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Il Comunicato stampa di perUnaltracittà-laboratorio politico (23 novembre 2015) che denuncia il tentativo del sindaco di Firenze di nascondere l'autorevole parere dell'Unesco sul massacro in atto del centro storco della città che il pupillo di Renzi avrebbe la responsabilità di tutelare. In calce il testo originale del documento

Inqualificabile il comportamento del sindaco Nardella di fronte alla lettera dell’Unesco al Comune di Firenze che segnalava i rischi della realizzazione delle grandi opere in città.

Malgrado le ripetute richieste dei consiglieri, la lettera è stata tenuta nascosta in Palazzo Vecchio. Non solo. I contenuti della missiva sono stati artatamente mascherati. Rendendo dichiarazioni su​ una presunta dichiarazione Unesco su​l “degrado” della città storica, determinato secondo il sindaco dalla vendita di alcolici e dai minimarket, Nardella travisava il messaggio arrivato da Parigi.

L’analisi tecnica allegata alla lettera Unesco segnala ​invece ​problematicità di ben altro calibro, legate ad interventi pesanti e invasivi, quali: il tunnel TAV; la vendita dei complessi monumentali pubblici o «semi-pubblici» – tra cui la Rotonda del Brunelleschi – a investitori privati, e il loro cambiamento di destinazione d’uso (peraltro monetizzato dall’art. 25 delle N​ote ​T​ecniche del R​egolamento ​Urbanistico​); la costruzione di parcheggi interrati nel centro storico; il progetto di metró sotterraneo sotto il quadrilatero romano; la realizzazione delle linee del tram passanti nell’area protetta dall’Unesco; e infine l’eccessiva pressione turistica.

Sebbene la lettera ometta di inserire nell’elenco i sorvoli aerei sull’area Unesco che deriveranno dalla costruzione del nuovo aeroporto, essa ripete quanto stiamo dicendo da anni. ​​Un centro storico non pianificato, troppo indulgente alle lusinghe del turismo internazionale, avviato verso la trasformazione in una luxury-city (o wedding-city) che espelle i residenti e cancella le funzioni ​civiche ​e gli spazi pubblici vitali per la convivenza civile.

L’Unesco richiede pertanto «ulteriori dettagliate informazioni sui suddetti progetti, inclusa adeguata documentazione tecnica e VIA, così come le misure di mitigazione per i progetti sotterranei, con particolare riguardo ai problemi di vibrazioni e allagamento». Su questo è chiamato a rispondere Nardella​, ​che abbandoni il ruolo di promotore immobiliare e assuma, se ci riesce, quello che dovrebbe essere il compito di ogni sindaco, cioè di garante del buon andamento della cosa pubblica.

Riferimenti
Qui potete aprire e leggere il documento dell'Icomos (International Council On Monuments and Sites) l'organismo tecnico di cui si avvale l'Unesco, inviato dall'agenzia dell'Onu al sindaco di Firenze, che quest'ultimo ha tentato invano di nascondere.

Se i processi di trasformazione e riuso dello spazio urbano non seguono i medesimi ritmi dell'evoluzione sociale e delle aspettative della città, qualcosa si dovrà pur fare, a titolo provvisorio, ma forse non solo. La Repubblica Milano, 19 novembre 2015, postilla (f.b.)

Sarebbe dovuto durare soltanto per i sei mesi di Expo. Poi, è arrivata una proroga che comprendesse le feste natalizie e arrivasse al 31 gennaio. Adesso, il modello del Mercato metropolitano è destinato a un terzo tempo più stabile. Perché l’obiettivo è quello: continuare a far vivere almeno sino alla fine del 2017 parte degli scali ferroviari di Porta Genova, ma anche di Porta Romana e Farini. E, in attesa dei cantieri che trasformeranno i fasci di binari dismessi o in via di abbandono in nuovi quartieri, continuare a tenerli aperti alla città con street food, attività culturali e di intrattenimento per tutti.

C’è il disegno complessivo e l’accordo di programma urbanistico siglato ieri da Comune, Regione e Ferrovie dello Stato per riqualificare sette scali e una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati. Ma adesso c’è anche un protocollo d’intesa e una cabina di regia creata da Palazzo Marino e Fs per definire i particolari “dell’operazione ponte” sui tre indirizzi più centrali e strategici, così come le iniziative che saranno organizzate e i tempi dell’utilizzo temporaneo. Si parte dalle esperienze iniziate durante Expo e giudicate positive. Perché adesso che le porte di quelle aree si sono aperte e che i milanesi — e non solo — hanno iniziato a frequentare quei pezzi di città prima inaccessibili, è stato deciso di non tornare indietro. Un’opportunità e un presidio in più.

«In questo modo le aree degli scali resteranno vive e fruibili in attesa delle destinazioni definitive — dicono l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci e quello al Commercio Franco D’Alfonso — Si tratta di importanti porzioni di città a ridosso del centro storico che non torneranno a essere intercluse e insicure, ma continueranno a offrire nuove opportunità per il tempo libero e la cultura». Nel caso di Porta Genova, poi, dove la linea sarà dismessa dal 2019, Ferrovie si occuperà anche di migliorare l’accessibilità e il collegamento con via Tortona.

Porta Genova, Porta Romana e soprattutto Farini — da solo con oltre 500mila metri quadrati vale quasi la metà di tutti e sette gli scali — sono anche i gioielli più preziosi del patrimonio di Fs che cambierà volto. Dopo la firma a tre dell’accordo, il documento sbarcherà entro 30 giorni in Consiglio comunale per la ratifica finale. Poi, dopo i tempi e le procedure di legge, all’inizio del 2016 l’operazione urbanistica potrà davvero partire. «Ora ci aspetta la fase di ricerca di operatori che potranno tradurre le pianificazioni previste in progetti, opere e servizi a livello di città top in Europa come Milano è considerata», spiega l’ad di Fs Sistemi urbani, Carlo De Vito. La società, infatti, potrà fare bandi per vendere direttamente le aree o, come nel caso di Farini, si potrà pensare a strumenti più complessi come un fondo. In altri casi si tratterà di perfezionare un accordo con Cassa depositi e prestiti per le zone di housing sociale.

postilla
A costo di attirarsi qualche piccolo sarcasmo da parte di chi considera queste azioni (e i relativi commenti) del tutto marginali rispetto alle decisioni «vere» sulle destinazioni finali delle superfici dismesse, forse è il caso di soffermarsi un istante su quella che appare molto più di una moda o ideologia, ovvero quello del «pop-up-shop». Vuoi con le dimensioni contenute della vera e propria bottega, magari al pianterreno di un edificio ad altra destinazione, in un quartiere residenziale, vuoi con quelle dilatate di aree o contenitori industriali dismessi, l'uso commerciale provvisorio e le relative politiche urbane collaterali si stanno diffondendo in tutto il mondo, e accumulano un vero e proprio know-how operativo e finanche strategico. Che forse potrebbe addirittura finire, in tanti casi, per influenzare quelle scelte finali senza ritorno, escludendo dall'equazione il tradizionale fattore di urgenza, o di sicurezza, o di allargamento del degrado e crollo di valori immobiliari, che di solito fa accogliere qualsivoglia proposta di riuso per pura disperazione. Anche se certo una spianata di bancarelle o di giostre per la festa patronale non è il massimo a cui possa aspirare una città: forse, nel merito e nel metodo, si può pensare di meglio (f.b.)

Non crediamo che in altri stati europei si rifinanzi un programma senza una preliminare analisi dei risultati ottenuti. Certo che si tratterebbe di una fatica inutile se, come ritiene giustamente l'autore, l'obiettivo è solo propagandistico. Comunque, occhi aperti. La rivista Il Mulino, 10 novembre 2015

Nella riunione dello scorso 1º ottobre della Conferenza unificata, lo Stato, le regioni e gli enti locali hanno dato il via libera al bando per la realizzazione di un “Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate”. Il piano è previsto dalla legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) con l’assegnazione di una dote finanziaria di 194 milioni di euro, 44 per il 2015 e 75 per ognuno dei due anni successivi. Con queste risorse, relativamente esigue per gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, saranno cofinanziati i progetti promossi dai comuni sui cui territori vi sono aree urbane degradate. Per concorrere ai finanziamenti le amministrazioni comunali devono presentare progetti per la riduzione del degrado sociale, il miglioramento della qualità urbana, la riqualificazione ambientale, la realizzazione di servizi e interventi di riqualificazione cittadina, il miglioramento della qualità del decoro civico e del tessuto sociale e ambientale.

Lo scopo è meritevole. Per perseguirlo non è però necessario un nuovo bando, con nuove cabine di regia, altre graduatorie e anni di attesa prima che si possa vedere un qualche risultato (ammesso che se ne veda qualcuno di rilevante). Sarebbe sufficiente utilizzare i nuovi stanziamenti per rimpolpare la dote finanziaria di analoghe politiche già attive.

Tre anni fa, con il decreto legge 83/2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), fu promosso un “Piano nazionale per le città, per la riqualificazione di aree urbane con particolare riferimento a quelle degradate” avente le stesse finalità di questo nuovo piano per la riqualificazione. Per concorrere ai finanziamenti di quel piano, i comuni elaborarono progetti finalizzati “alla riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale, al miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento dei sistemi del trasporto urbano e al miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e ambientale”. Come si vede la sostanza dei progetti è la stessa nei due piani.

I comuni presentarono ben 457 proposte. Ne furono finanziate solo 28, per carenza di fondi. I restanti progetti sono ancora in attesa di essere finanziati, ed è molto probabile che per molti di essi i comuni tenteranno di ottenere i fondi del piano per le riqualificazioni. Furono scelti i progetti velocemente cantierabili, capaci di generare il maggior volume di investimenti. Alla fine di gennaio del 2015 (ultima data di disponibilità dei dati), cioè due anni dopo l’ammissione al finanziamento degli interventi, i contributi statali erogati ammontavano a 7,5 milioni di euro, cioè a meno del 2,5% dei 320 circa disponibili. Non si può dire che la realizzazione dei progetti proceda alacremente.

D’altra parte, ci si stupirebbe, probabilmente, del contrario. Per 8 progetti il contributo statale copre meno del 5% dei 3 miliardi di euro del loro investimento complessivo: se i comuni fossero stati in grado di coprire, con fondi propri o di altri, il restante 95% non avrebbe certo atteso il piano per le città per realizzarli. Per l’insieme dei 28 progetti finanziati il contributo statale copre circa il 7% dell’investimento complessivo previsto in ben 4,4 miliardi di euro: una sproporzione che non predispone certo all’ottimismo sui tempi di completamento degli interventi.

Considerato la lunga lista di progetti in attesa di finanziamento e lo stato di attuazione non certo avanzato di quelli finanziati con il piano per le città, un suo piano fotocopia è quantomeno ridondante. Ma questa duplicazione è figlia di una prassi di governo sempre più pervasiva in cui l'efficacia e la produttività della spesa pubblica diventano un'appendice della ricerca del consenso di opinione ed elettorale che si spera di raccogliere.

Nel caso in questione, non c’è possibilità di raffronto tra lo scarso ritorno politico che si otterrebbe rifinanziando, con qualche decina di milioni di euro per tre anni, una politica già attiva e quello molto più d’effetto assicurato dall’annuncio di un nuovo piano di investimenti, soprattutto se i progetti saranno selezionati con l’intenzione di far lievitare il modesto finanziamento statale di qualche miliardo di euro di investimenti (che dovranno essere finanziati da altri enti pubblici o da privati). Più è grande il volume complessivo degli investimenti annunciati, maggiore sarà il successo immediato del piano.

