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Corriere della Sera, 24 gennaio 2016


Le pagine di eddyburg, che per primo ha pubblicato la lettera, sono aperte al dibattito: eddyburg@tin.it

Italia Nostra in profonda crisi, generazionale e identitaria. Tutto è partito dalla lettera di dimissioni dal Consiglio nazionale presentata da Tomaso Montanari, giovane critico e storico dell’arte: «L’attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato una frattura con l’ispirazione più autentica dell’associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente». Montanari accusa il vertice nazionale (non le sezioni locali) e il presidente Marco Parini, eletto nel settembre 2012, di aver capovolto la scala di valori: «La “valorizzazione” è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito». Con la conseguenza, sostiene Montanari, di un «crescente interesse» di Italia Nostra per la gestione dei beni che rischierebbe di trasformarla «in una sbiadita fotocopia del Fai».

Desideria Pasolini dall’Onda e Nicola Caracciolo di Castagneto, presidenti onorari eletti all’unanimità, hanno chiesto a Parini di «adoperarsi perché il Direttivo dell’associazione respinga le dimissioni di Montanari, una delle figure più marcanti di una nuova generazione di ambienta-listi. Perderlo sarebbe un errore». Una dura lettera di sostegno a Montanari (firmata da Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Rita Paris) chiede le dimissioni del presidente e della dirigenza accusati «di equiparare la pubblica tutela alla privata valorizzazione». Solidarietà a Montanari dalle sezioni di Tivoli, Ferrara, Caserta, Vasto, Forlì. Anche la consigliera nazionale Maria Pia Guermandi sta riflettendo su possibili dimissioni.

Invece protesta il presidente della sezione di Firenze, il professor Leonardo Rombai: «Supina accettazione delle parole d’ordine del potere? Non mi riconosco affatto in questa accusa ingenerosa, e non si riconosceranno i nostri iscritti. Siamo in tanti a batterci per il nostro patrimonio». Ma è soprattutto Parini a replicare, con una missiva ai due presidenti onorari. Il presidente rivendica «una linea programmatica in continuità con il triennio precedente, l’incremento delle azioni giudiziarie anche penali, un confronto senza sconti con le istituzioni, per esempio la prima iniziativa contro il decreto sblocca Italia e le battaglie sul paesaggio e contro l’eolico selvaggio». Ma Parini ribatte soprattutto all’accusa di voler privilegiare la gestione-valorizzazione dei beni citando l’articolo 1 dello statuto del 1955 («concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico e naturale della Nazione») e l’articolo 3 («promuovere l’acquisto di edifici o proprietà in genere, di valore storico artistico, o assicurarne la tutela ed eventualmente anche la gestione»). Ricorda il successo di iniziative ormai radicate nel tempo «come il Boscoincittà, il museo nel Porto Vecchio di Trieste, il parco gestito dalla sezione di Reggio Calabria, il museo all’Isola di Caprera, la recente concessione dell’Eremo di Santo Spirito in Abruzzo».

Parini contesta a Montanari il voler rifiutare ciò che Italia Nostra fa da quarant’anni. Così come rispedisce al mittente l’obiezione sulla correttezza del principio per cui il meccanismo del volontariato può generare posti di lavoro nell’indotto (così come avviene, va detto per inciso e per completezza, in Gran Bretagna proprio grazie al National Trust).

Parini ritiene dunque concluso l’incidente: dopo le irrevocabili dimissioni di Montanari, scrive Parini, «il Direttivo nazionale del 16 gennaio ha preso atto e ha invitato l’architetto Luigi De Falco, che ha accettato, a subentrargli». La storia, c’è da giurarci, non finirà qui.

Dove le pietre e il popolo sopravvissuti raccontano (per quanto ancora?) storie antiche dove segregazione e integrazione, repressione e convivenza, potere e pubblica utilità s'intrecciano. La Repubblica, 24 gennaio 2016

UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell’isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.

Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.

Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “ Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la “ Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di promissione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l’idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.

In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.

Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un castello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’isolotto “per garantirne la sicurezza”.

Detto e fatto; Le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.

Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano.

Il Ghetto era dunque un modello di costrizione, ma condiviso in misure diverse anche da tedeschi, armeni e in particolare dai turchi. Accusati di fare “cose turche” (qualcosa di simile alla recente aggressione delle donne di Colonia), il loro fondaco era sigillato da guardiani di provata discendenza cristiana, e addirittura diviso fra albanesi e costantinopolitani. «I medici ebrei erano apprezzati più degli altri», ricorda Riccardo Calimani, discendente di abitanti del Ghetto e storico dell’ebraismo italiano. Se gli chiedi perché, ti risponde con un lampo azzurro ironico dietro palpebre a fessura. «Non attingevano alla teologia come gli altri — ghigna — guarivano il corpo e non l’anima», e spiega che per questo essi avevano una deroga sulle ore di “coprifuoco”, e potevano uscire dal Ghetto a qualsiasi ora per le chiamate d’emergenza.
E che dire dell’ebreo Daniel Rodriguez che, pochi anni dopo il 1516, venne incaricato dalla Repubblica di costruire la dogana di Spalato, base commerciale sulla costa dalmata sotto controllo veneziano. O di Jakob Sarava, che nel Settecento può andarsene in missione ad Amsterdam per conto della comunità. Il Ghetto di Venezia non era quello di Varsavia del Novecento. Praticamente, una repubblica nella repubblica.

C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.

« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.

A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.

La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.

«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.

«Dopo gli arresti per il Mose, nel 2014, tutto si è fermato: ne fanno le spese gli abitanti della laguna. Tutti i dati nel report della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: area senza "cintura di sicurezza", "varchi" nei terreni fanno passare il percolato inquinante». Il manifesto, 24 gennaio 2016

Oltre un miliardo di euro: è la rigenerazione, ancora incompiuta, di Portomarghera. L’emblema dell’inquinamento criminale della laguna, ma soprattutto il simbolo di un sistema che metabolizza risorse a senso unico e paralizza Venezia.

Le bonifiche si sono impantanate fra eredità del Consorzio Venezia Nuova, intoppi istituzionali o burocratici, opere cruciali inesistenti, controlli a vuoto e contabilità infinita. Sintetizza Gianfranco Bettin, ex assessore all’ambiente ora presidente della municipalità di Marghera: «Purtroppo da giugno 2014, quando scoppiò lo scandalo Mose con i primi arresti, tutto si è fermato. E non si è pensato nemmeno di trovare tecnici preparati, come Giovanni Artico arrestato ma poi assolto con formula piena. Ora è più che mai necessaria un’azione di Comune e Regione per far uscire dallo stato di paralisi in cui si trova il processo di risanamento ambientale e di rigenerazione economica e occupazionale di Porto Marghera. Altrimenti non si avranno argomenti per far investire, come Eni sulla chimica verde».

L’istantanea spietata quanto inquietante è contenuta nelle 54 pagine della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. In sostanza, la maxi-operazione di risanamento ambientale effettuata a Portomarghera diventa inutile senza la “barriera protettiva” con palancolati e marginamenti delle macroisole. I terreni inquinati necessitano di una “cintura di sicurezza” per proteggere la laguna, ma l’anello della bonifica è infarcito di «buchi». Proprio dove spuntano le tubature di Edison, Syndial, Sapio-Crion o l’oleodotto e l’impianto antincendio della Ies di Mantova. Segmenti dai 20 agli 80 metri quadri tuttora non censiti in funzione dell’ultima fase di lavori.

“Varchi” che mettono a repentaglio quanto già realizzato, perché non bloccano il percolato con sostanze come arsenico, mercurio, nichel. È il “colabrodo” lungo i 50 chilometri di palancole metalliche, conficcate fino a 22 metri di profondità: l’indispensabile isolamento di Portomarghera per trasferire gli inquinanti fino al depuratore di Fusina.

Nicola Pellicani, di fatto il portavoce del centrosinistra in consiglio comunale, sottolinea: «Ho appena presentato una mozione al sindaco Brugnaro per convocare in tempi rapidi un tavolo di confronto. Partendo dal definitivo marginamento di tutta l’area industriale. Sono già stati spesi 781 milioni. Per la conclusione mancano circa 3,5 km di rifacimento sponde, pari al 6%: un investimento di altri 256 milioni. Se non sarà completato, sarà tutto inutile».

Finanziamenti che spettano al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (100 milioni), Regione (80 milioni) e dell’Autorità portuale di Venezia (altri 70). Ma c’è da controllare bene il capitolo delle spese. A cominciare dai collaudi che potrebbero lievitare fino a due milioni, per di più un’uscita senza senso: «rappresentano un mero sperpero di danaro pubblico» sentenzia la commissione parlamentare d’inchiesta.

Tutti collaudi cantiere per cantiere: perfettamente inefficaci «se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». Ma rappresentano ghiotti benefit per i dirigenti regionali Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali dello stesso ministero come Mauro Luciani, dirigenti del Magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex del ministero dell’Ambiente (Ester Renella) e membri della Commissione Via (Monteforte Specchi Guido e Fernanda D’Alcontres Stagno).

Del resto, anche gli appalti della maxi-bonifica meriterebbero più attenzione. Il Provveditorato interregionale, come conferma il dossier della commissione parlamentare, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione da parte del Consorzio dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».

Dunque, il “sistema Cvn” continua a funzionare come prima. Il deus ex machina del Mose Giovanni Mazzacurati è a San Diego; il “doge” Galan e l’ex assessore Chisso sono alle prese con la magistratura; l’ex ministro Clini tace da mesi travolto da un altro faldone giudiziario; Piergiorgio Baita è stato sostituito alla Mantovani Spa dall’ex questore Carmine Damiano; il “giro” di Legacoop ha rimodulato le referenze nel Pd. Tuttavia, in laguna la lobby delle grandi e piccole opere pubbliche sembra inossidabile grazie all’omesso controllo di legalità, che non riguarda solo la Procura della Repubblica…

Arduo consolarsi con gli annunci sull’iter dei 23 progetti che valgono 153 milioni in base all’accordo di programma sottoscritto l’8 gennaio 2015 da Mise, Regione, Comune e Porto. Quest’anno dovrebbe scattare la bonifica dell’area Syndial (107 ettari), almeno così promette l’assessore regionale Roberto Marcato: «Si sta procedendo con la appena costituita società Mei Spa partecipata al 50% da Regione e Comune, entrambi attraverso società in house. Il rogito è datato 11 dicembre 2015 e la prima attività sarà la stesura — indicativamente nel prossimo quadrimestre — del business plan che indichi i termini finanziari e procedurali della manovra. A ruota, dovrà ottenere la volturazione dei decreti ministeriali di approvazione delle attività di bonifica (intestati a Sindyal): c’è di mezzo il ministero dell’Ambiente. Auspicalmente nella seconda metà del 2016, Mei Spa potrà iniziare ad attivare le operazione di bonifica e recupero funzionale delle aree».

Dalla cronaca locale un quadro delle trasformazioni in corso in città, apparentemente senza un disegno, sicuramente non deciso con i cittadini. Articoli tratti da Corriere.it, Corriere del Veneto e Nuovavenezia.gelocal.it, 22 gennaio 2016


corrieredelveneto.corriere.it
FONDACO, LA GALLERIA DEI VIAGGIATORI

Taglio del nastro il primo ottobre
Ieri la presentazione riservata alle categorie. L’architetto Jamie Fobert studia arredi e mosaici

Venezia. I lavori devono ancora finire ma la data d’apertura è già stata fissata, il primo ottobre aprirà il «T Fondaco dei tedeschi», dove T sta per traveller, viaggiatore. Ieri sera, all’hotel Danieli, Dfs, la società del retail di Louis Vuitton Moet Hennessy, ha presentato come sarà arredato il Fondaco a una platea di imprenditori, rappresentanti delle categorie e autorità tra cui il sindaco e il prefetto. I restauri sono infatti a buon punto e Edizioni Property, l’immobiliare del gruppo Benetton, proprietaria dell’edificio, sta consegnandolo proprio in queste giorni ai futuri gestori. «È il primo grande magazzino Dfs in Italia - ha spiegato Eléonore de Boysson - e vogliamo replicare l’esperienza del Danieli, da palazzo a hotel d’eccellenza». Dfs ha promesso di diventare il custode del fontego, «ringraziamo i veneziani d’avercelo permesso - ha precisato Philippe Schaus, presidente di Dfs - avremo prodotti italiani, internazionali e veneziani, sarà la destinazione migliore per lo shopping di lusso, un luogo pieno di vita con prodotti locali, grandi marchi ed eventi culturali». Ora che le vecchie casse delle poste sono sparite e sono stati smantellati i magazzini e i divisori delle poste, l’edificio, al momento chiuso, ha cambiato volto.

Le arcate che circondano la corte centrale sono state ripulite, le scale mobili e gli ascensori sono stati costruiti ma, ha garantito Dfs, in uno spazio non immediatamente visibile all’ingresso del fondaco. «Oma ha eseguito un lavoro incredibile - ha detto l’architetto Jamie Fobert, incaricato di allestire il grande magazzino - ha restituito una nuova vita all’immobile, la copertura del tetto è stata smontata, pulita e restaurata e ora è al suo posto, solo posizionata più in alto così da permettere di stare in piedi». Qui ci sarà l’altana che nei piani originali dell’archistar Rem Koolhass, progettista dei restauri, doveva essere una terrazza. Sotto, l’auditorium per gli eventi culturali. Ieri sera, Dfs non è entrata nel merito delle attività che organizzerà nè dei prodotti in vendita, Fobert ha illustrato il percorso che l’ha portato a creare arredi unici per la «T» galleria. «Dfs non voleva pezzi di designer newyorkesi o londinesi - ha detto - e allora mi sono ispirato alla storia cittadina e al design novecentesco italiano, a Carlo Scarpa».

