Intervista a Naomi Klein. «Se permetteremo la crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo». Il manifesto, 15 dicembre 2015
Come valuti gli esiti di due settimane di negoziati.
Nonostante la situazione creatasi dopo le stragi del 13 novembre, decine di migliaia di persone, dalla Francia e dal Nord Europa, con significative presenze dal Sud del mondo e dal Nord America, hanno reso sabato evidente l’esistenza di un movimento planetario per la “giustizia climatica”, forse oggi l’unico movimento sociale di scala globale. Come può riuscire a essere davvero incisivo?
«La leadership deve venire dal basso, dalle comunità. Praticando azioni dirette. Azioni che devono diventare visibili, nei mercati finanziari e nei tribunali: disinvestire nelle aziende che estraggono combustibili fossili, farli apparire investimenti rischiosi, denunciare le bugie e la disonestà di corporation come la Exxon, portarle davanti ai giudici, dimostrando che conoscevano gli effetti del cambiamento climatico e che hanno mentito di proposito. Dobbiamo cambiare la dinamica, indebolendo il potere degli interessi che stiamo combattendo».
Parigi è stato lo scenario su cui si sono confrontate le scelte politiche dei governi nazionali, il ruolo giocato dalla grandi imprese impegnate, a suon di sponsorizzazioni (penso al ruolo di Total e dell’italiana Eni, contestate da una riuscita protesta all’interno del Louvre), a rifarsi un’immagine “verde”, e l’azione dei movimenti. Con quale bilancio?
«Le ultime due settimane ci hanno offerto proprio lo scontro con quelle «soluzioni», offerte dalle multinazionali, che non sono affatto soluzioni. E che non avranno alcun effetto reale sulle emissioni. Continueranno invece ad arricchire le élite esistenti, le stesse che commerciano sementi ogm, l’industria nucleare, petrolifera. E anche qui hanno usato Le Bourget come il loro megafono, mentre il governo francese ha cercato di imbavagliare chi proponeva soluzioni diverse, come chi si batte per la giustizia energetica, un’agricoltura ecologica e il trasporto pubblico, la proprietà e il controllo delle comunità sulle fonti di energia rinnovabili. Invece abbiamo sentito parlare Bill Gates e Richard Branson, mentre mettevano il bavaglio alle proteste.
«Non è servito a niente, perché le persone erano determinate a scendere in piazza comunque. Il governo francese ha capito che non poteva sostenere politicamente questa scelta. E che scontri con la polizia nell’ultimo giorno di Cop 21 sarebbero stati un disastro per la propria immagine. Per questo, qui a Parigi, hanno dovuto sospendere loro malgrado il divieto a manifestare. E, probabilmente, chiudere al traffico una strada piena di negozi in un sabato pomeriggio pre-natalizio ha fatto di più per la riduzione delle emissioni, di quanto non abbiano realizzato loro alla Conferenza».
Ci viene detto che siamo in uno «stato di guerra», stiamo forse entrando in un periodo di guerre per il clima?
Il cambiamento climatico ha già contributo a innescare la guerra civile in Siria, che aveva appena sperimentato la più terribile siccità della sua storia recente, con conseguente carestia che ha prodotto migrazioni interne, che hanno coinvolto quasi due milioni di persone. E quando c’è scarsità di risorse si creano inevitabilmente nuove tensioni, che sono andate a sommarsi ai conflitti già esistenti in quella regione, causati a loro volta storicamente dalla lotta per impadronirsi delle risorse energetiche. Si crea perciò un effetto a tenaglia: da un lato l’effetto destabilizzante della caccia ai combustibili fossili, dall’altro gli effetti destabilizzanti prodotti dall’utilizzo di quegli stessi combustibili.
«Quando parliamo di cambiamenti climatici, questi provocano non solo un clima più caldo o l’innalzamento del livello dei mari: provocano anche un’epoca più crudele.
«Una situazione di scarsità come questa non può che creare ulteriori conflitti. Ricordiamo perciò sempre che, se permetteremo la continua crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo».
Si ringraziano per la collaborazione Niccolò Milanese di European Alternatives, Marica Di Pierri di A Sud e Barbara Del Mercato di «Venezia in comune»
La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)
«Non è un'analisi tecnica, ma è piuttosto un tentativo di sintesi ampio e didascalico che cerca di analizzare politicamente una deriva, senza sconti per nessuno. Un contributo per informare, per aprire a pubblici nuovi, per discutere e quindi per poter andare avanti».
Aree protette, una forma di tutela specifica
I parchi naturali - o aree protette, termine che però ha significato tecnico più ampio - sono strumenti di tutela della natura, del paesaggio e del territorio tra i più visibili e popolari.
Non è difficile comprendere i motivi di questa popolarità. Si tratta di porzioni di territorio precisamente delimitate all’interno delle quali valgono regole particolari, che hanno per lo più come fine la salvaguardia di “oggetti” cari all’immaginario collettivo (quell’animale, quel bosco, quella specie botanica, quella montagna o quel tratto di costa, quel panorama). Inoltre tra i loro scopi fondamentali ci sono l’educazione naturalistica e il turismo sostenibile cosicché gli enti che li gestiscono svolgono da sempre un’intensa attività promozionale che accresce la visibilità e la popolarità delle loro ricchezze, ambientali e antropiche. In alcuni paesi - Stati Uniti in testa - i parchi rappresentano storicamente delle componenti essenziali dell’identità nazionale.
All’interno della cultura urbanistica più avvertita si è più volte messa in discussione la logica che sta alla base della creazione dei parchi. Si è denunciato la limitata efficacia di una tutela territoriale che si applica a frazioni - spesso molto piccole - di territorio a volte con il risultato di distogliere l’attenzione dalla necessità di tutelare adeguatamente il territorio nel suo complesso. In qualche caso si è arrivati a imputare alle aree protette una sorta di funzione consapevolmente compensativa e consolatoria: proteggere qualche emergenza per avere mano libera di mettere a sacco senza troppe critiche o remore il resto del territorio.
Il caso italiano nei decenni più recenti, dallo slancio alla crisi
Se queste critiche possono avere qualche fondamento per qualche caso specifico o in specifici contesti e se possono più in generale puntare utilmente il dito su culture della tutela “orbe”, incapaci cioè di farsi carico della complessità e della totalità del territorio, il caso italiano parla però di un’altra storia.
Il momento più alto dei parchi italiani, quello che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta, è stato infatti animato da un movimento ampio e articolato che ha ragionato in modo sistemico dei parchi e li ha spesso progettati in ottiche globali, connesse alla tutela complessiva dell’ambiente, alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo, in relazione ad altre forme di tutela e con un ambizioso sguardo al futuro. Non isole “belle”, capaci di acquietare i bisogni eterei di élite romantiche, ma strumenti di governo e di sviluppo dei territori incardinati in visioni più ampie e gestiti democraticamente. La legge quadro sulle aree protette, la n. 394 del 1991, costituisce il frutto più maturo di questa visione e dell’operato di quel movimento e non casualmente è stata approvata nella medesima legislatura in cui fu approvata un’altra grande legge di governo del territorio, la n. 183 del 1989, sulla difesa del suolo.
Se il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta può essere effettivamente considerato il punto di massimo slancio ed incisività del movimento, quello delle sue massime realizzazioni, al tempo stesso costituì il momento dell’inizio del suo declino. Erano gli ultimi barlumi della grande spinta democratica e progressista avviatasi alla metà degli anni Sessanta, presto sepolti dall’avvento del berlusconismo e ancor più dai suoi cascami neoliberisti che si prolungano fino ad oggi acquistando peraltro un’aggressività sempre maggiore. Non è un caso che le due grandi leggi appena citate, quella sulle aree protette e quella sulla difesa del suolo, sono rimaste largamente inapplicate oppure inapplicate in diversi loro aspetti cruciali.
I parchi naturali italiani, conquista di civiltà, frutto del lavoro benemerito di élite illuminate dagli anni Dieci agli anni Sessanta e in seguito frutto della crescita culturale e politica di larghissime fasce di popolazione, vivono di conseguenza da un ventennio in una spirale di crisi crescente e per molti aspetti drammatica. E diversi segnali recenti parlano di un aggravamento ulteriore di questo quadro di crisi, senza alcun segno che vada in controtendenza.
Ho cercato di isolare quelli che a mio avviso sono gli elementi strutturali di questa deriva. E li elenco.
L’asfissia finanziaria
Da diversi anni, anzitutto, si sta procedendo in Italia a un lento strangolamento dei parchi attraverso la progressiva decurtazione delle disponibilità finanziarie e all’imposizione di pastoie burocratiche che rendono molto difficile spendere in modo efficiente. Questa modalità non è però specifica delle aree protette: coerentemente con le premesse della politica economica neoliberista dominante nei paesi occidentali da quasi un quarantennio essa investe la stragrande maggioranza delle istituzioni pubbliche rivolte ai servizi alla collettività. Ne sono affetti del pari il sistema formativo (scuole, università), il sistema sanitario, gli enti locali, i vari sistemi di controllo e di tutela, quelle che erano le partecipazioni statali.
Alla base del progressivo ischeletrirsi della capacità di spesa dello Stato è innegabile che ci siano l’ormai insostenibile servizio del debito pubblico e la restrizione della base imponibile dovuta alla crisi economica in atto dal 2007-2008. E tuttavia l’abolizione di alcune fondamentali forme di prelievo fiscale da un lato (caso esemplare: ICI/IMU) e dall’altro la scelta plateale di non intaccare per alcun motivo le spese riguardanti il monopolio statale della forza interna ed esterna (caso esemplare: F35) e i provvedimenti che favoriscono le lobby imprenditoriali e finanziarie legate a doppio filo con gli apparati di partito (caso esemplare: ponte sullo Stretto) mostrano come sia all’opera oggi in Italia un meccanismo neoliberista lucido, determinato e sempre più implacabile di smantellamento di tutto l’intervento pubblico, anche quello basilare, nel campo dei diritti di cittadinanza: salute, istruzione, ambiente, cultura, previdenza, infrastrutture civili. La nuova “crisi fiscale dello Stato” viene anzi impugnata come pretesto per smantellamenti sempre più radicali.
I parchi stanno pienamente dentro questa bufera, per di più come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Se infatti l’istruzione, la sanità, la previdenza e in parte anche la cultura si possono privatizzare “valorizzandone” i pezzi vendibili e chiudendo o lasciando tutto il resto all’abbandono, per la “natura di valore” non c’è sostanzialmente mercato. E anzi, se mercato c’è è pressoché soltanto per consumarla indiscriminatamente: cioè proprio per fare ciò che i parchi devono scongiurare.
Il lucido smantellamento degli strumenti di tutela
Che questa sia l’intenzione di coloro che si sono alternati al governo negli ultimi anni, con una decisa e non casuale impennata decisionista più recente, è dimostrato dal combinato di disposizioni con al centro il cosiddetto “decreto Madia” che aboliscono la più che secolare autonomia di due fondamentale corpi di tutela, culturale e ambientale, come le Soprintendenze e la Forestale per metterli rispettivamente sotto il controllo delle Prefetture e dei Carabinieri. Tale abolizione fa al tempo stesso venire meno la specificità della loro missione e l’efficacia del loro operato, lasciando così più assai più libere le mani a chi voglia disporre senza pastoie dei beni culturali e ambientali italiani. Ed è ben difficile credere alle ragioni di economicità e di razionalizzazione addotte dal legislatore quando appare ben evidente da un lato che questi provvedimenti non producono risparmio di sorta e da un altro lato che avevano carattere squisitamente programmatico le parole dell’allora sindaco di Firenze e oggi Presidente del Consiglio quando affermava nel 2010 che «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba [...] un potere monocratico che non risponde a nessuno».
Dei contorni e dei possibili esiti di questo programma neoliberista di “stato minimo” nel campo della tutela artistica ha di recente stilato un’analisi illuminante Vittorio Emiliani introducendo un incontro dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, una lettura che fa impressione e alla quale non posso che rimandare.
La latitanza delle strutture di governo
La crisi progressiva delle aree protette italiane dipende in modo cospicuo dalla latitanza, che in qualche caso è cronica e in qualche altro è sopravvenuta di recente, degli organi di governo istituzionale da cui esse dipendono: il governo centrale - e in particolare il Ministero dell’Ambiente - e le Regioni. Se la legge quadro prevedeva un ruolo attivo e dinamico del Ministero attraverso una serie di strumenti gestione assai avanzati, quel che è successo è da un lato che tali strumenti sono stati presto messi da parte in modo tale che la funzione di coordinamento e indirizzo centrale è totalmente saltata già a livello normativo e da un altro lato si sono succeduti ministri e direttori generali che hanno totalmente abbandonato a se stesse le aree protette, salvo vessarle di tanto in tanto con circolari burocratiche, paralizzanti e di nessuna utilità e procedere con le nomine nei modi e coi criteri che presto vedremo.