Poco importa se poi, anche in questo caso, i progetti potrebbero restare in gran parte sulla carta. Prima però che qualcuno se ne accorga passerà del tempo (ammesso che qualcuno abbia voglia di controllare lo stato di attuazione del piano). Nel frattempo, potrebbe anche cambiare il governo.

Mibact, una riforma chiamata caos

Premessa

Con le “riforme” Franceschini-Madia doveva entrare nella vasta materia dei Beni culturali e paesaggistici il Nuovo. Purtroppo a tutt’oggi è entrato il Caos. Dopo la netta separazione fra Musei “da valorizzare” e Soprintendenze addetta ad una sempre più problematica tutela territoriale, non si capisce più quale sia la linea di comando del settore. Il governo non ha avuto il coraggio (o forse non l’ha nemmeno pensato) di tornare ad una sorta di neo-centralismo ragionevole e competente, ma ha puntato tutto sui beni “suscettibili di produrre reddito” o di costituire un “brand” turistico commerciale. Premessa
Le Regioni che anni fa rivendicavano con forza la tutela, hanno capito che era una “rogna” e se ne sono disinteressate (come si disinteressano dei Piani paesaggistici). Quando lo Stato ha scippato loro la competenza sui beni librari, non hanno nemmeno aperto bocca. Del resto soltanto l’Emilia-Romagna si era attrezzata anche per gli archivi digitali tant’è che lo Stato, non attrezzato, travasa i propri dati nella struttura digitale emiliano-romagnola.

Renzi detesta e insolentisce pubblicamente i Soprintendenti fin da quando era sindaco di Firenze giudicandoli una burocrazia tanto potente quanto inutile. Difatti col decreto Sblocca Italia ha cominciato a togliere loro competenze sui grandi lavori. Con disegno di legge Madia è andato ancor più avanti imponendo una sorta di silenzio/assenso generalizzato col chiedere agli sparuti drappelli di architetti delle Soprintendenze oberati di lavoro (4-5 pratiche al giorno a testa, se va bene) risposte in pochi giorni. Altrimenti si va avanti, si approva o addirittura si sana anche l’insanabile. Cosa sono queste lungaggini perditempo in un Paese dove il consumo di suolo è pari soltanto a 8 mq al secondo e risulta triplo rispetto alle medie europee, 6,8 % l’anno contro 2,4 ? Dove tutto è integro, ben tenuto, verdeggiante, senza abusi né illegalità?

Per questo possono pensarci i Prefetti ai quali la stessa illuminata “riforma” Madia sottomette le Soprintendenze come altre strutture dello Stato erogatrici di servizi (così anche per gli scioperi ci tanno tutti più attenti). Anzi, a riforma approvata, le chiameranno Sottoprefetture alla maniera sabauda compiendo un salto politico-culturale all’indietro di un secolo e mezzo. Tutte cose che sembrano paradossali, surreali, lunari e che invece si stanno realizzando, in pieno caos.

E i nostri giornali? Zitti. E i telegiornali? Non parliamone. O magari se la prendono con le solite lungaggini burocratiche, oppure suonano le trombe o i tromboni appena il ministro Franceschini promette per il 2016 la cifra di 150 milioni in più (vedremo alla fine dell’iter della legge di stabilità). Che non ci schiodano certo dal vergognoso 22° posto europeo nella spesa per la cultura in rapporto al Pil e al bilancio davanti alle sole Grecia e Romania e dietro a Bulgaria, Cipro, Malta e tutti gli altri.
Il testo integrale dell'ampia relazione di Vittorio Emilani è raggiungibile qui
Alla relazione introduttiva hanno fatto seguito gli interventi di Maria Vittoria Marini Clarelli Le soprintendenze e i musei, Claudio Leombroni, Le biblioteche, Mariella Guercio, Gli archivi, Francesca Gallo La formazione universitaria
Buon compleanno Rottama Italia

L'11 novembre del 2014 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge di conversione del decreto Sblocca-Italia, che in 45 articoli prometteva di "sburocratizzare" l'Italia e far avviare i cantieri delle grandi opere. A un anno di distanza, il ritardo nell'attuazione di molte previsioni evidenzia come non ci fossero -forse- i requisiti di urgenza del provvedimento, che secondo l'ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena si situa "fuori dalla Costituzione".
L'analisi della legge nel libro "Rottama Italia", a cura di Tomaso Montanari per Altreconomia edizioni


di Luca Martinelli - 11 novembre 2015

Il 30 ottobre scorso ad Acerra c’erano il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, il suo omologo pugliese Michele Emilano, e l’amministratore delegato delle Fs Michele Mario Elia.
Dietro di loro, su un cartellone, era scritto “Corridoio Scandinavia-Mediterraneo: itinerario Napoli-Bari”. Ufficialmente, i 4 davano il via ai lavori per l’Alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari. In realtà, stavano “aprendo” i cantieri per la nuova viabilità stradale in località Gaudello, ad Acerra (NA) e per un nuovo cavalcavia e la viabilità stradale funzionale alla eliminazione di un passaggio a livello nel comune di Dugenta (BN).

A collegare idealmente la Scandinavia e Dugenta è lo Sblocca-Italia, che oggi compie un anno. L’11 novembre del 2014, infatti, veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo della legge 164/2014, frutto dalla conversione del decreto che avrebbe dovuto “sbloccare” l’Italia.
All’articolo 1 c’è scritto che Michele Mario Elia diventa commissario straordinario per la realizzazione della Napoli-Bari, e che entro il 31 ottobre del 2015 debbano essere avviati i cantieri. Solo che il progetto dell’Alta velocitàà è fermo al ministero dell’Ambiente, dov’è in corso la valutazione d’impatto ambientale (VIA), e i cantieri non potrebbero essere aperti. Per questo, “al fine di rispettaste la tempistica della consegna lavori come richiesto” -si legge nei documenti di Italferr, società controllata dalle Ferrovie dello Stato- si realizzano intanto cavalcavia e nuove strade.

Se l’apertura dei cantieri sulla Napoli-Bari è un bluff, lo Sblocca-Italia si è rivelato un mezzo flop: ad agosto di quest’anno è stato prorogato al 31 ottobre del 2015 il termine per la “cantierabilità delle opere”, cioè di quel lungo elenco di interventi infrastrutturali che avrebbero dovuto essere avviati entro il 30 giugno 2015 o il 31 agosto 2015. Sono stati posposti, evidenziando -se possibile- come le norme emanate non fossero necessarie né urgenti, anche i termini dell’articolo 5, quello che prevedeva l’accorpamento delle concessioni autostradali: scade il 31 dicembre 2015, e non più a giugno 2015. Era, questo, uno degli articoli controversi di cui più si era discusso in sede di conversione.

Ciò non significa, però, che i pericoli che molti indicavano nella legge -figlia della conversione di un decreto votato a fine agosto 2014 dal consiglio dei ministri, su proposta del premier Matteo Renzi e dell’allora ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi- siano venuti meno.
Più subdolamente, gli effetti dello Sblocca-Italia si riversano in mille rivoli, difficilmente controllabili, che discendono (o potrebbero discendere) da ognuno dei suoi 45 articoli. Palazzo Chigi non è in grado di aiutare il giornalista che chiede maggiori informazioni sull’effettiva attuazione dello Sblocca-Italia, che -lo ricordiamo- prevedeva “misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”. C’era dentro, insomma, un po’ di tutto, da nuove norme in materia di autorizzazioni per la ricerca di idrocarburi alla stesura di un nuovo “piano nazionale” per l’incenerimento di rifiuti (ne parliamo su Altreconomia 176, raccontando la storia della “mamme contro l’inceneritore” di Firenze).

Noi di Altreconomia lo battezzammo “Rottama Italia” (e questo è anche il titolo del libro che abbiamo dedicato al tema, curato da Tomaso Montanari). Il provvedimento venne definito “fuori dalla Costituzine” (da Paolo Maddalena, già vice presidente della Corte Costituzionale) e “Sblocca regole” (da Massimo Bray, già ministro dei Beni culturali del governo Monti e in seguito deputato PD, fino alle dimissioni nel marzo del 2015). A inizio novembre, ad esempio, il Consiglio dei ministri avrebbe approvato in via preliminare, e nuovamente con un significativo ritardo, la bozza di regolamento che semplifica la disciplina dei materiali estratti durante le attività di scavo, e deroghe in situazione definite di emergenza nei grandi cantieri, come riporta Edilportale.com. Durante il mese di agosto, invece, nuovamente in ritardo rispetto al termine previsto all’articolo 35 dello Sblocca-Italia, è uscito un elenco relativo a nuovi impianti per l’incenerimento di rifiuti che il governo vorrebbe realizzare per “bruciare” tutti i rifiuti indifferenziati prodotti in Italia.
A fine settembre, invece, è stato nominato il commissario straordinario per la riconversione del sito di Bagnoli, un provvedimento che di fatto esautora l’amministrazione comunale di Napoli da ogni ruolo di pianificazione.

L’attenzione al portato dello Sblocca-Italia è forte solo sul fronte delle “trivelle”, perché alcune Regioni hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro gli articoli (sono il 37 e 38) che riguardano la ricerca di idrocarburi e il ruolo delle amministrazioni locali.

C’è poi il caso “a parte” dell’autostrada Orte-Mestre. Qui è stata la magistratura -con l’inchiesta Sistema della Procura di Firenze- a “consigliare” il congelamento del progetto, che il governo avrebbe dovuto finanziarie attraverso un meccanismo di defiscalizzazione, previsto dallo Sblocca-Italia. È in seguito all’inchiesta, che è ancora in corso, se nel marzo del 2015 si è dimesso il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.

«Movimenti. Verso la manifestazione nazionale del 29, la coalizione delle associazioni ambientaliste discute a Roma proposte e iniziative economiche e sociali». Il manifesto, 14 novembre 2015

Come è noto, all’inizio di dicembre si svolgerà a Parigi il COP 21, il convegno mondiale sullo stato e sulle dinamiche del cambiamento climatico del pianeta Terra a cui aderiscono tutti i paesi del mondo. Anche l’Italia parteciperà, ed ha riunito a Roma il 6 Novembre la coalizione nazionale delle associazioni ambientaliste, in vista della manifestazione romana del 29 Novembre e discutere la linea da seguire in Italia e a Parigi. Chi scrive fa parte di questa coalizione in quanto presidente dell’Associazione Nazionale “Ambiente e Lavoro”, nata con il disastro di Seveso con l’obiettivo di combattere i pericoli della produzione all’interno del luogo di lavoro e nell’ambiente tutto, collegando ambientalisti e lavoratori.

Per molto tempo è stato difficile unire ambiente e lavoro avendo come obiettivo l’eliminazione dei possibili effetti negativi per l’ ambiente e la salute fuori e dentro l’azienda senza dover ridurre l’occupazione. Nell’incontro del 6 Novembre si sono espresse voci di ambientalisti, ma anche di rappresentanti della Cgil, e delle organizzazioni dei lavoratori in genere, rappresentanti degli studenti, una organizzazione trasversale come Avaaz, operatori che lavorano nelle regioni e nei comuni. Per la prima volta, per quanto ricordi, ha preso corpo una discussione di “ambientalismo sociale ed economico” che, invece di affrontare solo genericamente i concetti di base del cambiamento climatico, i suoi effetti e lo stato generale dell’ambiente, si è concentrata sul nostro Paese affrontando insieme i problemi economici, sociali e politici italiani su cui intervenire in previsione della accelerazione del processo climatico.

