Corriere della Sera, 24 gennaio 2016
Le pagine di eddyburg, che per primo ha pubblicato la lettera, sono aperte al dibattito: eddyburg@tin.it
Italia Nostra in profonda crisi, generazionale e identitaria. Tutto è partito dalla lettera di dimissioni dal Consiglio nazionale presentata da Tomaso Montanari, giovane critico e storico dell’arte: «L’attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato una frattura con l’ispirazione più autentica dell’associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente». Montanari accusa il vertice nazionale (non le sezioni locali) e il presidente Marco Parini, eletto nel settembre 2012, di aver capovolto la scala di valori: «La “valorizzazione” è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito». Con la conseguenza, sostiene Montanari, di un «crescente interesse» di Italia Nostra per la gestione dei beni che rischierebbe di trasformarla «in una sbiadita fotocopia del Fai».
Desideria Pasolini dall’Onda e Nicola Caracciolo di Castagneto, presidenti onorari eletti all’unanimità, hanno chiesto a Parini di «adoperarsi perché il Direttivo dell’associazione respinga le dimissioni di Montanari, una delle figure più marcanti di una nuova generazione di ambienta-listi. Perderlo sarebbe un errore». Una dura lettera di sostegno a Montanari (firmata da Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Rita Paris) chiede le dimissioni del presidente e della dirigenza accusati «di equiparare la pubblica tutela alla privata valorizzazione». Solidarietà a Montanari dalle sezioni di Tivoli, Ferrara, Caserta, Vasto, Forlì. Anche la consigliera nazionale Maria Pia Guermandi sta riflettendo su possibili dimissioni.
Invece protesta il presidente della sezione di Firenze, il professor Leonardo Rombai: «Supina accettazione delle parole d’ordine del potere? Non mi riconosco affatto in questa accusa ingenerosa, e non si riconosceranno i nostri iscritti. Siamo in tanti a batterci per il nostro patrimonio». Ma è soprattutto Parini a replicare, con una missiva ai due presidenti onorari. Il presidente rivendica «una linea programmatica in continuità con il triennio precedente, l’incremento delle azioni giudiziarie anche penali, un confronto senza sconti con le istituzioni, per esempio la prima iniziativa contro il decreto sblocca Italia e le battaglie sul paesaggio e contro l’eolico selvaggio». Ma Parini ribatte soprattutto all’accusa di voler privilegiare la gestione-valorizzazione dei beni citando l’articolo 1 dello statuto del 1955 («concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico e naturale della Nazione») e l’articolo 3 («promuovere l’acquisto di edifici o proprietà in genere, di valore storico artistico, o assicurarne la tutela ed eventualmente anche la gestione»). Ricorda il successo di iniziative ormai radicate nel tempo «come il Boscoincittà, il museo nel Porto Vecchio di Trieste, il parco gestito dalla sezione di Reggio Calabria, il museo all’Isola di Caprera, la recente concessione dell’Eremo di Santo Spirito in Abruzzo».
Parini contesta a Montanari il voler rifiutare ciò che Italia Nostra fa da quarant’anni. Così come rispedisce al mittente l’obiezione sulla correttezza del principio per cui il meccanismo del volontariato può generare posti di lavoro nell’indotto (così come avviene, va detto per inciso e per completezza, in Gran Bretagna proprio grazie al National Trust).
Parini ritiene dunque concluso l’incidente: dopo le irrevocabili dimissioni di Montanari, scrive Parini, «il Direttivo nazionale del 16 gennaio ha preso atto e ha invitato l’architetto Luigi De Falco, che ha accettato, a subentrargli». La storia, c’è da giurarci, non finirà qui.
Dove le pietre e il popolo sopravvissuti raccontano (per quanto ancora?) storie antiche dove segregazione e integrazione, repressione e convivenza, potere e pubblica utilità s'intrecciano. La Repubblica, 24 gennaio 2016
UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell’isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.
Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.
Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “ Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la “ Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di promissione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l’idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.
In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.
Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un castello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’isolotto “per garantirne la sicurezza”.
Detto e fatto; Le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.
Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano.
C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.
« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.
A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.
La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.
«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.
«Dopo gli arresti per il Mose, nel 2014, tutto si è fermato: ne fanno le spese gli abitanti della laguna. Tutti i dati nel report della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: area senza "cintura di sicurezza", "varchi" nei terreni fanno passare il percolato inquinante». Il manifesto, 24 gennaio 2016
Oltre un miliardo di euro: è la rigenerazione, ancora incompiuta, di Portomarghera. L’emblema dell’inquinamento criminale della laguna, ma soprattutto il simbolo di un sistema che metabolizza risorse a senso unico e paralizza Venezia.