Il mobilio non sarà un «pasticcio alla veneziana » e non si vedranno gondole o altri simboli noti in tutto il mondo della città. Le bacheche espositive degli orologi sono state forgiate dallo strumento con cui si creano appunto gli orologi. Le grate tipiche di Venezia sono invece diventate lo spunto per decorare espositori e mobilio. Il pavimento originale come anche gli elementi che rimandano alla storia del fontego (ad esempio, i giochi scavati sulla pietra dai vecchi mercanti) sono stati tutti mantenuti e recuperati, solo nell’ex sala del telegrafo, dove a terra c’era una colata di cemento, l’architetto ha introdotto una pavimentazione nuova. «Mi sono ispirato all’acqua e ai suoi movimenti per creare un mosaico che richiamasse i colori di Venezia», ha aggiunto. Il fondaco, al suo interno, non avrà colori sgargianti ma tonalità calde in sintonia con la tradizione della Serenissima. «Stiamo scrivendo una nuova pagina della storia del fontego», ha concluso Meneghesso. Gloria Bertasi

Corriere del Veneto
IL FUTURO DI RIALTO, POLO DEL LUSSO «EFFETTO STORE SU TUTTA LA CITTÀ»
I timori per gli affitti. De’ Medici: «Come Harrods per Londra»
Venezia. Tra i negozianti di Rialto corre voce che un giorno Renzo Rosso si comprerà il tribunale per farnequalcosa di esclusivo per sé. Dirimpettaio avrà il fiammante Department Store di Dfs Italia, gruppo Vuitton. Trai due il ponte restaurato di tasca propria. E così il cuore della città sarebbe cosa loro. Che sia una leggendametropolitana poco importa. Ma la dice lunga di quanto siano agitati i sonni di chi lavora qui. «Beh, infibrillazione lo siamo», ammette un negoziante che vuole restare anonimo e indica il piccolo cantiere all’angolocon campo San Salvador. La banca è arretrata e Max Mara sta riposizionando i suoi negozi. D’altra parte, sepersino la Coop ha aperto a un passo dal ponte, si capisce che «c’è già un gran movimento».
Il Fontego Store, destinato a un target piuttosto alto, aprirà entro l’anno e i primi effetti si sentono già. Coin, chea settembre ha anticipato le mosse diventando Coin Excelsior, scegliendo clienti con portafogli pesanti, quis’immagina «un polo di lusso accessibile che a Venezia mancava». Così l’ad Stefano Beraldo, che infatti lodefinisce «il terzo polo», dopo quello del lusso di calle larga e quello pop di Strada Nuova.E se fosse tutta la città a cambiare pelle? Se diventasse quella «shopping destination» che non è mai stata? InConfindustria la pensano così.
Secondo Antonello De Medici, di Federturismo, «avrà lo stesso effetto diHarrods a Londra». E aggiunge: «Un’operazione simile riposizionerà tutta la città. Avendo la testa a HongKong, il gruppo saprà attirare l’Oriente e magari è l’occasione per avere un volo diretto con la Cina».Più scettico Alessandro Minello, esperto di economia dei sistemi d’impresa a Ca’ Foscari: «Non sarà mai comeMilano che in realtà ha tutto il sistema economico improntato su questo. Venezia manterrà la sua vocazione dicultura e d’arte: offrirà semplicemente di più». D’altra parte «i cinesi spesso se ne vanno senza aver speso ilbudget che si erano prefissati», spiega Francesca Checchinato, esperta di marketing sempre a Ca’ Foscari.
Claudio Scarpa ha appena incontrato i manager DFS. Cosa si aspettano dagli albergatori? «Clienti», se la ride.Massimo riserbo, però «sul tavolo ci sono progetti di sinergie». L’obiettivo è quello di portare a Venezia flussiin bassa stagione, «che poi coincide con quella dei saldi». E gli albergatori sono pronti? «Sì. Dalle tre stelle insu, tutti hanno finito i lavori antincendio obbligatori per legge: significa aver sventrato l’albergo».Più preoccupati sono forse i commercianti. L’apertura dello store è vissuta «con timore e come opportunità»,ammette Roberto Magliocco di Confcommercio. «In realtà oggi chi vuole aprire un esercizio a Venezia punta aisouvenir: bassa qualità, breve periodo e nessun rischio. Assistiamo impotenti a un turn over merceologico maivisto». Amarezza, dunque.
In molti, tra i negozianti di Rialto paventano anche un aumento degli affitti. «Noncredo - riflette Magliocco - Molti proprietari stanno accettando di ribassare gli affitti persino a San Marco.Abbiamo anche alcuni casi di morosità». «Scompariranno la bassa qualità e gli esercizi più anonimi - rifletteMinello - baretti e vecchi negozi, anche i più malconci ma con una forte identità, resteranno».Chi non sembra temere il Fondaco sono gli artigiani. Quelli che hanno una loro nicchia internazionale dimercato e un’offerta fuori competizione. Quelli come Giovanna Tanella che nei pressi di San Lio realizzacalzature handmade su misura: «Potrebbero aprirne uno di fronte al negozio, per me sarebbe lo stesso». O comeGiuliana Longo, al ponte dell’Ovo, cappelli sartoriali, più preoccupata a chiedersi «se la città sia consapevoledelle scelte che fa e se abbia servizi pubblici all’altezza». La risposta se la dà da sola, scuotendo la testa.


Nuovavenezia.gelocal.it

IL COMUNE SI VENDE ANCHE PALAZZO CONTARINI

Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016

Venezia. Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016 e che ha allegato anche al bilancio di previsione 2016, con un valore orientativo del «pacchetto» di circa 31 milioni di euro.

Tra di essi c’è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, che - come Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, poi venduti - interessava alla Cassa Depositi e Prestiti, che però si è poi ritirata dalla trattativa per la metratura ritenuta non sufficiente.

Il Comune ha infatti comunque deciso di metterlo di nuovo in vendita, spostando in altre sedi gli uffici comunali legati alle politiche sociali che l’edificio attualmente ospita.

In vendita anche Palazzo Corner Contarini, attuale sede della Corte d’Appello.

Indire a Roma le primarie per il candidato sindaco sarebbe per il PD un grave errore, dopo aver calpestato le scelte dei cittadini e aver cacciato il sindaco eletto a grande maggioranze con il pesante atto di prevaricazione compiuto nei confronti del consiglio comunale. La Repubblica, 22 gennaio 2016

Caro Direttore, le primarie sono uno straordinario strumento di partecipazione e di democrazia. Io stesso vi ho preso parte per ben due volte: nel 2009 contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, per la carica di segretario del Pd, e nel 2013, quando venni scelto come candidato sindaco di Roma, staccando di quasi 30 punti David Sassoli e di 40 Paolo Gentiloni. A quelle consultazioni, avvenute meno di tre anni fa, parteciparono più di 100 mila romani, che mi scelsero con oltre il 55% dei voti. Immediatamente dopo mi dimisi da senatore per correre senza alcun paracadute.

Ma le primarie hanno un senso a patto che chi le propone e chi vi partecipa ne rispetti il valore e poi l’esito. Se si calpesta la scelta dei cittadini, com’è successo a Roma, si svuota il significato stesso di quelle consultazioni. Per questo ho trovato sconcertante la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di indire nonostante tutto le primarie per la candidatura a sindaco di Roma. Mi chiedo come possa Renzi non vedere il danno arrecato al Pd e all’istituto stesso delle primarie dalle sue decisioni e pensare di andare avanti come se niente fosse. Non capisco come ritenga credibile chiedere alle elettrici e agli elettori romani di sacrificare una domenica mattina, mettersi in coda, versare i due euro e indicare il nome del proprio candidato sindaco, dopo che egli ha eliminato con un atto di forza chi quelle primarie aveva vinto l’ultima volta.

Il Presidente del Consiglio non si rende conto che con la sua interferenza sull’Amministrazione cittadina, interferenza che in altri casi egli stesso ha definito inaccettabile perché “il sindaco lo eleggono i cittadini”, ha reso le primarie, almeno a Roma, un rottame inutilizzabile. Convocando gli assessori della Giunta nella sede del Partito Democratico per imporgli di dimettersi e costringendo tutti i consiglieri comunali del Partito Democratico ad allearsi con la destra e a rimettere in blocco il mandato da un notaio, con il solo scopo di provocare la caduta del sindaco, Renzi e chi lo rappresenta a Roma hanno violato l’etica di una sana politica e il rapporto di fiducia fra il Pd e i suoi sostenitori, che il 7 aprile 2013 affidarono a me l’onore di candidarmi alle elezioni che poi vinsi con il 64% dei voti.

Rotto quel patto, le primarie non hanno più alcun valore, perché il loro esito può essere capovolto per ordine del vertice del partito. Dirò di più: il Pd a Roma non dovrebbe nemmeno partecipare con il proprio simbolo alle elezioni amministrative del 2016. Troppo lacerante è stata l’eliminazione del sindaco scelto dagli elettori, troppo contraddittori i comportamenti e le dichiarazioni dei vertici del Pd, troppo pretestuose e in malafede le giustificazioni. Troppo evidente l’inganno perpetrato ai danni delle cittadine e dei cittadini di Roma, troppo lampanti i benefici delle lobby e dei potentati. Eliminando il sindaco, i consiglieri del Pd hanno eseguito un ordine del capo, e forse qualcuno ne beneficerà personalmente, ma hanno destinato il Pd alla dannazione politica.

Almeno a Roma, almeno per questa tornata elettorale, oggi il Pd è ormai diventato il problema e non la soluzione. Non a caso, si susseguono in questi giorni indiscrezioni su candidati del Partito Democratico alle primarie romane. Molte persone si sono rifiutate. Il vicepresidente della Camera dei Deputati, con le spalle coperte dal suo ruolo di garanzia istituzionale, ha alla fine ceduto ed ha dato, seppur malvolentieri, la propria disponibilità. Ma non lascerà il suo incarico parlamentare, a riprova che non ci crede nemmeno lui fino in fondo, perché è facile candidarsi quando si ha un paracadute d’oro sulle spalle.

Non sorprende tuttavia che nessun esponente di spicco del Pd abbia finora accettato la sfida. Candidarsi per ordine di Renzi significherebbe accettare una logica secondo cui, in caso di vittoria, a governare Roma sarà il capo del partito e del governo, mentre il sindaco sarà ridotto a una sorta di commissario esecutore.

Con la sua sciagurata gestione, la credibilità del Pd romano ha subito e inferto un grave danno: la pretesa di giocare un ruolo da protagonista in questa fase non è oggettivamente credibile.
Ma il partito ha ancora margini per dare un contributo, se avrà il coraggio e l’onestà di ammettere il grave abuso commesso e di compiere un gesto di serietà, umiltà e di lungimiranza. Solo così potrà aiutare le forze civiche di Roma a trovare la motivazione necessaria per dire no all’avanzata del Movimento 5 Stelle che si propone come raccoglitore del malcontento e della protesta, ma che appare privo, almeno per ora, di un candidato.

Per concludere, caro Direttore, molti in queste settimane mi hanno chiesto cosa farò io. Posso solo dire cosa non farò, e cioè: non parteciperò alle primarie del Partito Democratico.

La lettera di dimissioni di Tomaso Montanari da Italia nostra: una lunga e argomentata accusa al gruppo dirigente:«Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige». Con una nostra premessa.



Premessa

Italia nostra, è diventata subalterna al peggiore governo e al peggiore parlamento che il nostro paese abbia conosciuto dal 1945 a oggi? Parrebbe di sì, secondo l’argomentata denuncia di Tomaso Montanari, membro del consiglio direttivo nazionale, che ha inviato all’attuale presidente e a tutti i Soci – fra i quali chi scrive - una nobile lettera di dimissioni. La lettera di Montanari, che pubblichiamo di seguito, denuncia una clamorosa inversione di marcia dell’associazione, e in particolare al suo livello nazionale.

Ricordiamo ai nostri lettori che la prestigiosa associazione protezionista, nata nel 1955 per iniziativa di autorevoli personaggi della più illuminata intellettualità italiana (quali Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani) e le sue sezioni sparse su tutto il territorio nazionale ha tenacemente lavorato per 60 anni per la difesa del patrimonio culturale e per la diffusione di una cultura di massa volta alla tutela della bellezza dei nostri territori.

Memorabili battaglie combattute in ogni regione e grandi campagne nazionali hanno contribuito a salvare decine di luoghi di straordinaria qualità archeologica, artistica, storica, ambientale. È stata la prima associazione proto-ambientalista a comprendere che le pietre e i paesaggi, le biblioteche e i musei non si salvano senza l’attivo impegno del maggior numero di persone, e che la pianificazione urbanistica è uno strumento essenziale per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.

Per tutti i governi e i parlamenti Italia Nostra è stata uno stimolo e una sentinella: pronti a collaborare con i membri dell’esecutivo e del legislativo, quando governi e parlamenti esprimevano interessi coerenti con quelli dell’associazione, tempestivi nel criticare con severità e rigore ogni volta che gli atti del governo o del parlamento minacciavano i valori e i principi dell’associazione.

Secondo Tomaso Montanari – noto ai frequentatori di questo sito e a un pubblico molto più vasto per i suoi numerosi scritti in difesa della bellezza, della memoria e della democrazia – la dirigenza dell’associazione, e in particolare l’attuale presidente Marco Parini – avrebbero radicalmente rovesciato il pluridecennale atteggiamento politico- culturale di Italia Nostra. Mentre numerose sezioni proseguono la loro azione di vigilanza, critica e proposta nella scia del comportamento di sempre – il livello nazionale, mentre tace sulle più gravi lesioni alla tutela del territorio operate dal governo Renzi e dal suo parlamento, arriva al punto di avallare talune delle scelte più nefaste, come quella di indebolire gli organi statali di studio, vigilanza e governo dei beni culturali, di procedere nella strada criminosa delle privatizzazioni e così via. Ma è il caso di dare la parola direttamente a Montanari, cui speriamo seguirà un ampio dibattito, di cui cercheremo di dar conto puntualmente.

Dopo l’allineamento dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica) agli indirizzi di politica della città e del territorio peculiari all’ideologia e alla prassi del renzismo e ben rappresentati da Maurizio Lupi ed Ermete Realacci, il cambiamento di fronte di Italia nostra sarebbe una perdita gravissima. È necessario invertire la rotta. Ciò è possibile solo attraverso un dibattito trasparente e aperto, al quale partecipino in primo luogo i soci e le sezioni dell’associazione. Cercheremo di darne conto nel migliore modo possibile (e.s.)

La lettera di Tomaso Montanari

Cari soci di Italia Nostra,

è con grande tristezza che vi scrivo per comunicarvi che mi sono appena, irrevocabilmente, dimesso dal Consiglio Nazionale dell'Associazione.

Ho accettato di candidarmi rispondendo all'appello di alcuni amici – tra i quali voglio nominare solo Giovanni Losavio, indimenticato presidente –, profondamente preoccupati per la frattura che l'attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato con l'ispirazione più autentica dell'Associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Questa frattura è, in effetti, innegabile: mentre moltissime delle sezioni conservano intatto quello spirito, e lottano quotidianamente perché siano attuati i valori dell'articolo 9 della Costituzione, Italia Nostra nazionale è caduta in un letargo profondo. Non c'è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c'è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d'ordine del potere vigente.

Ho sempre pensato che il faro dell'Associazione dovesse essere una celebre frase del suo presidente Giorgio Bassani, per cui Italia Nostra opera perché un giorno non ci sia più bisogno di Italia Nostra. Quando ho citato questa bussola, mi è stato risposto che si tratta di un programma superato, anzi sbagliato. Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige.

Sono fermamente convinto che tra l'attuale dirigenza e i padri fondatori c'è la stessa distanza che separa Matteo Renzi da Alcide De Gasperi, o Maria Elena Boschi da Piero Calamandrei. Parlare, o carteggiare, con i membri della Giunta Esecutiva equivale a farlo con il ministro Franceschini: la 'valorizzazione' è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito. Questa mutazione della scala valoriale e il crescente interesse di Italia Nostra per la gestione diretta del patrimonio culturale (con tutte le servitù politiche e gli interessi che ciò comporta) mostrano che l'Associazione si avvia a diventare una fotocopia (peraltro sbiadita e subalterna) del Fai.

Nella feroce battaglia che infuria intorno al progetto costituzionale sul patrimonio – una battaglia che ho provato a descrivere in alcuni miei libri, come Le pietre e il popolo e Privati del patrimonio – Italia Nostra si trova spesso a combattere da quella che io giudico la parte sbagliata del fronte. Il rifiuto di ricorrere contro la ricostruzione illegale e abusiva di Città della Scienza a Bagnoli è forse il più terribilmente concreto tra i segni di quella che io giudico una gravissima involuzione.

Sapevo tutto questo prima di entrare nel Consiglio Nazionale: ed è anzi proprio per tentare di cambiare questo stato di cose che ho accettato di candidarmi.

Quello che non conoscevo è il punto a cui è arrivata la determinazione della maggioranza del Consiglio ad avanzare in questa direzione. Ogni tentativo di proporre un'agenda valoriale diversa viene respinto in base ad un unico, brutale argomento: la forza dei numeri in consiglio – quasi si volesse scimmiotare la retorica muscolare della maggioranza 'che tira diritto', drammaticamente invalsa in Parlamento. Questa radicale indisponibilità ad ogni correzione di rotta si accompagna ad un dibattito di qualità intellettuale e culturale oggettivamente infima, e ad una violenza verbale sorprendentemente alta. Credo che sia meglio non entrare in dettaglio, ma se qualcuno fosse interessato a comprendere su cosa si fondi un giudizio così netto, sono disponibile a far conoscere il ricco carteggio di insulti da me ricevuto in questi mesi.

In queste deprecabili e deprimenti condizioni la mia presenza nel Consiglio Nazionale di Italia Nostra non ha alcuna prospettiva utile. Continuo invece a credere nel lavoro splendido di molte sezioni, e spero che anche queste mie dimissioni possano spingere i soci – e non solo le centinaia che mi hanno votato, e che ringrazio – a condurre finalmente una battaglia che riallinei la dirigenza nazionale ai valori sani di quelle stesse sezioni.

Queste precoci, e assai sofferte, dimissioni si devono al fatto che una simile battaglia non ha, nell'attuale consiglio nazionale, alcuna prospettiva di successo. Ammiro gli amici che scelgono di rimanere, per dare testimonianza e svolgere una indispensabile funzione di controllo. E so che chi prenderà il mio posto in Consiglio avrà occhi e voce perfettamente adeguati. Ma credo che ora sia, invece, mio dovere non sottrarre ulteriori energie alla battaglia per il patrimonio culturale e per la sua funzione costituzionale.