Ma la cronica assenza ministeriale e la lenta ritirata delle Regioni si manifesta plasticamente in questa chiusa di 2015 con un evento a suo modo storico: lo smembramento di fatto del Parco Nazionale dello Stelvio, che infatti rimarrebbe unitario e nazionale soltanto sulla carta. E’ la prima volta in Europa che un parco nazionale così antico (1935), così vasto (130.000 ettari, per decenni di gran lunga la più ampia riserva italiana) e così importante dal punto di vista naturalistico viene di fatto abolito. E’ vero che la sua eliminazione è stato obiettivo storico dei politici sudtirolesi sin dal 1945, perseguito con una tenacia prossima all’ossessione in quanto imposizione “italiana” su un territorio “tedesco”. E’ vero - come sottolinea Franco Pedrotti e come avvertirono lucidamente già all’epoca le associazioni ambientaliste - che tale esito era potenzialmente segnato già nelle norme di attuazione dello Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige nel 1974. Ma è altrettanto vero che in oltre quarant’anni quest’esito è stato evitato, in taluni casi anche in modo drammatico come quando nel 2011 il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto che attuava tale disegno. Oggi invece, in armonia con lo spirito dei tempi, la morte annunciata può finalmente verificarsi: “il governo Renzi - comunica Salvatore Ferrari di Italia Nostra - ha dato il via alla nuova governance del Parco Nazionale dello Stelvio, che tradotto significa soppressione del Consorzio del Parco istituito con DPCM nel 1993 e smembramento del Parco in 2 parchi provinciali ‘speciali’ e un parco regionale ‘ordinario’, quello lombardo”.
Abbiamo così i politici sudtirolesi che fanno finta di piangere lacrime di coccodrillo ma assaporano una così a lungo sospirata vittoria, le istituzioni della tutela silenti, il mondo ambientalista italiano pervaso da stupore e da un dolore sordo e impotente e l’Europa che guarda con ulteriore preoccupazione a un Paese come il nostro capace di conquistare il record di primo paese europeo ad abolire la gestione unitaria - l’unica che può dargli senso e reale efficacia - di un grande parco nazionale di importanza mondiale mentre gli altri paesi, a partire dalla confinante Svizzera, continuano a potenziare le loro reti di parchi istituendo riserve di ogni livello.
Presidenze e direzioni: appendici partitiche e funzionari sotto ricatto
Il silenzio delle istituzioni di tutela, e dei parchi stessi in particolare, non è però casuale.
Della grande anomalia storica degli anni 1965-95 che ha portato alla legge quadro e alla decuplicazione della superficie territoriale protetta da parchi faceva parte un notevole grado di autonomia dei direttori e dei presidenti dei parchi. Non che non ci fossero nomine squisitamente politiche o persino direttamente partitiche, ma molte figure di direttori e di presidenti erano valide espressioni del mondo scientifico o ambientalisti convinti e per lo più operavano con notevole indipendenza operativa e progettuale. Alcune di queste figure hanno fatto la storia dei parchi italiani mantenendo un rapporto fortemente dialettico con il mondo politico: l’ossatura dell’attuale legge quadro, tanto per dare un’idea di questo rapporto, non è nata in uffici ministeriali né nelle commissioni parlamentari ma soprattutto da successive riscritture avvenute nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, a Pescasseroli.
Si trattava di un’anomalia istituzionale? Può darsi. Ma in questo modo il contributo che le aree protette hanno dato in quegli anni allo sviluppo della protezione della natura in Italia è stato formidabile in termini di idee, di denuncia, di proposte, di stimolo culturale.
Bene, quell’anomalia è stata progressivamente “sanata”, sia nella prassi corrente sia operando sui meccanismi di nomina.
Dopo un periodo in cui Alleanza Nazionale ha tentato - peraltro con un momentaneo successo - di fare delle presidenze dei parchi nazionali una propria “specialità” all’interno di coalizioni di governo che aveva la testa in tutt’altre cose, il pallino è definitivamente tornato nelle mani dei partiti (o meglio: degli eredi dei partiti) che avevano “fatto” i parchi regionali e la legge quadro, cioè il Pci e la Dc ora nella nuova veste di partito unico. Ma ci è tornato non più nell’ottica che animava (almeno nominalmente) la legge quadro, quella cioè della partecipazione democratica alla gestione delle aree protette, ma in quello di un controllo diretto di presidenze e direzioni. Si è assistito così a nomine sempre più politiche, sempre più sganciate da competenze e da storie di coinvolgimento serio nella protezione della natura e da una marcatura sempre più stretta sui direttori, che oggi infatti possono essere magari ottimi amministratori ma appaiono quasi sempre soggetti politicamente inerti e silenti, contrariamente a quanto avveniva nella fase precedente. Su alcuni casi di nomine si sono addirittura incentrate battaglie nazionali, come nel delicatissimo caso della presidenza del Parco nazionale d’Abruzzo verificatosi lo scorso anno.
Ma se è difficile effettuare una ricostruzione e una interpretazione globale delle vicende che nel corso degli anni, anche più recenti, hanno riguardato le nomine nelle aree protette italiane, il disegno di azzerare l’autonomia dei direttori è chiarissima nella volontà dei legislatori tanto berlusconiani quando “democratici”. Circola infatti da due anni una proposta di riforma della legge quadro del 1991, presentata in chiusura di legislatura dal senatore berlusconiano Antonio D’Alì e poi significativamente ripresentata con i medesimi contenuti e in gran parte con l’identico testo in apertura della nuova dal senatore “democratico” Massimo Caleo. Tra i punti chiave di questa “riforma” (che evita con cura di affrontare alcuni nodi cruciali del funzionamento delle aree protette - pur lucidamente additati da molti - ma si concentra quasi esclusivamente su aspetti “corporativi” e di “valorizzazione”) sta la modifica della composizione dei consigli direttivi e il criterio di nomina del direttore dei parchi nazionali. I consigli direttivi vedono radicalmente decurtata la rappresentanza “generale” (mondo scientifico, ambientalismo, ministeri) che passa da oltre la metà a circa un terzo e al contrario vedono amplificata la rappresentanza “locale” (comuni) che passa dal 38,5% al 45% alla quale si aggiunge però un’inedita e incongrua rappresentanza di “categoria”: quella delle associazioni agricole.
Alla realizzazione di un antico sogno di controllo locale sui parchi nazionali si aggiungerebbe inoltre la nomina del direttore, non più scelto come oggi dal ministero tra una rosa di tre iscritti a uno speciale albo cui si accede per concorso ma sarebbe nominato direttamente dal presidente del Parco (a sua volta di nomina politica tout court) sulla base di sue preferenze personali che non passano al vaglio di nessun organo o criterio stringente.
Anche in questo caso si avvera un antico sogno: quello, appunto, di “sanare” l’anomalia italiana di tecnici troppo autonomi, troppo ligi alla missione istituzionale delle aree protette e troppo capaci di progettualità e di iniziativa. Come potranno essere amministrati in queste condizioni i parchi nazionali italiani del futuro non è difficile prevederlo.
Un mondo in ogni caso attraversato da lampi di responsabilità civica
Se si vuole essere onesti, bisogna tuttavia ammettere che - come avviene in molta della pubblica amministrazione italiana - il sistema delle aree protette italiane non si è finora afflosciato su se stesso e non è caduto totalmente preda della disperazione o dello sbando grazie al lavoro paziente e appassionato di una parte cospicua dei suoi dipendenti e dei suoi responsabili. Nonostante le difficilissime condizioni di lavoro, le restrizioni progressive e il disinteresse del mondo della politica l’ampio corpo delle aree protette italiane continua a produrre una quantità strategica e assolutamente preziosa di ricerca scientifica, di educazione ambientale, di sensibilizzazione, di governo del territorio e di tutela della natura. Lo fa - è bene ripeterlo ancora - in condizioni sempre più sfavorevoli e con prospettive sempre più cupe, ma lo fa e resta in tal modo un prezioso baluardo di civiltà, di coesione sociale e di infrastrutturazione culturale e civile.
Un associazionismo in qualche caso poco incisivo e in qualche caso complice. Comunque diviso
Un’altra nota dolente è costituita dalla situazione del mondo dell’associazionismo, che è stato probabilmente il maggior protagonista storico, dalla metà degli anni Sessanta in poi, della crescita e dell’affermazione delle aree protette italiane. Italia Nostra prima di tutte le altre, poi il World Wildlife Fund Italia, il Club Alpino Italiano, Legambiente e in tempi più recenti anche il Comitato per la Bellezza hanno dato un contributo decisivo, soprattutto negli anni Ottanta, alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sia a livello di iniziative nazionali sia a livello di iniziative regionali e locali. Il momento di massima incisività è stato sicuramente quello tra il 1985 e il 1991, quando il sostegno attivo di diverse forze politiche e la concorde spinta associativa, ben rappresentata nelle aule parlamentari da figure come Michele Cifarelli, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti, ha consentito la promulgazione di provvedimenti chiave come il decreto Galasso (1985), la legge sui suoli (1989) e quella sulle aree protette (1991).
Da quei tempi il peso reale dell’associazionismo è diminuito in vari sensi. Il senso dell’urgenza della questione ambientale, la sensibilità collettiva al riguardo si è appannata, riducendo così la base di consenso e la conseguente spinta dal basso. Ma a ciò bisogna aggiungere che l’universo dei partiti e della vita politica in generale ha cominciato ad avvertire non più come stimolante, ma come fastidioso e persino accessorio il contributo che veniva dall’associazionismo. La figura dell’attuale Presidente del Consiglio e la sua retorica da messaggeria telefonica rappresentano plasticamente la piena maturazione di questo tipo di atteggiamento: battute ad effetto come quelle riguardanti i “gufi”, i “professoroni” e i “comitatini” esprimono come meglio non si potrebbe un profondo disprezzo per i corpi intermedi della società civile e soprattutto per quelli che svolgono un ruolo di riflessione critica e di proposta alternativa. Oltre - naturalmente - una postura mentale non lontana dalla famosa frase di un non dimenticato despota “orientale” che chiedeva sprezzantemente quante divisioni avesse il Papa.
L’associazionismo si ritrova così indebolito, con frequenti problemi di bilancio, con stimoli dalla base e dai territori più flebili che in passato e non sempre riesce a tenere efficacemente il punto. Nel caso delle aree protette, come si osserva da molti anni a volte con troppa enfasi ma non sempre a torto, il meccanismo delle rappresentanze ambientaliste negli enti parco può provocare spesso atteggiamenti locali di auto-moderazione e di avallo a linee e provvedimenti che altrimenti verrebbero valutati criticamente. Anche chi si batte con maggiore energia trova sempre meno ascolto e anzi - peggio - sempre più porte sbarrate, cosa che in altri tempi non avveniva. La voga “decisionista” porta sempre più a fare a meno anzi di qualsiasi confronto pubblico, di qualsiasi dialogo. Per altri, invece, la tentazione di una sorta di “ambientalismo di governo” è diventato un vero e proprio habitus che consente di tenere posizioni associative e personali a scapito della limpidezza delle iniziative e delle battaglie. Faccio due esempi, e assai dolorosi, tanto per non lasciare le cose nel vago.
Ermete Realacci, ormai all’invidiabile traguardo del quarto mandato, conserva la possibilità di rappresentare l’associazionismo ambientalista italiano in Parlamento - possibilità via via negata ad altri - grazie a una elasticità tale che lo ha portato a votare senza fare una piega i provvedimenti riguardanti Soprintendenze e Forestale che ho citato più sopra. Il premio per l’attivo sostegno di Federparchi, l’organizzazione delle aree protette italiane discendente dal glorioso coordinamento fondato nel 1989, alle politiche bipartisan di depotenziamento dei parchi è invece ben rappresentato da un articolo della proposta di riforma della legge quadro che fa di essa una sorta di agenzia parastatale con delega al controllo e all’orientamento delle aree protette.
Questa deriva, e non poteva essere altrimenti, ha finito col produrre persino spaccature clamorose come quando i “governativi” sono arrivati a tacciare una presa di posizione congiunta di FAI, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf come «ambientalismo da giovani marmotte».
Pezze peggiori dei buchi: dal nesso tutela/ecosviluppo al nesso branding/composizione di interessi locali
Chi ha più potere e interlocuzione politica in mano pensa oggi di uscire da questa grave crisi delle aree protette non più mediante ambiziose proposte di rilancio oppure mediante ragionevoli proposte che correggano le storture e i malfunzionamenti più palesi e al contempo con un appello alla mobilitazione della società civile più sensibile, come è sempre stato negli ultimi decenni. L’idea dominante appare piuttosto quella di spingere a fondo in direzione di un adeguamento delle aree protette all’esistente, cioè al predominio della cultura neoliberista e degli interessi locali e privati.
Mentre nel momento alto degli anni Settanta-Ottanta si puntava su un rapporto audace da costruire tra tutela ambientale e forme di economia sperimentali, più rispettose degli uomini e della natura e più eque, possibili paradigmi per il futuro da esportare al resto della società, nelle proposte di “riforma” della legge quadro presentate dalla maggioranza con il sostegno di Federparchi e Legambiente - quest’ultima con qualche più recente ripensamento - tutto viene ridotto all’ingresso dei portatori di interessi privati (imprenditoria) nei consigli direttivi e alla monetizzazione di attività potenzialmente devastanti.
