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COP21. Il devastante tentativo di operare sui problemi della nostra epoca immaginando che il capitalismo possieda la stessa utilità sociale di tre secoli fa e che il pianta Terra sia rimasto quello di allora. Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015
Il “vertice blindato” sul cambiamento climatico a Parigi mostra, perfino dal punto di vista semiotico, la coazione a ripetere della nostra modernità capitalistica. Un modello di sviluppo immaginato durante la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, quando i beni comuni ecologici e sociali erano sovrabbondanti (foreste, acqua, fauna, flora, villaggi, clan, gilde) mentre il capitale era scarsissimo. Da allora i giuristi, insieme a filosofi e scienziati, hanno lavorato alacremente per concentrare il potere al fine di trasformare i beni comuni in capitale, ossia il valore d’uso in valore di scambio.

Concentrare il capitale era necessario per risolvere bisogni collettivi importanti, dal cibo al rifugio, dalla sanità ai trasporti. I giuristi occidentali, hanno svolto un lavoro prodigioso per creare le basi istituzionali dello sviluppo capitalistico: proprietà privata, sovranità pubblica, libertà contrattuale, responsabilità limitata ai casi di colpa, società per azioni, sono talune delle principali istituzioni che hanno conquistato il comune sentire.

Oggi le condizioni sono opposte. Il capitale concentrato è abbondantissimo (quello finanziario stimato in dieci volte il Pil del mondo) e i beni comuni, ecologici e sociali, sono tutti in crisi terminale, vittimizzati rispettivamente dall’inquinamento e dall’individualizzazione capitalistica. Il riscaldamento climatico e l‘impronta ecologica dimostrano che occorre invertire la rotta.

Sostenendo di volerlo fare, i titolari della sovranità pubblica, le cui azioni sono oggi più che mai determinate dai desideri delle grandi concentrazioni di capitale privato (corrporazioni transnazionali) si blindano in un vertice dal quale molti sperano ancora possa uscire una soluzione dall’alto, magari tradotta in diritto sotto forma di trattato internazionale fra Stati. Qui sta la coazione a ripetere. Il vertice costituisce infatti l’immagine della concentrazione del potere. La blindatura è l’essenza dell’esclusione. Oggi tuttavia la funzione del diritto dovrebbe essere quella di trasformare capitale in beni comuni, creando istituzioni fondate sulla diffusione del potere e sull’inclusione collettiva.

Per invertire la rotta servono principi opposti a quelli che hanno consentito al capitalismo di realizzarsi e naturalizzarsi come pensiero unico, producendo un’ideologia di estrazione e sfruttamento tecnologico che noi occidentali cerchiamo di imporre a tutto il mondo col nome di crescita e sviluppo. Dobbiamo prima di tutto capire che la nostra stessa idea del diritto come prodotto del potere politico concentrato imposto dall’alto in basso è parte del problema e non può dunque essere la soluzione.

Il diritto non va più visto come astrazione formale, come una griglia di regole del gioco tracciate dai potenti ai sensi delle quali misurare e classificare come legali o illegali i comportamenti del corpo sociale. Il diritto deve essere cultura della legittimità sostanziale, traduzione in comportamenti del corpo sociale di una certa visione del mondo, ecologicamente sostenibile, capace di diventare egemonica. È Il diritto stesso dunque a necessitare una risistemazione ecologica complessiva in cui le sue basi vengano ridiscusse alla luce di mutamenti drammatici che hanno prodotto bisogni sociali letteralmente opposti rispetto ai tempi della rivoluzione industriale.

Il diritto deve essere prodotto dal basso attraverso la diffusione del potere, l’accesso e l’inclusione di quanti, e sono molti al mondo, hanno già maturato una soggettività ecologica. Costoro sfidano a buon diritto la legalità distruttiva del capitalismo. I loro comportamenti sono tanto illegali quanto quelli di Rosa Parks che resisteva l’apartheid per darci un mondo più giusto.

Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2015

Bene, bene, a quanto pare il ponte sullo Stretto di Messina si farà e Alfano aveva ragione: piano, piano, negli ambienti che contano un po’ tutti accetteranno la cosa. Prima il ministro delle Infrastrutture, a seguire il Capo del governo, ci mancava solo il ministro della Cultura e del TurismoFranceschini a rilanciare l’opera. Come ha detto a margine di un convegno, si tratta di un’idea che condivide «assolutamente» perché «l’alta velocità, non si può fermare a Salerno. Renzi ha posto il tema del ponte sullo stretto non come una cattedrale nel deserto, ma come un pezzo del disegno che porti l’alta velocità fino a Palermo e Catania».

A dare manforte a questo pensiero c’è pure il massimo vertice dell’Anas, l’amministratore delegato Armani, che considera l’opera “ovviamente” fattibile. In fondo si tratta solo di tre chilometri di distanza. Che volete che sia. Ma “A noi interessa” spiega Armani “perché come Anas siamo i detentori del progetto”.

Che il Ponte sullo Stretto fosse di nuovo su piazza era chiaro da tempo. Da molto prima che venisse approvata la mozione Ncd sulla riconversione dell’opera come infrastruttura ferroviaria. Dopo che il presidente Renzi ha annunciato alla stampa nazionale la volontà politica di realizzare il Ponte, l’Huffingtonpost.it ci ha messo due secondi a scrivere che una fonte di governo aveva dichiarato a microfoni spenti che «Renzi aveva di fronte due strade: o chiedere all’Anticorruzione di Cantone, che chissà come mai si occupa di tutto tranne che dello Stretto, di andare a vedere come si è creato un immane debito per lo Stato, o riaprire il dialogo con Salini. Il premier ha scelto la seconda, riaprendolo informalmente negli ultimi mesi. E il dossier Ponte sullo Stretto è stato affrontato anche nei viaggi in Cina, da sempre si parla di capitali cinesi nell’operazione Ponte, e in Sud America dove, tra i rappresentanti di varie imprese, c’erano anche quelli di Impregilo». E se escono notizie di questa portata è chiaro che c’è qualcuno che vuole che certe cose escano in un modo o nell’altro.

Non è un caso che Pietro Salini, amministratore delegato del Gruppo Salini-Impregilo, capo-fila del consorzio Eurolink che si trova in contenzioso con lo Stato per il pagamento delle penali, intervenga a stretto giro sul Corriere della Sera per dire che dal Ponte sullo Stretto arriveranno 10 miliardi di euro all’Italia e che, soprattutto, esiste già una stima interna secondo cui il Ponte può autofinanziarsi, dare lavoro a 40.000 persone e, infine, accedere ai finanziamenti del Piano Junker.

Intanto al Senato si discute del disegno di legge di Stabilità 2016 e vengono respinti entrambi gli emendamenti presentati rispettivamente da M5S e Sinistra Italiana n. 41.1 e n. 41.8, volti, da un lato, a sopprimere integralmente le disposizioni che individuano la Cassa depositi e prestiti S.p.A. come istituto nazionale di promozione sugli investimenti strategici e, dall’altro, tesi ad escludere che la Cassa Depositi e Prestiti possa contribuire alla progettazione e realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.

A questo punto, senza dovermi ripetere su quel che penso del Ponte sullo Stretto di Messina, la domanda al Governo è questa: ci sono state innumerevoli occasioni in cui tanti esponenti del Parlamento hanno chiesto chiarezza sulla questione del Ponte e delle penali che lo Stato dovrebbe pagare in caso di mancata realizzazione. E a questo punto, se c’è un dossier sul Ponte sullo Stretto di Messina, perché non lo tirate fuori?

La mozione approvata del Gruppo Ncd parla di una riconversione del ponte in infrastruttura ferroviaria. Perché nel disegno di legge di stabilità 2016 l’intervento più significativo in materia di infrastrutture e trasporti è quello riconducibile al contributo in conto impianti a rete ferroviaria italiana per un importo pari a 241 milioni di euro per l’anno 2017, 600 milioni per l’anno 2018 e 7.500 milioni di euro nel periodo 2019-2025, anche a fronte di una intervenuta riduzione per il 2016 di 291 milioni di euro derivante dall’approvazione di un emendamento al Senato? Dove andranno a finire tutti questi soldi?

Qualunque strategia intenda intraprendere il governo sul Ponte sullo Stretto di Messina, il parlamento, innanzitutto, dovrebbe essere messo in grado quanto meno di conoscerne i contenuti. In questi giorni si è molto parlato sulla necessità di coinvolgere le Camere sul piano di privatizzazione di Ferrovie dello Stato. Vero che siamo ancora in sessione di bilancio e i ministri hanno altro a cui pensare quando si votano gli emendamenti al disegno di legge sulla Stabilità, ma una maggiore chiarezza sulle decisioni strategiche che riguardano direttamente lo sviluppo del Paese non possono sempre piovere dall’alto, senza che tutto il resto del mondo non ne sappia nulla e senza, soprattutto, che Parlamento possa esercitare pienamente la propria funzione di controllo e di indirizzo politico che gli è propria, almeno quanto la funzione legislativa. Le commissioni parlamentari competenti per materia, del resto, esistono anche per svolgere audizioni e indagini conoscitive su specifiche questioni, come quella del “Ponte”.

Riferimenti

Moltissimi articoli sul ponte dello Stretto sono raccolti in eddyburg, soprattuttto nel vecchio archivio, e precisamente nella cartella Il Ponte sullo stretto. Articoli più recenti li potete trovare digitando nel "cerca" le parole "Ponte dello stretto"

«Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose». La Repubblica, 1 dicembre 2015 (m.p.r.)

Dopo gli attacchi terroristici, ci sono purtroppo seri rischi che i dirigenti francesi e occidentali abbiano la testa altrove e non facciano gli sforzi necessari perché la Conferenza sul clima di Parigi vada a buon fine. Sarebbe un esito drammatico per il pianeta. Innanzitutto perché è arrivato il momento che i paesi ricchi si facciano carico delle loro responsabilità storiche di fronte al riscaldamento climatico e ai danni che già adesso arreca ai paesi poveri. In secondo luogo perché le tensioni future su clima ed energia sono gravide di minacce per la pace mondiale.

A che punto è la discussione? Se ci atteniamo agli obbiettivi di riduzione delle emissioni presentati dagli Stati, i conti non tornano. Siamo avviati lungo una traiettoria che porta verso un riscaldamento superiore ai tre gradi e forse più, con conseguenze potenzialmente cataclismatiche, in particolare per l’Africa, l’Asia meridionale e il Sudest asiatico. Anche nell’ipotesi di un accordo ambizioso sulle misure di mitigazione delle emissioni, è già sicuro che l’innalzamento dei mari e l’aumento delle temperature provocherà danni considerevoli in molti di questi Paesi. Si calcola che sarebbe necessario mettere in campo un fondo mondiale da 150 miliardi di euro l’anno per finanziare gli investimenti minimi necessari per l’adattamento ai cambiamenti climatici (dighe, ridislocazione di abitazioni e attività ecc.).
Se i Paesi ricchi non riescono nemmeno a mettere insieme una somma del genere (appena lo 0,2 per cento del Pil mondiale), allora è illusorio pretendere di convincere i Paesi poveri ed emergenti a fare sforzi supplementari per ridurre le loro emissioni future. Al momento le somme promesse per l’adattamento sono inferiori a 10 miliardi.
Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose. Innanzitutto che il volume delle emissioni dev’essere rapportato alla popolazione di ogni Paese: la Cina ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, poco meno del triplo dell’Europa (500 milioni) e oltre quattro volte di più del Nordamerica (350 milioni). In secondo luogo, il basso livello di emissioni dell’Europa si spiega in parte con il fatto che noi subappaltiamo massicciamente all’estero, in particolare in Cina, la produzione dei beni industriali ed elettronici inquinanti che amiamo consumare.
Se si tiene conto del contenuto in CO2 dei flussi di importazioni ed esportazioni tra le diverse regioni del mondo, le emissioni europee schizzano in su del 40 per cento (e quelle del Nordamerica del 13 per cento), mentre le emissioni cinesi scendono del 25 per cento. Ed è molto più sensato esaminare la ripartizione delle emissioni in funzione del paese di consumo finale che in funzione del paese di produzione.
Constatiamo in questo modo che i cinesi emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica l’anno e per persona (più o meno in linea con la media mondiale), contro 13 tonnellate per gli europei e oltre 22 tonnellate per i nordamericani. In altre parole, il problema non è solamente che noi inquiniamo da molto più tempo del resto del mondo: il fatto è che continuiamo ad arrogarci un diritto individuale a inquinare due volte più alto della media mondiale.
Per andare oltre le contrapposizioni fra Paesi e tentare di far emergere delle soluzioni comuni, è essenziale sottolineare anche che all’interno di ciascun Paese esistono disuguaglianze immense nei consumi energetici, diretti e indiretti (attraverso i beni e i servizi consumati). A seconda delle dimensioni del serbatoio dell’auto, della grandezza della casa, della profondità del portafogli, a seconda della quantità di beni acquistati, del numero di viaggi aerei effettuati ecc., si osserva una grande diversità di situazioni.
Mettendo insieme dati sistematici riguardanti le emissioni dirette e indirette per Paese e la ripartizione dei consumi e dei redditi all’interno di ciascun Paese, ho analizzato, insieme a Lucas Chancel, l’evoluzione della ripartizione delle emissioni mondiali a livello individuale nel corso degli ultimi quindici anni. Le conclusioni a cui siamo arrivati sono chiare. Con l’ascesa dei paesi emergenti, ora ci sono grossi inquinatori su tutti i continenti ed è quindi legittimo che tutti i paesi contribuiscano a finanziare il fondo mondiale per l’adattamento. Ma i paesi ricchi continuano a rappresentare la stragrande maggioranza dei maggiori inquinatori e non possono chiedere alla Cina e agli altri paesi emergenti di farsi carico di una responsabilità superiore a quella che gli spetta.
Per andare sul concreto, i circa 7 miliardi di abitanti del pianeta emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica per anno e per persona. La metà che inquina meno, 3,5 miliardi di persone, dislocate principalmente in Africa, Asia meridionale e Sudest asiatico (le zone più colpite dal riscaldamento climatico) emettono meno di 2 tonnellate per persona e sono responsabili di appena il 15 per cento delle emissioni complessive. All’altra estremità della scala, l’1 per cento che inquina di più, 70 milioni di individui, evidenzia emissioni medie nell’ordine di 100 tonnellate di CO2 pro capite: da soli, questi 70 milioni sono responsabili di circa il 15 per cento delle emissioni complessive, quanto i 3,5 miliardi di persone di cui sopra.
E dove vive questo 1 per cento di grandi inquinatori? Il 57 per cento di loro risiede in Nordamerica, il 16 per cento in Europa e solo poco più del 5 per cento in Cina (meno che in Russia e in Medio Oriente, con circa il 6 per cento a testa). Ci sembra che questi dati possano fornire un criterio sufficiente per ripartire gli oneri finanziari del fondo mondiale di adattamento da 150 miliardi di dollari l’anno. L’America settentrionale dovrebbe versare 85 miliardi (lo 0,5 per cento del suo Pil) e l’Europa 24 miliardi (lo 0,2 per cento del suo Pil).
Queste conclusioni probabilmente saranno sgradite a Donald Trump e ad altri. Quel che è certo è che è arrivato il momento di riflettere su criteri di ripartizione basati sul concetto di un’imposta progressiva sulle emissioni: non si possono chiedere gli stessi sforzi a chi emette 2 tonnellate di anidride carbonica l’anno e a chi ne emette 100. Qualcuno obbietterà che criteri di ripartizione del genere non saranno mai accettati dai Paesi ricchi, in particolare dagli Stati Uniti. E infatti le soluzioni che saranno adottate a Parigi e negli anni a venire probabilmente saranno molto meno ambiziose e trasparenti. Ma bisognerà trovare delle soluzioni: non si riuscirà a fare nulla se i Paesi ricchi non metteranno mano al portafogli.
L'articolo è stato pubblicato da Le Monde. Traduzione di Fabio Galimberti

«A Oslo e Amburgo la popolazione ha valutato come insostenibile economicamente l'evento sportivo. Per il 2014 restano in lizza Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato promotore presieduto da Montezemolo continua a creare sotto-comitati. Ma non intende interpellare i cittadini». Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015

Nessuno vuole più le Olimpiadi. Data la crescita esponenziale delle spese rispetto al budget previsto – basti pensare a Londra 2012, che ha vinto l’assegnazione con un progetto di spesa di meno di 3 miliardi di sterline e ha finito per spenderne più di 12 – e il fuggi fuggi generale delle città candidate, il Cio aveva deciso con la promulgazione della Olympic Agenda 2020 di imporre Giochi low cost. Ma non è bastato, e in vista dell’assegnazione dei giochi del 2024, la scelta definitiva nel settembre 2017, ieri ancheAmburgo ha detto no. O meglio, hanno detto no i cittadini che hanno votato a maggioranza al referendum per respingere la proposta di candidatura.

Restano in corsa quindi solo Budapest, Parigi, Los Angeles e Roma, dove il Comitato Promotore presieduto da Luca Montezemolo, che può contare su un budget di una decina di milioni circa, continua a creare sotto-comitati: da ultimo quello dei garanti per la trasparenza e la legalità. Dati i luoghi dove si vorrebbe costruire per Roma 2024, e i precedenti delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e dei Mondiali di Nuoto di Roma 2009, avrà molto da lavorare.

Esclusa Budapest, per la deriva autoritaria presa dall’Ungheria, le alternative a Roma rimangono quindi Parigi (che si è vista sfilare in modo assai sospetto quelle del 2012, e i cui recenti attentati suggerirebbero una compensazione, comeTokyo 2020 dopo il disastro di Fukushima) e Los Angeles, dove gioca il potentissimo player Casey Wasserman che ha ramificazioni a Hollywood e nel marketing sportivo. Los Angeles è candidatura dell’ultimo minuto, dopo che la prescelta dal comitato olimpico statunitense, ovvero Boston, si è ritirata, come ha fatto quest’estate Toronto. E come ha fatto ieri Amburgo, infliggendo una pesantissima batosta allo stesso capo del Cio, il tedesco Thomas Bach, dove tra inchieste e dimissioni per la corruzione che ha segnato l’assegnazione dei Mondiali di Germania 2006, la cittadinanza non si è fidata nemmeno del budget low cost previsto di 5 milioni. Un’inezia rispetto ai 50 miliardi spesi dalla Russia per Sochi, un salasso per una città europea.

