«Non solo bancarelle, ma anche rivendite di giornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolo pubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque». La Nuova Venezia, 16 luglio 2015 (m.p.r.)
C’era unavolta il suolo pubblico. Pubblico, cioè di tutti. Bene comune godibile e “calpestabile”. Adesso il suolo pubblicoè ridotto ai minimi termini. Nella gran parte occupato da bancarelle, sedie tavolini, edicole diventate emporidi souvenir. Tutti uguali e a basso prezzo. Cappelli, borse, occhiali, grembiuli con gli organi maschili. Oggettiideali per il turismo giornaliero mordi e fuggi. Un po’ meno per il “decoro” della città d’arte. Situazione chenegli tempi sta sfuggendo di mano. Non ci sono soltanto gli abusivi, i venditori di palline e di borse senzalicenza. Ma centinaia di strutture “regolari” che col tempo si sono ingrandite, diventando veri e propri emporiin strada. Molti gestiti in subappalto da cingalesi e indiani. Altri, come nell’area marciana, rimasti nelle manidi veneziani. Difficile, soprattutto in estate e in certe ore del giorno, riuscire a passare.
Lista di Spagna e RioTerà San Leonardo, Anconeta e Santa Fosca, Strada Nuova. I banchi crescono, e alle tende è appeso ogni tipodi mercanzia. Sembra di stare in un mercato arabo. Con la differenza che la qualità degli oggetti non sempre èdi buon livello, la produzione quasi mai autoctona. Rari i controlli. E così gli originali “banchi ambulanti” diun metro per uno sono triplicati, con accessori esterni. Un tempo i banchi non potevano neanche essere “fissi”ma dovevano appunto “ambulare”. C’era anche la commissione per l’ornato, che stabiliva regole sugli arredi ele merci da esporre. Adesso il “suk” è generalizzato. Chi controlla? L’assessorato al Commercio non disponenemmeno di un archivio informatico aggiornato per potere visionare in tempo reale la situazione. Bisognamisurare in loco, e gli organici dei vigili non lo consentono.
Non solo bancarelle, ma anche rivendite digiornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolopubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque. Ognibar o ristorante ne ha uno. Anche in aree dove il passaggio è intenso. Inutili le proteste della Municipalità cheda anni chiede di visionare le richieste prima dell’approvazione da parte degli uffici comunali. Sedie e tavolini,insieme a cartelli e menu ricoprono ormai la gran parte dei masegni in ogni luogo. Intere aree sono statetrasformate, spariti i negozi di vicinato e gli artigiani. I fondi sono stati acquistati da commercianti cinesi. Levetrine tolte, la merce uniformata. Borse, oggetti a 0,50 spesso in saldi con il 50% di sconto, gelati, pizze.L’incontrollato afflusso dei turisti, in particolare di quelli giornalieri ha prodotto una trasformazioneprofonda, che sta diventando irreversibile. La consapevolezza che così si guadagna facilmente e non si devonorispettare regole è sempre più diffusa. Alla nuova amministrazione il compito di dimostrare con i fatti cheVenezia non è considerata come una Disneyland dorata con pochi indigeni, sopravvissuti al turismo, daeliminare.
“L’operazione – osserva la sinistra pisana che ha battezzato il suo documento “Tutti gli uomini del presidente” — porta ai vertici una galassia di figure legate direttamente all’attuale presidente del consiglio: presidente diventa Marco Carrai, con lui Jacopo Mazzei, (presidente dell’Ente CariFi) e Leonardo Bassilichi (presidente della Camera di commercio di Firenze e ad dell’azienda omonima). Tutti sostenitori della Fondazione Big Bang, che ha finanziato le campagne di Renzi e la kermesse della Leopolda. Senza dimenticare Elisabetta Fabbri, ad del gruppo Starhotels, nominata l’anno scorso dal governo Renzi membro del cda di Poste Italiane”.
Il pacchetto di mischia di Toscana Aeroporti è, come si vede, robusto. E ha l’aiuto dell’Enac, l’Ente nazionale aviazione civile, pronta a ricorrere contro la decisione presa lo scorso anno dalla Regione Toscana di limitare la lunghezza della nuova pista a 2.000 metri. Mentre Enac — e Toscana Aeroporti – la vogliono lunga 2.400 metri. Più altre centinaia di metri di vie di fuga e altri “accorgimenti tecnici”. Ufficialmente per motivi di sicurezza. Nei fatti crendo un doppione del’aeroporto intercontinentale Galilei di Pisa.
Sulll’intero progetto dovrà arrivare il giudizio sulla Valutazione di impatto ambientale. Nelle cui pieghe sono arrivate le osservazioni dell’Università di Firenze, il cui Polo scientifico e tecnologico è a un tiro di schioppo dal Vespucci. “Malgrado l’Università di Firenze – replica infastidito Carrai — gli ultimi quattro governi (di destra e sinistra) hanno deciso di ritenere strategico il sistema aeroportuale formato da Firenze e Pisa, e l’Ue lo ha inserito nella Rete Ten-t come nodo Comprehensive”. Ma il manovratore più stizzito è Roberto Naldi, neo vicepresidente di Toscana Aeroporti, che ha bollato come “mancante di dati scientifici” una puntuale radiografia delle enormi criticità dell’operazione fatta dall’urbanista Ilaria Agostini.
“In realtà – replica Claudio Greppi della Rete dei comitati per le difesa del territorio e dell’ambiente – di dati scientifici ce ne sono fin troppi. I professori dell’ateneo fiorentino che hanno redatto il corposo pacco di osservazioni a nome del rettore hanno elaborato un documento di 300 pagine, articolato in 11 osservazioni e un congruo numero di allegati tecnici. E chiudono il loro lavoro segnalando, per giunta: ‘Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto, siano rilevabili evidenti profili di illegittimità, tali da giustificare un parere negativo da parte dell’autorità competente’”. Tutti meccanismi che a Sesto Fiorentino sono ben conosciuti.
Sul legame tra l’attuale sindaco Nardella e il suo predecessore Matteo Renzi è sufficiente scorrere le intercettazioni pubblicate in questi giorni dal Fatto Quotidiano. Quanto è avvenuto in questi giorni a Firenze dimostra che lo spregiudicato gruppo di potere non è disposto a tollerare più alcuna critica sul suo operato. Il più grande progetto di trasformazione della città di cui si parla da venti anni è l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola con la costruzione di una nuova pista. Il progetto ha sempre avuto una forte opposizione dal mondo dell’Università e degli urbanisti fatta di argomentazioni di merito, perché il luogo in cui sorge l'aeroporto è molto fragile dal punto di vista idrogeologico ed è troppo vicino al centro della città.
Ripeto, critiche note d tempo riconducibili alla normale dialettica tra chi esercita il potere e la società civile. Ma questo valeva prima che Renzi diventasse primo ministro e oggi a criticare si rischia grosso. Ne sa qualcosa Ilaria Agostini, architetto e docente di urbanistica, che sulle pagine locali de la Repubblica l’8 luglio scorso si è esercitata a ripercorrere tutte le criticità del progetto. Apriti cielo. Il giorno successivo sulle stesse pagine Marco Carrai replica molto risentito con un titolo che è un programma di governo “Perché si deve fare la nuova pista”. Carrai non è l’ultimo venuto. Non solo era il proprietario dell’alloggio generosamente messo a disposizione dell’allora sindaco Renzi, ma sta per assumerela guida della società cui sarà affidata la gestione del rinnovato aeroporto: la Toscana aeroporti spa.
Il Carrai muove due ordini di critiche. Non è vero che l’aeroporto è privato: è soltanto affidato in concessione ad una società che lo gestirà. Carrai fa una sorta di “chiamata di correo”, affermando che ciò vale per tutti gli aeroporti italiani. Vero. Solo che la collettività italiana ci mette anche un bel pacchetto di soldi e, dato il verminaio della commistione tra pubblico e privato che emerge in ogni affidamento di opere in concessione, è indispensabile chiudere la voragine dei conti pubblici: Renzi, e cioè la collettività italiana, con lo Sblocca Italia ci mette 50 milioni di euro, ma per Carrai la cosa non può essere neppure discussa.
E se Carrai tocca aspetti generali, il compito di intimidire Ilaria Agostini se lo assume l’ing. Roberto Naldi, numero uno di Corporacion America-Italia, una delle società che gestirà l’aeroporto. L’area prescelta per la realizzazione della nuova pista si trova in un luogo molto delicato dal punto di vista idrogeologico: la piana di Firenze è come noto un luogo delicato e la nuova pista di cemento armato lunga 2 chilometri e quattrocento metri sconvolgerà –oggettivamente- lo stato dei luoghi. Menzogne. Naldi afferma sempre su Repubblica che il nuovo progetto migliorerà lo scorrimento delle acque! Renzi fa miracoli e solo i gufi non lo vedono. Ed eccoci allo scoglio su cui si infrangerà il progetto. Ai sensi della procedura, i lavori dovranno iniziare entro il mese di agosto, ma la verifica degli impatti ambientali non è ancora espletata. Lo dice con molta onestà Naldi, anche se contemporaneamente minaccia querele verso l’Agostini rea di avere detto le stesse cose. Vedremo se i nulla osta ambientali verranno espressi in tempo.
Resta infine la questione gigantesca del sorvolo su Firenze. L’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) ha affermato che la nuova pista non sarà monodirezionale e cioè verso Prato, ma dovrà essere utilizzata nei casi in cui il vento o altri fattori lo impongano anche in senso contrario, e cioè da e verso Firenze. E’ una questione decisiva, sempre negata dai promotori del progetto. Ma il documento è ufficiale: il potenziamento dell’aeroporto avrà effetti negativi sulla vita della città di Firenze e rischiamo di veder sfrecciare sopra la cupola di Brunelleschi Renzi, Nardella, Carrai e Adinolfi. Un motivo in più per non portare avanti l’inutile e dispendioso progetto
La strage del parcheggio in provincia di Caserta evoca questioni di convivenza urbana e spunti letterari di tutto rispetto: ma noi siamo sufficientemente urbani per cogliere il punto? Non si tratta invece dell'eterna questione degli equilibri fra pubblico e privato, nello spazio e nei comportamenti? Corriere della Sera, 13 luglio 2015, postilla (f.b.)
È un movente banale, esattamente come quello di Trentola Ducenta, che scatena uno dei noir fantascientifici condominiali più feroci della letteratura: Il condominio , scritto da James G. Ballard nel 1975, prefigura tanti e tanti casi di cronaca non solo metropolitana. Il movente? Una serie di blackout che colpiscono un gigantesco, elegante grattacielo londinese per ricchi, una «città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo». In realtà, sotto il velo della quieta convivenza si celano vecchi dissapori, pettegolezzi, litigi causati da insignificanti guasti degli ascensori o da piccoli equivoci senza importanza sugli spazi del parcheggio (come, a quanto pare, quelli che hanno provocato la strage casertana).
Insomma, basta un guaio elettrico perché i rancori maturati nel tempo degenerino in brutale violenza facendo regredire l’intera collettività condominiale a una sorta di stadio primitivo-bestiale retto dalla legge del più forte. È evidente che Ballard ha lo sguardo lungo e che il suo grattacielo è l’allegoria della contemporaneità, le cui solitudini da bunker esasperano comportamenti irrazionali e assecondano il riemergere di antichi impulsi tribali: «Per molti versi — scrive Ballard — il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente libera». È vero che le difficoltà della convivenza abitativa erano già ben presenti nella letteratura ottocentesca: si vedano Balzac, Zola, Dostoevskij (Raskol’nikov non è che un inquilino); ma esploderanno in horror nel pieno Novecento.