Un altro punto fondamentale, sul quale si consumarono scontri epici tra forze promotrici dei parchi e della legge quadro, è quello della partecipazione democratica, una volta inteso come elemento di dialogo, di progettazione e di crescita comune di tecnici, studiosi, esperti, ambientalisti, amministratori locali e popolazioni e oggi ridotto a un occhiuto controllo consociativo da parte dei partiti politici e degli amministratori locali sull’attività dei parchi grazie ai nuovi meccanismi di nomina dei consigli e dei direttori.
In questo clima le dirigenze più “avanzate” del mondo dei parchi italiani appaiono quelle oggi freneticamente impegnate nel vendere il brand della propria riserva saltando da una fiera enogastronomica a una borsa turistica, in Italia o all’estero, quando non - come avviene ormai strategicamente nel parco regionale toscano di San Rossore-Massaciuccoli - nell’offrire la parte più pregiata della riserva come location per qualsiasi grande evento si preannunci a portata di mano, dai raduni di massa ai vertici internazionali. Una impostazione che vuole apparire (e a qualcuno effettivamente finisce con l’apparire) una brillante e audace navigazione tra le tendenze più avanzate della società postindustriale e che invece costituisce un triste e rischioso cabotaggio nelle miserie di un modello economico e culturale in crisi profonda. Un cabotaggio, peraltro, del tutto subalterno: che finisce col togliere alle aree protette non solo gran parte della specificità della loro missione, ma anche la possibilità - che in altri tempi c’è stata, e forte - di additare nuovi approcci e nuove strade alla società tutta intera.
Sperare, ma in cosa?
Abolizione del Parco Nazionale dello Stelvio, fine dell’indipendenza della Forestale, mercificazione delle aree protette e loro riduzione a location, proposte di riforma della legge quadro inadeguate e al tempo stesso gravide di rischi: diversamente da come è avvenuto in altre fasi storiche, quando esisteva un ampio consenso e una vasta mobilitazione popolare, questa sembra un’onda di risacca inarrestabile rispetto alla quale sembrano avere voce in capitolo solo coloro che l’assecondano.
Eppure bisogna rimanere convinti che c’è uno spazio per resistere, per continuare a denunciare, a discutere, a dialogare, a sensibilizzare, a fare proposte alternative, a progettare futuri diversi. In molti, in questi anni e anche nei mesi scorsi, hanno fatto sentire cocciutamente la propria voce, con iniziative e appelli. E continuano a farlo, proponendo di continuare a battersi e a discutere in sedi pubbliche.
La storia non finisce qui: a partire dalla nostra capacità di scriverne, di analizzare, di confrontarsi o , per dirla con Edward Said, di «dire la verità».
La cronaca di Anna Maria Merlo e il commento di Giuseppe Onufrio. Finalmente qualcosa è cambiato. Prodotto di altri cambiamenti e spinte. Il manifesto, 13 dicembre 2015
di Anna Maria Merlo
Riscaldamento climatico. Suspense fino all'ultimo. Approvato un testo che fa dei passi avanti e ha vari difetti. Importante perché è un accordo multilaterale e le mentalità stanno cambiando. Adesso ci saranno le ratifiche degli stati. Un successo per la presidenza francese»
Suspense fino all’ultimo, poi un colpo di martello di Laurent Fabius e di Christiana Figueres dell’Onu alle 19,28, la Tour Eiffel scatenata con lampi di luce: l’accordo di Parigi della Cop21 è approvato. Una “svolta storica”, come afferma Fabius, presidente della Cop21, che parla di accordo “giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”? Addirittura “un messaggio di vita”, come lo ha definito François Hollande dopo un riferimento alla “Francia straziata” dagli attentati? Un compromesso con delle pecche, come ha affermato Kumi Naidoo di Greenpeace, che vede “un accordo che mette le energie fossili nella parte sbagliata della storia”, ma “non risponde alla domanda: come arriveremo a realizzare gli obiettivi”? Un testo che non fornisce “nessuna garanzia di sostegno per i più colpiti dall’impatto del climate change”, come ha commentato Tasneem Essop del Wwf? Una delusione, come affermano molti militanti che hanno manifestato ieri a Parigi, che non fermerà il riscaldamento climatico che corre verso +3° al minimo? “Polvere negli occhi”, nel giudizio degli Amis de la Terre? Comunque, come afferma l’ambasciatore del clima Nicola Hulot, la mobilitazione è stata tale che “più nulla la fermerà”.
Dopo due settimane estenuanti, con varie notti bianche, un testo di accordo di 31 pagine e 29 articoli è stato presentato ieri mattina ai delegati, dal ministro Laurent Fabius, con la voce ad un certo punto rotta da un quasi-singhiozzo. La prova, in negativo, che il testo ha un certo peso è venuta ieri pomeriggio: la seduta plenaria per arrivare all’approvazione, che avviene per consenso, che doveva aver luogo alle 15,30 è stata rimandata di varie ore. Fino a sera, ancora chiarimenti su alcuni punti, soprattutto una perplessità Usa (su un “shall” legato ai “targets” dei paesi sviluppati all’art.4.4) per timore di dover passare di fronte al Congresso. L’iter prevede l’adozione da parte dei 195 paesi della Cop21 (più la Ue) durante il 2016. L’accordo sarà operativo quando verrà approvato da almeno 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra, per entrare in vigore nel 2020, alla scadenza del Protocollo di Kyoto, ormai moribondo. “Siamo quasi alla fine della strada, senza alcun dubbio all’inizio di un’altra”, ha riassunto Fabius. “Bisogna finire il lavoro”, ha insistito ieri mattina il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Le forti tensioni che hanno accompagnato il consenso mostrano un aspetto che non è scritto nero su bianco nel testo: non tutti usciranno vincenti dalla lotta al riscaldamento climatico, è tutto un modello economico che deve essere messo in causa.
«La Francia vi scongiura di accettare il primo accordo universale sul clima», ha chiesto François Hollande, che attende anche ricadute interne di un successo internazionale. La principale qualità dell’accordo è di essere “universale”, cioè un’intesa multilaterale, importante e in contro-tendenza in un periodo di guerre e di divisioni. La Francia ha difatti legato la lotta contro il disordine climatico alla pace. La principale qualità dell’accordo è “di aver svegliato le coscienze”, riassume un militante ecologista presente alla catena umana al Champs de Mars ieri pomeriggio. Tra le mancanze, l’assenza di riferimento ai diritti umani, all’uguaglianza di genere, ai diritti delle popolazioni indigene, alla sicurezza alimentare.
Il testo è un compromesso a 195 e ha tutte le qualità e tutti i difetti di un’operazione diplomatica. “L’accordo non sarà un successo per nessuno se ognuno lo legge alla luce dei propri interessi”, ha avvertito Hollande, facendo riferimento al fallimento di Copenaghen nel 2009. “Il progetto conferma il nostro obiettivo centrale, vitale, di contenere l’aumento della temperatura media ben al di sotto dei 2° e di sforzarsi di limitare l’aumento a 1,5°” ha riassunto Fabius. Nel testo non c’è nessuna cifra precisa sulla percentuale di gas a effetto serra che dovrà diminuire: solo un impegno all’”equilibrio” nella seconda metà del secolo. Sarà la responsabilità degli stati, in 185 hanno preso degli impegni presentando ognuno i propri Indc (Intended Nationally Determined Contributions). Il problema è che, sommando queste promesse, non verrà rispettato l’impegno dei 2° (tanto meno, quindi, di 1,5°), ma il riscaldamento climatico salirà di 3°, se non di più. Il testo è detto “giuridicamente vincolante”: ma non ci sono sanzioni per chi non rispetta gli impegni e l’Onu non ha gli strumenti per farli rispettare. Questo “vincolo” significa in sostanza che ogni paese decide per se stesso sugli sforzi di riduzione di gas a effetto serra. Un meccanismo che diventerà un po’ più impositivo con la “trasparenza” sulle azioni intraprese: ma alcuni paesi emergenti, Cina e India in testa, rifiutano di sottomettersi agli stessi controlli del Nord sul loro operato.
Nel testo finale si istituisce la “revisione” degli impegni, “ogni 5 anni” e “al rialzo”. Per il momento, la prima “revisione” è prevista per il 2025, con un “bilancio” nel 2023. Una cinquantina di paesi (dove c’è la Ue) si sono riuniti in una “grande coalizione” per chiedere un’anticipazione dei tempi della revisione. C’è un’attenzione per le foreste, mentre gli oceani sono assenti, che pure sono i principali ricettori di Co2.
Il testo accoglie la “differenziazione” delle responsabilità, cioè il Nord deve agire con maggiore forza del Sud del mondo. Ma l’accordo resta nel vago, non ci sono precisazioni con delle cifre al riferimento, comunque un passo avanti, alla “necessaria cooperazione su perdite e danni”, a favore dei paesi più colpiti e più poveri. “E’ un accordo dove gli interessi dei più poveri, in particolare l’adattamento (all’impatto del climate change) non è sufficientemente preso in conto – osserva Tim Gore di Oxfam – abbiamo la nozione di perdite e danni, ma non ci sono le compensazioni, non ci sono sufficienti garanzie che i finanziamenti per l’adattamento proseguiranno dopo il 2025, mentre sappiamo che i costi del climate change continueranno a crescere”. Stessa preoccupazione per Samantha Smith del Wwf: “non c’è garanzia di assistenza per i paesi più vulnerabili per adattarsi al climate change”. Non viene detto niente di preciso sui trasferimenti di tecnologia, che il Sud e in particolare il gruppo Like Minded Developing Countries (Cina, India, Argentina, Cuba, Egitto) aspetta, mentre il Nord frena. Nel corpo centrale dell’accordo non c’è il riferimento ai 100 miliardi di dollari l’anno, promessi dal Nord al Sud del mondo a Copenaghen. Questa cifra è relegata in Allegato (su richiesta Usa, cosi’ Obama evita di dover far votare il Congresso, che è dominato dai Repubblicani con una forte presenza di negazionisti del clima), ma definita un “minimo”.
I paesi petroliferi hanno tolto dal testo la parte sul prezzo del carbonio. Si tratta di una tassa, che viene decisa a livello nazionale o per gruppi di paesi. Secondo Bill McKibben, co-fondatore dell’ong 350.org, “adesso tutti i governi sembrano riconoscere che l’era delle energie fossili deve finire in fretta. Ma la potenza dell’industria fossile trasuda dal testo. La transizione è talmente ritardata, che nel frattempo avranno luogo immensi guasti climatici, perché adesso la questione cruciale è il ritmo, i militanti devono raddoppiare gli sforzi per indebolire questa industria”. Ma in questo periodo il calo del prezzo del petrolio soddisfa i consumatori, che pagano meno la benzina. Una contraddizione tra le tante. Nel testo mancano cifre precise sulle energie rinnovabili. “Conosciamo la strada più breve per andare verso 1,5° di riscaldamento – spiega Jean-François Juillard, direttore di Greenpeace France – passa per la conversione alle energie rinnovabili. Se Parigi deve portare a un punto d’arrivo, l’accordo ci porta fuori dalla strada più corta. Altri protagonisti restano pero’ sulla buona strada”.
CE N'EST QU'UN DEBUT
E ALLORA NON È MALE
di Giovanni Onufrio
«Gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Milano. Architetto Stefano Boeri, cosa si può fare per curare i vuoti urbani creati dalle case sfitte?
«Prima di tutto bisogna prendere atto di un fenomeno evidente soprattutto in Italia, Spagna, Grecia e nell’Europa del Sud: gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento, a volte scelgono di tenerli liberi. La soluzione è la costruzione di Agenzie della casa sostenute dalla pubblica amministrazione».
«La fotografia di Eurostat. Nei 28 Paesi dell’Unione il 17% degli alloggi è vuoto A Copenaghen i palazzi più vecchi, a Bucarest i più giovani. E il 3% è senza bagni». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Londra. L’Europa vive in una casa di proprietà, costruita prima della seconda guerra mondiale, con uno o nessun inquilino dentro e in qualche caso senza gabinetto. È la fotografia, non troppo rassicurante, scattata da Eurostat, l’agenzia di statistiche della Ue, sulle abitazioni nel vecchio continente, basata su un sondaggio del 2011. Un’immagine che non dice necessariamente come” viviamo”, ma illustra “dove” e già questo fornisce dati su cui riflettere. La maggior parte dei cittadini dell’Unione sono proprietari della residenza in cui abitano, e questo è un segnale positivo. Ma molti alloggi sono disabitati, molti europei vivono soli, la maggioranza delle case ha più di settant’anni e forse bisogno di un restauro - per non parlare della necessità dei servizi igienici per la minoranza, esigua ma pur sempre allarmante, che non li ha.
Sembra proprio che Cassa Depositi e Prestiti abbia un debole per Venezia. La società del Ministero per l’Economia continua a fare affari in laguna.