Continuerò ad appoggiare in ogni modo il lavoro delle sezioni che operano secondo il cuore antico, e attualissimo, di Italia Nostra.

Questo inverno, ne sono sicuro, passerà: viva Italia Nostra!

Tomaso Montanari, 14 gennaio 2016

«Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. La prima parte del discorso è certamente vera». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 21 gennaio 2016

Il mobbing è un persistente comportamento aggressivo, di natura psicofisica e verbale messo in atto dal datore di lavoro, o dal 'capo', contro un dipendente. Cioè esattamente quello che Dario Franceschini sta facendo con il personale tecnico-scientifico del suo ministero.

Come altro definire, se non mobbing, l'incomprensibile decisione di tornare – dopo pochi mesi – a riformare radicalmente la struttura centrale e periferica del Ministero, negando e sovvertendo i capisaldi della precedente riforma e gettando nello sconforto e nell'avvilimento le donne e gli uomini che difendono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione?

A questo giro si sopprimono – con l'assenso inquietante e vergognoso del Consiglio Superiore dei Beni culturali – le soprintendenze archeologiche e la direzione centrale per l'archeologia, e si passa a soprintendenze uniche. Olistiche, come ama chiamarle qualche ciarliero cialtrone.

Intendiamoci: le soprintendenze uniche potevano avere un senso. Ma dovevano essere un obiettivo fin dall'inizio: non un aggiustamento maldestro fatto in corso d'opera e a costo zero. Si dovevano accompagnare a direzioni generali divise per funzione, e dovevano essere guidate a rotazione da funzionari dalla diversa competenza, e non affidate agli evanescenti ectoplasmi interdisciplinari che ora si vagheggiano, e che rischiano di essere i leggendari managers del patrimonio. Senza contare il vero e proprio caos che questa riforma della riforma provoca mescolando le competenze di soprintendenze, poli museali, segretariati regionali...

Una delle vere ragioni di questa imbarazzante contorsione è recuperare posti dirigenziali per creare altri dieci musei e siti archeologici autonomi. Carne da valorizzazione, da rimettere presto a bando internazionale: per avere altri dieci fedeli terminali del potere politico. Con quali conseguenze? C'è, per esempio, da scommettere che vedremo presto l'Appia Antica consegnata armi e bagagli ad Autostrade.

Si riesce ad intravedere un fine più generale, in tutto questo caos? Le premesse delle bozze dei decreti dicono ufficialmente che tutto ciò servirebbe a evitare le conseguenze del silenzio assenso: che non è una pestilenza o un terremoto, ma una norma introdotta dallo stesso governo Renzi. A voce, poi, Franceschini dice che è un modo di arginare i danni della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture: che è un'altra mostruosa disposizione della Legge Madia.

Che, invece, il fine sia quello di portare a termine la distruzione dell'apparato della tutela lo dimostra il fatto che ora passano agli istituti della valorizzazione (i musei autonomi) anche gli immobili in cui essi hanno sede: e pazienza se li condividono con le soprintendenze (si veda ad esempio il caso di Villa Giulia a Roma, dove convivono soprintendenza e museo). E non basta: si impone anche "il trasferimento [ai musei] di uffici, archivi, biblioteche, laboratori, spazi espositivi e depositi dei relativi musei e luoghi della cultura", fingendo di non sapere che tali strutture sono (erano) comuni a Soprintendenze e musei prima della riforma. E la Soprintendenza senza laboratori, biblioteche ed archivi, come lavora? Non lavora: et hoc erat in votis.

Non basta ancora. Si dispone anche che "con riguardo ai musei, alle aree e ai parchi archeologici, la consegna dei reperti presenti nei depositi e non ancora inventariati può essere differita a non oltre il 31 dicembre 2016, al fine di completare l'inventariazione; decorso tale termine, i beni sono trasferiti ai musei dotati di autonomia speciale o ai poli museali regionali e la relativa attività di inventariazione è svolta da detti istituti in cooperazione con le Soprintendenze competenti". Chi ha scritto questa norma davvero non è mai entrato in una soprintendenza o in un museo, e non ne ha mai visto le condizioni. Chi potrà mai inventariare e studiare entro il 31 dicembre 2016 le migliaia di cassette di materiali rinvenienti da scavo? E con quali risorse? E questi materiali a cosa servono nei musei? Il loro studio e la loro conoscenza servono alle soprintendenze per capire il territorio e costruire le carte del rischio archeologico. O meglio: servivano...

Sta di fatto che per ritrovare una paragonabile contrazione della tutela si deve tornare alla legge del 1923, che istituiva soprintendenze uniche: un assetto che dette pessimi risultati, e che fu radicalmente rivisto contestualmente alla legge del 1939. Per trovare, invece, la sottomissione dei soprintendenti ai prefetti bisogna risalire al 1860: cioè al caos immediatamente successivo all'Unità, poi velocemente superato perché fatale per la tutela.

In privato, Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale.

La Repubblica, 120gennaio 2016

Un nuovo scossone agita le acque dei Beni culturali. Pochi mesi dopo una complessa riorganizzazione di soprintendenze e musei, ecco che le prime vengono ulteriormente accorpate, inglobando, insieme al paesaggio e alle belle arti, l’archeologia, mentre altri dieci luoghi del nostro patrimonio diventano autonomi e per loro sono in arrivo direttori selezionati con bando internazionale, come avvenne per gli Uffizi o Capodimonte nell’agosto scorso.

La decisione maturava da qualche tempo, ma per molti dentro il ministero è stato un colpo a sorpresa. Quando infatti si decise di unificare paesaggio e belle arti in un’unica soprintendenza, nell’estate del 2014, al ministero sottolinearono che l’archeologia restava autonoma per le specifiche competenze che comportava la tutela delle antichità. Ora però Dario Franceschini sottolinea la continuità con le scelte di allora, scelte che hanno prodotto già un faticoso adattamento degli uffici. Per il ministro, le nuove soprintendenze servono a «rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione». In Italia ci saranno dunque 39 soprintendenze (erano 17 le sole archeologiche), più le due speciali di Roma e Pompei. E tutte si occuperanno di tutto. Ogni soprintendenza verrà articolata in sette aree funzionali (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Verrà abolita anche la Direzione generale delle Antichità. Il ministro insiste sul fatto che le nuove strutture «parleranno con voce unica a cittadini e imprese, riducendo tempi e costi burocratici». Il pensiero di Franceschini sembra andare alle conferenze di servizio e alle altre occasioni in cui si autorizzano opere anche di pesante impatto su territori e paesaggi. Ma il timore del fronte ambientalista è che si voglia abbassare ulteriormente la soglia della tutela.

L’altra parte del provvedimento riguarda quattro aree archeologiche (l’Appia Antica, i Campi Flegrei, Ercolano e Ostia Antica) e poi il complesso monumentale della Pilotta a Parma (con la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il museo archeologico), i musei dell’Eur a Roma (Pigorini, Arti e tradizioni popolari e Alto Medioevo), e, sempre a Roma, il Museo Nazionale Romano, il Museo di Villa Giulia, Villa Adria a e Villa d’Este a Tivoli e il Castello di Miramare a Trieste. Dieci pezzi pregiati del nostro patrimonio che si pensa, con l’autonomia e direttori scelti in seguito a un bando pubblico, di valorizzare meglio. Che cosa questo significhi, ad esempio, per l’Appia Antica lo si capirà quando il provvedimento del ministero sarà disponibile: è un territorio vastissimo, 3.500 ettari, al quale si accede senza biglietto, con monumenti splendidi (da Villa dei Quintili alla Tomba di Cecilia Metella), ma quasi integralmente di proprietà privata, con gravi fenomeni di abusivismo e dove, finora, la soprintendenza archeologica ha faticosamente operato un’efficacissima tutela. Alla stessa soprintendenza romana vengono sottratti il Museo Nazionale, che comprende Palazzo Massimo, le Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps e Crypta Balbi, e gli scavi di Ostia Antica, la cui tutela passa a una delle tre soprintendenze del Lazio. Uno spacchettamento. Diventa autonoma anche Ercolano, che si separa da Pompei rompendo l’unitarietà dell’area archeologica vesuviana.

Una prima vittoria contro un grave danno ambientale che è insieme deturpazione del patrimonio comune, omaggio a uno "sviluppo" insensato e violazione dei diritti dei poteri locali. Articoli di Serena Giannico ed Enzo Di Salvatore. Il manifesto, 20 gennaio 2016

LA CONSULTA: «SÌ AL REFERENDUM ANTI TRIVELLE»
di Serena Giannico


«No Ombrina. Via libera al quesito già ammesso dalla Cassazione sulla durata del permesso ai petrolieri. Esultano le nove regioni e le 200 associazioni del fronte No Triv. Battuto il governo che voleva impedire la consultazione. Gli ambientalisti chiedono di fermare le perforazioni fino ad un nuovo Piano energetico nazionale»

Si farà il referendum antitrivelle: esultano 9 Regioni e oltre 200 associazioni di tutta la Penisola. La Corte Costituzionale, infatti, ha dato l’ok all’unico dei quesiti referendari, contro gli idrocarburi, ammesso dalla Cassazione lo scorso 8 gennaio. I giudici hanno deciso, in poco più di tre ore, sulla richiesta di sottoporre alla valutazione popolare il sesto quesito, «quello sul mare».

«I cittadini – spiega in una nota il coordinamento nazionale “No Triv“saranno chiamati a esprimersi per evitare che i permessi già accordati entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la “durata della vita utile del giacimento”. Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile accordare permessi di ricerca o sfruttamento. La sentenza della Consulta dimostra come le modifiche apportate dal Governo con la Legge di stabilità – aggiungono — non soddisfacevano i quesiti referendari e, anzi, rappresentavano sostanzialmente un tentativo di elusione».

Tre dei sei quesiti depositati il 30 settembre 2015 sono stati recepiti dalla legge di stabilità, emendata: il parlamento ha modificato le norme su strategicità, indefferibilità ed urgenza delle attività petrolifere, che erano poco garantiste sulla partecipazione dei territori alle scelte. Un altro quesito è stato ora ammesso dalla Corte Costituzionale, mentre sugli ultimi due è stato promosso, da sei Regioni, un conflitto d’attribuzione tra poteri di fronte alla Consulta e nei confronti dell’Ufficio centrale della Cassazione.

I due quesiti riguardano la durata dei permessi e il Piano delle aree che – spiegano i No Triv — obbliga lo Stato e i territori a definire quali siano le zone in cui è possibile avviare progetti di trivellazione. «Si tratta di uno strumento di concertazione che risulta essere fondame ntale soprattutto se con la riforma del titolo V si accentra il potere in materia energetica nelle mani dello Stato». «Sappiamo ora che su uno dei quesiti centrali ci sarà il referendum, a meno che governo e parlamento intervengano sulla materia», afferma l’avvocato Stelio Mangiameli che ha rappresentato i Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise di fronte alla Consulta. All’ultimo momento, invece, ha battuto in ritirata l’Abruzzo che, con un voltafaccia del presidente della Regione Luciano D’Alfonso (Pd), si è infine schierato contro il referendum e a fianco del governo.

«Le norme precedenti — prosegue il legale — prevedevano, per i titoli già concessi, proroghe di 30 anni, aumentabili di altri 10 e altri 5. Le modifiche introdotte con la legge di Stabilità eliminano la scadenza trentennale e fanno sì che in sostanza non ci sia più un termine. Su questo punto ci sarà il referendum».

«Il fronte referendario è sul 4–2 nella disputa con il premier — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, docente all’università di Teramo, colui che ha materialmente scritto i quesiti -. Il governo voleva far saltare il referendum, visto che i sondaggi davano la vittoria antitrivelle al 67%».

«Il presidente Renzi dev’essere contento perché quando il popolo irrompe sulla scena della democrazia, chi è iscritto al Partito democratico dev’essere contento per definizione»: così il governatore della Puglia, Michele Emiliano -. «Per festeggiare il risultato – dichiara — organizzerei un corteo con le automobili. Qui la campagna per il voto comincia subito». E non risparmia di commentare l’abbandono da parte dell’Abruzzo: «È come quando uno si vende la schedina prima della partita, e poi si ritrova col tredici. Lo dico con affetto nei confronti del mio amico Luciano D’Alfonso, che avrebbe potuto gioire con noi». «Non c’è uno Stato centrale che ama l’Italia e un territorio che la odia. L’interesse strategico di un Paese, con lealtà e trasparenza lo si costituisce insieme. E questo è un passo importante», gli fa eco il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza (Pd).

«Questa sentenza ci dà lo spunto per rilanciare richieste chiare al governo: rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa (a cominciare da “Ombrina”) e una moratoria di tutte le attività di trivellazione off shore e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale»: così Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e Wwf accolgono il giudizio della Consulta. «Pur di assecondare le lobby dei petrolieri, l’esecutivo Renzi – attaccano — aveva promosso forzature inaccettabili, come la classificazione delle trivellazioni come “opere strategiche”, dunque imposte. La Corte Costituzionale rimette al giudizio dei cittadini quei meccanismi legislativi truffaldini con cui si è aggirato sino ad oggi un divieto altrimenti chiaro, lasciando campo libero ai signori del greggio fin sotto le spiagge».

UNA PRIMA VITTORIA.
DA BISSARE
di Enzo Di Salvatore

La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sulle trivellazioni entro le 12 miglia marine, in relazione alla durata dei titoli minerari, come disposta dalla legge di stabilità 2016. Con l’entrata in vigore di quella legge, infatti, l’articolo 6 — precisamente al comma 17 — del Codice dell’ambiente è stato modificato: i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione sono fatti salvi per tutta la durata di vita utile del giacimento. E questo vuol dire che non hanno scadenza certa. Con un duplice effetto: la possibilità di estrarre senza limite temporale; la possibilità che i permessi già rilasciati restino vigenti oltre la durata già fissata dal provvedimento amministrativo. Evidentemente nella speranza che prima o poi la normativa sul divieto entro le 12 miglia marine cambi.

Nonostante le obiezioni mosse dal governo, e sebbene la sentenza non sia stata ancora depositata, la Corte costituzionale avrà certamente ritenuto che una durata «sine die» dei titoli minerari contraddicesse uno degli obiettivi dei promotori, posto già a base di un altro quesito referendario: quello di contenere la durata di tutti i titoli, attraverso il divieto di rilasciare proroghe oltre i sei anni per la ricerca e oltre i trenta anni per l’estrazione. Ma questo solleva ora un problema ulteriore, giacché la Cassazione ha dichiarato chiuse le operazioni referendarie per tutti gli altri quesiti e, dunque, anche per quello sulle proroghe dei permessi e delle concessioni.

È una contraddizione in termini: a seguito delle modifiche del parlamento, infatti, il contenimento della durata dei titoli riguarderà solo i nuovi «titoli concessori unici», ma non anche i permessi e le concessioni, che potranno beneficiare di proroghe ulteriori.

D’altra parte, insoddisfatta resta anche la richiesta referendaria sul piano delle aree; e ciò perché il quesito proposto dalle Regioni presupponeva necessariamente il mantenimento del piano. Ma la legge di stabilità ha abrogato il piano. Questo vuol dire che è sparita la norma sulla quale far votare i cittadini. Per questa ragione, venerdì prossimo nove regioni (eccezion fatta per l’Abruzzo) promuoveranno dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione, allo scopo di recuperare sia il quesito sulle proroghe sia quello sul piano delle aree.

Rispetto a questo scenario, il governo ha davanti a sé due strade: consentire che si vada a referendum (sul quesito sul mare ed eventualmente su quelli relativi alle proroghe e al piano delle aree, qualora il conflitto di attribuzione si risolva positivamente) oppure modificare nel senso voluto dalle Regioni la normativa oggetto di referendum.

