte si chiede se le cose stiano davvero così: e a leggere il disegno di legge sulla cosiddetta Buona Scuola lo scetticisimo appare del tutto fondato.

Nel testo, infatti, non si parla mai di un insegnamento curricolare di 'storia dell'arte', ma genericamente di «potenziamento delle competenze nella musica e nell'arte» e di «alfabetizzazione all'arte, alle tecniche e ai media di produzione e diffusione delle immagini». Cioè: non si studieranno Giotto e Caravaggio come si studiano Dante e Galileo, ma ci sarà una infarinatura di «immagini», fossero pure quelle dei cartelloni pubblicitari. Insomma, siamo di fronte al rischio concreto dell'ennesima espulsione del metodo critico della storia dalla scuola italiana: nell'età del presentismo non c'è spazio per la «scienza degli uomini nel tempo» (Marc Bloch), nel paese dell'esasperato storytelling politico non c'è spazio per il vitale antidoto della storia.

E c'è ancora di peggio: l'abbandono della 'storia dell'arte' come materia potrebbe essere funzionale ad un collocamento della cosiddetta 'immagine' nelle ore aggiuntive e facoltative, e ad un suo insegnamento indiscriminatamente aperto a docenti di 'materie umanistiche'. Se, alla fine, la Buona Scuola partorisse un simile mostro sarebbe davvero la fine di una qualunque educazione storica al patrimonio culturale.

I dubbi si aggravano quando si legge il documento illustrativo del governo, appropriatamente aperto da una copertina, rosa shocking, impaginata come una confezione di caramelle.
È un testo di una rozzezza culturale imbarazzante, le cui parole chiave – ripetute a mo' di mantra – sono 'creatività' e 'bellezza'. Una usurata retorica da imbonitori che annuncia di voler «formare giovani capaci di ripartire dal Made in Italy», per metterli in grado – non già di conoscere e comprendere, o magari di «amare» (come ha detto il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento) – ma di «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all'interno dell'offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali». Dentro questo 'avviamento all'impresa' (anzi, alla triste rendita del petrolio d'Italia) di stampo ultraberlusconiano, c'è evidentemente poco spazio per la 'storia dell'arte'. E infatti l'entusiastico motto è: «riportiamo la creatività in classe».

Come nel caso dello Sblocca Italia, anche nella Buona Scuola non si salta coraggiosamente verso un futuro lontano, ma si riscaldano formule vecchie, logore, fallimentari. Tanto che la miglior diagnosi è quella che Giulio Carlo Argan emise nel 1972: «La storia dell'arte è materia storica e la cosiddetta classe dirigente, che la scuola dovrebbe formare, ha più bisogno di coscienza storica, che di talenti creativi. Che l'attuale ne sia sprovveduta si vede dal modo con cui ha vergognosamente dilapidato il patrimonio artistico di cui ora, affinché seguiti a farne scempi senza scrupoli e rimorsi, si progetta di sopprimere lo studio. La borghesia vuole che i suoi figli seguitino come i padri a inquinare allegramente mari e fiumi, a speculare rapacemente sul suolo delle città e delle campagne, a esportare impunemente capolavori nel baule della fuoriserie. A questo la riduzione della storia dell'arte nella scuola secondaria serve egregiamente».
Siamo sempre fermi lì: da questo punto di vista (ma, temo, non solo da questo) la Buona Scuola, oltre che sbagliata, è vecchia decrepita.

In America è lecito cedere un quadro di una collezione È quello che ha fatto il MoMA mettendo sul mercato un suo Monet In Europa si guarda a questo modello in Italia è vietato, almeno per ora Ma è giusto che un bene pubblico diventi merce di scambio?

«MI scusi, in quale sala posso trovare i Pioppi a Giverny, di Monet?», «Spiacente, signore: il quadro è stato disaccessionato. Sì, insomma: venduto». Dallo scorso gennaio, al MoMA di New York un simile dialogo non è più fantascienza: il capolavoro di Monet è stato messo all’asta dal museo, finendo in mani private per circa 15 milioni di euro. Negli Stati Uniti il deaccessioning ( politically correct per “vendita”) è sempre stato possibile (nel 2005 il Los Angeles County Museum cedette 42 quadri, tra cui un Modigliani), ma ora è praticato con crescente frequenza, e tutto lascia credere che nei prossimi anni le vendite si moltiplicheranno.

L’Associazione dei direttori dei musei americani ha stilato una policy che fissa alcuni paletti: il più importante dei quali è che il denaro ricavato dalla vendita può essere usato solo per acquistare altre opere. E quando un museo non lo rispetta, scattano sanzioni non simboliche. Nel 2014 l’Art Museum of Delaware ha venduto un bel quadro preraffaellita per ripianare parte di un debito contratto per un’espansione edilizia: l’Associazione ha disposto una sorta di embargo in forza del quale i suoi 242 musei non hanno più alcun rapporto (di ricerca o di prestiti) col museo “colpevole”. Misure forti, ma certo non capaci di fronteggiare situazioni di emergenza: come il fallimento della città di Detroit, che ha quasi provocato lo smembramento e l’intera vendita delle importanti collezioni del municipale Detroit Institute of Arts (con opere di Rembrandt o Beato Angelico). Un’apocalisse evitata a stento, grazie alla raccolta di 816 milioni di dollari (offerti da fondazioni, privati e dallo Stato del Michigan) e alla conseguente, dolorosissima, privatizzazione del museo, passato dalla proprietà della città a quella di un charitable trust. È di fronte a episodi come questi che Lee Rosenbaum (una delle più seguite opinioniste americane in materia d’arte) ha proposto, sul Wall Street Journal, di adottare una legislazione simile a quella europea: per «evitare che le collezioni vengano monetizzate per coprire i costi di esercizio o pagare i debiti».

