Il Comunicato stampa di perUnaltracittà-laboratorio politico (23 novembre 2015) che denuncia il tentativo del sindaco di Firenze di nascondere l'autorevole parere dell'Unesco sul massacro in atto del centro storco della città che il pupillo di Renzi avrebbe la responsabilità di tutelare. In calce il testo originale del documento
Inqualificabile il comportamento del sindaco Nardella di fronte alla lettera dell’Unesco al Comune di Firenze che segnalava i rischi della realizzazione delle grandi opere in città.
Malgrado le ripetute richieste dei consiglieri, la lettera è stata tenuta nascosta in Palazzo Vecchio. Non solo. I contenuti della missiva sono stati artatamente mascherati. Rendendo dichiarazioni su una presunta dichiarazione Unesco sul “degrado” della città storica, determinato secondo il sindaco dalla vendita di alcolici e dai minimarket, Nardella travisava il messaggio arrivato da Parigi.
L’analisi tecnica allegata alla lettera Unesco segnala invece problematicità di ben altro calibro, legate ad interventi pesanti e invasivi, quali: il tunnel TAV; la vendita dei complessi monumentali pubblici o «semi-pubblici» – tra cui la Rotonda del Brunelleschi – a investitori privati, e il loro cambiamento di destinazione d’uso (peraltro monetizzato dall’art. 25 delle Note Tecniche del Regolamento Urbanistico); la costruzione di parcheggi interrati nel centro storico; il progetto di metró sotterraneo sotto il quadrilatero romano; la realizzazione delle linee del tram passanti nell’area protetta dall’Unesco; e infine l’eccessiva pressione turistica.
Sebbene la lettera ometta di inserire nell’elenco i sorvoli aerei sull’area Unesco che deriveranno dalla costruzione del nuovo aeroporto, essa ripete quanto stiamo dicendo da anni. Un centro storico non pianificato, troppo indulgente alle lusinghe del turismo internazionale, avviato verso la trasformazione in una luxury-city (o wedding-city) che espelle i residenti e cancella le funzioni civiche e gli spazi pubblici vitali per la convivenza civile.
L’Unesco richiede pertanto «ulteriori dettagliate informazioni sui suddetti progetti, inclusa adeguata documentazione tecnica e VIA, così come le misure di mitigazione per i progetti sotterranei, con particolare riguardo ai problemi di vibrazioni e allagamento». Su questo è chiamato a rispondere Nardella, che abbandoni il ruolo di promotore immobiliare e assuma, se ci riesce, quello che dovrebbe essere il compito di ogni sindaco, cioè di garante del buon andamento della cosa pubblica.
Se i processi di trasformazione e riuso dello spazio urbano non seguono i medesimi ritmi dell'evoluzione sociale e delle aspettative della città, qualcosa si dovrà pur fare, a titolo provvisorio, ma forse non solo. La Repubblica Milano, 19 novembre 2015, postilla (f.b.)
Sarebbe dovuto durare soltanto per i sei mesi di Expo. Poi, è arrivata una proroga che comprendesse le feste natalizie e arrivasse al 31 gennaio. Adesso, il modello del Mercato metropolitano è destinato a un terzo tempo più stabile. Perché l’obiettivo è quello: continuare a far vivere almeno sino alla fine del 2017 parte degli scali ferroviari di Porta Genova, ma anche di Porta Romana e Farini. E, in attesa dei cantieri che trasformeranno i fasci di binari dismessi o in via di abbandono in nuovi quartieri, continuare a tenerli aperti alla città con street food, attività culturali e di intrattenimento per tutti.
C’è il disegno complessivo e l’accordo di programma urbanistico siglato ieri da Comune, Regione e Ferrovie dello Stato per riqualificare sette scali e una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati. Ma adesso c’è anche un protocollo d’intesa e una cabina di regia creata da Palazzo Marino e Fs per definire i particolari “dell’operazione ponte” sui tre indirizzi più centrali e strategici, così come le iniziative che saranno organizzate e i tempi dell’utilizzo temporaneo. Si parte dalle esperienze iniziate durante Expo e giudicate positive. Perché adesso che le porte di quelle aree si sono aperte e che i milanesi — e non solo — hanno iniziato a frequentare quei pezzi di città prima inaccessibili, è stato deciso di non tornare indietro. Un’opportunità e un presidio in più.
«In questo modo le aree degli scali resteranno vive e fruibili in attesa delle destinazioni definitive — dicono l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci e quello al Commercio Franco D’Alfonso — Si tratta di importanti porzioni di città a ridosso del centro storico che non torneranno a essere intercluse e insicure, ma continueranno a offrire nuove opportunità per il tempo libero e la cultura». Nel caso di Porta Genova, poi, dove la linea sarà dismessa dal 2019, Ferrovie si occuperà anche di migliorare l’accessibilità e il collegamento con via Tortona.
Porta Genova, Porta Romana e soprattutto Farini — da solo con oltre 500mila metri quadrati vale quasi la metà di tutti e sette gli scali — sono anche i gioielli più preziosi del patrimonio di Fs che cambierà volto. Dopo la firma a tre dell’accordo, il documento sbarcherà entro 30 giorni in Consiglio comunale per la ratifica finale. Poi, dopo i tempi e le procedure di legge, all’inizio del 2016 l’operazione urbanistica potrà davvero partire. «Ora ci aspetta la fase di ricerca di operatori che potranno tradurre le pianificazioni previste in progetti, opere e servizi a livello di città top in Europa come Milano è considerata», spiega l’ad di Fs Sistemi urbani, Carlo De Vito. La società, infatti, potrà fare bandi per vendere direttamente le aree o, come nel caso di Farini, si potrà pensare a strumenti più complessi come un fondo. In altri casi si tratterà di perfezionare un accordo con Cassa depositi e prestiti per le zone di housing sociale.
postilla
A costo di attirarsi qualche piccolo sarcasmo da parte di chi considera queste azioni (e i relativi commenti) del tutto marginali rispetto alle decisioni «vere» sulle destinazioni finali delle superfici dismesse, forse è il caso di soffermarsi un istante su quella che appare molto più di una moda o ideologia, ovvero quello del «pop-up-shop». Vuoi con le dimensioni contenute della vera e propria bottega, magari al pianterreno di un edificio ad altra destinazione, in un quartiere residenziale, vuoi con quelle dilatate di aree o contenitori industriali dismessi, l'uso commerciale provvisorio e le relative politiche urbane collaterali si stanno diffondendo in tutto il mondo, e accumulano un vero e proprio know-how operativo e finanche strategico. Che forse potrebbe addirittura finire, in tanti casi, per influenzare quelle scelte finali senza ritorno, escludendo dall'equazione il tradizionale fattore di urgenza, o di sicurezza, o di allargamento del degrado e crollo di valori immobiliari, che di solito fa accogliere qualsivoglia proposta di riuso per pura disperazione. Anche se certo una spianata di bancarelle o di giostre per la festa patronale non è il massimo a cui possa aspirare una città: forse, nel merito e nel metodo, si può pensare di meglio (f.b.)