Firenze centro storico: un primo passo, finalmente, nella direzione giusta, oppure l'ennesimo tweet truffapopolo? Lo vedremo dai successivi passi necessari, tutti elencati nell'articolo. La Repubblica, 19 gennaio 2016

IL cosiddetto “regolamento Unesco” varato dal sindaco di Firenze Dario Nardella può essere un passo importante nella direzione giusta: quella che restituisce le città d’arte ai loro cittadini, mantenendo le comunità ancorate alle loro meravigliose pietre. Questo insieme di regole colpisce quella che si potrebbe chiamare la “gentrificazione dal basso”: e cioè il proliferare di minuscole attività economiche seriali e senza nessi con il contesto, catene dell’anonimato urbano che privano i centri storici di ogni identità.

Il principio che ne sta alla base trascende di molto il peso del provvedimento stesso. Perché si ha il coraggio di dire che il mercato non è il regolatore ultimo della qualità delle nostre vite: si ha la forza di mettere in discussione il dogma della concorrenza come fine, e si torna a parlare di regole.

Ora, perché questo passo non resti isolato e perché tutto questo non si riduca ad una maramaldesca esibizione di forza contro i deboli (questi esercizi commerciali sono infatti per lo più tenuti da immigrati), bisogna che lo stesso principio sia applicato verso l’alto. Non solo a Firenze, l’espulsione dei residenti dal centro storico è infatti assai più legata alla “gentrificazione dall’alto”, cioè alla disneyficazione: i palazzi pubblici (improvvidamente svenduti dal comune) che si trasformano in alberghi di lusso, la proliferazione di vendite di costosi prodotti tipici al posto dei negozi di quartiere, l’assenza di sostegni alla produzione culturale, l’indisponibilità verso ogni gestione dal basso dei beni comuni, la contrazione dello spazio pubblico. Se Nardella e gli altri sindaci saranno capaci di imporre anche contro interessi ben altrimenti forti la stessa linea — quella per cui il mercato non può dire l’ultima parola — allora le cose cambieranno sul serio.

In una delle nostre più antiche costituzioni — il Costituto di Siena, del 1309 — si legge che i governanti devono «preoccuparsi della belleza della città, perché dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini». Questo è il punto: attrarre un turismo di qualità è un obiettivo fondamentale, ma non si può perseguirlo senza costruire la felicità dei cittadini, e non solo di quelli ricchi.

È la lezione di una lunga storia in cui bellezza è stata sinonimo di giustizia: una lezione ancora carica di futuro.

A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. Il Fatto quotidiano, blog di Manlio Lilli, 18 gennaio 2016

“Ca’ Corner della Regina, costruito tra il 1723 e il 1728 da Domenico Rossi per conto della famiglia dei Corner di San Cassiano, è un palazzo veneziano situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande. Dal 2011 diventa la sede veneziana della Fondazione Prada che ha presentato finora in questi spazi cinque mostre di ricerca, in concomitanza con il restauro conservativo del palazzo che si sta attuando in più fasi”.

La Fondazione Prada sul suo sito non spende molte parole per una questione che si è protratta per anni. Una questione, come troppo spesso accade, nella quale le risorse (ottenute da più che discutibili alienazioni) e gli interessi (del presunto mecenate) hanno giocato un ruolo fondamentale. Fin dagli inizi. Chiare le condizioni poste nell’offerta di acquisto da parte della società Petranera srl, una controllata del gruppo Prada. Utilizzo immediato a destinazione residenziale “degli spazi del sottotetto, del piano terzo e del piano secondo, quali unità autonome e indipendenti dalle restanti porzioni dell’immobile, con la possibilità di accesso indipendente anche mediante utilizzo/completamento delle attuali strutture poste nella parte retrostante dell’immobile (scala e ascensore)” e “utilizzo del piano terra, del piano primo ammezzato, del piano secondo ammezzato e del piano primo nobile a destinazione residenziale”. Chiedersi come Prada potesse avanzare queste proposte per unpalazzo dichiarato di interesse culturale dal 2009 è un semplice esercizio retorico. Una domanda pleonastica. La risposta sta, evidentemente, nei 40 milioni offerti a un’amministrazione comunale in affanno a far quadrare i bilanci.
Comincia il sindaco Orsoni

“Sono soldi essenziali per il nostro bilancio”, dicevaGiorgio Orsoni, sindaco di Venezia, alla fine di dicembre 2011, con la delibera sulla Variante urbanistica appena approvata dal Consiglio Comunale. Il vincolo sull’immobile posto dagli uffici della Soprintendenza, annullato, almeno in parte, dal direttore regionale Ugo Soragni. Al posto di divieti assoluti una serie di prescrizioni. A partire dal rispetto della compatibilità residenziale e dell’uso pubblico, soprattutto nell’utilizzo del sottotetto, del mezzanino e parzialmente dei piani secondo e terzo dell’edificio. E la possibilità per il pubblico di visitare gli spazi restaurati fino a un massimo di 80 giorni l’anno con un calendario preciso. Deciso e approvato nonostante le diverse criticità denunciate dalla sede veneziana diItalia Nostra(file:///C:/Users/Orange%20Eyes/Downloads/Corner%20Alienazione.pdf). Quel che succede dopo lo si può leggere ancora sul sito della Fondazione.

“Il restauro conservativo di Ca’ Corner della Regina, promosso dalla Fondazione Prada dalla fine del 2010 in linea con le direttive della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e della Laguna, si sta attuando in più fasi. La prima, conclusasi nel maggio 2011, ha previsto interventi di messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, il rilievo di tutte le parti impiantistiche incoerenti, la manutenzione dei serramenti lignei, l’eliminazione delle partizioni non originarie e il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi. Per quanto riguarda gli apparati decorativi, sono stati messi in sicurezza affreschi, stucchi e materiali lapidei che ornano il portego e le otto sale del primo piano nobile del palazzo. Questi lavori consentono nel giugno 2011 l’apertura al pubblico del piano terra, del primo e secondo mezzanino e del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina”.

Evviva, verrebbe da dire. La lente del pregiudizio ha viziato la lettura iniziale. Venezia acquista uno spazio per l’arte internazionale. Ed è così. Ma accanto alle sale attraversate dai visitatori, ci devono essere anche parti “riservate”. Insomma appartamenti. E’ stabilito nel contratto. Per questo rimangono a lungo in sospeso 8 dei 40 milioni di euro. Miuccia Prada deve avere certezza di poter riposare nel palazzo che dal 1975 al 2010 è stato sede dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. La Direzione Generale dei Beni Culturali si oppone alla destinazione residenziale ritenendola incompatibile con le caratteristiche storiche del Palazzo e con il mantenimento di un suo uso pubblico. E’ così fino a ottobre 2015.

Prosegue la soprintendente Codello

Poi cosa succede? Al Ministero ci si accorge che il pregio del palazzo non è in fondo così grande? Certo che no! Semplicemente cambia il Direttore generale per i Beni culturali del Veneto. Al posto di Ugo Soragni ecco Renata Codello. Et voilà! L’architetto, prima di beneficiare del trasferimento a Roma, alla Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio della Capitale, autorizza la destinazione residenziale. Riconfermata con l’autorizzazione definitiva del Ministero dei Beni Culturali a fine novembre. Così il Comune rilascia alla Petranera srl il permesso di costruire. Il secondo piano nobile resterà ad uso museale fino alla fine del dicembre 2019. Dopo diventerà ad uso residenziale. Il terzo piano, accanto alla destinazione museale, avrà quella residenziale, mentre nella mansarda verrà ricavato un appartamento. In aggiunta, l’attuale ascensore che serve i frequentatori delle esposizioni verrà sostituito da uno nuovo, interno, a servizio esclusivamente dell’appartamento.

A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. A Ca’ Corner, dove si sperimenta da anni l’alienazione del patrimonio pubblico, il nuovo modello-Italia sembra giunto al suo epilogo. Finalmente, svelandosi in maniera completa. Dopo alcuni tentativi falliti. Lo Stato è un moribondo da sostituire e non da affiancare. Quindi spazio ai nuovi mecenati. Poco importa se esigono un appartamento nel palazzo restaurato. I nuovi Signori sono loro.

Alcuni spunti emersi dalle discussioni di studiosi professionisti cittadini, su un tema strategico che probabilmente è rimasto piuttosto sottotono rispetto alla sua importanza nell'ultima amministrazione, vuoi per consapevoli scelte tattiche, vuoi per sottovalutazione


Il giorno 16 gennaio 2016, l’Associazione Architectural & Urban Forum (*) ha inviato una lista di 10 domande ai candidati alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano (Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala), per meglio conoscere i rispettivi programmi, con riferimento a temi urbanistici e territoriali cruciali per la città.

1. Modello di crescita della città
Negli ultimi 5 anni, la popolazione residente nel comune di Milano si è sostanzialmente mantenuta costante intorno a 1,3 milioni di abitanti, ben inferiore al picco di abitanti di oltre 1,7 milioni degli anni Settanta. Nonostante questi dati, durante le ultime due giunte si è costruito molto, dotando la città di una grande quantità di nuove volumetrie, anche grazie all’attrazione di capitali stranieri (Stati Uniti, Qatar, ecc.), molte delle quali sono rimaste inutilizzate a causa di una domanda non certo pressante in questi ultimi anni di crisi. Parallelamente a questo trend, un grande numero di migranti, spesso con modestissime possibilità, si sta dirigendo in Italia e in Europa, anche a causa di vicende tragiche in paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Rispetto a questo quadro, se eletto sindaco che idea di sviluppo urbano ha in mente per impostare le politiche urbanistiche della città? Quale sarà la condotta della giunta in merito all’attrazione e all’ospitalità di nuovi abitanti? E all’attrazione di capitali stranieri? Quale orientamento in tema di edilizia residenziale pubblica? Con quali ricadute sulle comunità già attualmente insediate? Verso quale Milano tenderemo? Che progetto di città ha in mente?
2. Città metropolitana
I confini comunali non coincidono con l’area urbanizzata del milanese, ben più vasta e comprendente oltre 4 milioni di abitanti. Con riferimento alla ex Provincia di Milano, i dati relativi alla popolazione sono peraltro in linea con quanto verificatosi entro i confini comunali. Se eletto sindaco, come cercherà di interessare gli altri comuni facenti parte della Città metropolitana rispetto alle politiche urbanistiche milanesi? Come cercherà di superare dal punto di vista amministrativo e tecnico l’annoso problema di divisione delle competenze e di coordinamento delle autonomie locali? Data la rilevanza del problema e la complessità dei rapporti, non ritiene indispensabile che vi sia un assessore dedicato? Intenderà cambiare in questa prospettiva il PGT, oltre ovviamente a coordinarlo e promuovere coordinamento (su che linee di forza?) con le altre circoscrizioni, magari costruendo un modello di riferimento almeno dal punto di vista del metodo?

3. Visione infrastrutturale
La città è servita da tre aeroporti, la cui integrazione dal punto di vista gestionale è stata oggetto di recenti studi affidati all’Università di Bergamo. La nostra associazione aveva proposto nel 2010 una metropolitana Triangle-Line che, in sopraelevazione sulla tangenziale Est e sul tratto urbano dell’autostrada Venezia-Torino, collegasse Linate con Sesto San Giovanni (aree Falck e direzione Orio al Serio) e Rho-Pero (area Expo e direzione Malpensa) senza gravitare sul centro cittadino. Nel frattempo la linea 4 della metropolitana è in costruzione, la linea 5 è stata inaugurata e i lavori proseguono. Come considera il trasporto metropolitano interrato e come il Comune dovrebbe essere coinvolto nella costruzione di nuove linee? Se eletto sindaco, che intenzioni ha rispetto alla Circle-Line più volte proposta sull’anello del ferro milanese? Quali altri eventuali linee si impegna a promuovere? In che modo intenderà mettere in sinergia i tre aeroporti, sia dal punto di vista amministrativo sia dal punto di vista dell’accessibilità? Come queste scelte si coordinano con il sistema ferroviario e con la mobilità privata su gomma? Che intenzioni ha in tema di secondo passante ferroviario? Cosa pensa del proliferare di tratti autostradali costruiti o in costruzione nell’intorno milanese (Brebemi, Pedemontana, Tangenziale Esterna di Milano)?

4. Mobilità
Se eletto sindaco, confermerà l’attuale perimetro dell’Area C? Si impegnerà per allargarla? Quali azioni intraprenderà per potenziare il sistema di vie ciclabili e l’uso della bicicletta? Cosa pensa del car sharing e come crede che il Comune debba esserne coinvolto?

5. Inquinamento atmosferico
Legambiente riporta che le grandi fonti di inquinamento atmosferico sono il traffico veicolare, il settore industriale in particolare per la produzione di energia e il riscaldamento. Se eletto sindaco, quali azioni intraprenderà per limitare le emissioni con particolare riferimento a: traffico automobilistico, produzione di energia, riscaldamento? Come pensa di contribuire a queste limitazioni tramite l’urbanistica e con quali specifiche scelte?

6. Piano delle acque
Recenti fatti hanno dimostrato la fragilità dell’idrografia milanese. Se eletto sindaco, quali interventi strutturali attuerà per salvaguardare la popolazione da esondazioni? E con specifico riferimento al fiume Seveso? E al fiume Lambro? Cosa ne pensa della riapertura dei navigli, che ogni tanto torna alla ribalta, forse un po’ anacronisticamente? Per quanto riguarda la depurazione delle acque reflue urbane, come considera l’attuale sistema in essere e quali potenziamenti ritiene necessari? Come si interfaccerà con gli altri enti locali sovracomunali? E in particolare, quale ruolo pensa al riguardo per la città metropolitana?

7. Piano del riuso
L’enorme numero di appartamenti sfitti e immobili abbandonati impone una presa di posizione da parte del Comune in materia del riuso. Se eletto sindaco, come strutturerebbe un innovativo “Piano del riuso”? Come attuerebbe un censimento di unità e immobili sfitti, pubblici e privati? Come ha intenzione di utilizzare questo enorme patrimonio per le necessità abitative di classi deboli e di migranti? Per le necessità di posti di lavoro a buon mercato per giovani, precari e disoccupati? Per dotare la città di spazi per la cultura, associazionismo, formazione, culto?
Consideriamo un caso specifico: uno degli edifici emblematici dell’architettura milanese del ‘900, l’Istituto Marchiondi-Spagliardi progettato da Vittoriano Viganò, versa in pessime condizioni di conservazione e i suoi spazi sono per la maggior parte abbandonati. Se eletto sindaco, si impegna a mantenere la proprietà comunale dell’edificio? Che destinazione prevede per esso? Che tipo di gestione e con quali soggetti sarebbe auspicabile?

8. Trasformazione delle aree urbane
L’attuale giunta non ha portato a termine la definizione dei criteri di trasformazione degli scali ferroviari milanesi, oltre un milione di mq. Se eletto sindaco, quale indice territoriale ritiene adeguato per queste aree (proposta attuale giunta 0,65 mq/mq, precedenti giunte 1 mq/mq)? Sfrutterebbe la perequazione per trasferire parte del volume? Quanti mq di spazi pubblici per abitante? Di questi, quanti reperiti in loco? Di questi, quanti mq di servizi di quartiere? Non ritiene il sindaco che la questione degli scali ferroviari (oggi degradata a mero incidente di percorso in Consiglio) non sia una questione di livello nazionale, essendo Milano il vero nodo di accessibilità all’intero Paese?
Per quanto riguarda le aree militari, se eletto sindaco che tipo di accordo promuoverà? In quale sinergia con la trasformazione degli scali ferroviari? Che indirizzo intende elaborare per l’area dell’Ippodromo del Trotto? Per il Giardino dei Giusti? Per la nuova grande Moschea, anche in rapporto con luoghi di culto più piccoli? Per un eventuale vero grande Palazzo dello Sport? Per il Polo ospedaliero? Per un parco scientifico tecnologico, promuovente l’interazione tra ricerca e produzione? Per l’area dell’Ortomercato, sia nel caso di consolidamento che di trasferimento?
Nelle trasformazioni urbane, a grande e piccola scala, se eletto sindaco come promuoverà il progetto di architettura e il progetto urbano, con quali procedure concorsuali, sia in campo pubblico sia in campo privato? Con quali semplificazioni burocratiche e amministrative in tema di procedure di permesso di costruire, rapporto con vincoli soprintendenza, ecc.?
Rispetto a queste tematiche, se eletto sindaco che impulso darà al “Fondo si sviluppo urbano” ipotizzato dall’attuale giunta?