Ma nello stesso momento alcuni musei europei abbracciano il modello di cui gli americani stessi iniziano a dubitare. Il governo inglese ha cessato di erogare fondi pubblici al Northampton Museum, reo di aver venduto una statua egiziana (per 38 milioni di euro) allo scopo di finanziare un riallestimento. Mentre in Germania è il museo pubblico di Münster a rischiare di esser privato di 400 opere (dalle pitture del senese quattrocentesco Giovanni di Paolo alle sculture di Henry Moore), a causa del fallimento di un banca appartenente al Land della Renania-Westfalia. E in Portogallo infuria da mesi una battaglia di opinione circa la possibilità che il governo metta all’asta 85 opere di Joan Miró (alcune assai importanti), anch’esse appartenenti ad una banca pubblica fallita: ed è di questi giorni la notizia che ci sarà un ennesimo pronunciamento giudiziario.

Insomma, il tema è così caldo che un artista e avvocato newyorchese, Sergio Muñoz Sarmiento, ha aperto un informatissimo e assai vigile Deaccessioning blog dove è possibile farsi un’idea delle dimensioni globali della questione. E da noi? In Italia le collezioni pubbliche sono inalienabili, ma negli ultimi anni una serie di disegni di legge ha proposto di “valorizzare” i depositi dei musei noleggiandone le opere a pagamento, e a lungo termine, a musei stranieri o a privati. E considerando che la “valorizzazione” degli immobili pubblici praticata dall’Agenzia del Demanio contempla l’alienazione come possibilità culminante (e oggi praticatissima: anche per quelli storici e di gran pregio), la prospettiva non sarebbe rassicurante.

Negli scorsi giorni si è tenuto a Milano un convegno (promosso dalla Rics, società britannica di consulenza finanziaria e immobiliare) dal titolo esplicito: Patrimonio culturale: quanto vale? . L’ultima risposta disponibile (della Ragioneria dello Stato, 2012) indicava la cifra di 179 miliardi di euro, mentre nel 2014 la Corte dei Conti ha contestato alle agenzie internazionali di rating il non aver conteggiato, in 234 miliardi, proprio quel presunto capitale pubblico italiano.

Ma oltre al fatto che non è per nulla chiaro come si arrivi a queste cifre, è evidente che si carica una pistola solo se si inizia a pensare di poterla usare. Quando, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti lanciò una iniziativa simile (gli Uffizi furono stimati 400 miliardi di lire), Roberto Longhi rispose che si stava allestendo «un volgare listino»: a ragione, visto che Ragghianti stesso era favorevole alla possibilità di vendere le opere dei musei.

Ma una simile scelta sarebbe un grave errore: in primo luogo per ragioni pratiche. Poche settimane fa un antiquario italiano ha potuto comprare ad un’asta l’unico modello noto per la Fontana di Trevi: una terracotta venduta dall’Art Museum di Seattle, che non sapeva cosa stava vendendo. Non si tratta di negligenza: la storia dell’arte è una disciplina relativamente giovane, e sono più le cose che ignoriamo di quelle che sappiamo. E conoscenza e gusto oscillano insieme: se intorno al 1880 i musei italiani si fossero disfatti delle opere “secondarie” e allora non esposte, probabilmente oggi non possederebbero un solo Caravaggio. Senza contare il tasso di corruzione italiano: facile immaginare che i soliti noti farebbero incetta di capolavori pubblici a prezzi di saldo.

Ma ci sono ragioni più profonde per avere seri dubbi circa l’orizzonte del deaccessioning. In Italia i musei non si sono formati sulle raccolte di capricciosi collezionisti, nelle quali un Monet vale (forse) un altro: essi sono invece lo specchio e il deposito estremo dell’arte e della storia di un territorio, e una rete fittissima di nessi stringe anche la più umile tela al massimo capolavoro. Ogni vendita determinerebbe dunque un vuoto, letteralmente incolmabile.

E poi l’idea che – in un mondo sempre più diseguale – i super ricchi possano gettare anche sulle pareti di un museo lo sguardo cupido che si riserva ad un supermercato di articoli di lusso, mina l’idea stessa del museo come (ultimo?) luogo libero dalla dittatura del mercato. Perché «i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato»: lo ha detto lo scrittore Jonathan Franzen. Un americano.

Appare evidente che certe trasformazioni funzionali urbane, per quanto apparentemente immateriali e temporanee, finiscano per distorcere la qualità dell’abitare, e meritino una riflessione innovativa. La Repubblica Milano, 19 aprile 2015, postilla (f.b.)
Una fiumana di gente in via Tortona è il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo ma un secolo dopo. Ha fame e divora panini e pavé infilandosi in ogni passaggio aperto dal design tra le vetrine e i cortili. Qui dove del resto è stato inaugurato contaminando gli altri quartieri, il Fuorisalone è entrato ormai ovunque impossessandosi dell’anima di ogni spazio disponibile. Prima il Superstudio e poi, come un virus, alimentari, parrucchieri, bar. C’è un piccolo drone bianco a due ruote che sfida i piedi dei passanti saltando, roteando, cercando attenzione. Qualcuno inevitabilmente lo pesta ma il ragazzo in maglietta nera che lo manovra in disparte da un tablet non si agita. Il robottino è indistruttibile e ha il talento del voyeur. Trasmette sullo schermo del pilota, il 28enne Andrea Cancellieri, le immagini in alta definizione della folla che lo sovrasta. «Non è un gioco, collaboro per il secondo anno con un’agenzia di eventi e quest’anno lavoriamo per un produttore americano di droni che ha affittato lo spazio qui di fronte».