Non crediamo che in altri stati europei si rifinanzi un programma senza una preliminare analisi dei risultati ottenuti. Certo che si tratterebbe di una fatica inutile se, come ritiene giustamente l'autore, l'obiettivo è solo propagandistico. Comunque, occhi aperti. La rivista Il Mulino, 10 novembre 2015
Nella riunione dello scorso 1º ottobre della Conferenza unificata, lo Stato, le regioni e gli enti locali hanno dato il via libera al bando per la realizzazione di un “Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate”. Il piano è previsto dalla legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) con l’assegnazione di una dote finanziaria di 194 milioni di euro, 44 per il 2015 e 75 per ognuno dei due anni successivi. Con queste risorse, relativamente esigue per gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, saranno cofinanziati i progetti promossi dai comuni sui cui territori vi sono aree urbane degradate. Per concorrere ai finanziamenti le amministrazioni comunali devono presentare progetti per la riduzione del degrado sociale, il miglioramento della qualità urbana, la riqualificazione ambientale, la realizzazione di servizi e interventi di riqualificazione cittadina, il miglioramento della qualità del decoro civico e del tessuto sociale e ambientale.
Lo scopo è meritevole. Per perseguirlo non è però necessario un nuovo bando, con nuove cabine di regia, altre graduatorie e anni di attesa prima che si possa vedere un qualche risultato (ammesso che se ne veda qualcuno di rilevante). Sarebbe sufficiente utilizzare i nuovi stanziamenti per rimpolpare la dote finanziaria di analoghe politiche già attive.
Tre anni fa, con il decreto legge 83/2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), fu promosso un “Piano nazionale per le città, per la riqualificazione di aree urbane con particolare riferimento a quelle degradate” avente le stesse finalità di questo nuovo piano per la riqualificazione. Per concorrere ai finanziamenti di quel piano, i comuni elaborarono progetti finalizzati “alla riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale, al miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento dei sistemi del trasporto urbano e al miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e ambientale”. Come si vede la sostanza dei progetti è la stessa nei due piani.
I comuni presentarono ben 457 proposte. Ne furono finanziate solo 28, per carenza di fondi. I restanti progetti sono ancora in attesa di essere finanziati, ed è molto probabile che per molti di essi i comuni tenteranno di ottenere i fondi del piano per le riqualificazioni. Furono scelti i progetti velocemente cantierabili, capaci di generare il maggior volume di investimenti. Alla fine di gennaio del 2015 (ultima data di disponibilità dei dati), cioè due anni dopo l’ammissione al finanziamento degli interventi, i contributi statali erogati ammontavano a 7,5 milioni di euro, cioè a meno del 2,5% dei 320 circa disponibili. Non si può dire che la realizzazione dei progetti proceda alacremente.
D’altra parte, ci si stupirebbe, probabilmente, del contrario. Per 8 progetti il contributo statale copre meno del 5% dei 3 miliardi di euro del loro investimento complessivo: se i comuni fossero stati in grado di coprire, con fondi propri o di altri, il restante 95% non avrebbe certo atteso il piano per le città per realizzarli. Per l’insieme dei 28 progetti finanziati il contributo statale copre circa il 7% dell’investimento complessivo previsto in ben 4,4 miliardi di euro: una sproporzione che non predispone certo all’ottimismo sui tempi di completamento degli interventi.
Considerato la lunga lista di progetti in attesa di finanziamento e lo stato di attuazione non certo avanzato di quelli finanziati con il piano per le città, un suo piano fotocopia è quantomeno ridondante. Ma questa duplicazione è figlia di una prassi di governo sempre più pervasiva in cui l'efficacia e la produttività della spesa pubblica diventano un'appendice della ricerca del consenso di opinione ed elettorale che si spera di raccogliere.
Nel caso in questione, non c’è possibilità di raffronto tra lo scarso ritorno politico che si otterrebbe rifinanziando, con qualche decina di milioni di euro per tre anni, una politica già attiva e quello molto più d’effetto assicurato dall’annuncio di un nuovo piano di investimenti, soprattutto se i progetti saranno selezionati con l’intenzione di far lievitare il modesto finanziamento statale di qualche miliardo di euro di investimenti (che dovranno essere finanziati da altri enti pubblici o da privati). Più è grande il volume complessivo degli investimenti annunciati, maggiore sarà il successo immediato del piano.
Poco importa se poi, anche in questo caso, i progetti potrebbero restare in gran parte sulla carta. Prima però che qualcuno se ne accorga passerà del tempo (ammesso che qualcuno abbia voglia di controllare lo stato di attuazione del piano). Nel frattempo, potrebbe anche cambiare il governo.
Mibact, una riforma chiamata caos
Renzi detesta e insolentisce pubblicamente i Soprintendenti fin da quando era sindaco di Firenze giudicandoli una burocrazia tanto potente quanto inutile. Difatti col decreto Sblocca Italia ha cominciato a togliere loro competenze sui grandi lavori. Con disegno di legge Madia è andato ancor più avanti imponendo una sorta di silenzio/assenso generalizzato col chiedere agli sparuti drappelli di architetti delle Soprintendenze oberati di lavoro (4-5 pratiche al giorno a testa, se va bene) risposte in pochi giorni. Altrimenti si va avanti, si approva o addirittura si sana anche l’insanabile. Cosa sono queste lungaggini perditempo in un Paese dove il consumo di suolo è pari soltanto a 8 mq al secondo e risulta triplo rispetto alle medie europee, 6,8 % l’anno contro 2,4 ? Dove tutto è integro, ben tenuto, verdeggiante, senza abusi né illegalità?