9. Destino delle aree Expo
Se eletto sindaco, che vocazione vorrà conferire all’area? Come considera l’intervento del governo e la scelta dell’IIT come soggetto coordinatore del nascituro polo scientifico? Che percentuali di residenza, uffici, servizi, produzione, altre funzione ritiene sia corretto prevedere? Come pensa di liquidare Fondazione Fiera, che conferì i terreni di sua proprietà in seguito alla variante che li ha resi edificabili in una prospettiva di speculazione fondiaria? Sosterrà i maggiori costi di bonifica verificatisi o intenderà rivalersi sui venditori dei terreni, come da normalissima prassi di compravendita? Quale ruolo ritiene questa area debba avere nell’ambito del sistema infrastrutturale milanese?

10. Piano dello spazio pubblico
Se eletto sindaco, come contrasterà l’attuale dilagante trend di privatizzazione dello spazio aperto (a solo titolo di esempio basta considerare gli spazi dell’intervento Porta Nuova/Garibaldi: la piazza Aulenti, l’intervento di Agnes Denes, ecc.)? Ritiene che gli spazi pubblici siano una domanda emergente, e un mezzo per facilitare la coesione sociale? Come pensa di coinvolgere le energie sviluppate, spesso inespresse o tenute perfino ai margini del dibattito, di gruppi di cittadini, comitati, associazioni, professionisti?

(*) Questo "decalogo" predisposto in bozza ed espressione dell'Associazione Architectural & Urban Forum, è stato condiviso e/o modificato in parte con osservazioni e contributi successivi di Lorenzo Degli Esposti; Rolando Mastrodonato; Sergio Brenna; Luca Ruali; Luca Beltrami Gadola; Ado Franchini; Fabrizio Bottini; Andrea Cammarata; Andrea Masu; Federico Reyneri; Pietro Macchi Cassia; Marco Biraghi; Marco Brizzi; Marco Chiappa; Maurizio de Caro; Maurizio Petronio

«Campidoglio. Fassina: se c'è il senatore pronto a ritirarmi. Ma a casa dem è scontro ruvido. Il commissario: chi vuole si presenti alle primarie» Nel PD non sono tutti uguali: chissà perchè resistono. Il manifesto, 17 gennaio 2016

Non c’è pace nel Partito democratico romano, neanche ora che il vicepresidente della camera Roberto Giachetti ha accettato di correre alle primarie come candidato con il crisma di Matteo Renzi. Ora al Pd serve almeno un altro nome per dare una parvenza di competizione ai gazebo. Un altro nome capace di tenere dentro gli antirenziani e gli scontenti. Ma un altro nome stenta a saltare fuori, soprattutto dopo che il presidente della regione Nicola Zingaretti ha ’endorsato’ Giachetti, con una rapidità sorprendente: deludendo le speranze di tutti quelli che guardavano a lui come sostenitore di un nome della minoranza.

Ieri Walter Tocci, invocatissimo senatore dissenziente ed ex assessore a Roma, da tempo candidato del cuore di una parte della sinistra capitolina ben oltre il Pd, sul suo blog ha rilanciato la proposta di «una lista civica di centrosinistra», mettendo «da parte il simbolo di partito», «non una rinuncia, ma un investimento per la riscossa». Per Tocci in questi giorni «si ripete il vecchio copione. Il Pd romano si ripresenta alle elezioni senza un programma credibile. Affida alle primarie il compito improprio di sciogliere i nodi politici. Seleziona i candidati nel recinto di partito, sempre più angusto. Sono gli stessi errori del 2013. È sconcertante ripeterli oggi». Tocci chiede un congresso prima del voto e giudica esaurita la funzione del commissario del Pd romano Matteo Orfini. «Sarebbe il momento di tentare soluzioni nuove, di immaginare scenari inediti, di alzare lo sguardo intorno a noi. Ci vorrebbero umiltà e coraggio».

Ma il senatore chiarisce una volta per tutte che non si candiderà: «La mia candidatura non è mai esistita, è un’invenzione del chiacchiericcio politico-giornalistico». La sua proposta piacerebbe a sinistra, innanzitutto a chi non si rassegna alla morte del centrosinistra. Piace persino a Stefano Fassina che da sempre, pur bocciando in blocco il Pd romano, fa un’eccezione per il compagno di tante battaglie. Fassina, che per oggi ha organizzato un incontro in ogni municipio della capitale, in questi giorni ha dovuto difendersi dall’accusa di voler rompere la coalizione ’a prescindere’. Ieri, con un tweet, ha mostrato di aprire uno spiraglio: «Se il Pd Roma raccogliesse la proposta di Tocci per lista civica di centrosinistra, pronto a ridiscutere tutto».

Ma la schiarita è durata poco, appunto, lo spazio di un tweet. Al quale a stretto giro il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha risposto con un no secco alla lista civica. «Il Pd è orgoglioso del suo simbolo. Soprattutto a Roma dove dopo un anno di rigenerazione c’è un Pd diverso da quello che non si accorgeva di mafia capitale. Con quel simbolo ci presenteremo alle elezioni». La decisione è presa, l’aveva anticipata anche il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Le primarie saranno il luogo delle scelte che, come sempre, spetteranno ai nostri elettori e non ai caminetti. Se qualcuno vuole misurare opzioni e proposte differenti si candidi alle primarie e si confronti con loro», chiude il commissario. Che con l’occasione, per ribadire il concetto non solo a Tocci ma anche a Sinistra italiana, ingaggia un ruvido scambio di tweet con Vendola e i suoi che dall’assemblea di Sel lo accusano di aver rotto il centrosinistra: «Dunque caro @NichiVendola, tu puoi scegliere nel chiuso di una stanza un candidato, mentre uno che si candida alle primarie divide?». La rispostaccia arriva dal giovane Marco Furfaro: «Parlò quello che nel chiuso di una stanza decise di dimissionare dal notaio il sindaco eletto dai cittadini romani».

Il futuro delle città italiane si decide con le scelte sulle aree pubbliche dismesse. Nel caso degli scali ferroviari milanesi, in che modo si tiene conto dell'interesse pubblico? Sagge considerazioni su arcipelagomilano.org. In calce, link utili per approfondire (m.b.).

La fine del 2015 oltre a darci uno dei periodi più lunghi degli ultimi anni con il superamento dei livelli di norma per le polveri sottili, ci ha anche lasciato lo psicodramma politico generato dalla vicenda della ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma per la riqualificazione degli scali ferroviari. Risultato che, come noto, non è stato successivamente conseguito.
In questo psicodramma la discussione sullo specifico in realtà ha avuto poco spazio e con questa affermazione non parliamo dei numeri, dei mq. edificabili, delle compensazioni o altro ma piuttosto di una esplicita discussione sugli obiettivi strategici, il senso e merito, le ragioni del “patto di utilità collettiva” tra i diversi contraenti. Il passaggio in Consiglio comunale non avrebbe dovuto avere anche queste finalità?
La maggior parte dello spazio è stato invece consumato in un dibattito condizionato da logiche politiciste con la finalità di addossare colpe a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, ne avrebbe favorito il fallimento. Il mantra ossessivamente veicolato, obbediente a una logica secondo noi mal impostata, recitava che quello in approvazione rappresentava “il miglior accordo possibile”. Qualità che si sostanziava nella riduzione dei volumi edificabili e nel miglioramento delle contropartite per la pubblica amministrazione, complessivamente intese, rispetto alla precedente versione dello stesso Accordo proposto dalle giunte di centro-destra.
Forse per valutare e qualificare meglio questa affermazione sarebbe opportuno rimettere in ordine i fattori di questa scelta e capire di che cosa stiamo parlando anche per stimolare coloro che nell’amministrazione comunale dovranno riprendere in mano la questione. Anche in ragione di una dialettica più laica e meno legata alle utilità e alle contingenze del momento.
Esigenze di sintesi ci obbligano a dare per conosciuti gli aspetti di contenuto di questo Accordo, richiamando il fatto che le funzioni prevalenti individuate coincidono con insediamenti residenziali, comprese quote di edilizia sociale, verde e urbano e connessioni viabilistiche e ciclabili (i contenuti di dettaglio sono comunque qui consultabili).

A Milano gli scali ferroviari costituiscono uno stock di circa 1.250.000 mq di aree molto diverse tra loro per collocazione, dimensione, qualità del contesto urbano nel quale si inseriscono; sono però accomunate da una medesima caratteristica: essere posizionate sulla e nei nodi della rete del trasporto pubblico su ferro, di livello nazionale, metropolitano e urbano.
Una caratteristica eccezionale che assegna quindi a queste aree un valore strategico per qualsiasi ipotesi di riassetto dell’area metropolitana. Ancorché attualmente in condizioni di dismissione e di degrado, esse rappresentano aree privilegiate e da privilegiare in funzione di qualunque ipotesi di disegno che voglia reinterpretare le relazioni e le dinamiche che attualmente qualificano il livelli di qualità del sistema, rendendola attrattiva e competitiva sia dal punto di vista urbanistico-territoriale che da quello dello sviluppo economico, del riequilibrio ambientale o delle modalità che condizionano gli spostamenti e la mobilità di circa 1.300.000 abitanti residenti e quasi 3.000.000 di city users.
Se c’è accordo sul riconoscimento di queste caratteristiche e sulle relative potenzialità, riavviare il processo di riqualificazione di queste aree dovrebbe comportare la necessità di riflettere su alcune questioni e domande preliminari. Proviamo ad elencarne alcune, anche se in forma non esaustiva, che non vogliono essere per nulla retoriche ma che hanno la funzione di mettere a fuoco alcuni aspetti che riteniamo essere stati fino a ora considerati in modo non sufficientemente approfondito.

1 Per le caratteristiche cha abbiamo richiamato, queste aree rappresentano “per definizione” dei nodi di rilevanza metropolitana. È quindi lecito – utile – opportuno mettere in gioco queste aree e chiudere la porta a qualsiasi altra opzione, senza un preventivo confronto con le esigenze dell’area metropolitana nel momento in cui la stessa Città Metropolitana sta elaborando il proprio Piano Strategico?
2 Qual è il disegno o la strategia urbana supportato dalla messa in gioco di queste aree (pregiatissime) e la relativa destinazione funzionale?
3 Preliminarmente all’Accordo, non sarebbe opportuno esprimere un progetto a cui legare il “Patto di utilità collettiva” fra i diversi contraenti, esplicitandone le ragioni e gli obiettivi? Ovvero, la cessione di tali quantità di rendita urbana si giustifica nelle funzione insediate con un adeguato ritorno utile alla collettività e alla istituzione metropolitana e comunale?
4 Milano ha un serio problema nel PGT ereditato che, anche se debolmente emendato, conserva una impostazione orientata soprattutto allo sviluppo edilizio e alla valorizzazione immobiliare, senza una visione strategica, con un approccio poco aperto alla dimensione metropolitana e che non ha integrato sistema urbano e bisogni di mobilità. È opportuno dar luogo alle trasformazioni sugli scali senza sintonizzare lo strumento urbanistico con una idea di città di medio-lungo periodo che assuma obiettivi diversi come ad esempio ipotesi di riequilibrio ambientale che si reggano su una radicale trasformazione della mobilità dell’intera Città Metropolitana?
5 Qual è il senso di trattare in modo indifferenziato dal punto di vista del mix funzionale, delle densità e dei parametri urbanistici, aree che hanno dimensioni e morfologie tanto diverse e che dovrebbero dialogare con contesti urbani così disomogenei? Quali sono le economie urbane e gli effetti di rigenerazione che si intendono promuovere?
6 L‘esperienza della riqualificazione delle aree Expo ha evidenziato che il ricorso alla sola valorizzazione immobiliare di un’area con dimensioni rilevanti, seppur strategica e con elevati livelli accessibilità, costituisce un approccio fallimentare se non connessa a una idea e a un progetto molto caratterizzato e di largo respiro. Tant’è che dopo che il “mercato” ha bocciato questo approccio, si è deciso di cambiare rotta. Perché riprodurre quindi un analogo modello di intervento?

Quest’ultimo tema, relativo alla valorizzazione immobiliare, evidenzia un’altra questione di grande impatto in relazione alla attuale proprietà delle aree e ai relativi aspetti di negoziazione dei limiti degli interventi. Come noto, la disponibilità di queste aree è stata ottenuta a suo tempo in relazione alla necessità di esercitare un servizio di interesse pubblico e collettivo, quindi non con procedure negoziali e di mercato ma mediante acquisizione per pubblica utilità (con uno sforzo collettivo quindi), in uno scenario che non prevedeva la successiva privatizzazione dei gestori di questo patrimonio che oggi mirano principalmente alla valorizzazione immobiliare dei siti.
Questo non è un tema esclusivamente milanese ma coinvolge una questione di livello nazionale che interessa in prevalenza i maggiori centri urbani e capoluoghi del Paese. L’anomalia e la difficoltà di gestire da parte delle singole Amministrazioni comunali un rapporto oggettivamente asimmetrico con un soggetto oggi “non formalmente pubblico” che gestisce un patrimonio acquisito con risorse collettive, dovrebbe essere quantomeno oggetto di attenzione a livello nazionale, anche per riequilibrare le rispettive capacità di negoziazione nei confronti di un effettivo interesse pubblico e non essere appiattita sulle esigenze di “fare cassa” e slegata da una effettiva costruzione sociale.
Perché allora non promuovere un’interlocuzione con il Governo nazionale che veda Milano e la sua Città Metropolitana aggregare intorno alla questione l’ANCI e alcune delle più importanti città del Paese, per riequilibrare questa asimmetria e conseguire maggiori gradi di libertà e di potere contrattuale nel definire le proprie strategie e politiche urbane?

Riferimenti

Qui il collegamento alla pagina del comune dove sono scaricabili i documenti
Sullo stesso argomento: su arcipelagomilano.org, le opinioni di Luca Beltrami Gadola, Sergio Brenna, Giorgio Goggi, Giuseppe Longhi.

Intervista di Antonio Cianciullo allo storico del clima Pascal Acot. «Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo». La Repubblica, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Non direi che una minaccia è più forte dell’altra. Io vedo una perfetta integrazione tra i due problemi: il cambiamento climatico rafforza il terrorismo e il terrorismo rafforza il cambiamento climatico. Serve una risposta capace di agire su entrambi i fronti». Pascal Acot, storico del clima, commenta le conclusioni del Global Risks Report, stilato da esperti e leader del World Economic Forum, da Parigi, città che nell’arco di un mese è stata vittima del terrorismo e regista del nuovo accordo sul clima.

Anche Obama ha sottolineato il nesso tra la lunga siccità che ha devastato la Siria tra il 2006 e il 2011 e la destabilizzazione del Paese che ha portato alla guerra civile.
«Quello è stato un caso da manuale, ma l’azione del cambiamento climatico è molto più larga, molto più continuativa. Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo. E non dobbiamo dimenticarci che il processo del global warming è destinato ad aggravarsi: una prospettiva molto allarmante».
Il terrorismo rallenta gli sforzi per combattere il cambiamento climatico?
«Certo, perché esaspera le tensioni anziché diminuirle. Il fatto che l’attacco terroristico del 13 novembre abbia rischiato di far saltare la conferenza sul clima è emblematico. E non è un episodio isolato. L’intera azione di Daesh, il sedicente stato islamico, è mirata a scavare fossati là dove bisognerebbe costruire ponti. Per ricreare coesione sociale e per rallentare il cambiamento climatico servono invece azioni ambientali virtuose da organizzare su entrambi i lati del Mediterraneo».
Qual è il suo giudizio sull’azione svolta finora dai paesi europei?
«Pessimo. Finora hanno avuto la meglio logiche legate agli interessi nazionali o di schieramento, come lo sconsiderato attacco a chi combatte Daesh sul terreno. La stessa Francia ha combinato disastri diplomatici e militari sia in Siria che in Libia. Bisogna passare dalla logica dei bombardamenti a quella degli interventi capaci di risolvere i problemi».