La finestra sul cortile di Cornell Woolrich, che piacque tanto a Hitchcock, è un racconto del 1942 in cui la curiosità del protagonista (Jeff è James Stewart) per la vita dei vicini apre una vertigine di terrore. La stessa in cui precipita il modesto impiegato polacco Trelkovski nel film di Roman Polanski L’inquilino del terzo piano (1976), dove l’esasperato rapporto di vicinato provoca angosce, allucinazioni, psicosi. Il condominio è diventato un luogo mitico della modernità abitato da violenze psichiche che uccidono più lentamente di un colpo di pistola.
postilla
Forse non è chiarissimo all’estensore del pur interessante articolo/rassegna letteraria, quanto lo squilibrio della sua tesi implicita stia già nel titolo, dove campeggia la parola «Condominio», forse desunta dall’edizione italiana del lavoro di Ballard, originariamente pubblicato col titolo «Highrise». Questione filologica di lana caprina, inadeguata e magari irrispettosa visto che stiamo parlando di una tragedia con quattro morti e la vita dell’assassino di fatto cancellata dalla pazzia del gesto? Forse no, se non ci perdiamo in certi particolari psicologici, restando saldi all’ambiente urbano in cui tutto sobbolle fino all’esplosione finale. La cui scintilla sembra essere l’irrisolta questione delle forme di convivenza, ovvero del rapporto fra spazio individuale e collettivo, diciamo pure pubblico e privato. Che la logica condominiale privatistica non risolve affatto, scaricando sul cosiddetto «buon senso», mentre ogni altro ragionamento sociale e urbanistico dall’unità di vicinato di Perry all’unità di abitazione di le Corbusier, in qualche modo prova a prendere di petto. Certo non c’è mai (come in nessun altro campo) la bacchetta magica in grado di risolvere una volta per tutte l’equilibrio, ma è certo che non tener conto della variabilità estrema degli spazi fisici di convivenza e relative regole, o meglio distribuzione di responsabilità, o ancora concentrazione di attriti, vuol dire fare ideologia. Non diversa da quando davanti a certi incidenti sul lavoro (pensiamo al clamoroso incidente aereo di non molto tempo fa, già sepolto nel dimenticatoio) il padronato punta sempre e automaticamente il dito sulla responsabilità individuale, perché il contesto e l’ambiente sono determinati dal destino eterno. Mentre invece, lo sappiamo troppo bene, la città e le forme di convivenza sono cose che ci dobbiamo costruire consapevolmente, giorno per giorno, altro che esplosione di follia improvvisa. Che dire del ruolo perverso degli standard a parcheggio? (f.b.)
Guai a criticare il progetto dell'aeroporto di Firenze, per quanto fragili siano le sue basi economiche e devastanti le conseguenze territoriali. Il Capo lo vuole, irresistibilmente. Dunque, chi lo critica o è un gufo oppure non è abbastanza "scientifico".
Alle critiche sollevate da Ilaria Agostini nell’articolo, Le 10 cose da sapere sul nuovo aeroporto di Firenze, pubblicato l’8 luglio su la Città invisibile e ripreso da eddyburg, ha replicato sulla stampa locale Roberto Naldi, presidente di Corporacion [sic] America Italia, vice presidente in pectore della nuova società unica Toscana Aeroporti. Naldi ha contestato «la totale assenza di un supporto scientifico a sostegno delle accuse» (la Repubblica, ed. Firenze 10 luglio 2015
Allora vediamo che cosa dicono gli esperti dell’Università di Firenze, che il 25 maggio (in
piena campagna elettorale per le amministrative) hanno presentato un corposo pacco di osservazioni a nome del Rettore.
Quella che segue è una sintesi delle osservazioni presentate dall’Università di Firenze. In essa per Master Plan 2014-2019 si intende la variante al PIT che nel luglio 2013 definiva i termini per la “qualificazione dell’aeroporto di Firenze”. Per SIA si intende lo Studio di Impatto Ambientale presentato da Aeroporto di Firenze (ora Toscana Aeroporti), in vista di una VIA affidata ad Autorità competente.
Si noterà che se alcune osservazioni prevedono eventuali adeguamenti e rimedi, altre sono del tutto incompatibili con qualsiasi progetto di pista parallela.
Le conclusioni sono drastiche: “Alla luce di tutto quanto rilevato, si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente”.
Come sono state accolte le osservazioni dell’Università? Con sufficienza, naturalmente: lasciamoli dire, tanto poi si adegueranno; ne terremo conto come prescrizioni da affrontare in sede di esecutivi. Del resto anche l’Università, che nel frattempo ha eletto il nuovo Rettore, non si è fatta più sentire. Lanciato il sasso, ritirata la mano? Viene da pensare che siano state offerte adeguate contropartite, se vogliamo pensar male. Ma noi vogliamo pensar bene: crediamo che i colleghi che hanno esaminato e demolito il progetto della nuova pista siano davvero i migliori esperti scientifici su questi temi. Certo, Ilaria Agostini è urbanista, come Paolo Baldeschi, Tomaso Montanari è storico dell’arte: io poi sono un geografo esperto di paesaggi e cartografia. Ma sappiamo riconoscere un discorso scientifico da un minestrone politico-affaristico, quale il progetto della nuova pista.
Credetemi, alla mia età posso ben dire di aver visto cose che voi umani …: una pista sulla vetta della Calvana (1963, qualcuno la prendeva sul serio), un’altra a San Giorgio a Colonica vicino a Poggio a Caiano (1965, ma disturbava la ciminiere dei lanifici di allora). Ma il tempo porta consiglio, e la soluzione piano piano è venuta da sola, in un certo senso: l’aeroporto c’è già ed è quello di Pisa che una volta si chiamava di San Giusto. Negli anni Settanta si poteva fare il check-in a Santa Maria Novella e arrivare in treno fin dentro l’aeroporto. Troppo comodo. In seguito hanno fatto di tutto per smantellare i collegamenti ferroviari, fino a eliminare il raccordino stazione di Pisa – aeroporto per sostituirlo in futuro con un cosiddetto people-mover, tanto per evocare qualcosa di molto moderno.
La soluzione ci sarebbe: ristabilire il collegamento ferroviario delle città toscane (non solo Firenze) con l’aeroporto Galilei, investire sulla rete del ferro che non serve solo i Vip ma anche i pendolari.
[1] “Gli aeroporti sono conformi ad almeno uno dei seguenti criteri:
a) per gli aeroporti adibiti al traffico passeggeri il volume totale annuo del traffico passeggeri è almeno pari allo 0,1 % del volume totale annuo del traffico passeggeri di tutti gli aeroporti dell’Unione, a meno che l’aeroporto in questione si trovi fuori da un raggio di 100 km dall’aeroporto più vicino appartenente alla rete globale o fuori da un raggio di 200 km se la regione nella quale è situato è dotata di una rete ferroviaria ad alta velocità;.
b) per gli aeroporti adibiti al traffico merci il volume totale annuo del traffico merci è almeno pari allo 0,2 % del volume totale annuo del traffico merci di tutti gli aeroporti dell’Unione.”
[2] “Articolo 5 bis. Obiettivi strategici per la qualificazione Aeroporto di Firenze-Peretola
Sulla base del quadro conoscitivo, con riferimento all’intervento di qualificazione dell’aeroporto di Firenze-Peretola, il presente masterplan individua i seguenti obiettivi
strategici:
− l’aumento dei livelli di competitività del territorio regionale, con particolare riferimento all’area metropolitana, in coerenza con la programmazione regionale;
− l’integrazione del sistema aeroportuale fiorentino con lo scalo pisano attraverso forme dicoordinamento operativo, e gestionale delle infrastrutture e dei servizi;
− la qualificazione dell’aeroporto con funzioni di city-airport nell’ambito del sistema aeroportuale toscano, migliorandone la funzionalità;”
«Fondazione Fiera sceglie il progetto Arena Milan per il riuso del suo edificio al Portello: uno stadio che si candida sapendo già che non potrà avere le autorizzazioni di sicurezza ad insediarsi se non con deroghe "ad ipsum"»
La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di EXPO 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.
Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.
La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind. Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche. Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe «un elemento di centralizzazione in senso moderno con una parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata».
I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).
Nella foto: in primo piano il nuovo stadio (progetto Arup) con a fianco la sede sociale del Milan (progetto Gino Valle), al centro la parte residua dello "Steccone " di Bellini, sullo sfondo la torre di Isozaki in costruzione, in attesa delle altre due.
«A Sesto Fiorentino, un comune di 50.000 abitanti alle porte di Firenze, sta andando in scena la crisi della post-democrazia italiana». La Repubblia, blog "Articolo 9", 10 luglio 2015
Nel maggio del 2014 è stata eletta sindaco Sara Biagiotti, già dimenticabile assessore al turismo del Comune di Firenze e componente del più stretto cerchio magico di Matteo Renzi. Ad un anno di distanza la maggioranza dei consiglieri comunali (compresi otto del suo partito, il Pd) ha presentato una mozione di sfiducia: salvo ripensamenti e abiure, il sindaco cadrà e si andrà al commissariamento e alle elezioni.
I giornali fiorentini hanno parlato di un Renzi furente, e in effetti il Pd toscano ha subito minacciato scomuniche ed espulsioni: «Anche perché la democrazia è fatta di regole e all’interno del nostro partito comportamenti come questi sono espressamente sanzionati». Si fa davvero fatica a comprendere: la procedura seguita dai consiglieri è perfettamente regolare, e la legittimazione democratica di un sindaco non è certo maggiore di quella dei consiglieri eletti con lui nelle stesse urne. E usare le sanzioni di partito per coartare la libertà degli eletti dal popolo è un riflesso condizionato che appartiene al peggio del nostro passato. Un passato che non passa: perché è sempre più evidente che si scrive Partito della Nazione ma si legge Nazione del Partito. E dunque il punto non è chi abbia ragione e chi abbia torto nel merito, cioè chi stia facendo davvero l'interesse di tutti: il punto è l'affermazione del principio di autorità e di quello di appartenenza.
Ma la cosa veramente interessante di questa storia della provincia italiana, nonché la ragione per cui occuparsene in un blog intitolato all'articolo 9 della Costituzione, è il motivo per cui i consiglieri sfiduciano la Biagiotti. Essi sostengono – a ragione – che la sindaco stia imponendo due infrastrutture di rilevo regionale, ma dalle ricadute pesantissime sull'ambiente e sulla salute dei cittadini di Sesto, e che lo stia facendo non perché convinta della loro bontà, ma semplicemente perché quella era la precisa missione con cui Renzi l'ha inviata a Sesto. Un punto di vista peraltro confermato anche da parte renziana, visto che il sindaco di Firenze Dario Nardella ha appena dichiarato: «Sara non è sola. Ha tutte le istituzioni dalla sua parte - ha sottolineato - vada avanti per un progetto di sviluppo per tutta l'area metropolitana che porta occupazione e finalmente ci consente di uscire da polemiche che vanno avanti da trent'anni e da trent'anni tengono congelato il territorio».