Sul piano economico si è richiesto di evitare le spese che poco hanno a che fare con l’ambiente e le vite umane, quelle che servono essenzialmente ad aumentare la parte finanziaria della nostra economia. Come è successo con Expo, con il piano del modello di sviluppo di Eni, con la costruzione di Enel gas a Manfredonia, e in genere con costruzioni che fanno guadagnare i costruttori, senza tenere conto degli effetti negativi della cementificazione. O con gli interventi inclusi nel cosiddetto “sblocca Italia”, le pericolose trivellazioni, così vicine al cosiddetto fracking praticato egli Stati uniti ed criticato da moltissime associazioni nel mondo. A tutto questo si aggiungono i mancati finanziamenti per nuovi piani per l’agricoltura, il disastro che si determinerebbe con la eliminazione dei forestali, unica organizzazione di controllo delle foreste, elemento fondamentale per l’uso e il blocco di CO2 .

Tutto avviene in un Paese sempre meno democratico in cui si discute molto raramente con le persone e le associazioni che, in Italia, chiedono di essere considerate portatrici delle idee degli associati e delle comunità locali. Molto rilevanti per la democrazia e per la richiesta di attivare lo scarso dibattito sull’ambiente in genere, e in particolare sull’ambientalismo sociale ed economico, sono stati gli interventi vivaci e competenti degli studenti per l’ambiente, con l’annuncio di una manifestazione nazionale a Roma il 17 Novembre, e degli insegnanti presenti, critici della “buona scuola”, dove si parla sempre meno del cambiamento climatico, nonostante l’interesse e le richieste dei ragazzi che, come negli interventi hanno ampiamente dimostrato, sono ormai sempre più coscienti e preoccupati della accelerazione prevista e continua del cambiamento climatico. Ben poco se ne parla sia nei diversi gradi della scuola che nei giornali e in televisione. Così ben pochi sono informati dei due strumenti generali su cui si può puntare per la sopravvivenza del pianeta: la mitigazione, cioè la riduzione dell’aumento dei gas serra, e l’adattamento, che significa la salvaguardia degli ambienti naturali e degli elementi fondamentali per la vita: la terra, le agricolture, l’aria pulita, le energie rinnovabili, l’acqua potabile.

A questi elementi si aggiunge anche la biodiversità, unico strumento che permetterebbe di adattarci in molti e, appunto, diversi ambienti nel tempo e nello spazio. Tutti questi strumenti necessari per la sopravvivenza della nostra specie vanno conservati, usati, e resi utilizzabili da tutti. Ne va perciò combattuta con assoluta fermezza la brevettazione, soprattutto da parte delle multinazionali delle piante e degli animali, come Monsanto & Co. che hanno purtroppo già brevettato l’acqua del Kasakhstan .

L’ambientalismo non può più limitarsi alla salvaguardia, pure fondamentale, delle specie in vie di estinzione e in genere della biodiversità. Non può non affrontare e modificare con tutti gli strumenti possibili l’economia reale combattendo quella finanziaria, promuovendone il ritorno al significato iniziale, allo scopo di mantenere leggi necessarie per le vite non solo umane ma della Biosfera. Di questo, molti parlano e molto spesso, ma raramente, come si è verificato nell’incontro di Roma, persone di tutte le categorie, interessate alla tematica ambientalista, hanno chiesto con forza e chiederanno alla manifestazione nazionale che economia e politica siano consapevoli della unicità del nostro pianeta e della necessità di permettere al mondo vivente di sopravvivere insieme alle infinite diversità presenti sulla terra, tutte non solo sufficienti ma a tutte necessarie.

Il Fatto Quotidiano", 14 novembre 2015

Chiama e rispondi. Matteo Renzi rilancia l’idea del ponte sullo Stretto. Poche ore dopo visita a Riyad, un cantiere di Salini-Impregilo, azienda in causa con lo Stato per il ponte. Infine Pietro Salini (nella foto), rincuorato dai colloqui arabici con il premier, dice al Corriere della Sera che muore dalla voglia di fare il ponte.

Niente paura. Il grande sperpero di denaro pubblico non ci sarà. Ci sarà quello piccolo (si fa per dire). La grancassa della propaganda suona per quel miliardo di penali che da dieci anni è l’unico vero obiettivo del maggior gruppo italiano delle costruzioni. Salini, che ha scalato l’Impregilo tre anni fa, si è appropriato di un armamentario propagandistico vecchio di trent’anni. Ha detto per esempio che stanno aumentando i traffici marittimi davanti alla Sicilia, “ma le merci via mare devono arrivare fino a Rotterdam per tornare poi magari in Sicilia, mentre potremmo farle partire da Palermo e distribuirle da lì in Europa”.

Il curriculum di Salini dimostra che stupido non è, quindi ci fa. Dovremmo spendere una decina di miliardi per collegare con l’Europa un futuribile porto di Palermo. E come mai allora le navi oggi vanno a Rotterdam anziché scaricare a Gioia Tauro? Gli fa schifo la Calabria?

Non è possibile che Salini creda a ciò che dice: «Il Ponte si può fare tutto finanziato dai privati», come se non sapesse che Impregilo nel 2005 ha vinto una banale gara per un appalto pagato dallo Stato fino all’ultimo euro. Dice di disporre di una “stima interna” (?) secondo cui lo Stato, costruendo il Ponte, non solo non spenderà nulla ma incasserà 10 miliardi tra “maggiori tasse, imposte dirette, mancati contributi alla disoccupazione”.

Lasciamo perdere le amenità e veniamo alla sostanza. Da quando il consorzio Eurolink (di cui Salini-Impregilo ha il 45 per cento) ha vinto nel 2005 la gara per il Ponte con un ribasso stratosferico, un’opaca successione di contratti scritti e riscritti ha creato le condizioni perché Eurolink potesse pretendere le penali per la mancata costruzione, anche in mancanza di un progetto definitivo approvato. Per ragioni oscure tutti i governi succedutisi da allora, nessuno escluso, hanno fatto il gioco di Impregilo. Così è nata la causa civile che oggi consente a Salini di prevedere la vincita di 1 miliardo secco senza muovere un mattone e senza che il progetto abbia superato la Valutazione di impatto ambientale Via e sia stato approvato dal Cipe.

Gli avvocati di Eurolink hanno bisogno che Salini ripeta ossessivamente di essere non solo pronto, ma desideroso di costruire il Ponte. E Renzi, dicendo che il Ponte farebbe il bene del Paese, fa - di sicuro inconsapevolmente - un regalo prezioso agli avvocati dell’amico Salini. Tutto il resto, come dire che le ragioni di chi è contro il Ponte sarebbero del tipo che “la sua ombra farebbe venire il mal di testa ai pesci pelagici”, sono chiacchiere. Triviali e interessate. Ma chiacchiere.

«Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese». Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015 (m.p.r.)

Bene che vada, ci sarà il condono bis, a prezzi di saldo. Male che vada, le spiagge - o meglio gli spazi di “pertinenza economica” degli stabilimenti balneari (bar, ristoranti, palestre, piscine ecc. La vera polpa delle concessioni) - verranno vendute, o meglio, “sdemanializzate”, per usare il linguaggio tecnico dei proponenti. In pratica, peggio di quello che provò a fare il governo Berlusconi nel 2006 - il prolungamento di 50 anni delle concessioni - senza però riuscirci anche per l’opposizione del centrosinistra.

Ora la manovra è concentrica e il mezzo sono una serie di emendamenti fotocopia alla manovra in discussione in commissione Bilancio al Senato: Pd, Ncd e Forza Italia provano, o meglio riprovano, a condonare i canoni non pagati ai proprietari delle aree di pertinenza, mentre Forza Italia - a firma Maurizio Gasparri - punta al colpo grosso, tanto clamoroso quanto tecnicamente ben congegnato, sfilare al demanio marittimo quelle aree per poi affidarle al sistema delle “cartolarizzazioni”, il nome tecnico per le vendite di pezzi dello Stato, con diritto di prelazione per i “conduttori”, cioè chi ci sta già dentro.
Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria di fine anno decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni (di proroga in proroga mai ritoccati da decenni) legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese. E un adeguamento anche per le aree di pertinenza commerciale (bar, ristoranti, etc), calcolato sul valore del mercato immobiliare della zona. Apriti cielo “Abbiamo subìto aumenti stellari”, denunciano i balneari. Ma prima le pertinenze non pagavano nulla. Pena la perdita della concessione. Da lì sono partiti i contenziosi. A fine 2013 - governo Letta - nella manovra passa un emendamento che condona il passato: per chiudere i conti con il Fisco dal 2006 i concessionari possono scegliere di pagare il 30% subito o il 60 spalmato su sei anni. La sanatoria si è chiusa nel 2014.
Ora Fi e Ncd puntano a prorogarla per altri due anni, fino a fine 2016. L’emendamento Pd - a prima firma Manuela Granaiola, una vera pasionaria dei balneari, già autrice di vari tentativi di privatizzare le spiagge - fa invece anche di più: sospende i provvedimenti di revoca delle concessioni e riapre quelli del condono ad libitum; cancella la rivalutazione in base al mercato immobiliare di zona; e, per il futuro, lo stesso canone, in favore di un pagamento una tantum tra i 2 e i 4 mila euro. Una pietra tombale sui tentativi avviati dai tempi di Prodi di far pagare il giusto a chi fino ad allora se l’era cavata a prezzi di saldo.
Basti pensare che dal “demanio marittimo”, cioè dalle spiagge, lo Stato nel 2014 ha incassato 101 milioni, meno dell’anno prima e meno di quanto riscuoteva nel 2009. Nel 2013, per aggirare le accuse di voler privatizzare le spiagge, la Granaiola tirò fuori il coniglio dal cilindro: la proroga delle concessioni per 30 anni. La palla passava insomma ai nipoti degli attuali proprietari. Il tutto per aggirare gli obblighi europei imposti da un’apposita direttiva, che prevede di mettere le concessioni a gara pubblica, senza diritto di prelazione per il titolare precedente. Dal 2010 di proroga in proroga la direttiva non è mai entrata in vigore, con la procedura di infrazione europea costretta a ripartire di volta in volta da zero, l’ultima grazie al governo Monti che ha prolungato le concessioni da fine 2015 al 2020. Una blindatura minacciata però da due ricorsi, uno in Lombardia e uno in Sardegna, i cui rispettivi Tar hanno deciso di interpellare la Corte di Giustizia Ue, che si pronuncerà il 2 dicembre: in caso positivo, le concessioni tornerebbero subito sul mercato.
Niente paura, qui entra in gioco l’emendamento Gasparri, che risolve il problema alla radice sfilando le aree di pertinenza al demanio per poi venderle a chi già le usa. Chi partecipa a un bando per aggiudicarsi la gestione dei una spiaggia i cui bar, ristoranti e servizi sono occupati dal vecchio proprietario? Ieri Gasparri ha risposto insultando il leader dei Verdi Angelo Bonelli che ha svelato il suo emendamento: “È un fallito, nessuno vende nulla, vogliamo solo fornire certezze normative”. Ieri fonti parlamentari riferivano che almeno sul primo punto - il condono - l’accordo è in fieri. Sul resto, si vedrà.