Le bonifiche si sono impantanate fra eredità del Consorzio Venezia Nuova, intoppi istituzionali o burocratici, opere cruciali inesistenti, controlli a vuoto e contabilità infinita. Sintetizza Gianfranco Bettin, ex assessore all’ambiente ora presidente della municipalità di Marghera: «Purtroppo da giugno 2014, quando scoppiò lo scandalo Mose con i primi arresti, tutto si è fermato. E non si è pensato nemmeno di trovare tecnici preparati, come Giovanni Artico arrestato ma poi assolto con formula piena. Ora è più che mai necessaria un’azione di Comune e Regione per far uscire dallo stato di paralisi in cui si trova il processo di risanamento ambientale e di rigenerazione economica e occupazionale di Porto Marghera. Altrimenti non si avranno argomenti per far investire, come Eni sulla chimica verde».
L’istantanea spietata quanto inquietante è contenuta nelle 54 pagine della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. In sostanza, la maxi-operazione di risanamento ambientale effettuata a Portomarghera diventa inutile senza la “barriera protettiva” con palancolati e marginamenti delle macroisole. I terreni inquinati necessitano di una “cintura di sicurezza” per proteggere la laguna, ma l’anello della bonifica è infarcito di «buchi». Proprio dove spuntano le tubature di Edison, Syndial, Sapio-Crion o l’oleodotto e l’impianto antincendio della Ies di Mantova. Segmenti dai 20 agli 80 metri quadri tuttora non censiti in funzione dell’ultima fase di lavori.
“Varchi” che mettono a repentaglio quanto già realizzato, perché non bloccano il percolato con sostanze come arsenico, mercurio, nichel. È il “colabrodo” lungo i 50 chilometri di palancole metalliche, conficcate fino a 22 metri di profondità: l’indispensabile isolamento di Portomarghera per trasferire gli inquinanti fino al depuratore di Fusina.
Nicola Pellicani, di fatto il portavoce del centrosinistra in consiglio comunale, sottolinea: «Ho appena presentato una mozione al sindaco Brugnaro per convocare in tempi rapidi un tavolo di confronto. Partendo dal definitivo marginamento di tutta l’area industriale. Sono già stati spesi 781 milioni. Per la conclusione mancano circa 3,5 km di rifacimento sponde, pari al 6%: un investimento di altri 256 milioni. Se non sarà completato, sarà tutto inutile».
Finanziamenti che spettano al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (100 milioni), Regione (80 milioni) e dell’Autorità portuale di Venezia (altri 70). Ma c’è da controllare bene il capitolo delle spese. A cominciare dai collaudi che potrebbero lievitare fino a due milioni, per di più un’uscita senza senso: «rappresentano un mero sperpero di danaro pubblico» sentenzia la commissione parlamentare d’inchiesta.
Tutti collaudi cantiere per cantiere: perfettamente inefficaci «se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». Ma rappresentano ghiotti benefit per i dirigenti regionali Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali dello stesso ministero come Mauro Luciani, dirigenti del Magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex del ministero dell’Ambiente (Ester Renella) e membri della Commissione Via (Monteforte Specchi Guido e Fernanda D’Alcontres Stagno).
Del resto, anche gli appalti della maxi-bonifica meriterebbero più attenzione. Il Provveditorato interregionale, come conferma il dossier della commissione parlamentare, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione da parte del Consorzio dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».
Dunque, il “sistema Cvn” continua a funzionare come prima. Il deus ex machina del Mose Giovanni Mazzacurati è a San Diego; il “doge” Galan e l’ex assessore Chisso sono alle prese con la magistratura; l’ex ministro Clini tace da mesi travolto da un altro faldone giudiziario; Piergiorgio Baita è stato sostituito alla Mantovani Spa dall’ex questore Carmine Damiano; il “giro” di Legacoop ha rimodulato le referenze nel Pd. Tuttavia, in laguna la lobby delle grandi e piccole opere pubbliche sembra inossidabile grazie all’omesso controllo di legalità, che non riguarda solo la Procura della Repubblica…
Arduo consolarsi con gli annunci sull’iter dei 23 progetti che valgono 153 milioni in base all’accordo di programma sottoscritto l’8 gennaio 2015 da Mise, Regione, Comune e Porto. Quest’anno dovrebbe scattare la bonifica dell’area Syndial (107 ettari), almeno così promette l’assessore regionale Roberto Marcato: «Si sta procedendo con la appena costituita società Mei Spa partecipata al 50% da Regione e Comune, entrambi attraverso società in house. Il rogito è datato 11 dicembre 2015 e la prima attività sarà la stesura — indicativamente nel prossimo quadrimestre — del business plan che indichi i termini finanziari e procedurali della manovra. A ruota, dovrà ottenere la volturazione dei decreti ministeriali di approvazione delle attività di bonifica (intestati a Sindyal): c’è di mezzo il ministero dell’Ambiente. Auspicalmente nella seconda metà del 2016, Mei Spa potrà iniziare ad attivare le operazione di bonifica e recupero funzionale delle aree».