Per questo possono pensarci i Prefetti ai quali la stessa illuminata “riforma” Madia sottomette le Soprintendenze come altre strutture dello Stato erogatrici di servizi (così anche per gli scioperi ci tanno tutti più attenti). Anzi, a riforma approvata, le chiameranno Sottoprefetture alla maniera sabauda compiendo un salto politico-culturale all’indietro di un secolo e mezzo. Tutte cose che sembrano paradossali, surreali, lunari e che invece si stanno realizzando, in pieno caos.
«Movimenti. Verso la manifestazione nazionale del 29, la coalizione delle associazioni ambientaliste discute a Roma proposte e iniziative economiche e sociali». Il manifesto, 14 novembre 2015
Come è noto, all’inizio di dicembre si svolgerà a Parigi il COP 21, il convegno mondiale sullo stato e sulle dinamiche del cambiamento climatico del pianeta Terra a cui aderiscono tutti i paesi del mondo. Anche l’Italia parteciperà, ed ha riunito a Roma il 6 Novembre la coalizione nazionale delle associazioni ambientaliste, in vista della manifestazione romana del 29 Novembre e discutere la linea da seguire in Italia e a Parigi. Chi scrive fa parte di questa coalizione in quanto presidente dell’Associazione Nazionale “Ambiente e Lavoro”, nata con il disastro di Seveso con l’obiettivo di combattere i pericoli della produzione all’interno del luogo di lavoro e nell’ambiente tutto, collegando ambientalisti e lavoratori.
Per molto tempo è stato difficile unire ambiente e lavoro avendo come obiettivo l’eliminazione dei possibili effetti negativi per l’ ambiente e la salute fuori e dentro l’azienda senza dover ridurre l’occupazione. Nell’incontro del 6 Novembre si sono espresse voci di ambientalisti, ma anche di rappresentanti della Cgil, e delle organizzazioni dei lavoratori in genere, rappresentanti degli studenti, una organizzazione trasversale come Avaaz, operatori che lavorano nelle regioni e nei comuni. Per la prima volta, per quanto ricordi, ha preso corpo una discussione di “ambientalismo sociale ed economico” che, invece di affrontare solo genericamente i concetti di base del cambiamento climatico, i suoi effetti e lo stato generale dell’ambiente, si è concentrata sul nostro Paese affrontando insieme i problemi economici, sociali e politici italiani su cui intervenire in previsione della accelerazione del processo climatico.
Sul piano economico si è richiesto di evitare le spese che poco hanno a che fare con l’ambiente e le vite umane, quelle che servono essenzialmente ad aumentare la parte finanziaria della nostra economia. Come è successo con Expo, con il piano del modello di sviluppo di Eni, con la costruzione di Enel gas a Manfredonia, e in genere con costruzioni che fanno guadagnare i costruttori, senza tenere conto degli effetti negativi della cementificazione. O con gli interventi inclusi nel cosiddetto “sblocca Italia”, le pericolose trivellazioni, così vicine al cosiddetto fracking praticato egli Stati uniti ed criticato da moltissime associazioni nel mondo. A tutto questo si aggiungono i mancati finanziamenti per nuovi piani per l’agricoltura, il disastro che si determinerebbe con la eliminazione dei forestali, unica organizzazione di controllo delle foreste, elemento fondamentale per l’uso e il blocco di CO2 .
Tutto avviene in un Paese sempre meno democratico in cui si discute molto raramente con le persone e le associazioni che, in Italia, chiedono di essere considerate portatrici delle idee degli associati e delle comunità locali. Molto rilevanti per la democrazia e per la richiesta di attivare lo scarso dibattito sull’ambiente in genere, e in particolare sull’ambientalismo sociale ed economico, sono stati gli interventi vivaci e competenti degli studenti per l’ambiente, con l’annuncio di una manifestazione nazionale a Roma il 17 Novembre, e degli insegnanti presenti, critici della “buona scuola”, dove si parla sempre meno del cambiamento climatico, nonostante l’interesse e le richieste dei ragazzi che, come negli interventi hanno ampiamente dimostrato, sono ormai sempre più coscienti e preoccupati della accelerazione prevista e continua del cambiamento climatico. Ben poco se ne parla sia nei diversi gradi della scuola che nei giornali e in televisione. Così ben pochi sono informati dei due strumenti generali su cui si può puntare per la sopravvivenza del pianeta: la mitigazione, cioè la riduzione dell’aumento dei gas serra, e l’adattamento, che significa la salvaguardia degli ambienti naturali e degli elementi fondamentali per la vita: la terra, le agricolture, l’aria pulita, le energie rinnovabili, l’acqua potabile.
A questi elementi si aggiunge anche la biodiversità, unico strumento che permetterebbe di adattarci in molti e, appunto, diversi ambienti nel tempo e nello spazio. Tutti questi strumenti necessari per la sopravvivenza della nostra specie vanno conservati, usati, e resi utilizzabili da tutti. Ne va perciò combattuta con assoluta fermezza la brevettazione, soprattutto da parte delle multinazionali delle piante e degli animali, come Monsanto & Co. che hanno purtroppo già brevettato l’acqua del Kasakhstan .
L’ambientalismo non può più limitarsi alla salvaguardia, pure fondamentale, delle specie in vie di estinzione e in genere della biodiversità. Non può non affrontare e modificare con tutti gli strumenti possibili l’economia reale combattendo quella finanziaria, promuovendone il ritorno al significato iniziale, allo scopo di mantenere leggi necessarie per le vite non solo umane ma della Biosfera. Di questo, molti parlano e molto spesso, ma raramente, come si è verificato nell’incontro di Roma, persone di tutte le categorie, interessate alla tematica ambientalista, hanno chiesto con forza e chiederanno alla manifestazione nazionale che economia e politica siano consapevoli della unicità del nostro pianeta e della necessità di permettere al mondo vivente di sopravvivere insieme alle infinite diversità presenti sulla terra, tutte non solo sufficienti ma a tutte necessarie.