«Abbiamo appreso con soddisfazione che il porto di Venezia è il porto più verde del mondo». I danni alla laguna, la monocultura turistica che uccide la città, i mestieri che scompaiono a causa di questo fanno parte di una narrazione che non interessa il partito unico delle grandi opere/grandi affari. La Nuova Venezia, 13 novembre 2015 (m.p.r.)

Il Pd regionale con il capogruppo Alessandra Moretti a fianco del Porto e degli interessi di chi lavora nel settore della crocieristica e teme di perdere il posto di lavoro. Lo conferma la presa di posizione di ieri della Moretti e dei consiglieri regionali Francesca Zottis, Bruno Pigozzo (Pd) e Franco Ferrari (Gruppo Moretti Presidente), che hanno tenuto un incontro con il presidente dell’ Autorità Portuale di Venezia Paolo Costa e di quello della Vtp (Venice Terminal Passeggeri) Sandro Trevisanato.

«Lavoreremo affinché il Governo», dichiarano i consiglieri regionali del Pd, «attraverso il ministero delle Infrastrutture, garantisca tempi certi di individuazione e realizzazione di una via alternativa al passaggio delle grandi navi lungo il bacino di San Marco ed il canale della Giudecca. Questo nel rispetto di interessi economici, culturali ed ambientali. La Regione da parte sua dovrà lavorare di intesa con il Ministero, dando così un segnale importante a tutti gli operatori che ormai da più di quattro anni stanno subendo una situazione di stallo non più tollerabile. Abbiamo appreso con soddisfazione che il porto di Venezia è il porto più verde del mondo, considerato che da sei anni impone a tutte le navi da crociera di utilizzare combustibile a bassissimo contenuto di zolfo (0,1 per cento), mentre la normativa Ue, solo a partire dal 2020, introdurrà il limite dello 0,5 per cento. L'Arpav, più volte chiamata a verificare lo stato dell'inquinamento, ha sempre rilevato assenza di fumi. Il porto di Venezia rappresenta un asset fondamentale per la crocieristica italiana dato che Venezia è il punto di partenza delle crociere su navi di stazza superiore alle 40 mila tonnellate».
E ancora: «Una centralità evidente anche in relazione ai porti dell'Adriatico quali Ravenna, Brindisi e Bari. Al contempo la Stazione Marittima, realizzata con un investimento di 500 milioni di euro, rappresenta il primo home port europeo e il quinto al mondo. Nel 2014 ha accolto oltre 1,8 milioni di passeggeri e nel 2015 se ne prevede 1,6 milioni. L'indotto economico che ricade su Venezia è di oltre 400 milioni di euro l'anno. Il waterfront di San Basilio sta diventando un punto di riferimento per eventi culturali di fama internazionale. Siamo insomma di fronte ad eccellenze - concludono - che è doveroso valorizzare e difendere con decisioni responsabili, urgenti ed efficaci»

«Expo Spa ha uno sbilancio di gestione da oltre 400 milioni, Arexpo terreni che non è riuscita a vendere: Renzi vuole metterle insieme e coprire tutto coi soldi di Cdp». Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015 (m.p.r.)
Il piano per il dopo-Expo col genoma, i Big Data, i ricercatori? Al momento, sembra più che altro il piano per occultare i buchi di bilancio dell’evento: i conti, per ora, sono ancora segreti, ma secondo fonti contattate dal Fatto Quotidiano, si parla di uno sbilancio di gestione che oscilla tra i 400 e i 500 milioni di euro, al netto del costo dei terreni e di ulteriori extracosti. Su questo, però, non è possibile avere un confronto pubblico: l’Esposizione milanese deve essere un successo, Giuseppe Sala - o, come dicevan tutti, “Beppe”- il salvatore della patria, Matteo Renzi il conquistatore di Milano.

Per ottenere questo risultato il governo sta predisponendo il decreto per il dopo-Expo (andrà in Consiglio dei ministri domani), utile soprattutto a buttare un po’ di polvere sotto il tappeto: oggi i vertici di Expo Spa (che ha gestito l’evento) e di Arexpo Spa saranno a Roma per discutere con l’esecutivo come tirarsi fuori dai casini.

Arriva Cdp, le promesse a Regione e Comune
Il primo problema sono i terreni. Arexpo li ha comprati (a debito) dai privati a dieci volte il prezzo di mercato (Fondazione Fiera di Milano è il maggior venditore e pure socio di Arexpo). A bilancio valgono 300 milioni, ma quando ha provato a venderli a 315 l’asta è andata deserta. I soci – Regione, Comune e Fiera – cominciavano a preoccuparsi: gli era stato detto che i privati avrebbero fatto a gara per comprarseli e invece niente. Roberto Maroni e Giuliano Pisapia non hanno i soldi per creare da soli il futuro Polo tecnologico, né per valorizzare l’area e poi venderla. Quasi tutte le infrastrutture del sito hanno collaudi scaduti al 31 ottobre: bisognerà rifare quasi tutto da capo, nonostante lo Stato abbia già speso 1,3 miliardi a fondo perduto per le opere.
Regione e Comune, però, sono state rassicurate da Palazzo Chigi. I soldi li metterà Cassa depositi e prestiti, probabilmente rilevando le quote di Fondazione Fiera. Il veicolo per fare tutto questo non è ancora chiaro e anche di questo si discuterà oggi: la soluzione più razionale (e veloce) sarebbe trasformare Arexpo - che doveva essere smantellata dopo l’Esposizione - in soggetto attuatore del piano per il “dopo” con relativa annessione di Expo Spa. La tentazione del governo, però, è la creazione di una società ex novo in cui far confluire tanto Expo Spa che Arexpo.
Il vantaggio? Occultare il buco dell’Esposizione, cioè il conto che si scaricherà sui cittadini. Soprattutto quello di Expo Spa, la società (di Tesoro, Regione e Comune) che ha gestito l’evento sotto l’illuminata guida di Giuseppe Sala: dei suoi conti ad oggi non si sa nulla, ma secondo fonti qualificate il bilancio di gestione fa segnare un rosso da mezzo miliardo.
Bonifiche, visitatori, bilanci e altri misteri
Per spiegarsi servono un po’ di numeri: la gestione dell’evento costa 840 milioni secondo Expo Spa, ma il conto sale a 960 milioni se, come segnala la Corte dei Conti, vengono correttamente riclassificate alcune poste di bilancio. Nel business plan iniziale i ricavi da biglietti valevano 530 milioni (24 milioni di ticket a un prezzo medio di 22 euro). Sala, dopo i primi mesi un po’ negativi, ci ha ripensato: 380 milioni (19 euro medi per 20 milioni di biglietti). Ora ci dicono che gli “ingressi” a Expo sono stati 21,5 milioni circa, cifra a cui si arriva contando pure i 14mila addetti al sito che entravano ogni giorno: i visitatori veri sono stati circa 19 milioni. E l’incasso dai biglietti? Secondo le fonti del Fatto si aggira sui 200 milioni con un prezzo medio attorno ai 10 euro: succede quando si fanno sconti enormi a scolaresche, dipendenti degli sponsor, parrocchie, coop, ordini professionali e associazioni varie; quando si vendono i biglietti a 5 euro dopo le 18, si regalano gli ingressi a pensionati, titolari di bassi redditi e a chi parcheggia di sera nelle aree di sosta del sito.
Ammettendo che gli altri ricavi siano davvero 300 milioni circa, come da previsioni, il conto è questo: mezzo miliardo di ricavi, almeno 960 milioni di costi. Ora Sala, forse candidato sindaco di Milano, sta tentando di spremere soldi ovunque: Expo Spa ha “addebitato ” ad Arexpo (che non vuole pagare) 70 milioni per le bonifiche, mentre il contratto tra le due le cifrava a 6 milioni. Ora, per di più, il governo le vuole fondere: a godere, in questi spericolati incroci societari, rischia di essere solo la Fondazione Fiera, che dopo aver dato il pacco dei terreni (inquinati) a Expo, ne uscirà pure con un po’ di soldi.

«Ricerca&sviluppo. Dietro il plauso alla “boutade” di Renzi sul futuro dell’area, l’eterno gioco della speculazione fondiaria». Il manifesto, 12 novembre 2015

A parte gli estensori del discorso di Matteo Renzi, tutti sanno che il nome Silicon Valley arrivò dopo decenni dall’inizio di produzioni industriali innovative che hanno segnato la storia tecnologica mondiale. Hewlett & Packard, ad esempio, inaugurò in quell’area il primo stabilimento nella metà degli anni Trenta del secolo scorso.

Milano, una città importante nella storia produttiva italiana ha dismesso negli ultimi trenta anni tutti gli stabilimenti industriali più importanti: la follia dell’urbanistica contrattata milanese ha permesso di realizzare anonimi quartieri al posto delle produzioni. La rendita fondiaria ha guadagnato somme imponenti rinunciando al difficile percorso dell’innovazione produttiva e della creazione di tecnologie avanzate.

La Silicon valley alla milanese non potrà nascere soltanto creando nuove strutture di ricerca ma solo se ci sarà un progetto industriale per l’intero paese in grado di orientare, incentivare, di favorire le sperimentazioni specialmente delle imprese innovative e soltanto se ci saranno investimenti adeguati per l’istruzione universitaria.

Del resto, è noto che la ricerca nelle nostre università è stata pressochè azzerata dai tagli di bilancio e le università languono. La somma di 150 milioni all’anno per l’ipotetico polo milanese è una piccola goccia per il paese che finanzia l’istruzione superiore e la ricerca con le risorse più modeste d’Europa.

Ciononostante, a parte qualche marginale critica, la boutade di Renzi è stata accolta con molto favore dal grande circo mediatico. Sono tre i motivi profondi di questo consenso.

Il primo è l’eterno gioco della speculazione fondiaria.

Sulle aree Expo arriverà un fiume di cemento: con l’urbanistica a la carte in voga a Milano, infatti, si è consolidata la prassi di attribuire ad ogni metro quadrato di proprietà fondiaria una edificazione di 0,2 metri quadrati. L’area Expo misura 105 ettari e si potranno realizzare almeno 210 mila metri quadrati di edifici. Il progetto renziano riguarda 70 mila metri quadrati. Restano dunque 140 mila metri cubi su cui costruire abitazioni o ipermercati, l’unica attività in cui eccelle la struttura d’impresa milanese.

Il Corriere della Sera ha proposto la realizzazione di case dello studente. La recente esperienza di Tor Vergata a Roma non fa dormire sonni tranquilli: nel grande campus universitario sono stati di recente inaugurati alloggi per studenti ma non con i soldi pubblici, bensì finanziati attraverso un apposito fondo immobiliare. Quegli alloggi ospitano chiunque, non solo studenti. E’ questo il modello anche per Milano: altre case in una città soffocata?

Il secondo motivo è l’ulteriore colpo alle autonomie comunali.

E’ stato il primo ministro ad annunciare in conferenza stampa un progetto non discusso con i sindaci di Milano e dei comuni limitrofi: Giuliano Pisapia ascoltava come tutti gli altri le esternazioni del presidente del consiglio, Questa prassi comincia a preoccupare perché fa il paio con lo scioglimento coatto di Roma.

Le due più grandi città d’Italia, insomma, non possono godere del normale corso amministrativo: grandi progetti come il futuro delle aree expo o grandi eventi come il Giubileo sono terreno esclusivo di caccia del primo ministro o di un prefetto. I comuni italiani sono stati portati sull’orlo della bancarotta per i tagli di bilancio e il governo dimostra che non ha alcun interesse a risolvere il problema. Anzi, rincara la dose comprimendo la democrazia.