Ebbene, queste infrastrutture sono un inceneritore di rifiuti e l'ampliamento dell'aeroporto di Firenze. Nel primo caso, i Medici per l’Ambiente, sezione di Firenze, e Medicina Democratica di Firenze hanno chiesto di «sospendere sine die, l'iter per la costruzione dell'inceneritore di Case Passerini, nel Comune di Sesto Fiorentino perché siste una corposa letteratura scientifica prodotta in oltre 40 anni, ribadita dallo studio Moniter del 2007 e ripresa dalla Asl 10 Firenze, in relazione a microinquinanti indicati come più pericolosi tra quelli prodotti dalla combustione dei rifiuti, quali diossine, furani, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), metalli pesanti (cadmio, arsenico, berillio, nickel) e polveri ultrafini. La popolazione che vive e/o lavora nei pressi degli inceneritori, anche se di ultima generazione, è esposta ad una maggior incidenza di tumori, ad alterazioni degli esiti riproduttivi umani (maggior incidenza di aborti spontanei, di nati pretermine e di basso peso), a contaminazione della catena alimentare. Dai camini vengono emesse sostanze cancerogene che sono comunque pericolose anche se a basse dosi, anche se entro i limiti di legge, anche per le future generazioni, perché epigenotossiche, cioè trasmissibili da una generazione all’altra. Gli inceneritori producono enormi quantità di scorie, ceneri e fanghi contenenti sostanze cancerogene. Questi rischi sono assolutamente ingiustificati in quanto esistono tecniche di gestione dei rifiuti alternative alla combustione, già ampiamente sperimentate e prive di effetti nocivi».
Il caso, annoso e complesso, dell'assurdo aeroporto di Firenze è invece perfettamente illustrato da questo articolo da Ilaria Agostini, un'urbanista dell'Università di Bologna, attiva nel laboratorio fiorentino di perUnaltracittà, un articolo riassunto nel cartello qui a fianco.
E l'inconsistenza della sguaiata risposta del regista dell'operazione aeroporto – Marco Carrai: l'alter ego di Renzi – dimostra in modo lampante la fondatezza degli argomenti della professoressa Agostini.
A me pare che se, dopo un anno, la maggioranza dei consiglieri comunali ritiene che la sindaco non sia in grado di garantire l'interesse pubblico e il bene comune di Sesto Fiorentino in due casi così sensibili e importanti, quella maggioranza non solo ha il diritto, ma soprattutto ha il dovere, morale e politico, di sfiduciarla.
Perché la democrazia non è la partitocrazia. O, almeno, non ancora del tutto.
Ma torniamo alla fiaba che un giorno sarà scritta su questa storia: quale parte toccherà al sindaco? Forse quella del cacciatore che libera Cappuccetto rosso dal ventre della nonna-lupo, o quella del Principe Azzurro che risveglia Biancaneve e la sposa. In realtà, il suo ruolo nella vicenda ricorda quello del Pifferaio magico: come il Pifferaio, anche il sindaco ha dato un segnale, ha emesso un ordine del piffero contro i libri ritenuti pericolosi: il suo piffero ha intonato una melodia e tutti, tutti li ha portati via. Evento strano, fiabesco: quel piffero del sindaco ha fatto sparire dalle scuole tanti libretti che a noi non sembravano minacciosi quando li scoprimmo nella bellissima fiera del libro per ragazzi di Bologna e poi li cercammo in libreria per regalarli a figli propri o altrui, e più tardi a nipotini e nipotine: libri coloratissimi, disegnati da maestri assoluti come Altan, popolati di esseri come il Guizzino inventato da Leo Lionni — un pesciolino nero, membro di una famiglia di pesciolini rossi (ma per quale via ? inquietante quel nero fra i rossi, ora che ci pensiamo), sfuggito al grosso tonno che divora tutti i pesciolini rossi della sua famiglia ma pronto a farsi un’altra più grande famiglia per opporsi al tonno.
Un ultimo suggerimento all’autore futuro: non dimentichi di raccontare che quel sindaco governava una città speciale, davvero fiabesca, dove i libri erano stati sempre di casa. Vi affluivano da lontano come i pesci di Lionni e vi erano nati come gli alberi delle foreste di Pollicino e di Cappuccetto Rosso. In quella città vi erano stati concepiti tanto tempo fa, per la prima volta al mondo, i libri-bambini, bellissimi, così piccoli da poterli mettere in tasca: e infatti li hanno chiamati “tascabili”. Li aveva creati un mago venuto da lontano, di nome Aldo con l’aiuto di un altro mago di nome Erasmo che veniva anche lui da molto lontano. Potremmo chiamarli genitore uno e genitore due. Quella era stata una nascita senza madre. O forse la madre c’era, si chiamava Venezia. Chissà se nel futuro Venezia non sarà diventata anche lei solo il nome di una creatura magica, abitante solo nella fantasia — la fata Venezia. Perché è anche così, con la caccia ai libri, che Venezia muore.
1981: esce nelle sale cinematografiche Fuga da New York, vero e proprio manifesto ideologico della crisi urbana, montata progressivamente negli anni della fuga del ceto medio verso il suburbio, della segregazione e ulteriore impoverimento di chi restava, del crollo della fiscalità locale sino alla minaccia di definitiva bancarotta. Nel momento in cui i ragazzini di tutto il mondo iniziano a entusiasmarsi per l’avventura metropolitana di Snake Plissken dentro una Manhattan immaginaria trasformata in penitenziario a cielo aperto, però, quelle atmosfere cupe nella realtà stanno già iniziando a diradarsi, grazie soprattutto a una serie di iniziative locali di investimento nell’edilizia e riqualificazione, posti di lavoro, servizi e sicurezza. Tra i simboli più vistosi di questa ancora solo annunciata rinascita, l’imbonimento di una ampia striscia di terreni lungo la sponda dell’Hudson, per predisporre gli spazi della futura Battery Park City, i cui lavori di costruzione cominciano nello stesso 1981 in cui esce nelle sale il cupo Fuga da New York.
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
Deve essere stata questa relativa convergenza di temi, dalla rinascita del ruolo delle città, alla rinascita locale di un quartiere di Milano, al ruolo alimentare ed ecologico dell’agricoltura, a spingere le fondazioni Catella e Trussardi, insieme a Confagricoltura, alla riproposizione paro paro, identica in ogni particolare, del Wheatfield originale newyorchese tanto tempo dopo e in un contesto tanto diverso. Contesto diverso che forse avrebbe dovuto essere meglio considerato, come osservava preventivamente Ermanno Olmi bocciando l’idea con quella frase di Mogol-Battisti: «Che ne sai tu di un campo di grano?» usata in modo ironico. Perché a Milano, inutile dirlo, i campi di grano evocano la simbologia mussoliniana ed epoche non troppo allegre, altro che rinascita. Ma ormai tra i grattacieli griffati erano spuntati i germogli verdi come la speranza, e c’era pure la speranza che qualcosa di buono potesse nascere in termini di temi da evocare e paesaggio da costruire.
Ma qualche settimana dopo le bionde messi apparivano tutt’altro che bionde, una piuttosto miserevole distesa di erbacce, del tipo che non si vede certo nei campi giusto in periferia a Milano, dove i cunei dei Parco Sud arrivano a lambire i quartieri. E tra le pareti a specchio e i boschi verticali di Porta Nuova, alle erbacce (per via dell’assenza virtuosa di diserbanti, spiegavano gli esperti) non si mescolavano però neppure papaveri e fiordalisi, con un risultato visivo a dir poco mesto. E arriviamo così alla grande giornata del raccolto: grande mica tanto, visto che si è trattato in buona sostanza di qualche macchina agricola, rotoballe che citavano la campagna padana inopinatamente intra moenia, e un pugno di presenzialisti e curiosi in buona fede affollati attorno a un chiosco che distribuiva i simbolici «semi da spargere». Se qualcosa si voleva simboleggiare, a occhio e croce si trattava di un simbolo parecchio vintage, ma non per via del richiamo all’iniziativa americana del 1982: il ricordo correva automaticamente ad altri anni ’80, quelli da bere, dalle cui ceneri in fondo è nato come araba fenice il quartiere Porta Nuova. Tra poco si svolgerà all’ombra dei medesimi volumi griffati la festa dei Democratici: sarà un tentativo di permeare di cultura diversa quegli spazi il cui senso appare ancora strascico del passato, oppure una entusiasta poco accorta dichiarazione di appartenenza?
Qui su eddyburg, le citate riflessioni sarcastiche di Ermanno Olmi, «Che ne sai tu di un campo di grano?»; su La Città Conquistatrice, a proposito del campo di Agnes Denes, qualche nota in più sul ruolo ecologico, alimentare, simbolico dell'agricoltura urbana, che ovviamente «non serve solo a mangiare»
La Repubblica ed. Palermo, 8 luglio 2015
COMUNICATO
Con 51 voti a favore e nessun voto contrario, lAssemblea Regionale Siciliana ha approvato ieri, martedì 7 luglio 2015, il nefasto disegno di legge sui centri storici. Il voto conferma la validità del lavoro portato avanti prima in commissione poi in Aula, commenta Anthony Barbagallo, deputato del Pd. E stato un lavoro di squadra che ha coinvolto ordini professionali, università e rappresentanti degli enti locali. Quella che abbiamo appena approvato conclude Barbagallo è una legge che restituisce vita ai centri storici aprendo la strada ad una fruizione intelligente e agevole, basti pensare alla prevista possibilità di prevedere allinterno del centro storici interventi di edilizia economica e popolare per le giovani coppie.
Cosa possiamo dire noi di Italia Nostra, dopo quello che abbiamo già detto, affermato nei giorni e nei mesi scorsi? La Regione Siciliana ha approvato un disegno di legge che favorisce la distruzione dei centri storici dell'Isola. Di questo ddl Pier Luigi Cervellati ha scritto: «Questa legge annienta le città storiche della Sicilia e ci farà apparire tutti come seguaci dellIsis». Insomma: come il crollo di Agrigento e il sacco di Palermo furono il nefasto esperimento di una politica urbanistica e territoriale che intaccò quasi subito le altre Regioni, così questa legge anticostituzionale, fuorilegge rispetto al decreto legislativo 42/2004 può pericolosamente diventare riferimento politico-amministrativo per altre regioni e città metropolitane del nostro Paese.
Di certo noi di Italia Nostra continueremo la nostra battaglia a difesa dei valori del territorio, del paesaggio, dei patrimonio storico-artistico. A difesa dei centri storici. Nell'interesse dei cittadini e dell'Isola più bella e importante del Mediterraneo.
Leandro Janni è Presidente regionale di Italia Nostra Sicilia
Dieci semplici domande, dietro le quali trapela una lunga storia di errori e, soprattutto, di intrecci tra affari, poteri, istituzioni e uomini noti. Come al solito paghiamo noi, quelli di oggi, di domani e di dopodomani. La città invisibile, 6 luglio 2015
1) Il nuovo aeroporto di Firenze è affare di un’impresa sostanzialmente privata. Questi gli azionisti della “Toscana Aeroporti”, società di gestione degli aeroporti di Firenze e Pisa, presieduta da Marco Carrai, sodale del presidente del consiglio: l’argentina Corporacion America Italia Spa rappresenta il 51,13%, Ente Cassa di Risparmio di Firenze 6,58%, So.Gim. Spa 5,79%, “altri” 31,5%; infine, dopo la svendita di Rossi agli argentini, un misero 5% della Regione Toscana.
4) Non esiste alcun serio studio di fattibilità dei lavori propedeutici alla costruzione della pista. Il nuovo assetto idraulico è vagamente tratteggiato: il Fosso reale può veramente passare in discarica quando, viceversa, la normativa ambientale impedisce che le discariche ricadano in aree esondabili (DL 36/2003, all. 1, p. 1.1)?
5) Malgrado l’avvio dei lavori previsto entro l’agosto 2015, del nuovo aeroporto non esiste un progetto esecutivo. In assenza di studi che dimostrino l’effettiva necessità di un aeroporto interno all’area urbana, il Master plan del proponente «è assunto al pari del progetto preliminare/definitivo».