Il Fatto Quotidiano", 14 novembre 2015
Chiama e rispondi. Matteo Renzi rilancia l’idea del ponte sullo Stretto. Poche ore dopo visita a Riyad, un cantiere di Salini-Impregilo, azienda in causa con lo Stato per il ponte. Infine Pietro Salini (nella foto), rincuorato dai colloqui arabici con il premier, dice al Corriere della Sera che muore dalla voglia di fare il ponte.
Niente paura. Il grande sperpero di denaro pubblico non ci sarà. Ci sarà quello piccolo (si fa per dire). La grancassa della propaganda suona per quel miliardo di penali che da dieci anni è l’unico vero obiettivo del maggior gruppo italiano delle costruzioni. Salini, che ha scalato l’Impregilo tre anni fa, si è appropriato di un armamentario propagandistico vecchio di trent’anni. Ha detto per esempio che stanno aumentando i traffici marittimi davanti alla Sicilia, “ma le merci via mare devono arrivare fino a Rotterdam per tornare poi magari in Sicilia, mentre potremmo farle partire da Palermo e distribuirle da lì in Europa”.
Il curriculum di Salini dimostra che stupido non è, quindi ci fa. Dovremmo spendere una decina di miliardi per collegare con l’Europa un futuribile porto di Palermo. E come mai allora le navi oggi vanno a Rotterdam anziché scaricare a Gioia Tauro? Gli fa schifo la Calabria?
Non è possibile che Salini creda a ciò che dice: «Il Ponte si può fare tutto finanziato dai privati», come se non sapesse che Impregilo nel 2005 ha vinto una banale gara per un appalto pagato dallo Stato fino all’ultimo euro. Dice di disporre di una “stima interna” (?) secondo cui lo Stato, costruendo il Ponte, non solo non spenderà nulla ma incasserà 10 miliardi tra “maggiori tasse, imposte dirette, mancati contributi alla disoccupazione”.
Lasciamo perdere le amenità e veniamo alla sostanza. Da quando il consorzio Eurolink (di cui Salini-Impregilo ha il 45 per cento) ha vinto nel 2005 la gara per il Ponte con un ribasso stratosferico, un’opaca successione di contratti scritti e riscritti ha creato le condizioni perché Eurolink potesse pretendere le penali per la mancata costruzione, anche in mancanza di un progetto definitivo approvato. Per ragioni oscure tutti i governi succedutisi da allora, nessuno escluso, hanno fatto il gioco di Impregilo. Così è nata la causa civile che oggi consente a Salini di prevedere la vincita di 1 miliardo secco senza muovere un mattone e senza che il progetto abbia superato la Valutazione di impatto ambientale Via e sia stato approvato dal Cipe.
Gli avvocati di Eurolink hanno bisogno che Salini ripeta ossessivamente di essere non solo pronto, ma desideroso di costruire il Ponte. E Renzi, dicendo che il Ponte farebbe il bene del Paese, fa - di sicuro inconsapevolmente - un regalo prezioso agli avvocati dell’amico Salini. Tutto il resto, come dire che le ragioni di chi è contro il Ponte sarebbero del tipo che “la sua ombra farebbe venire il mal di testa ai pesci pelagici”, sono chiacchiere. Triviali e interessate. Ma chiacchiere.
«Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese». Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015 (m.p.r.)
Bene che vada, ci sarà il condono bis, a prezzi di saldo. Male che vada, le spiagge - o meglio gli spazi di “pertinenza economica” degli stabilimenti balneari (bar, ristoranti, palestre, piscine ecc. La vera polpa delle concessioni) - verranno vendute, o meglio, “sdemanializzate”, per usare il linguaggio tecnico dei proponenti. In pratica, peggio di quello che provò a fare il governo Berlusconi nel 2006 - il prolungamento di 50 anni delle concessioni - senza però riuscirci anche per l’opposizione del centrosinistra.
«Abbiamo appreso con soddisfazione che il porto di Venezia è il porto più verde del mondo». I danni alla laguna, la monocultura turistica che uccide la città, i mestieri che scompaiono a causa di questo fanno parte di una narrazione che non interessa il partito unico delle grandi opere/grandi affari. La Nuova Venezia, 13 novembre 2015 (m.p.r.)
Il Pd regionale con il capogruppo Alessandra Moretti a fianco del Porto e degli interessi di chi lavora nel settore della crocieristica e teme di perdere il posto di lavoro. Lo conferma la presa di posizione di ieri della Moretti e dei consiglieri regionali Francesca Zottis, Bruno Pigozzo (Pd) e Franco Ferrari (Gruppo Moretti Presidente), che hanno tenuto un incontro con il presidente dell’ Autorità Portuale di Venezia Paolo Costa e di quello della Vtp (Venice Terminal Passeggeri) Sandro Trevisanato.
«Expo Spa ha uno sbilancio di gestione da oltre 400 milioni, Arexpo terreni che non è riuscita a vendere: Renzi vuole metterle insieme e coprire tutto coi soldi di Cdp». Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015 (m.p.r.)
Il piano per il dopo-Expo col genoma, i Big Data, i ricercatori? Al momento, sembra più che altro il piano per occultare i buchi di bilancio dell’evento: i conti, per ora, sono ancora segreti, ma secondo fonti contattate dal Fatto Quotidiano, si parla di uno sbilancio di gestione che oscilla tra i 400 e i 500 milioni di euro, al netto del costo dei terreni e di ulteriori extracosti. Su questo, però, non è possibile avere un confronto pubblico: l’Esposizione milanese deve essere un successo, Giuseppe Sala - o, come dicevan tutti, “Beppe”- il salvatore della patria, Matteo Renzi il conquistatore di Milano.
«Ricerca&sviluppo. Dietro il plauso alla “boutade” di Renzi sul futuro dell’area, l’eterno gioco della speculazione fondiaria». Il manifesto, 12 novembre 2015
A parte gli estensori del discorso di Matteo Renzi, tutti sanno che il nome Silicon Valley arrivò dopo decenni dall’inizio di produzioni industriali innovative che hanno segnato la storia tecnologica mondiale. Hewlett & Packard, ad esempio, inaugurò in quell’area il primo stabilimento nella metà degli anni Trenta del secolo scorso.