Dopo Sochi 2014, infatti, le prossime Olimpiadi invernali continueranno a guardare a Est e saranno a Pyeongchang (Sud Corea) nel 2018 e a Pechino (Cina) nel 2022. Se la Corea ha battuto le candidature nemmeno troppo convinte di Annecy (Francia) e Monaco di Baviera, la Cina se l’è vista in finale con Almaty (Kazakistan) dopo che si sono ritirate Stoccolma e poi Cracovia, Oslo e l’accoppiata Davos e St Moritz, queste ultime tre a seguito di un referendum cittadino che ha visto la popolazione schierarsi compatta per il “no” ai Giochi. E quindi in barba al criterio della rotazione, ecco che per tre edizioni consecutive le Olimpiadi invernali – quattro se mettiamo di mezzo i Giochi estivi di Tokyo 2020 – si terranno in paesi il cui tasso di crescita può sostenerle. A dimostrazione che, al di là degli enfatici proclami pubblicitari di chi ha interessi economici e politici nell’organizzare un grande evento, è oramai assodato che i Giochi Olimpici sono un salasso per le città e i governi che li ospitano.

Se Denver nel 1972 rimane l’unica città che abbia rinunciato alle Olimpiadi dopo essere stata scelta come città ospitante (quelle del 1976, poi finite a Montreal, che sono state un disastro economico per la città, che ci ha messo più di 30 anni per pagare i debiti e ancora soffre per gli impianti costruiti e mai più utilizzati, compreso lo Stadio Olimpico finito di pagare nel 2006 e attualmente senza padrone), ora è incredibile il numero di città che si sfilano in fase di candidatura. La novità è sicuramente il referendum cittadino: ovunque sia stato fatto ha vinto il “no”, anche in città come Oslo e Amburgo, dove le previsioni erano per una larga maggioranza di “sì”. Le Olimpiadi come grandi eventi tesi a privatizzare i profitti e socializzare le perdite non convincono più nessuno. Esclusa forse Los Angeles, che avrebbe già tutti gli impianti pronti e potrebbe calmierare le spese, nel caso di un referendum a Roma e a Parigi la risposta sarebbe sicuramente “no”. Forse è per questo che non sono previste consultazioni popolari.

Secondo un nuovo rapporto dell'Agenzia europea dell'ambiente (Aea), nel nostro paese, nel 2012, sono morte prematuramente 84.400 persone a causa dell'aria inquinata (in Europa 491 mila). La pianura padana ancora una volta si conferma come il territorio più esposto ai veleni delle automobili e degli impianti di riscaldamento». Il manifesto, 1 dicembre2015

Siccome sappiamo che dobbiamo morire ma non quando dobbiamo morire, questi dati continuano a non spaventarci: secondo un rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), nel 2012 l’Italia ha segnato il record europeo di morti premature causate dall’inquinamento dell’aria. Sono 84.400 persone morte in un anno su un totale di 491 mila in Europa. Nel mondo sarebbero 7 milioni le persone morte per l’aria inquinata (fonte Oms). Della strage si sapeva da tre anni (i dati non sono proprio freschi) eppure non si è registrata alcuna ondata di panico nell’opinione pubblica, né una sincera presa di coscienza da parte di organismi politici internazionali, stati più o meno sovrani e pubblici amministratori.

Le emissioni mortali sono note. Le micro polveri sottili (Pm 2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono che si forma nell’atmosfera (O3) sono responsabili rispettivamente di 59.500, 21.600 e 3.300 morti all’anno in Italia. Le micro polveri sottili, prodotte dalle automobili e dagli impianti di riscaldamento, nell’Ue provocano 403.000 vittime all’anno: nel 2013, secondo l’Oms, l’87% della popolazione urbana europea ha respirato concentrazioni di Pm 2.5 superiori ai limiti consentiti.

L’epicentro dell’ecatombe è come sempre il territorio della pianura padana per la sua conformazione orografica, con le aree intorno a Torino, Milano, Monza e Brescia che superano il generoso limite della Ue che fissa la soglia a una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria (Venezia lo sfiora appena). In realtà i gas mortiferi uccidono ben al di là della pianura padana se è vero che l’Oms raccomanda una soglia massima di emissioni di 10 microgrammi e che presto queste soglie di allarme dovrebbero essere riviste al ribasso: Roma, Firenze, Napoli, Bologna e Cagliari sono abbondantemente oltre.

“Nonostante i continui miglioramenti registrati negli ultimi decenni — ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aea Bruyninckx — l’inquinamento atmosferico interessa ancora la salute generale degli europei poiché riduce la loro qualità della vita e l’attesa di vita. Ha anche effetti economici considerevoli, aumentando le spese mediche e riducendo la produttività per i giorni di lavoro persi”. Gli inquinanti atmosferici possono causare o aggravare diverse patologie cardiovascolari e polmonari (infarti e aritmie).

Queste sono giornate parigine di grandi appelli alla responsabilità per salvare il pianeta e i suoi abitanti, ma è improbabile che il rapporto dell’Aea costringa la Ue ad imporre limiti più rigidi sulle emissioni dei veicoli inquinanti se è vero che ultimamente proprio l’Europa ha proposto di rivedere al rialzo lo sforamento fino al 210% nelle emissioni di ossidi di azoto nei test delle auto Euro 6 (solo l’Olanda ha rifiutato la proposta).

Eppure ormai esiste una vasta letteratura scientifica sugli effetti nocivi e sui costi dell’inquinamento atmosferico che si spingono ben oltre il dato sulle morti premature per malattie polmonari e cardiache. Secondo uno studio condotto dall’università del Montana e reso pubblico la scorsa primavera da una rivista di psichiatria americana durante la conferenza di Haifa, polveri sottili e idrocarburi entrando nel circolo sanguigno potrebbero “inquinare” alcune funzioni del cervello e contribuire a generare depressione e psicosi. Tra gli altri effetti accertati di alcuni composti chimici provocati dagli idrocarburi ci sarebbe anche la capacità di influire sul sistema endocrino dei feti e dei neonati aumentando il rischio di contrarre alcune malattie nel corso della vita adulta.

Ma piangere i morti quando escono le statistiche non serve a nulla se l’Europa continua ad agevolare la lobby dell’industria automobilistica senza investire sulla mobilità leggera. Bruno Valentini, sindaco di Siena e delegato Anci all’Ambiente, ieri ha chiesto una conferenza nazionale sulla salute nelle città. “E’ sempre più urgente dotarsi in Italia di una legge sulle città. Se avessimo responsabilità chiare e le risorse potremmo lavorare per avere città con aria pulita, soprattutto con piani di gestione del traffico e politiche della mobilità capaci di cambiare questi trend. Chiederemo a tutte le istituzioni interessate risposte concrete rispetto alle procedure di infrazione comunitaria cui è già esposto il nostro paese”.


Resta «come elemento dominante del quadro contemporaneo l’esercizio in persona prima e la proposta instancabile di una personalità d’intellettuale, il quale anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons, assumesse e mantenesse ad ogni costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico [...] Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori percepisse con chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi nel 1934, al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata la riproduzione del gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir claire la nuit». Così annotava Carlo Ludovico Ragghianti – storico dell’arte, ma anche presidente del Cln toscano e capo del governo provvisorio che liberò Firenze – ridando alle stampe, nel 1972, il suo Profilo della critica d’arte in Italia scritto esattamente trent’anni prima».

Fa una certa impressione rileggere questa pagina nell’Italia del 2015: perché certo siamo lontanissimi dalla tragedia degli anni Quaranta del secolo scorso, e tuttavia il riemergere di pulsioni e riforme di marca chiaramente autoritaria si intreccia con un esplicito disprezzo verso le voci del dissenso, specie se espresse da professori – additati di nuovo come «gufi», che hanno appunto il torto di veder chiaro nella notte. È proprio per questo che credo sia necessario fissare lo sguardo in quella che appare come la notte dei musei italiani: perché nella riforma varata dal governo Renzi le ombre prevalgono nettamente sulle luci. Se lo farò «in prima persona», per riprendere le parole di Ragghianti, è perché avverto la pesante responsabilità di aver contribuito ad avviare il processo che ha portato a questa infausta conclusione.

Sono stato infatti tra i primi – se non il primo – ad aver posto la questione dell’autonomia dei musei in seno alla commissione per la riforma del ministero per i Beni culturali nominata dal ministro Massimo Bray. Nella relazione finale licenziata da quell’organismo il 31 ottobre 2013 si rinviene una traccia di quella approfondita discussione:

«Con riferimento agli Istituti culturali operanti sul territorio, è emersa con forza l’idea di conferire ad essi un’ampia autonomia tecnico-scientifica e gestionale, prendendo spunto anche dall’assetto delle strutture periferiche dell’amministrazione francese che si occupano di beni culturali: ciò nella convinzione che le strutture operanti sul territorio siano i migliori presidi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale e che vadano salvaguardate al massimo le capacità dei corpi tecnici, spesso sacrificate nelle amministrazioni pubbliche italiane. Con particolare riferimento ai Musei, è auspicabile che la loro autonomia si estenda, quanto più possibile, anche alla definizione degli orari di apertura e dei prezzi dei biglietti. Ovviamente, la maggiore autonomia deve essere affiancata da una maggiore trasparenza: ad esempio, tutti i Musei dovrebbero realizzare un report annuale che dia una panoramica delle attività svolte e mostri come le risorse siano state impiegate, rendendo anche disponibili gli elenchi delle acquisizioni, l’illustrazione delle mostre, delle attività educative, didattiche e di ricerca».

Non si tratta di un testo felice, né particolarmente incisivo: eppure basta a chiarire due punti fondamentali. Il primo è che l’autonomia era stata pensata innanzitutto in termini tecnico-scientifici, il secondo è che essa avrebbe dovuto riguardare non solo i musei ma tutti gli istituti culturali (a partire dalle biblioteche e dagli archivi). La mia personale idea era che tali istituti non recidessero il cordone ombelicale che li lega al contesto ambientale e culturale – perché è questo sistema di nessi il vero capolavoro della nostra tradizione –, ma che le comunità scientifiche lì residenti acquistassero finalmente una autonomia culturale sostanziale: e cioè la possibilità (giuridica e finanziaria) di costruire e attuare un progetto culturale fondato sulla produzione della conoscenza (attraverso la ricerca) e sulla sua redistribuzione (attraverso la didattica, la divulgazione, l’apertura più radicale possibile ai cittadini).

In ogni caso, la relazione ammoniva a tenere conto dei «problemi cronici nei quali versano le gestioni attuali delle Soprintendenze italiane», tra i quali veniva citata al primo posto l’«insufficienza delle risorse»: qualunque riforma a costo zero (o addirittura con l’ambizione di tagliare ulteriormente le risorse di un sistema ridotto allo stremo) avrebbe potuto determinare la crisi irreversibile e finale del sistema della tutela pubblica. Che è quel che è poi puntualmente successo.

Oltre a questo irredimibile peccato originale, gli errori fatali della cosiddetta riforma Franceschini (disposta dal Dpcm 171 del 29 agosto 2014, dettagliata dal Dm del 23 dicembre 2014 e in corso di applicazione durante il corrente 2015) sono, a mio avviso, tre. Il primo è la separazione radicale, e direi violenta, tra tutela e valorizzazione: la prima lasciata alle soprintendenze, la seconda prospettata come unica mission dei musei.

Ciò deriva dall’interpretazione, oggettivamente eversiva, della valorizzazione non come finalizzata all’aumento della cultura (come vuole – recependo il dettato costituzionale e le sentenze della Corte costituzionale – il Codice dei Beni culturali) ma invece come messa a reddito del patrimonio. Da qui l’idea di non occuparsi di luoghi improduttivi (implicitamente destinati all’estinzione: gli archivi e le biblioteche), e quella di sfilare venti supermusei (sette di prima classe, tredici di seconda) su cui concentrare risorse e attenzione. Errore nell’errore, la creazione di Poli regionali museali in cui gettare alla rinfusa tutto ciò che avanza (musei veri e propri, siti archeologici, monumenti), con l’unico criterio, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli; se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze.

Naturalmente, essendo la riforma fatta a costo zero – e anzi contenendo la ratifica del permanente ridimensionamento della pianta organica del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact) da 25.500 a 19.050 unità di personale – la maggior attenzione attribuita alla valorizzazione si traduce, automaticamente, nello strangolamento della funzione di tutela. Sui miseri 377 storici dell’arte che oggi lavorano nel Mibact, ben 240 lavoreranno nei musei. Il che significa, per esempio, che un solo storico dell’arte dovrà occuparsi di
tutte le Marche,
in tre dovranno
tutelare Milano,
Como, Bergamo, Lecco, Lodi,
Monza-Brianza,
Pavia, Sondrio e Varese, in due Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, in sette tutta la Campania di De Luca, e ancora in tre Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara. L’Istituto nazionale per la Grafica avrà tanti storici dell’arte (nove) quanti le soprintendenze di Roma, Napoli e Firenze (con Prato e Pistoia) messe insieme; a Venezia quattordici storici dell’arte per i musei, mentre per città e Laguna solo quattro; a Caserta cinque saranno chiusi nella Reggia, e uno difenderà il territorio. Commentando questo quadro desolante, Salvatore Settis ha detto che «sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate». Alcuni dati di fatto certificano che la percezione di Settis è esatta: la ratio della cosiddetta riforma Franceschini si capisce fino in fondo quando la si legga insieme agli altri principali provvedimenti presi, in materia, dallo stesso governo Renzi. Citiamo soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l’annunciato rilassamento della legislazione sull’esportazione delle opere d’arte. Fedele al suo programma «culturale» («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l’articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.

Il secondo errore radicale è aver scommesso tutto non sulle comunità scientifiche dei musei, ma sulla figura monocratica del direttore. Un errore che deriva da uno stato di fatto (per le ragioni appena dette, quelle comunità scientifiche di fatto non esistono: e anche in alcuni dei venti supermusei lo staff si riduce letteralmente a due funzionari), ma anche da una prospettiva culturale neoautoritaria: la stessa che modifica la Costituzione e la legge elettorale invocando mani libere per l’esecutivo, che verticalizza la scuola esaltando i presidi, che assolve da ogni vincolo sociale il datore di lavoro.

Se, almeno, quei direttori fossero stati scelti in modo serio e trasparente la riforma avrebbe segnato un punto sul campo. Ma così non è stato: al di là della propaganda governativa (e con il massimo rispetto dei nuovi direttori, cui non si può che augurare ogni bene), i risultati sono stati oggettivamente modesti. La «grande levatura scientifica internazionale», sbandierata da Dario Franceschini sulla prima pagina di un’«Unità» decisamente postgramsciana, semplicemente non esiste. Sono stati promossi a direttori di grandi, e a volte grandissimi musei, storici dell’arte che erano curatori di sezioni di musei di secondo o terzo ordine: nemmeno uno dei nuovi nominati ha avuto esperienze lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge ad assumere. In due casi estremi – attestati entrambi in Campania: la Reggia di Caserta e il Museo archeologico nazionale di Napoli – sono state scelte figure professionali dalle competenze remotissime, e francamente incomparabili alle enormi responsabilità in gioco. Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano.

Quando le terne di idonei composte dalla commissione sono state rese note (con quasi due mesi di ritardo dall’annuncio dei risultati finali) è stato evidente che – nonostante la presenza, fra i cinque commissari, di due autorevoli rappresentanti della comunità scientifica internazionale – la scelta era stata ideologicamente orientata. Laddove l’ideologia era la aprioristica determinazione ad escludere (con una sola eccezione su venti) tutti i funzionari interni del ministero: arrivando fino a non comprendere nella terna degli Uffizi chi li aveva diretti per nove anni. Ma, forse, il dato più
impressionante
è il ricorrere de-
gli stessi nomi,
giudicati idonei
per musei radi-
calmente diversi tra loro: la terna degli Uffizi e quella della Galleria Borghese si sovrappongono per due terzi, e lo stesso accade per i Musei archeologici di Taranto e Reggio Calabria. E la commissione ha giudicato gli stessi candidati buoni indifferentemente per musei radicalmente diversi (l’Accademia di Venezia e Brera; Brera e la Gnam di Roma; Torino e Urbino; e addirittura l’Estense di Modena, Barberini a Roma, il Bargello di Firenze e la Galleria Nazionale dell’Umbria...). Questo impressionante valzer di nomi che tornano buoni per tutte le posizioni indica due cose. La prima è che le candidature giudicate potabili anche con la manica larga della commissione erano incredibilmente poche, e che dunque il bando si è risolto in un fallimento che ha messo i selezionatori con le spalle al muro.

La seconda è che la competenza scientifica, semplicemente, non conta: la figura di direttore di museo si avvia a diventare un po’ come quella del curatore nell’arte contemporanea. Si è direttori a prescindere da cosa si dirige. Ma, ammesso che la cosa abbia senso in America o in Inghilterra, non ne ha per nulla in Italia: dove le collezioni hanno storie individualissime che non le rendono intercambiabili tra loro.

Questo esito sconcertante è il traguardo di una serie di passi falsi. Uno è aver emesso il bando prima di aver reso ben chiari e fermi i poteri sostanziali dei direttori, i finanziamenti dei musei, i rapporti futuri con gli onnivori concessionari for profit che di fatto da vent’anni tengono in pugno i grandi musei: una fretta che ha sconsigliato i veri direttori di museo dal presentare la domanda,

Un altro è aver sommato in un unico bando venti musei diversissimi tra loro, con il bel risultato che la commissione ha avuto (nella migliore delle ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindici minuti (questo è un dato ufficiale) per il colloquio che ha deciso la sorte degli Uffizi, o di Capodimonte. Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista preliminare di due ore, un colloquio privato col direttore di due ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in un quarto d’ora. Un terzo passo falso è aver attribuito un enorme potere discrezionale, diretto e indiretto, al ministro: la commissione contava solo due tecnici (un archeologo e uno storico dell’arte, entrambi professionalmente non italiani), accanto a una manager museale, a un rappresentante diretto del ministro stesso (l’autore materiale della riforma e consigliere giuridico principale del ministro) e a un presidente autorevole, ma non proprio terzo rispetto alle volontà ministeriali (perché contestualmente confermato alla guida della Biennale di Venezia con una deroga alla legislazione vigente decisa dal governo). In più, le terne prodotte da questa commissione finivano nelle mani del ministro stesso (che da esse sceglieva direttamente i direttori dei sette musei ritenuti più importanti) e del direttore generale dei musei (che riporta direttamente al ministro).