Il terzo motivo riguarda l’affidamento del futuro delle città a manager spesso inesistenti.

L’esperienza Expo depurata dalla retorica imperante è stata infatti un disastro senza precedenti. Dal 2007 all’aprile 2015 non si è stati in grado di realizzare nella sua interezza il progetto, eppure sono stati spesi 14 miliardi di euro. Gli scandali e le malversazioni hanno riempito le cronache giudiziarie e le galere.

Eppure il commissario Sala viene dipinto come l’unico in grado di guidare Milano. E qui il risvolto più amaro riguarda l’inerzia dimostrata dal comune di Milano nel progettare il futuro: è in questo vuoto di prospettiva che hanno avuto buon gioco le improvvisazioni di Renzi e l’eterna tentazione della ricerca del manager demiurgo.

«La retorica sui successi di Expo impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, la difficile accessibilità e mobilità, come ottenere una appropriata composizione sociale e come perseguire la qualità urbana perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio». Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha affermato che l’area di Expo «ha caratteristiche uniche sia dal punto di vista logistico che tecnologico» e che quel «milione di metri quadrati … sono raggiungibili facilmente con ogni mezzo… e dotati di infrastrutture tecnologiche». Se fosse vero, per quale motivo ci sarebbe la necessità di fare intervenire il governo nel suo recupero dopo la manifestazione? E come mai per eseguire una normale, per quanto importante, operazione di natura urbanistica da coordinare tra i comuni di Milano e Rho servirebbe, anche a detta del ministro Maurizio Martina, «un interlocutore forte» un «dominus», come lo definisce Pisapia, «che unisca alcuni poteri speciali a un ruolo diretto e strategico all’interno di Arexpo» ossia nella società che possiede le aree?

Considerato che le aree di Expo si estendono sia nel territorio di Milano che in quello di Rho, a che cosa servono allora i due assessori all’urbanistica, Alessandro Balducci e Pietro Romano, sindaco di Rho con delega all’urbanistica? Altri giornali hanno riferito che il principale problema sarebbe Arexpo, soggetto troppo debole per gestire il post evento. Ma Arexpo, formata da Regione, Città metropolitana, Comuni di Milano e di Rho e da Fondazione Fiera comprende le tre più importanti amministrazioni locali che rinunciano inspiegabilmente alle loro prerogative sul governo del territorio. E il ministro Martina ha affermato: «il fatto che lo Stato (o il governo?, ndr) non sia nella società Arexpo è un elemento che ha creato una disomogeneità… Ci troviamo in una situazione non allineata tra gestione e proprietà. Stiamo lavorando per allineare bene le cose e poter essere utili».
Ma perché mai il governo dovrebbe allinearsi? Invocare l’intervento del governo può avere la motivazione di disporre di altri finanziamenti pubblici, oltre a quanto già speso per Expo. La retorica sui successi di Expo e sulla qualità delle aree impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, dell’aria e acustico, la difficile accessibilità e mobilità, la vischiosità delle procedure, a meno che si ricorra a poteri del “dominus” che con procedure d’urgenza ridurrà garanzie e tutele, la difficile sostenibilità economica che comporterà altri oneri a carico dei cittadini, come ottenere una appropriata composizione sociale per evitare il degrado e realizzare invece una vitale componente della Città metropolitana, e come perseguire la qualità urbana e architettonica perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio.
Sono certo di interpretare i sentimenti di molti progettisti e dell’Ordine degli Architetti - fin dal 2008 impegnato a documentare il dopo Expo nei casi emblematici di Hannover, Siviglia e Saragozza - affermando che non rinunceremo a prendere posizione sui problemi che si stanno manifestando, mettendo a disposizione le nostre conoscenze per favorire un pubblico dibattito nel quale inviteremo a confrontarsi i responsabili delle istituzioni.
Emilio Battisti, architetto, già ordinario di Composizione Architettonica Politecnico di Milano

«L’associazione “Poveglia per Tutti” presenterà ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

L’associazione “Poveglia per Tutti” non ha più tempo da perdere e ora vuole vederci chiaro sul futuro dell’isola. Tra pochi giorni verrà ufficialmente depositato il ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento, chiesto ormai da tempo. Fino ad adesso l’associazione ha seguito tutti i passaggi istituzionali al fine di ottenere la concessione dell’isola, ma la strada non è in discesa.

La prima difficoltà è proprio il Demanio che, dopo aver visionato il progetto dell’associazione che in 100 pagine ha spiegato quali interventi si volessero fare nell’isola entrando anche nel dettaglio economico, ha risposto picche, spiegando che «occorre valutare, di concerto con l’amministrazione comunale recentemente insediatasi, il più proficuo percorso da avviare nell’interesse del territorio e del bene stesso».

La seconda difficoltà, con radici che risalgono ancora a quando l’attuale sindaco Luigi Brugnaro aveva partecipato all’asta come Umana, è con l’attuale amministrazione comunale che, nei panni della vice sindaco Luciana Colle - attuale assessore al federalismo demaniale ed ex dirigente del Demanio - ha detto che la proposta di Poveglia verrà valutata al pari delle altre proposte di privati.

L’associazione non si è lasciata intimidire. Ieri mattina gli avvocati Raffaele Volante e Francesco Mason hanno spiegato il motivo del ricorso e dimostrato, facendo richiesta agli atti, che le proposte di altri privati sono inconsistenti. Il ricorso si basa sul fatto che la risposta del Demanio è altamente insufficiente in quanto non solo non spiega il diniego, ma dà peso al parare del Comune che non ha voce in capitolo in quanto il bene è dello Stato.

Per quanto riguarda le sette proposte il cui nome si saprà una volta che il ricorso verrà depositato: si tratta di sette manifestazioni di interesse, spesso scritte da un mediatore, senza nessuna esplicitazione di progetti, né riferimenti economici, ma solo richieste di informazioni.

«Sembra che lo Stato», ha detto Giancarlo Ghigi, «non accetti l’idea che la comunità abbia fatto meglio di lui in 47 anni di abbandono. Dopo aver rifiutato tramite il federalismo demaniale la possibilità di avere Poveglia, ora scopriamo che il Comune ha un progetto. Vorremmo sapere dal Demanio perché il nostro non funziona e parlare con l’Amministrazione».

appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”». Il manifesto, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Brindisi. Non ci stanno cittadini e agricoltori del brindisino a vedersi privare in un sol colpo dell’identità, dell’unica fonte di guadagno familiare, l’unico polmone d’ossigeno e l’intero paesaggio che si scorga a perdita d’occhio da tutte le finestre di ogni paese.
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Così in un solo giorno, hanno occupato i binari della stazione di San Pietro Vernotico; bloccato le strade di Torchiarolo con trattori, famiglie, mamme, papà, bambine e bambini delle elementari; impedito alle guardie della Forestale di fare i campionamenti sugli ulivi, perché le guardie erano sprovviste del necessario documento di accompagnamento autorizzativo dei prelievi.

Sale la tensione nella provincia di Brindisi e aumenta anche l’organizzazione dei cittadini nelle azioni di sabotaggio del piano del commissario straordinario per l’emergenza xylella. Il piano, denominato “Silletti bis”, dal nome del commissario Giuseppe Silletti, prevede che nella provincia di Brindisi si sradichino e si distruggano gli ulivi, anche plurisecolari, risultati positivi alla presenza del batterio xylella fastidiosa, un batterio incluso dalla Ue nella lista “Eppo”, cioè la lista degli organismi da quarantena, la cui sola presenza sul territorio nazionale fa scattare le misure di contrasto previste dalla direttiva europea 29 del 2000, che non prevede né impone lo sradicamento di alberi, tantomeno se secolari, in campo aperto.

Come si sia potuti arrivare a tale livello di tensione sociale e di furia distruttrice è una storia lunga, raccontata nel libro-inchiesta “Xylella report” e risponde ad una precisa scelta politica compiuta all’epoca della giunta di Nichi Vendola, nell’ottobre 2013, quando si decise, a priori e senza alcuna evidenza scientifica che ancora oggi manca (all’epoca il batterio non era stato neanche isolato in laboratorio), di sradicare l’intera foresta di ulivi della provincia di Lecce, cioè 11 milioni di ulivi, per la maggior parte secolari.

La xylella era stata trovata su alcuni alberi vicino Gallipoli, zona di forte richiamo turistico e di grande appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”, facendo subito domanda per ottenere i finanziamenti (rimborsi a consuntivo) per le operazioni di sradicamento.

Ora l’Unione europea, rispondendo alle indicazioni della regione Puglia, ha imposto di sradicare e distruggere gli ulivi positivi a xylella e tutti gli alberi e le piante anche sane nel raggio di 100 metri attorno all’albero risultato positivo. S’impone cioè di desertificare a macchia di leopardo potenzialmente tutta la Puglia: attorno ad ogni albero positivo a xylella si desertifica un territorio vasto tre ettari e mezzo.

Un esempio: nel brindisino sono stati trovati solo 8 alberi positivi a xylella e per quegli otto alberi se ne sono già sradicati oltre 1000.

Intanto, mentre Michele Emiliano, presidente della Regione, convoca per il 16 novembre prossimo una quarantina di esperti riuniti in una “task force” con l’obiettivo di dimostrare che sradicare non serva, un gruppo di ricercatori e giuristi dell’Università del Salento presenteranno giovedì prossimo a Torchiarolo un documento dal titolo ““Emergenza Xilella Fastidiosa: perché l’obbligo di estirpazione di tutti gli ulivi non infetti (privi di sintomi indicativi di possibile infezione e non sospetti di essere infetti) nel raggio di 100 metri da quelli infetti è una misura contestabile sul piano giuridico e scientifico” che sintetizza, in versione semplificata per la diffusione al pubblico, i risultati di uno studio interdisciplinare coordinato dai professori Massimo Monteduro (associato di Diritto Amministrativo) e Luigi De Bellis (ordinario di Fisiologia Vegetale) e curato da un gruppo di professori, ricercatori e giovani studiosi dell’Università del Salento denominato L.A.I.R. (“Law and Agroecology Ius et Rus”), che si occupa dei rapporti tra diritto e agro/ecologia.

L’obiettivo è fornire ai Comuni e a tutti i cittadini basi scientifiche solide su cui appoggiare i ricorsi al Tar, non appena ricevute le ordinanze di abbattimento degli alberi.

Una ricerca “open source”, gratuita e subito a disposizione di tutti, nata dall’idea di un artista, musicoterapeuta, musicista degli Officina Zoè, con una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche nel cassetto: Giorgio Doveri, che ha proposto ai ricercatori di mettersi insieme, parlarsi, collaborare per il bene comune.

Serviva l’arte per far vedere la realtà con occhi puliti.

«“Faremo gli studi, ma la città ha deciso”. E attacca la Municipalità: “Arroganti”. In pista anche le ipotesi Marghera e Lido». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

«Zanda non vuole i nuovi canali? Ha fatto un buon discorso ma devono capire che la decisione è presa. La gente ha votato. Faremo gli studi necessari ma andiamo avanti. Abbiamo 5 mila posti di lavoro da difendere». Il sindaco Brugnaro archivia in tempo reale la presa di posizione del presidente dei senatori Pd, molto vicino a Matteo Renzi. In una sala San Leonardo strapiena, Zanda ha ribadito il principio di precauzione. «Dobbiamo fare attenzione a quello che facciamo, valutare bene le conseguenze a lungo termine. Lo scavo di un canale è dannoso per la laguna e per la conservazione di Venezia». Un «no» all’ipotesi Tresse sostenuta invece da Brugnaro e dal presidente del Porto Paolo Costa.