Anche un passatempo può essere una professione nell’indotto di una settimana che in tutto il mondo è ormai considerata il vero Carnevale ambrosiano. Una festa prima ancora che una fiera. Gi Zu Kim, 21enne cinese da un anno a Milano, studentessa della Naba con monolocale sui Navigli, è appoggiata a un muro in zona Brera, distratta dallo schermo del cellulare mentre cerca di capire cosa andare a vedere dopo. «Non avevo compreso la città fino a quando l’anno scorso non è iniziata la Design Week, pensavo fosse un luogo perfetto per studiarci e pessimo per viverci, voglio dire, non è Barcellona. Poi mi sono fatta trascinare nelle zone dai compagni di corso milanesi, qui in Brera, oppure a Lambrate, e ne ho scoperto la bellezza fuori dagli schemi, brutale».

Proprio Lambrate, la vecchia periferia operaia, continua ad essere il distretto dove i colori di questi giorni risaltano di più, come il vestito verde e i capelli rossi della 24enne artista Marlies Van Putten, olandese. «Mai stata a Milano, fantastica la reazione della gente. Proponiamo un lavoro di scultura che invita all’interazione, temevamo fosse difficile, faticoso e invece tutti vogliono mettersi alla prova. Non mi era mai capitato». Poco lontano, sempre in via Ventura, Anselm Dahl, architetto danese con raffinato look finto amish, è in pausa panino. «È il terzo anno per me ma temo qualcosa sia cambiato. Ho sempre affittato casa qui vicino a cifre ragionevoli, quest’anno invece rischiavo di non trovare posto e sto spendendo tantissimo per una stanza che non definirei esosa». Tra Salone e Expo, gli ultimi dati dicono che l’offerta di affitti brevi sia salita del 70%, mentre la domanda del 25%, con prezzi di 160 euro al giorno per le case vicine ai quartieri del Fuorisalone, oltre i 350 euro per gli appartamenti di lusso in centro. Non è un caso che Airbnb sia stato, a Palazzo Crespi, il generoso sponsor di una delle migliori installazioni.

Durante il Fuorisalone Milano si candida forse a diventare una specie di Venezia, una città piena di turisti ma deserta di milanesi. Rimane però straordinaria la capacità del design di ridare vita a luoghi morti o dimenticati durante il resto dell’anno. Il miglior esempio sono i bagni Cobianchi di Galleria Vittorio Emanuele. Elita, che li gestirà anche durante Expo, li ha resuscitati, infilando all’ombra del Duomo uno spazio off. Mercatino, bar, concerti, after party. Lorenzo Covello, 27enne milanese uscito dal Politecnico, modifica qui sotto felpe e tshirt con una vecchia macchina per cucire. Tutti si aspettano dai giovani meraviglie con le stampanti 3D e invece in giro si sono viste molte tecnologie obsolete, persino dei telai. «Non è che abbia girato molto quest’anno e non so se sia una moda. Credo in generale che ogni novità, come le stampanti 3D, generi una reazione contraria. Non è solo una questione di nostalgia, è più un voltarsi alla ricerca delle proprie radici, comunque la ricerca di un appiglio familiare, rassicurante, più vicino alla realtà di un file digitale».


postilla
Spero di usare con sufficiente auto-ironia il temine di
pop-up gentrification per definire questo modo di trasformare anche radicalmente gli spazi urbani senza apparentemente cambiare nulla. Perché invece si inducono cambiamenti striscianti, e forse saperlo e rifletterci aiuta, ad esempio usandola, questa pop-up gentrification, e non facendosi usare. Del resto si tratta (la parola chiave Venezia usata nell’articolo dovrebbe far suonare un campanello) di fenomeni del tutto analoghi a quelli dei turismo tradizionale, o se vogliamo della movida, che però nascono da una specifica iniziativa anche pubblica, e dunque con potenzialità inedite.
Schematicamente, ci sono almeno due modi per leggere questo processo di sostituzione sociale temporanea: uno ottimista e uno sospettoso. Quello ottimista vede che non ci sono né grandi concentrazioni finanziarie e di operatori al lavoro, né quella forte compressione costante nel tempo che rendono il processo traumatico. Il quartiere si trasforma perché si stanno evolvendo il territorio, la società, l’economia, e tutto avviene attraverso piccoli gesti, stimolati dal periodico spuntare della punta dell’iceberg costituita dal “mercatino annuale del design internazionale”. L’approccio un po’ più guardingo però, osservando con un briciolo di prospettiva storica in più la cosa, nota che di sicuro sarebbe assai meglio evitare la formazione di “rendite di posizione” che forse avvantaggiano qualcuno, ma non certo la collettività, o la città più in generale. Ovvero, se è possibile organizzativamente trasformare per una settimana un quartiere misto in un distretto “pop-up”, così come si fa con certi esercizi commerciali, forse sarebbe meglio pensare a una rotazione, così da infondere nuova vita là dove essa è necessaria, magari per due o tre stagioni di seguito, e poi passare altrove. Ricordiamoci sempre che la rendita, in tutte le sue forme inclusa quella dell’immagine, ha sempre ostacolato la creatività. Per le attività creative, dovrebbe essere un problema serio (f.b.)