Dopo l’ex Ospedale al Mare del Lido, le ex Carceri di San Severo a Castello, l’ex Casotto Capogruppo di San Pietro in Volta e l’isola di San Giacomo in Paludo, i Palazzi Diedo, Gradenigo e Donà. Non semplici immobili, ma edifici che costituiscono a tutti gli effetti la storia della città. Solo il primo non più parte del pacchetto di immobili del Fondo Immobiliare Città di Venezia, gestito da EstCapital per conto dell’Amministrazione. Ma nelle differenze un minimo comun denominatore. Tutti e tre costituiscono cubatura da riutilizzare secondo la mission di Cdp di valorizzazione del Patrimonio immobiliare. L’ultima offerta, di circa 20 milioni di euro, per i primi due palazzi, preceduta da una serrata contrattazione. Tra le due proposte d’acquisto, anche il ricorso, da parte del commissario straordinario del Comune Vittorio Zappalorto, ad un esperto indipendente, la Yard Valtech srl, incaricato di stabilire un prezzo equo. Ma a quanto sembra il Comune sembra ormai pronto ad accettare, come indizia l’inserimento dei due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.Palazzo Donà
Per Palazzo Diedo, a Santa Fosca, edificio settecentesco forse progettato da Andrea Tirelli, ricco di decori, stucchi e figurazioni allegoriche, ex sede della Procura della Pretura, c’è già il cambio di destinazione d’uso e il permesso di costruire appena approvato. Il progetto, quello presentato da EstCapital quando il palazzo faceva ancora parte del Fondo Immobiliare Città di Venezia. Un progetto che prevede la creazione di servizi igienici e magazzini al piano terra, funzionali al ristorante che si prevede di realizzare al piano ammezzato dell’edificio, mentre il primo e secondo piano saranno riservati a negozi e l’ultimo piano a due appartamenti.
Quel che più conta che i due palazzi dopo anni di tentativi di vendita e di vari utilizzi, sembrano davvero prossimi ad essere anch’essi “sacrificati al turismo”, come denunciava nel 2012 Italia Nostra. Ma c’è anche un terzo edificio sul quale Cassa Depositi e Prestiti ha puntato il suo interesse. E’ Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, la struttura cinquecentesca, attuale sede della Direzione Politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza e del servizio sociale della Municipalità, oltre che dell’archivio della Procura della Repubblica.
La città lagunare sempre più una città solo per turisti. Una città per la quale l’unica alternativa al riutilizzo di luoghi della sua storia, a parti del suo Paesaggio, come hotel, o centri commerciali come si verificherà a San Giacomo in Paludo sembra essere l’abbandono, come accade all’ex Ospedale al Mare del Lido, che la Cassa Depositi e prestiti ha deciso di affidare a Hines.
Così Venezia rischia davvero di morire. Tra l’immobilità di molti e gli interessi di pochi.
«Il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale». Comune.info news letter, 11 dicembre 2015
Si è aperta la seconda settimana di negoziato alla Cop21 di Parigi, la Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico. L’Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action (Adp), nato a Durban con l’obiettivo di accompagnare il percorso verso Parigi sia per l’accordo post 2020, sia per gli impegni pre 2020. All’ultima sessione di Bonn nell’ottobre scorso, i due co-chair presentarono un “non paper”, una prima bozza, definita da Cina e G77 come inaccettabile. Sono diversi i punti cardine su cui, nei prossimi giorni, si focalizzerà lo scontro interno alla Cop soprattutto dopo la diffusione della bozza di accordo conclusa il 5 dicembre. Sul significato di “accordo vincolante” si giocherà buona parte delle interpretazioni del post Parigi.
La vera questione è che cosa verrà inserito nell’accordo, soprattutto come Annesso, per definire al meglio i termini della questione. Gli Stati Uniti, da una parte, convergono su un accordo legalmente vincolante che non leghi loro le mani per le proprie politiche di riduzione delle emissioni, ma sono contrari a qualsiasi tipo di impegno su tagli decisi e imposti internazionalmente visto il rischio di un veto del Congresso a maggioranza repubblicana. Per questo ritengono che gli impegni vadano comunicati al Segretariato dell’Unfccc, ma al di fuori della cornice dell’accordo che uscirà.
Una posizione alternativa rispetto a quella di diversi “paesi in via di sviluppo”, che al contrario vorrebbero un Annesso specifico sulla falsariga dell’Annex 1 del protocollo di Kyoto, dove gli impegni siano elencati e resi vincolanti. Semplificando, si potrebbe dire che lo scontro concettuale è tra “Accordo legalmente vincolante” e “Accordo con impegni legalmente vincolanti”. Quanto l’accordo rifletterà una reale volontà di impegno dipenderà da molti fattori, tra cui il reale significato di Responsabilità Comune e Differenziata (Cbdr) e di equità, da cui dipenderà l’effettivo ruolo dei Paesi industrializzati nelle politiche di adattamento (leggi risorse economiche stanziate o mobilizzate per far fronte alla catastrofe ambientale) e di mitigazione negli altri impegni necessari alla lotta al cambiamento climatico.
Mentre i paesi industrializzati tendono a ridimensionare gli Indcss, cioè gli impegni nazionali, al semplice taglio delle emissioni climalteranti, buona parte dei paesi del Sud del Mondo ampliano la lista degli impegni alla questione del finanziamento dell’adattamento, al loss and damage e al trasferimento tecnologico.
In tutto questo, il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase già presente nel preambolo della Convenzione quadro, dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale (“Unilateral measures shall not constitute a means of arbitrary or unjustifiable discrimination or a disguised restriction on international trade“), come dire “cambiare tutto per non cambiare nulla”.
Non mettere mano ai meccanismi che permettono al sistema economico di consolidarsi significa non risolvere la questione del cambiamento climatico alla radice. La posizione del parlamento europeo di fine ottobre, che ha chiesto dispositivi per tutelare i risultati dell’accordo di Parigi dall’ingerenza dei mercati e soprattutto dall’invasività dell’Isds, l’arbitrato tra investitori e Stati previsto in trattati come il T-tip, è un sintomo del conflitto di modelli che sta dietro a questo evento. Che rischia, dal prossimo venerdì, di sdoganare definitivamente una goovernance globale dove ciò che è vincolante e sanzionatorio riguarderà commercio ed economia, lasciando nel fumoso mondo del volontariato e della discrezionalità la protezione dei diritti e la tutela dell’ambiente.
Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2015
Il manifesto, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)
L’attacco è al «podestà» Renzi. E ai suoi vassalli, valvassori e valvassini. Eh sì, secondo il coordinamento «No Ombrina», che combatte contro la petrolizzazione selvaggia, il governo attuale, con le sue decisioni unilaterali, è a metà tra il «becero autoritarismo» e i passacarte. «E mentre a Parigi, nella Conferenza internazionale sul clima, il nostro premier proclama di voler salvare il pianeta e l’economia, e spinge per un mondo di rinnovabili, in Italia fa carne da macello. All’estero dà un’immagine verde e poi s’affretta a distruggere il suo, il nostro paese»: Alessandro Lanci, coordinatore del movimento, non si risparmia.
Per fermare questo intervento ed altri simili saranno depositati uno o due emendamenti alla legge di stabilità ora in discussione alla camera. Saranno proposti dalle opposizioni, al netto di una probabile fiducia che il governo potrebbe porre sulla manovra. Nello specifico Sel, M5s e Fi ne dovrebbero proporre uno che chiede il ripristino del divieto di perforazioni entro le 12 miglia dalla costa e un altro che scende nel dettaglio e pone il divieto anche dove insistono parchi in costituzione, come in questo caso. Presenti, accanto ai «No Ombrina» Gianni Melilla, di Sel, Gianluca Vacca, dei Cinque Stelle, e la senatrice, di Forza Italia, Paola Pelino.
Tutto ciò mentre il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, dichiara che «la difesa del mare blu è potentemente all’ordine del giorno e il dialogo tra governo e Regioni è molto, molto avanzato. Sono fiducioso». Ma la sua «fiducia» in Renzi non convince gli operatori turistici che ieri sono scesi in campo, a Pescara, a chiedere un «Abruzzo senza idrocarburi. Il contrario? Sarebbe opzione autolesionista, futuro senza prospettive».
Una meritoria iniziativa sociale «mixed-use» del carcere di Bollate, involontariamente sottolinea l'assurdità di ciò che attorno allo stesso carcere sta avvenendo. La Repubblica Milano, 10 dicembre 2015, postilla (f.b.)
Non c’è posto fino a Natale nel ristorante stellato all’interno del carcere di Bollate. Tutto prenotato. In quasi due mesi, centinaia di persone hanno trascorso il loro anniversario o una cena tra amici “InGalera”. Per festeggiare Natale, la richiesta è cresciuta. Alcune aziende hanno addirittura deciso di riservare tutto il locale. L’esperimento di Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc — che lunedì, accompagnata da tre detenuti, è stata premiata con un Ambrogino d’oro — ha riscosso un grande successo anche su Trip Advisor. I clienti non arrivano solo da Milano, fa sapere Polleri, ma per provare il brivido di entrare in carcere a mangiare, serviti da detenuti, arriva gente anche anche da Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. «Sono soddisfatti e anche curiosi. Si complimentano per i piatti e fanno diverse domande sui detenuti che lavorano in sala e in cucina e su come funziona InGalera».
Bisogna prenotare, ma non è necessario presentare un documento e lasciare i cellulari all’entrata. Il ristorante si trova, infatti, all’esterno dell’area di carcerazione. Ad accogliere i clienti sono i ragazzi dell’istituto alberghiero Paolo Frisi, che hanno deciso di svolgere il tirocinio a Bollate. L’unico problema è che, spiega Polleri, «con Expo è cambiata la viabilità. Sono spariti alcuni cartelli che portavano al carcere lasciando posto a quelli dell’Esposizione universale. Cercando “via Cristina Belgioioso 120” su Google, invece, ci si trova in mezzo al Decumano». In Galera è l’ultimo dei progetti attivati nella casa di detenzione, che hanno lo scopo di formare, rieducare e aiutare i detenuti a reinserirsi nella società.
«Per come è andata in questi due mesi — dice Massimo Parisi, direttore del carcere — è un esperimento fortemente riuscito, sotto ogni punto di vista: dall’ottima qualità del cibo, al riscontro di pubblico, al servizio di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti, che servirà per un loro reinserimento sociale ». Questo è il caso di Graziano, che da rapinatore è diventato pasticcere. Lavora per Abc catering e a volte anche nel ristorante In-Galera. In primavera uscirà dal carcere. Vorrebbe rimanere a lavorare a Bollate, ma abita a Brescia. «Ha promesso di smettere “con le rapinette”», racconta Silvia Polleri. Tornerà dalla sua famiglia, con cui ha ricucito i rapporti dopo aver deciso di cambiare vita. Per ora fa il pasticcere per Abc e «le sue lingue di gatto sono diventate famose».
postilla
Prendiamola un po' alla lontana: cosa c'è di più simile a una gated community segregata, di un carcere? Luogo per sua natura e storia di esclusione, confinamento, monofunzionale e monoclasse? Una volta stabilita questa premessa, e ovviamente considerato che l'iniziativa del ristorante intende spezzare proprio quel genere di segregazione, senza peraltro rinunciare ad altri caratteri fondamentali dell'istituto, vediamo cosa sta accadendo giusto appena fuori dalla recinzione, oltre la strada che separa il carcere dal sito Expo. Per cui si prevede in sostanza una cittadella monofunzionale segregata, separata dalla città, con la scusa di farne una «fabbrica delle idee». E se si provasse, esattamente come col ristorante gestito dai carcerati, a spezzare quell'opprimente scatolone logico, che serve solo alla speculazione e spreca territorio? E tanti auguri a InGalera, ovviamente (f.b.)
«Gentrification», chi era costui? Su un termine di importazione, ma che di fatto ripercorre temi che dovrebbero essere ben noti all'urbanistica, una doppia recensione a due recenti lavori di sociologia urbana. La Repubblica, 8 dicembre 2015, postilla (f.b.)
È solo da poco che a Roma può accadere di sentire una conversazione come questa: «Vado a vivere a Tor Pignattara». «Figo!». Tor Pignattara, periferia est della capitale, tanti residenti provenienti dal Bangladesh, è investita da un fenomeno che chiamano con un termine inglese, “gentrification”. Non c’è un corrispettivo italiano. Più o meno vuol dire che la composizione sociale di un quartiere si è elevata. Vanno via molti abitanti di ceto basso, sostituiti da abitanti di ceto non altissimo, ma più alto di quelli di prima. L’espressione nasce in Inghilterra, metà anni Sessanta. Fu coniata dalla sociologa Ruth Glass. In Italia è approdata di recente, ma, racconta Irene Ranaldi, allieva di Franco Ferrarotti, «quando due anni fa la proposi per intitolare la mia ricerca, un editore sgranò gli occhi: “Nessuno sa che cosa vuol dire”». Ora forse molti sanno cosa significhi gentrification, ma la sua propagazione mescola le acque, le rende più torbide. Comprende cose diverse.
Ranaldi è l’autrice di uno dei libri che da qualche tempo affrontano la questione, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York (Aracne). Più recente è Gentrification. Tutte le città come Disneyland? di Giovanni Semi (il Mulino). Ranaldi e Semi sono sociologi. Ma anche gli urbanisti si occupano dei pezzi di città che da degradati diventano attraenti, ospitano cineclub e boutique, gallerie d’arte e book caffè, richiamano giovani professionisti, creativi e artisti, e poi attori, scrittori, giornalisti, parlamentari, sono molto animati, ma esplodono la sera e nei week-end, e, soprattutto, vedono schizzare i valori di case ristrutturate e tirate a lucido, di magazzini che diventano loft.