corrieredelveneto.corriere.it
FONDACO, LA GALLERIA DEI VIAGGIATORI
Venezia. I lavori devono ancora finire ma la data d’apertura è già stata fissata, il primo ottobre aprirà il «T Fondaco dei tedeschi», dove T sta per traveller, viaggiatore. Ieri sera, all’hotel Danieli, Dfs, la società del retail di Louis Vuitton Moet Hennessy, ha presentato come sarà arredato il Fondaco a una platea di imprenditori, rappresentanti delle categorie e autorità tra cui il sindaco e il prefetto. I restauri sono infatti a buon punto e Edizioni Property, l’immobiliare del gruppo Benetton, proprietaria dell’edificio, sta consegnandolo proprio in queste giorni ai futuri gestori. «È il primo grande magazzino Dfs in Italia - ha spiegato Eléonore de Boysson - e vogliamo replicare l’esperienza del Danieli, da palazzo a hotel d’eccellenza». Dfs ha promesso di diventare il custode del fontego, «ringraziamo i veneziani d’avercelo permesso - ha precisato Philippe Schaus, presidente di Dfs - avremo prodotti italiani, internazionali e veneziani, sarà la destinazione migliore per lo shopping di lusso, un luogo pieno di vita con prodotti locali, grandi marchi ed eventi culturali». Ora che le vecchie casse delle poste sono sparite e sono stati smantellati i magazzini e i divisori delle poste, l’edificio, al momento chiuso, ha cambiato volto.
Le arcate che circondano la corte centrale sono state ripulite, le scale mobili e gli ascensori sono stati costruiti ma, ha garantito Dfs, in uno spazio non immediatamente visibile all’ingresso del fondaco. «Oma ha eseguito un lavoro incredibile - ha detto l’architetto Jamie Fobert, incaricato di allestire il grande magazzino - ha restituito una nuova vita all’immobile, la copertura del tetto è stata smontata, pulita e restaurata e ora è al suo posto, solo posizionata più in alto così da permettere di stare in piedi». Qui ci sarà l’altana che nei piani originali dell’archistar Rem Koolhass, progettista dei restauri, doveva essere una terrazza. Sotto, l’auditorium per gli eventi culturali. Ieri sera, Dfs non è entrata nel merito delle attività che organizzerà nè dei prodotti in vendita, Fobert ha illustrato il percorso che l’ha portato a creare arredi unici per la «T» galleria. «Dfs non voleva pezzi di designer newyorkesi o londinesi - ha detto - e allora mi sono ispirato alla storia cittadina e al design novecentesco italiano, a Carlo Scarpa».
Il mobilio non sarà un «pasticcio alla veneziana » e non si vedranno gondole o altri simboli noti in tutto il mondo della città. Le bacheche espositive degli orologi sono state forgiate dallo strumento con cui si creano appunto gli orologi. Le grate tipiche di Venezia sono invece diventate lo spunto per decorare espositori e mobilio. Il pavimento originale come anche gli elementi che rimandano alla storia del fontego (ad esempio, i giochi scavati sulla pietra dai vecchi mercanti) sono stati tutti mantenuti e recuperati, solo nell’ex sala del telegrafo, dove a terra c’era una colata di cemento, l’architetto ha introdotto una pavimentazione nuova. «Mi sono ispirato all’acqua e ai suoi movimenti per creare un mosaico che richiamasse i colori di Venezia», ha aggiunto. Il fondaco, al suo interno, non avrà colori sgargianti ma tonalità calde in sintonia con la tradizione della Serenissima. «Stiamo scrivendo una nuova pagina della storia del fontego», ha concluso Meneghesso. Gloria Bertasi
Nuovavenezia.gelocal.it
IL COMUNE SI VENDE ANCHE PALAZZO CONTARINI
Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016
Venezia. Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016 e che ha allegato anche al bilancio di previsione 2016, con un valore orientativo del «pacchetto» di circa 31 milioni di euro.
Tra di essi c’è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, che - come Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, poi venduti - interessava alla Cassa Depositi e Prestiti, che però si è poi ritirata dalla trattativa per la metratura ritenuta non sufficiente.
Il Comune ha infatti comunque deciso di metterlo di nuovo in vendita, spostando in altre sedi gli uffici comunali legati alle politiche sociali che l’edificio attualmente ospita.
In vendita anche Palazzo Corner Contarini, attuale sede della Corte d’Appello.
Caro Direttore, le primarie sono uno straordinario strumento di partecipazione e di democrazia. Io stesso vi ho preso parte per ben due volte: nel 2009 contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, per la carica di segretario del Pd, e nel 2013, quando venni scelto come candidato sindaco di Roma, staccando di quasi 30 punti David Sassoli e di 40 Paolo Gentiloni. A quelle consultazioni, avvenute meno di tre anni fa, parteciparono più di 100 mila romani, che mi scelsero con oltre il 55% dei voti. Immediatamente dopo mi dimisi da senatore per correre senza alcun paracadute.
La lettera di dimissioni di Tomaso Montanari da Italia nostra: una lunga e argomentata accusa al gruppo dirigente:«Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige». Con una nostra premessa.
Ricordiamo ai nostri lettori che la prestigiosa associazione protezionista, nata nel 1955 per iniziativa di autorevoli personaggi della più illuminata intellettualità italiana (quali Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani) e le sue sezioni sparse su tutto il territorio nazionale ha tenacemente lavorato per 60 anni per la difesa del patrimonio culturale e per la diffusione di una cultura di massa volta alla tutela della bellezza dei nostri territori.