6) Comunque sia, il progetto non sarà sottoposto a una valutazione ambientale propriamente detta. Lo stratagemma del progetto “preliminare/definitivo” consente infatti un aggiramento delle regole, per cui entra nella valutazione come preliminare e ne esce come definitivo, dopo contrattazione tra commissione Via ed enti interessati, che hanno espresso pesanti riserve sui contenuti del progetto e dello Studio di Impatto Ambientale allegato: infrastrutture viarie non conformi col PIT, criticità sanitarie segnalate da ASL e ARPAT, rischio idraulico. Però il parere è positivo.
8) Il procedimento che porterà all’esecuzione dell’aeroporto non è democratico. Secondo la normativa europea, un progetto di questa portata deve essere sottoposto a un processo di partecipazione. Nella variante al PIT, la Regione si era impegnata a sottoporre il progetto a dibattito pubblico, come prevede la stessa legge toscana. Eppure questo non sta avvenendo.
10) La “grande opera aeroporto” condanna ogni possibile alternativa di riscatto per la Piana. In una situazione urbana già congestionata, e nella quale si prevede una pesante presenza di cantieri (linea 2 della tramvia, nuovo svincolo di Peretola, nuovo stadio, inceneritore a Campi e, forse, terza corsia autostradale), si aggiunge il carico di inquinamento aeroportuale: polveri, carburanti, solventi/antigelo per la pista, inquinamento luminoso, rumore etc.
Un operatore economico delinea chiari scenari – del resto abbastanza evidenti e prevedibili - di mutamento sociale del turismo, con una figura di city user di massa a cui non corrispondono spazi e servizi. Corriere della Sera Milano, 8 luglio 2015, postilla (f.b.)
Magari un turista non spende quanto un uomo d’affari, se non altro perché non viaggia in nota spese. Ma il fatto che cerchi soluzioni più economiche non significa che egli sia un fantasma: «La verità è che Milano sta cambiando, da città (soprattutto) del business a meta turistica di massa. Era un fenomeno già iniziato, ma Expo ha contribuito a farlo esplodere e non finirà con Expo: gli operatori, dai ristoranti agli alberghi e dai negozi ai servizi, dovranno imparare a tenerne conto. È questa per loro la nuova sfida da raccogliere». Claudio Artusi, coordinatore di ExpoinCittà e dei circa 40 mila eventi che ne riempiono il palinsesto, ripete all’infinito di non voler polemizzare con le associazioni di ristoratori e alberghi secondo cui l’Expo avrebbe portato a Milano in termini di ricavi meno manna di quella annunciata.
«Però anche noi — dice — abbiamo i nostri numeri oltre che i nostri osservatori. E descrivono una città tutt’altro che vuota o spenta. Anzi». Artusi cita diversi segni che a suo avviso fanno prova e l’ultimo è di ieri: l’ingresso di Easyjet, il colosso dei voli low cost che solo negli ultimi anni ha portato a Milano 40 milioni di persone, tra i partner ufficiali di ExpoinCittà. «E il fatto che abbia deciso di entrarci a oltre due mesi dall’apertura di Expo — dice Artusi — significa che quella di Easyjet non è una scommessa al buio ma il frutto di una osservazione meditata». «È la naturale conseguenza — spiega il direttore generale della compagnia, Frances Ouseley — dell’importanza che Milano ha per noi e del fatto che Malpensa è la nostra più grande base dell’Europa continentale».
E aggiunge: «Nel periodo di ExpoinCittà il nostro investimento su Milano
crescerà in misura superiore alla media dell’industria, con l’obiettivo di trasportare oltre 4 milioni di persone». In particolare, tra maggio e la fine dell’esposizione universale, Easyjet ha aumentato il proprio investimento del 5 per cento mettendo sul piatto 4 milioni e mezzo di posti per volare a Milano da oltre 50 aeroporti. «Inoltre — prosegue il manager — promuoveremo gli eventi ExpoinCittà tra gli oltre 25 milioni di passeggeri che voleranno con noi da oggi a ottobre». Quanto alla diminuzione dei ricavi denunciata da alcune categorie, Artusi non si mette a negarla ma la considera un indicatore parziale: «Basta andare alla Darsena o al Mercato Metropolitano dietro Porta Genova non solo per avere la percezione di un successo ma anche per intuire le nuove strutture di accoglienza richieste da un turismo di massa o toccare con mano la sharing economy, un nuovo modo di condividere alcuni servizi a cominciare dalle case in affitto. Come tutti i cambiamenti anche questo può comportare entusiasmo da una parte e timori dall’altra. Ma è una grande opportunità e bisogna coglierla».
postilla
In una città dove tutto ancora (dal dibattito aperto sul nuovo stadio, alle grandi trasformazioni pregresse dei quartieri, alla polarizzazione di Expo) pare svilupparsi sostanzialmente nel segno degli spazi specializzati e delle «eccellenze», pare in effetti essere calato il sipario su ciò che in evidenza non striscia affatto ma avanza impetuoso, ovvero la domanda di mixed-use: quello vero, non quello via via teorizzato da chi mescola quel che gli pare per motivi del tutto propri di valorizzazione. Non ci dovrebbe essere alcuna sorpresa, se ogni tanto i piccoli invisibili soggetti, concentrandosi in un solo luogo in un solo momento (è accaduto e accade nella recuperata Darsena) fanno rischiare il tracollo al metabolismo metropolitano. Accade, solo, che all’azione pervasiva di questa frammentata domanda non corrisponde l’adeguamento della risposta: tanti piccoli soggetti esprimono bisogni di servizi, trasporti, accoglienza minima o integrata, e invece la città, con la parziale eccezione di alcuni aspetti della mobilità, continua a rispondere vuoi con mega-concentrazioni e specializzazioni, vuoi delegando al virtuoso fai-da-te privato. Che, come insegnano ad esempio certe città universitarie nazionali, sui tempi non troppo lunghi porta a rischiare un collasso di sistema. E viene sempre più il sospetto che gli entusiasti promotori dello scoperchiamento dei Navigli, che sognano abbastanza esplicitamente una specie di Venezia in centro a Milano, non abbiano mai letto una riga sullo spopolamento della città lagunare, sui guai del turismo mordi e fuggi, sul degrado urbano e i disagi. Prevenire è meglio che curare, se ci si accorge in tempo di un piccolo malessere invece di inseguire massimi sistemi (f.b.)
«Alcol, rumore e party selvaggi: ormai la situazione è fuori controllo. Sospese le licenze per nuovi alloggi». Dicono: non vogliamo fare la fine di Venezia: raccoglierà qualcosa da questa provocazione qualche decisore che abita questo sito, trasformato da vivace città immmersa in un vitale ecosistema lagunare a torbida e maleodorante palude in disfacimento? Io non sono sereno. La Repubblica, 7 luglio 3015
«Non vogliamo fare la fine di Venezia». Appena insediata nel suo nuovo ufficio di sindaco di Barcellona, Ada Colau ha lanciato l’allarme. E ovviamente non si riferiva al problema dell’acqua alta. La “marea” che cresce fino a far temere un’inondazione catastrofica è quella del turismo fuori controllo, che inquieta le autorità municipali e soprattutto fa infuriare i residenti della capitale catalana, esasperati al punto da esporre in qualche caso inequivocabili cartelli ai balconi con l’imperativo «Tourists go home!».
Il clima ritorna incandescente con la ripresa della stagione turistica, nei quartieri eletti dai visitatori come destinazione privilegiata del “luna park” Barcellona, dal Barri Gòtic alla Sagrada Familia alla Barceloneta. Qui l’estate scorsa erano scesi in piazza a più riprese sollecitando provvedimenti contro il proliferare di appartamenti senza licenza, dove le notti ad alto tasso alcolico e musica a tutto volume sono la regola da giugno a settembre. Il risultato è stato un numero (insuffiente) di perquisizioni e appena 300 multe ai proprietari fuorilegge. È l’eredità che la vecchia amministrazione nazionalista ha lasciato alla nuova “alcaldesa” eletta con l’appoggio di Podemos. Colau ha deciso di prendere di petto il problema con una decisione drastica destinata a far discutere: ha sospeso «almeno per un anno» la concessione di licenze per nuovi alloggi turistici. Senza fare distinzioni: si va dagli hotel a cinque stelle agli ostelli giovanili, dai residence agli appartamenti. L’unico risultato sicuro è che, per il momento, vengono penalizzate le multinazionali del settore alberghiero che avevano già programmato investimenti per circa 400 milioni di euro: Four Seasons, Hilton, Marriott, Hyatt. Bloccati almeno trenta progetti già avviati (dovevano essere trasformati in hotel di lusso la Torre Agbar, l’emblematico grattacielo a forma di siluro progettato da Jean Nouvel, oltre alla vecchia sede di Deutsche Bank e della Henkel), mentre altre decine di iniziative sono state rinviate a tempi migliori. In questo modo vanno in fumo migliaia di possibili nuovi posti di lavoro in un settore che già contribuisce per il 14 per cento al prodotto interno lordo della città e che dà occupazione a 120mila persone.
Come riconosce lo stesso Comune, il turismo è una preziosa fonte di entrate che porta 25 milioni di euro al giorno in una città di un milione e mezzo di abitanti con 27 milioni di visitatori l’anno. Nel 1991, alla vigilia dei Giochi Olimpici che segnarono l’inizio della grande trasformazione di Barcellona, i turisti erano appena un milione e 700mila. Secondo il geografo Francesc Muñoz, che conosce da vicino anche il caso di Venezia perché vi ha abitato, «oggi è molto ingenuo e naif porre limiti al turismo, dire no all’industria del XXI secolo». Però i residenti, che ormai si sentono stranieri in casa, pretendono regole. Convivere con orde di invasori che indossano sombreri messicani, bevono un liquido tossico spacciato per sangrìa e fanno incetta dei più assurdi souvenir è diventato un incubo quotidiano. E soprattutto notturno, quando i patiti del “pub crawl”, i tour etilici low-cost destinati a un publbico giovanissimo soprattutto anglosassone diventano padroni della città tra schiamazzi e comportamenti incivili.
Il sindaco Colau prova a mettere un freno con la sua moratoria. Ma gli albergatori non sono convinti che sia la via giusta, nonostante il numero di posti letto sia passato dai 24mila del 1991 a circa 70mila: «Magari i nuovi hotel si installeranno nelle località vicine», prevede il direttore del consorzio Turisme de Barcelona, Jordi William Carnes. E l’invasione della città continuerà esattamente come prima.
La Repubblica, 7 luglio 2015
Il casus belli sono 7 colonne dell’edificio eretto il 75 d.C. da Vespasiano. Torneranno in piedi sotto i tendoni del cantiere della Blasi srl su via dei Fori imperiali. E il 21 aprile, Natale di Roma, due “monoliti” sono stati già mostrati «in fase di premontaggio», precisa l’autore del progetto, l’ingegner Mario Bellini. Poi la sospensione dei lavori, per il palco del 2 giugno, che dovrebbero essere ultimati «entro la fine dell’estate».