«Il Pd si fa male da solo, non capisco», insiste Brugnaro. E attacca la Municipalità. «Ha detto no a quel progetto? Quel presidente (Andrea Martini, ndr), è arrogante dal punto di vista culturale. Non vuole ammettere che esistono anche idee diverse dalla sua. La Municipalità è una parte della città, le navi riguardano tutti. Bisogna affrontare il tema con umiltà».
La Municipalità e il suo presidente Martini nelle ultime sedute hanno affrontato temi portati avanti dalla maggioranza del Comune, votando spesso in maniera difforme. Non soltanto sulle grandi navi, con una frenata all’ipotesi di scavare il nuovo canale in laguna. Ma anche per i cambi d’uso da residenza da albergo. Facendo scoppiare il caso degli appartamenti trasformati in hotel in calle delle Rasse. La Municipalità è in questo momento la punta dell’opposizione alla giunta Brugnaro. «E non è vero che le elezioni le abbiamo perse sul tema grandi navi», ha detto Martini all’assemblea dell’altra sera, «perché il centrosinistra ha vinto nel centro storico e anche in Municipalità». Polemica che non è chiusa.
Trovare un’alternativa senza scavare nuovi canali, come chiedono i comitati e anche buona parte del Pd, vuol dire approfondire ipotesi che il Porto ha già scartato. Come l’avamporto a San Nicolò (Duferco) o l’ipotesi Marghera (D’Agostino). Oppure cercare una soluzione «mista», che possa mantenere la Marittima per le navi medie e le altre fuori della laguna. «La misura più efficace sarebbe quella di ridurre da subito il tonnellaggio», dice l’ex presidente Claudio Boniciolli e puntare su altri mercati. Ferruccio Falconi, ex capo dei piloti che ha al suo attivo 32 mila viaggi in laguna, rilancia l’ipotesi del terminal a San Nicolò. Dietro il Mose, riparato da bora, la nebbia di questi giorni dimostra la pericolosità della soluzione Marittima».

L'affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive».

L’interessante libro curato da Anna Donati e Francesco Petracchini Muoversi in città- Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Edizioni Ambiente 2015 - Collana Kyoto Club fa il punto sulle molte eterogenee innovazioni che interessano la mobilità urbana e formano, nell’insieme, un quadro di rapido e profondo cambiamento sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Proprio il fatto di affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo non solo uno strumento di conoscenza, ma uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive. Se ne sentiva francamente la necessità.

“Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia” recita il sottotitolo al volume. Dove il temine “mobilità nuova” fa riferimento a quegli Stati generali della Mobilità Nuova, giunti alle seconda edizione nel 2015, nei quali il confronto tra molti e differenti punti di vista ha portato ad elaborare una serie di principi e di concrete proposte di radicale innovazione. Secondo il Manifesto messo a punto in quella occasione «La Mobilità Nuova è un paradigma di organizzazione e gestione dei flussi di persone che impone il passaggio da un’ottica autocentrica a una umanocentrica». Con una attenzione senza precedenti ai movimenti a piedi, in bicicletta e alle diverse possibilità di trasporto pubblico e con un vero e proprio rovesciamento dei criteri di efficienza. Nella mobilità nuova assumono un peso prioritario obiettivi come la sicurezza, la salute delle persone, la vivibilità delle strade, l’equità sociale e la salvaguardia del territorio.

Questa “atmosfera” di fondo costituisce la chiave interpretativa delle innovazioni e dei casi di buone pratiche di cui il testo è ricco. Una interpretazione che permea in diversa misura tutti gli interventi dove si alternano ragionamenti di fondo sugli andamenti passati, sulle politiche e sulle prospettive dei prossimi decenni con approfondimenti su aspetti specifici, ciascuno affidato ad uno specialista del tema trattato. Gli approfondimenti spaziano sui molti aspetti rilevanti del problema. In primo luogo i temi classici dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2.

La questione della qualità dell’aria, affrontata da un gruppo di ricercatori del CNR, dà conto dei vantaggi davvero rilevantissimi in termini di allungamento delle aspettative di vita e anche in termini monetari che si potrebbero ottenere riducendo il numero di sforamenti del valore limite per il PM10 (medie giornaliere e numero di giorni), che caratterizzano drammaticamente molte città italiane oppure, ancor più efficacemente, riducendo le medie annuali di concentrazione del PM2,5.

Il contributo dei trasporti alle emissioni di CO2, puntualmente documentato da Mario Zambrini, è centralissimo al fine della possibilità stessa di conseguire gli obiettivi comunitari di riduzione al 2020 e poi quelli ancora più ambiziosi al 2030 o al 2050. Nel primo ciclo di riduzione delle emissioni il nostro paese è riuscito per il rotto della cuffia ad aumentare solo del 2% le emissioni del settore rispetto al 1990. Saggiamente l’autore argomenta che il ruolo della crisi economica nel ridurre le attività di trasporto, e dunque le emissioni, è probabilmente stato determinante. Per il futuro si pone dunque la necessità di ben più strutturali trasformazioni in vista della fine della crisi e della necessità di non ri-produrre le insostenibili tendenze del passato.

Tali trasformazioni richiedono strumenti di pianificazione più adatti ai tempi rispetto a quelli oggi in uso. La tradizionale ripartizione in strumenti di breve periodo (PUT-Piano Urbano del Traffico) e strumenti strategici di medio-lungo periodo (PUM-Piano Urbano della Mobilità) tende a perdere rilevanza nel contesto di forte rallentamento della espansione urbana, di drastica riduzione delle risorse disponibili per investimenti infrastrutturali e, al tempo stesso, per la applicazione diffusa di strumenti di governo della domanda come le politiche di pricing, di telecontrollo, di moderazione del traffico.

Tutte politiche che assumono senso solo se inserite in una pianificazione strategica orientata verso la sostenibilità accompagnata da regolari processi di Valutazione degli aspetti ambientali (VAS). Le argomentazioni in proposito avanzate da Alfredo Drufuca appaiono particolarmente interessanti, così come le aperture verso una nuova generazione di Piani dei trasporti: i PUMS (piani Urbani per la Mobilità Sostenibile). Questa nuova generazione di piani, ad oggi proposti a livello comunitario, costituiscono un reale cambiamento di paradigma, che pone al centro delle politiche per la mobilità non il traffico, ma la qualità della vita dei cittadini.

Le altre sezioni del libro trattano con ampiezza temi specificamente modali: la mobilità collettiva, le forme di mobilità condivisa come il car sharing o il car pooling (ma anche il controverso Uber), l’ampia gamma di esperienze e di soluzioni per il muoversi in bicicletta o ancora la distribuzione urbana delle merci. L’automobile è presente nella sua transizione verso tecnologie che rendano il veicolo sostenibile (motorizzazioni e carburanti), ma anche le innovazione normative, finanziarie e organizzative atte a trasformarla da bene individuale a servizio da usare solo dove e quando serve. Il tema dei “trasporti intelligenti” tratta delle applicazioni della telematica alle diverse modalità di trasporto, e offre un interessante spaccato di tecniche, di applicazioni non convenzionali, di modi nuovi di tariffazione e di informazione tra produttori e utenti dei servizi di trasporto

Ciascuno di questi temi è articolato in una “narrazione” particolarmente efficace. Dopo aver messo a fuoco il quadro dei problemi e delle innovazioni per ciascun tema sono esaminate le esperienze effettivamente realizzate da Amministrazioni locali italiane e di altri paesi, le nuove economie e gli interessi imprenditoriali attivati dalle nuove condizioni della mobilità, le associazioni che se ne occupano e il loro ruolo, le innovazioni ancora in fieri.

In coda mi sia concesso di citare la post-fazione da me scritta sul tema di prospettive per la mobilità urbana sostenibile che nascono da politiche “altre”. Il pezzo si intitola Non solo trasporti intendendo che una mobilità urbana sostenibile si ottiene anche cogliendo le opportunità di “risparmiare traffico” che derivano dalle politiche di rigenerazione urbana che vanno diffondendosi a livello europeo,

Sono politiche che hanno profondi effetti sui modi di muoversi ma nascono nell’ambito di strategie come le risposte al cambiamento climatico, oppure la tutela della biodiversità oppure ancora le iniziative per la coesione sociale. Ai fini della mobilità nuova una componente particolarmente interessante di tali politiche è costituita dalla green infrastructure, ovvero dalla formazione della rete continua di spazi aperti permeabili, parchi e giardini (pubblici e privati), alberate raccordati in modo da realizzare un vera e propria nuova infrastruttura urbana. Una nuova rete per regolare il microclima, assorbire CO2, rimpinguare le falde, gestire l’eccesso di acque di pioggia e anche permettere di muoversi senza mezzi motorizzati nella dimensione urbana, con capillarità, piacevolezza e sicurezza.

Il quadro delle idee, delle suggestioni, delle possibilità che derivano dall’insieme delle riflessioni presentate dal testo è sicuramente utile per gli addetti ai lavori, ma al contempo costituisce una notevolissima fonte di ispirazione per quanti tecnici delle amministrazioni locali, progettisti, associazioni, gruppi di interesse, si trovano ad aver a che fare con problemi di mobilità urbana.

«Il Ttp raccomanda al governo italiano di rivedere la Legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014». Il manifesto 10 novembre 2015 (m.p.r.)

Torino. «In Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione. Dall’altra parte, si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta».

Il Tribunale Permanente dei Popoli ha pronunciato, domenica pomeriggio in un teatro Magnetto di Almese (Torino) gremitissimo, una sentenza storica di condanna del metodo seguito per la definizione del Tav in Val Susa e dell’intero sistema che presiede, in Italia e in Europa, alle grandi opere. La sentenza è arrivata dopo alcuni giorni di sessione aperta al pubblico svoltisi a Torino alla Fabrica delle «e». È la prima volta che il tribunale internazionale d’opinione Ttp, fondato nel 1979 da Lelio Basso, come eredità dello storico «Russel» sui crimini del Vietnam, si esprime su una questione italiana. La giuria presieduta dal francese Philippe Texier, magistrato onorario della Corte suprema di Cassazione francese, ha accolto totalmente l’impianto accusatorio mosso dal Controsservatorio Valsusa, presieduto da Livio Pepino, che nella primavera del 2014 aveva presentato l’esposto.
Il Tribunale ha riconosciuto la responsabilità, oltre che dei promotori e delle imprese coinvolte, dei governi italiani degli ultimi due decenni e delle articolazioni dell’Unione europea che ne hanno accolto acriticamente le indicazioni senza effettuare i controlli e gli accertamenti richiesti dal movimento d’opposizione. Sono state, inoltre, disattese numerose convenzioni internazionali, in primis quella di Aarhus del 25 giugno 1998 sull’informazione e partecipazione dei cittadini in materia ambientale, ratificata in Italia con la legge 108 del 2001. Nel mirino anche l’avvio dei lavori al tunnel della Maddalena «grave, in quanto deciso prescindendo: dal principio di precauzione, senza uno studio preliminare di impatto ambientale».
La giuria, composta oltre che Texier da altri sette membri di diverse nazionalità (Italia, Colombia, Cile, Spagna e Francia), ha quindi concluso con specifiche raccomandazioni chiedendo, tra l’altro, ai governi italiano e francese di aprire «consultazioni serie delle popolazioni interessate, e in particolare degli abitanti della Val di Susa, per garantire loro la possibilità di esprimersi sulla pertinenza e la opportunità del progetto e far valere i loro diritti alla salute, all’ambiente e alla protezione dei loro contesti di vita» estendendo l’esame a tutte le soluzioni praticabili «senza scartare l’opzione "0"» e «sospendendo, in attesa dei risultati di questa consultazione popolare, seria e completa, la realizzazione dell’opera».
Il Ttp raccomanda al governo italiano di rivedere la Legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014. Il Tribunale ha chiesto di «sospendere l’occupazione militare della zona», toccata con mano dagli stessi giudici in occasione della visita esterna al cantiere della Maddalena di Chiomonte. E, occupandosi anche di altre questioni europee, ha raccomandato alla Francia, nel caso dell’aeroporto di Notre Dame des Landes, di presentare uno studio documentato sulla opportunità e necessità del progetto e le sue conseguenze sociali, economiche, ambientali e di sospendere la realizzazione dell’opera.
Come ha dichiarato Gianni Tognoni, segretario generale del Ttp, la sessione di Torino è stato un evento eccezionale, il primo della storia del tribunale a occuparsi di violazione dei diritti delle comunità nel cuore dell’Europa, «culla dei diritti dell’uomo». Nel Vecchio continente aveva emesso sentenze solo altre due volte sui crimini contro l’umanità nella ex Jugoslavia e sul disastro nucleare di Cernobyl. Le sentenze del Ttp non hanno alcun valore giuridico, ma solo morale e politico. Toccherà al governo Renzi non snobbarla.
Lettera che l'associazione "Poveglia per tutti" ha inviato al direttore dell'agenzia centrale del Demanio, sollecitando una risposta alla richiesta di concessione dell'isola e una nota del costituzionalista Paolo Maddalena