Sui quartieri investiti da gentrification fioccano le ricerche nelle università. Si recupera il tempo rispetto a una nutrita letteratura anglosassone. «Fino ad alcuni anni fa per gentrifications’intendeva la sparizione di un vecchio ceto da un quartiere e l’arrivo di un altro», precisa Semi, «negli Stati Uniti e in Inghilterra si sono verificati molti casi negli anni Sessanta e Settanta, che hanno provocato duri conflitti sociali». E adesso? «Adesso la parola è usata quasi come sinonimo di quella che chiamano riqualificazione urbana con una connotazione neoliberista: trasformare un’area dismessa in un misto residenziale e commerciale. Abitazioni private per il ceto medio, gli stessi marchi dell’abbigliamento e della gastronomia, un po’ di verde, ma ad uso di chi risiede, magari un teatro e persino un piccolo museo. È un tipo di conversione disneyana della città». Città che invece avrebbero bisogno di altro, aggiunge Semi: di case a basso costo, di spazio pubblico vero, di servizi che non ci sono – dalle biblioteche ai trasporti – e poi di locali da affittare per attività associative, culturali, d’impresa… Semi ricorda molte vicende di trasformazioni urbane: la Parigi ridisegnata dai boulevard del barone Haussmann, fra il 1853 e il 1870, o l’invenzione del Greenwich Village nella New York anni Trenta del Novecento. Altri esempi: gli sventramenti italiani di fine Ottocento, culminati a Roma con il piccone fascista che demoliva la Spina di Borgo, davanti a San Pietro, o il quartiere Alessandrino, da dove fu espulso chi vi abitava per far posto ai fasti di regime e alla speculazione.
In realtà uno dei presupposti moderni della gentrification è la deindustrializzazione di porzioni semicentrali delle città, e dunque la presenza di stabilimenti dismessi e di abitazioni in parte occupate da chi in quei luoghi lavorava. Secondo Neil Smith, studioso inglese citato da Semi, alla base della gentrification c’è un reinvestimento di capitali all’interno di una città successivo a un disinvestimento. Capitali industriali fuoriescono e rientrano capitali immobiliari. Ormai persino molti costruttori, dopo che la città s’è sparpagliata ovunque e i centri storici si sono svuotati di residenti, aderiscono alla sacrosanta richiesta di uno stop al consumo di altro suolo e spingono per l’edificazione sul già edificato (ovviamente alle loro condizioni).
Ed è qui uno dei punti cruciali. Lo segnala Carlo Cellamare, urbanista della Sapienza di Roma: «In questi processi, come pure in quelli più appariscenti, tipo la movida notturna, si manifesta qualcosa di profondo: non solo una mercificazione della città, ma una mercificazione della vita urbana. Il desiderio di socialità, di intrattenimento, di luoghi che favoriscano questo, viene, si dice, “messo al lavoro” per produrre reddito, proprio tramite processi come la gentrification ».
A Roma Tor Pignattara, appunto, o il Pigneto. O Testaccio, il quartiere che ha studiato Ranaldi, mettendolo a confronto con il newyorchese Astoria. A Testaccio non ci sono sostituzioni edilizie (al posto del mattatoio sono approdate la facoltà di architettura di Roma 3, una sezione del Macro, il museo d’arte contemporanea, e la Città dell’Altra economia), «la popolazione è divisa fra abitanti delle storiche case popolari e i nuovi arrivati, compreso l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, ma sono cambiati tanti negozi e si vanno imponendo i nuovi marchi globali», racconta Ranaldi. «Nel mondo anglosassone la gentrification è stata determinata da grandi operatori economici, da noi è partita da processi spontanei, ai quali poi si sovrappongono le valorizzazioni immobiliari e commerciali», spiega Cellamare. Al Pigneto si sono trasferiti molti giovani, poi si sono imposti simboli diversi, dall’isola pedonale alle memorie pasoliniane (quando di pasoliniano non restava nulla). I prezzi sono cresciuti e si è innescata la gentrification.
La gentrification italiana ha dunque tratti diversi. A Genova a ridosso del porto sono tornati molti figli della borghesia che aveva abbandonato quelle zone nel dopoguerra. Qui, spiega Semi, il fenomeno è bivalente: oltre alle ristrutturazioni e alla vitalità culturale i valori immobiliari sono cresciuti fino al 210 per cento e gli immigrati che abitavano le case lasciate vuote sono stati allontanati. A Milano, fra i quartieri Isola e Garibaldi, quartieri operai e artigiani, la gentrification ha invece mostrato i denti aguzzi dei fondi immobiliari, di Ligresti e dell’emiro del Qatar, impegnando grandi nomi dell’architettura che hanno disseminato l’area di grattacieli.
Conclusioni? È difficile trarne. Intanto prosegue la ricerca di modelli diversi da quelli che si sono affermati, variamente ispirati a una città dove si perdono dimensione pubblica e inclusione sociale. Semi ricorda la Bologna dei primi anni Settanta, dove Pier Luigi Cervellati avviò la riqualificazione di aree del centro storico destinandole, però, agli stessi abitanti di prima. Esperimento ripetuto a Brescia da Leonardo Benevolo e a Roma da Vittoria Calzolari. Altri tempi? Forse.
postilla
Una volta si chiamava tecnicamente sventramento, la pratica della riqualificazione urbana, con trasformazioni radicali del tessuto edilizio e infrastrutturale, a cui si accompagnavano quasi ovvie sostituzioni sociali per «ripagare i costi» della medesima trasformazione, scaricando chissà dove i sottoprodotti collaterali in termini di deportazione di famiglie, attività, aspirazioni. Ed era relativamente semplice leggere l'odioso meccanismo di rapina: c'erano dei pionieri che di fatto avevano costruito sulla propria pelle un valore, la città, nelle generazioni, e che ora venivano fatti sloggiare perché qualcuno potesse goderne adeguatamente i frutti. Poi la citata sociologa Ruth Glass a metà '900 evidenziò un nuovo strumento a bassa intensità di sventramento virtuale, che nascondeva meccanismi egualmente odiosi sotto il profilo sociale, sotto la patina della trasformazione edilizia minima o quasi inesistente: era nata la parola gentrification. Da allora in poi, pare che obiettivo centrale della cultura liberale sia spiegarci che la gentrification è buona, che è riqualificazione urbana tout court. Certo se la consideriamo solo dal punto di vista edilizio – come fa la propaganda immobiliarista - è facile confonderci, e quindi ben vengano gli studi sociologici a ricordarci, se non altro, che sempre del vecchio sventramento si tratta, sotto mentite spoglie (f.b.)
Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015
Il Governo Renzi sta prendendo tutte le contromisure per sbrigliare la matassa dello “sblocca trivelle” e arginare gli escamotage delle Regioni per stoppare le ricerche di gas e petrolio in mare. Dopo il via libera della Cassazione ai sei quesiti referendari presentati da dieci consigli regionali contro il famigerato provvedimento, l’esecutivo è in pieno allarme. E i tentennamenti non mancano. Da una parte mantiene la linea dura e impugna la nuova legge dell’Abruzzo che estende il divieto di ricerca di gas e petrolio. Dall’altra ha allo studio alcune misure che rivedono lo “sblocca trivelle” allo scopo di evitare il referendum, visto come fumo negli occhi: una sconfitta alle urne - temono a Palazzo Chigi - potrebbe mettere in discussione l’intera politica energetica renziana.
Quanto all’Abruzzo, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’impugnativa della legge della Regione denominata Provvedimenti urgenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema della costa abruzzese (n.29 del 14 ottobre 2015). Una legge che vieta - recita l’articolo 1 al comma 1 - «le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle zone di mare poste entro le dodici miglia marine dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero della Regione Abruzzo». Ma che secondo il Governo «invade materie di esclusiva competenza statale» in materia di energia. Tra i progetti interessati c’è Ombrina Mare di Rockhopper, sulle coste abruzzesi, nel mirino da anni dell’opposizione locale.
La decisione del Cdm non prende tuttavia di sorpresa la Regione, che anzi annuncia guerra al Tar e conferma che i lavori per Ombrina verranno comunque sospesi in attesa del giudizio della Consulta. Il ragionamento è semplice e lo spiega il sottosegretario alla Giunta regionale, Mario Mazzocca. Sulla base della delibera del Cdm, l’Avvocatura dello Stato procederà all’elaborazione del ricorso, che verrà depositato in Corte costituzionale. Ci vorranno alcuni mesi per il giudizio finale. Nel frattempo, la Regione Abruzzo chiederà al Tar Lazio di voler sospendere in via cautelare, nelle more del giudizio della Corte, i provvedimenti amministrativi riguardanti Ombrina mare.
«E’ la riprova del fatto che la nostra iniziativa legislativa ha colto nel segno - commenta Mazzocca - Eravamo ben consci tanto dell’elevata possibilità di incostituzionalità del progetto di legge, quanto della pressante esigenza di porre un freno alla deriva petrolifera perseguita dal governo nazionale nell’ottica di concreto sostegno alla proposta referendaria nel frattempo lanciata da 10 Regioni». A mettere in discussione le certezze di Mazzocca è tuttavia il M5S Abruzzo, che da mesi lotta contro il progetto Ombrina e in generale le trivellazioni in Adriatico. «Lo avevamo detto fino a perdere il fiato, questa legge è stata l’ennesimo palliativo mediatico e ora il Consiglio dei Ministri presenta il conto», commenta Sara Marcozzi, consigliere regionale del partito pentastellato. «L’unica strada è quella della legge di iniziativa regionale alle camere presentata dal M5S e approvata dal consiglio regionale - continua Marcozzi, prima firmataria della legge - che va a modificare ed abrogare parzialmente l’articolo 35 del Decreto Sviluppo” (ripristinando quindi il limite di 12 miglia marine dalla costa per le attività delle piattaforme petrolifere).
Ma a non far dormire sonni tranquilli al Governo Renzi è in realtà soprattutto il referendum contro lo “sblocca trivelle”. A fine novembre la Corte di Cassazione ha dato il suo ok ai sei quesiti referendari presentati da dieci regioni, su spinta dei “No Triv”, contro il provvedimento. Secondo la Cassazione sono “conformi alla legge”. Entro il prossimo gennaio la Consulta dovrà dare un giudizio di legittimità e nel frattempo Palazzo Chigi non vuole stare con le mani in mano perché teme di vedersi messe in discussione tutte le politiche in materia di energia. Così i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente si sono messi al lavoro per smussare lo “sblocca trivelle” in senso “No Triv” ed evitare le urne.
La rivolta dei No-Triv. Venderemo cara la pelle, e L’Aquila scaccia il falco.
«Dilemmi. Ridurre l’inquinamento nei Paesi sviluppati non cambierà praticamente nulla. Il paradosso è che nei Paesi poveri si tutela l’ambiente aumentando l’utilizzo di fonti fossili: meglio bruciare il petrolio che intossicarsi in casa con la legna». Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)
La narrazione ha il sapore del déjà vu. Un rituale che si ripete ogni anno dal 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta da poco a Parigi. Per molti è "l'ultima chance di salvare il Pianeta" (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, ha detto il presidente francese François Hollande, «sarà troppo tardi». I numeri ci raccontano però una cosa diversa: stando ad una analisi del Mit, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati - e i dubbi sono legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per le inadempienze - la riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell'ordine dei due decimi di grado. Ma i costi complessivi saranno dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari all’anno.
L'aspettativa salvifica nei confronti del summit si aggiunge ai numerosi miti di cui si alimenta il dibattito sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell'Ipcc, l'organismo delle Nazioni Unite che di questi cambiamenti si occupa. Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l'obiettivo di contenere l'aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C). È questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? La scelta sembra essere arbitraria. Nel più recente rapporto dell’Ipcc, le evidenze disponibili sugli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.
La ricaduta complessiva di tale aumento di temperatura può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe raggiunto l'anno successivo. Nel lungo periodo, certo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell'inquinamento atmosferico all'interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto non all'eccessivo uso, ma alla indisponibilità di fonti fossili, e al ricorso a combustibili "naturali" (legna ecc.). Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone, causa 4,3 milioni morti premature per anno, soprattutto bambini (la concentrazione di polveri sottili nelle abitazioni dei Paesi poveri è di circa 1.000 microgrammi/metro cubo, venti volte superiore a quella che si registra nell'atmosfera di una città dell'Europa occidentale). Per costoro un maggior consumo di combustibili fossili avrebbe immediate ricadute positive.
Questo è il dilemma. La riduzione dei consumi dei "ricchi" non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Il peso dell'Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e della capacità di difendersi da eventi climatici estremi. Il benessere è più correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi diversi ma da analoghe condizioni di vita.