Queste ultime considerazioni introducono a quello che, a mio giudizio, è il terzo errore radicale che ha fatto sprofondare i musei nella notte attuale: che è appunto la lottizzazione politica dei loro organismi scientifici, e dunque la connessa prefigurazione di una loro sostanziale devoluzione agli enti locali attraverso la trasformazione in fondazioni di partecipazione. L’articolo 12 del secondo capo del decreto ministeriale sull’organizzazione dei musei prevede che «il Comitato scientifico è composto dal direttore dell’istituto, che lo presiede, e da un membro designato dal Ministro, un membro designato dal Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”, un membro designato dalla Regione e uno dal Comune ove ha sede il museo. I componenti del Comitato sono individuati tra professori universitari di ruolo in settori attinenti all’ambito disciplinare di attività dell’istituto o esperti di particolare e comprovata qualificazione scientifica e professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali».

Il coinvolgimento degli enti locali presenta innanzitutto evidenti tratti di incostituzionalità: il patrimonio storico e artistico è «della nazione» (art. 9. Cost.), e dunque non si capisce perché il Comune di Firenze debba influenzare la direzione culturale degli Uffizi più di quello di Milano, o la Regione Veneto determinare quella dell’Accademia di Venezia più della Regione Campania. In Costituente, Concetto Marchesi si batté con la profondità del latinista e la sapienza del giurista, ma soprattutto con l’amara consapevolezza del siciliano: l’approvazione dello statuto autonomo speciale della sua regione (che prevedeva la legislazione esclusiva anche in materia di «conservazione
delle antichità e
delle opere artistiche», e che
ha in effetti poi
determinato un
terribile degrado del patrimonio siciliano) gli faceva temere che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale. E l’Assemblea reagì con «vivi applausi» quando Marchesi paventò il forte rischio che «interessi e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale». Che è esattamente ciò che sta succedendo. Si badi, non è un caso; Franceschini ha più volte citato come esempio di riferimento il Museo Egizio di Torino, trasformato in fondazione di partecipazione: con gli enti locali, e i privati, rappresentati nel consiglio d’amministrazione. Ed è questo il futuro prossimo che si annuncia: una sostanziale devoluzione agli enti, e alle oligarchie, locali del patrimonio museale che dovrebbe invece rappresentare e articolare l’unità di una nazione fondata sulla cultura come forse nessun’altra in Europa.

Ma c’è un aspetto ancora più grave, ed è l’idea stessa che alla politica – e non alla comunità scientifica – spetti la nomina degli scienziati (in questo caso cultori delle scienze storiche e storico-artistiche), in un processo che rischia di assimilare le direzioni dei musei al consiglio d’amministrazione della Rai. Franceschini non si è accontentato dell’enorme potere diretto che la riforma gli accorda: sul «Corriere del Mezzogiorno» è trapelata la notizia (non smentita) di una sua lettera che chiedeva alla Regione di revocare la nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel consiglio scientifico di Capodimonte, perché reo di essersi pubblicamente pronunciato contro la riforma. E davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un maccartismo renziano contro gli storici dell’arte non allineati.

Queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla gui

da del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Un’e

spulsione che mira a evitare che il governo del patrimonio possa essere affidato a personalità d’intellettuali, i quali «anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons», assumessero e mantenessero «ad ogni

costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico», come scrive Ragghianti nella pagina con cui ho aperto queste considerazioni. È in questo senso che si deve leggere l’ostentata preferenza per direttori «stranieri». Laddove le perplessità non scaturiscono certo da una visione xenofoba, radicalmente imcompatibile con l’idea stessa di una comunità scientifica che coincide con una république des lettres priva di confini interni. Ma se l’enfasi sugli stranieri si legge nel quadro fin qui delineato, emerge l’idea che la politica – questa politica – preferisca servirsi di figure di «sradicati», nuovi capitani di ventura messi in condizione di render conto solo al potere che li ha nominati. Non è un problema solo italiano, né solo del governo della cultura: in un capitolo de La ribellione delle élite (intitolato Il malessere della democrazia), Christopher Lasch analizza il fenomeno per cui «i membri delle nuove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono [...] la loro è una visione essenzialmente euristica del mondo, che non è esattamente una prospettiva che possa incoraggiare un’ardente devozione per la democrazia». Ma certo è un’evoluzione che, applicata ai musei italiani, compromette in modo ancora più radicale quella funzione civile del patrimonio culturale basata sull’indipendenza della conoscenza che è tipicadella tradizione italiana e che laCarta costituzionale mette tra i principi fondamentali della comunità nazionale. In questo

senso, la notte dei musei italiani rende ancora più evidente l’eclissi dell’articolo 9 della Costituzione. E la notte si annuncia molto lunga, e molto nera.

«La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero». La Repubblica, 30 novembre 2015 (m.p.r.)

Occhio a quei tre. Oggi il primo giorno del vertice sul clima si gioca tra Stati Uniti, Cina, India. Due vertici bilaterali, tra Barack Obama e Xi Jinping, poi tra Obama e Narendra Modi, racchiudono il nucleo della sfida. Sono il nuovo club dei Grandi Inquinatori del pianeta. Quel che si diranno è essenziale. Il summit ha rinunciato in anticipo alla strategia – perdente – di Kyoto e Copenaghen, quella che inseguiva impegni vincolanti giuridicamente, tetti alle emissioni di CO2 imposti dalla comunità internazionale ai singoli paesi. Quell’opzione si è dimostrata irraggiungibile. Proprio per questo diventa essenziale la volontà politica, l’approccio strategico che le singole superpotenze decidono di adottare.

Obama-Xi-Modi: il futuro della specie umana, dell’abitabilità del pianeta per noi, è nelle loro mani. La Cina è la prima generatrice di emissioni carboniche; superò gli Stati Uniti nella grande recessione occidentale nel 2008. L’India rincorre la Cina, quest’anno la supera in velocità di crescita del Pil, i consumi energetici ne sono il riflesso. L’India è già numero tre se l’Unione europea non si considera come un’entità singola. Gli americani restano però i massimi inquinatori su base individuale.
L’americano medio produce il triplo di gas carbonici di un cinese e il decuplo di un indiano. L’anacronismo è evidente. L’insostenibilità politica anche. La sfida riguarda il pianeta, il genere umano, gli oceani e i ghiacciai, l’atmosfera e le temperature; cose che non conoscono confini nazionali. Ma continuiamo a misurare le emissioni di CO2 su base nazionale. Nascono da qui i paragoni inaccettabili: 315 milioni di americani si confrontano con 2,5 miliardi tra cinesi e indiani.
In queste misurazioni l’Europa finisce ai margini. Il Vecchio continente produce “solo” il 9% di tutte le emissioni di CO2. Può nascerne un senso di impotenza: per quanto facciano gli europei, pesano poco.
Ma anche qui le illusioni ottiche distorcono la percezione. Quel 9% di emissioni carboniche è il frutto della “decrescita” europea, così come il sorpasso Cina-Usa avvenne quando l’economia americana si fermò. Se l’Europa dovesse ritrovare lo sviluppo – cosa che si augurano i suoi giovani disoccupati – anche le sue emissioni torneranno a salire. L’altra illusione ottica viene dalla deindustrializzazione. L’Europa ha smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo energetico. Ma ogni volta che un consumatore europeo compra un prodotto “made in China” (o in Corea, Bangladesh, Vietnam) contribuisce alle emissioni carboniche che l’Occidente ricco ha delegato alle economie emergenti.
La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero. Il premier indiano Modi può irritare con il suo nazionalismo rivendicativo, che ne ha fatto il leader del Sud del pianeta. Può disturbare un atteggiamento che trasforma la sfida ambientale in una partita contabile: dimmi quanto mi paghi, e ti dirò quanto sono disposto a fare. È il nodo dei trasferimenti Nord-Sud, i 100 miliardi di dollari promessi alle nazioni emergenti per finanziare la loro riconversione a uno sviluppo sostenibile; fondi insufficienti; e comunque stanziati solo in piccola parte. Questa partita Nord-Sud è circondata di sospetti reciproci. Quanta parte di quei fondi serviranno a esportare tecnologie “made in Usa”, “made in China” o “made in Germany”? Quanta parte finirà assorbita dalla corruzione di classi dirigenti predatrici?
C’è però dietro il dibattito Nord-Sud una realtà innegabile. Basta ricordare un esercizio che i lettori di
Repubblica conoscono, perché più volte è stato fatto su queste colonne: le fotografie del pianeta scattate dai satelliti di notte. L’intensità delle luci artificiali riflette la distribuzione della ricchezza. Chi sta meglio illumina meglio. Vaste zone della terra sono sprofondate in un’oscurità quasi totale: gran parte dell’Africa, ed anche una porzione consistente del subcontinente indiano. Quelle immagini vanno affiancate al discorso rivendicativo di Modi. È un diritto umano basilare, avere una lampadina accesa la sera in casa per fare i compiti e ripassare la lezione. Il problema è quando la lampadina in casa serve per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti. L’energia meno costosa per loro è il carbone. La peggiore di tutte.
La Cina è già un passo più in avanti. La lampadina ce l’hanno quasi tutti, anche il frigo, la lavatrice e l’auto. Il prezzo da pagare è un’aria così irrespirabile, che ormai l’élite cinese compra seconde case in California non solo come status symbol ma come una polizza assicurativa sulla propria salute. Perciò Xi ha deciso che la riconversione dell’economia cinese è una priorità, non una concessione all’Occidente. Lui può operare queste svolte senza i vincoli del consenso che ha Obama. In nessun altro paese al mondo è attiva una furiosa campagna negazionista sul cambiamento climatico, come quella condotta dal partito repubblicano. I suoi finanziatori della lobby fossile non arretrano davanti a nulla.
La multinazionale petrolifera Exxon falsificò per decenni le conclusioni dei suoi stessi scienziati, che coincidevano con quelle della comunità scientifica mondiale. Esiste un altro capitalismo americano, guidato da Bill Gates, che mette in campo vaste risorse per finanziare l’innovazione sostenibile. È un passaggio importante: uno dei problemi delle energie rinnovabili è che le sovvenzioni pubbliche, pur sacrosante, stanno rallentando il ritmo del progresso tecnologico necessario per renderle più competitive, e risolvere problemi come l’immagazzinamento dell’energia pulita.
L’Onu definisce l’appuntamento di oggi a Parigi come «la nostra ultima speranza». Di certo è l’occasione per i leader mondiali di dimostrare che la sfida ci riguarda tutti, e chi pensa di lasciare ad altri le scelte difficili non fa un investimento lungimirante neppure nell’ottica del suo interesse nazionale.
Per Vandana Shiva, intervistata da Giuliano Battiston, «il modello energetico basato sui combustibili fossili è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Per Vandana Shiva, l'ecologista indiana simbolo della battaglia contro la mercificazione dei beni comuni, fondatrice dell'associazione Navdanya International per la salvaguardia delle sementi, le conseguenze del caos climatico sono il frutto di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva e una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo. Ma rappresentano anche l'occasione per archiviare il vecchio paradigma energivoro e meccanicista della civiltà industrializzata in favore di «un nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità».

L'abbiamo intervistata alla vigilia della conferenza Cop 21 di Parigi, dove gli esponenti della rete Navdanya pianteranno un Giardino della speranza «per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla».
In genere si tende a usare il termine «cambiamento climatico», che suona piuttosto neutrale, mentre lei preferisce «caos climatico» e «catastrofe climatica». Perché?
Con cambiamento climatico generalmente viene indicato l'aumento delle temperature medie e il relativo aumento delle emissioni di gas a effetto serra. Io credo invece che il cambiamento climatico non abbia a che fare soltanto con l'aumento della temperatura. Riguarda anche i picchi estremi climatici, l'incertezza climatica. Considero il termine caos climatico più appropriato perché, sulla base di ciò che sta accadendo e che accade in particolare a comunità e in luoghi specifichi, si tratta di processi che conducono alla catastrofe. Inoltre, cambiamento implica che si possa prevedere ciò che accadrà. Caos rimanda invece a una totale imprevedibilità.
Di recente ha scritto che il caos climatico «è diventato una questione di vita e di morte». Quali sono gli impatti del caos climatico sulle comunità locali, e quali comunità o categorie sociali ne pagano di più o ne pagheranno le conseguenze in futuro?
Il modello energetico riduzionista basato sui combustibili fossili, inaugurato due secoli fa nei Paesi industriali e poi diffuso in Paesi come l'India attraverso la globalizzazione, è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico. Le comunità più vulnerabili sono quelle che vivono nelle montagne, nelle aree costiere, nelle zone aride. Particolarmente vulnerabili sono le donne e i contadini. Le faccio qualche esempio. Nel 1999, nello stato indiano dell'Orissa si è registrato un super-ciclone con una velocità doppia rispetto al normale. Ha ucciso 30.000 persone. Nel 2007, nel Ladakh, in una zona desertica molto alta, si sono registrate alluvioni. Nel 2010, di nuovo, si sono verificate altre alluvioni e 200 persone sono state spazzate via. Oggi è lo Yemen a subire le alluvioni. Ma nel deserto non dovrebbero avvenire alluvioni. Per questo dico caos climatico. In India, i monsoni durano 4 mesi. Nel 2013, nei primi due giorni della stagione monsonica si è registrata una quantità di pioggia del 350% maggiore rispetto alla media. Le alluvioni nel bacino del Gange, nella mia regione del Garwal Himalaya, hanno spazzato via 20.000 persone. Una vera e propria catastrofe climatica. Non è finita qui. I raccolti invernali ormai si fanno ad aprile. Quest'anno, i tradizionali festival del raccolto non si sono tenuti, a causa delle piogge e delle grandinate fuori stagione. Per la prima volta nella mia vita ho assistito ai suicidi perfino tra i contadini benestanti del bacino fertile e produttivo del Gange, dove finora i raccolti erano sempre stati buoni.
Ci spiega meglio cosa intende quando sostiene che il caos climatico «è un sintomo dei sistemi di violenza e irresponsabilità che si appropriano dei benefici, privatizzandoli, ed esternalizzano i costi sociali ed ecologici»?
Il caos climatico è un sintomo di un problema più profondo: il problema di un sistema economico fondato sulla violenza contro la terra e sulla violenza contra la gente. È un sistema che dichiara la Terra materia inerte, da sfruttare brutalmente, senza limiti. È un sistema inaugurato nel 1493 con la bolla papale Inter caetera (la bolla con cui papa Alessandro VI regolò la contesa sui territori del "Nuovo Mondo" tra il regno del Portogallo e quello di Castiglia, ndr), un sistema che si è sviluppato poi con gli accaparramenti di terra nei periodi coloniali e che è continuato con l'industrialismo, basato sulla schiavitù. È un sistema che consente a pochi di appropriarsi e di privatizzare i regali della natura e il benessere prodotto dalla gente. Un sistema che esternalizza i costi sociali ed ecologici. Perché inquinare l'atmosfera con i gas a effetto serra equivale a un'appropriazione dei beni comuni atmosferici. Promuovere il commercio delle emissioni è un'altra forma di privatizzazione. Tentare di possedere e di commercializzare le funzioni ecologiche della natura è un'appropriazione dei processi rigenerativi della vita.
Sin dai tempi in cui scrisse The Violence of the Green Revolution, lei tende a sottolineare il legame tra i conflitti e le conseguenze ecologiche del modello economico predatorio nel quale viviamo. Dovremmo aspettarci ulteriori, nuovi conflitti legati al caos climatico, se non lo affrontiamo in fretta e adeguatamente?
Il cambiamento climatico inizia dai cambiamenti nella terra – dal modo in cui usiamo il suolo, dalla questione di chi possiede e controlla la terra. La degradazione del suolo e il land grabbing sono già ora delle fonti di conflitto. Allo stesso modo, un utilizzo non sostenibile della terra contribuisce alle emissioni di gas a effetto serra, le quali a loro volta conducono al cambiamento climatico. E il cambiamento climatico destabilizza le comunità, crea scarsità e conflitti. Per cui sì, certo, possiamo aspettarci di vedere altri conflitti, se non affrontiamo il problema alle radici.
Ritiene che oggi la giustizia climatica debba diventare una componente essenziale nella rivendicazioni per la giustizia sociale globale? È ora che le forze progressiste vi si concentrino con più convinzione?
Dal momento che il cambiamento climatico è il risultato di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva – i cui effetti più deleteri ricadono sulle spalle di coloro che meno vi contribuiscono – le questioni climatiche sono una componente essenziale del movimento per la giustizia sociale ed ecologica globale. La giustizia sociale e quella ecologica sono due facce della stessa medaglia.
Di recente, ha scritto che «la maggior parte delle discussioni e dei negoziati sul come affrontare e mitigare il cambiamento climatico nell'ambito della COP 21 si è limitata al paradigma commerciale ed energivoro proprio di una visione del mondo riduzionista e meccanicista e di una cultura consumistica». Le soluzioni emerse finora rischiano di ribadire il paradigma che ha originato i problemi attuali?
È evidente che le discussioni e i negoziati siano limitati al paradigma riduzionista, meccanicista e alla cultura consumistica. Veniamo definiti come consumatori di energia. Non veniamo visti come generatori di energia creativa attraverso un lavoro creativo degno di rilevanza. Ciò che non viene messo in discussione è proprio il nostro consumismo, e neppure il fatto che, se stabiliamo un'equivalenza tra un alto consumo di energia e lo «sviluppo», ciò significa che i privilegiati si accaparrano, per il proprio consumo, le risorse dei poveri. Intendo dire che le questioni della giustizia climatica in queste discussioni vengono sistematicamente eluse. La maggior parte delle soluzioni statali o private al cambiamento climatico si concentrano su strumenti «più puliti», su mezzi e tecnologie più efficienti.
Le sembra una tendenza legittima o ritiene invece che dovremmo considerare non solo gli «strumenti», ma anche e soprattutto gli scopi dei nostri sistemi economici e sociali, ripensando lo stesso significato di concetti come produttività e progresso?
Sotto questo aspetto, ritengo che le crisi climatiche rappresentino un sintomo dell'elevazione degli strumenti a nuova religione: la religione della tecnologia. Invece di una valutazione intelligente, responsabile ed etica sul come certi particolari strumenti di trasformazione delle sementi e del nostro cibo, del nostro suolo e della nostra acqua influiscano sulla struttura della vita, sulle altre specie, sui contadini e sul benessere umano, gli strumenti vengono innalzati al di sopra di ogni giudizio, oltre il «dharma», oltre il giusto o sbagliato, al di là della domanda fondamentale sul dove debba orientarsi la vita umana, sugli scopi dei sistemi che costruiamo, ai quali i nostri strumenti dovrebbero adeguarsi. Non viceversa. Il cambiamento climatico non è dunque una semplice questione di tecnologia. È una questione di Right Livelihood, di un corretto sostentamento in opposizione al dominio dell'avidità, del potere, del controllo, della hubris umana. Riguarda il nostro dovere di prenderci cura della Terra e dell'intera famiglia terrestre, inclusi gli essere umani, in opposizione alla mancanza di cura e alla violenza esercitata nelle relazioni con le altre specie e all'interno della comunità umana.
Lei è convinta che l'agricoltura industriale globalizzata stia contribuendo in modo diretto al cambiamento climatico. Come? E in che modo l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa possono contribuire alla resilienza climatica?
L'agricoltura industriale globalizzata contribuisce al cambiamento climatico perché si basa sui combustibili fossili, che oltre alle emissioni di Co2 producono le emissioni provenienti dai fertilizzanti azotati. Come ho scritto nel mio libro del 2007 Soil not Oil (Ritorno alla Terra, Fazi 2009), le emissioni causate dall'agricoltura industriale e dal sistema alimentare globalizzato rappresentano il 40% delle emissioni totali. Oggi considero quella stima al ribasso. La falsa retorica dominante suggerisce che l'agricoltura industriale usi meno terra per produrre maggiore quantità cibo, e che in questo modo riesca ad affrontare il problema della fame. La realtà ci dice invece che la produzione mercificata per il sistema industrializzato globale sta conducendo alle invasioni delle foreste e delle praterie, e che il cambiamento d'uso della terra contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas a effetto serra. Il metano usato nelle aziende agricole contribuisce dall'11 al 15%, i trasporti per il 6%, i processi di lavorazione, confezionamento e refrigerazione per circa il 14% e lo spreco di cibo per il 4%. L'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa contribuiscono alla resilienza climatica sbarazzandosi degli input chimici e integrando allevamenti e coltivazioni. Attraverso l'intensificazione della biodiversità e dell'intensificazione ecologica – anziché dei combustibili fossili e dell'intensificazione chimica – l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa riparano il carbone e l'azoto «danneggiati». Espellono il Co2 in eccesso dall'aria, dove non dovrebbe stare, e lo ricollocano nel suolo, a cui appartiene. In un decennio, una transizione generalizzata all'agricoltura ecologica e ai sistemi alimentari locali sarebbe in grado di rimuovere tutte le scorte in eccesso di Co2 presenti nell'atmosfera.
Sembra che per lei affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici non sia soltanto una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo, ma anche un'occasione per archiviare il vecchio paradigma della civiltà industrializzata, in favore di quel «nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità» di cui l'organizzazione da lei fondata, Navdanya International, parla nel «Manifesto Terra Viva»....
Le profonde crisi che affrontiamo come specie rappresentano anche un'opportunità per compiere un cambiamento di visione e di paradigma. Da padroni e conquistatori della terra a co-creatori e co-produttori, insieme alla Terra. Dobbiamo smettere di pensare a noi stessi come parti dipendenti all'interno di una macchina globale delle corporation, o come consumatori del loro cibo spazzatura, del loro abbigliamento spazzatura, della loro plastica spazzatura. Come dice il nostro Manifesto Terra Viva, abbiamo la possibilità di creare economie che guardino al futuro, nuove democrazie, e tramite esse una nuova Democrazia della Terra. Per queste ragioni, a Parigi pianteremo un Giardino della speranza per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, oltre che come simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla. Facendolo, ci proteggiamo l'un l'altro.