Memorabili battaglie combattute in ogni regione e grandi campagne nazionali hanno contribuito a salvare decine di luoghi di straordinaria qualità archeologica, artistica, storica, ambientale. È stata la prima associazione proto-ambientalista a comprendere che le pietre e i paesaggi, le biblioteche e i musei non si salvano senza l’attivo impegno del maggior numero di persone, e che la pianificazione urbanistica è uno strumento essenziale per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.
Per tutti i governi e i parlamenti Italia Nostra è stata uno stimolo e una sentinella: pronti a collaborare con i membri dell’esecutivo e del legislativo, quando governi e parlamenti esprimevano interessi coerenti con quelli dell’associazione, tempestivi nel criticare con severità e rigore ogni volta che gli atti del governo o del parlamento minacciavano i valori e i principi dell’associazione.
Secondo Tomaso Montanari – noto ai frequentatori di questo sito e a un pubblico molto più vasto per i suoi numerosi scritti in difesa della bellezza, della memoria e della democrazia – la dirigenza dell’associazione, e in particolare l’attuale presidente Marco Parini – avrebbero radicalmente rovesciato il pluridecennale atteggiamento politico- culturale di Italia Nostra. Mentre numerose sezioni proseguono la loro azione di vigilanza, critica e proposta nella scia del comportamento di sempre – il livello nazionale, mentre tace sulle più gravi lesioni alla tutela del territorio operate dal governo Renzi e dal suo parlamento, arriva al punto di avallare talune delle scelte più nefaste, come quella di indebolire gli organi statali di studio, vigilanza e governo dei beni culturali, di procedere nella strada criminosa delle privatizzazioni e così via. Ma è il caso di dare la parola direttamente a Montanari, cui speriamo seguirà un ampio dibattito, di cui cercheremo di dar conto puntualmente.
Dopo l’allineamento dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica) agli indirizzi di politica della città e del territorio peculiari all’ideologia e alla prassi del renzismo e ben rappresentati da Maurizio Lupi ed Ermete Realacci, il cambiamento di fronte di Italia nostra sarebbe una perdita gravissima. È necessario invertire la rotta. Ciò è possibile solo attraverso un dibattito trasparente e aperto, al quale partecipino in primo luogo i soci e le sezioni dell’associazione. Cercheremo di darne conto nel migliore modo possibile (e.s.)
La lettera di Tomaso Montanari
è con grande tristezza che vi scrivo per comunicarvi che mi sono appena, irrevocabilmente, dimesso dal Consiglio Nazionale dell'Associazione.
Ho accettato di candidarmi rispondendo all'appello di alcuni amici – tra i quali voglio nominare solo Giovanni Losavio, indimenticato presidente –, profondamente preoccupati per la frattura che l'attuale dirigenza nazionale ha deliberatamente provocato con l'ispirazione più autentica dell'Associazione, quella di Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna, Giorgio Bassani. Questa frattura è, in effetti, innegabile: mentre moltissime delle sezioni conservano intatto quello spirito, e lottano quotidianamente perché siano attuati i valori dell'articolo 9 della Costituzione, Italia Nostra nazionale è caduta in un letargo profondo. Non c'è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c'è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d'ordine del potere vigente.
Ho sempre pensato che il faro dell'Associazione dovesse essere una celebre frase del suo presidente Giorgio Bassani, per cui Italia Nostra opera perché un giorno non ci sia più bisogno di Italia Nostra. Quando ho citato questa bussola, mi è stato risposto che si tratta di un programma superato, anzi sbagliato. Italia Nostra è diventata, da un mezzo, un fine: soprattutto per chi la dirige.
Sono fermamente convinto che tra l'attuale dirigenza e i padri fondatori c'è la stessa distanza che separa Matteo Renzi da Alcide De Gasperi, o Maria Elena Boschi da Piero Calamandrei. Parlare, o carteggiare, con i membri della Giunta Esecutiva equivale a farlo con il ministro Franceschini: la 'valorizzazione' è messa sullo stesso piano della tutela; il privato su quello del pubblico; il volontariato su quello del lavoro, e via di seguito. Questa mutazione della scala valoriale e il crescente interesse di Italia Nostra per la gestione diretta del patrimonio culturale (con tutte le servitù politiche e gli interessi che ciò comporta) mostrano che l'Associazione si avvia a diventare una fotocopia (peraltro sbiadita e subalterna) del Fai.
Nella feroce battaglia che infuria intorno al progetto costituzionale sul patrimonio – una battaglia che ho provato a descrivere in alcuni miei libri, come Le pietre e il popolo e Privati del patrimonio – Italia Nostra si trova spesso a combattere da quella che io giudico la parte sbagliata del fronte. Il rifiuto di ricorrere contro la ricostruzione illegale e abusiva di Città della Scienza a Bagnoli è forse il più terribilmente concreto tra i segni di quella che io giudico una gravissima involuzione.