Non è facile con la situazione che si è creata in Medio Oriente.
«Proprio l’aver separato i problemi ambientali da quelli politici ha aggravato la crisi. Ora non dobbiamo ripetere lo stesso errore cercando di curare la malattia che abbiamo contribuito a creare».

La prima parte di un lavoro su Pisa che si propone di seguire i tre passi indispensabili per cambiare le cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Che significa anche sbugiardare i bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 11 gennaio 2016

In base ai dati forniti da ISPRA, al 2014 in Italia si sono consumati 8 mq di suolo al secondo. Un rettangolo di 2 metri per 4, la grandezza di una camera singola in affitto a Pisa. La media negli ultimi 50 anni è stata di 7 mq al secondo. Il ritmo è quindi elevato, soprattutto se si considerano le medie europee e la crisi, che invece dovrebbe aver contribuito significativamente a ridurre l’edificazione.

Le aree utilizzabili nel mondo per la produzione di cibo (senza necessità di sistemazioni idrauliche e altre sistemazioni agrarie, e senza irrigazione) coprono circa l’11% delle terre emerse, e sono le stesse che vengono scelte per costruzioni e infrastrutture: così oggi produzione di cibo e consumo di suolo sono in diretta concorrenza, a scapito della produzione di cibo. In particolare nel nostro Paese, che non è in grado di garantire la sicurezza alimentare: siamo in grado di produrre cibo solo per circa l’80% della popolazione italiana e, secondo il Sustainable Europe Research Institute, l’Italia è il 3° paese in Europa e il 5° nel mondo per deficit di suolo agricolo.

A fronte di questi inequivocabili dati, oggi a qualunque livello di governo, si proclama la necessità di fermare il consumo di suolo e bloccare le previsioni di nuove costruzioni. Certo, fatte salve le “dovute, necessarie eccezioni”. Di fatto, i processi economici che spingono ad investire sul mattone e che sono strettamente connessi ad un’economia finanziaria basata sulla rendita, non solo non si sono arrestati, ma in qualche modo si sono esacerbati. Perché, per “rimettere in moto l’economia” si ricorre di fatto ad ulteriore consumo di suolo, in contrasto con i proclami fatti. Quindi, data la gravità del fenomeno, è necessario porsi una domanda: quando si parla di “dovute, necessarie eccezioni” allo stop al consumo di suolo, cosa si sta davvero dicendo?

Pisa: un caso esemplare?

A Pisa abbiamo cercato di capirlo, aggiornando al 2015 i dati della campagna “Riutilizziamo Pisa”che fu condotta per la prima volta nel 2012. La mappa che identifica le aree abbandonate e gli immobili censiti è disponibile a questo link: https://goo.gl/Ws2qIv

Abbiamo trovato dati inquietanti e abbiamo sviluppato degli indici di valutazione i cui risultati non solo non restituiscono l’immagine di una pretestuosa rinascita della città, sbandierata ad ogni possibile occasione dall’amministrazione comunale, ma sono al contrario la prova che Pisa è schiacciata dal peso della speculazione e degli interessi privati. Le politiche del cemento e del consumo di territorio da un lato, e dell’abbandono di decine e decine di edifici pubblici e privati dall’altro, sono andati avanti, diventando via via più aggressive.

Pur trattandosi di una analisi non esaustiva, ma fatta principalmente sulle grandi aree, il primo dato calcolato è impressionante: circa 360mila metri quadrati sono aree abbandonate o parzialmente utilizzate, di cui 239mila completamente abbandonati. Per quanto elevatissimo il dato è sottostimato: andrebbe considerevolmente aumentato se contassimo tutte le aree abbandonate delle zone industriali (capannoni e ex uffici). Inoltre, non sono conteggiati gli alloggi sfitti di proprietà privata; in una città che ha solo circa 89.000 residenti, dal censimento del 2011 emergono 14.633 alloggi statisticamente vuoti, di cui circa 8.500 sono realmente vuoti (o affittati per brevi periodi per turismo – specie sul litorale -, o locati “in nero”) o inagibili da ristrutturare.

Come mai si continuano a prevedere nuove abitazioni quando già così tante in città non sono utilizzate? La variante di monitoraggio del piano regolatore che il Comune di Pisa ha approvato alla fine del 2015 non prevede che minimi tagli alle nuove edificazioni previste, a fronte delle numerose approvazioni di varianti per nuove aree a destinazione edilizia. Mantiene tutte le previsioni di sviluppo e nuovo consumo di suolo nella zona di Ospedaletto. Nonostante si propagandi una politica del recupero degli immobili, di fatto si prevedono una serie di abbattimenti e ricostruzioni, senza immaginare mai un vero e proprio riutilizzo del patrimonio esistente (segue).
Tiziana Nadalutti e Fausto Pascali, Municipio dei Beni Comuni

Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.

L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».

E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.

La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».

La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».

Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».

i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016

A Parigi si è discusso come scongiurare il soffocamento da anidride carbonica, ma a Bologna si tagliano gli alberi. Cinquantamila, secondo le stime del Wwf, sono spariti lungo dodici chilometri del torrente Savena alle porte della città, mentre altri 30mila, stando alla denuncia di Legambiente, sono minacciati dalla costruzione di un ramo della Complanare cittadina e dall’ampliamento a quattro corsie della A14 fino alla svincolo per Ravenna. Interi boschi, che i naturalisti definiscono «spugne assorbi-carbonio » spazzati via.

Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.

La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.

L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).

A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».

Nell’esposto, il Wwf, oltre a ricostruire la vicenda e rimarcare lo sconfinamento in un’area di interesse naturalistico per biodiversità senza una preventiva valutazione di incidenza, condanna la formula dell’appalto «a compensazione» che invoglia le ditte ad attuare tagli indiscriminati per incrementare i guadagni senza rispondere a quei criteri «selettivi» prescritti dalla Regione. La denuncia si sofferma anche sulla costruzione di un arginello di contenimento ai lati del torrente in cui sarebbero stati mescolati all’argilla anche scarti di lavorazioni edili. Sulla vicenda si incrociano due opposte idee di gestione dei corsi d’acqua. Una di tipo idraulico e l’altra in cui prevale una visione di ecosistema.
«È oggettivo che adesso il torrente è più sicuro e regge le piene» afferma il sindaco preoccupato per l’incolumità dei cittadini. «Gli alberi ostacolano la corrente e provocano esondazioni». Versione opposta a quella del Wwf: «Al contrario, rallentano la corrente e difendono le sponde» spiega Bonafede.

La Repubblica e il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2016 (m.p.r.)


La Repubblica

LA BEFFA DELLE TRIVELLE: LA GUIDI LE AUTORIZZÒ PRIMA DEL DIVIETO

di Liana Milella

Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».

Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.

Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.

Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.

I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.

Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO

Il ministero dello Sviluppo ha dato il via libera alle le ricerche petrolifere davanti alle isole Tremiti, per la cifra di 1.929,292 euro l’anno. Lo denuncia Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi.
«IL Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato le ricerche di petrolio di fronte ad uno dei gioielli ambientali più importanti d’Europa: le isole Tremiti», afferma Bonelli, precisando che «il 22 dicembre 2015 con decreto n.176 è stato conferito il permesso B.R274.EL alla società Petroceltic Italia Srl». L’esponente dei Verdi rileva che le ricerche petrolifere riguarderanno «una superficie di 373,70 chilometri quadrati e in un’area dalla ricca biodiversità marina» e che «verranno utilizzate le tecniche più devastanti, come l’air gun, per le ricerche di idrocarburi». La Petroceltic Italia, prosegue, pagherà allo Stato italiano «la cifra di euro 5,16 per chilometro quadrato, per un totale di 1.928,292 euro l’anno».
Una cifra esigua che scatena l'ironia del sindaco delle Tremiti, Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, cosa vuole che le dica? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga». «Ho chiamato subito il presidente della Regione Puglia - riferisce il sindaco - mi chiedo: può un governo decidere senza tenere conto del parere delle Regioni, alcune delle quali hanno proposto i referendum contro le trivellazioni?. Noi siamo un piccolo comune, abbiamo fatto diverse manifestazioni, qui e a Peschici, Manfredonia, anche con il compianto Lucio Dalla. Tutto per fermare questa idea». Da parte sua il governatore della Puglia, Michele Emiliano, invita «le Regioni che hanno proposto il referendum a non fare passi indietro. Dovranno elevare subito conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato davanti alla Corte Costituzionale».
Ma non è solo nell'Adriatico che partiranno le ricerche. Altri permessi, secondo l’esponente dei Verdi, «sono in corso di autorizzazione» in un’area di 4.124 chilometri quadrati davanti all’isola di Pantelleria e nel golfo di Taranto, per estensione di 4.025 chilometri «a favore della Schlumberger Italiana». Sempre a Pantelleria, prosegue, «è stato sospeso un permesso all’Audax Energy, non revocato, in attesa di un idoneo impianto di perforazione».
Complessivamente, aggiunge Bonelli, «in Italia sono vigenti permessi di ricerca per idrocarburi per un totale di 36.462 chilometri quadrati». Di questi, 90 riguardano la terraferma, per 27.662,97 chilometri quadrati; le autorizzazione per i fondali marini sono 24, per 8.800 chilometri quadrati: «Si sta perforando - osserva - un territorio equivalente a quello di Lombardia e Campania messe insieme». Per Bonelli «l'Italia deve fermare le trivelle, non i referendum, valorizzare i suoi tesori ambientali, tutelare l'economia della pesca, dell’agricoltura e del turismo che sono messe a rischio dalle tecniche invasive e distruttive di perforazione».

La Repubblica

“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini

Bari. «Una vergogna e una follia». Il Governatore della Puglia, Michele Emiliano, giura che non ci sarà alcuna possibilità: «Il mare delle Tremiti non sarà trivellato. Caso contrario, scateneremo l’inferno».
Presidente, il decreto , firmato il 22 dicembre dal ministro Guidi, parla chiaro: con duemila euro all’anno, Petroceltic Italia può cominciare i lavori.
«Trovo questo atteggiamento del Governo irresponsabile con le regioni e con il popolo italiano. Da un lato mandano in Gazzetta ufficiale lo stop alle trivellazioni e dall’altro, poche ore prima, autorizzano nuove ricerche. Tra l’altro nei posti più belli d’Italia: le Tremiti, Pantelleria, il Golfo di Taranto. Non è possibile».
Che si fa quindi?
«Faccio appello al presidente Matteo Renzi affinché revochi immediatamente tutte le autorizzazioni. Tra l’altro, il Governo, tramite alti esponenti, aveva dato a tutti noi presidenti di Regione la propria parola che la questione era conclusa. Non può essere che la volontà di ben dieci Regioni di tutelare il loro mare sia sbeffeggiata. Non posso credere che l’emendamento “natalizio” sia stato soltanto un trucco per ammansirci e poi, comunque, trivellare ovunque come se niente fosse, una volta superata l’emergenza della reazione dell’opinione pubblica. Anche perché il diavolo fa le pentole e non i coperchi».
Che vuole dire?
«Che resta il fatto che almeno un quesito dei sei sarà sottoposto a referendum. E certo le Regioni non faranno alcun passo indietro. Anzi».
Anzi?
«Dovremo elevare subito un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per alcune norme dell’emendamento natalizio che hanno scippato al popolo italiano la possibilità di esprimersi in sede referendaria. Si dovrà inoltre iniziare subito la campagna referendaria valutando tutte le altre iniziative necessarie alla tutela del nostro mare».
Sarà un nuovo motivo di scontro tra lei e il governo del segretario del suo partito.
«Qui è in gioco la difesa della mia terra e della volontà popolare. Io credo molto nel referendum: è giusto che si dia alle nostre comunità la possibilità di decidere sulle ricerche di idrocarburi, che possono essere sì un’opportunità, ma anche una minaccia che rischia di rovinare il nostro mare, che è la principale risorsa e attrattiva turistica delle regioni del Sud. Noi siamo per ridurre queste ricerche, se possibile per azzerarle. Il Governo mi sembrava avesse un’altra posizione. Che aveva però rivisto con l’emendamento di dicembre. Ma evidentemente avevamo capito male. E io l’avevo intuito: era stato formulato e approvato senza neppure uno straccio di dichiarazione politica di pentimento da parte del Governo e della sua maggioranza. Poi ora scopriamo queste nuove autorizzazioni. Ecco perché serve un passo indietro subito. Altrimenti, sarà battaglia».

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata ...(continua a leggere)

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata dai capelli turchini. E, purtroppo, ogni medico ha una ricetta diversa e difende la sua con intemerata convinzione. L’ILVA è una fabbrica che produce una merce, l’acciaio, una lega di ferro e altri elementi, partendo da minerali nei quali il ferro è, in qualche forma, legato all’elemento ossigeno. Tutta l’operazione consiste nel “portare via” l’ossigeno (si chiama “riduzione”) degli ossidi di ferro del minerale e nel “liberare” ferro da adattare poi ai vari usi tecnici e commerciali. Ciò avviene usando come agente “riducente” il carbone; altrove l’acciaio viene prodotto con forni elettrici rifondendo il rottame. La produzione mondiale annua di acciaio ammonta a circa 1600 milioni di tonnellate; quella italiana a circa 25 milioni di tonnellate, circa la metà fabbricata a Taranto. Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.

Il carbone è il principale responsabile della crisi ambientale a causa delle sostanze nocive che si formano nei processi di trasformazione del carbone fossile in carbone coke, nell’agglomerazione del carbone coke con il minerale di ferro e con calcare e nella trasformazione, negli altiforni, col calore ottenuto anch’esso dal carbone, dell’agglomerato in ghisa. La ghisa viene poi trasformata, insieme al rottame, in acciaio nei convertitori mediante ossigeno.

Alcuni dei medici che cercano di risanare l’ILVA si sono chiesti se non sia possibile ottenere acciaio, di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con un processo, già sperimentato altrove, che usa il metano del gas naturale come agente riducente del minerale. Il metano è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti per “portare via” l’ossigeno dal minerale; si ottiene così un ferro preridotto che, trattato insieme a rottami, può essere trasformato nelle varie qualità e nei vari tipi di acciaio richiesti dal mercato. Il processo consentirebbe di liberare Taranto dalla schiavitù del carbone, comporterebbe un minore consumo di energia per tonnellata di acciaio prodotto e un minore inquinamento e sarebbe certamente molto più “verde” ed ecologicamente accettabile di quello attuale, anche se nessun processo è esente da polveri e fumi e scorie.

La produzione di acciaio col metano richiederebbe una radicale trasformazione dell’acciaieria, forse la localizzazione in un’altra zona vicina, e la soluzione di molti problemi tecnico-scientifici. L’economia e la termodinamica sembrano favorevoli e nel mondo già circa 75 milioni di tonnellate di acciaio sono prodotti ogni anno con ferro preridotto. Come tutte le transizioni tecnologiche la trasformazione dell’attuale acciaieria con l’introduzione del ciclo basato sul metano incontra decise opposizioni. Innanzitutto in coloro che dovrebbero affrontare nuovi investimenti finanziari. Contro l’acciaio al metano sono prevedili opposizioni da parte delle potenti organizzazioni dell’estrazione, del commercio e del trasporto del carbone. Nel mondo circa 1000 milioni di tonnellate di carbone ogni anno sono assorbite dalla siderurgia mondiale e gli ingenti profitti di queste attività verrebbero ridotti a favore dei produttori, esportatori e trasportatori del metano.

I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento; verrebbe così data una risposta alla giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”, e si avrebbero positive ricadute di occupazione nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione dei nuovi impianti.

Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma è ragionevole credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana e dell’acciaieria di Taranto possano passare da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò comunque auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro aspetti geopolitici: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità e dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in aumento.

La transizione potrebbe incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta magica. Si tratta di fare una attenta previsione e programmazione del ruolo dell’Italia nella produzione dell’acciaio identificando la richiesta futura, la qualità dell’acciaio richiesto e i settori di impiego, dall’edilizia alla meccanica, interni e internazionali. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto; una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale” preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle valutazioni finora fatte a disastri avvenuti. Comunque, a mio modesto parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, sta stimolando un dibattito e destando un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si muoia di meno di mali ambientali.


L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

il manifesto, 10 gennaio 2016

TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico

Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.