Patrimoniosos.it, 30 novembre 2015

Dove va il Ministero per i Beni Culturali e il Turismo sulla strada esasperata della "valorizzazione"? Per ora sembra in stato confusionale, al di là di quello che scrivono tanti trombettieri. Per i Musei piovono decine di nomine che però per i Musei non autonomi al 35 per cento (dato ufficiale) vengono rifiutate dai prescelti. In certe Soprintendenze dove si sono assurdamente accorpati i beni storico-artistici e quelli architettonici non ci sono più storici dell'arte e se qualcuno chiede di valutare un quadro o una pala, gli rispondono imbarazzati che loro in quell'ufficio sono tutti architetti. Gli storici dell'arte o gli archeologi passati ai Musei spesso sono destinati a coprire due o tre istituzioni fra loro lontane chilometri. Un solo direttore è stato previsto per i Musei archeologici di Sibari e di Vibo Valentia (168 Km e due ore circa di viaggio in auto, ma chi paga la benzina?) e sempre un solo direttore deve reggere i Musei di Manfredonia (Foggia) e Gioia del Colle (Bari) e relative aree archeologiche fra cui corrono 161,4 Km per oltre un'ora e tre quarti di viaggio (e 12 litri di carburante). E' la valorizzazione, bellezza!

Purtroppo c'è di peggio. Agli Archivi di Stato - che già sono considerati la Cenerentola del Mibact - vengono inferti altri danni. In particolare all'Archivio Centrale dello Stato che l'indimenticato direttore Mario Serio aveva portato a livelli di efficienza rari nel grande fabbricato dell'Eur destinato, se ben ricordo, al Ministero e al Museo fascista della Guerra. Cosa succede ora? Il Segretariato generale del Mibact ha deciso di spostare il Museo Nazionale di Arte Orientale (sinora situato nel palazzo Brancaccio, in via Merulana) nella sede dell’Archivio Centrale dello Stato, sgomberando il primo piano del deposito laterale dell’Archivio stesso. Pur sapendo benissimo (se non lo sanno, è di una gravità assoluta) che i suoi depositi sono da tempo strapieni tant'è che uno spazio supplementare è stato affittato a Pomezia in un magazzino...industriale, senza una sala di studio e neppure uno spazio dove gli archivisti possano lavorare per riordinare le carte. Ma pure quel magazzino di Pomezia è saturo.

Adesso si tratta di far posto ai 23 km circa di documenti sin qui conservati negli spazi dell'Eur che vengono dati al Museo Nazionale delle Arti Orientali. Finiranno in qualche altro deposito decentrato quei 23 Km? Il 16 novembre, il Consiglio superiore per i beni paesaggistici ha approvato una mozione in cui ha espresso “viva preoccupazione” per la situazione in cui versano gli Archivi di Stato ed ha raccomandato che gli stessi siano dotati di ulteriori locali di deposito, per poter riceve i versamenti di documentazione che ora sono bloccati per mancanza di spazio. La Corte d’Appello di Roma vorrebbe riversare all’Archivio di Stato di Roma gli atti della Corte d’assise per gli anni '70 e '80, cioè su terrorismo, delitto Moro, attentato al papa e altre cosucce, ma tutto è bloccato perché non c'è già più posto.

Eppure l'Agenzia del Demanio ha definito "operazione attendibile" questo trasloco del prezioso Museo Nazionale di Arte Orientale intitolato a Giuseppe Tucci. "Attendibile", per chi? Non si sa visto che negli spazi di Palazzo Brancaccio dispone di oltre 4.800 metri quadrati e che gli stessi sono del Comune di Roma col quale un accordo non dovrebbe essere impossibile. Fra l'altro negli ultimi venticinque anni il Ministero vi ha speso circa 2 milioni di euro per attrezzare i locali di deposito di ben 30.000 pezzi di pregio, ruotati in mostre ed esposizioni permanenti.

Del resto, il dramma è nazionale: meno del 35% delle sedi di Archivi di Stato e Soprintendenze sono demaniali, le restanti sedi risultano in locazione e i canoni d’affitto ammontano complessivamente a più di 22,5 milioni di euro, pari ad oltre i 4/5 del bilancio dell’Amministrazione archivistica. Una follia pura coi tanti edifici demaniali vuoti o sottoutilizzati esistenti. E vogliamo ripetere qual è la situazione del personale archivistico che oggi dovrebbe poter digitalizzare e rendere fruibili telematicamente un numero grandissimo di documenti? Il numero complessivo degli addetti è crollato dagli 830 del 1998 agli attuali 621 (- 25,4 %, un quarto, spariti). Nessuno di quelli in ruolo ha meno di 37 anni, mentre il 66 % dei funzionari archivisti conta più di 60 anni. Vuol dire che, con questo trend, fra non molto gli archivi dello Stato chiuderanno i battenti per mancanza di personale qualificato. E di tutto il resto. Tranne il patrimonio di secoli di storia. Chiuso chissà dove e infrequentabile. Purtroppo sono fatti tragicamente reali. Ma su giornali e telegiornali non fanno notizia. Bisogna essere tutti ottimisti, proiettati nel futuro. Il passato ai Gufi.

Carlo Petrini teme, giustamente, che la mancanza di una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sia un pesante contrbuto dell'Italia al degrado dell'ambiente. E necessario approvare la legge sul consumo di suolo in discussione al Parlamento? Abbiamo intervistato in proposito Vezio De Lucia.

Oggi si apre a Parigi la Conferenza mondiale sui cambiamenti di clima. Si parlerà molto di energie alternative, di risparmio energetico, di riduzione dei fattori inquinanti, di green economy e così via. I rappresentanti degli Stati si barcameneranno tra l’esigenza di dover contribuire alla riduzione di un rischio di catastrofe e quella di non ridurre il Pil, che sembra essere il totem della religione dominante. C’è grande attesa per i risultati, e una forte pressione che nasce dalle manifestazioni popolari in corso nelle strade e nelle piazze di tutti i continenti.

C’è invece chi denuncia già i limiti della conferenza, della sua stessa impostazione. Carlo Petrini, sul manifesto di oggi, rivendica il ruolo dell’agricoltura riprendendo una problematica sviluppata qualche giorno fa da Piero Bevilacqua. Petrini pone la questione del consumo di suolo. Egli scrive: “In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento”.

Vezio De Lucia è tra quelli che nel 2005 contribuirono a porre la questione promuovendo la sessione della Scuola di eddyburg dedicata al tema dello sprawl: l’insensato consumo di suolo provocato dalla sua utilizzazione edilizia al di là di ogni ragionevole utilità. Gli chiediamo di esprimere il suo parere odierno sull’argomento.

Ma innanzitutto gli domandiamo: Che cosa è successo da allora a oggi?
«Ti ricordi, Eddy, che siamo stati fra i primi, proprio tu, Gigi Scano e io, alla fine degli anni Settanta – quando tutt’e tre ci occupavamo di Venezia – a contrastare la saldatura edilizia del triangolo Mestre Padova Treviso evitando altre espansioni nella terraferma veneziana? Da allora, nonostante gli avvertimenti e le preoccupazioni del mondo ambientalista, le cose sono andate sempre peggio. Solo un dato, a Roma, dal 1971, la popolazione è rimasta più o meno la stessa ma la superficie urbanizzata è più che doppia. Quasi niente di buono è venuto dal mondo politico e dai poteri locali. Il tentativo più importante a scala nazionale per contenere e razionalizzare lo sviluppo edilizio fu quello della legge Galasso del 1985. Ma, salvo rare eccezioni ancora in vigore (il piano della costiera Amalfitana e della penisola Sorrentina, approvato con legge regionale), il bilancio è stato deludente. Va ancora peggio con i piani paesaggistici del Codice del paesaggio del 2008: il ministero per i Beni culturali è platealmente assente e solo tre regioni, la Sardegno, la Puglia e la Toscana, dispongono di un piano regolarmente approvato. In questo disastroso panorama giganteggia la figura di Anna Marson che, da assessore all’urbanistica della Regione Toscana nella trascorsa legislatura, ha portato all’approvazione l’unica legge efficace e rigorosa per fermare il consumo del suolo. E mi permetto di ricordare il piano regolatore di Napoli del 2004, il solo piano di una grande città che non prevede zone di espansione e ha sottoposto a tutela il suolo scampato all’apocalisse urbanistica dei decenni precedenti».

Che giudizio dai sull’iniziativa che assunse nel 2012 il ministro dell’Agricoltura Catania?

«Dopo l’ex sottosegretario Giuseppe Galasso, va riconosciuto a Mario Catania, ministro delle risorse agricole del governo Monti, di essere stato il solo esponente del governo italiano a impegnarsi per la difesa dalla cementificazione dei terreni agricoli, come auspicano Carlo Petrini e Piero Bevilacqua. Ma il condivisibile intento di Catania è stato vistosamente contraddetto dalla stesura del progetto di legge governativo, infarcito da tante e inverosimili condizioni e diversivi da convincerci che quell’intento non potrà mai essere realizzato. E con il trascorrere del tempo e dei governi (Monti, Letta, Renzi) il testo è andato sempre più scandalosamente peggiorando».

Hai dato un giudizio molto critico della legge attualmente in discussione in Parlamento. Quali sono le ragioni essenziali?
«In primo luogo, l’effettiva entrata in vigore delle norme di contenimento del consumo del suolo è subordinata a un malinteso rispetto del pluralismo istituzionale perseguito attraverso complicati meccanismi procedurali a cascata: Stato, Regioni, Comuni. Meccanismi che non hanno mai funzionato in altri campi, figuriamoci quando sotto tiro sono gli interessi di potentissimi settori dell’economia finanziaria e immobiliare. Non è difficile prevedere che, ove approvata, la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessaria e urgente (dal Lazio in giù), oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione.

«Ma il peggio è che, alla fine, la tutela del paesaggio agrario e dello spazio aperto è solo un fragile paravento al riparo del quale prendono corpo operazioni che addirittura favoriscono la speculazione immobiliare. Infatti, all’originario progetto di legge sono stati aggiunti due argomenti assolutamente estranei, anzi in contrasto con l’obiettivo del contenimento dell’uso del suolo, vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.
«I compendi agricoli sono il machiavello per la trasformazione dell’edilizia rurale in altre attività (amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, eccetera). Una legge che nasce per promuovere e tutelare l’agricoltura, il paesaggio e l’ambiente consente quindi la distruzione dell’attività agricola e dei relativi manufatti. Complimenti.
«Ancora più inquietante l’altra novità, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate, introdotta poco prima della presentazione del provvedimento in aula (avvenuta circa un mese fa). Si tratta di una delega al governo a emanare uno o più decreti legislativi volti a semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbane degradate. Una delega in bianco, sostanzialmente priva di principi e criteri direttivi, modello Sblocca Italia. Senza alcun rapporto con l’ordinaria disciplina urbanistica. E in questa circostanza, incredibilmente, sono del tutto ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia di urbanistica, che andavano bene come pretesto per ritardare l’entrata in vigore delle norme per contrastare il consumo del suolo.
«Approdato in aula, sembra che il progetto di legge che impropriamente continuiamo a chiamare Catania sia stato messo su un binario morto. Molto meglio così. Almeno gli esponenti del governo, a cominciare da Matteo Renzi (che voleva la legge approvata prima della conclusione dell’Expo di Milano) non potranno continuare a vantarsi di essere impegnati a difendere il paesaggio e il suolo agricolo».
Che fare adesso?
«Certo, se la politica è asservita all’economia e alla finanza, l’urbanistica – che è una voce della politica – è inevitabilmente screditata. Ma abbiamo la schiena dritta e andiamo avanti. Primo, denunciando l’imbroglio della legge Catania, non consentendo che ci mandino altro fumo negli occhi (come ha scritto Stefano Fatarella). Poi lavorando per far conoscere la legge toscana 65/2014 (quella di Anna Marson) perché sia proposta in altre regioni. A scala nazionale, più passa il tempo, più mi pare confermata la qualità del disegno di legge proposto da eddyburg nel giugno 2013 che il nuovo gruppo parlamentare Sinistra Italiana e il movimento 5 Stelle dovrebbero far proprio. Coraggio».
Riferimenti

Un'analisi puntuale dell'errore rappresentato dalla legge in discussione è nell'articolo di Vezio De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione; nella postilla altri link utili. La critica all'innovazione dei compendi agricoli è nell'articolo di Maria Cristina Gibelli, Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani» .

«Il fondatore della rete Slow Food, intervistato da Rachele Gonnelli, lancia l’appello online: "Non Mangiamoci il Clima". È grave - per Carlo Petrini - che il paradigma del summit sia legato al business. L’unico che parla di biodiversità è il papa». Il manifesto, 29 novembre 2015

«Non si comincia mica bene». Il vertice dell’Onu sul clima a Parigi non è ancora cominciato e Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e eco-gastronomo di fama internazionale, è preoccupato.

Perché non si comincia bene?

«Nelle 54 pagine del testo che apre i lavori non c’è la parola “agricoltura”, neanche una volta, non si cita mai il problema della biodiversità. È una carenza grave perché si tagliano fuori miliardi di persone e poi segnala un errore di impostazione. Perché agricoltura significa cibo, economia locale, significa sovranità alimentare dei popoli.

«L’agricoltura è insieme vittima del cambiamento climatico, e anche, in parte, corresponsabile del problema. È vittima in quanto ogni aumento di un grado della temperatura media determina uno spostamento delle coltivazioni di 150 chilometri verso il nord geografico e di 150 metri più in alto. Questo slittamento vuol dire perdita di prodotti in aree tipiche, distruzione di zone rurali, impoverimento di intere comunità e conseguente migrazione delle popolazioni che non riescono più a vivere dove vivevano un tempo.

«Nello stesso tempo l’agricoltura, per come si è andata configurando negli ultimi cinquant’anni, ha incorporato lo spirito e il senso dell’economia industriale, è diventata per la maggior parte un’agricoltura che mira al massimo profitto a una produzione massiva che non ha a cuore la difesa della natura e la salvaguardia delle risorse della terra.

«L’agricoltura intensiva insieme all’allevamento industriale sono responsabili del 70% del consumo di risorse idriche e la zootecnia da sola della produzione del 14% delle emissioni di gas serra. Sappiamo quanto siano disastrosi questi allevamenti, non solo per il benessere degli animali, ma anche per l’impatto che hanno sull’ambiente. Il modello che intensifica le produzioni non rispettando i ritmi naturali , le stagioni, i raccolti, è lo stesso che ci porta sulla tavola ogni giorno qualsiasi tipo di cibo, anche dal più sperduto buco del mondo, come fosse una cosa normale».

Come se non avesse un costo sociale, un ultra-prezzo? Non ci siamo un po’ abituati a tutto questo? ( pioggia autunnale come un monsone, pesci tropicali nel Mediterraneo, insetti e piante di altri climi).