LETTERA DELL'ASSOCIAZIONE
"POVEGLIA PER TUTTI
Gentile Dott. Reggi,
Apprendiamo da fonti di stampa che martedì 20 ottobre lei avrebbe incontrato il Comune di Venezia anche per discutere la questione Poveglia, e che attenderete 'alcune settimane' per capire se detto ente locale abbia o meno qualche interesse per l'isola.
Pare strano doverlo ricordare, ma una comunità rappresentata da 4.478 persone di tutte le estrazioni sociali e culturali ha ben manifestato la propria disponibilità a prendersi cura di questo bene. Questa comunità attende una risposta non evasiva da 170 giorni. Ci sembra che escludere a priori la sussidiarietà orizzontale prevista dall'art.118 della Costituzione sia un cattivo costume di tempi passati, capace di leggere la nostra carta fondativa solo a righi alterni. Dov'è finita la prospettata 'capacità ricettiva di istanze locali'? Ci sembra invece continui l'eterno rimestare di rimandi, rimpalli, dilazioni, dissanguamento di buone volontà e scialacquio di competenze. Si arrenderebbe dinnanzi a tanta palude anche il più ostinato dei volenterosi.
Ci permetta di ricordarle che l'ultima funzione sociale dell'isola risale al 1968. In 47 anni, tra tentativi di vendita (1985, prezzo richiesto in valuta corrente 50.000 euro), tentativi di concessione a colossi turistici (1983, 1997), rinuncia del Comune alla prelazione a titolo gratuito (2013) e nuovi tentativi di vendita (2014), quella statale si è rivelata, nel complesso, una gestione fallimentare di questo bene della collettività. L'isola che vi è stata consegnata in ottimo stato è oggi ridotta ad un cumulo di macerie. Certo non gliene facciamo personale carico, lei è direttore generale da 396 giorni, ma 'alcune settimane' per chiarire l'interesse di chi non lo ha manifestato (date le finanze dissestate) ci sembra, francamente, altro tempo perso.
Sono 170 giorni che offriamo 400 mila euro a fondo perduto (raccolti con una colletta popolare che ha fatto parlare di noi tutto il mondo) al fine di avviare un percorso di investimenti, fosse anche per mezzo d’una concessione sperimentale, per la tutela di questo polmone verde della laguna ed il riscatto di un bene al quale la città è affezionata. Noi contiamo, in questi pochi anni, di dar vita ad un processo virtuoso, che attirerà investimenti e quindi nuovi restauri e concessioni sull’edificato, ovvero contiamo di avviare uno ‘startup sociale’ che dimostri che la comunità può laddove lo Stato non è riuscito. Contiamo di dimostrare che tra abbandono ed alberghi vi sono terze vie praticabili.
La burocrazia può, se preferisce, scommettere sul fatto che che non ci riusciremo, ovvero che manterremo a nostre spese un bene pubblico per poi restituirlo riqualificato. Ma rinunciare pregiudizialmente ad ogni via nuova col gioco del rimpallo dilatorio è poco innovativo, dura da mezzo secolo. L’asta è fallita un anno e mezzo fa, una bolla di sapone dall’ingente costo erariale, un tentativo di vendere ciò che per i cittadini, palesemente, non andava venduto.
Lasciate che adesso sia il turno d’una comunità ritrovata. Abbiamo dimostrato trasparenza, metodi partecipativi, capacità di coinvolgere soggetti associativi di tutte le categorie produttive, una città oltre gli steccati. Trascinare ogni naviglio nelle secche del grigiore, deperendo vie nuove, è triste, veramente triste. Avete la possibilità di firmare questa concessione a "Poveglia per Tutti" e vi è offerta, ad esempio, dal terzo comma dell'art.2 del DPR 13 settembre 2005, n. 296. Sappiamo che potete farlo. Lasciate ai veneziani e agli amici di questa città la cura di quello che lo Stato ha abbandonato, il mercato non ha comprato, il Comune non ha richiesto. Persistere su strade sbagliate azzoppa questo paese.
Con cordialità, l'Associazione Poveglia per tutti. 4.478 soci, una città, 170 giorni dopo.

Le alleghiamo queste belle righe del costituzionalista Paolo Maddalena sulla vicenda Poveglia.


NOTA DI PAOLO MADDALENA

«Poveglia non è proprietà dello Stato, ma, come da tempo ha affermato l’illustre amministrativista Massimo Severo Giannini, è proprietà del popolo veneziano. Si tratta di “proprietà collettiva demaniale” e il “Demanio” è solo gestore e tutore dell’integrità di questo luogo.

Poiché l’isola risulta abbandonata e priva di cure, i cittadini veneziani, veri proprietari dell’isola, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, possono svolgere attività dirette a salvare l’isola, secondo il principio di sussidiarietà.

Direi che non occorre una specifica autorizzazione, ma solo una preventiva comunicazione da parte di un gruppo di cittadini, che agiscano come “parte” dell’intera cittadinanza veneziana, nella quale si spieghi cosa si ha intenzione di fare. In caso di mancata risposta entro un congruo termine indicato nella comunicazione, si dovrà ritenere che il Demanio è d’accordo in base al principio, oramai generale per l’ordinamento giuridico italiano, del “silenzio-assenso”. In caso di risposta negativa, occorrerà impugnare il rifiuto davanti al TAR. Ma a questo punto, i funzionari del Demanio si assumerebbero una grave responsabilità per danno alla Collettività veneziana».

Paolo Maddalena è Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale.

Riferimenti

Sulla vicenda dell'isola si veda su eddyburg Poveglia per tutti: una ricchezza da non perdere

«Il presidente dei senatori Pd traccia la linea in una sala strapiena. “Bisogna fare presto, ma soprattutto fare bene”». La Nuova Venezia, 10 novembre 2015 con postilla (m.p.r.)

«Bisogna fare in fretta. Ma prima di tutto bisogna fare bene. Valutare le conseguenze di interventi e scavi che potrebbero compromettere in futuro l'equilibrio della laguna. Venezia è vissuta mille anni, dobbiamo fare in modo che resista almeno per altrettanti». Sala San Leonardo strapiena, ieri pomeriggio, per l'intervento del capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. Invitato dal circolo di Cannaregio del Pd veneziano e dalla sua segretaria Marina Rodinò per dire una parola chiara sulle grandi navi e le proposte alternative sul tappeto. In mattinata Zanda ha incontrato parlamentari e dirigenti del partito. Al termine dell'incontro, un comunicato rassicurante improntato all'unità.

Nel pomeriggio, davanti a una platea numerosa e attenta, Zanda è stato più esplicito. Rispetto per i livelli decisionali, un «augurio di buon lavoro al sindaco». E una premessa: «Non sono qui per dare pagelle ai vari progetti, e nemmeno per riaprire vecchie divisioni ideologiche che fanno solo male». Poi la svolta, da politico di lungo corso: «Lo scavo di un nuovo canale, anche di limitate dimensioni», scandisce, «può produrre erosione e degenerazione della laguna». A molti è sembrato un secco «no» all'ipotesi sostenuta adesso dal presidente del Porto Paolo Costa e dal sindaco Brugnaro sullo scavo delle Tresse, per far giungere le grandi navi in Marittima da Malamocco.
«Non bisogna affrontare la questione in termini ideologici», ha precisato Zanda, «è assurdo mettere di fronte la tutela del lavoro e la difesa della laguna. Ma abbiamo il dovere di calcolare le conseguenze a medio e a lungo termine degli interventi che facciamo». Presidente del Consorzio Venezia Nuova dal 1985 al 1995 («Allora ho garantito la legalità», sorride), ed eterno candidato a dirigere la mai nata Agenzia per Venezia, Zanda parla per la prima volta dopo vent’anni di Venezia e della laguna. Cita Luigi D’Alpaos, ingegnere che ha messo in guardia sullo scavo di nuovi canali profondi in laguna.
«Dobbiamo valutare bene», dice, «gli impatti e le conseguenze sull’ecosistema. Non possiamo più permetterci azioni come quelle degli anni Sessanta, l’acqua estratta dai pozzi artesiani, lo scavo del canale dei Petroli. E dobbiamo chiederci: qual è il limite per non mettere a rischio l’ecosistema? I canali sono stati pensati per far passare le navi a remi, non possiamo ingrandirli all’infinito». La proposta operativa, secondo Zanda, è quella già tracciata dal Senato due anni e mezzo fa: valutare tutti i progetti, seguire le indicazioni del Tar che ha bocciato il Contorta. «Le soluzioni vanno studiate bene, progettate e valutate». Applausi in sala.
postilla
Non riesco proprio ad essere ottimista come Vitucci sulle dichiarazioni di Zanda che ieri ha fatto il funambolo per non scontentare la platea, palesemente contro gli scavi, e l'impegno a sostenere l'unità del partito e quindi a non confrontarsi con la posizione di Alessandra Morette favorevole al nuovo progetto Brugnaro-Costa. Al contrario ho letto nel suo discorso un'apertura alla possibilità di una nuova grande opera. Generiche rassicurazioni sulla necessità di non fare come in passato opere di cui non si conoscono gli effetti, ma che vuol dire anche che se si «fa bene» quegli effetti si possono mitigare. È questa anche la posizione di Costa che dichiara che saranno chiamati tutti gli esperti e università, compreso Corila, per la progettazione del nuovo intervento. Due passaggi del suo discorso mi inquietano. L'affermazione che «non si può danneggiare Porto e occupazione» senza specificare quale occupazione e porre nessun limite all'espansione del porto, e l'affermazione che «tutti i piani devono essere valutati ad altissimo livello, comparando i progetti esecutivi». Sappiamo bene che i progetti presentati con un piano esecutivo sono quelli del Porto o di chi ha grandi interessi per la costruzione dell'opera. Con questa logica, saranno esclusi dal confronto idee e proposte, anche innovative come quella dell'Avamporto galleggiante alla bocca del Lido, che non abbiano la capacità economica di arrivare al progetto esecutivo. (m.p.r.)