Sapevo tutto questo prima di entrare nel Consiglio Nazionale: ed è anzi proprio per tentare di cambiare questo stato di cose che ho accettato di candidarmi.
Quello che non conoscevo è il punto a cui è arrivata la determinazione della maggioranza del Consiglio ad avanzare in questa direzione. Ogni tentativo di proporre un'agenda valoriale diversa viene respinto in base ad un unico, brutale argomento: la forza dei numeri in consiglio – quasi si volesse scimmiotare la retorica muscolare della maggioranza 'che tira diritto', drammaticamente invalsa in Parlamento. Questa radicale indisponibilità ad ogni correzione di rotta si accompagna ad un dibattito di qualità intellettuale e culturale oggettivamente infima, e ad una violenza verbale sorprendentemente alta. Credo che sia meglio non entrare in dettaglio, ma se qualcuno fosse interessato a comprendere su cosa si fondi un giudizio così netto, sono disponibile a far conoscere il ricco carteggio di insulti da me ricevuto in questi mesi.
In queste deprecabili e deprimenti condizioni la mia presenza nel Consiglio Nazionale di Italia Nostra non ha alcuna prospettiva utile. Continuo invece a credere nel lavoro splendido di molte sezioni, e spero che anche queste mie dimissioni possano spingere i soci – e non solo le centinaia che mi hanno votato, e che ringrazio – a condurre finalmente una battaglia che riallinei la dirigenza nazionale ai valori sani di quelle stesse sezioni.
Queste precoci, e assai sofferte, dimissioni si devono al fatto che una simile battaglia non ha, nell'attuale consiglio nazionale, alcuna prospettiva di successo. Ammiro gli amici che scelgono di rimanere, per dare testimonianza e svolgere una indispensabile funzione di controllo. E so che chi prenderà il mio posto in Consiglio avrà occhi e voce perfettamente adeguati. Ma credo che ora sia, invece, mio dovere non sottrarre ulteriori energie alla battaglia per il patrimonio culturale e per la sua funzione costituzionale.
Continuerò ad appoggiare in ogni modo il lavoro delle sezioni che operano secondo il cuore antico, e attualissimo, di Italia Nostra.
Questo inverno, ne sono sicuro, passerà: viva Italia Nostra!
«Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. La prima parte del discorso è certamente vera». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 21 gennaio 2016
Come altro definire, se non mobbing, l'incomprensibile decisione di tornare – dopo pochi mesi – a riformare radicalmente la struttura centrale e periferica del Ministero, negando e sovvertendo i capisaldi della precedente riforma e gettando nello sconforto e nell'avvilimento le donne e gli uomini che difendono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione?
A questo giro si sopprimono – con l'assenso inquietante e vergognoso del Consiglio Superiore dei Beni culturali – le soprintendenze archeologiche e la direzione centrale per l'archeologia, e si passa a soprintendenze uniche. Olistiche, come ama chiamarle qualche ciarliero cialtrone.
Intendiamoci: le soprintendenze uniche potevano avere un senso. Ma dovevano essere un obiettivo fin dall'inizio: non un aggiustamento maldestro fatto in corso d'opera e a costo zero. Si dovevano accompagnare a direzioni generali divise per funzione, e dovevano essere guidate a rotazione da funzionari dalla diversa competenza, e non affidate agli evanescenti ectoplasmi interdisciplinari che ora si vagheggiano, e che rischiano di essere i leggendari managers del patrimonio. Senza contare il vero e proprio caos che questa riforma della riforma provoca mescolando le competenze di soprintendenze, poli museali, segretariati regionali...
Una delle vere ragioni di questa imbarazzante contorsione è recuperare posti dirigenziali per creare altri dieci musei e siti archeologici autonomi. Carne da valorizzazione, da rimettere presto a bando internazionale: per avere altri dieci fedeli terminali del potere politico. Con quali conseguenze? C'è, per esempio, da scommettere che vedremo presto l'Appia Antica consegnata armi e bagagli ad Autostrade.
Si riesce ad intravedere un fine più generale, in tutto questo caos? Le premesse delle bozze dei decreti dicono ufficialmente che tutto ciò servirebbe a evitare le conseguenze del silenzio assenso: che non è una pestilenza o un terremoto, ma una norma introdotta dallo stesso governo Renzi. A voce, poi, Franceschini dice che è un modo di arginare i danni della sottomissione delle soprintendenze alle prefetture: che è un'altra mostruosa disposizione della Legge Madia.
Che, invece, il fine sia quello di portare a termine la distruzione dell'apparato della tutela lo dimostra il fatto che ora passano agli istituti della valorizzazione (i musei autonomi) anche gli immobili in cui essi hanno sede: e pazienza se li condividono con le soprintendenze (si veda ad esempio il caso di Villa Giulia a Roma, dove convivono soprintendenza e museo). E non basta: si impone anche "il trasferimento [ai musei] di uffici, archivi, biblioteche, laboratori, spazi espositivi e depositi dei relativi musei e luoghi della cultura", fingendo di non sapere che tali strutture sono (erano) comuni a Soprintendenze e musei prima della riforma. E la Soprintendenza senza laboratori, biblioteche ed archivi, come lavora? Non lavora: et hoc erat in votis.