Avverso all’erigenda macchina è però, tra gli altri, il pool di studiosi dell’associazione Bianchi Bandinelli che, spinta dall’architetto Sandro Maccallini, promotore della campagna contro questa ricostruzione («il pericolo — dichiara — è che questo tipo di anastilosi, di falso, diventi un modello su tutto il territorio nazionale»), ha visitato il cantiere delle polemiche. E, dopo il sopralluogo, spara contro le colonne a palle incatenate. «Per costruire le nuove basi in cemento hanno distrutto quelle antiche», attacca l’ingegner Salvatore d’Agostino, strutturista della Federico II di Napoli: «Stanno praticando un foro nei blocchi di granito per sostenere le strutture con pali di acciaio. Ma così si violano i principi di integrità e di autenticità: il colonnato diventa un fenomeno da baraccone». E l’ex soprintendente di Salerno, l’archeologa Giuliana Tocco, gli è accanto: «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta, l’apoteosi del cemento che poi abbiamo capito quanti danni abbia invece prodotto. E poi si nega il principio di reversibilità, fondamentale in ogni restauro». Stesso tono di Pietro Guzzo, per anni a capo della soprintendenza di Pompei: «Le basi in cemento armato che devono sostenere le colonne ricostruite? Impossibile rimuoverle. Né mi riconosco in questa smania per la cosiddetta valorizzazione: davanti a tanti resti che hanno bisogno di cure, spendiamo fondi in operazioni di pura immagine».
Il ri-innalzamento delle 7 colonne della discordia viene difeso invece a spada tratta da Francesco Prosperetti, soprintendente all’archeologica di Roma. «Le basi in cemento e i perni in acciaio sono necessari perché rispondono alle nuove leggi in materia di sicurezza antisismica, altrimenti l’anastilosi non si può fare», rimarca l’architetto.
Ma lo studioso che ha messo per primo il sigillo sul progetto è il responsabile dei Beni culturali comunali, Claudio Parisi Presicce. «Le polemiche sono sollevate da una parte della comunità scientifica che vuole lasciare l’antichità allo stato di rovina, di rudere» taglia corto l’archeologo. Che poi entra nel merito: «È vero che è stato praticato un foro centrale del diametro di 8 centimetri, ma le statue antiche non si perforano forse allo stesso modo per inserire i perni che le sostengano? ». Né importa se pochi sono i pezzi originali superstiti: «Per l’anastilosi è sufficiente che siano i due quinti».
E il cemento che viene impiegato nelle colonne non viola il principio della reversibilità? «Per le integrazioni — spiega stavolta l’ingegner Bellini — usiamo una malta di riscostruzione, una pietra artificale che si intonerà con i colori originari del granito, del marmo lunense e del travertino. Uno strato di calce fa sì che essi non entrino in contatto con il cemento: la reversibilità è assicurata».
Infine, alla domanda perché mai spendere 665.900 euro quando i resti delle colonne potevano restare a terra e la ricostruzione affidarla alla tecnologia virtuale e luminosa di un Piero Angela, Parisi Presicce dichiara sorprendentemente: «La condizione migliore per conservare quei blocchi di granito è riportarli nella posizione originaria, che è verticale. Ricevono più danni a restare sdraiati a terra ». Dopo le prime sette, una selva di colonne potrebbe riconquistare la posizione eretta nel cuore di Roma.
Caltanissetta, 4 luglio 2015
Italia Nostra Sicilia: No al nefasto ddl sui centri storici siciliani
Nel corso della seduta di mercoledì 1 luglio 2015, l'Assemblea Regionale Siciliana ha approvato l'intero articolato del disegno di legge n. 602 denominato "Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici", con gli ultimi, irrilevanti emendamenti. Manca soltanto il voto finale al disegno di legge, che sarà dato martedì prossimo, 7 luglio 2015. Nei primi giorni di marzo 2015, l'iter del ddl, a causa delle aspre critiche delle associazioni culturali e ambientaliste e del mondo universitario, fu sospeso, tornando in IV Commissione Ambiente e Territorio, dove siamo stati riascoltati. Tutto ciò non è servito a nulla. Alla luce di quanto letto nel testo finale dellarticolato di legge, non possiamo che confermare le nostre critiche e osservazioni in ordine al nefasto provvedimento legislativo.
Esso, infatti, appare conforme alla logica rozza e sbrigativa dello Sblocca Italia. In ossequio ai dettami contemporanei del fare, proponendosi di rilanciare lasfittico comparto edilizio e invogliando i cittadini a effettuare interventi di ristrutturazione negli antichi fabbricati, il disegno di legge intenderebbe superare le note difficoltà di elaborazione e approvazione dei piani particolareggiati, consentendo interventi diretti e immediati sulle singole unità edilizie, bypassando dunque i tradizionali, imprescindibili strumenti urbanistici e pianificatori. Per raggiungere tali obiettivi, la proposta legislativa si fa portatrice di una preoccupante e sconcertante serie di semplificazioni, ricorrendo a regole generiche e sommarie, uguali per tutti i comuni dell'isola da Siracusa a Ragusa Ibla, da Catania a Palermo, da Trapani a Caltanissetta. E evidente che in tal modo si considera secondario, assolutamente marginale, l'obiettivo basilare della tutela e della conservazione del patrimonio storico e artistico, indicato chiaramente dall'art. 9 della Costituzione, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e persino dalla legge urbanistica regionale del 27 dicembre 1978, n. 71 (vedi Titolo V, art. 55).
Per Italia Nostra tutto questo è inaccettabile. Noi, semmai, riteniamo che le cosiddette Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici possano rappresentare lo strumento funzionale per aggirare piani e regole fondamentali, per rimuovere quelle analisi storiche e urbanistiche imprescindibili per comprendere le diverse, specifiche realtà territoriali. Pertanto, manifestiamo la nostra più decisa opposizione, richiamando i principi della carta di Gubbio, a cominciare dalla pianificazione preventiva. Chiediamo quindi, ancora una volta, che si respinga in Aula tale provvedimento legislativo che, di fatto, costituisce un grave pericolo per la sopravvivenza dei centri storici siciliani. Un attacco speculativo senza precedenti, nel momento in cui la Sicilia riceve il settimo riconoscimento Unesco per il suo speciale patrimonio arabo-normanno.
Bologna, 5 luglio 2015
La Regione Sicilia si appresta ad approvare un disegno di legge, più o meno identico a quello del marzo scorso, che favorisce la distruzione dei centri storici della sciagurata Regione, alfiere del tracollo dell'urbanistica italiana. Come il crollo di Agrigento e il sacco di Palermo furono il nefasto esperimento di una politica urbanistica e territoriale che intaccò quasi subito le altre Regioni, così questa legge anticostituzionale, fuorilegge rispetto al decreto legislativo 42/2004 costituirà il riferimento per altre regioni e città metropolitane del nostro paese. Da vecchio socio di Italia Nostra, faccio appello al presidente di Italia Nostra Sicilia, Leandro Janni, affinché coinvolga i presidenti delle altre regioni, al fine di promuovere con estrema urgenza una conferenza (magari presso la stampa estera) con la Presidenza nazionale attualmente in carica per denunciare uno scandalo che può avere conseguenze drammatiche per tutto il Paese.
«Intervista alla neo presidente del Consiglio comunale, Ermelinda Damiano, 27 anni, laureata in Legge. "Non ho esperienza in politica, ma giudicatemi da ciò che farò, non da una vecchia foto"». Forse il boss Brugnaro l'ha fatta eleggere perché è femminista. La Nuova Venezia, 4 luglio 2015
Da miss a presidente. E in mezzo il lavoro, gli studi e la laurea in legge. Le sue foto da ragazzina stanno facendo il giro del web. Commenti non sempre signorili, battute. Paragoni con le “veline” del governo Berlusconi. Ma anche gente che si mobilita in sua difesa. Eccola Ermelinda Damiano, detta Linda, 27 anni, la nuova presidente del Consiglio comunale di Venezia. Giovane, gentile, educata. Una faccia nuova eletta al vertice dell’assemblea municipale con i voti della maggioranza Brugnaro, 25 su 36.
Una storia particolare, il padre che lascia la famiglia quando lei è piccola, la madre bidella costretta ad arrangiarsi. Il viaggio da Napoli e l’arrivo a Venezia alla ricerca di un lavoro. E adesso il lancio nella politica. Luigi Brugnaro che vince le elezioni, lei che diventa consigliera e dopo pochi giorni, presidente. La più giovane nella storia di Ca’ Loredan a soli 27 anni.
Contenta?
«Molto. Ma la gioia della nomina me l’hanno subito rovinata, la prima sera. Hanno detto che facevo la modella, la ballerina».
Non è vero?
«Ho lavorato per pagarmi gli studi. Ho fatto anche l’accoglienza in discoteca, non certo la ballerina, portavo la gente ai tavoli. Non mi pare un crimine. Lavoro da quando avevo 15 anni, ho cominciato al liceo, nei mesi estivi, quando gli altri andavano al mare. Per aiutare mia madre. Siamo solo io e lei. Ho un fratello ma non lo vedo da tanti anni. Ho fatto la commessa, la barista al bar dell’orologio. Non mi vergogno, anzi».
Gli studi adesso li ha finiti.
«Sono laureata in giurisprudenza, mi sarebbe piaciuto che qualcuno lo avesse ricordato invece di cercare le mie vecchie foto in costume per mettermi in cattiva luce. Sto facendo pratica in uno studio legale di Mestre».
Dall’avvocato Giorgio Chinellato, già consigliere comunale della Margherita, ex presidente della Reyer basket femminile. Come lo ha conosciuto?
«Ho portato il curriculum a tutti gli avvocati della città come si fa in questi casi. Lui mi ha risposto. Non ho mai chiesto l’aiuto di nessuno, mi sono sempre arrangiata da sola. Da quando siamo venuti con mia mamma da Napoli. Mia mamma, il grande pilastro della mia vita».
È vero che faceva la ballerina al Molo 5?
«No. Al Molo 5 ho lavorato, sì. Accompagnavo ai tavoli la gente. Sempre per lo stesso motivo: guadagnarmi due lire e pagarmi l’Università. Ho fatto anche la modella, certo. Se volevo potevo andare avanti nel mondo dello spettacolo ma non mi interessava. Ho preferito laurearmi e dal dicembre 2013 ho cambiato vita».
Quando ha conosciuto Luigi Brugnaro?
«Quattro anni fa. Volevo lavorare anche la domenica, ho trovato questa occasione. Ne ho parlato con lo staff, mi hanno preso per fare la hostess alle partite della Reyer. Con me è stato molto gentile».
Quando nasce la sua candidatura a presidente?
«Ne abbiamo parlato in gruppo. Si è pensato di lanciare una persona giovane, una donna. Le donne sono sempre state ai margini della politica».
Pensa di avere i requisiti per ricoprire quel ruolo? Che esperienze ha in politica?
Non la spaventa questo nuovo ruolo?
«Direi di no. Ho già cominciato a lavorare, ho inviato mail a tutti i gruppi per avviare l’attività. Aspetterò lunedì per sapere i nomi di tutti i capigruppo, poi convocherò credo giovedì la conferenza dei capigruppo».
Quando sarà il primo consiglio comunale?«Credo tra una decina di giorni. Ci sono da affrontare molte questioni, a cominciare dal bilancio. Quest’anno le ferie ce le scordiamo».
Dopo lo scandalo della Exxon «il principio del “chi sporca paga” ha continuato a radicarsi, almeno negli Stati Uniti». Significa che chi ha più soldi può sporcare di più? La Repubblica, 3 luglio 2015
Washington. Si distese come un sudario sul mare, grande quanto metà dell’Italia, 173 mila chilometri quadrati di morte nera sul Golfo del Messico fino al delta del Mississippi e agli acquitrini dei bayou in Louisiana, e dopo cinque anni dall’aprile del 2010 il conto è arrivato: la BP, la British Petroleum, dovrà pagare 18,7 miliardi di dollari per i danni provocati dalla piattaforma Deepwater Horizon.