La Repubblica, blog "Articolo 9", 18 aprile 2015 (m.p.g.)

«È la prima volta che vengo a Pompei», dice senza reticenze Matteo Renzi. Era stato Berlusconi ad affrancare gli italiani dalla vergogna dell'ignoranza: e i due sono profondamente uniti dall'ostentato disprezzo per la conoscenza.Ma fa un certo effetto sentire una simile confessione da chi ha dedicato un'enorme parte del proprio discorso pubblico al patrimonio culturale, anzi alla cultura. Parlare di cultura porta consenso: praticare la cultura porta via tempo. E pazienza se si ammanniscono ricette per governare qualcosa di cui si ignora tutto: sarà il governo presieduto da uno che non era mai stato a Pompei a rifare l'arena del Colosseo, per adibirlo a luogo di spettacoli televisivi. C'è del metodo in questa follia.E l'aspetto peggiore della questione è che per Renzi – come per la massima parte della classe dirigente nata e cresciuta a nord di Roma – tutto il Mezzogiorno d'Italia è una terra incognita. E qui capisci che non manca solo un progetto (che non sia quello del potere personale): manca la seppur minima conoscenza del Paese che si vorrebbe governare.

Alle vigilia della sentenza del Consiglio di Stato su uno dei gioielli di Venezia, minacciati dalla scandalose iniziative del "mecenate" Benetton, l'archistar Koolhaas, il sindaco Orsoni e la sovrintendente Codello oggi pubblicato un saggio che documenta il valore del complesso. La Repubblica, 20 aprile 2015

L’ULTIMO round sul veneziano Fontego dei Tedeschi si gioca la prossima settimana al Consiglio di Stato. Ma intanto rivivono in un piccolo libro la storia di questo stupefacente edificio che sorge accanto al ponte di Rialto e le polemiche sul progetto dell’architetto Rem Koolhaas che lo sta trasformando — il cantiere è già avviato — in un emporio del lusso (la proprietà, il gruppo Benetton, ne ha affidato la gestione ai francesi di Dfs).

Nelle limpide pagine di Nostro Fontego dei Tedeschi Lidia Fersuoch fa scorrere la vicenda dell’edificio realizzato nel Cinquecento. Il Fontego, scrive Fersuoch (archivista, presidente di Italia Nostra veneziana: il libro edito dalla Corte del Fontego viene presentato oggi alla Scoletta dei Calegheri, Campo san Tomà, ore 17,30), è il luogo dove i mercanti teutonici stipano i loro prodotti. È un crocevia di culture, la sua mole imponente è seconda solo a Palazzo Ducale. Intorno al maestoso cortile corrono duecento stanze.

Nell’Ottocento il Fontego subisce manipolazioni e un brutto lucernario va a coprire il cortile. Nel 1925 è acquistato dalle Poste, che avviano lavori di consolidamento, alcuni utili, altri meno. Nel 2008 il Fontego viene venduto al gruppo Benetton, che vuol farne un centro commerciale. Le norme urbanistiche proteggono l’edificio «come in una botte di ferro», scrive Fersuoch: nessuna variazione volumetrica, nel numero dei piani, nella superficie utile lorda, e salvaguardia degli elementi antichi. Ma il Comune, in cambio di 6 milioni, sigla con la proprietà una convenzione che scavalca i vincoli.

Koolhaas presenta un progetto. Il tetto viene scoperchiato e al suo posto si apre una terrazza. Nel cortile è prevista una scala mobile rosso fuoco che demolisce in alcuni punti la balaustra cinquecentesca. Il lucernario viene rialzato e sotto si realizza un piano in vetro e acciaio. Le polemiche sono furenti. Salvatore Settis ne scrive su Repubblica.

Italia Nostra prepara un esposto e Ugo Soragni, direttore regionale dei Beni culturali, spedisce il progetto al comitato di settore del ministero. Che lo boccia.

Koolhaas, diventato curatore della Biennale architettura, lavora a un secondo progetto. Il piano sotto il lucernario è ancora lì. La scala mobile cambia dislocazione. C’è anche la terrazza, che corre lungo la fronte del Fontego. E su una parete della loggia compare un grande foro circolare. Alle polemiche sugli interventi, che secondo due docenti di restauro, Mario Piana e Giuseppe Cristinelli, e Vittorio Gregotti, sarebbero troppo impattanti, si aggiungono le critiche di chi non vede utilità, anzi solo svantaggi, di un emporio del lusso in una città soffocata dal turismo. La firma di Koolhaas è una garanzia per chi è favorevole agli interventi. La soprintendente Renata Codello (ora a Roma) dà l’autorizzazione: l’edificio, dice, è già stato manipolato e può esserlo ulteriormente. In prima istanza il Tar del Veneto rigetta l’esposto di Italia Nostra, sostenendo che il Fontego versione Koolhaas assolve a una “funzione pubblica”. Ma l’ultima parola spetta al Consiglio di Stato.

«Una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice». Sempre più sfacciata la cessione ad altri di pezzi del plurisecolare patrimonio cittadino. La Nuova Venezia, 18 aprile 2015 (m.p.r.)