Non basta ancora. Si dispone anche che "con riguardo ai musei, alle aree e ai parchi archeologici, la consegna dei reperti presenti nei depositi e non ancora inventariati può essere differita a non oltre il 31 dicembre 2016, al fine di completare l'inventariazione; decorso tale termine, i beni sono trasferiti ai musei dotati di autonomia speciale o ai poli museali regionali e la relativa attività di inventariazione è svolta da detti istituti in cooperazione con le Soprintendenze competenti". Chi ha scritto questa norma davvero non è mai entrato in una soprintendenza o in un museo, e non ne ha mai visto le condizioni. Chi potrà mai inventariare e studiare entro il 31 dicembre 2016 le migliaia di cassette di materiali rinvenienti da scavo? E con quali risorse? E questi materiali a cosa servono nei musei? Il loro studio e la loro conoscenza servono alle soprintendenze per capire il territorio e costruire le carte del rischio archeologico. O meglio: servivano...
Sta di fatto che per ritrovare una paragonabile contrazione della tutela si deve tornare alla legge del 1923, che istituiva soprintendenze uniche: un assetto che dette pessimi risultati, e che fu radicalmente rivisto contestualmente alla legge del 1939. Per trovare, invece, la sottomissione dei soprintendenti ai prefetti bisogna risalire al 1860: cioè al caos immediatamente successivo all'Unità, poi velocemente superato perché fatale per la tutela.
In privato, Dario Franceschini dice che Matteo Renzi sta facendo l'impossibile per distruggere le soprintendenze e la tutela, e che lui invece fa il possibile per resistere, e per salvare le une e l'altra. Sembra ormai irrilevante capire se la seconda parte del discorso sia vera. La prima certamente lo è: perché è proprio questo il fine del mobbing, licenziare per sempre la tutela del nostro patrimonio culturale.
La Repubblica, 120gennaio 2016
Un nuovo scossone agita le acque dei Beni culturali. Pochi mesi dopo una complessa riorganizzazione di soprintendenze e musei, ecco che le prime vengono ulteriormente accorpate, inglobando, insieme al paesaggio e alle belle arti, l’archeologia, mentre altri dieci luoghi del nostro patrimonio diventano autonomi e per loro sono in arrivo direttori selezionati con bando internazionale, come avvenne per gli Uffizi o Capodimonte nell’agosto scorso.
La decisione maturava da qualche tempo, ma per molti dentro il ministero è stato un colpo a sorpresa. Quando infatti si decise di unificare paesaggio e belle arti in un’unica soprintendenza, nell’estate del 2014, al ministero sottolinearono che l’archeologia restava autonoma per le specifiche competenze che comportava la tutela delle antichità. Ora però Dario Franceschini sottolinea la continuità con le scelte di allora, scelte che hanno prodotto già un faticoso adattamento degli uffici. Per il ministro, le nuove soprintendenze servono a «rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione». In Italia ci saranno dunque 39 soprintendenze (erano 17 le sole archeologiche), più le due speciali di Roma e Pompei. E tutte si occuperanno di tutto. Ogni soprintendenza verrà articolata in sette aree funzionali (archeologia, belle arti, architettura, demoetnoantropologia, paesaggio, educazione e ricerca, organizzazione e funzionamento). Verrà abolita anche la Direzione generale delle Antichità. Il ministro insiste sul fatto che le nuove strutture «parleranno con voce unica a cittadini e imprese, riducendo tempi e costi burocratici». Il pensiero di Franceschini sembra andare alle conferenze di servizio e alle altre occasioni in cui si autorizzano opere anche di pesante impatto su territori e paesaggi. Ma il timore del fronte ambientalista è che si voglia abbassare ulteriormente la soglia della tutela.
L’altra parte del provvedimento riguarda quattro aree archeologiche (l’Appia Antica, i Campi Flegrei, Ercolano e Ostia Antica) e poi il complesso monumentale della Pilotta a Parma (con la Biblioteca Palatina, la Galleria Nazionale e il museo archeologico), i musei dell’Eur a Roma (Pigorini, Arti e tradizioni popolari e Alto Medioevo), e, sempre a Roma, il Museo Nazionale Romano, il Museo di Villa Giulia, Villa Adria a e Villa d’Este a Tivoli e il Castello di Miramare a Trieste. Dieci pezzi pregiati del nostro patrimonio che si pensa, con l’autonomia e direttori scelti in seguito a un bando pubblico, di valorizzare meglio. Che cosa questo significhi, ad esempio, per l’Appia Antica lo si capirà quando il provvedimento del ministero sarà disponibile: è un territorio vastissimo, 3.500 ettari, al quale si accede senza biglietto, con monumenti splendidi (da Villa dei Quintili alla Tomba di Cecilia Metella), ma quasi integralmente di proprietà privata, con gravi fenomeni di abusivismo e dove, finora, la soprintendenza archeologica ha faticosamente operato un’efficacissima tutela. Alla stessa soprintendenza romana vengono sottratti il Museo Nazionale, che comprende Palazzo Massimo, le Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps e Crypta Balbi, e gli scavi di Ostia Antica, la cui tutela passa a una delle tre soprintendenze del Lazio. Uno spacchettamento. Diventa autonoma anche Ercolano, che si separa da Pompei rompendo l’unitarietà dell’area archeologica vesuviana.