Una riflessione ampiamente argomentata sulla situazione di degrado strisciante di uno dei centri storici più importanti al mondo: biglietto da visita di una città al tracollo. (m.p.g.)
Lo sterminatopatrimonio storico-artistico di Roma rimane largamente sconosciuto airomani stessi e ai milioni di turisti convogliati, questi ultimi, daitour operator e dalla mitizzazione di taluni totem unicamente su dueo tre musei o siti durante soggiorni più brevi del passato (neppure2 giorni e mezzo di media):Colosseo e Fori sonoormai oltre i 6 milioni e mezzo di visitatori, con introiti che, dasoli, costituiscono un terzo dell’incasso totale dei musei stataliitaliani, nonostante una quota di esenzioni abbastanza elevata.I Musei Vaticanirisultano al 4° posto in Europa con oltre 5 milioni e mezzo divisitatori e con incassi molto considerevoli (oltre 91 milioni dieuro nel 2011) dal momento che gli esenti non superano il 5 %.Piuttostofrequentato anche Castel Sant’Angelo (statale) con oltre 1 milionedi visitatori nel 2014.
Due articoli indipendenti sottolineano alcuni aspetti, contraddittori soprattutto rispetto alla percezione di come si evolve un quartiere nel tempo, fra sostituzione sociale e laborioso mantenimento di una certa complessità urbana, del tipo che piace poco agli immobiliaristi. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2015, postilla (f.b.)
L’ECONOMIA DELLA CONVIVENZA
di Nicola Saldutti
Ci sono delle trasformazioni e dei fenomeni che dicono molto di più di una città. Della sua vitalità. Della sua capacità di cambiare. È quello che, in qualche modo, sta accadendo nella cosiddetta Chinatown. Perché è pur vero che i milanesi rappresentano ancora l’80 per cento degli abitanti del quartiere. Un perimetro racchiuso tra le strade che vanno da via Canonica a Via Sarpi, a via Procaccini. Che in questi anni è cambiato più di quanto la stessa città si sia accorta. Se si dovesse raffigurare con un’immagine-simbolo, per definirla, si dovrebbe pensare ai cartoni che racchiudono l’enorme quantità di merci in transito e in vendita. Eppure anche qui le cose stanno cambiando. Come raccontava ieri l’inchiesta di Alessandra Coppola e Marco Del Corona, il mercato all’ingrosso è sceso di quasi un quinto. E c’è un altro dato che dimostra il cambiamento: se per i negozi con vetrine sono i cinesi ad avere la maggioranza (512 su 790), gli italiani sono saliti da 188 a 278 esercizi commerciali. Come dire: la trasformazione e la coabitazione (talvolta complicata) sta mettendo in moto nuovi equilibri, nuovi imprenditori. Perché la zona, diventata a traffico limitato nel 2008 e poi pedonale nel 2011, sta cominciando a cogliere anche i frutti della grande trasformazione urbana legata alla Torre Unicredit e alla zona Garibaldi e a Porta Volta. In attesa della libreria Feltrinelli di piazzale Baiamonti.
Come dire: i carrellini che trasportano merci continuano ad attraversare le strade, ma le vetrine cominciano, in qualche caso, ad assomigliare a negozi più accoglienti. Un sintomo viene anche dalle quotazioni del mercato immobiliare: la discesa qui è stata meno forte proprio perché la presenza di studi di architettura, di centri di produzione televisivi, di società di servizi continua ad essere un pezzo rilevante del quartiere. Potremmo definirla un’economia sempre più mista, insomma. Certo, le tensioni non mancano ma la curiosità del resto della città per questo quartiere (non solo per l’acquisto delle cover dei telefonini a buon mercato) dice di una zona che probabilmente si giocherà soprattutto con le seconde generazioni. E la scuola di via Giusti è in un certo senso la palestra di questo cambiamento permanente. Che comincia nelle classi.
Ps. Nel giorno del Capodanno cinese alla presenza del sindaco, Giuliano Pisapia, piazza Gramsci era piena. La prova che la convivenza è necessaria e possibile.
I CINESI ABBANDONANO IL PROGETTO DEI PORTALI: «COSÌ SONO INUTILI»
di Alessandra Coppola e Marco del Corona
L’idea dei «paifang» si smonta prima ancora che i portali siano costruiti alle estremità di via Sarpi. Li aveva proposti la comunità cinese, alcune associazioni di residenti avevano opposto una raccolta di firme e un progetto alternativo di archi verdi. Al consiglio di Zona 1, infine, il 1° aprile si era ipotizzato un compromesso: sì alle strutture tradizionali d’accesso a Chinatown, purché siano provvisorie.
Vale la pena investire 100 mila euro (almeno) per una costruzione che dopo Expo, quindi già a novembre, andrà demolita? I commercianti del quartiere, la vecchia generazione assieme ai ragazzi cresciuti qui che avevano lanciato la proposta, hanno valutato troppo alto il rischio. «Saremmo stati noi, con gli altri, a finanziare il progetto — spiega Francesco Wu, presidente dell’Unione imprenditori Italia-Cina — ma per così poco tempo è un costo consistente. Ci spiace che il Comune non abbia avuto il coraggio di portare avanti l’iniziativa, indipendentemente da Expo, sul modello di grandi città come Londra o Amsterdam. Non sarebbe stato un ghetto. Il paifang è una porta di benvenuto: aperta, non chiusa. Ma questo aspetto non è stato colto. Abbiamo desistito».
Soddisfatto Pier Franco Lionetto, presidente dell’Associazione ViviSarpi che s’era schierata contro l’iniziativa cinese: «Bene un quartiere multietnico — spiega — ma perché limitarlo con la definizione di Chinatown? Sarebbe stato sì ghettizzante». La preoccupazione di ViviSarpi continua a essere «il degrado del quartiere». Lionetto ha letto con attenzione l’inchiesta pubblicata ieri sul Corriere sul vistoso calo dei grossisti nella zona: «Dato interessante, che posso confermare con l’osservazione. Faccio però sinceramente fatica a contare su via Bramante 18 negozi italiani, però è vero che alcuni grossisti hanno chiuso». Restano aperti, aggiunge, «molti magazzini e depositi», che con il carico e scarico creano i maggiori problemi ai residenti: «Forse punti di appoggio dopo la chiusura. Strano, però, che resistano con questi affitti...».
Lavorare a Chinatown, infatti, è diventato per i commercianti cinesi (già alle prese con un euro troppo debole nei confronti del renminbi, la valuta di Pechino), una sfida contabile quotidiana. Il costo e gli affitti dei negozi sono ai limiti della sostenibilità: 90 metri quadri a uso commerciale valgono ormai sul milione di euro, prendere in locazione 45 metri costa 5 mila euro al mese. Questo significa che molti si accontentano di margini di guadagno risicati. Matteo ha in via Bramante un negozio di abiti per bambini, la tipologia «che rende meglio», sorride. È lui a spiegare i calcoli suoi e dei colleghi: «L’85% del prezzo di vendita di un prodotto all’ingrosso made in China se ne va in costi, il ricarico è del 15%. Alla fine ci si accontenta di un profitto netto del 10% o anche di meno, mentre un italiano non scenderebbe sotto il 20% o massimo 15%». Non è stato sempre così. «Gli anni d’oro sono stati il 2005-2006». Un’altra era.
postilla
Probabilmente, chi ha anche solo di sfuggita seguito qualche processo di gentrification (o diformazione di quartiere etnico nel percorso opposto di sostituzione sociale) hagià riconosciuto la contraddizione dei due articoli indipendenti pubblicati sudue pagine diverse della medesima cronaca locale. Il primo in sostanza inneggiaal classico processo di pesante trasformazione urbanistica con interventiedilizi importanti, dal famoso quartiere di Porta Nuova delle archistar ai suoicerchi concentrici verso le zone confinanti. Il secondo cita una semplice scheggiadi quello che avrebbe voluto essere il coronamento di una specie diauto-ghettizzazione, non priva di identici per quanto particolari effetti dirivalutazione immobiliare, e relativa espulsione. Quindi da un lato la gentrificationclassica, quella che allarga gli effetti fino a determinare sprawl nell’areametropolitana (inclusi i progetti di «decentramento» pilotato delle attivitàcommerciali all’ingrosso), dall’altro la mancata «cinesizzazione», simbolica omeno, del distretto, che mantiene invece una corposa diversificazione, e dovepare impossibile applicare il folkloristico «brand». Tutto sommato, ne esce unaimmagine di vitalità, per quanto contraddittoria, che meriterebbe forse ilsostegno di più consapevoli e durature politiche urbane, in parte già in atto,e magari estese oltre quel perimetro angusto della sola Chinatown, che pare oggipiù una scivolosa trappola mentale che un vero e proprio definito quartiere (f.b.)
«Perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che sono state ai vertici all’Anas, e almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti nel collaudo di una diga?». Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Cinque miliardi e 493 milioni di euro: fa impressione soltanto a scriverla, la cifra. Ma nel conto astronomico del Mose di Venezia, il sistema delle dighe mobili concepito per difendere la laguna dall’acqua alta investito anch’esso dallo scandalo della corruzione, si trovano numeri ancora più strabilianti. Sapete quanti sono i collaudatori che sono stati impegnati nella difficile missione di verificare la bontà e la correttezza dei lavori? La lista completa messa a punto dai commissari che gestiscono ora il Consorzio Venezia nuova contiene 130 nomi. Avete letto bene: centotrenta. Se però a questi si sommano quanti per il medesimo Consorzio hanno collaudato lavori lagunari minori collegati al Mose, arriviamo a 316. Trecentosedici, per compensi totali di 19 milioni 818.524 euro e 76 centesimi, dei quali 14,2 per il Mose e il resto per le opere in laguna. È bene precisare che si tratta di incarichi antecedenti scandalo e commissariamento. Alcuni dei nomi più vistosi, per giunta, erano già noti. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, apre ora uno squarcio su una delle pratiche più raccapriccianti in voga nel mondo dei lavori pubblici. Tutto legale, s’intende. Ma non per questo meno sconcertante. E scorrendo l’elenco sterminato del Mose vengono in mente tante domande.
Naomi Klein intervistata da Federico Rampini. È stata invitata in Vaticano: nasce così un’alleanza in nome della difesa del pianeta. «Il documento va alla radice della crisi, e Francesco chiama per nome il motore scatenante: un capitalismo fondato sul profitto di breve termine». La Repubblica, 28 giugno 2015
La sacerdotessa dei no-global incontra papa Francesco: sboccia una santa alleanza in nome della salvezza del pianeta. Naomi Klein è stata invitata in Vaticano il 2 e 3 luglio, parlerà a una conferenza internazionale che il Consiglio pontificio per la giustizia e la pace dedica all’enciclica “Laudato Si’”.
La Klein, canadese, autrice di “No logo”, “Shock economy” e “Una rivoluzione ci salverà” (Rizzoli), è una delle più autorevoli pensatrici dei movimenti ambientalisti, terzomondisti, di contestazione del liberismo. Alle sue idee hanno attinto di volta in volta Occupy Wall Street, gli indignados e Podemos. La intervisto mentre sta per partire alla volta dell’Italia: felice dell’opportunità, entusiasta dell’enciclica.
Che cosa le piace del documento papale sul cambiamento climatico?