Il governo dopo il colpo di scure inferto prima di Natale, invece di «seppellire» definitivamente il progetto, ha prorogato di un anno la concessione alla multinazionale. Lasciando tutti interdetti, tutti tranne il coordinamento No Triv, che aveva messo in allerta riguardo ad eventuali tranelli. Nel frattempo la battaglia, che sembrava avviarsi a conclusione, prosegue a suon di carta bollata e ricorsi.
Attraverso emendamenti alla legge di Stabilità, il governo a fine 2015 ha ripristinato il limite di 12 miglia dalla costa per nuovi permessi di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare. E la Rockhopper, compagnia con interessi nel bacino delle Falkland e nel Mediterraneo, che sembrava aver incassato tutte le autorizzazioni per avviare la costruzione del contestatissimo impianto, in un’area di 271,25 chilometri quadrati, si è ritrovata improvvisamente bloccata. Così il 30 dicembre scorso si è rivolta alla magistratura, con un ricorso al Tar del Lazio contro il ministero - oltre che nei confronti della Regione Abruzzo, delle Province di Pescara e Chieti e dei comuni interessati dal progetto - , reo di «non aver ancora rilasciato la concessione di coltivazione del giacimento Ombrina mare», «in violazione» - viene fatto presente negli atti - di tutti i termini di legge e per essere «in contrasto col fondamentale principio del buon andamento dell’azione amministrativa».
Però scrive sul proprio sito, ai propri azionisti... «At the same time, Rockhopper has been granted a 12 month extension to the suspension of the Ombrina Mare exploration permit to 31 December 2016». Ossia... «Allo stesso tempo abbiamo ottenuto una proroga della concessione per 12 mesi...». Che significa? «Che per l’Abruzzo non è l’ora di cantare vittoria, io credo”» dichiara Maria Rita D’Orsogna. Prima si fa la legge e poi subito... l’inganno. «I provvedimenti pre festivi sono stati adottati per evitare il referendum? - chiede la ricercatrice - Era solo un’attesa in vista di elezioni future, e quindi inventiamoci uno standby? Era perché i prezzi del petrolio sono bassi e quindi meglio aspettare? C’è dell’altro? E chi lo sa. Sappiamo solo che c’è questo limbo di un anno. È una storia senza fine, in cui, come sempre, a perderci è forse l’unica cosa più importante dell’ambiente italiano, e cioè la democrazia».
Ma ripercorriamo le tappe di Ombrina. «Prima del 2010 - rammenta D’Orsogna - non esistevano fasce di rispetto in mare e infatti si poteva trivellare un po’ dove capitava. Pure a meno di due chilometri dalla riserva naturale di Punta Aderci, nel Vastese, come voleva fare la Petroceltic d’Irlanda. Questo mentre in California, per dirne una, la fascia di rispetto era di 100 chilometri da almeno trent’anni». Nel 2010 anche l’Italia vara la sua fascia di protezione, di 5 miglia, che diventano 12 in caso di aree protette. Ombrina pare defunta, perché a sei chilometri dal litorale. «Nel 2012 arrivano Corrado Passera e i suoi amici a inventarsi il barbatrucco della fascia di rispetto "non retroattiva": non si applica a concessioni esistenti, che poi sono quelle che coprono la stragrande maggioranza delle coste della Penisola». Ombrina resuscita.
Nel 2015 la fascia di rispetto viene ripristinata. «Ombrina muore di nuovo. Anzi, no. È solo in coma». «Non è da Paese normale - tuona la docente universitaria - fare una legge e cambiarla cosi radicalmente ogni due o tre anni. Con questi comportamenti non siamo di fronte a governanti che hanno a cura la Res publica, in modo pulito, chiaro. Abbiamo a che fare con una accozzaglia di decisioni confuse. Tornando ad Ombrina: perché mai aspettare ancora un altro anno? Sono otto anni che si va avanti. A rimpalli. E siamo ancora qui a discutere di un petrol-mostro che nessuno, da nessuna parte del mondo civile, metterebbe così vicino a riva». È evidente - sostiene invece il coordinamento No Ombrina - che la nuova norma ha stoppato il progetto, così come appare chiaro come non sia centrale la questione della sospensione del decorso temporale del permesso di ricerca (che comunque sarebbe scaduto tra anni anche senza la sospensione). «Prima eravamo noi a dover fare ricorso al Tar - dicono gli attivisti - Ora sono loro, in un sentiero molto stretto. Ovviamente interverremo ad opponendum per contrastare tutte le istanze dell’azienda e per evitare qualche scherzo da parte del ministero».

MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia

Licata. La piazza parla, canta e fa sentire il suo dissenso da Licata, periferia della periferia, in una regione abbandonata a se stessa. Quasi duemila donne e uomini di ogni età hanno partecipato alla manifestazione lanciata dal comitato No Triv di Licata. L’iniziativa è stata abbracciata da un’isola intera, stretta attorno a una comunità che prova con forza a dire no ad un progetto calato dall’alto e privo di ogni logica. Proponendo, per mezzo di un’autentica piattaforma politica, un piano di sviluppo diverso, che guardi al bene reale della collettività.
Le strade della cittadina siciliana hanno visto una buonissima cornice di pubblico: secondo le stime ufficiali il «fiume umano» annoverava più di millecinquecento persone, con una nutrita rappresentanza regionale. Il coro unanime del dissenso ha fatto da eco alle notizie provenienti da Roma: il governo infatti è stato bocciato dalla Cassazione sul capitolo referendario sulle trivellazioni, notizia resa nota proprio il giorno prima della manifestazione. Il quesito sulle operazioni di trivellazioni a mare potrà svolgersi, così hanno deciso i giudici. Ora la battaglia si sposterà sugli altri quesiti in materia di estrazione di idrocarburi.
La manifestazione di Licata ha fatto da cassa di risonanza a tutto quello che è accaduto, tante le voci che hanno voluto testimoniare questo dissenso collettivo. «Il problema delle trivellazioni andrebbe a toccare tre punti pericolosi per la collettività - osserva Fabio, portavoce e direttore del gruppo archeologico locale - anzitutto il danno all’ambiente e all'economia del pescato. Poi un danno di immagine turistico enorme, poiché queste operazioni di trivellazione allontanerebbero sensibilmente il turismo, come già successo per Gela. Infine il danno al potenziale archeologico: queste operazioni invasive andrebbero a ricadere su settori che quasi sicuramente celano resti di quella che fu la grande battaglia del Monte Ecnomo, del 264 a. C. tra Roma e Cartagine».
Rocco, attivista del comitato No Triv, tira le somme della manifestazione: «Le sensazioni sono state molto positive, oltre alla partecipazione dei pescatori è stata importante la presenza in piazza di alcuni pezzi delle istituzioni. Notevole l’intervento del vicesindaco di Noto, un comune da tempo in guerra per le trivellazioni, e di una consigliera comunale di Palermo, che ha letto il messaggio inviato da Leoluca Orlando con la sua solidarietà e vicinanza, sia come sindaco che come presidente dell’Anci siciliana. Assordante invece il silenzio dell’amministrazione locale, è mancato un intervento pubblico con un chiara presa di posizione». Parole precise, che si sposano con quelle di Andrea, attivista No Muos di Gela, città molto interessata da quello che sta accadendo: «Siamo venuti in buon numero dalla nostra città, perché l'intera comunità guarda con apprensione alle vicende del petrolchimico e alla sua paventata "riconversione ecologica".
Dalla fine del 2014 assistiamo ad un ricatto di Eni sulla riconversione e le eventuali trivellazioni. Sono venuti in piazza i dissidenti dell’amministrazione messinese (il sindaco Accorinti ndr), per manifestare la loro contrarietà ai progetti della giunta». Al coro si unisce Antonino, presidente dell’associazione A testa alta, da tempo impegnata nella lotta alle mafie: «È stata una manifestazione vissuta all’insegna dell’unità tra cittadini, associazioni, comitati e movimenti, provenienti da più parti della Sicilia e che, mossi da un obiettivo comune, hanno sfilato per la città in modo civile, rivendicando diritti e valori fondamentali come l’ambiente e la salute.
In una città come Licata dove, addirittura nel silenzio delle istituzioni, si è assistito in tempi recenti a devastanti operazioni speculative immobiliari e commerciali danneggiando il litorale cittadino, mascherate da investimento nel settore turistico e diportistico, quella di oggi è una giornata storica». Non poteva mancare la presenza degli studenti: «Bisogna lottare e combattere contro questo genere di opere - denuncia il liceale classico Davide - che devastano e stuprano il nostro territorio. Bisogna sensibilizzare tutti gli studenti, e tutti gli istituti scolastici della zona».
Riferimenti
Si veda su eddyburg di Cristiana Salvagni Trivelle in mare, stop del governo, Sulle battaglie dei no triv e sul progetto Ombrina numerosi articoli su eddyburg raggiungibili con il "cerca".

per promuovere il solito «sviluppo del territorio». La Repubblica 9 gennaio 2016, postilla (f.b.)

A volte ritornano. Pensavi che portare il mare a Milano fosse un sogno dimenticato. Che l’autostrada d’acqua fra la Madonnina e l’Adriatico fosse solo un disegno su antiche mappe. E invece. Sono ancora accese, in piazza Duca d’Aosta, le luci del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, anche se l’ente è stato soppresso (per non avere raggiunto gli obiettivi) già il 14 giugno del 2000, con decreto del ministro al Tesoro Vincenzo Visco. «Siamo rimasti in quattro, noi dipendenti. E poi ci sono i tre del consiglio di amministrazione, che debbono liquidare il patrimonio». Patrimonio ingente, perché del canale si inizia a discutere nel 1902 — presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli — e fino al 2000 l’ente è stato finanziato con circa 300 miliardi di lire. Sono stati preparati progetti, espropriati terreni e sono stati scavati anche 14 chilometri di canale (su 65), fra Cremona e Pizzighettone. Ma dal 1980 in poi nessuna ruspa è tornata in azione e il Tesoro, quasi 16 anni fa, ha detto basta così. Sembrava una pietra tombale.

Ma anche i canali possono risorgere. L’Aipo — Agenzia interregionale per il fiume Po — sei mesi fa ha infatti stanziato un milione di euro (per metà sono soldi della Commissione europea, che ha definito il canale opera prioritaria) per «valutare la fattibilità di un nuovo canale Milano-Cremona». «Si tratta — spiega l’ingegner Luigi Mille, dirigente Aipo per la Lombardia — di un tracciato meno costoso, perché usa in parte il canale Muzza. Il costo previsto è di 1,7 miliardi di euro, con sette conche e 60 metri di dislivello». Un percorso diverso, di 60 chilometri, ma l’obiettivo è sempre quello: congiungere la periferia sud di Milano a Pizzighettone, dove iniziano quei 14 chilometri di canale usato adesso solo da pescatori e canoisti. «Presenteremo il progetto nei prossimi mesi, all’assessore regionale Viviana Beccalossi e poi saranno le Regioni del Po ed il governo a decidere ».

Canale Muzza nel Lodigiano - Foto F. Bottini

È bastato però l’annuncio dello studio in atto per provocare proteste. «Mi sembra — dice Alessandro Rota, presidente della Coldiretti Milano Lodi — che la vicenda dello stretto di Messina sia stata trasportata al nord. Si discute del canale da più di cento anni e l’unico risultato è stato quello di buttare miliardi. Che merci potrebbe portare, questo canale?». Ufficialmente, il Consorzio nasce con la legge 1044 del 1941, sostituendo l’Azienda portuale di Milano del 1920. «In passato la nostra grande città aveva le acciaierie, la gomma, la chimica. Adesso ci sono solo terziario ed uffici, con la produzione delocalizzata in mezzo mondo. Con il canale si butterà ancora cemento sul terreno agricolo più fertile d’Italia».

Forse non tutti i milanesi ricordano che la fermata della metropolitana Porto di mare, accanto a Rogoredo, si chiama così perché in quella che nel 1920 era campagna doveva nascere il porto di accesso al canale. «Adesso invece dobbiamo partire una ventina di chilometri più a sud. Il porto di mare è un quartiere», raccontano al Consorzio Muzza di Lodi, incaricato di preparare la relazione tecnica per il progetto di fattibilità. Il nuovo percorso che sarà presentato «nei prossimi mesi» non è comunque un segreto: se n’è discusso in un convegno a Viadana e l’Unioncamere del Veneto l’ha messo in rete.

«Noi proponiamo — raccontano il direttore e il vice del Muzza, gli ingegneri Ettore Fanfani, Marco Chiesa e Giuseppe Meazza — di partire da Truccazzano, dove c’è una grande cava già piena d’acqua. Serviranno collegamenti con Brebemi, Linate, tangenziale esterna e grandi spazi per imprese di trasporto, industrie». Il canale Muzza verrà utilizzato ma solo in minima parte: 2,7 chilometri. «Ci sono problemi di corrente. Nel nostro canale di irrigazione la velocità è di un metro al secondo. In un canale di navigazione deve essere pari a zero». Il vecchio tracciato tagliava a metà Paullo. «Ora è impossibile passare di lì. Abbiamo scelto il parco a sinistra dell’Adda. Sappiamo già che ci saranno proteste».

I tecnici mettono le mani avanti. «L’Aipo ci ha affidato lo studio e noi lo prepariamo. Ma siamo come chirurghi. Apriamo il malato e vediamo cosa si può fare. Sappiamo però che i problemi sono davvero seri. Le infrastrutture non saranno cosa semplice. A sud di Lodi, ad esempio, bisognerà costruire un sovrappasso per scavalcare, in 500 metri, la linea Fs Milano-Bologna, il canale di regolazione e la via Emilia. Ancora più a sud bisognerà superare l’Adda con un altro ponte-canale. Da un punto di vista tecnico si può fare tutto. In Belgio queste strutture si costruiscono da decenni. Il progetto è ambizioso, vista anche la spesa, 1, 7-2 miliardi. Nel canale potranno passare navi di classe V Europa, lunghe 110 metri, larghe 11,40, con 2,50-2,80 di pescaggio e 2500-3000 tonnellate di carico. Ognuna potrebbe portare l’equivalente di 70 vagoni ferroviari o di 100 tir. Ma ci chiediamo: ci saranno le merci da trasportare? È giusto un investimento così importante? Per fortuna questo non è un problema nostro. Ci saranno economisti e altri tecnici a completare lo studio. Noi sappiamo comunque che c’è un altro grande handicap: l’acqua. Dove si prenderà quella che serve al canale? Adesso non basta nemmeno per l’irrigazione, lo sappiamo bene noi che serviamo 80mila ettari di pregiato territorio agrario». Corrono le folaghe e volano gli aironi, sul canale Muzza. Forse potranno stare tranquilli. A volte ritornano. Per fortuna non sempre.

postilla


Chiunque abbia seguito, su queste o altre pagine, lo svolgersi delle vicende infrastrutturali dell'area padana, dovrebbe aver chiaro come, a parte le classiche polemiche ambientali o di modalità, tracciato, insostenibilità finanziaria e via dicendo, la critica di fondo è quella di voler promuovere attraverso le reti stradali il famigerato «sviluppo del territorio». Che come ben sappiamo non ha nulla a che vedere con l'idea di sviluppo in quanto valorizzazione delle risorse ambientali e umane a scopo di progresso, ma solo assai più banalmente traduce in italiano uno solo dei significati dell'inglese
development: edilizia e opere di urbanizzazione. Questa strampalatissima riproposizione dell'antico progetto di canale navigabile, al netto sia delle evocazioni storiche, che delle false sognanti immagini di megalopoli delle acque (potrebbe anche evocare qualcosa del genere, se ben manovrata e farcita di rendering) si colloca esattamente dentro le stesse politiche del «fare e disfare è tutto un lavorare», anzi addirittura pone alcune precondizioni per nuovi svincoli, bretelle, collegamenti su gomma, poli di interscambio, identici e forse peggiori collocandosi in zone agricole di pregio, di quelli già visti con le inutili autostrade padane, a carico del contribuente e dell'ambiente locale. Diffidare, soprattutto quando spunteranno quei disegnini sui giornali compiacenti, magari con una specie di Darsena bis davanti ai terreni di Ligresti, che proprio per puro caso stanno lì vicino all'area detta Porto di Mare, e che importa se in realtà dovesse fermarsi a Truccazzano? Ci hanno già fatto la diramazione Bre.Be.Mi. lì vicino, basta un'altra bretellina e via ... ad libitum (f.b.)