Milano, una città importante nella storia produttiva italiana ha dismesso negli ultimi trenta anni tutti gli stabilimenti industriali più importanti: la follia dell’urbanistica contrattata milanese ha permesso di realizzare anonimi quartieri al posto delle produzioni. La rendita fondiaria ha guadagnato somme imponenti rinunciando al difficile percorso dell’innovazione produttiva e della creazione di tecnologie avanzate.
La Silicon valley alla milanese non potrà nascere soltanto creando nuove strutture di ricerca ma solo se ci sarà un progetto industriale per l’intero paese in grado di orientare, incentivare, di favorire le sperimentazioni specialmente delle imprese innovative e soltanto se ci saranno investimenti adeguati per l’istruzione universitaria.
Del resto, è noto che la ricerca nelle nostre università è stata pressochè azzerata dai tagli di bilancio e le università languono. La somma di 150 milioni all’anno per l’ipotetico polo milanese è una piccola goccia per il paese che finanzia l’istruzione superiore e la ricerca con le risorse più modeste d’Europa.
Ciononostante, a parte qualche marginale critica, la boutade di Renzi è stata accolta con molto favore dal grande circo mediatico. Sono tre i motivi profondi di questo consenso.
Il primo è l’eterno gioco della speculazione fondiaria.
Sulle aree Expo arriverà un fiume di cemento: con l’urbanistica a la carte in voga a Milano, infatti, si è consolidata la prassi di attribuire ad ogni metro quadrato di proprietà fondiaria una edificazione di 0,2 metri quadrati. L’area Expo misura 105 ettari e si potranno realizzare almeno 210 mila metri quadrati di edifici. Il progetto renziano riguarda 70 mila metri quadrati. Restano dunque 140 mila metri cubi su cui costruire abitazioni o ipermercati, l’unica attività in cui eccelle la struttura d’impresa milanese.
Il Corriere della Sera ha proposto la realizzazione di case dello studente. La recente esperienza di Tor Vergata a Roma non fa dormire sonni tranquilli: nel grande campus universitario sono stati di recente inaugurati alloggi per studenti ma non con i soldi pubblici, bensì finanziati attraverso un apposito fondo immobiliare. Quegli alloggi ospitano chiunque, non solo studenti. E’ questo il modello anche per Milano: altre case in una città soffocata?
Il secondo motivo è l’ulteriore colpo alle autonomie comunali.
E’ stato il primo ministro ad annunciare in conferenza stampa un progetto non discusso con i sindaci di Milano e dei comuni limitrofi: Giuliano Pisapia ascoltava come tutti gli altri le esternazioni del presidente del consiglio, Questa prassi comincia a preoccupare perché fa il paio con lo scioglimento coatto di Roma.
Le due più grandi città d’Italia, insomma, non possono godere del normale corso amministrativo: grandi progetti come il futuro delle aree expo o grandi eventi come il Giubileo sono terreno esclusivo di caccia del primo ministro o di un prefetto. I comuni italiani sono stati portati sull’orlo della bancarotta per i tagli di bilancio e il governo dimostra che non ha alcun interesse a risolvere il problema. Anzi, rincara la dose comprimendo la democrazia.
Il terzo motivo riguarda l’affidamento del futuro delle città a manager spesso inesistenti.
L’esperienza Expo depurata dalla retorica imperante è stata infatti un disastro senza precedenti. Dal 2007 all’aprile 2015 non si è stati in grado di realizzare nella sua interezza il progetto, eppure sono stati spesi 14 miliardi di euro. Gli scandali e le malversazioni hanno riempito le cronache giudiziarie e le galere.
Eppure il commissario Sala viene dipinto come l’unico in grado di guidare Milano. E qui il risvolto più amaro riguarda l’inerzia dimostrata dal comune di Milano nel progettare il futuro: è in questo vuoto di prospettiva che hanno avuto buon gioco le improvvisazioni di Renzi e l’eterna tentazione della ricerca del manager demiurgo.
Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha affermato che l’area di Expo «ha caratteristiche uniche sia dal punto di vista logistico che tecnologico» e che quel «milione di metri quadrati … sono raggiungibili facilmente con ogni mezzo… e dotati di infrastrutture tecnologiche». Se fosse vero, per quale motivo ci sarebbe la necessità di fare intervenire il governo nel suo recupero dopo la manifestazione? E come mai per eseguire una normale, per quanto importante, operazione di natura urbanistica da coordinare tra i comuni di Milano e Rho servirebbe, anche a detta del ministro Maurizio Martina, «un interlocutore forte» un «dominus», come lo definisce Pisapia, «che unisca alcuni poteri speciali a un ruolo diretto e strategico all’interno di Arexpo» ossia nella società che possiede le aree?
«L’associazione “Poveglia per Tutti” presenterà ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
L’associazione “Poveglia per Tutti” non ha più tempo da perdere e ora vuole vederci chiaro sul futuro dell’isola. Tra pochi giorni verrà ufficialmente depositato il ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento, chiesto ormai da tempo. Fino ad adesso l’associazione ha seguito tutti i passaggi istituzionali al fine di ottenere la concessione dell’isola, ma la strada non è in discesa.
La prima difficoltà è proprio il Demanio che, dopo aver visionato il progetto dell’associazione che in 100 pagine ha spiegato quali interventi si volessero fare nell’isola entrando anche nel dettaglio economico, ha risposto picche, spiegando che «occorre valutare, di concerto con l’amministrazione comunale recentemente insediatasi, il più proficuo percorso da avviare nell’interesse del territorio e del bene stesso».
La seconda difficoltà, con radici che risalgono ancora a quando l’attuale sindaco Luigi Brugnaro aveva partecipato all’asta come Umana, è con l’attuale amministrazione comunale che, nei panni della vice sindaco Luciana Colle - attuale assessore al federalismo demaniale ed ex dirigente del Demanio - ha detto che la proposta di Poveglia verrà valutata al pari delle altre proposte di privati.
L’associazione non si è lasciata intimidire. Ieri mattina gli avvocati Raffaele Volante e Francesco Mason hanno spiegato il motivo del ricorso e dimostrato, facendo richiesta agli atti, che le proposte di altri privati sono inconsistenti. Il ricorso si basa sul fatto che la risposta del Demanio è altamente insufficiente in quanto non solo non spiega il diniego, ma dà peso al parare del Comune che non ha voce in capitolo in quanto il bene è dello Stato.