«È una vera svolta, una rottura storica, con delle implicazioni importanti: sia politiche che economiche. Papa Francesco fa una lettura radicale dell’emergenza ambientale, nel senso letterale di questa parola: va alle radici della crisi. Ha deciso di chiamare per nome il motore scatenante: il modello economico, un capitalismo fondato sul profitto di breve termine. È un’enciclica da studiare e da digerire bene. Noi viviamo in una cultura che vuol semplificare tutto, il modello sono le famose “listicles” di Buzzfeed. La tentazione è quella di riassumere: le 10 cose che il papa dice sull’ambiente. No, il papa abbraccia la complessità, e i suoi messaggi sono complessi ».
Il suo saggio più recente, “Una rivoluzione ci salverà”, è considerato il più ottimista della sua trilogia. Dunque è possibile salvarci, e salvare il pianeta?
«Sono partita da dove ero rimasta nel mio libro precedente, “Shock economy”, cioè dal fatto che questo sistema economico – basato sulla dittatura del profitto individuale – usa le crisi per arricchire ulteriormente le élite. Il cambiamento climatico non fa eccezione. L’uragano Katrina e quel che da allora è accaduto a New Orleans, ne è una dimostrazione: un sistema economico brutale ha sfruttato il disastro per ulteriori privatizzazioni, un’esasperazione delle diseguaglianze. È lo scenario che ci mostrano i film hollywoodiani di maggior successo popolare, da Mad Max a Hunger Games: un futuro di violenza, brutalità, diseguaglianze sempre più feroci. La sfida è immaginare come possiamo cambiare questo futuro. È questo il tema del mio ultimo libro. Non sono ottimista in senso ingenuo. Non dò per scontato che lo scenario migliore accadrà. Mi collego proprio allo spirito dell’enciclica papale, che affronta i valori culturali e morali dominanti. Il nostro sistema di valori attuale non ci attrezza a cooperare fra noi per la salvezza collettiva».
Lei è severa verso due delle ricette adottate in passato per affrontare il cambiamento climatico: i megavertici internazionali da Kyoto in poi; e i sistemi di regolazione delle emissioni attraverso un mercato, il cosiddetto “cap and trade”, cioè lo scambio di quote di emissione.
«Il limite dei megavertici è lo stesso limite dei governi. Se non hanno la forza di prendere certe decisioni a livello nazionale, perché dovrebbero comportarsi diversamente solo perché si ritrovano insieme in un summit? Le élite sono ancora immerse nell’ideologia neoliberista, non hanno la forza di opporsi alle multinazionali dell’economia carbonica. Vedi l’esempio di Barack Obama, che fa dei bei discorsi sull’ambiente ma poi dà alla Shell il permesso di trivellare nell’Artico: perché dirle di no gli sarebbe molto difficile. In quanto al sistema “cap and trade”, anch’esso è un sintomo della mancanza di volontà di regolamentare le imprese. Si è creato un mercato delle emissioni carboniche che genera nuove occasioni di profitto, e anche tante frodi, invece di stabilire semplicemente delle limitazioni per legge. Quel sistema venne imposto dagli Stati Uniti a un’Europa recalcitrante. Gli europei capitolarono ai tempi dei negoziati sul protocollo di Kyoto (in Germania la Merkel era ministro dell’Ambiente a quell’epoca) in modo da ottenere che gli Stati Uniti firmassero quel trattato. E poi gli americaninon lo firmarono neppure ».
Lei indica invece che le novità più positive sono emerse a livello locale.
«Sì, la mobilitazione dei cittadini dal basso in certi casi ha costretto i politici a dire di no agli interessi del capitalismo carbonico. Un esempio recente dove abita lei, a New York: il governatore Andrew Cuomo voleva autorizzare l’estrazione di gas e petrolio con la tecnologia del fracking, ma i movimenti contrari lo hanno costretto a mettere al bando quella tecnica pericolosa e nociva. Un altro esempio interessante è il forte movimento anti-nucleare in Germania, che dopo la tragedia di Fukushima ha costretto il governo Merkel ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili: già oggi forniscono il 30% del fabbisogno tedesco».
Uno dei temi che solleva papa Francesco in “Laudato Si’”, è la necessità di ripensare le nostre democrazie, insieme con i valori etici che guidano le nostre scelte quotidiane: di consumatori e di cittadini.
«Sì, la questione della democrazia è centrale. Un esempio di attentato alle democrazia: una multinazionale svedese ha fatto ricorso contro la Germania accusandola di ledere i propri diritti, quando Berlino ha deciso di abbandonare il nucleare. Le democrazie nazionali, anche quelle che funzionano meglio, possono essere minacciate dai nuovi trattati di libero scambio con le clausole a favore delle grandi imprese. Una delle qualità di questa enciclica papale è il suo approccio olistico, che tiene insieme ambiente, economia, politica. Sono dimensioni inscindibili. Mentre invece quando c’è una crisi economica la si affronta per compartimenti stagni. Vedi la crisi dell’eurozona: i tagli ai bilanci pubblici sono diventati il pretesto per ridurre il sostegno alle energie rinnovabili, rilanciare le trivellazioni marittime, penalizzare i trasporti pubblici alzandone le tariffe. Quando parliamo dei danni provocati dall’euro-austerità ci dimentichiamo regolarmente questo: il danno all’ambiente».
LIBRO E CONVEGNO Naomi Klein, scrittrice canadese, è considerata la sacerdotessa dei no-global. Il Vaticano la ha invitata a parlare a una conferenza del Consiglio pontificio per la Giustizia e la Pace . Nel 2015 Rizzoli ha pubblicato il suo ultimo libro, “Una rivoluzione ci salverà”
Un'enciclica scomoda per molti. Soprattutto per chi si lascia manovrare dal grande Burrattinaio: il capitalismo, baby. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015
Non deve sfuggire come la nostra stampa abbia sorvolato sullascomodissima Enciclica “Laudato Si’”. In successione temporale registriamo: uno scoop di anticipo dei contenuti del testo del “papa verde”, con un po’ di irrisione e banalizzazione nelle intestazioni poste a corredo delle citazioni ad opera del vaticanista Sandro Magister dell’Espresso; titoli di spalla sulle prime pagine dei quotidiani per la durata delle prime 24 ore; dal giorno immediatamente dopo, spostamento dell’attenzione da una riflessione sconvolgente e articolata in oltre 200 pagine sul degrado della “casa comune” alla diatriba su gay e coppie di fatto, con definitiva metabolizzazione dell’Enciclica nel rullo compressore delle informazioni correnti.
Tutte le emittenti Tv, immancabilmente elettrizzate dalle visite in Vaticano dei premier di turno, nei Tg hanno dato la notizia solo in posizioni arretrate e non si sono affatto premurate di aprire i loro monotoni talk-show a temi come la giustizia sociale e climatica o ildestino del pianeta. Insomma, l’Enciclica è stata ridotta ad una mera “curiosità”, un colpo d’ala francescano da considerare fuori dalla mischia che ci viene giornalmente esibita.
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Eppure, è fuor di dubbio che due voci – pur su piani diversi – guardano oggi al futuro con una irriducibilità totale al pensiero unico:Bergoglio e Tsipras. Con una radicalità che mette in imbarazzo i governanti di mezzo mondo e i loro consiglieri che si riuniscono assieme ai Ceo delle multinazionali ai meeting delBilderberg.
Ascoltare queste voci e quanto sostengono come alternativa possibile è intollerabile per troike, banche, corporation privatizzatrici di beni comuni, governi tecnici e politici obbedienti, che citano numeri e regolette quando si tratta di persone e della loro vita (e morte). Di conseguenza, non devono essere presi sul serio, nemmeno quando le loro indicazioni e le loro battaglie hanno radici popolari e sono sostenute dal mondo scientifico e da quella parte del mondo economico che non si schiaccia sul presente, ma guarda al futuro e alle emergenze da affrontare. Le “truppe” che li potrebbero sostenere vanno messe fuori gioco in anticipo, come se si muovessero su un terreno assolutamente impraticabile, come sta succedendo a quelle di Tsipras che si sono illuse di autorappresentare il loro destino.
Nel caso clamoroso di Francesco – senza voler richiamare la battuta di Stalin su quante truppe avesse il Papa – il tratto eminentementesecolare di una chiamata alle armi per salvare il Pianeta, viene depotenziato come opzione ideologica a cui precludere basi sociali di massa. Eppure l’argomento ha una logica inconfutabile, per credenti e non: nemmeno l’uomo si salva se non si salva il pianeta.
Una presa di posizione così senza mezze misure non può che essere contestata nel campo dei conservatori. John Vidal e Suzanne Goldenberg su The Guardian elencano le opposizioni a partire dagli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima ha controbattuto che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. Ma la debolezza di questi avversari è quella di appartenere tutti alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente.
Il Papa, invece, ha dalla sua una strategia di lungo periodo, che non si rivolge solo a 5000 vescovi e ad un miliardo e duecentomila fedeli. Accanto al ghanese Peter Turkson, presidente Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, all’Arcivescovo del PerùPedro Barreto Jimeno, al cardinale honduregno Oscar Maradiaga, a Neil Thorns, autorevolissimo esponente della diplomazia vaticana e al preside dell’università cattolica di Buenos Aires Agosta Scarel, si stanno muovendo a sostegno autorevolissimi scienziati e riconosciuti economisti. Nessuno può sottovalutare che Ban Ki-moon, presidente Onu e i direttori della Fao e dell’Ipcc hanno espresso apprezzamenti calorosi. Perfino lo speaker repubblicano John Boehner, un cattolico praticante e dichiarato, dà per vinta la partita per Francesco.
E mentre, nonostante l’ostruzionismo di piccolo cabotaggio, verrà “bucata” a più livelli la ribalta dei media, l’Enciclica avrà il suo impatto pubblico massimo nell’incontro del Papa con Obama a settembre e nel suo intervento al Congresso Usa e all’assemblea generale dell’Onu, con l’ambizione non dissimulata di mettere un carico da novanta sullo svolgimento del convegno mondiale sul clima previsto per dicembre a Parigi (Cop 21).
Una partita cruciale a cui la politica locale e internazionale, definita “non all’altezza della sfida” farebbe bene a non sottrarsi. Intanto, tranne pochissime rare eccezioni (proprio ieri Stefano Fassina), continua a macerarsi nelle dinamiche di un potere in allontanamento dalla società.
Una interessante lettura ambientalista dell'enciclica di papa Francesco. La ricostruzione storica di un tentativo di affrontare l'argomento, con l'apporto della cultura ecologista italiana, nel periodo «iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla».
Al di là del suo contenuto è la scelta in sé di dedicare all’ambiente un’enciclica a indicare da parte di Bergoglio una volontà di rottura, il desiderio di una discontinuità. Certo, tutto questo non si può dire apertamente: la retorica della Chiesa è infatti sempre sotto il segno della continuità, le sue parole sono volte a esprimere un’unica e immutabile verità che parla via via il linguaggio dei tempi. E, come in tutti i grandi documenti vaticani, anche in questo caso abbondano le citazioni di testi precedenti (da San Francesco e dalla Bibbia fino a Giovanni XXIII e ai più recenti scritti di Wojtyla e di Ratzinger), a indicare l’eterna presenza - nel messaggio cristiano - di ciò che ora viene detto solo in modo nuovo e forse un poco più esplicito, consapevole e articolato che in passato.