Una prima vittoria contro un grave danno ambientale che è insieme deturpazione del patrimonio comune, omaggio a uno "sviluppo" insensato e violazione dei diritti dei poteri locali. Articoli di Serena Giannico ed Enzo Di Salvatore. Il manifesto, 20 gennaio 2016
LA CONSULTA: «SÌ AL REFERENDUM ANTI TRIVELLE»
di Serena Giannico
«No Ombrina. Via libera al quesito già ammesso dalla Cassazione sulla durata del permesso ai petrolieri. Esultano le nove regioni e le 200 associazioni del fronte No Triv. Battuto il governo che voleva impedire la consultazione. Gli ambientalisti chiedono di fermare le perforazioni fino ad un nuovo Piano energetico nazionale»
Si farà il referendum antitrivelle: esultano 9 Regioni e oltre 200 associazioni di tutta la Penisola. La Corte Costituzionale, infatti, ha dato l’ok all’unico dei quesiti referendari, contro gli idrocarburi, ammesso dalla Cassazione lo scorso 8 gennaio. I giudici hanno deciso, in poco più di tre ore, sulla richiesta di sottoporre alla valutazione popolare il sesto quesito, «quello sul mare».
«I cittadini – spiega in una nota il coordinamento nazionale “No Triv“saranno chiamati a esprimersi per evitare che i permessi già accordati entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la “durata della vita utile del giacimento”. Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile accordare permessi di ricerca o sfruttamento. La sentenza della Consulta dimostra come le modifiche apportate dal Governo con la Legge di stabilità – aggiungono — non soddisfacevano i quesiti referendari e, anzi, rappresentavano sostanzialmente un tentativo di elusione».
Tre dei sei quesiti depositati il 30 settembre 2015 sono stati recepiti dalla legge di stabilità, emendata: il parlamento ha modificato le norme su strategicità, indefferibilità ed urgenza delle attività petrolifere, che erano poco garantiste sulla partecipazione dei territori alle scelte. Un altro quesito è stato ora ammesso dalla Corte Costituzionale, mentre sugli ultimi due è stato promosso, da sei Regioni, un conflitto d’attribuzione tra poteri di fronte alla Consulta e nei confronti dell’Ufficio centrale della Cassazione.
I due quesiti riguardano la durata dei permessi e il Piano delle aree che – spiegano i No Triv — obbliga lo Stato e i territori a definire quali siano le zone in cui è possibile avviare progetti di trivellazione. «Si tratta di uno strumento di concertazione che risulta essere fondame ntale soprattutto se con la riforma del titolo V si accentra il potere in materia energetica nelle mani dello Stato». «Sappiamo ora che su uno dei quesiti centrali ci sarà il referendum, a meno che governo e parlamento intervengano sulla materia», afferma l’avvocato Stelio Mangiameli che ha rappresentato i Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise di fronte alla Consulta. All’ultimo momento, invece, ha battuto in ritirata l’Abruzzo che, con un voltafaccia del presidente della Regione Luciano D’Alfonso (Pd), si è infine schierato contro il referendum e a fianco del governo.
«Le norme precedenti — prosegue il legale — prevedevano, per i titoli già concessi, proroghe di 30 anni, aumentabili di altri 10 e altri 5. Le modifiche introdotte con la legge di Stabilità eliminano la scadenza trentennale e fanno sì che in sostanza non ci sia più un termine. Su questo punto ci sarà il referendum».
«Il fronte referendario è sul 4–2 nella disputa con il premier — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, docente all’università di Teramo, colui che ha materialmente scritto i quesiti -. Il governo voleva far saltare il referendum, visto che i sondaggi davano la vittoria antitrivelle al 67%».
«Il presidente Renzi dev’essere contento perché quando il popolo irrompe sulla scena della democrazia, chi è iscritto al Partito democratico dev’essere contento per definizione»: così il governatore della Puglia, Michele Emiliano -. «Per festeggiare il risultato – dichiara — organizzerei un corteo con le automobili. Qui la campagna per il voto comincia subito». E non risparmia di commentare l’abbandono da parte dell’Abruzzo: «È come quando uno si vende la schedina prima della partita, e poi si ritrova col tredici. Lo dico con affetto nei confronti del mio amico Luciano D’Alfonso, che avrebbe potuto gioire con noi». «Non c’è uno Stato centrale che ama l’Italia e un territorio che la odia. L’interesse strategico di un Paese, con lealtà e trasparenza lo si costituisce insieme. E questo è un passo importante», gli fa eco il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza (Pd).