Le politiche attuate finora non hanno avuto né purtroppo avranno effetti apprezzabili sull'evoluzione del clima (solo l'1,5% dell'energia mondiale proviene da solare ed eolico). Come sottolinea l'Economist, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano a fonti alternative poco efficienti, carbone e prodotti petroliferi (sussidiati in molti Paesi). Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe andare ad attività di ricerca nel settore energetico per sviluppare forme di produzione che siano a minor contenuto di carbonio, meno costose e altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili.
Un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli. Una strategia ancora diversa è quella auspicata dal premio nobel Paul Krugman e da William Nordhaus, il primo economista ad occuparsi di cambiamenti climatici: concentrarsi sulla fonte principale di emissioni, il carbone, che tuttavia ha il vantaggio di avere ridotti costi di abbattimento delle emissioni. Gli interessi dei due maggiori produttori di carbone, Usa e Cina, rendono questa strada molto difficile. Una “carbon tax” proporzionata alle emissioni, altra strada raccomandata dalla maggior parte degli economisti perché poco manipolabile dagli interessi costituiti, avrebbe tra i suoi effetti positivi anche quello di orientare le tecnologie verso quelle che generano i costi più bassi per ogni tonnellata di inquinamento prodotta.
Le ragioni di fondo del movimento ecologista e il suo contributo a una nuova cultura della città e della campagna nella premessa al libro di Ilaria Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana . Con postilla
Premessa a Ilaria Agostini, Il diritto alla città. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Ediesse, Roma, 2015
Il maggiore contributo del movimento ecologista è stata la messa a fuoco della consapevolezza che non esiste separazione tra mente e corpo, tra esseri umani e natura. L’ecologismo ci ha costretto a riconoscere assonanze e dissonanze delle nostre interazioni con la natura.
Fin dalle sue origini il movimento ecologista ha affrontato la necessità di rafforzare i diritti collettivi sulle risorse naturali. La cancellazione dei diritti collettivi sulle risorse naturali è stata essenziale per rifornire l’industria di materie prime. È stato necessario privatizzare i mezzi di sostentamento delle popolazioni per alimentare la macchina del progresso industriale e dell’accumulazione capitalistica a livello globale.
La globalizzazione si è rivelata, più che interazione tra culture, imposizione di una cultura su tutte le altre, prevalenza della monocultura sulla varietà culturale. E anche prevalenza della cultura meccanicista sulle forme di pensiero che considerano la natura come vita. Per queste, il sacro è visto come presente nella natura e ogni manifestazione naturale è sua espressione diretta. Per le culture meccanicistiche, invece, il sacro è al di fuori della creazione e assume il ruolo di ingegnere supremo. Le prime rispettano la molteplicità e la diversità della natura, e riconoscono che tutte le creature crescono e si sviluppano per propria forza intrinseca. Nel pensiero meccanicista, invece, le forme della natura appaiono come qualcosa di compiuto, come parti intercambiabili di una grande macchina.
La natura diventa una macchina, l’agricoltura industriale perde le connessione con la vita, il territorio e la città diventano il supporto inerte per l’economia finanziarizzata.
La monocoltura della mente riduce le diverse economie a un’economia unica: quella globale del mercato in cui scompaiono le economie naturali o di autosussistenza. L’autosussistenza è vista come una deficienza economica. Il modello di produzione monoculturale svaluta il lavoro delle donne e il lavoro condotto nelle economie parallele al mercato globale. La separazione della produzione dalla riproduzione, la caratterizzazione della prima come economica e della seconda come biologica, è un assunto reputato “naturale”. In realtà è stato costruito ad arte nella sfera sociale e politica.
Il contributo creativo offerto dalle donne, dai contadini e dai nativi, consiste prima di tutto nel rigenerare la vita, e nel conservare le capacità di rigenerarla. Nella visione patriarcale capitalista – che considera l’impegno di donne e contadini come un’attività biologica ripetitiva e priva di pensiero – rigenerare non corrisponde a creare, bensì a ripetere. Ma ciò è falso. E anche l’idea che la creazione si riduca alla novità è falsa, così come essa non è pura replica. La rigenerazione comporta diversità, mentre l’ingegneria genetica produce uniformità. In realtà la rigenerazione si identifica con il modo in cui la diversità è prodotta e rinnovata.
La globalizzazione trasforma la diversità in malattia e carenza, perché non riesce a tenerla sotto controllo. L’omogeneizzazione e le monoculture introducono la violenza a molti livelli. La globalizzazione produce infatti monoculture controllate con la coercizione. La diversità è intimamente legata alla facoltà delle comunità di autorganizzarsi e di evolvere secondo i propri bisogni, competenze, strutture e priorità. Solo le comunità policentriche e autorganizzate, e il controllo democratico locale, possono produrre diversità culturale e biologica.
L’intolleranza nei confronti della diversità ha imposto un ordine violento.
In un mondo caratterizzato naturalmente dalla diversità biologica e antropologica, la globalizzazione si può realizzare solo annullando il carattere variegato delle comunità e la loro capacità di rigenerarsi, di autorganizzarsi e autogovernarsi. Oggi, uno degli slogan dell’ambientalismo di base in India è “Nate na raj”, ossia “le nostre norme nel nostro villaggio”. È la rivendicazione della sovranità locale; le risorse naturali di un villaggio appartengono a quel villaggio. Ma la sovranità locale è messa in pericolo: la recinzione delle terre comuni si intensifica; brevetti sui semi e sulle forme di vita trasformano la proprietà comune biologica in una merce genetica; la privatizzazione dell’acqua rende i fiumi e le acque sotterranee merci da vendere in bottiglie di plastica o attraverso una rete urbana privatizzata.
Con la rottura delle connessioni tra mente e natura, le campagne si desertificano. Oggi almeno la metà della popolazione mondiale vive in città e l’inurbamento è inarrestabile e fuori controllo. Cinque secoli di pensiero coloniale sul suolo extra-europeo come terra nullius, e un centinaio di anni di agricoltura industriale, hanno espulso dalla terra i contadini, che si ammassano negli slums.
L’urbanizzazione divora enormi quantità di energia ed è una delle principali cause dei cambiamenti climatici. È perciò essenziale un cambio di paradigma economico: dall’economia lineare e di rapina, all’economia circolare. Dall’estrazione, alla restituzione.
Il recupero delle terre comuni, dei diritti naturali, dei diritti collettivi sul suolo, è alla base del recupero ecologico, della creazione del benessere economico e della realizzazione di una vera democrazia.
L’esperienza narrata nel libro – la Fierucola del pane – va in questo senso: l’originale e precoce elaborazione e messa in atto di idee ecologiste in un “collettivo” di contadini e cittadini che coltiva la diversità come risposta nonviolenta ai soprusi della globalizzazione, dell’omogeneizzazione e delle monoculture. Stretti in un’alleanza contro gli imperativi del mercato, contadini e cittadini pongono la resistenza nonviolenta (sathyagraha), la sapienza popolare e la rigenerazione (swadeshi) e l’autorganizzazione (swaraj) alla base della produzione del cibo e, in sintesi, degli stili di vita.
Anche questa esperienza ci insegna che è necessario un nuovo patto col pianeta e col suolo. Un patto che riconosca che noi siamo il suolo, che dal suolo proveniamo e traiamo nutrimento.
Questa è la nuova rinascita, è la consapevolezza che il suolo è vivo e che prendersene cura è il lavoro più importante svolto dai contadini. Dalla cura del pianeta, obbiettivo primario, discende il cibo buono. Cibo nutriente da suoli sani. Quando sarà riconosciuto il ruolo fondamentale dei contadini nella salute umana e nella fertilità dei suoli, l’agricoltura cesserà di essere terra di conquista da parte di industrializzazione e urbanizzazione. I contadini, remunerati per il loro ruolo ecologico e sociale, rimarranno sulla terra e non si trasferiranno come profughi nelle aree urbane.
Una riconciliazione tra città e campagna scaturirà dal nuovo patto con il suolo.
postilla
Il testo dell’autorevole esponentedella cultura ecologista internazionale si conclude con una frase che contieneun’affermazione e un auspicio. Non mi sento di accogliere pienamentel’affermazione (forse il “nuovo patto con il suolo” non è l’unico “nuovo patto”che bisogna stabilire) ma condivido pienamente l’auspicio: “una riconciliazionetra città e campagna”.
La città è nata storicamente come opposizione allacampagna. Nei secoli più recenti ha occupato la campagna e la staseppellendo sotto la «repellente crosta di cemento e asfalto» (Cederna). Macontemporaneamente il concetto stesso di città si sta evolvendo. Si è faticosamenteriusciti a comprendere che la città non è solo un insieme di elementi materialiconcentrati in determinate porzioni del territorio ma è un sistema complessonel quale abita un insieme di persone e attività legate da intense relazioni: «lacittà non è un aggregato di case ma è lacasa di una società» (Salzano). Più recentemente abbiamo compreso che lacondizione urbana (ossia la possibilità di godere di tutti i requisiti positiviche l’avventura urbana ha concesso ai suoi fruitori) non deve essere garantitosolo agli abitanti di determinati insiemi di aree caratterizzate dallaprevalenza di trasformazioni profonde e irreversibili del suolo naturale, mache è - deve essere- diritto degli abitanti dell’insieme della superficie dellaTerra. Ecco allora che si è passati dal termine città a quello di «habitatdell’uomo» (Bevilacqua). Ecco allora che, alla condizione urbana bisogna aggiungere un’analoga “condizionerurale”, ossia la garanzia di fruire di tutti gli elementi propri di unmaggiore e più diretto rapporto con la natura, sia quella selvatica che quellaaddomesticata dei paesaggi agrari. Illibro di Ilaria Agostini è una utile raccolta di stimoli e di esperienze offerti achi ritiene che percorrere la strada di una “riconciliazione tra città ecampagna” sia necessario e possibile. È una visione utopistica? Può darsi; non a caso riecheggiaparole d’ordine degli utopisti del XIX secolo. Ma senza sconfinare nell’utopia è difficile immaginare un futurodavvero migliore di quello che ci aspetta se ci abbandoniamo al mainstream, o se ci ubriachiamo nei fumi della nostalgia.
Felicemente insabbiata una legge che non servirebbe a ridurre il consumo di suolo. Lo ammette anche ol suo primo promotore, Mario Catania. La Stampa, 5 dicembre 2015
Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna: un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti». Il 14 settembre 2012 non parlava un pericoloso ambientalista, ma un austero economista bocconiano, il presidente del Consiglio Mario Monti. Il suo governo aveva appena varato il primo, rivoluzionario disegno di legge per ridurre il consumo di suolo. Dopo quasi 39 mesi quel testo è ancora lontano dal diventare legge. La commissione Ambiente della Camera ha impiegato due anni e mezzo per discuterlo, modificarlo e approvarlo. Ancora non si sa quando sarà calendarizzato e se passerà l'esame dell'Aula. Poi ci sarà il passaggio (pieno di ostacoli) in Senato. Secondo accreditate fonti parlamentari, ha meno del 20% delle possibilità che diventi legge.
I numeri e i bisogni
Perché è davvero importante tutelare il suolo? Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano, lo spiega nel libro «Che cosa c'è sotto» (Altraeconomia): «Primo: il suolo è una risorsa scarsa e non rinnovabile (per ricostituire 2,5 centimetri di suolo occorrono 500 anni), con giganteschi benefici ambientali, sanitari, alimentari. Secondo: sul suolo si scatenano interessi politici ed economici distorsivi: il valore di un terreno edificabile cresce anche di migliaia di volte».
L'Europa ha fissato una «tabella di marcia» con l'obiettivo di un consumo netto di suolo pari a zero per il 2050. In Germania una legge esiste dagli Anni 90, quando Angela Merkel era ministro dell'Ambiente. In Francia i Comuni sotto i 15 mila abitanti hanno vincoli stringenti. In Italia liberi tutti: per ogni secondo che passa, otto metri quadrati di terra vergine vengono asfaltati o cementificati. Secondo il Wwf, nei prossimi 20 anni sarà perduto un territorio pari a due volte la Valle d'Aosta. «Se continuiamo così, oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento», ha scritto Carlo Petrini. Eppure il valore del suolo dovrebbe essere più considerato proprio in un Paese fragile come il nostro. Pileri ha calcolato che un ettaro di suolo non edificato può trattenere 3,8 milioni di litri di acqua. Se cementificato, costringe lo Stato a spendere 6500 euro l'anno solo per tenere in ordine i tubi che convogliano quelle acque.
Modifiche e interessi
Programmare, ridurre e disciplinare il consumo di suolo: questa era l'idea alla base del disegno di legge del governo Monti, scritto da Mario Catania, all'epoca ministro dell'Agricoltura, mutuando l'esperienza tedesca. «Il testo - spiega Catania - strada facendo è cambiato. Il mio mirava a blindare le aree verdi e non si poneva problemi di pianificazione urbanistica. Era limitato ma coerente. Poi è entrata la parte della rigenerazione urbana: il testo si è allargato ma anche indebolito perché la blindatura delle aree verdi è annacquata».
Solo il Movimento 5 Stelle sostiene convintamente una legge efficace. Al di là dei proclami, in senso contrario si muove un articolato fronte trasversale che raccoglie forze in tutti i partiti, Pd in primis. Anche l'impegno del governo è intermittente: la commissione della Camera ha dovuto attendere sette mesi il parere del ministero dell'Ambiente sugli emendamenti.