I luoghi di Venezia a chi li vuole e sa prenderseli. Nell’assenza - da tempo - di una politica comunale sui suoi spazi inutilizzati che non sia la loro semplice messa in vendita (in genere a prezzi di saldo) per tappare le «falle» del bilancio, e nel vuoto di rappresentanza rappresentato dalla gestione commissariale, stanno inserendosi nell’ultimo anno una serie di operazioni patrimoniali e immobiliari che riguardano pezzi di città. Ci sono quelle puramente speculative della stessa Cassa Depositi e Prestiti - come riferiamo a parte - che pure è una società pubblica, o dei privati, dal Fontego dei Tedeschi con la gestione Benetton al complesso dell’ex Pilsen ceduto dal Comune per consentire la realizzazione, in corso, di uno «store» della Zara. E ci sono quelle più «illuminate» e intelligenti che sta conducendo la Biennale sotto la presidenza di Paolo Baratta, che si avvia alla sua conclusione. Baratta ha già avuto il grande merito di avviare storicamente - nel corso della sua prima presidenza della Biennale - il recupero dell’Arsenale, quando esso era in stato di avanzato degrado, con il recupero di pezzi importanti della parte sud, ottenuti in concessione e recuperati a fini espositivi per le mostre della fondazione, grazie anche ai fondi della Legge Speciale, da oltre quindici anni.
Ora quegli stessi spazi - il complesso delle Corderie, quello delle Artiglierie, il Teatro Piccolo Arsenale, le Tese cinquecentesche, le Tese delle Vergini, delle Gaggiandre e le Tese dell'Isolotto Sud - sono di fatto diventati della Biennale, grazie alla concessione trentennale (ma prolungabile) siglata con il Comune e il Demanio, dopo che è stata la stessa legge del 2012 che ha riconsegnato al Comune l’Arsenale, a prevederlo. Ma Baratta che, a differenza del Comune, ha le idee molto chiare su come utilizzare queste aree, non si accontenta. E così nella convenzione, appena approvata dal commissario Vittorio Zappalorto in Consiglio comunale, che assegna alla Biennale gli spazi che occupa dell’Arsenale Sud, c’è anche il complesso delle Sale d’Armi, che non era tra quelli previsti con la legge del 2012, ma che la precedente amministrazione comunale aveva ceduto in concessione alla fondazione.
Ora allargati anche alla parte sud del complesso, sempre per destinarli a nuove sedi di padiglioni stranieri che ne sono privi e che li restaureranno a proprie spese, come hanno già fatto, ad esempio, il Sudafrica e l’Argentina. Spazi ceduti in concessione permanente - si spiega a Ca’ Farsetti - perché la legge del 2012 sull’Arsenale consente comunque di cedere spazi di proprietà comunali per attività culturali, come quelle - di indiscutibile livello - che la Biennale svolge. E ci sarà presto - con un’apposita convenzione - anche il Giardino delle Vergini, mantenendone la fruizione pubblica. Potrebbe accadere lo stesso, presto, anche per il Giardino della Marinaressa, in Riva dei Sette Martiri, recentemente passato - con il federalismo demaniale - in proprietà al Comune, dopo essere stato dell’Autorità Portuale. Qui sono in corso lavori di ristrutturazione - contro cui si scaglia l’ex consigliere comunale di Fratelli d’Italia Sebastiano Costalonga - in vista dell’ospitalità per sei mesi di una mostra collaterale della Biennale di una scultrice americana. Ma anche questo potrebbe diventare in un prossimo futuro, uno degli spazi permanenti di una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice.

Si terrà a Venezia il 20-21 aprile 2015 presso l'Università Iuav di Venezia. Globalproject.info, 15 aprile 2015 (m.p.r.)

L’autorecupero è una modalità di intervento che prevede l’ “autorganizzazione” della società civile ed è finalizzata a restituire all’uso beni pubblici e non, compromessi da degrado fisico causato da sottoutilizzo o da vero e proprio abbandono. Sono differenti le condizioni e i modi in cui si esplica, diversi i soggetti che lo propongono e lo attuano; così come possono esserlo le risposte in reazione – fra accettazione e rifiuto - a tali pratiche da parte delle istituzioni preposte al governo urbano. Fa parte di un insieme di “modi d’agire”, attraverso cui cittadini esperti e autorganizzati, in Italia, rivendicano il proprio diritto all’abitare, inteso anche come forma di resistenza proattiva all’espulsione dalla città di soggettività non intercettate e/o penalizzate dai controversi risvolti delle tradizionali – e poco aggiornate - politiche di welfare (in particolare quando il bene in questione è la “casa”).

L’interesse per l’autorecupero, come pratica alternativa e opzione preferibile di riutilizzo, risiede oggi nell’incapacità degli enti locali di gestire con efficacia parti considerevoli del patrimonio immobiliare pubblico, motivata anche dagli alti costi dei lavori necessari, secondo norme e istituzioni, a riadattare gli edifici; di converso, i diversi casi, fra autorecupero e autocostruzione. nel workshop posti allo studio, possono essere considerati come vere e proprie sperimentazioni di modelli sostenibili e a basso costo, capaci di ribaltare -attraverso il coinvolgimento diretto dei futuri abitanti nel cantiere- l’illogicità limitante del profitto privato, della spesa pubblica e di una qualità solo presunta, che norme e consuetudini spesso sganciate alle reali necessità, sostengono. Non ultimo, da rilevare è il valore che a tali esperienze si assegna per gli effetti capacitanti dei soggetti coinvolti, tanto nella costruzione di reti di relazione comunitaria che di scambio di competenze, siano esse tecniche che di cittadinanza.