«Sì, come ci hanno abituati a considerare normale che il 35% del cibo prodotto venga buttato, uno spreco che equivale alla distruzione delle colture di 1,4 miliardi di ettari di terra. Coltivazioni che hanno prodotto emissioni nocive. Perciò bisogna cambiare logica rispetto al mantra che ci impone solo di consumare, consumare, consumare.

Nell’agenda del summit di Parigi ci saranno anche gli incontri dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che chiede investimenti a vantaggio dei piccoli agricoltori per combattere la desertificazione, Slow Food può farsi sentire lì?

«Abbiamo con l’Ifad una partnership diretta. Quando organizziamo, annualmente, Terra Madre partecipa sia l’Ifad sia la Fao. Aggiungo che un mese fa al meeting Terra Madre indigenous abbiamo radunato 145 comunità indigene di 40 paesi del mondo. Anche da lì è nato il nostro appello “Non mangiamoci il clima” che rivolgiamo ai governi riuniti a Parigi.

«L’appello è già sottoscritto da centinaia di associazioni e movimenti e ora sul sito www .slowfood .it attende la firma dei cittadini. Penso che la presenza operativa della società civile si debba far sentire, adesso o mai più. Non è possibile che Cop21 parta dando per scontato che, se va bene, il pianeta si surriscalderà di 2 gradi. Se poi i limiti di emissione dei gas serra, come sembra, non saranno vincolanti, non so dove si andrà a finire».

Se invece che di biodiversità e land grabbing, si parlerà soprattutto di agrofuel e carbon markets, non è perché le grandi company del nucleare, dell’acqua, delle auto nel voler “dare il loro contributo alla causa ecologica” stanno facendo lobby? L’ong Transnational institute dice che sono loro ad aver sostenuto come sponsor il 20% delle spese del summit.

Non mi stupisce. Già sei-sette mesi fa avevamo segnalato come certe sponsorizzazioni di multinazionali non fossero un buon segnale. Ma sono i governi che devono prendere le decisioni, a loro ci dobbiamo rivolgere.

Lo slogan dei movimenti che saranno in piazza oggi è “system change not climate change”. D’accordo? Si deve cambiare sistema?

«Non c’è ombra di dubbio. Bisogna cambiare paradigma, dico io. Si deve capire che le cattive pratiche, basate solo sul business, generano iniquità e sconquassi ambientali. Bisogna anche capire che si tratta di cambiare stile di vita. Ora sappiamo tutti dell’allarme dell’Oms sull’eccessivo consumo di carne. Ma si deve anche sapere che se in Europa il consumo medio pro capite in un anno è 100 chili e negli Usa 125 chili, non si può chiedere agli africani, che ne consumano in media 5 chili l’anno, di ridurlo perché inquina.

«Il ragionamento deve essere: contrazione per che chi consuma troppo e convergenza per chi non ne ha a sufficienza. Questa è una vera governance mondiale. Ma attualmente l’unico capo di Stato che sostiene un paradigma di equità e sostenibilità è il pontefice romano. L’enciclica Laudato Si è un documento straordinario di riflessione sul cibo, la biodiversità, la povertà, su come tutto sia connesso».

Per una governance mondiale ecologica non servirebbe, come in Bolivia, una sorta di tribunale dell’Aja per i reati ambientali?
Può essere una via. La scorsa settimana in Brasile c’è stato un immane disastro ambientale e i responsabili non sono punibili in base alla legge brasiliana. Non lo sarebbero stati fino a vent’anni fa neanche in Italia.

«In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento».

Coordinamento Nazionale No Triv

Comunicato stampa
I sei quesiti referendari contro le trivelle in mare e su terraferma hanno superato indenni l'esame di regolarità della Corte di Cassazione.

Con due ordinanze adottate il 26 novembre 2015 la Corte di Cassazione ha accolto i sei quesiti referendari così come deliberati dalle Assemblee Regionali di Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise.

Le ordinanze verranno comunicate al Presidente della Repubblica, al Presidente della Corte Costituzionale ed ai Presidenti delle Camere, e verranno notificate ai delegati dei dieci Consigli Regionali proponenti.

L'ultimo scoglio da superare sarà l'esame di legittimità costituzionale della Suprema Corte che si pronuncerà entro febbraio 2016.

I sei "SI'" giungono a coronamento di una lunga fase di impegno per la formulazione dei quesiti e della pressione democratica dal basso esercitata da oltre 200 associazioni italiane. L’abnegazione ed il merito della proposta complessiva hanno consentito di intercettare prima l’unanime consenso della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee elettive regionali e, successivamente, lo storico risultato delle 10 delibere di richiesta referendaria, da parte di altrettanti Consigli regionali.

Compiuto questo nuovo passo, è giunto dunque il momento di consolidare il risultato ottenuto preparandosi alla costruzione di un sistema di alleanze -il più ampio e trasversale possibile- e di un percorso organizzativo che consenta di portare al voto la maggioranza degli aventi diritto, senza mediazioni con il Governo su un referendum che ha un obiettivo molto chiaro e non emendabile, se non a rischio di stravolgerne e affievolirne senso e scopo.

La via referendaria è l'unica che possa raggiungere nel breve termine l'obiettivo sia di fermare nuovi progetti petroliferi sia di contenere e ridimensionare il ruolo delle energie fossili nel mix energetico nazionale.

Ma anche qualora le richieste di modifica normativa in senso No Triv venissero avanzate in buona fede, bisognerebbe tener conto della maggiore efficacia del referendum rispetto a quella, più limitata, dell'abrogazione per via legislativa. I divieti introdotti dal Decreto Prestigiacomo non furono forse rimossi per numerosi progetti petroliferi in mare proprio dall'art. 35 comma 1 del Decreto Sviluppo?

Quindi, non si persegua la strada della modifica per via legislativa delle norme che, per mezzo del referendum abrogativo, è invece possibile cancellare stabilmente dall'ordinamento.

Il Referendum non è nella disponibilità del Governo.

L'Assemblea "Verso il Referendum" dell'8 novembre scorso, rappresentativa delle associazioni vere promotrici del Referendum, ha stabilito in modo unitario ed inequivocabile che nessuno è legittimato a "mediare" o a dialogare con un Governo che più di ogni altro ha dimostrato fredda determinazione nel portare a compimento il contenuto fossile della Strategia Energetica Nazionale e che si appresta ad assestare un colpo mortale al coinvolgimento delle comunità locali e delle Regioni nelle scelte strategiche che determinano il futuro dei territori e del Paese.

Il Referendum è di tutti e ciò significa che nessuno può disporne oltre la Corte Costituzionale e, ovviamente, i Cittadini.

Prossima tappa intermedia sarà l'incontro a Roma, il 9 dicembre prossimo, tra i delegati delle Assemblee delle dieci Regioni che hanno deliberato la richiesta di referendum ed i rappresentanti delle associazioni promotrici del Referendum: in quella sede verranno messi a fuoco i principali aspetti organizzativi e discusse le prime soluzioni che dovranno portarci al voto di primavera.

La strada è tracciata. Adesso tocca percorrerla tutti assieme per arrivare al risultato per anni inseguito: liberare il mare e la terraferma da nuove trivelle ed aprire la strada ad una nuova politica energetica, economica ed ambientale.

Coordinamento Nazionale No Triv

Roma, 28 novembre 2015

Smart city in pratica: tutto va nel migliore dei modi, a quanto pare, sul versante tecnologico, ma gli aspetti urbanistici ed ergonomici paiono ancora trascurati: la connessione è qualità urbana, perché non integrarla ad altre qualità? La Repubblica Milano, 29 novembre 2015, postilla (f.b.)

Meglio delle previsioni. Il wi-fi libero del Comune arriva al Parco Lambro e in cinque mercati rionali, superando così quota 500 access point, ovvero quello che era l’obbiettivo di mandato della giunta Pisapia. Boom di registrazioni durante i sei mesi di Expo, quando le iscrizioni sono state il 30 per cento del totale. Alto soprattutto il numero di accessi da parte dei turisti stranieri che sono stati oltre la metà dei nuovi utenti durante l’esposizione universale.

Per una volta, la realtà supera (in positivo) le previsioni della politica. Perché se il progetto iniziale “Open wi-fi” doveva raggiungere quota 500 punti di copertura, il settore innovazione di Palazzo Marino ha fatto di più: attualmente siamo a 514 e a marzo arriveranno a quota 535, di cui 445 outdoor e 90 indoor. Gli ultimi arrivati — dopo gli spazi della Darsena rinnovata — sono i 18 access point posizionati in cinque mercati comunali: quattro in via Benedetto Marcello, tre in viale Papiniano, tre fra le strade del mercato dell’Isola, cinque in via Osoppo e tre al mercato di via Fauché. Ma la novità principale — e non prevista inizialmente nei piani dell’assessorato — riguarda la futura installazione di altri 21 punti di copertura all’interno del parco Lambro, la cui installazione è stata commissionata all’A2a. L’occasione si è venuta a creare con la decisione di installare 21 colonnine per sos nel parco: sopra, verranno posizionate anche le antenne per il wi-fi, «permettendo di realizzare notevoli sinergie che si tradurranno in un’importante riduzione dei costi dell’infrastruttura», spiegano dall’assessorato.

Il servizio di wi-fi gratuito comunale — un’ora di navigazione veloce senza costi che richiede solo l’inserimento di un numero telefonico — è molto apprezzato dagli utenti, almeno a giudicare dai numeri. La rete di connessione senza fili messa in piedi da Palazzo Marino continua infatti a macinare risultati: ad oggi il totale degli iscritti è di 621.836, mentre il numero degli accessi complessivi dall’inizio del servizio è arrivato a quota 6 milioni e 800mila. C’è chi si connette per lavoro, ma non manca anche chi lo usa per motivi personali, in particolare i turisti. I dati sono infatti cresciuti a dismisura nel periodo di Expo, quando i nuovi utenti sono stati 189.480, pari al 30 per cento del totale.

Da sottolineare in particolare il dato degli stranieri: sono 110.444 le iscrizioni avvenute con schede sim straniere, pari al 58 per cento del totale. Il record assoluto di registrazioni si è verificato sabato 24 ottobre, quando in un giorno si sono iscritte 2073 persone.

«Lo sviluppo di “Open wi-fi” si collega al progetto smart city — ha commentato l’assessore al Lavoro e allo sviluppo economico Cristina Tajani — è una struttura che consideriamo abilitante, ovvero che serve a rendere più fruibili e fruite alcune zone della città. È da sottolineare poi come siamo riusciti a superare le nostre stesse previsioni di inizio mandato grazie a una collaborazione proficua tra diversi soggetti dell’amministrazione ».

postilla

Come si è già osservato anche con l'aiuto di sopralluoghi diretti nei luoghi serviti, la vera questione aperta del collegamento alla rete senza fili è la sua natura o meno di componente della smart city: qui pare ci sia ancora molto «smart» tecnologico e organizzativo, ma pochissima «city» spaziale e di uso. Certo, è vero, non si può pretendere che approcci così innovativi alla riqualificazione urbana come quello legato all'accesso wireless realizzino fulmineamente tutte le loro potenzialità, ma vedere del tutto e pervicacemente ignorati i luoghi serviti dalla connessione, assistere a scenette tragicomiche, in cui per collegarsi le persone sono costrette ad abbandonare luoghi già attrezzati di arredi urbani, e spostarsi là dove non ce ne sono affatto salvo il «virtuale», dà l'idea di una lacuna tutta politica, di mancato coordinamento fra settori e responsabilità, che si vorrebbe rapidamente superato, per vedere una
smart city del tutto a portata di mano, fatta meno di auspici e più di vita quotidiana (f.b.)

«Francia. Alla Conferenza sul clima, 196 delegazioni, con 150 capi di stato e di governo presenti. Lo scopo: trovare un accordo per garantire un avvenire alla Terra e ai suoi abitanti». Il manifesto, 29 novembre 2015

L’ultimo atto del multilateralismo, ormai messo in difficoltà su tutti i fronti nel mondo, si apre purtroppo in una città blindata dove vige lo stato d’emergenza, ancora in preda alla paura degli attentati, con 120mila uomini armati, tra polizia e esercito, schierati in Francia, più di 10mila solo a Parigi per proteggere i grandi del mondo, mentre la società civile è relegata in secondo piano, le manifestazioni bloccate a causa del terrorismo.

La Cop21 accoglie oggi al Bourget 196 delegazioni di stati, con circa 150 capi di stato e di governo presenti. Sulla ventunesimo appuntamento della «Conferenza dei pari», organizzata dall’Onu, si sono concentrate le speranze di trovare una soluzione globale per impedire un riscaldamento climatico, ora in crescita esponenziale, che minaccia di travolgere a breve (e in parte già travolge) milioni di persone, causando disastri umani e economici, flussi di rifugiati, in prospettiva 400 milioni di persone a rischio.

La Cop21 non è un appuntamento importante solo perché ha luogo a Parigi, non è il senso del teatro tipico della Francia a farne un momento-chiave: la data del 2015 come punto di svolta per trovare un accordo che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, era stata decisa nel 2011 a Durban, in seguito allo scottante fallimento della riunione di Copenaghen, nel 2009, che si era conclusa con un breve documento di tre pagine. «Più tardi, sarà troppo tardi», ha riassunto il ministro degli esteri, Laurent Fabius, che dirige i lavori e che ritiene che ci sia «un obbligo di successo« alla conclusione l’11 dicembre.

In gioco alla Cop21 c’è la sicurezza.

Quella di assicurare un avvenire possibile alla Terra e ai suoi abitanti. Ma nell’immediato, la sicurezza è legata alla lotta al terrorismo. Per garantire questa sicurezza, il governo ha proibito le manifestazioni previste, la marcia di oggi e quella conclusiva il 12 dicembre. Ieri, i «zadistes» (militanti per le «zones à défendre») hanno alla fine ottenuto di poter organizzare un pic nic a Versailles. Greenpeace ha mandato in aria una mongolfiera alla Tour Eiffel, che da stasera sarà illuminata di verde (passando dal buio del dopo-attentati e dal blu, bianco e rosso del tricolore in omaggio alle vittime), con interventi artistici successivi.

Stamattina, alcune organizzazioni, a cominciare da Attac, invitano a formare una «catena umana» da place de la République sul boulevard Voltaire.

Ma il governo è nervoso: mille persone, ha rivelato ieri il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve, sono state impedite di entrare in Francia negli ultimi giorni, e nei negozi della regione Ile-de-France non sono più in vendita i prodotti infiammabili. Su più di 400 iniziative militanti, almeno un centinaio sono state cancellate.

Il Prefetto ha caldamente consigliato ai parigini di non muoversi di casa, salvo «assoluta necessità», sia oggi che lunedì, anche se il métro è gratis, perché alcuni grandi assi stradali saranno chiusi o con circolazione limitata a causa del passaggio delle delegazioni verso il Bourget.

I negoziati avverranno sotto una cappa, nell’isolamento del Bourget, attorno a un testo preparatorio di 55 pagine, ancora pieno di parentesi quadre (con opzioni divergenti).

Le delegazioni avranno di fronte le insegne delle grandi imprese mondiali, dai produttori di energia alla grande distribuzione, gli sponsor della Cop21, che hanno messo in campo una enorme operazione di ipocrita greenwashing. Stando ai «contributi nazionali» che sono arrivati a Parigi, da 183 paesi, l’obiettivo minimo — mantenere il riscaldamento climatico sotto l’aumento di 2 gradi — non potrà essere raggiunto entro fine secolo. Al meglio ci sarà la «catastrofe» di +3 gradi. Non è certo se l’eventuale accordo sarà giuridicamente vincolante, poiché alcuni paesi, a cominciare dagli Usa, hanno difficoltà a far approvare un trattato internazionale.

La Francia si accontenterebbe di un accordo che obblighi almeno alla «trasparenza» delle azioni e a un meccanismo vincolante di revisione degli impegni presi dagli stati ogni cinque anni, ormai accettato anche dalla Cina. Sul tavolo c’è la più che spinosa questione dei finanziamenti: chi deve pagare per la lotta all’effetto serra? A Copenhagen il Nord del mondo aveva promesso 100 miliardi di dollari al Sud. Per avvicinarsi a questa cifra, sono stati addizionati contributi e aiuti di ogni tipo, anche quelli che hanno poco a che fare con la lotta al riscaldamento climatico. Il parente povero di questi trasferimenti sono i finanziamenti all’adattamento delle società colpite (pari solo al 16% degli impegni), concentrate nei paesi più poveri.

I principali responsabili di produzione di Co2 sono Cina, Usa, Ue, India, Russia, Indonesia, Giappone. Se calcolato pro capite, in testa ci sono gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Australia, il Canada. Enormi interessi economici si scontrano, sia al Nord che al Sud, nei paesi produttori di petrolio, negli emergenti. La «crescita verde», termine adottato nel 2005 alla conferenza di Seul, è in parte ancora nel cassetto — il Pil è legato al consumo di energia e l’energia è a maggioranza di origine fossile — anche se molti economisti e ormai qualche industriale fanno intravvedere grandi possibilità di ripresa economica. La riconversione verso energie rinnovabili è solo all’inizio, ha ancora costi alti (e alcuni paesi, Francia in testa, vantano le qualità del nucleare «pulito» in Co2). Sul tavolo dei negoziati c’è il «prezzo» del Co2, che per il sistema economico dominante sarebbe la strada maestra per uscire dalla crisi, cioè colpire il portafoglio per convincere obtorto collo a investire nelle energie rinnovabili.

Una vicenda locale che meriterebbe attenzione nazionale: leggi ad personam nell'epoca Renzi. Pescaranews.net, 28 novembre 2015


La società dei figli dell'avvocato difensore di D'Alfonso e di tanti altri politici abruzzesi ha vinto al Consiglio di Stato e quindi potrà costruire sulla riviera sud (lato mare) accanto alle aree ex-Cofa tre palazzi alti 21 metri. Quando passeranno davanti a quel muro di cemento sul mare i pescaresi potranno prendersela con Comune, Regione e parlamento che hanno fatto di tutto per rendere possibile un intervento illegittimo.