«Il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, semmai rigorosamente bocciati. Eppure ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta“. Lettere al giornale. La Nuova Venezia, 8 novembre 2015 (m.p.r.)


Quando negli Stati Uniti vogliono vederci chiaro su qualche faccenda pubblica che non sembra affatto limpida, si dice Follow the Money, cioè segui il denaro, e sicuramente capirai. Il susseguirsi di presentazioni di progetti da parte del Non Porto di Venezia, con o senza sostegni politici locali, regionali o nazionali, ha del ridicolo. Terminali di qua e di là, canali di su e di giù. E tutto giustificato dal fatto che in fondo è la città che chiede al Porto di trovare quella particolare soluzione al problema “Grandi Navi”.

Continuo a ripetere che il problema “Grandi Navi” non è un problema ambientale o di sicurezza. Il problema è semplicemente di natura socio-economica: il turismo generato dal crocierismo sfrenato è a tutti gli effetti paragonabile al più becero turismo mordi e fuggi che tutti dicono di non volere, e, quindi, va ridimensionato e assolutamente non incentivato, tantomeno utilizzando dei soldi pubblici. E se il problema del rilancio di Venezia fosse soltanto una questione di reddito e di posti di lavoro, come sembra suggerire il sindaco di Venezia Brugnaro, basterebbe seguire il modello Amsterdam anni settanta e trasformare il centro storico nel più grande e più vecchio bordello con coffee shop e casinò annesso del mondo.

La questione Venezia è, per fortuna, molto più complessa. Partendo da questa premessa, il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, ma che tutti andrebbero semmai rigorosamente bocciati. Eppure, nella realtà, ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta. Il che mi riporta alla prima frase di questo breve intervento. Di fronte all’ultima trovata, cioè la proposta “Tresse Nuovo”, quanto “consenso” si può creare con 140 milioni di investimenti pubblici? Just follow the money!

Jan Vand Der Borg è Docente di Economia del Turismo a Ca’ Foscari, Venezia

Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015

Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.

«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).

Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.

«La capogruppo in Consiglio regionale appoggia il progetto alternativo delle Tresse di Brugnaro e Costa. Il presidente dei senatori del partito lunedì a San Leonardo è contrario allo scavo di nuovi canali». La Nuova Venezia, 6 novembre 2015 (m.p.r.)

«Non ci sono due Pd», ha ripetuto anche pochi giorni fa in un intervento il parlamentare veneziano Davide Zoggia, anche in riferimento all’atteggiamento del sindaco Brugnaro, in pieno feeling con Matteo Renzi, ma in contrapposizione con il partito a Venezia. Ma sulle Grandi Navi sembra proprio di sì, da Alessandra Moretti a Pier Luigi Zanda.

All’indomani della presentazione del progetto alternativo “Tresse nuovo”, con lo scavo del canale Vittorio Emanuele, alternativo al passaggio delle navi da crociera dal Bacino di San Marco da parte del sindaco Luigi Brugnaro e del presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa. E all’annuncio dell’amministratore delegato di Msc Crociere Gianni Onorato che ha annunciato l’intenzione della compagnia di diminuire del 40 per cento la propria presenza come numero di passeggeri nello scalo crocieristico veneziano: «Non esiste una legge che oggi ci vieti il transito, ma non possiamo nemmeno farci massacrare dall’opinione pubblica».
E ieri a far sentire la sua voce a fianco di Brugnaro e Costa e del progetto Tresse e a esprimere la preoccupazione per una diminuzione del traffico crocieristico, è stata ancora una volta il capogruppo del Pd in Consiglio regionale Alessandra Moretti. «La decisione di MSC Crociere di ridurre drasticamente del 40 per cento la presenza di passeggeri a Venezia nel 2016», ha dichiarato, «è la conseguenza di una politica che fin qui si è dimostrata miope e troppo esposta ad annunci estemporanei. Non si è fatto altro che tergiversare, decidendo di non decidere. Siamo giunti ad una situazione inquietante, surrogata da una profonda incertezza normativa che mette in crisi un settore strategico per l'economia di tutto l'Adriatico. Un progetto concreto esiste ed è il "Nuovo Tresse"presentato dal sindaco Brugnaro e dal presidente dell’Autorità portuale Costa: credo sia questa la soluzione migliore per mettere fine a questa imbarazzante impasse, con un “passaggio” alternativo che, in tempi e costi certi, riesce a coniugare l'esigenza di liberare Venezia dal passaggio delle crociere nel Canale della Giudecca e tutelare l'indotto occupazionale. Non possiamo più perdere tempo, è a rischio un comparto strategico per il Veneto e per l'Italia. Da parte mia, mi assumo l'impegno di sollecitare il Governo ed i ministeri competenti affinché i venti mesi previsti per realizzare il nuovo canale vengano rispettati».
Ma lunedì sarà a Venezia, invitato a parlare del problema Grandi Navi in Sala San Leonardo dal circolo Pd di Canaregio, il presidente dei senatori del partito Pier Luigi Zanda, che la vede in modo ben diverso dalla Moretti, come ha scritto già nella lettera inviata qualche mese fa ai ministri Franceschini, Delrio e Galletti. «Lo scavo e l'ampliamento di nuovi canali (Contorta o Vittorio Emanuele, non cambia) produrrebbe l'appiattimento anche di larghi spazi lagunari molto vicini a Venezia storica e insulare, che verrebbe così messa a forte rischio direttamente sia dal flusso delle maree, sia dal conseguente aumento vistoso della forza del moto ondoso». Zanda scriveva ai ministri che «la soluzione definitiva non può che essere quella di un terminale di attracco delle grandi navi fuori dalla laguna». «Non ho cambiato idea», commenta ora Zanda, «ma dirò quello che penso lunedì a Venezia, dopo aver esaminato anche il nuovo progetto delle Tresse».
Huffington post, 6 novembre 2014
Sulle prime, commentando il cambio di rotta del premier Renzi sul Ponte sullo Stretto, il professore Marco Ponti, docente al Politecnico e uno dei massimi esperti in Italia di economia dei trasporti, la butta sul ridere: “Sarà un colpo di sole”. Poi però, quando la discussione torna seria, Ponti mette in fila tutte le sue perplessità, non nascondendo una certa sorpresa, visto che il docente è, tra le altre cose, anche autore delle proposte in materia di trasporti nel libro di Yoram Gutgeld, fedele consigliere del presidente del Consiglio e oggi Commissario per la spending review. “Era una dura analisi contro le grandi opere berlusconiane”. Qualcosa non torna: ”Mi sembra che questa uscita manifesti invece il sorgere di un’ideologia molto berlusconica”.

Chiariamolo subito: realizzare il Ponte sullo stretto è una scelta giusta o sbagliata?
"Tutto si può fare, ma visto che i soldi pubblici sono pochi bisogna vedere se è un investimento sensato o no. Per decidere, innanzitutto occorre assolutamente fare analisi economiche e finanziarie "terze", cioè 'non chiedere all'oste se il vino è buono', comparative - in cui si confrontano diverse infrastrutture tra loro, e diverse soluzioni tecniche -, e trasparenti. Poi non è che devono decidere gli economisti, tocca sempre ai politici, ma occorre un dibattito democratico sulle priorità che sia basato su analisi solide, come si usa nei paesi sviluppati. Soprattutto se i soldi pubblici sono pochi, e i bisogni sociali molti e urgenti. In questo caso, dal punto di vista dell’utilità ci sono serissimi dubbi. Per dirla in parole povere: un ponte serve se ci passa tanta roba".

Non sarebbe così per il ponte sullo Stretto?
"Direi di no. Sia dal punto dei vista dei passeggeri sia da quello delle merci".

Non ci sarebbero abbastanza passeggeri?
"Bisogna considerare quelli di lunga distanza e quelli di breve. Per i primi l’aereo low cost è vincente come alternativa tanto in termini di tempi quanto in termini di costi, rispetto a auto o treni. Per i secondi dobbiamo considerare che il ponte collegherebbe due grossi conglomerati – Messina e Catania con Reggio Calabria - ,ma Il Ponte sarebbe scomodissimo, troppo a nord, il baricentro è lontano. Si sale molto in alto, si percorre il tragitto e poi bisogna scendere di nuovo. Bisogna ricordare che parliamo di un’infrastruttura altissima".

Le merci?
"Per la lunga distanza restano più convenienti le navi come alternativa. Per i traffici di breve distanza, tra Sicilia e Calabria, è difficile che ci siano scambi importanti".

Quindi è un’opera inutile?
"Ogni infrastruttura serve. Ma serve in relazione ai soldi che costa. Questa non mi sembra un’opera urgente. Dal punto di vista macroeconomico poi, molti studi dimostrano che ogni euro pubblico speso rende di più se speso in tante piccole opere, piuttosto che in poche grandi infrastrutture. Le prime sì che occupano un sacco di gente. C’è un problema però".

Quale?
"Che quelle non creano consenso. Posso dire in campagna elettorale: ho migliorato la rete stradale, ma in termini di ritorno di voti non mi porta nulla. Non è visibile come una grande infrastruttura come il ponte".

L’opera è imponente, quali sono le principali difficoltà nel realizzarla?
"Sarebbe il ponte sospeso più lungo del mondo, bisogna immaginare che i pilastri saranno alti 300 metri, come la Tour Eiffel. Le fondazioni di questi pilastri hanno delle dimensioni enormi, mai sperimentati, con effetti endotermici che non si possono prevedere".

Si è parlato recentemente anche della possibilità di realizzare l’opera solo per la ferrovia
"Sarebbe una follia. Se è per questo allora converrebbe solo stradale per il tipo di struttura. La domanda ferroviaria è piccolissima rispetto a quella stradale. Mi viene in mente che l’ex governatore Cuffaro prima di avere altri problemi aveva proposto la costruzione di un tunnel sotterraneo tra Sicilia e Tunisia. Quando si parla di sprecare soldi pubblici non c’è mai limite alla fantasia".

Riferimenti

A proposito del Ponte sullo Stretto potete trovare in eddyburg molti articoli nella cartella SOS Il ponte sullo Stretto, dedicata a quella demenziale proposta nel vecchio archivio (fino al 2013). Ma la presenza di una lobby ancora attiva era stata segnalata di recente da un articolo del Fatto quotidiano.

Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti

Il testo è costituito dall'ampia scaletta dell'intervento dell'autore al convegno sull'enciclica Laudato sì promosso dalla Casa della Carità di Milano e altre organizzazioni e svolto a Milano, nella sede dell'Umanitaria, il 4 novembre 2015

Scarto e cultura dello scarto sono concetti che attraversano tutta l’enciclica e a cui Francesco attribuisce grande rilievo come strumenti di analisi dello stato di cose presente, cioè del contesto all’origine tanto del degrado dell’ambiente che della diseguaglianza e dell’ingiustizia di cui sono vittime i poveri del mondo. Considera anzi la denuncia della cultura dello scarto e la lotta contro di essa uno degli assi portanti della sua enciclica:

«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?

Lo scarto e soprattutto
la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).

All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.

Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).

Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).

Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.

Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.

Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».

E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.

Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.

Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.

C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.

Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.

Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.

Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.

Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).

Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).

Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).

Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.

In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.

Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.

Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.

Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.

Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.

E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.

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