“Autorecupero e abitare”, pertanto, inteso non solo come un’azione mirata per il riutilizzo di un bene collettivo ma anche come pratica virtuosa capace di generare forme di aggregazione e solidarietà con effetti sulla comunità locale, sull’ambiente urbano e sulle modalità - alternative – di abitarlo; ciò, restituendolo come effettivo spazio politico, capace di esprimere un’opinione in merito ai bandi regionali di accesso agli immobili, alle svendite dei beni comuni, all’abbandono del patrimonio pubblico (a partire dalla casa), al drenaggio di risorse economiche e ambientali delle grandi opere e della cementificazione del territorio.

Il workshop, pertanto, è da intendersi sia come occasione per il riconoscimento di competenze di cui sono portatrici tali esperienze e i soggetti che le hanno promosse e attuate, sia come opportunità per l’elaborazione condivisa di un “manifesto operativo” dell’autorecupero come modalità effettivamente praticabile per il ri-abitare la città.

Workshop del ciclo “on Self-Managment City. Collective Movement(s) and Shared Spaces” Workshops and Seminars a cura di Ruben Baiocco, DPPAC, Iuav. Qui il programma

La Orte-Mestre in pista: PD, Lega, NCD e FI contro il ritiro del progetto megautostradale, tra i più devastanti del decennio. Comunicato Rete nazionale Stop OR_ME, 15 aprile 2015

Il Governo toglie dal DEF la Orte-Mestre, ma i partiti di maggioranza mantengono in pista la nuova autostrada. Ieri alla Camera erano infatti in votazione le mozioni parlamentari del Movimento 5 Stelle e di SEL che chiedevano il ritiro definitivo del progetto, e che se fossero state approvate avrebbero scritto la parola “fine” sulla Orte-Mestre.

Peccato che PD, NCD e FI, sempre uniti quando si tratta di grandi opere”, abbiano votato contro respingendo i due documenti; a dar loro manforte anche la Lega Nord che infatti in Veneto, con in testa il presidente Zaia, continua a sponsorizzare la Romea Commerciale e tutte le altre nefandezze partorite nell’epoca di Galan e Chisso.

Ma non è tutto, perché sia il gruppo parlamentare della Lega che quello del PD hanno presentato sullo stesso tema delle mozioni alternative molto ambigue; e se la proposta della Lega è stata respinta per ragioni di schieramento, quella del PD è invece passata a larga maggioranza con voto bi-partisan. Nel testo approvato, oltre a difendere lo strumento truffaldino del “project financing”, si chiede al Governo di trasformare la Romea in una non meglio precisata “arteria veloce a basso impatto ambientale” che con ogni probabilità sarà a pagamento.

A sostegno di questa iniziativa numerosi onorevoli del PD eletti in Veneto come, il segretario del PD regionale Roger De Menech, Andrea Martella, Michele Mognato e l’ex presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia. Incredibile poi che tra i firmatari della mozione figuri anche Ermete Realacci, il presidente onorario di Legambiente, già protagonista del voto favorevole sullo Sblocca Italia, nonostante l'associazione si sia schierata contro l'opera.

Il segnale politico che esprime questo voto è fin troppo chiaro: mettiamo in congelatore la Orte-Mestre fino a quando si saranno calmate le acque agitate delle varie inchieste in corso, poi al momento opportuno la scongeliamo con il microonde.

“Li aspettavamo al varco – commentano Rebecca Rovoletto e Lisa Causin di Opzione Zero - perché sapevamo che del Governo Renzi e della sua maggioranza non ci si può mai fidare: il fatto che l’opera non sia inserita nel DEF rallenta per ora l’iter di approvazione del progetto, ma fino a quando la Orte-Mestre rimarrà nel PIS (Piano delle Infrastrutture Strategiche) non potremmo mai abbassare la guardia, e il voto di ieri lo dimostra”.

Va giù duro anche Mattia Donadel, presidente del comitato: “Non se ne può più di questa politica viscida e putrefatta. Le forze politiche che ieri alla Camera hanno votato contro il ritiro definitivo della Orte-Mestre bocciando le mozioni presentate da SEL e Movimento 5 Stelle ora devono assumersi tutta la loro responsabilità di fronte ai cittadini. Non daremo loro tregua, smaschereremo in ogni occasione la loro ipocrisia. Invitiamo fin da ora i nostri sostenitori e in cittadini a non votare per questi partiti, per chi continua con la logica delle grandi opere e della devastazione del territorio, a cominciare dal PD , dalla Lega Nord e dai loro candidati alla presidenza Moretti e Zaia”.

Riferimenti
Tra i numerosi documenti su eddyburg vedi l'articolo di Luca Martinelli, quelli di Paolo Cacciari, e di Daniele Martini,.

La città invisibile, 15 aprile 2015

A dispetto di quanto affermano gli scomposti attacchi del partito unico delle cave e del cemento, che aggrega Forza Italia al PD, siamo dell’opinione che l’assessorato di Anna Marson lascerà di sé, in Toscana, perlomeno un “buon ricordo”: in effetti, per l’intero quinquennio 2010-2015, l’operato dell’assessore regionale all’urbanistica ha fattivamente opposto resistenza al disfacimento che da anni caratterizzava il governo del territorio toscano. Ma quale ne sarà il destino?