Per quanto riguarda le sette proposte il cui nome si saprà una volta che il ricorso verrà depositato: si tratta di sette manifestazioni di interesse, spesso scritte da un mediatore, senza nessuna esplicitazione di progetti, né riferimenti economici, ma solo richieste di informazioni.
«Sembra che lo Stato», ha detto Giancarlo Ghigi, «non accetti l’idea che la comunità abbia fatto meglio di lui in 47 anni di abbandono. Dopo aver rifiutato tramite il federalismo demaniale la possibilità di avere Poveglia, ora scopriamo che il Comune ha un progetto. Vorremmo sapere dal Demanio perché il nostro non funziona e parlare con l’Amministrazione».
appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”». Il manifesto, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
Brindisi. Non ci stanno cittadini e agricoltori del brindisino a vedersi privare in un sol colpo dell’identità, dell’unica fonte di guadagno familiare, l’unico polmone d’ossigeno e l’intero paesaggio che si scorga a perdita d’occhio da tutte le finestre di ogni paese.
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Così in un solo giorno, hanno occupato i binari della stazione di San Pietro Vernotico; bloccato le strade di Torchiarolo con trattori, famiglie, mamme, papà, bambine e bambini delle elementari; impedito alle guardie della Forestale di fare i campionamenti sugli ulivi, perché le guardie erano sprovviste del necessario documento di accompagnamento autorizzativo dei prelievi.
Sale la tensione nella provincia di Brindisi e aumenta anche l’organizzazione dei cittadini nelle azioni di sabotaggio del piano del commissario straordinario per l’emergenza xylella. Il piano, denominato “Silletti bis”, dal nome del commissario Giuseppe Silletti, prevede che nella provincia di Brindisi si sradichino e si distruggano gli ulivi, anche plurisecolari, risultati positivi alla presenza del batterio xylella fastidiosa, un batterio incluso dalla Ue nella lista “Eppo”, cioè la lista degli organismi da quarantena, la cui sola presenza sul territorio nazionale fa scattare le misure di contrasto previste dalla direttiva europea 29 del 2000, che non prevede né impone lo sradicamento di alberi, tantomeno se secolari, in campo aperto.
Come si sia potuti arrivare a tale livello di tensione sociale e di furia distruttrice è una storia lunga, raccontata nel libro-inchiesta “Xylella report” e risponde ad una precisa scelta politica compiuta all’epoca della giunta di Nichi Vendola, nell’ottobre 2013, quando si decise, a priori e senza alcuna evidenza scientifica che ancora oggi manca (all’epoca il batterio non era stato neanche isolato in laboratorio), di sradicare l’intera foresta di ulivi della provincia di Lecce, cioè 11 milioni di ulivi, per la maggior parte secolari.
La xylella era stata trovata su alcuni alberi vicino Gallipoli, zona di forte richiamo turistico e di grande appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”, facendo subito domanda per ottenere i finanziamenti (rimborsi a consuntivo) per le operazioni di sradicamento.
Ora l’Unione europea, rispondendo alle indicazioni della regione Puglia, ha imposto di sradicare e distruggere gli ulivi positivi a xylella e tutti gli alberi e le piante anche sane nel raggio di 100 metri attorno all’albero risultato positivo. S’impone cioè di desertificare a macchia di leopardo potenzialmente tutta la Puglia: attorno ad ogni albero positivo a xylella si desertifica un territorio vasto tre ettari e mezzo.
Un esempio: nel brindisino sono stati trovati solo 8 alberi positivi a xylella e per quegli otto alberi se ne sono già sradicati oltre 1000.
Intanto, mentre Michele Emiliano, presidente della Regione, convoca per il 16 novembre prossimo una quarantina di esperti riuniti in una “task force” con l’obiettivo di dimostrare che sradicare non serva, un gruppo di ricercatori e giuristi dell’Università del Salento presenteranno giovedì prossimo a Torchiarolo un documento dal titolo ““Emergenza Xilella Fastidiosa: perché l’obbligo di estirpazione di tutti gli ulivi non infetti (privi di sintomi indicativi di possibile infezione e non sospetti di essere infetti) nel raggio di 100 metri da quelli infetti è una misura contestabile sul piano giuridico e scientifico” che sintetizza, in versione semplificata per la diffusione al pubblico, i risultati di uno studio interdisciplinare coordinato dai professori Massimo Monteduro (associato di Diritto Amministrativo) e Luigi De Bellis (ordinario di Fisiologia Vegetale) e curato da un gruppo di professori, ricercatori e giovani studiosi dell’Università del Salento denominato L.A.I.R. (“Law and Agroecology Ius et Rus”), che si occupa dei rapporti tra diritto e agro/ecologia.
L’obiettivo è fornire ai Comuni e a tutti i cittadini basi scientifiche solide su cui appoggiare i ricorsi al Tar, non appena ricevute le ordinanze di abbattimento degli alberi.
Una ricerca “open source”, gratuita e subito a disposizione di tutti, nata dall’idea di un artista, musicoterapeuta, musicista degli Officina Zoè, con una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche nel cassetto: Giorgio Doveri, che ha proposto ai ricercatori di mettersi insieme, parlarsi, collaborare per il bene comune.
Serviva l’arte per far vedere la realtà con occhi puliti.
«“Faremo gli studi, ma la città ha deciso”. E attacca la Municipalità: “Arroganti”. In pista anche le ipotesi Marghera e Lido». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
«Zanda non vuole i nuovi canali? Ha fatto un buon discorso ma devono capire che la decisione è presa. La gente ha votato. Faremo gli studi necessari ma andiamo avanti. Abbiamo 5 mila posti di lavoro da difendere». Il sindaco Brugnaro archivia in tempo reale la presa di posizione del presidente dei senatori Pd, molto vicino a Matteo Renzi. In una sala San Leonardo strapiena, Zanda ha ribadito il principio di precauzione. «Dobbiamo fare attenzione a quello che facciamo, valutare bene le conseguenze a lungo termine. Lo scavo di un canale è dannoso per la laguna e per la conservazione di Venezia». Un «no» all’ipotesi Tresse sostenuta invece da Brugnaro e dal presidente del Porto Paolo Costa.