Innanzitutto va detto che la società dei Milia e Mammarella ha vinto perché il Consiglio di Stato ha ritenuto non legittimati i vicini ricorrenti che avevano vinto al TAR. Cosa che non sarebbe accaduta se a ricorrere in difesa della sua pianificazione urbanistica fosse stato il Comune di Pescara. Purtroppo la Giunta Alessandrini si è costituita ma per sostenere il progetto edilizio scegliendo di essere complice e sostenere l’operazione che era stata autorizzata all’epoca della giunta Mascia.

Il TAR aveva bocciato il permesso dando ragione a quanto sostenuto da Rifondazione Comunista: il tribunale amministrativo aveva confermato che le norme del “decreto sviluppo” di Berlusconi, rese permanenti da una pessima legge regionale di recepimento, non si applicano nelle aree sottoposte a piani particolareggiati.

Ma non basta prendersela con l’amministrazione di centrodestra che rilasciò il permesso e quella Alessandrini che lo ha difeso. Infatti in soccorso di Milia-Mammarella è sceso in campo lo stesso parlamento. Infatti – come da me denunciato dopo che per mesi avevano tenuta nascosta la cosa – nel dicembre 2014 è stato approvato un emendamento alla legge di stabilità con un'interpretazione autentica (quindi retroattiva) che sembrava scritta ad hoc per sbloccare il progetto. Infatti la norma precisa che le deroghe e i premi di volumetria si applicano anche all’interno dei piani particolareggiati. La norma è stata ovviamente brandita dai privati e dagli stessi avvocati del Comune contro la sentenza del TAR.

Come è stata approvata in parlamento questa cosa? A presentare l’emendamento in Senato è stato un senatore siciliano, a recepirlo è stato il governo Renzi che l’ha inserito nel maxi-emendamento alla legge di stabilità su cui il governo ha chiesto la fiducia. La norma che cancella ogni regola pianificatoria pubblica è stata votata in parlamento dalla maggioranza NCD-PD .

La relatrice di maggioranza sulla legge di stabilità era la senatrice pescarese Federica Chiavaroli che quando il sottoscritto ha scoperto la “porcata” dopo mesi dall’approvazione ha detto di non saperne nulla. Ricordo che essendo ancora in vigore la legge regionale scritta dai palazzinari pescaresi e fatta approvare con grande impegno dai consiglieri di centrodestra ma che piace anche al PD che non l'ha abrogata la nuova norma di interpretazione autentica si applica a tantissime altre situazioni con effetti devastanti (in pratica vengono superati tutti i piani attuativi comunali). Le regioni in cui sono in vigore analoghe leggi sono Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia. Forse Lazio.

Ricordo che per studiare una progettazione unitaria del piano particolareggiato il Comune di Pescara negli anni scorsi ha speso centinaia di migliaia di euro.

Quando mesi fa ho lanciato l'allarme c'è stata totale omertà politica: nessun partito, esponente politico, parlamentare, consigliere comunale o regionale ha ritenuto di intervenire nonostante le aree siano da anni considerate strategiche e oggetto di ampio dibattito pubblico. Ora speriamo si svegli qualcuno per abrogare questa legge vergogna.

«Fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima». Il manifesto, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

A pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi, Beirut, Bamako e Tunisit la Francia ospiterà la COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima.

Non sarà facile raggiungere un accordo vincolante per limitare il riscaldamento climatico globale sotto i 2°C o opporsi al modello «dell’iperproduzione e dell’iperconsumo» quando la Francia e l’Occidente sembrano accecati dall’odio e parlano esclusivamente il linguaggio della vendetta. Quando il socialista Hollande chiama l’intera Europa, l’occidente e i suoi alleati ad una nuova guerra infinita ed intanto vieta tutte le manifestazioni pubbliche, vara leggi speciali e lo stato di emergenza, sospende le democrazia o quando il capo del governo francese, Valls, annuncia possibili attacchi chimici, contribuendo ad alimentare la paura che ci spinge a modificare i nostri stili di vita, ad abbandonare «lo spazio pubblico» e rinchiuderci ulteriormente nel privato.

Il clima di terrore nel quale siamo precipitati aumenta il rischio di fallimento della Conferenza di Parigi. D’altronde, già prima che le spese finanziarie per pagare eserciti e guerre fossero escluse dal patto di stabilità, così come approvato pochi giorni orsono dalla Commissione Ue, gli impegni finanziari erano molto al di sotto dei 100 miliardi necessari, come le misure concrete per ridurre le emissioni di gas serra e la dipendenza dai combustibili fossili e dal nucleare, che sono tra le cause principali delle innumerevoli guerre oramai giunte nel cuore dell’Europa, e che ancor oggi godono di 5 volte i sussidi pubblici rispetto alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Infatti, nel 2013 Gran Bretagna, Germania, Italia, Giappone e Francia hanno bruciato il 13% di carbone in più rispetto al 2009. Me la Spagna di Rajoy mette addirittura una tassa sull’energia solare evidenziando una vera volontà politica per non far decollare le rinnovabili.

In Italia Renzi autorizza le trivellazioni contro la volontà di intere comunità. Ennesimo atto di arroganza del governo, che si presenterà alla conferenza di Parigi portando in dote questo regalo fatto alle multinazionali del petrolio, a cui si aggiungono i continui colpi inferti alle rinnovabili.

Se si superassero i 2°C di aumento della temperatura il livello del mare aumenterebbe di 5 metri entro il 2065, con un aumento di 4°C sarebbero a rischio i paesi del Mediterraneo, Nord Africa, Medio Oriente e America Latina. Se a questo aggiungiamo altre variabili, quali le guerre per l’accaparramento delle risorse naturali, il consumo di suolo, la carenza di risorse idriche, la cementificazione dei territori, le pratiche di «land grabbing», le conseguenze sulla parte più indifesa delle popolazioni potrebbero essere enormi, tanto da provocare una vera e propria crisi umanitaria. Centinaia di milioni di profughi in prospettiva.

Diventa, dunque, fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima. In tante capitali del mondo i movimenti e la società civile scenderanno in piazza per far sentire la voce dei popoli, per ridurre il riscaldamento climatico sotto l’1,5°C, per un modello alternativo al neoliberismo, per la difesa dei beni comuni, contro il terrorismo, contro le guerre, contro il razzismo e per la libera circolazione dei migranti, contro le politiche securitarie e il drastico restringimento delle libertà collettive e individuali.
È giunto il momento di contribuire, ognuno per la propria parte, alla ricostituzione di un movimento capace di coniugare le battaglie globali sul clima e la giustizia ambientale e le azioni a difesa del territorio e la giustizia sociale.

Non c’è un gran clima in giro per il mondo ed ecco perché il 29 Novembre i movimenti e le associazioni italiane scenderanno in piazza a Roma — alle 14 da Campo de’ Fiori ai Fori Imperiali — per il clima e per la pace, facciamo sì che questa giornata segni l’inizio di un nuovo e inedito protagonismo della società civile italiana!

«L’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, Per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”. La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Che cosa c’entra il clima con la coltivazione della terra e con il nostro cibo quotidiano? Alcuni numeri possono dare una prima risposta. Su scala mondiale, l’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, consumando il 70% delle risorse idriche disponibili. I fertilizzanti a base di azoto rappresentano il 38% delle emissioni dell’agroalimentare. Allevamenti industriali sempre più grandi producono grandi quantità di deiezioni, creando problemi di inquinamento e smaltimento; il mangime arriva da monocolture intensive, spesso lontane centinaia o migliaia di chilometri, e causa di deforestazione. Il settore zootecnico - di conseguenza - è responsabile del 14% dei gas serra.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima (in vista dell’appuntamento di Parigi, dove si incontreranno i governi di tutto il mondo per tentare di trovare un accordo, dopo oltre 20 anni di dibattiti, mediazioni e forum fallimentari) il settore dell’agricoltura è relegato ai margini. Nelle 54 pagine del testo dei negoziati, non compaiono nemmeno una volta i termini “agricoltura”, “biodiversità” e “coltivazione”. L’attenzione si concentra sui settori dell’energia, dell’industria pesante, dei trasporti; si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.
La produzione del cibo, in realtà, rappresenta una delle principali cause e una delle prime vittime del cambiamento climatico. Le siccità sempre più frequenti, le inondazioni e il caldo estremo condizionano ogni produzione, sia vegetale sia animale. L’aumento di 1°C della temperatura media equivale a uno spostamento delle colture 150 chilometri più a nord e 150 metri più in alto. La biodiversità sta registrando livelli di erosione che non si erano mai verificati in passato. Secondo la Fao, negli ultimi 70 anni abbiamo perso i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti.
Ogni giorno, milioni di persone perdono terra, fonti d’acqua, cibo, e rischiano di trasformarsi in veri e propri profughi climatici. Secondo un rapporto della Banca Mondiale le conseguenze del cambiamento climatico potrebbero portare alla povertà oltre 100 milioni di persone entro il 2030. E queste comunità si trovano nelle regioni più svantaggiate del pianeta. In gioco, quindi, c’è anche la giustizia sociale. L’equilibrio fra uomo e natura si è rotto quando abbiamo iniziato a gestire le fattorie come industrie. L’industria non tollera i tempi della natura.
L’agricoltura industriale è nata dopo la seconda guerra mondiale per riconvertire l’industria bellica. Il nitrato di ammonio, principale ingrediente degli esplosivi, era infatti anche un’ottima materia prima per produrre i fertilizzanti, che hanno affiancato i fosfati minerali, introdotti in agricoltura 150 anni fa. Prima di allora si arricchivano i terreni grazie alla rotazione con le leguminose e al letame. Da quel momento, abbiamo iniziato a comprare fertilizzanti chimici di sintesi. E poi pesticidi, diserbanti e carburanti per la meccanizzazione. Abbiamo puntato sempre più su monocolture e produzioni di massa, a scapito di suolo, acqua, foreste e oceani.
L’impatto ambientale di questo modello riguarda la produzione, ma anche il trasporto e la distribuzione degli alimenti. Siamo abituati a disporre di qualunque prodotto in ogni stagione e così i prodotti percorrono migliaia di chilometri, attraversano gli oceani e consumano quantità enormi di combustibili fossili. Questo modello si basa su un’idea di crescita infinita. Produrre sempre di più e sempre più velocemente, inoltre, non ha risolto il problema della fame, anzi.
Il paradosso più stridente è che, da un lato, la quantità di cibo prodotta nel mondo supera il necessario (potrebbe sfamare addirittura 12,5 miliardi di persone, ben più dei 7 miliardi attuali), ma dall’altro, 800 milioni di persone continuano a soffrire la fame. L’altra faccia di questo sistema iperproduttivistico, infatti, è lo spreco. Ogni anno, buttiamo via circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, ovvero un terzo degli alimenti prodotti. A livello europeo, si possono attribuire circa 170 megatonnellate di CO2 allo spreco alimentare, equivalente al totale delle emissioni della Romania o dell’Olanda nel 2008. Il cibo prodotto ma non consumato usa quasi 1,4 miliardi di ettari di terra, che rappresentano quasi il 30% dell’area coperta da terreni agricoli nel mondo.
Per affrontare concretamente il problema del riscaldamento climatico, è necessario cambiare radicalmente paradigma - economico, sociale e culturale - promuovere un’agricoltura basata su pratiche agroecologiche e un sistema diverso di produzione, distribuzione e accesso al cibo. La società civile è impegnata su questi temi da tanti anni e, anche in occasione della conferenza di Parigi, si stanno mobilitando associazioni di produttori, di consumatori, di ambientalisti di tutto il mondo.
Come Slow Food, ci rivolgiamo ai rappresentanti dei paesi e delle istituzioni internazionali riuniti a Parigi e chiediamo che l’agricoltura sia posta al centro del dibattito. E per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”, che è già stato sottoscritto da centinaia di organizzazioni e associazioni e che invitiamo tutti quanti a firmare, andando sul sito www.slowfood.it
Riferimenti

Sullo stesso argomento un punto di vista complementare sul ruolo dell'agricoltura sui cambiamenti climatici è quello proposto su eddyburg dal nostro opinionista Piero Bevilacqua, Economia estrattiva e beni comuni. Sul rapporto tra cibo e petrolio si veda anche l'opinione di Giorgio Nebbia Ricordando il petrolio. Sul superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare si veda di Guido Viale Il clima (e non solo) a Parigi.

«Questa mattina all'Ara Pacis di Roma. La riqualificazione urbana e la gestione dei servizi possono, se bene indirizzare guidare la crescita economica e valorizzare le città». Ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com, 27 novembre 2015

La filiera integrata del real estate oggi rappresenta il 20% del Pil italiano e circa due milioni di posti di lavoro, ma ha un enorme potenziale di crescita.Il lavoro da fare è tanto. Pensiamo, a esempio, al consumo di suolo, passato dal 2,9% degli anni 50 al 7,3% del 2012, che oggi richiede razionalità e salvaguardia ambientale; pensiamo al degrado fisico e sociale delle aree urbane storiche e periferiche: 2,6 milioni di edifici in mediocre o pessimo stato di conservazione (ricerca Cresme); per finire consideriamo il patrimonio costruito prima del 1971 - cioè 7,2 milioni di edifici - che non risponde a criteri antisismici. Per comprendere il valore di tali azioni da compiere, si consideri che nel 2014 gli investimenti nelle costruzioni sono arrivati a 170 miliardi e che lo sviluppo nel campo dei servizi in genere coinvolge il maggior numero di occupati, pari al 64% degli occupati totali, di cui oltre 12 milioni nel solo settore privato. In altre parole, riqualificazione urbana e gestione dei servizi rappresentano un giro d'affari colossale che, se ben indirizzato e coordinato, può largamente superare ogni aspettativa economica e proiezione di crescita. Parliamo anche di un settore tra i più penalizzati dalla crisi economica, e che non ha margini di recupero se non interviene una strategia politica di lungo respiro che ridia vigore al mercato reale.

Il comparto immobiliare oggi è a una sorta di anno zero, ancora alle prese con una crisi lunga e grave (da cui solo alcune aree del Paese cominciano a emergere), in un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all'ostinazione del popolo dei «No». «Insomma, l'economia italiana ha una grande risorsa inutilizzata, o mal interpretata, e che invece può essere, con nuove regole e nuovi modelli gestionali, il più straordinario volano di sviluppo per tutto il Paese», dice Alfredo Romeo, presidente di Osservatorio Risorsa Patrimonio-Italia (promosso da Romeo gestioni, Nomisma e Cresme consulting). Questa risorsa, precisa Romeo, è «il territorio nel suo complesso che, con poche iniziative destinate alla valorizzazione, può essere il motore di una ripresa generale soprattutto se si ferma quella distorsione del mercato provocata dai fondi immobiliari che fanno gli amministratori di condominio invece di valorizzare i beni gestiti». Con quali risorse intervenire in tempi di drastici tagli alla spesa? Ci sono modelli tecnici e amministrativi che possono esse adottati. E in più ci sono norme attuative che prefigurano in modo concreto le opportunità di intervento coinvolgendo, oltre alle Amministrazioni, anche cittadini e imprese.

Una formula che offre promettenti orizzonti di investimento e di ritorno economico è l'articolo 24 del Decreto "Sblocca Italia" (Dl 133/2014) che promuove un modello bottom-up. «Questa norma - insiste Romeo - può rappresentare il detonatore capace di far esplodere il vero cambiamento sul tema delle valorizzazioni, perché concilia tre elementi cruciali: la responsabilità sull'attuazione del progetto della pubblica amministrazione, la condivisione e la partecipazione dei cittadini e soprattutto l'interesse dei privati a investire». Conclusioni, sintesi e riflessioni, su tutto questo corpus di studio sono al centro del seminario in corso di organizzazione dal titolo «Gestire le città – La risorsa Territorio per un New Deal italiano». L'incontro, che si tiene oggi a Roma (Auditorium Ara Pacis) e che viene moderato dal direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, presenta un programma articolato.

All'introduzione di Alfredo Romeo, il quale si intrattiene sul tema «Cultura e qualità dei servizi: il New Deal necessario», segue la relazione di base, curata da Roberto Mostacci, del Comitato Scientifico Orp-Italia. In una seconda fase del seminario si succedono altri autorevoli interventi: Luigi Nicolais, presidente del Cnr si occupa di «Territori della ricerca»; Roberto Reggi, dg dell'Agenzia del Demanio interviene su «La ricchezza delle valorizzazioni – I modelli innovativi»; Paolo Crisafi, dg di Assoimmobiliare parla di «Oltre l'immobiliare: nuove proposte contro la crisi del mercato»; Veronica Nicotra, segretario generale dell'Anci parla della «Sfida del cambiamento nella Pa e negli Enti Locali». A Dario Nardella, sindaco di Firenze, va il compito di raccontare un'esperienza diretta di «Partecipazione dei cittadini nella gestione della città». Infine, Raffaele Cantone, presidente di Anac (Autorità nazionale anticorruzione) si occupa di «Rispetto delle regole o regole da cambiare? Il diritto come motore o freno dell'Economia» ed Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente e Territorio della Camera, chiude su «Qualità delle città, qualità della vita».

nota per eddy
sulla pagina personale di Alfredo Romeo il report del convegno
Roberto Reggi direttore del Demanio si descrive

Qualche utile richiamo sulla corposa realtò delle periferie, a ciò che sta dietro il teatrino della decisione del governo di stanziare un po' di soldi alle città. Ma per le imprese o per gli abitanti? La Stampa, 26 novembre 2015, con riferimenti in calce

Dietro l’annuncio di Renzi di destinare 500 milioni di euro aggiuntivi per le periferie ci sono posizionamento politico (anche internazionale, altro che proclami bellicisti) e strategia comunicativa (vedi citazione del «rammendo» di Renzo Piano, ormai di moda). Nessun piano segreto e specifico. Del resto basta fare due conti. I soldi vanno alle città metropolitane (tredici già istituite, la Sardegna potrebbe aggiungere Cagliari), da spendere entro il 2016 per progetti da presentare entro la fine di quest’anno. Meno di 40 milioni per città e 13 mesi per spenderli: tempi e soldi sconsigliano interventi giganteschi. Bisogna recuperare progetti già pronti. «Non c’è cifra che basterebbe a risanare le periferie italiane - dice l’urbanista Francesco Indovina -. 500 milioni sono una goccia nel mare, ma anche pochi soldi servono se spesi bene».