Ricordiamo in breve com’è andata. Una corposa percentuale di voti “di protesta” in favore di un partito (ormai defunto) radicalmente diverso dal PD ma ad esso coalizzato, impone a Rossi un personaggio “di rottura” in giunta: Anna Marson, prof di urbanistica allo IUAV, si trova così a prendere – con soddisfazione dei comitati – il posto che fu del piddìno Riccardo Conti (assessore decennale di cui sì, è serbata pessima memoria, basti rammentare l’inqualificabile campagna divulgativa dell’autostrada tirrenica). È un cambio epocale, ma su di esso grava dal primo istante l’ombra lugubre della scissione dell’assessorato contiano: le infrastrutture e i trasporti vanno a Ceccobao (sindaco di Chiusi, comune del senese distintosi allora per non aver redatto il proprio piano strutturale) che, in seguito alle indagini sul Monte dei Paschi, sarà sostituito dall’aretino Ceccarelli; alla prof restano le competenze dell’urbanistica, della pianificazione del territorio e del paesaggio.

Temi – territorio e paesaggio – al centro degli strumenti normativi che la Marson lascia in eredità alla regione: la legge regionale di governo del territorio e il piano paesaggistico.

La Legge regionale 65/2014, Norme per il governo del territorio, assumendo come non più ecologicamente e socialmente sostenibile la crescita dell’urbano, e prendendo atto della disfatta dei sindaci plenipotenziari di fronte alla bolla edilizia, blocca l’espansione urbana e concentra l’attenzione sulla cura della città e del territorio, sull’incremento delle pratiche partecipative alla definizione delle scelte di governo territoriale, sull’interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Il contenimento del consumo delle terre fertili è garantito dall’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate che definisce con perentorietà città e campagna: ogni nuova edificazione residenziale al di là della “linea rossa” sarà interdetta, e ulteriori progetti per insediamenti produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del Piano di Indirizzo Territoriale (art. 25). Attualmente, nell’anno internazionale del suolo, la legge è ferma, impugnata (proprio sull’appena citato articolo che impedirebbe la libera concorrenza commerciale) dalla direzione legislativa della presidenza del consiglio. Ne abbiamo già scritto, ma dovremo tornarci in conclusione.

Il Piano Paesaggistico nasce dalla revisione del precedente piano (firmato Conti) la cui evidente inefficacia fu stigmatizzata dal ministero dei beni culturali che, nel settore paesaggio, copianifica con la Regione: a fine 2010 se ne rende necessaria la riscrittura. Il piano del paesaggio, come prevede il Codice dei Beni Culturali, è sovraordinato alla pianificazione generale: ciò lo rende uno strumento tanto importante quanto temibile. Redatto dalle università toscane con il coordinamento scientifico di Paolo Baldeschi, il nuovo piano avrebbe potuto essere un dispositivo normativo all’avanguardia se la squadra PD-FI non ne avesse stemperato la cogenza a colpi di emendamenti e «imboscate», anche personalmente dirette all’assessore Marson, che rendevano possibile la riapertura delle cave in aree protette sopra i 1200 m, la costruzione edilizia non temporanea sugli arenili, e che rendevano opzionale la prescrittività delle “criticità” (ossia: se il PP segnala come criticità l’edificazione in aree a rischio idraulico, il comune può decidere, oppure no, di seguire la prescrizione regionale a non edificarvi). Il cosiddetto “maxiemendamento” – stilato di gran fretta, a Roma, da Rossi e dal ministro Franceschini – ha riportato il piano, approvato in maniera rocambolesca e all’ultimo tuffo, a un livello di civile qualità pianificatoria seppur abbia perso di incisività ad esempio riguardo all’escavazione industriale del marmo apuano.

Al di là degli indeboliti disposti normativi, si tratta di un atto di pianificazione che, finalmente, non contrappone ambiente a lavoro, ma interessi collettivi a interessi privati «finalizzati al profitto mascherato da occupazione e sviluppo», come afferma l’assessore. Il piano paesaggistico, costituito anche da un apparato conoscitivo ricco e articolato che potrà riversarsi nei piani strutturali, assicura perciò, in futuro, un diffuso incremento qualitativo nella pianificazione comunale. Il documento dà adito inoltre a una progettualità che crediamo sia necessario mettere a frutto localmente (e dal basso, magari) nei prossimi anni.

In entrambi gli atti – la legge e il piano – il superamento dell’idea meccanicista del territorio come supporto inerte risulta compiuto: il paradigma adottato dai due strumenti è di chiara matrice ecologista. L’attribuzione, “territorialista”, di valore culturale all’ambiente rurale è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (LRT 64/15, art. 3). Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio» e dei paesaggi regionali, quale bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.

All’orizzonte, tuttavia, molti sono gli ostacoli. Da una parte, un panorama legislativo nazionale avverso, che mira all’erosione degli spazi democratici nel governo del territorio: basti citare lo “Sblocca Italia” i cui contenuti deformano irrimediabilmente la materia urbanistica che peraltro la riscrittura dell’art. 117 della Costituzione trasferirà in potestà esclusiva allo Stato. Dall’altra, entra invece in gioco l’«asse Firenze-Roma» (l’ombrosa citazione è tratta dal programma elettorale di Nardella). A Roma, Renzi impedisce l’avvio della legge toscana, la prima in Italia contro il consumo di suolo, riconfermando la scelta miope di un’economia nazionale fondata sul mattone e sulla speculazione finanziaria nell’edilizia. Localmente, il partito unico del cemento mira alla privatizzazione dei beni territoriali più rari, Rossi essendo sempre meno autonomo rispetto alla Firenze-Roma e sempre più debole nelle gestione dei suoi (come è stato evidente nella questione paesaggio). E poi: il sottoattraversamento TAV di Firenze, la questione portuale e aeroportuale (l’aeroporto che scardina il progettato Parco della Piana Firenze-Prato), gli inceneritori, la geotermia, i rigassificatori, i quattro ospedali in project financing etc.