L'affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive».
L’interessante libro curato da Anna Donati e Francesco Petracchini Muoversi in città- Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Edizioni Ambiente 2015 - Collana Kyoto Club fa il punto sulle molte eterogenee innovazioni che interessano la mobilità urbana e formano, nell’insieme, un quadro di rapido e profondo cambiamento sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Proprio il fatto di affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo non solo uno strumento di conoscenza, ma uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive. Se ne sentiva francamente la necessità.
“Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia” recita il sottotitolo al volume. Dove il temine “mobilità nuova” fa riferimento a quegli Stati generali della Mobilità Nuova, giunti alle seconda edizione nel 2015, nei quali il confronto tra molti e differenti punti di vista ha portato ad elaborare una serie di principi e di concrete proposte di radicale innovazione. Secondo il Manifesto messo a punto in quella occasione «La Mobilità Nuova è un paradigma di organizzazione e gestione dei flussi di persone che impone il passaggio da un’ottica autocentrica a una umanocentrica». Con una attenzione senza precedenti ai movimenti a piedi, in bicicletta e alle diverse possibilità di trasporto pubblico e con un vero e proprio rovesciamento dei criteri di efficienza. Nella mobilità nuova assumono un peso prioritario obiettivi come la sicurezza, la salute delle persone, la vivibilità delle strade, l’equità sociale e la salvaguardia del territorio.
Questa “atmosfera” di fondo costituisce la chiave interpretativa delle innovazioni e dei casi di buone pratiche di cui il testo è ricco. Una interpretazione che permea in diversa misura tutti gli interventi dove si alternano ragionamenti di fondo sugli andamenti passati, sulle politiche e sulle prospettive dei prossimi decenni con approfondimenti su aspetti specifici, ciascuno affidato ad uno specialista del tema trattato. Gli approfondimenti spaziano sui molti aspetti rilevanti del problema. In primo luogo i temi classici dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2.
La questione della qualità dell’aria, affrontata da un gruppo di ricercatori del CNR, dà conto dei vantaggi davvero rilevantissimi in termini di allungamento delle aspettative di vita e anche in termini monetari che si potrebbero ottenere riducendo il numero di sforamenti del valore limite per il PM10 (medie giornaliere e numero di giorni), che caratterizzano drammaticamente molte città italiane oppure, ancor più efficacemente, riducendo le medie annuali di concentrazione del PM2,5.
Il contributo dei trasporti alle emissioni di CO2, puntualmente documentato da Mario Zambrini, è centralissimo al fine della possibilità stessa di conseguire gli obiettivi comunitari di riduzione al 2020 e poi quelli ancora più ambiziosi al 2030 o al 2050. Nel primo ciclo di riduzione delle emissioni il nostro paese è riuscito per il rotto della cuffia ad aumentare solo del 2% le emissioni del settore rispetto al 1990. Saggiamente l’autore argomenta che il ruolo della crisi economica nel ridurre le attività di trasporto, e dunque le emissioni, è probabilmente stato determinante. Per il futuro si pone dunque la necessità di ben più strutturali trasformazioni in vista della fine della crisi e della necessità di non ri-produrre le insostenibili tendenze del passato.
Tali trasformazioni richiedono strumenti di pianificazione più adatti ai tempi rispetto a quelli oggi in uso. La tradizionale ripartizione in strumenti di breve periodo (PUT-Piano Urbano del Traffico) e strumenti strategici di medio-lungo periodo (PUM-Piano Urbano della Mobilità) tende a perdere rilevanza nel contesto di forte rallentamento della espansione urbana, di drastica riduzione delle risorse disponibili per investimenti infrastrutturali e, al tempo stesso, per la applicazione diffusa di strumenti di governo della domanda come le politiche di pricing, di telecontrollo, di moderazione del traffico.
Tutte politiche che assumono senso solo se inserite in una pianificazione strategica orientata verso la sostenibilità accompagnata da regolari processi di Valutazione degli aspetti ambientali (VAS). Le argomentazioni in proposito avanzate da Alfredo Drufuca appaiono particolarmente interessanti, così come le aperture verso una nuova generazione di Piani dei trasporti: i PUMS (piani Urbani per la Mobilità Sostenibile). Questa nuova generazione di piani, ad oggi proposti a livello comunitario, costituiscono un reale cambiamento di paradigma, che pone al centro delle politiche per la mobilità non il traffico, ma la qualità della vita dei cittadini.
Le altre sezioni del libro trattano con ampiezza temi specificamente modali: la mobilità collettiva, le forme di mobilità condivisa come il car sharing o il car pooling (ma anche il controverso Uber), l’ampia gamma di esperienze e di soluzioni per il muoversi in bicicletta o ancora la distribuzione urbana delle merci. L’automobile è presente nella sua transizione verso tecnologie che rendano il veicolo sostenibile (motorizzazioni e carburanti), ma anche le innovazione normative, finanziarie e organizzative atte a trasformarla da bene individuale a servizio da usare solo dove e quando serve. Il tema dei “trasporti intelligenti” tratta delle applicazioni della telematica alle diverse modalità di trasporto, e offre un interessante spaccato di tecniche, di applicazioni non convenzionali, di modi nuovi di tariffazione e di informazione tra produttori e utenti dei servizi di trasporto
Ciascuno di questi temi è articolato in una “narrazione” particolarmente efficace. Dopo aver messo a fuoco il quadro dei problemi e delle innovazioni per ciascun tema sono esaminate le esperienze effettivamente realizzate da Amministrazioni locali italiane e di altri paesi, le nuove economie e gli interessi imprenditoriali attivati dalle nuove condizioni della mobilità, le associazioni che se ne occupano e il loro ruolo, le innovazioni ancora in fieri.