Recentemente Indovina ha pubblicato sulla rivista Archivio di studi urbani e regionali (FrancoAngeli) un saggio intitolato «Il ritorno delle periferie» in cui offre un utile approccio al problema. Innanzitutto bisogna uscire dallo stereotipo «centro bello-periferie brutte». Misurare il degrado urbano ampliando il raggio del compasso sulla mappa può valere per le banlieue parigine, non per le principali città italiane «che invece si presentano sempre più a pelle di leopardo, con diversi centri e diverse periferie mischiate». Renzo Piano docet: il Giambellino, che il suo staff sta «rammendando», nasce come periferia negli Anni 30, ma ormai è semicentrale. E Stefano Boeri, architetto e docente al Politecnico cui fanno torto le eccessive celebrazioni per il «bosco verticale», ha detto di sentirsi più a disagio in piazza Cordusio che in tante periferie.

Nuova e ibrida geografia urbana, dunque, in un contesto di disuguaglianze crescenti, servizi pubblici ridotti, risorse finanziarie scarse. Il rischio che corre il governo è ridurre tutto a un’operazione di riqualificazione edilizia. Accresciuti valori immobiliari di palazzi abbelliti producono come prima conseguenza l’espulsione di una fetta della popolazione, che non può permettersi di «pagare» e si sposta altrove. «Per una periferia risanata se ne crea un’altra degradata», dice Indovina citando Harlem a New York, dove la quota di popolazione nera è calata.

La Regione Lazio ha stanziato 20 milioni per risanare il serpentone di cemento (1 chilometro, 5 mila abitanti, il 30% abusivi) del Corviale. L’Istituto nazionale di urbanistica propone di «creare una vera e propria industria della rigenerazione urbana», attingendo alle risorse private con incentivi fiscali tipo ecobonus, replicati su larga scala ed estesi alla dimensione culturale e sociale.

Ma serve quella che l’urbanista napoletano Aldo Loris Rossi chiama «visione olistica» applicata alle città. Approccio soft, processi partecipati, più servizi e socialità che cantieri. Meglio un piccolo locale riutilizzato da un’associazione di quartiere che un grande centro giovanile gestito da funzionari comunali. Non è sempre necessario guardare lontano, dai quartieri sostenibili di Friburgo ai «bandi del barrio» di Barcellona.

Tralasciando le più illuminate iniziative bolognesi degli Anni 70, basta studiare la recente riappropriazione di piazzetta Capuana a Quarto Oggiaro (Milano), la ventennale esperienza di Borgo Campidoglio a Torino, le oltre 400 «social street» nate dal 2011. Gruppi nati su facebook che coniugano attività ludica e sociale, dalle feste di quartiere ai muri tinteggiati, dalla raccolta di cibo in scadenza all’assistenza agli anziani. La social street Baia del Re di Milano si segnala per l’integrazione degli immigrati. «Senza connessione tra le persone, ogni progetto di rigenerazione urbana fallisce», spiega Cristina Pasqualini, sociologa della Cattolica e autrice della prima ricerca sul tema.

E mentre si spendono soldi per periferie degradate, sarebbe il caso di non costruirne di nuove. Nel 1968, fu una grande conquista urbanistica l’obbligo di destinare ai servizi di quartiere almeno 18 metri quadri per abitante. Erano altri tempi e l’urbanistica non era morente come oggi. La Lombardia fu la prima, nel 1975, a portare lo standard a 26,5 metri quadri, seguita negli anni successivi dalle altre Regioni. Nel 2005 la Lombardia formigoniana torna indietro agli standard del 1968. Secondo i conti di Sergio Brenna, docente al Politecnico, a Porta Nuova sono diventati 16 metri quadri, monetizzando (a prezzo irrisorio) la differenza al Comune. E si rischia di peggiorare ancora nei nuovi quartieri pianificati in limine mortis dalla giunta Pisapia, in geometrica continuità con quella Moratti.

Lunga e accidentata la via italiana del rammendo, sia a destra che a sinistra.

Riferimenti

Al tema delle periferie eddyburg ha dedicato e dedica grande attenzione. Nell'archivio della vecchia edizione del sito trovate un'intera ricchissima cartella, precisamente qui: Periferie con scritti, non solo di urbanisti e architetti, ma anche di sociologi, filosofi, antropologi, geografi, relativi a singoli episodi e luoghi dell'Italia, di altri paesi del primo mondo e degli altri. Più scarna è la documentazione raccolta nell'edizione 2013 di eddyburg, nella cartella anch'essa denominata Periferie (ma non ancora raggiungibile dai menu a tendina)

«La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015

Uno degli effetti indesiderati delle conferenze mondiali sul clima è che essi rafforzano, nella mente del comune cittadino, l'impressione di una spoliazione delle proprie possibilità d'azione, la certificazione dell'inefficacia del suo agire personale. Come se la soluzione dei problemi fosse interamente affidata agli accordi internazionali tra gli stati, chiamati a quella sorta di consulto mondiale sulla salute del pianeta. Un sentimento di impotenza, che induce, nel migliore dei casi, all'attesa di un vaticinio finalmente fausto per il nostro avvenire.

E invece il fatto che si ponga al centro dell'attenzione, sia pure per pochi giorni, il grande tema del riscaldamento globale, costituisce un'occasione importante non solo per familiarizzare con una nuova cultura scientifica, ma anche per indicare il ruolo attivo, le possibilità di lotta e di contrasto che hanno i singoli individui, le associazioni, le popolazioni, nei loro territori, indipendentemente dalle stesse scelte degli stati. Partiamo da un rilevante dato scientifico che mostra le enormi potenzialità a nostra disposizione per mitigare la concentrazione di gas serra nell'atmosfera.
Come viene ricordato nel manifesto Terra viva (2015), coordinato da Vandana Shiva, sulla base di studi scientifici recenti «I suoli rappresentano il più grande bacino per l’assorbimento del carbonio e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico. Il suolo è dunque capace di assorbire gas serra. Esso contiene in tutto il mondo il doppio di carbonio rispetto all’atmosfera e trattiene più di 4000 miliardi di tonnellate di carbonio». Dunque il terreno è un immenso serbatoio di vita che trattiene e metabolizza carbonio contribuendo in maniera rilevante all'equilibrio climatico di tutta la biosfera. E' noto, grazie alle scienze ecologiche, che l'aratura dei suoli sprigiona co2 nell'atmosfera, così come accade quando si abbattono gli alberi di boschi e foreste.
Ma tutta l'agricoltura industriale del XX e secolo, la stessa rivoluzione verde degli anni '60 e '70, le agricolture biotecnologiche degli anni recenti hanno ignorato sovranamente questa verità. E non a caso. Esse sono figlie legittime della logica lineare ed estrattiva che connota il capitalismo del nostro tempo. Un rapido sguardo mostra il grande paradosso economico ed ecologico sui cui si fonda l'edificio dell'alimentazione contemporanea: dopo essere stata, per tutti i precedenti millenni della sua storia, produttrice netta di energia sotto forma di cibo, l'agricoltura è una consumatrice passiva di energia sotto forma di concimi chimici, diserbanti, pesticidi, irrigazione ( azionata da motori elettrici), movimentazione di macchine agricole, ecc. Su questo squilibrio drammatico nel bilancio energetico dell'agricoltura contemporanea abbiamo dati inoppugnabili e clamorosi.
Confrontando i dati sulla produzione granaria mondiale tra il 1950 e il 1985 e il consumo energetico nello stesso periodo, ricaviamo una divaricazione statistica senza precedenti. La crescita produttiva in questi 35 anni è stata del 250%. Ma il consumo di energia è esploso, toccando la percentuale del 5000% (D.A. Pfeiffer, Eating fossil fuels. Oil, food and the coming crisis in agriculture, 2006 ) Mangiamo, dunque, petrolio. Ma questo dato fornisce una evidenza solare all'insostenibilità ambientale del capitalismo. La crescita produttiva dell'agricoltura è dovuta all'uso del potassio, ai fosfati, sottratti nelle varie miniere del mondo e soprattutto al consumo di petrolio a buon mercato per fabbricare azoto, elaborare i concimi, produrre i diserbanti e i pesticidi, ecc. e al ricorso all'acqua, che costituisce il 70% dei consumi idrici mondiali. Non è un caso che all'agricoltura viene addebitata la produzione del 40% dei gas serra.
Ma tutti questi imput non sono dei ritorni ciclici di energia organica alla terra, come accadeva nella vecchia agricoltura. Sono la dissipazione lineare di energia fossile sottratta alla terra una volta per sempre. I concimi chimici non fertilizzano il terreno, nutrono direttamente la pianta, mentre il suolo si isterilisce ed è sempre meno capace di trattenere carbonio, acqua, vita. All'effetto serra delle estrazioni minerarie e delle produzioni industriali si assomma quello del suolo impoverito di sostanza organica. Di più. Il crescente emungimento di acqua tramite i pozzi impedisce il riformarsi delle falde idriche. La mancanza di rotazioni agrarie nelle coltivazioni non consente ai suoli di ripristinare la propria fertilità e le proprie difese dai parassiti, costringendo gli agricoltori ad accrescere il peso della chimica. La rottura dei cicli, che costituiscono il modo di evoluzione della natura, blocca la rigenerazione circolare delle risorse, imponendo la continuazione dell'economia estrattiva e lineare, sempre più economicamente costosa, sempre più ambientalmente distruttiva.

Dunque, l'agricoltura è un ambito in cui molto si può fare dal basso per ridurre l'effetto serra. Molte pratiche agricole sono già in atto, per ridare al suo suolo la sua piena funzione di ecositema: l'agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura (che elimina o riduce l'aratura dei suoli), il ricorso ai concimi organici e al compost. Ma ancora tanto si può fare, attraverso uno sforzo di lunga lena capace di produrre una trasformazione culturale profonda a livello di massa, e intercettando un filone teorico di critica dirompente al capitalismo del nostro tempo. Pensiamo all'atteggiamento dissipatore che domina ancora nelle zone agricole. Ogni anno, nei mesi dall'inverno alla primavera, le campagne fumano. Gli agricoltori bruciano in qualche angolo della loro azienda la ramaglia della potatura delle piante o delle siepi. Si tratta di altra anidride carbonica che si aggiunge a quella solita. Ma si tratta anche di una rilevante quantità di biomassa che potrebbe trovare altri usi, e che l'assenza di una organizzazione di raccolta rende impossibile. Eppure essa si imporrebbe, soprattutto per ragioni culturali. Il materiale che la natura produce non va distrutto, deve ritornare in qualche modo alla terra, o trovare comunque un uso economicamente utile. Si deve spezzare in ogni ambito la logica dell'estrazione lineare.

Ma la scoperta del ruolo che il suolo gioca nell'assorbimento del carbonio ci porta a ricordare quanto si possa fare per ripristinare un'economia circolare, che aiuti la natura a chiudere i suoi cicli. E un ambito rilevante è quello del rapporto tra la città e la campagna. Per secoli, in Italia, come nel resto d'Europa e del mondo, la città non era solo consumatrice di beni agricoli, ma riforniva le campagne di energia sotto forma di letami, deiezioni, materia dei pozzi neri, ecc. (E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino 2001).

La raccolta differenziata dei rifiuti rappresenta una delle leve per fondare una nuova economia del riciclo, che rompa la logica estrattiva, e avvii un nuovo corso. Quanti dei nostri rifiuti organici possono ritornare al terra per renderla più fertile, più capace di trattenere acqua e carbonio? Ma il grande snodo teorico che può fondare una svolta anche politica di rilevante portata è una acquisizione del pensiero ecologico recente: comprendere che la città è un ecosistema. Essa non è , sotto il profilo fisico, una foresta di pietre. Oltre a costituire una vorace dissipatrice di energia prodotta al suo esterno, essa vive dentro un territorio, che condiziona e da cui è condizionata: altera il clima generando calore, inquina l'aria e i suoli dei d'intorni con discariche, fabbriche, ecc.

Ebbene oggi sappiamo, in Italia meglio che in qualunque altro Paese d'Europa, che l'asfalto e il cemento impediscono l'assorbimento dell'acqua piovana, ormai causa sistematica di allagamenti devastanti anche nei centri urbani. Un tempo le periferie erano in gran parte orti o campi, oggi sono strati di cemento che veicolano le acque piovane sulla città in forma di fiumi. Sappiamo inoltre che la progressiva sparizione di spazi verdi in città e nei dintorni aumenta la presenza di particolato nell'aria, che non viene assorbito né dagli edifici, né dall'asfalto. Non solo lo smog, anche l'edificato contribuisce a rendere patogena l'aria che respiriamo.
La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore. Esso ci protegge dalla pioggia, dall'inquinamento aereo, dal riscaldamento climatico. Le conseguenze politiche che si debbono trarre da queste verità rappresentano un terreno di conflitto da far esplodere in ogni angolo della Penisola. Orti e alberi dentro e fuori la città, in tutte le aree dismesse e in tutti gli spazi possibili, devono contrastare la distruttività lineare dell'edificazione.
Qualunque lembo di terra sottratto alla sua condizione di campo è un atto contro il bene comune della sicurezza urbana, un incremento dei danni alla nostra salute, un tassello all'accrescimento del riscaldamento climatico e alla invivibilità estiva nelle nostre città. La proprietà fondiaria dei privati non può fornire a questi alcun diritto a edificare e a coprire suolo con cemento. Il bene comune oggi appare troppo sovrastante rispetto al profitto solitario dei singoli. Ecco un punto nevralgico in cui le scienze ecologiche danno al pensiero politico della sinistra l'universalità e la potenzialità egemonica che essa ha perduto. L'unificazione del mondo rende ormai troppo evidente che la predazione estrattiva dei pochi costituisce un crescente danno per tutti.

Dov'è il governo pubblico delle trasformazioni della città? Non cercatelo nella pianificazione nel dibattito pubblico, nelle regole uguali per tutti. Contano solo gli interessi immobiliari dell'età della globalizzazione Il Sole 24ore, 26 novembre 2015

Dopo un lungo periodo di incognite finalmente si trova l'accordo per il palazzo del Poligrafico e della Zecca dello Stato di Piazza Verdi a Roma.
Il progetto di farlo diventare un hotel di lusso si concretizza grazie alla firma tra Residenziale Immobiliare 2004 (controllata da Cdp Immobiliare al 75% e partecipata da Finprema del gruppo Fratini con il 25%) e il gruppo cinese Rosewood Hotels and Resorts International Limited (controllato dal gruppo New World China Land quotato ad Hong Kong e che fa capo alla famiglia Cheng) di una lettera di intenti per la futura gestione sia dell'hotel sia delle residenze previste nell'edifico di Piazza Verdi in Roma.
A svettare sul complesso sarà quindi il marchio del gruppo Rosewood (in passato era stato fatto più volte il nome di Four Seasons) che in giro per il mondo vanta hotel del calibro del Carlyle di New York, Las Ventanas al Paraíso a Los Cabos in Messico, il Jumby Bay ad Antigua, ma anche l'Hotel de Crillion a Parigi e così via.
Il progetto di valorizzazione della sede storica del Poligrafico e Zecca dello Stato prevede la realizzazione di un hotel di extra lusso per complessive 200 camere circa, centro congressi, ristoranti, piscina, Spa, oltre a circa 50 residenze private gestite dallo stesso operatore alberghiero. La riqualificazione di questa parte sarà a cura di Rosewood, mentre a Residenziale Immobiliare 2004 restano ulteriori 28mila metri quadrati da sviluppare con residenze di lusso e uffici.
Sul mercato si sono rincorse anche molte voci in passato su una possibile vendita del complesso sul mercato. Il termine dei lavori è previsto per il 2018, mentre tutte le autorizzazioni per procedere sarebbero già a posto.

Un servizio di Ernesto Ferrara e un commento di Tomaso Montanari sull'incredibile gaffe di Nardella, Anche Firenze ha il suo Brugnaro. La Repubblica, 25 novembre 2015

L’assalto del turismo ai monumenti. I tunnel della Tav e della nuova tramvia che passerebbero non lontani da capolavori come il Duomo, Santa Croce e la Fortezza da Basso. E poi lo shopping immobiliare, decine di grandi palazzi che passano in mani private per diventare alberghi o residenze di lusso, e in certi casi si tratta di opere storiche come la Rotonda del Brunelleschi, gioiello quattrocentesco che l’associazione invalidi di guerra sta valutando di vendere. L’Unesco lancia l’allarme su Firenze. Tramite l’Icomos, il consiglio internazionale per la tutela dei siti che è il principale consigliere del World Heritage Council, trasmette già nel maggio scorso un avvertimento con richiesta di spiegazioni al Comune.

Per 5 mesi la missiva resta top secret finché non è proprio l’erede di Matteo Renzi a Palazzo Vecchio, il sindaco Dario Nardella, a rivelarne in parte i contenuti lo scorso 16 ottobre: «Ci è arrivata una comunicazione formale dall’Unesco in base alla quale Firenze è sotto osservazione. Questo perché non abbiamo ancora applicato il piano di gestione della tutela in maniera completa», confessa Nardella presentando un pacchetto di misure contro degrado e minimarket che, dice, va proprio nella direzione chiesta dall’Unesco. Ma il “warning” dell’ente internazionale in realtà pone pure altri problemi. Che emergono dal testo integrale della missiva, trasmesso dal Comune ai consiglieri di opposizione che ne avevano fatto richiesta e oggi diffuso dalla rete dei comitati cittadini e da alcuni firmatari di un esposto proprio all’Unesco: impatto delle grandi opere, palazzi in vendita, gestione dei flussi turistici. «L’Icomos ritiene che l’Italia potrebbe accogliere nel centro storico di Firenze una missione di consulenza», si legge addirittura nella lettera che il 27 maggio l’ex direttore del centro mondiale Unesco Kishore Rao trasmette all’ambasciatrice permanente Vincenza Lomonaco e poi a Palazzo Vecchio. E ora in città scoppia la polemica: «Altro che degrado, c’è ben altro».

Non che Firenze sia la prima città italiana a finire sotto la lente dell’Unesco. Venezia per le grandi navi, Pompei per i crolli, Tivoli con la sua Villa Adriana sono solo i casi più recenti. Se Pompei ha seriamente rischiato di finire nella “black list”, Firenze è ben lontana da questo punto. Ma un segnale è arrivato. Da una parte l’invito a varare un piano di gestione che affronti il tema dell’arrembaggio del turismo con strategie migliori. Dall’altra, l’allarme sulle opere e sul rischio di snaturare con cessioni e piani urbanistici un centro storico ritenuto dall’Unesco «unica realizzazione artistica». Nardella minimizza: «Quello dell’Unesco non è un allarme e non è un richiamo. È una richiesta di spiegazioni cui stiamo rispondendo. Sul turismo abbiamo un piano contro il “mordi e fuggi”, sulla tramvia interrata ancora non c’è nemmeno lo studio di fattibilità ». Anche il presidente della commissione italiana Unesco, Francesco Puglisi, frena: «È una lettera di routine». Ma la polemica infuria.