Gli industriali si oppongono a qualsivoglia legge sul consumo di suolo: temono limiti all'edilizia, già penalizzata dalla crisi (dal 2008 perso il 35% degli investimenti). Le associazioni ambientaliste, inizialmente entusiaste, contestano le recenti modifiche del testo. L'urbanista Vezio De Lucia ha scritto sul sito eddyburg.it che il meccanismo di tutela del suolo previsto dall'ultimo testo, infarcito di complicazioni burocratiche, sembra fatto apposta per risultare inapplicabile. Inoltre sono stati aggiunti «due argomenti assolutamente estranei, anzi in contrasto con l'obiettivo del contenimento dell'uso del suolo: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate, al riparo dei quali prendono corpo operazioni che addirittura favoriscono la speculazione immobiliare».
Come sintetizza l'ex ministro Catania: improbabile che la legge arrivi al traguardo. E se arrivasse, il testo sarebbe scritto in modo da essere inefficace.
Penso di fare cosa gradita precisando lo stato di fatto delle procedure su Contorta e Tresse Nuovo. Indipendentemente dall'Ordinanza del Consiglio di Stato che sospende la sentenza del TAR rinviando il merito al 10 marzo prossimo, la procedura di VIA del Contorta ha ripreso oggi stesso presso il ministero dell'Ambiente, mentre allo stesso Ministero non risulta presentato alcun progetto "Tresse Nuovo" né come variante né come nuovo progetto (d’altra parte se ci fosse sarebbe pubblicato sul Sito del Ministero).
«Non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi». La Repubblica, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)
Uno scarto importante è il biossido di carbonio o anidride carbonica (abbreviato in CO2), che provoca i cambiamenti climatici quando viene rilasciato nell’atmosfera, principalmente a causa del nostro consumo di combustibili fossili. Il secondo gas più importante all’origine dei cambiamenti climatici è il metano, che esiste in quantità molto più ridotte e al momento rappresenta un problema meno grave della CO2, ma che potrebbe diventare importante per effetto di un anello di retroazione positiva: il riscaldamento globale scioglie il permafrost, che rilascia metano, che provoca ancora più riscaldamento, che rilascia ancora più metano e così via.
Falsi allarmi, veri affari, ferocia di classe sono le parole chiave delle ultime cronache da Venezia. Il 25 novembre, data in cui si celebra ... (continua a leggere)
Falsi allarmi, veri affari, ferocia di classe sono le parole chiave delle ultime cronache da Venezia. Il 25 novembre, data in cui si celebra la lotta contro la violenza sulle donne, è apparsa la notizia che, il giorno prima, era stato vietato l’accesso a piazza San Marco a una turista che indossava il burqa. L’episodio è stato presentato come una prova dell’efficacia delle misure “antiterrorismo” adottate per il funerale di Valeria Solesin, durante il quale si poteva entrare in piazza solo attraverso cinque varchi controllati dalla polizia, mentre 400 agenti armati si aggiravano tra la folla e numerosi tiratori scelti erano appostati sui tetti.
“Una piazza di civiltà”, ha sentenziato il Corriere della Sera, mentre le autorità hanno espresso soddisfazione perché i cittadini non hanno protestato contro la limitazione della loro libertà di movimento. «È andata benissimo … la gente ha capito» ha detto il comandante dei vigili, spiegando che non si è trattato di un caso eccezionale, ma della “prova generale” di quello che avverrà in occasione di altri grandi eventi, a cominciare dall’inaugurazione del Giubileo con l’apertura della porta santa della basilica san Marco, il prossimo 13 dicembre. Alle parole del capo dei vigili si è associato il Primo procuratore di san Marco Carlo Alberto Tesserin, già consigliere regionale di NCD, che ha aggiunto: «oggi per il funerale è stato più facile», perché «tra le autorità ci si conosce tutti, almeno di vista», ma per il Giubileo stiamo studiando un sistema di «identificazione dei fedeli». Così, mentre il Papa camminava nelle bidonvilles di Nairobi e nei campi profughi di Bangui, le autorità veneziane hanno deciso che alla Messa del 13 dicembre si potrà assistere solo “per inviti” e in chiesa entreranno solo i “fedeli accreditati”.
La privatizzazione/militarizzazione di quello che era il cuore della città non è una novità. Proposte di chiuderne gli accessi e consentire l’ingresso, a pagamento, o comunque a discrezione di chi ne millanta la proprietà, si sono moltiplicate negli ultimi mesi, ma la loro applicazione è stata finora rallentata dalla contrapposizione dei diversi interessi di chi controlla il turismo “straccione” e dei padroni delle botteghe di lusso. Gli unici che, secondo il sindaco Brugnaro, alfiere della tolleranza zero contro i mendicanti che rovinano lo spettacolo ai turisti, hanno diritto di parola sulla questione. «E’ ovvio, ha detto, che un’ipotesi cosi estrema dovrebbe essere condivisa con le categorie, in primis commercianti e albergatori».
Intanto, mentre le “categorie” si spartiscono il territorio, è arrivato il ministro Alfano ed ha annunciato il piano “Venezia sicura”, che consiste nell’invio di “105 rambo per blindare la città” contro il terrorismo e contro il commercio abusivo. «Una città speciale merita un piano speciale» ha detto. Ed è solo l’inizio, se, come sembra, verrà accolta la richiesta del governatore del Veneto Zaia, di far arrivare cani che “fiutano l’esplosivo” nei “luoghi sensibili” della regione, cioè: Venezia e il suo carnevale, la basilica di sant’Antonio a Padova e Gardaland, accomunate in un osceno miscuglio di sacro e profano in quanto locations che attirano il maggior numero di visitatori paganti. Contemporaneamente, l’assessore alle politiche sociali del comune ha annunciato l’installazione di tornelli contro i barboni in biblioteca, misura, «necessaria per evitare che i senza dimora si siedano ai tavoli di studio insieme ai ragazzi che preparano gli esami per l’università».
«Piano Lupi. La Camera vota la fiducia sul «Piano Lupi», oggi il voto finale. L’articolo 5 del decreto taglierà luce, acqua e gas alle occupazioni abitative nel paese». Il manifesto, 3 dicembre 2015
Ieri la Camera dei Deputati ha votato un atto vendicativo contro centinaia di occupazioni abitative in tutto il paese. Trecentoventiquattro deputati del Pd, Ncd e Scelta Civica contro i 110 di M5s, Lega Nord, Sel e Forza Italia hanno concesso la decima fiducia al «Piano Lupi» del governo Renzi sull’emergenza abitativa che all’articolo 5 prevede di tagliare luce, acqua e gas a chi occupa un immobile.
Il provvedimento che incasserà il voto finale oggi a Montecitorio (alle 12,30 le dichiarazioni di voto) lancia una guerra contro almeno 10 mila poveri urbani, italiani e immigrati che solo a Roma vivono in alberghi, scuole, uffici abbandonati, residence o sedi di aziende pubbliche abbandonate. A queste persone verrà anche vietata la residenza e verrà inflitta una disposizione con la quale si stabilisce la nullità degli effetti degli atti emessi in violazione della nuova normativa. «Una decisione presa da un governo incivile in un paese incivile», così l’ha definito il portavoce del Coordinamento cittadino di lotta per la casa.
I movimenti per il diritto all’abitare si sono nuovamente radunati ieri in un presidio a Piazza Montecitorio. Verso le cinque e mezzo la piazza ha cominciato a scaldarsi. Dopo la prima chiama in aula, la piazza circondata da un ingente schieramento di agenti di polizia e carabinieri, è in fibrillazione: «Renzi vattene», «Vergogna, vergogna», «Le case ci stanno perché non ce le danno?». Alla notizia della fiducia, poco prima delle otto, sale la disillusione, poi scoppia la rabbia: «Ma come? — urla disperata una donna — Noi sempre qua a manifestare, a chiedere incontri e risposte, e poi invece di una casa ci danno l’articolo 5? Niente residenze e gas, luce e acqua? E dove andiamo a vivere, come viviamo? I nostri figli senza residenza dove li mandiamo a scuola?». Una pioggia di uova parte diretta verso la facciata del Palazzo. La polizia, nervosa, impugna scudi e manganelli.
Ma il presidio si trasforma, fulmineo, in un corteo. In centinaia si dirigono verso piazza Venezia. Bloccano il traffico. A passo veloce arrivano al Colosseo dove c’è un blitz. Mentre sui Fori Imperiali inizia un’assemblea sul piano Lupi, qualcuno si arrampica sulle impalcature del Colosseo, esponendo lo striscione giallo che ha aperto tutti i cortei degli ultimi giorni: «Liberiamo Roma dai divieti, dalla rendità e dalla precarietà». Paolo Di Vetta dei Blocchi precari metropolitani) annuncia la resistenza al decreto: «Faremo rimangiare ad Alfano il piano sicurezza. Occuperemo l’Anagrafe, l’Acea, i Municipi, non faremo un passo indietro. Dovranno passare sui nostri corpi quando toglieranno acqua, luce, gas a tante famiglie di Roma. Hanno appena votato un testo che uccide il diritto alla casa nel nostro paese, così come il governo Renzi ha già fatto con il Decreto Poletti sul lavoro».
Il piano Casa contiene il via libera alla cedolare secca al 10% per gli affitti nei comuni colpiti da calamità naturali, interventi di edilizia sociale ad hoc per gli over 65, una clausola di riscatto nel contratto di affitto per gli alloggi sociali. Vengono prorogati i benefici per gli inquilini con un contratto di affitto in nero e vengono stanziati 325 milioni di euro in più per il Fondo per gli inquilini morosi incolpevoli.
Come d’abitudine, anche in questo provvedimento sono confluite norme tra le più diverse. C’è un bonus per mobili ed elettrodomestici che estenderà lo sgravio entro un tetto di 10 mila euro. Ci sono inoltre 25 milioni per il comune di Milano per l’Expo 2015 presi con un taglio ai fondi per la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione. Una decisione che provocherà polemiche. La guerra ai poveri del governo Renzi è tuttavia uno degli aspetti dei problemi che la casa sta producendo.
Sul fronte della Tasi
L’altro fronte è quello della Tasi. Dopo il caos, ora è il turno della beffa. In uno studio della Uil, infatti,si apprende che in 12 su 32 capoluoghi la Tasi presenterà un conto salato. A Roma, e poi a Genova, Milano, Torino verrà superata quota 400 e sarà più cara dell’Imu. Un aggravio che con l’aumento della Tari e delle addizionali comunali rischia di neutralizzare il bonus Irpef da 80 euro. Per i pensionati, i disoccupati e i precari la situazione peggiorerà ancora, aumentando il carico fiscale.
Nei Comuni che non avranno deliberato entro il 23 maggio le aliquote, la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi è stata prorogata da giugno a settembre dal governo. Per tutti gli altri Comuni — si è letto in una nota diffusa nella serata dal Ministero dell’Economia — la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi resta il 16 giugno.
Una soluzione che il sindaco di Torino, e presidente dell’Anci, Piero Fassino ha trovato soddisfacente: «Garantisce certezza sia per i Comuni sia per i contribuenti».
«Vista dall’alto e senza illusioni, la Venezia verso la quale stiamo andando è un città la cui vita dipende in modo quasi esclusivo dal turismo. Il quadro del domani ci mostra che le sue case si sono svuotate di residenti per riempirsi di visitatori di pochi giorni». La Nuova Venezia, 2 dicembre 2015 (m.p.r.)
Come dei gitanti che attraversano un bosco, noi veneziani rischiamo di perdere l’orientamento se non alziamo frequentemente lo sguardo al di sopra del singolo albero o dell’intoppo sul sentiero che ci costringe a una deviazione. Combattiamo, almeno quelli di noi che si preoccupano per il bene comune, contro la vendita dell’ennesimo palazzo che si vuole trasformare in albergo, contro l’ingresso delle navi da crociera in laguna, contro il proliferare dei B&B in calli e campielli. Ma intanto la città si trasforma. Il suo futuro viene disegnato passo passo, in modo impercettibile ma che la coinvolge tutta. Come il gitante che si addentra nel bosco rischiamo di perdere l’orientamento e, mentre riusciamo ad aggirare un pericolo visibile, stiamo per finire dentro una selva senza uscita.
Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2015
«Trasferiremo la biblioteca a Palazzo Altemps così potremmo utilizzare quel piano con una bellissima terrazza per offrire servizi ai visitatori del Palatino, che è un luogo bellissimo ma non offre nessun confort a chi lo visita». A dirlo è stato il Soprintendente speciale per il Museo di Roma, il Colosseo e l’Area archeologica di Roma Francesco Prosperetti, agli inizi dello scorso luglio. L’esito di un ragionamento sull’accoglienza, introdotto da una constatazione. «Effettivamente – notava il Soprintendente – trovo incredibile che si possa pensare di far camminare per ore il turista sotto il sole tra Palatino e Fori senza dargli la possibilità di un punto dove ristorarsi, riposarsi ed avere informazioni, bisogna pensarci e fare qualcosa di concreto al più presto». I camion-bar, da tempo padroni delle postazioni commercialmente più appetibili del centro storico della città, sono stati spostati altrove.