In coda mi sia concesso di citare la post-fazione da me scritta sul tema di prospettive per la mobilità urbana sostenibile che nascono da politiche “altre”. Il pezzo si intitola Non solo trasporti intendendo che una mobilità urbana sostenibile si ottiene anche cogliendo le opportunità di “risparmiare traffico” che derivano dalle politiche di rigenerazione urbana che vanno diffondendosi a livello europeo,
Sono politiche che hanno profondi effetti sui modi di muoversi ma nascono nell’ambito di strategie come le risposte al cambiamento climatico, oppure la tutela della biodiversità oppure ancora le iniziative per la coesione sociale. Ai fini della mobilità nuova una componente particolarmente interessante di tali politiche è costituita dalla green infrastructure, ovvero dalla formazione della rete continua di spazi aperti permeabili, parchi e giardini (pubblici e privati), alberate raccordati in modo da realizzare un vera e propria nuova infrastruttura urbana. Una nuova rete per regolare il microclima, assorbire CO2, rimpinguare le falde, gestire l’eccesso di acque di pioggia e anche permettere di muoversi senza mezzi motorizzati nella dimensione urbana, con capillarità, piacevolezza e sicurezza.
Il quadro delle idee, delle suggestioni, delle possibilità che derivano dall’insieme delle riflessioni presentate dal testo è sicuramente utile per gli addetti ai lavori, ma al contempo costituisce una notevolissima fonte di ispirazione per quanti tecnici delle amministrazioni locali, progettisti, associazioni, gruppi di interesse, si trovano ad aver a che fare con problemi di mobilità urbana.
Torino. «In Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione. Dall’altra parte, si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta».
Le alleghiamo queste belle righe del costituzionalista Paolo Maddalena sulla vicenda Poveglia.
«Poveglia non è proprietà dello Stato, ma, come da tempo ha affermato l’illustre amministrativista Massimo Severo Giannini, è proprietà del popolo veneziano. Si tratta di “proprietà collettiva demaniale” e il “Demanio” è solo gestore e tutore dell’integrità di questo luogo.
Poiché l’isola risulta abbandonata e priva di cure, i cittadini veneziani, veri proprietari dell’isola, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, possono svolgere attività dirette a salvare l’isola, secondo il principio di sussidiarietà.
Direi che non occorre una specifica autorizzazione, ma solo una preventiva comunicazione da parte di un gruppo di cittadini, che agiscano come “parte” dell’intera cittadinanza veneziana, nella quale si spieghi cosa si ha intenzione di fare. In caso di mancata risposta entro un congruo termine indicato nella comunicazione, si dovrà ritenere che il Demanio è d’accordo in base al principio, oramai generale per l’ordinamento giuridico italiano, del “silenzio-assenso”. In caso di risposta negativa, occorrerà impugnare il rifiuto davanti al TAR. Ma a questo punto, i funzionari del Demanio si assumerebbero una grave responsabilità per danno alla Collettività veneziana».
«Il presidente dei senatori Pd traccia la linea in una sala strapiena. “Bisogna fare presto, ma soprattutto fare bene”». La Nuova Venezia, 10 novembre 2015 con postilla (m.p.r.)
«Bisogna fare in fretta. Ma prima di tutto bisogna fare bene. Valutare le conseguenze di interventi e scavi che potrebbero compromettere in futuro l'equilibrio della laguna. Venezia è vissuta mille anni, dobbiamo fare in modo che resista almeno per altrettanti». Sala San Leonardo strapiena, ieri pomeriggio, per l'intervento del capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. Invitato dal circolo di Cannaregio del Pd veneziano e dalla sua segretaria Marina Rodinò per dire una parola chiara sulle grandi navi e le proposte alternative sul tappeto. In mattinata Zanda ha incontrato parlamentari e dirigenti del partito. Al termine dell'incontro, un comunicato rassicurante improntato all'unità.
«Il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, semmai rigorosamente bocciati. Eppure ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta“. Lettere al giornale. La Nuova Venezia, 8 novembre 2015 (m.p.r.)
Quando negli Stati Uniti vogliono vederci chiaro su qualche faccenda pubblica che non sembra affatto limpida, si dice Follow the Money, cioè segui il denaro, e sicuramente capirai. Il susseguirsi di presentazioni di progetti da parte del Non Porto di Venezia, con o senza sostegni politici locali, regionali o nazionali, ha del ridicolo. Terminali di qua e di là, canali di su e di giù. E tutto giustificato dal fatto che in fondo è la città che chiede al Porto di trovare quella particolare soluzione al problema “Grandi Navi”.
Continuo a ripetere che il problema “Grandi Navi” non è un problema ambientale o di sicurezza. Il problema è semplicemente di natura socio-economica: il turismo generato dal crocierismo sfrenato è a tutti gli effetti paragonabile al più becero turismo mordi e fuggi che tutti dicono di non volere, e, quindi, va ridimensionato e assolutamente non incentivato, tantomeno utilizzando dei soldi pubblici. E se il problema del rilancio di Venezia fosse soltanto una questione di reddito e di posti di lavoro, come sembra suggerire il sindaco di Venezia Brugnaro, basterebbe seguire il modello Amsterdam anni settanta e trasformare il centro storico nel più grande e più vecchio bordello con coffee shop e casinò annesso del mondo.
La questione Venezia è, per fortuna, molto più complessa. Partendo da questa premessa, il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, ma che tutti andrebbero semmai rigorosamente bocciati. Eppure, nella realtà, ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta. Il che mi riporta alla prima frase di questo breve intervento. Di fronte all’ultima trovata, cioè la proposta “Tresse Nuovo”, quanto “consenso” si può creare con 140 milioni di investimenti pubblici? Just follow the money!
Jan Vand Der Borg è Docente di Economia del Turismo a Ca’ Foscari, Venezia
Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015
Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.
«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).
Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.
«La capogruppo in Consiglio regionale appoggia il progetto alternativo delle Tresse di Brugnaro e Costa. Il presidente dei senatori del partito lunedì a San Leonardo è contrario allo scavo di nuovi canali». La Nuova Venezia, 6 novembre 2015 (m.p.r.)
«Non ci sono due Pd», ha ripetuto anche pochi giorni fa in un intervento il parlamentare veneziano Davide Zoggia, anche in riferimento all’atteggiamento del sindaco Brugnaro, in pieno feeling con Matteo Renzi, ma in contrapposizione con il partito a Venezia. Ma sulle Grandi Navi sembra proprio di sì, da Alessandra Moretti a Pier Luigi Zanda.
Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti
«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?
Lo scarto e soprattutto la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).
All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.
Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).
Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).
Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.
Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.
Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».
E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.
Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.
Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.
C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.
Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.
Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.
Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.
Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).
Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).
Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).
Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.
In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.
Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.
Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.
Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.
Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.
E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.