La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)

Madrid. Si può mettere all’asta un bene così prezioso da essere stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità? Il caso della grotta di Altamira non è una replica dell’esilarante sketch di Totò che mette in vendita la fontana di Trevi, ma non è meno sorprendente. Convinto che non si stia facendo tutto il possibile per sfruttare al meglio dal punto di vista turistico questo gioiello dell’arte rupestre - la “cappella sistina del Paleolitico” come è stata ribattezzata - il governo regionale della Cantabria pensa alla distribuzione di “pass vip”, alla portata solo di appassionati milionari, che consentano di accedere alla grotta di Santillana del Mar nel rispetto dei rigidi limiti stabiliti dagli scienziati.

Dopo una chiusura lunga dodici anni decisa per studiare a fondo le conseguenze della presenza umana nel sito archeologico, Altamira è stata riaperta nel febbraio 2014 in via sperimentale solo per pochi: mentre prima si registrava un afflusso di massa, fino a 170mila persone l’anno, ora vengono ammessi cinque visitatori la settimana (accompagnati da due guide), estratti a sorte tra i turisti che passano per il vicino Museo di Altamira, dove sono esposte le copie dei celebri dipinti rupestri raffiguranti bisonti, cavalli e cervi.
Un metodo democratico ed egualitario in cui non c’è spazio per i pivilegi, che verrebbe spazzato via dalla eccentrica proposta dell’assessore al Turismo Francisco Martín. Intervistato dal quotidiano locale Diario Montañés, il politico sogna la straordinaria ripercussione planetaria che avrebbe, ad esempio sulle colonne del New York Times, la visita del tycoon più ricco del mondo, Bill Gates, che in più sarebbe disponibile a rimpinguare con un generso assegno le casse dell’amministrazione regionale. Dice Martín: «Quando vai a Singapore e chiedi cosa conoscono della Cantabria, ti rispondono il Banco Santander e la grotta di Altamira. E quando qualcuno ti dice che pagherebbe qualsiasi cifra pur di vedere i dipinti originali, gli devi rispondere: no, guardi, questo dipende solo da un sorteggio che si fa ogni venerdì mattina».
A Santander c’è chi giura che, dietro la sparata dell’assessore, ci sia lo zampino del presidente regionale (del suo stesso piccolo partito locale), il pittoresco Miguel Ángel Revilla, un “ambasciatore” della Cantabria così ansioso di pubblicizzare i prodotti regionali che, ogni volta che viene ricevuto alla Moncloa dal premier di turno, porta sempre in regalo una gustosa lattina di acciughe del posto. Il fatto è che, qualunque sia l’idea di Revilla e soci, i destini dell’antichissimo sito archeologico sono per fortuna in mano a un composito patronato del quale, oltre al governo regionale, fanno parte il ministero della Cultura, il municipio di Santillana, il Consiglio superiore per le investigazioni scientifiche, l’Unesco e istituzioni accademiche. Il patronato non si è ancora pronunciato ma, da Madrid, il segretario di Stato alla Cultura del governo uscente di Mariano Rajoy, José Maria Lassalle, ha già fatto sapere come la pensa: «La gestione di un bene della categoria e della protezione universale che ha Altamira non è comparabile con le aste proprie della tratta del bestiame», ha detto in un’intervista a Abc.
E anche all’interno della stessa amministrazione regionale si levano le prime voci contrarie, come quella dell’assessore alla Cultura, il socialista Ramón Ruiz, per il quale le installazioni di Altamira devono essere «il più possibile aperte a tutti». Più che vendere i biglietti al miglior offerente, dice, «bisogna democratizzare il museo». Ma il più polemico di tutti è José Ramón Blanco, il leader regionale di Podemos, il partito che con la sua astensione ha consentito l’insediamento del governo guidato da Revilla. La messa all’asta dei “pass vip” «instaura una categoria di disuguaglianza che è diametralmente opposta ai valori che il titolo di patrimonio dell’umanità concesso nel 1985 implica». Per Podemos il vero dibattito dev’essere quello tra gli scienziati, sull’opportunità o meno di tenere aperta la grotta, sia pure con un accesso limitato come avviene da due anni a questa parte. Altamira, aveva avvisato già un anno fa il direttore dell’équipe di esperti, il francese Gaël de Guichen, è «come un nonno malato». Si può curare o sottoporre a trattamenti palliativi, ma non è immortale.

«Dopo il terremoto del 2009 è ancora il cantiere più grande d’Italia, la ricostruzione prosegue ma la gente se ne va: un terzo delle case dopo il restauro finisce sul mercato. La borghesia è fuggita sulla costa.Il sindaco sogna i turisti ma il rischio è che visitino una Pompei del Duemila». Tomaso Montanari e Corrado Zunino, la Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)


COSÌ RISORGE LA CITTÀ DI PIETRA.
MA ÈUNA QUINTA SENZA POPOLO

di Tomaso Montanari

Finalmente all’Aquila si lavora davvero: grazie soprattutto alla pazienza e alla dedizione di Fabrizio Barca (fino al 2013 ministro per la coesione territoriale del Governo Monti, e vero artefice della ripartenza), a sei anni e mezzo dal terremoto la città è un grande cantiere.Un cantiere in cui non mancano, naturalmente, i problemi. La sezione aquilana di Italia Nostra fa giustamente notare che stiamo rischiando di perdere l’occasione per migliorare il tessuto edilizio: per esempio non eliminando i casermoni degli anni Sessanta e Settanta che sfigurano punti importanti della città storica, come le mura. Ed è anche vero che la ricostruzione del patrimonio architettonico non appare sempre condotta a regola d’arte (non c’è un convincente piano del colore delle facciate, tra l’altro).

Ma, insomma, finalmente l’Aquila inizia a risorgere. Quella di pietra, però. Perché il pericolo, ogni giorno più concreto, è che a risorgere sia una quinta monumentale, condannata a rimanere vuota. Da una parte si raccolgono i frutti della scellerata decisione dell’epoca Berlusconi-Bertolaso: quella di spezzare i nessi sociali dividendo gli aquilani in 19 cosiddette new towns, minando così alle fondamenta la speranza stessa di una rinascita della città. Dall’altra parte, ciò che è mancato, e che continua drammaticamente a mancare, è una attenta politica di sostegno a favore di chi decide di ritornare a vivere in centro. Il futuro dell’Aquila si gioca assai di più sul tempo che passa prima di ottenere l’allaccio del gas che non su quello della riapertura dei musei e delle chiese monumentali. È la mancanza di servizi pubblici, di negozi, delle condizioni elementari per la vita quotidiana a indurre gli aquilani a non tornare, o addirittura a tentare di vendere le loro case riconquistate.
«Quando senti gli anziani riporre nei giovani la speranza della ricostruzione di questa città, ancora paralizzata da una precarietà indefinita e spaventosa, puoi solo constatare che questi anziani non sanno quanto poco si parli del futuro dell’Aquila, tra i giovani dell’Aquila». Così ha detto una giovane aquilana al suo concittadino Valerio Valentini, giornalista e poeta che ha firmato su Internazionale un reportage intitolato: «l’Aquila paralizzata non crede più nel futuro». E questo è il punto: anche se moltissimi cittadini (come quelli che hanno dato vita all’associazione e al sito «Jemo ‘nnanzi») continuano a lottare per costruirlo, quel futuro.
Quasi tre anni fa l’Aquila ospitò la più grande riunione di storici dell’arte della storia repubblicana: al centro di quella manifestazione c’era la richiesta di una «ricostruzione civile». Perché proprio chi studia le pietre sa che quelle pietre non vivono senza la presenza capillare di un popolo. Il rischio, assai concreto, è che l’Aquila ricostruita diventi un grande guscio vuoto, una specie di quinta monumentale buona solo per un uso turistico, aperta ogni mattina da impiegati che risiedono invece in luoghi anonimi e alienanti.
In altre parole, il terremoto - e soprattutto la gestione del dopo-terremoto - possono trasformare l’Aquila in una sorta di laboratorio perverso dove viene accelerato quello svuotamento delle città storiche che in Venezia conosce il suo tragico traguardo, ma che ormai minaccia concretamente anche Firenze, per non parlare di feticci turistici come San Gimignano o Alberobello.
Se l’Aquila muore, a morire è la nostra stessa fiducia in un futuro sostenibile e umano per le nostre città storiche. È per questo che ora la sua ricostruzione non può più essere solo edilizia e ingegneristica: deve diventare sociale, civile. Politica, nel senso più pieno.

AAA VENDESI L'AQUILA
di Corrado Zunino

L’Aquila. Affittasi, vendesi, poi affittasi. Il panorama largo dell’Aquila post-terremoto è ancora assediato dalle gru, che svettano sul cantiere più grande d’Italia in questa giornata di pioggia fredda, e la notte s’illuminano per ricordare le Feste. Se si zooma sugli esterni dei palazzi ricostruiti, più spesso demoliti e ricostruiti dalle fondamenta, s’inquadra invece il cartello: “Affittansi studi professionali”. Segue cellulare. L’annuncio è sul cancello che si apre su un cortile a fianco della Basilica di San Bernardino. La locale società Cogepa ha abbattuto e rifatto in cemento armato due palazzetti. I vecchi residenti non ci sono più: la Cogepa, che acquistò nel 1990, ha rilocato alcune stanze a una banca, altre a una palestra.

Ancora “Affittasi- vendesi”. Il cartello della Belvedere Edilfulvi srl è appoggiato su un casale in pietra di via del Cembalo, centro storico, zona rossa dopo il sisma. Il circolo Acli del Cembalo, comprensivo di campo da bocce, è diventato un palazzetto con ottanta metri calpestabili e centoventi di solarium. «Ci siamo ampliati un po’», rivela Alfredo Fulvi. Sotto terra ha ricavato un garage per dieci auto a cento metri dal Duomo: «Chi acquista compra anche un reddito assicurato». Il costruttore ha speso 600mila euro terreno compreso: ha demolito e ricostruito e ora messo sul mercato. «Non è certo una speculazione».
Tecnocasa, affiliato, propone in vendita. Studio Elide in locazione. Locale commerciale - 350 mq - intero o frazionato si vende nella prima periferia, viale Nicolò Persichetti. E così a Preturo, a Bazzano: cartelli sui balconi e le ringhiere. Dopo il 6 aprile 2009 quasi tutto ha cambiato destinazione d’uso nell’Aquila vecchia e nelle sue 64 frazioni: sedi di cori polifonici, associazioni di alpini, pizzerie. La geografia sociale è cambiata in una notte. La periferia, con 5 miliardi spesi sulla ricostruzione privata e 300 milioni sul pubblico, è recuperata al 95 per cento. Per un terzo è già in vendita. In questi mesi si stanno riconsegnando locali e palazzi in centro storico. Nella Banca Unicredit di corso Vittorio Emanuele hanno allargato il mercatino della Befana. Attorno alla chiesa di Santa Maria Paganica, che ha ancora il tetto sventrato, sono rientrati lo storico notaio e il vecchio penalista e nel Palazzo Antinori ha aperto un’enoteca. “Baci e abbacchi” sei anni dopo è raccomandato da TripAdvisor.
Case crepate, puntellate, aperte - tutte, ma proprio tutte il 6 aprile hanno avuto almeno una lesione - e poi d’improvviso le strade attorno alla Villa comunale tornano a grondar cartelli: “Vendonsi”. Sì, se ne è andata la borghesia dall’Aquila, come ricorda il sindaco Massimo Cialente. Al Bar del Corso sono addolorati per la partenza del medico del palazzo: ha riaperto uno studio a Pescara.
Spiega il costruttore Fulvi, quello del solarium sui resti della bocciofila Acli: «Ci sono zone dell’Aquila che hanno ripreso un po’ di vita, alcuni negozi sono tornati nei palazzi a piano terra, ma ci sono tante case in vendita. Si può fare qualche affare». Molti qui avevano investito nell’immobiliare: tutte le famiglie possedevano la seconda casa, qualcuna la terza, la quarta. Molti dopo il terremoto si sono spostati sulla costa adriatica, nei paesi vicini, Coppito e Pizzoli, qualcuno anche a Roma. E hanno venduto la casa in più. Per dare una mano a chi in famiglia aveva perso il lavoro, chiuso un’attività commerciale, una piccola fabbrica d’artigianato.
Nella modernità L’Aquila ha vissuto di affitti, di impieghi d’ufficio, di rendita. Non c’è industria qui, solo un po’ di farmaceutico. Non esiste turismo. Le diciannove New towns del Progetto case con undicimila ospitati, le duemila casette di legno dei villaggi Map, la possibilità di lasciare l’appartamento instabile del centro storico per uno di pari valore “in qualsiasi comune d’Italia” (ne hanno usufruito in seicento). Oggi, sì, il surplus è diventato un’offerta drogata di immobili nuovi: ci sono più case che persone all’Aquila e il mercato è crollato.
Il titolare della Belvedere srl, l’ingegnere Francesco Laurini: «La ristrutturazione con il totale finanziamento di Stato ha riguardato in maniera indiscriminata ogni immobile, fosse stato costruito nei Sessanta o nel 2008. Il finanziamento è arrivato anche a chi non aveva l’abitabilità e oggi tre appartamenti ogni dieci sono sul mercato e ogni appartamento ha subito un deprezzamento del trenta per cento». Prima del 6 aprile le case migliori entro le mura trecentesche valevano 5.000 euro a metro quadrato, oggi 3.000 euro.
La grande paura della bolla immobiliare precede quella dello spopolamento, l’addio all’Aquila da parte di chi - sei anni più vecchio - ha elaborato il lutto, incrostato l’emozione e poi si è accorto che qui non c’è futuro. La disoccupazione è al 27 per cento, vecchi e bambini compresi: significa che un aquilano su due in età da lavoro non ha lavoro. Le residenze parametrate con l’ultimo censimento dicono che sono partite tremila persone, millecinquecento sono rientrate. Si sono riempiti i paesi intorno, ma questa stagione è decisiva per capire se L’Aquila diventerà la nuova Pompei con i tour operator a mostrare case rifatte a regola d’arte senza fornelli accesi in cucina.
Giustino Parisse, caporedattore della redazione locale del Centro che nella vicina Onna ha perso due figli e il padre, dice: «Alcune persone si sono già spostate tre volte. Non tutti hanno la forza, l’età e la motivazione per restare o per tornare. Rispetto ai giorni migliori ci sono diecimila studenti universitari in meno, duemila iscrizioni in meno nelle scuole, ottocento solo al classico. Alla mono-economia dell’affitto non è subentrato altro. Il 2019, anno in cui la città dovrebbe essere pronta, appare lontano. Questi sono i mesi più difficili e l’esodo va fermato oggi ». C’è l’insegnante che manifestava con le carriole e ora ha riparato, delusa, nella capitale. Chi, con una residenza fittizia e i soldi di Stato, ha comprato casa al figlio nelle Marche.
Il sindaco Cialente, anche lui stanco, chiede ancora due anni di aiuti per sopravvivere. Dice: «Era una tradizione. Chi andava in pensione prendeva la liquidazione, acquistava un appartamento, si pagava una parte del mutuo con gli affitti degli studenti e quando il figlio si sposava gli passava la casa. Ora pochi credono nel rilancio. L’università, l’industria tecnologica, il turismo. Tutto da fondare o rifondare mentre lo tsunami della crisi economica ha finito quello che il terremoto aveva iniziato. Ho 270 milioni in mano, li sto investendo sul lavoro. Oggi non abbiamo neppure lavoro nero: non ci sono gli uffici da pulire, i negozi sono diventati più piccoli, quattrocento commessi sono stati spazzati via. Due anni ancora e salviamo L’Aquila. Chiedo ai miei di resistere: non svendete appartamenti che oggi nessuno ha i soldi per comprare. Saremo una città modello. Attrarremo i ragazzi con la scuola internazionale e per la prima volta gli intellettuali».

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