Così, non senza ragione, Prosperetti rifletteva su come offrire servizi ai fruitori dell’area archeologica centrale. Una necessità per uno spazio all’aperto molto vasto, ma privo di spazi per la ricreazione. Una legittima preoccupazione per il Soprintendente. Idea, quella di riutilizzare il secondo piano e la terrazza dell’Antiquarium per “servizi ai visitatori del Palatino”, delineata meglio alla fine di Agosto. Inequivocabili le sue parole: «Dobbiamo servire almeno tre target diversi. Tra questi ci deve essere per forza un target alto. Un’idea è usare il piano alto e la terrazza del Museo Palatino. Per capirci, si tratta di un appartamento di 130 mq più terrazze nel luogo più panoramico della città e nel luogo più bello del mondo: il ristorante più indimenticabile e suggestivo del pianeta”.
Nei giorni scorsi sul sito de L’Espresso è stata pubblicata la notizia dello stanziamento di fondi ad hoc. Circa 1 milione di euro inserito nel bilancio per il prossimo triennio. Bilancio approvato da pochissimo tempo. Dunque si sarebbe entrati nella fase operativa dell’operazione. A dispetto della scarsa rilevanza che il tema ha finora incredibilmente avuto, rimangono alcune evidenti criticità, a partire dallo spostamento a Palazzo Altemps della Biblioteca ospitata al secondo piano dell’immobile. Solo un particolare trascurabile, secondo Prosperetti. In realtà qualcosa di più se il trasloco di libri diventa necessario per lasciare spazio ai tavoli del nuovo ristorante esclusivo.
E che dire del traffico veicolare che comporterà la trasformazione? Via vai, se non di mezzi privati, almeno di quelli collegati ai rifornimenti dell’esercizio commerciale. Circostanza, soprattutto quest’ultima, che sembra in palese contraddizione con il contesto. Come sarà possibile giustificare il transito di furgoni e autovetture all’interno dell’area archeologica centrale? Mentre si pedonalizza via dei Fori imperiali si crea un corridoio proprio all’interno del sito archeologico? In questo modo verrebbe adottato quello che anche il semplice buon senso sconsiglierebbe. In nome di cosa, lo si sa. Lo ha sostenuto Prosperetti. Lo ha ripetuto più volte Franceschini.
Per l’architetto chiamato a guidare la Soprintendenza romana, «I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte», ha detto alcuni mesi fa a proposito dell’utilizzo del Circo Massimo per i concerti. Probabilmente omettendo che i luoghi dell’archeologia possono diventare anche prestigiosi contenitori di servizi. Per il Ministro, poi, non si può pensare solo alla tutela: «Bisogna valorizzare con bookshop, servizi multimediali e ristoranti», ha dichiarato.
E questo è il punto nodale. La valorizzazione del patrimonio culturale, intesa secondo la definizione che il Mibact stesso ne dà, «consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina di tutte quelle attività a cura dell’Amministrazione dei Beni Culturali volte a promuovere la conoscenza del patrimonio nazionale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione del patrimonio stesso ad ogni tipo di pubblico, al fine di incentivare lo sviluppo della cultura». Definizione tra le cui righe si ricorda (a ragione) come «tutti questi interventi devono essere effettuati in forme compatibili con la tutela e in modo tale da non pregiudicarne le fondamentali esigenze».
Chiedersi se la realizzazione del ristorante “più indimenticabile e suggestivo del pianeta”, identificata da Prosperetti come un’operazione di valorizzazione, non tradisca le indicazioni del Mibact, appare lecito. Interrogarsi se un luogo esclusivo in uno spazio culturale “pubblico” come l’area archeologica centrale, non sia una contraddizione, potrebbe essere utile. Naturalmente a patto che si abbia la convinzione che i luoghi della cultura e i loro servizi debbano essere per tutti. A patto che non si rincorra l’idea che i siti archeologici e gli spazi museali, i palazzi storici e tutto quello che comprende il patrimonio culturale, non siano altro che location. Straordinari ed esclusivi “involucri” di eventi per l’intrattenimento e ristoranti.
Anche lo stile del Governo Renzi è ormai inconfondibile: è quello degli ottanta euro, dei cinquecento posti al Mibact, dei bonus da cinquecento euro per i diciottenni. Il bancomat al posto di un progetto, lo stimolo elettrico all'esistente invece di un qualunque tentativo di cambiarlo, di evolvere, di costruire il futuro.
I cinquecento tecnici che (dal primo gennaio 2017) saranno assunti al Mibact sono in sé un'ottima notizia. Una delle poche cose buone ottenute dal ministro Dario Franceschini: che ieri – per non dire che l'ultima – ha pensato bene di fare una pubblica genuflessione al Ponte sullo Stretto voluto dal Capo. La politica al tempo della società di corte.
Ma quei benedetti cinquecento posti sono come un'aspirina data a un moribondo: sono meno della metà di quelli che saranno lasciati scoperti per pensionamenti solo da ora al 2017. E dentro al Mibact non c'è più nessuno, da anni.
In più, essendo appunto un'una tantum, su questo bando si stanno addensando desideri, aspettative, demagogie di ogni tipo. L'episodio più clamoroso è stato il voto parlamentare che ha abbassato i requisiti di accesso fino al livello della laurea triennale: un grave errore. Ma è chiaro che finché si va avanti con misure da ultima spiaggia, non potrà che finire così. L'alternativa è far funzionare la normalità, riavviare il turn over, riallinearci a ciò che succede negli altri paesi europei.
Gli altri cinquecento (questa volta sono gli euro per i diciottenni: la cabala renziana conosce solo cifre tonde) non sono solo ingiusti (perché senza alcuna relazione col reddito di chi li riceverà), sono anche sbagliati. Perché è sacrosanto dire che il terrore si batte con la cultura, ma il punto è capire cos'è la cultura. Lo ha detto benissimo papa Francesco, in Africa: ci vogliono lavoro ed educazione. Ecco il punto: l'educazione. Che letteralmente vuol dire tirare fuori ciò che è dentro di noi: la nostra umanità, innanzitutto.
La nostra spesa per l'istruzione è poco superiore alla metà della media Ocse. Le nostre scuole e le nostre università sono alla fame. Se il governo vuol davvero coltivare la nostra civiltà, vuol farci rimanere umani, la via maestra è finanziare la scuola e la ricerca. Poi finanziare la produzione (e non il consumo) culturale.
Rimettere in piedi davvero il bilancio del patrimonio culturale, dimezzato nel 2008. E poi aprire a tutti quel patrimonio: con i soldi necessari a finanziare i bonus per i diciottenni si aprono gratis, a tutti, i musei statali italiani per tre anni e mezzo.
Non abbiamo bisogno dell'intrattenimento di Stato, non abbiamo bisogno di diventare ancor più consumatori, clienti, spettatori: abbiamo invece un disperato bisogno di diventare cittadini, di avere strumenti per esercitare il senso critico.
Abbiamo bisogno di conoscenza, di storia, di lucidità: perché è cultura quella che «permette di distinguere tra bene e male, di giudicare chi ci governa. La cultura salva» (Claudio Abbado).
«L’Africa ora al centro del vertice. Incontro con le leadership africane e i finanziatori. Dalla Banca Mondiale l’"Africa Business Plan": per risanare il Continente (distrutto dalle multinazionali)». Inizia una nuova fase del business neocolonialista? Il manifesto, 2 dicembre 2015, con postilla
Per la prima volta, l’Africa ha un posto centrale nei negoziati di una conferenza internazionale sul clima. Ieri, François Hollande ha presieduto una riunione alla Cop21 con la presenza di una ventina di capi di stato e di governo africani, che hanno incontrato dei potenziali finanziatori. Sul tavolo, dei progetti concreti: a cominciare dalla costruzione di una «grande muraglia verde» per lottare contro la desertificazione, investimenti sul lago Ciad, che dagli anni ’60 a oggi ha perso circa l’80% della sua superficie e per il fiume Niger, il terzo per importanza del continente, che dalla Sierra Leone alla Nigeria attraversa paesi (Guinea, Mali, Niger) in grandi difficoltà e in preda a conflitti. Questo progetto, in evoluzione, prevede ormai la creazione di «sacche» verdi, molto ravvicinate, con rimboscamento della zona, interventi sull’habitat e sulla produzione di energia. Un’Iniziativa africana per le energie rinnovabili completa il quadro discusso ieri.
È stata esplicitamente fatta una connessione tra effetti deleteri del disordine climatico – distruzione delle fonti economiche, pauperizzazione – e la crescita del terrorismo: il Sahel è una delle aree dove la Francia interviene militarmente in questo momento. In prospettiva, 16 miliardi di dollari dovrebbero venire mobilitati per queste iniziative, con fondi pubblici ma anche privati, solo un inizio visto che il piano dell’Unione africana per le energie rinnovabili prevede costi per 250 miliardi complessivi, tra i 12 e i 20 miliardi per un primo passo entro il 2020 (10 gigawatt supplementari dalle rinnovabili). L’Africa «è il continente che soffre di più del disordine climatico – ha affermato il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim – rispondere a questa sofferenza è una questione di giustizia e una condizione perché la Cop21 sbocchi su un accordo serio».
Hollande ha promesso di raddoppiare i finanziamenti francesi tra il 2016 e il 2020 per sviluppare le energie rinnovabili in Africa, portandoli a 5 miliardi di euro, con almeno un miliardo destinato all’adattamento al cambiamento climatico, il parente povero dell’impegno finanziario (solo il 16% dei fondi mondiali per il clima sono destinati a questo aspetto).
«Oggi sono fiero del mio continente – ha commentato ieri Kumi Naldoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, di origine sudafricana – è spesso stato detto che le nazioni africane non hanno la stessa responsabilità storica per agire perché hanno fatto molto poco per causare il problema. Ma oggi si fanno avanti e dimostrano di avere una visione significativa. Gli africani sono sulla linea del fronte del cambiamento climatico. Il piano per sviluppare 300 gigawatt di energie rinnovabili di qui al 2030 è certamente ambizioso. La maggior parte deve venire dal solare e dall’eolico, non dalle grandi dighe. Solo così questa iniziativa avrà un basso impatto energetico per grandi quantità di esseri umani, che non hanno ancora accesso all’elettricità». Per Naldoo, «l’Africa deve diventare il continente dell’energia pulita». In Africa, i due terzi della popolazione – oggi 1,1 miliardi, 2 miliardi nel 2050 – non hanno accesso all’elettricità.
Oggi, il peso dell’Africa nella produzione di gas a effetto serra è inferiore al 4%. La Banca Mondiale ha in programma l’Africa Climate Business Plan, per pilotare nuovi finanziamenti. Al recente vertice Ue-Africa a La Valletta è stato approvato un Fondo d’emergenza per l’Africa di 1,8 miliardi di euro. Anche i paesi del G7 hanno fatto promesse nel giugno scorso.
Adesso bisognerà vedere se si passerà dalle parole ai fatti.
Come ha ricordato il ministro dell’ambiente del Senegal, Abdoulaye Bibi Baldé, «l’obiettivo mondiale dei 2 gradi corrisponde a un aumento reale delle temperature di 3–4 gradi nei paesi costieri dell’Africa, cosa che rischia di causare dei disastri sul piano ecologico. Per questo chiediamo una revisione a 1,5 gradi», richiesta che quasi sicuramente non verrà soddisfatta.
Sul fronte dei finanziamenti, c’è il progetto sostenuto da Bill Gates e altri miliardari (Zuckerberg di Facebook, Jack Ma di Alibaba, l’indiano Ratan Tata, Branson di Virgin, Jeff Bezos di Amazon ecc.) per una Breaktrough Energy Coalition (Coalizione per un’energia di rottura) per coinvolgere gli investimenti privati, far saltare quello che Gates chiama «il muro della morte» e arrivare rendere le energie rinnovabili accessibili a tutti.
Ieri, Obama si detto «ottimista», «riusciremo», sulla Cop21. Sono in corso le riunioni tematiche, tra i 7mila negoziatori presenti al Bourget, in rappresentanza di 196 paesi. Questa fase dovrebbe concludersi sabato 5 dicembre, con la presentazione di un testo – le 55 pagine dell’ultima redazione dell’accordo, ancora piene di parentesi quadre, cioè di punti controversi – al ministro Laurent Fabius. Poi ci sarà la «fase ministeriale» di analisi del testo proposto, fino al 9 dicembre.
Due giorni verranno dati agli stati per studiare nei dettagli le implicazioni giuridiche del testo, nella speranza che venerdi’ 11 dicembre venga firmato un accordo generale.
postilla
Invece di impegnarsi a esportare in Africa le energie rinnovabili servirebbe che: (1) smettessero di esportare i modelli nostrani del primo mondo: di vita, di consumo, di organizzazione degli insediamenti, follemente energivoro; (2) promuovessero le pratiche di impiego saggio e durevole delle risorse naturali proprio di numerose culture africane; (3) oltre, e forse prima, di rendere più largamente utilizzabile l'energia elettrica si preoccupassero di garantire l'accesso all'acqua potabile e lo smaltimento dei rifiuti.