Idea di Renzi sindaco, il progetto di un “mini metrò” sotto il centro con fermate sotto piazza Repubblica e Santa Croce è ancora una teoria. Eppure Icomos già nota «che il centro storico è a rischio inondazione e la situazione idrogeologica di vaste parti della città è a classificata a rischio molto alto», e chiede chiarimenti sull’ipotesi. «Il progetto non c’è ancora, appena avremo più informazioni le daremo all’Unesco in uno spirito di piena collaborazione », garantisce Nardella. E c’è anche il tunnel Tav ad allarmare: 7 chilometri con tracciato sotto la medicea Fortezza da Basso. «Icomos nota che l’arresto imposto dalle inchieste giudiziarie e dai problemi tecnici potrebbe essere un’opportunità per un’analisi più approfondita sull’impatto prima che ricomincino i lavori». E poi i palazzi del centro storico in vendita con possibili cambi di destinazione d’uso, 13 grandi edifici storici sul mercato e trasformazioni in vista su 200mila metri quadrati. Icomos, in particolare, chiede chiarimenti sulla Rotonda del Brunelleschi che l’Associazione nazionale mutilati di guerra, proprietaria, valuta se vendere. I comitati temono ci possa nascere un albergo. «Noi stiamo dando slancio ai nuovi investimenti con attenzione alla residenza, il nostro problema sono gli edifici dismessi», obietta Nardella.

La lettera datata maggio ma resa nota dai comitati cittadini in questi giorni Il sindaco: risponderemo A destare timori anche l’assalto dei turisti e il progetto del mini-metrò non lontano dal Duomo


SALVIAMO LA CITTÀ DALLA SINDROME DI VENEZIA
di Tomaso Montanari
Che la lettera dell’Unesco al governo italiano sullo stato di Firenze abbia una vera rilevanza politica lo prova il fatto che il sindaco Dario Nardella l’abbia chiusa per sei mesi in un cassetto: se oggi tutti possiamo leggerla è grazie alla Rete dei comitati per la difesa del territorio.

L’Unesco entra a piè pari nella politica della città, rilevando l’«insufficient management of tourism», anzi l’«absence of tourist strategy». L’assenza di un qualunque governo del turismo è uno dei problemi principali del Paese: sia da un punto di vista dello sviluppo economico (fino a quando l’Enit sarà bloccato da una paralisi che Dario Franceschini non riesce a sanare?), sia da quello della sostenibilità ambientale e sociale. Firenze va verso Venezia, dice l’Unesco: cioè verso una progressiva espulsione dei residenti, una irreversibile trasformazione in lussuoso parco a tema del passato. Il rimedio non è certo fermare il turismo, ma governarlo: indirizzandolo verso l’enorme parte del Paese che è tagliata fuori, decongestionando i feticci ormai al collasso.
Colpisce poi la critica radicale alla privatizzazione dello spazio pubblico italiano. La lettera nomina esplicitamente il luogo simbolo di piazza Brunelleschi, nel cuore di Firenze. Qua si sta per scavare l’ennesimo, inutile parcheggio: pericoloso per i monumenti (siamo a pochi passi dalla Cupola del Duomo), lesivo della piazza (che sarà ridotta a tetto di un grande silos interrato), dannoso per i residenti. Contestualmente la Rotonda di Brunelleschi, opera importantissima del padre del Rinascimento, rischia di essere venduta, magari trasformata in albergo di lusso: sarebbe l’ennesimo caso. Anche questa è una tendenza nazionale: pericolosissima dopo che lo Sblocca Italia ha estromesso il ministero per i Beni culturali dalla scelta degli immobili da alienare. Il fatto che l’Unesco si preoccupi non solo della conservazione materiale dei monumenti, ma anche della loro funzione sociale e civile dovrebbe aprire gli occhi ai molti che — in Italia — sostengono che valorizzazione significhi mercificazione: dobbiamo invertire la rotta, se non vogliamo ridurci a guardiani di un luna park altrui.
Infine, l’impatto delle Grandi Opere sul tessuto del paesaggio e delle città: l’Unesco guarda con preoccupazione al sottoattraversamento Tav e al folle sventramento del centro storico previsto per la tranvia (cui ora si aggiunge il pessimo progetto del nuovo aeroporto fiorentino). Su questi temi l’Unesco loda l’azione dei comitati (i “comitatini” sbeffeggiati da Matteo Renzi) e critica la mancanza di collaborazione del governo italiano. Se quei cittadini fossero stati ascoltati (ovunque: pensiamo alla Val di Susa, dove il Tribunale Permanente dei Popoli ha appena condannato «l’intero sistema delle grandi opere inutili e imposte»), oggi l’Unesco non dovrebbe denunciare il tramonto di Firenze. La morale è che «è sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative. Nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato». E questo non è l’Unesco, né i comitati: è l’enciclica di papa Francesco.

Riferimenti
Qui potete leggere la denuncia della Rete dei comitati e il link al documento dell'Unesco e l'ampia relazione critica dell'Icomos. che abbiamo inserito ieri su eddyburg

«Villa Hèrion alla Giudecca, Palazzo Donà, la Poerio e la Favorita. A Mestre l’ex scuola Manuzio, l’ex terminal di Fusina e il parcheggio Candiani. Una mappa per navigare tra le vendite degli ultimi 10 anni». Nella mappa dinamica tutte le immagine degli immobili già sottratti ai beni pubblici e comuni, 23 novembre 2015

VENEZIA. Un piano che vale, su tre anni, dal 2015 al 2017, 82 milioni di euro. Valore economico orientativo visto che i precedenti piani delle passate amministrazioni non hanno fruttato granché.

Ma anche la giunta Brugnaro punta sulle alienazioni con varie novità inserite nell’assestamento di bilancio triennale di cui si discute in queste ore. Nel piano ci sono novità che allarmano. La Municipalità di Venezia si è già messa di traverso con Andrea Martini perché nel piano si chiede di mantenere l'alienazione per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo ma vengono aggiunti anche Palazzo Donà a S.Maria Formosa e soprattutto villa Herion alla Giudecca e scatta il timore, dice Martini, che l’operazione apra la strada, in cambio di un temporaneo beneficio di bilancio, all’apertura di nuovi alberghi. Entro fine anno dovrebbe essere venduta la vendita dell’ex palazzina Telecom del Lido di Venezia.

Negli ultimi dieci anni sono decine i palazzi già sedi di scuole, uffici pubblici, aule universitarie venduti per fare cassa, con operazioni anche molto discusse: dal Fontego dei Tedeschi all'ospedale al Mare, da Ca' Corner della Regina all'ex Pilsen, come racconta questa mappa attraverso la Venezia messa in vendita pezzo a pezzo (qui il link diretto alla mappa , da sviluppare con le segnalazioni dei lettori)

Nella concentrazione e complessità urbana chi è privo di potere storicamente converge per trasformare la propria debolezza in diritti: oggi le grandi concentrazioni finanziario-immobiliari stanno minando questo vero e proprio pilastro di civiltà. The Guardian, 24 novembre 2015

Sta segnando una svolta per le grandi città, l'acquisizione di immobili urbani da parte di grandi concentrazioni finanziarie nazionali e internazionali iniziata alle prime avvisaglie della crisi nel 2008? Da metà 2013 a metà 2014 questo tipo di acquisizioni ha superato un valore di 600 miliardi di dollari nelle 100 città principali, quasi il doppio un anno dopo, e si calcoli che la cifra comprende soltanto le grandi operazioni (per esempio a New York quelle superiori a 5 milioni di dollari). Vorrei qui discutere alcuni particolari di queste forme emergenti di investimento, e cosa rappresentano. Le città sono da sempre il luogo in cui chi non ha potere va a costruire la storia, la cultura, trasformando la propria assenza di potere in complessità. Se si continua con queste acquisizioni sul larga scala, perderemo del tutto questa caratteristica che ha conferito alle nostre città il loro cosmopolitismo.

Coi ritmi attuali, assistiamo ad una sistematica trasformazione del sistema della proprietà urbana, in grado di alterare lo stesso significato storico delle città. Una trasformazione dai profondi significati democratici, per i diritti e l'eguaglianza. Una città è un sistema complesso ma incompleto: una mescolanza che ha avuto la capacità nella storia e nelle geografie di resistere a fronte di entità assai più possenti organizzate, dalla grande impresa ai governi nazionali. Da Londra, a Pechino, al Cairo, New York, Johannesburg o Bangkok – solo per fare alcuni nomi a caso – tutte sono sopravvissute a tanti dominatori e grandi attività. Sta nel mescolarsi di complessità e non-completezza, il potere di chi non ha potere, la possibilità di affermare: «ci siamo, questa è la nostra città». O per dirla col leggendario slogan delle città sudamericane «Estamos presentes»: non vogliamo soldi, ma solo farvi sapere che questa è la nostra città, anche la nostra città. Chi è senza potere soprattutto nelle città ha lasciato la propria impronta, culturale, economica, sociale: a partire dalla propria zona, ma anche a diffondersi su aree più vaste come accade alla ristorazione «etnica», alla musica, alle cure e via dicendo.

Nulla di tutto ciò potrebbe mai accadere in un quartiere di uffici, indipendentemente dalle densità edilizie: sono spazi privatizzati e controllati, in cui il lavoratore può certo entrare, ma non «fare». E nulla di tutto ciò può avvenire nemmeno in un mondo sempre più militarizzato nei suoi impianti minerari o nelle colture estensive. Solo nelle città esiste la possibilità di trasformare l'assenza di potere in complessità: nessuno può controllare un tale intreccio complesso di persone e relazioni. Chi ha potere non vuole la scocciatura della vicinanza coi poveri, il comportamento standard consiste nel lasciarli al loro destino. In certe città (per esempio negli Usa o in Brasile) c'è una polizia molto violenta, ma questo può anche trasformarsi nel primo passo in un lungo percorso di rivendicazione di alcuni diritti. È nelle città luogo di conflitti, che queste battaglie alla fine sono riuscite. Ma proprio questa possibilità – di fare storia, cultura e tanto altro – oggi viene messa in discussione dalle grandi trasformazioni urbane in corso.

Una nuova fase

Sarebbe facile spiegare l'ascesa degli investimenti nelle città dopo il 2008 come «semplice proseguimento» di qualcosa già in corso da tempo. Dopo tutto anche a fine anni '80 si era assistito a una rapida crescita di acquisizioni nazionali e internazionali di uffici e alberghi, specie a New York e Londra. Nel mio La Città Globale parlavo dei tantissimi fabbricati nella City di Londra di proprietà internazionale proprio in quell'epoca. Finanziarie giapponesi o olandesi che stabilivano una solida base dentro la City per poi entrare nei mercati europei. Ma se guardiamo a quel che accade oggi si notano notevoli differenze, sino a definire una fase totalmente nuova nei caratteri e nel progetto strategico di queste acquisizioni (per inciso non vedrei invece grandi differenze fra investimenti locali e internazionali: in entrambi i casi si tratta di grossissime operazioni, ed è quel che conta). Spiccano quattro caratteristiche:

• La rapida impennata del numero di acquisizioni, anche là dove di investimenti del genere ce ne erano da sempre, specie a New York e Londra. Nel mondo sono un centinaio le città oggetto di queste operazioni: dal 2013 al 2014 crescita del 248% a Amsterdam/Randstadt, del 180% a Madrid e 475% a Nanchino. Mentre il tasso di crescita era relativamente inferiore per le grandi città rispetto alla regione: 68,5% per New York, 37,6% per Londra, 160,8% per Pechino.

• La quantità di nuove realizzazioni. La rapida crescita a fine anni '80 e '90 era degli investimenti su edifici esistenti: i grandi magazzini Harrods a Londra, o Sachs sulla Fifth Avenue, o il Rockefeller Center a New York. Nel periodo dopo il 2008, gran parte delle acquisizioni ha significato demolire e ricostruire con edilizia a maggiori volumi e di lusso, specie appartamenti di lusso.

• L'affermazione del mega-progetto ingombrante che devasta il tessuto urbano: vie e piazze minori, arterie commerciali di negozi e uffici tradizionali, e così via. Il mega-progetto incrementa le densità ma di fatto rende l'ambiente meno urbano, confermando l'idea secondo cui la densità edilizia non è la componente chiave di una città.

• Il pignoramento di immobili acquistati da famiglie a redditi bassi. Ha raggiunto proporzioni catastrofiche negli Usa, dove i dati della Federal Reserve mostrano oltre 14 milioni di casi del genere dal 2006 al 2014. Ciò significa moltissimo suolo urbano non sfruttato, o poco sfruttato, di cui almeno una parte si presta alla «riqualificazione».

Un ulteriore carattere che colpisce, di questo periodo, è l'acquisizione di isolati industriali dismessi o sottoutilizzati, edificati o meno a scopo di trasformazione. Qui le cifre si possono fare davvero elevate. C'è l'esempio Atlantic Yards, una vasta superficie di New York acquistata da una compagnia cinese per cinque miliardi di dollari. Occupata da attività produttive, servizi, quartieri, studi d'arte già espulsi da Manhattan per far posto ad altre trasformazioni. Un tessuto caratteristicamente urbano destinato ad essere spazzato via e sostituito da un formidabile complesso di quattordici torri di lusso, con l'effetto di cancellare ogni carattere di città. Una specie di spazio «gated» che contiene moltissime persone; nulla a che vedere con i densi intrecci che siamo abituati a chiamare «urbani». E si tratta di un genere di trasformazione in corso in tantissime città – spesso con recinti soltanto virtuali, a volte anche fisicamente definiti. E tutti, direi, coi medesimi effetti di de-urbanizzazione.

Dimensioni e tipo degli investimenti si possono ben riassumere nella mole delle spese. Quell'investimento globale di 600 miliardi di dollari da metà 2013 a metà 2014, e di quasi il doppio l'anno successivo, era solo per acquistare immobili esistenti. Ovvero senza le trasformazioni, che sono un'altra partita. La proliferazione del gigantismo urbano nasce e si sviluppa dalle privatizzazioni e deregolamentazione degli anni'90 in tutto il mondo, e da allora prosegue senza particolari discontinuità. Con l'effetto generali di diminuire la quantità di immobili di proprietà pubblica, e di far impennare quelli della grande proprietà privata. Contemporaneamente restringendo e appiattendo quanto accessibile al pubblico. Là dove prima c'era un edificio della pubblica amministrazione che si occupava di varie faccende o di interagire coi cittadini di un quartiere, oggi magari c'è la sede centrale di un'impresa, un complesso ad appartamenti di lusso, un centro commerciale chiuso.

De-urbanizzazione

Uno dei punti di vista privilegiati sulle forme geografiche globali dello sviluppo economico sono i luoghi in cui si genera la ricchezza. Che si sono spostati più verso le aree urbane che l'agricoltura estensiva o le attività estrattive, anche se queste si sono allargate e rese brutalmente efficienti. Questa sorta di riorganizzazione dei processi di acquisizione e controllo degli immobili urbani non riguarda semplicemente certi investimenti ad elevato valore aggiunto, ma anche i terreni dove stanno modeste abitazioni o uffici pubblici. Assistiamo a inspiegabili enormi acquisizioni private di interi settori urbani da alcuni anni. I cui meccanismi di produzione di ricchezza sono assai complessi nonostante la brutalità delle azioni di cui si compongono. Un aspetto chiave è il passaggio da una proprietà piccola frammentata a grandi concentrazioni, e dal pubblico al privato. Avviene poco alla volta, per parti grandi o meno grandi, e per molti versi si tratta di pratiche correnti del mercato urbano e relative trasformazioni. Quello che cambia oggi è la dimensione dei processi, sino ad alterare lo stesso significato storico delle città. Ciò che era piccolo e/o pubblico diventa grande e privato. La tendenza è passare da piccoli lotti intersecati da vie e piccoli slarghi, verso trasformazioni che cancellano il tessuto, di dimensioni gigantesche. Si privatizza, si de-urbanizza la città pur aggiungendo densità edilizia.

Le grandi città sono complesse e incompiute, ciò ha storicamente consentito di accogliere diversità personali, culturali, politiche.La città mescola, è una frontiera dove attori di provenienze diverse si possono incontrare secondo regole non prestabilite, dove si incrociano anche quelli dotati di potere con chi di potere non ne ha affatto. Ciò le rende anche spazio dell'innovazione, importante o meno importante, specie da parte di chi non ha potere: anche se il potere poi non lo acquisisce produce parti componenti della città, lascia una eredità che arricchisce il cosmopolitismo, in modi impossibili altrove. L'ambiente urbano complesso e incompiuto dà forma a soggetti e soggettività, supera alcune differenze religiose, etniche, razziali, di classe.

Esistono momenti nella vita di una città in cui tutto dipende dall'urbano, spazio e tempo, come nell'ora di punta. Mentre oggi le città globali invece di accogliere genti da diverse culture e provenienze, respingono la diversità. I nuovi padroni, spesso residenti solo a tempo parziale, sono di certo internazionali: ma ciò non vuol dire che rappresentino culture e tradizioni diverse. Rappresentano invece la nuova cultura globalizzata di chi ce l'ha fatta: sono assurdamente omogenei, senza alcuna differenza rispetto al luogo di nascita o lingua. Non è il genere di contesto urbano prodotto storicamente dalle grandi città miste: è una corporation globale.

Gran parte delle trasformazioni significano inevitabilmente espulsione di ciò che c'era prima. Sin dalle più lontane origini, che siano tremila o cento anni fa, le città hanno continuato a reinventarsi, si sono alternati sempre vincitori e vinti. Le storie urbane traboccano dei racconti di persone povere magari relativamente emarginate, ceti subalterni che progrediscono, le città da sempre ospitano grande varietà. Con le grandi acquisizioni odierne si azzera ogni dinamica, nulla si aggiunge in termini di diversità e mescolanza. Viene invece innestato qualcosa di totalmente nuovo, in forma di monotone serie di torri di lusso. Si può anche dire che si innesta una logica tutta sua, irriducibile a diventare parte della città. Resta totalmente autonoma, ci gira del tutto le spalle: e non è molto bello.

Titolo originale: Who owns our cities – and why this urban takeover should concern us all – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

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