Insomma, in mezzo a questa «furia iconoclasta», cui gli assessorati della giunta Rossi (certamente quello all’ambiente) hanno dato il loro valido contributo, i prodotti del quinquennio Marson rappresentano un’importante costruzione civile e disciplinare dal carattere di eccezione; in merito alla loro applicazione o, addirittura, alla loro futura conservazione, tocca tuttavia affidarsi alla buona sorte. O perseverare nel far collettivamente pressione affinché essi restino, appunto, più di un “buon ricordo”.

Riferimenti
La città invisibile, Voci oltre il pensiero unico, è la rivista di PerUnaltracittà, Laboratorio politico - Firenze, è accessibile qui. nella sua bellissima edizione

Lo sguardo dell’architetto progettista sui nuovi quartieri faticosamente usciti dall’urbanistica del centrodestra ne coglie alcuni aspetti indubitabilmente riusciti, accantonandone però altri, che forse è meglio riprendere. Corriere della Sera Milano, 15 aprile 2015, postilla (f.b.)

Forse ci siamo. Dopo il completamento e l’inaugurazione primaverile (e dunque di buon auspicio) del parco opera d’arte nel vasto recinto del quartiere Isola, forse abbiamo trovato un’idea alternativa, contemporanea, alla città moderna del boom e post-boom. Wheatfield, il campo di grano di 50 mila metri quadrati tra i grattacieli di Porta Nuova, un’opera d’arte ambientale dell’americana Agnes Denes, praticabile all’interno lungo un sentiero sterrato in attesa della mietitura, prevista per metà di luglio, è l’ultimo tassello di un percorso intrapreso da tempo, che oggi ci appare in tutta la sua veemenza estetica. Ci siamo perché la complessità dell’impianto urbano e la ricchezza del paesaggio architettonico fanno da contraltare a un grande spazio naturale che unisce gli episodi fisici di questa imponente realizzazione immobiliare.

Il campo di grano piantato a Porta Nuova per Expo (foto F. Bottini)

Il vecchio quartiere Garibaldi-Isola, un tempo rifugio della mala romantica, si è trasformato, finalmente, ha chiuso i conti con gli infiniti rinvii, con le proposte velleitarie inutilmente avanzate in oltre mezzo secolo: ora è realtà viva, pulsante, aggregante. Via per sempre il ricordo di luna-park arrugginiti e Circhi Americani e largo a grattacieli ambientali, skyline newyorkesi che fanno da corona a memorie della socialità riformista milanese, con tanto di operazione nostalgia, con tanto di mercatini, abilità artigianali e centro socio-culturale.

Ma la sorpresa è che le differenze reggono bene, dialogano, si compenetrano. Berlino, Amsterdam o Marsiglia, ma anche tanta creatività tutta italiana. Sarà la nascita di un «luogo» nuovo? Questo lo sapremo più avanti ma è probabile che tra molte socialità dialettiche, senza pregiudizi (movide notturne, locali alla moda e campi da coltivare a grano), la città finalmente cominci a manifestarsi come fenomeno contemporaneo alla ricerca di una nuova identità originale. Ora non serve cercare paternità multiple, il risultato è molto più importante della somma delle parti. Una specie di percezione sociale condivisa.

Più che un modello apparentemente confuso, può essere definito contraddittorio nel significato più ampio e ricco che possiamo dare al termine. Alla fine un’idea di città la stiamo costruendo e uso volutamente il «noi» perché la città è fatta anche dal godimento della bellezza che può regalare ai suoi consapevoli abitatori, e ogni individuo può partecipare alla crescita e alla salvaguardia di un modello evoluto di comunità.

postilla
Leggendo delle varie reazioni di critici ed ex critici ai risultati “a regime” del primo dei grandi quartieri prodotti dall’urbanistica joint-venture inaugurata da Maurizio Lupi, anche grazie ad alcuni sviluppi (e a Expo) contingenti entrato molto in fretta a far parte dell’immaginario metropolitano, bisogna quantomeno ammettere una cosa: molti dei timori e dei sospetti che circondavano il progetto e i cantieri, paiono evaporati come neve al sole, di fronte alla vera e propria invasione di cittadini nei nuovi spazi, che si sono imposti sia come meta, sia nell’immaginario collettivo, metropolitano e non. Detto questo, ovvero riconosciuto che l’aria della città rende un po’ più liberi anche coloro che liberi non sono proprio, tocca ricordare che quel titolo scelto dall’Autore dell’articolo, “Città Condivisa”, pare proprio fuori luogo per uno spazio urbanisticamente e funzionalmente vetusto, la cui unitarietà è del tutto delegata proprio a questi ottimisti flussi di popolazione, e la cui vitalità interna tuttora inesistente, con gli edifici sconsolatamente vuoti. E non aiutano a ben vedere, né l’impianto automobilistico anni ’60 in epoche di trionfo della mobilità dolce, né quella concentrazione terziaria fantozziana, proprio mentre le nuove forme di telelavoro e indifferenza localizzativa dovrebbero iniziare ad uscire dalle sale dei convegni. Insomma, se la città è dei cittadini, magari non bisognerebbe costringerli ogni volta a riconquistarsela assaltandola coi forconi, magari virtuali, come di fatto succede ancora oggi sotto le curtain wall e cascate di verde griffate di Porta Nuova (f.b.)

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