Ma se la Chiesa cattolica coltiva questa costante premura per la continuità, per un eterno che essa disvela via via in forme storiche, chi osserva il passato in modo laico sa bene che nella chiesa le discontinuità e i conflitti non sono mai mancati. Al contrario, gli ultimi sessant’anni sono stati particolarmente ricchi di conflitti e di cambi di scenario sotto l’impetuosa pressione di un mondo che cambiava a ritmi inediti: ritmi sempre più rapidi ma spesso anche non lineari. E lo storico sa anche che la discontinuità più sorprendente per vastità e audacia è stata nel Concilio Vaticano II, frutto di un contesto storico di una vivacità irripetibile e presto depotenziato. Le aperture del Concilio sono state infatti sottilmente negate già poco dopo la sua chiusura e nei decenni successivi sono state messe lentamente e tacitamente relegate tra le ingenue o pericolose utopie del Novecento.
Gran parte del magistero di Bergoglio riprende al contrario i temi e lo spirito del Concilio anche senza rivendicarlo troppo apertamente. Una rivendicazione del genere significherebbe infatti ammettere l’esistenza di una serie di discontinuità costantemente negate persino da papi come Woytila e Ratzinger che hanno operato attivamente per liquidare molte delle maggiori novità conciliari, soprattutto in campo sociale.
Anche l’enciclica “Laudato sì”, anche se in modo inconsapevole, riprende uno sforzo post-conciliare della Chiesa. Uno sforzo di chinarsi sulla questione ambientale che però era rimasto tuttavia incompiuto, interrotto.
Molti in realtà rivendicano da tempo le progressive aperture di Wojtyla e Ratzinger all’ecologia e lo fa, in nome della continuità, anche Bergoglio. Credo si possa dire che queste aperture siano state delle petizioni di principio rare e timide che non hanno mai impegnato seriamente la Chiesa verso la questione ambientale. Molto diverso è il caso, ormai da mezzo secolo, di altre importanti questioni sociali come la pace, la povertà e i diritti e soprattutto delle questioni riguardanti la vita e la famiglia che costituiscono il nucleo dei cosiddetti “principi non negoziabili”, i soli su cui la Santa Sede chiama i credenti alla mobilitazione attiva.
E’ molto probabile invece che l’enciclica di Bergoglio intenda indicare ai cattolici come al resto del mondo un deciso cambiamento di passo. Accanto al “ritorno” fortemente enfatizzato al centro dell’azione e della parola della Chiesa di temi conciliari come il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani, ecco insomma “l’arrivo” dell’ecologia, che era la grande assente nella parabola conciliare iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla.
Ma è anche bene ricordare che la sollecitudine per l’ambiente avrebbe potuto appropriatamente stare dentro lo spirito e le preoccupazioni dell’età conciliare e che anzi quella assenza non fu totale. Vi fu infatti una brevissima stagione in cui qualcuno, dentro la Chiesa, tentò di innestare l’ecologia sul tronco conciliare e di fornirle pari dignità rispetto a temi strategici quali la pace, la giustizia sociale, i diritti umani, la democrazia. Questa stagione si chiuse tuttavia molto presto e quel tentativo fallì lasciando incompiuta l’agenda conciliare.
Consapevolmente o meno Bergoglio sta forse oggi tentando di compiere quel passo che allora non riuscì e che anzi fu fatto naufragare. In questo senso, insomma, anche l’enciclica Laudato sì può essere considerata come la riapertura di un cantiere conciliare.
La vicenda del tentato innesto dell’ecologia nell’agenda conciliare è nota soltanto a un pugno di addetti ai lavori e ai pochi protagonisti che ancora sopravvivono; è quindi utile riassumerla rapidamente partendo dall’inizio[1].
Nella discussione e nei documenti elaborati nel corso del Concilio, dall’ottobre del 1962 al dicembre 1965, non fu fatto alcun cenno alla questione ambientale. Erano proprio quelli gli anni in cui per la prima volta l’ecologia iniziava a fare la sua comparsa nel dibattito pubblico - Silent Spring era uscito proprio un mese prima dell’apertura del Concilio - e la Chiesa, che solo con fatica e con molti contrasti interni tentava di captare i principali “segni dei tempi”, non aveva antenne sufficientemente sensibili per capire che anche quello dell’ambiente era un importante “segno dei tempi”. Un segno destinato peraltro a esplodere a livello mondiale di lì a pochissimi anni.
La copiosa documentazione prodotta dai padri conciliari e i fondamentali documenti di poco successivi come l’enciclica Populorum progressio (1967) di Paolo VI non contenevano insomma alcun cenno esplicito né alcun stimolo consapevole riguardo alla tutela dell’ambiente. Vista da questa prospettiva la Chiesa cattolica mostrava di essere in grave ritardo rispetto alla già notevole elaborazione di teologia dell’ambiente proveniente dal protestantesimo statunitense.
Il silenzio dei documenti conciliari non dipendeva tuttavia soltanto dall’incapacità di percepire il sorgere di una problematica nuova come quella ambientale.
Tali documenti, che pure comprendevano e illustravano bene molte delle principali contraddizioni politiche e sociali del mondo moderno, erano infatti largamente permeati del clima di speranza degli anni del dopoguerra, della distensione e della crescita economica e mostravano una sostanziale fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Tale fiducia, messa in ombra solo qui e là da qualche considerazione più pessimista e preoccupata, finiva col rinforzare uno degli elementi fondanti di tutto il pensiero cristiano: l’antropocentrismo. La visione, cioè, che la Terra fosse creata per il godimento dell’uomo, immagine di Dio e vertice della Creazione, e che tutt’al più all’uomo spettasse una responsabilità di saggia e rispettosa manutenzione del Creato medesimo.
L’idea che l’uomo, e che soprattutto il moderno progresso scientifico, potesse invece costituire di per sé un elemento profondamente perturbante per l’equilibrio del pianeta – come aveva scritto esattamente un secolo prima George Perkins Marsh – non sfiorò neppure la mente dei padri conciliari.
Va aggiunto però che la Chiesa del Concilio e del dopo-Concilio era troppo sensibile a tutto ciò che travagliava l’esistenza materiale dell’umanità per rimanere totalmente impermeabile alle sollecitazioni politiche e culturali che crescevano di giorno in giorno sul fronte dell’ambiente.
Fu così che verso la fine degli anni Sessanta finirono col convergere due piccoli rivoli usciti dal Concilio e che andavano nella direzione di una in carico della questione ambientale da parte della Chiesa.
Il primo rivolo era quello del “gruppo sulla povertà”, operante all’interno del Concilio sin dalle sue primissime fasi. Questo gruppo aveva avuto un peso notevole nell’orientare i lavori conciliari riguardo alle questioni della giustizia sociale e nell’ispirazione della costituzione pastorale Gaudium et spes, l’ultimo grande documento approvato dai padri conciliari. In gran parte da questo gruppo, dai suoi membri e dalla sua ispirazione era poi sorta la pontificia commissione “Iustitia et pax”, l’organo mondiale della Chiesa chiamato da Paolo VI a occuparsi delle grandi problematiche sociali del mondo moderno. Una delle animatrici prima del “gruppo sulla povertà” e poi di “Iustitia et pax” era una famosa economista britannica, collaboratrice dei principali organismi mondiali e autrice di libri tradotti e venduti in tutto il mondo: Barbara Ward. Proprio a Barbara Ward, nel corso del 1969, il coordinatore di quella che sarebbe poi stata nel 1972 la grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma affidò l’incarico di preparare un ampio documento preparatorio che divenne anch’esso un best-seller: Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet, uscito proprio alla vigilia della conferenza Onu. A Stoccolma, Ward sarebbe poi stata una delle figure centrali nella mediazione tra le varie linee che si confrontavano, ma all’interno della Chiesa avrebbe più in generale tentato per qualche anno di fare in modo che la “Iustitia et pax” assumesse in pieno la questione ambientale tra i propri obiettivi prioritari.
Il secondo rivolo si manifestò proprio in vista della conferenza di Stoccolma, pur avendo anch’esso qualche radice più lontana nel tempo. Come il primo rivolo, esso è legato ad alcuni personaggi precisi. Due in particolare: padre Bartolomeo Sorge e il professor Giorgio Nebbia, uno dei primi ambientalisti italiani di formazione tecnico-scientifica.
Nella prima metà del 1970 padre Sorge, colto e sensibile gesuita stretto collaboratore di Paolo VI, aveva percepito l’importanza politica e sociale ma anche culturale e teologica della questione ambientale. Probabilmente su stimolo di una prima corrispondenza con Nebbia, egli aveva probabilmente suggerito al Papa di affrontare l’argomento nel corso di un suo discorso alla FAO. Visti i rapporti tra Paolo VI e Sorge non è da escludere che quel discorso, il primo in cui un pontefice parlava di ecologia, fosse stato proprio redatto, o quantomeno strutturato, dal gesuita. Qualche giorno dopo Sorge aveva pubblicato un ampio, maturo e informato commento al discorso papale che per la prima volta poneva ai lettori della “Civiltà cattolica” il problema del degrado ambientale e del ruolo dell’uomo in esso. Grazie a questi precedenti la Santa Sede gli affidò il compito di coordinare un gruppo di lavoro incaricato di redigere il contributo ufficiale della Santa Sede alla conferenza di Stoccolma. Nebbia fu il principale animatore e ispiratore della redazione del testo, che si sarebbe rivelato uno dei più circostanziati e avanzati tra quelli prodotti dalle delegazioni nazionali al consesso dell’Onu.
Negli anni immediatamente successivi, anche se in modo non del tutto evidente ed esplicito, due tendenze si scontrarono all’interno della Chiesa. La prima tendeva a legittimare e istituzionalizzare l’impegno ecclesiastico in campo ambientale; la seconda invece tendeva a mettere la sordina, nella Chiesa come nel mondo, all’attenzione verso l’ambiente. I protagonisti della prima tendenza provarono a consolidare e ad ampliare il peso dell’ambiente nell’agenda di “Iustitia et pax” e per qualche anno ottennero dei piccoli risultati, apparentemente promettenti. I protagonisti della seconda tendenza iniziarono invece, appena dopo la fine della conferenza di Stoccolma, a circondare di cautele politiche e teologiche la questione ambientale. Essa infatti oltre ad essere poco compresa e poco sentita veniva identificata con il pericolo di diffondere nell’opinione pubblica mondiale e nei governi idee favorevoli alla limitazione delle nascite, che la Chiesa considerava una pratica immorale e pericolosissima, da combattere con tutte le forze.
Questa preoccupazione e questa battaglia contribuirono a far considerare l’ecologia – che già toccava poche corde cattoliche – come una specie di cavallo di Troia dei “malthusiani”. La seconda tendenza – sostenuta dai vertici della Chiesa – finì così col prevalere, e le timide aperture ottenute dalla prima tendenza furono presto accantonate. Alla metà degli anni Settanta il discorso era sostanzialmente chiuso.
È stato questo complesso di eventi, assieme al progressivo abbandono dello spirito, delle istanze e delle priorità del Concilio Vaticano II, a relegare fino ad oggi l’ecologia lontano dalla sensibilità e dalle priorità della Chiesa e dei cattolici. E ciò nonostante qualche timida e formale affermazione di Wojtyla e di Ratzinger nel corso degli ultimi trent’anni.
Dentro la sua ripresa dei temi e dello spirito del Concilio Vaticano II Jorge Bergoglio sembra dunque voler riannodare un filo interrotto. Con quali risultati, si vedrà.
[1] La vicenda ricostruita qui solo per brevi cenni è raccontata in dettaglio e con tutte le necessarie pezze d’appoggio in un saggio dal titolo “Only One Earth: The Holy See and Ecology”, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Environmental Protection in the Global Twentieth Century: International Organizations, Networks and Diffusion of Ideas and Policies (Berlin 25-27.10.2012), a cura di Jan-Henrik Meyer e Wolfram Kaiser, per i tipi di Berghan Books, Oxford-New York.