«Questa sentenza ci dà lo spunto per rilanciare richieste chiare al governo: rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa (a cominciare da “Ombrina”) e una moratoria di tutte le attività di trivellazione off shore e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale»: così Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e Wwf accolgono il giudizio della Consulta. «Pur di assecondare le lobby dei petrolieri, l’esecutivo Renzi – attaccano — aveva promosso forzature inaccettabili, come la classificazione delle trivellazioni come “opere strategiche”, dunque imposte. La Corte Costituzionale rimette al giudizio dei cittadini quei meccanismi legislativi truffaldini con cui si è aggirato sino ad oggi un divieto altrimenti chiaro, lasciando campo libero ai signori del greggio fin sotto le spiagge».
UNA PRIMA VITTORIA.
DA BISSARE
di Enzo Di Salvatore
La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sulle trivellazioni entro le 12 miglia marine, in relazione alla durata dei titoli minerari, come disposta dalla legge di stabilità 2016. Con l’entrata in vigore di quella legge, infatti, l’articolo 6 — precisamente al comma 17 — del Codice dell’ambiente è stato modificato: i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione sono fatti salvi per tutta la durata di vita utile del giacimento. E questo vuol dire che non hanno scadenza certa. Con un duplice effetto: la possibilità di estrarre senza limite temporale; la possibilità che i permessi già rilasciati restino vigenti oltre la durata già fissata dal provvedimento amministrativo. Evidentemente nella speranza che prima o poi la normativa sul divieto entro le 12 miglia marine cambi.
Nonostante le obiezioni mosse dal governo, e sebbene la sentenza non sia stata ancora depositata, la Corte costituzionale avrà certamente ritenuto che una durata «sine die» dei titoli minerari contraddicesse uno degli obiettivi dei promotori, posto già a base di un altro quesito referendario: quello di contenere la durata di tutti i titoli, attraverso il divieto di rilasciare proroghe oltre i sei anni per la ricerca e oltre i trenta anni per l’estrazione. Ma questo solleva ora un problema ulteriore, giacché la Cassazione ha dichiarato chiuse le operazioni referendarie per tutti gli altri quesiti e, dunque, anche per quello sulle proroghe dei permessi e delle concessioni.
È una contraddizione in termini: a seguito delle modifiche del parlamento, infatti, il contenimento della durata dei titoli riguarderà solo i nuovi «titoli concessori unici», ma non anche i permessi e le concessioni, che potranno beneficiare di proroghe ulteriori.
D’altra parte, insoddisfatta resta anche la richiesta referendaria sul piano delle aree; e ciò perché il quesito proposto dalle Regioni presupponeva necessariamente il mantenimento del piano. Ma la legge di stabilità ha abrogato il piano. Questo vuol dire che è sparita la norma sulla quale far votare i cittadini. Per questa ragione, venerdì prossimo nove regioni (eccezion fatta per l’Abruzzo) promuoveranno dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione, allo scopo di recuperare sia il quesito sulle proroghe sia quello sul piano delle aree.
Rispetto a questo scenario, il governo ha davanti a sé due strade: consentire che si vada a referendum (sul quesito sul mare ed eventualmente su quelli relativi alle proroghe e al piano delle aree, qualora il conflitto di attribuzione si risolva positivamente) oppure modificare nel senso voluto dalle Regioni la normativa oggetto di referendum.
Firenze centro storico: un primo passo, finalmente, nella direzione giusta, oppure l'ennesimo tweet truffapopolo? Lo vedremo dai successivi passi necessari, tutti elencati nell'articolo. La Repubblica, 19 gennaio 2016
Il principio che ne sta alla base trascende di molto il peso del provvedimento stesso. Perché si ha il coraggio di dire che il mercato non è il regolatore ultimo della qualità delle nostre vite: si ha la forza di mettere in discussione il dogma della concorrenza come fine, e si torna a parlare di regole.
Ora, perché questo passo non resti isolato e perché tutto questo non si riduca ad una maramaldesca esibizione di forza contro i deboli (questi esercizi commerciali sono infatti per lo più tenuti da immigrati), bisogna che lo stesso principio sia applicato verso l’alto. Non solo a Firenze, l’espulsione dei residenti dal centro storico è infatti assai più legata alla “gentrificazione dall’alto”, cioè alla disneyficazione: i palazzi pubblici (improvvidamente svenduti dal comune) che si trasformano in alberghi di lusso, la proliferazione di vendite di costosi prodotti tipici al posto dei negozi di quartiere, l’assenza di sostegni alla produzione culturale, l’indisponibilità verso ogni gestione dal basso dei beni comuni, la contrazione dello spazio pubblico. Se Nardella e gli altri sindaci saranno capaci di imporre anche contro interessi ben altrimenti forti la stessa linea — quella per cui il mercato non può dire l’ultima parola — allora le cose cambieranno sul serio.
In una delle nostre più antiche costituzioni — il Costituto di Siena, del 1309 — si legge che i governanti devono «preoccuparsi della belleza della città, perché dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini». Questo è il punto: attrarre un turismo di qualità è un obiettivo fondamentale, ma non si può perseguirlo senza costruire la felicità dei cittadini, e non solo di quelli ricchi.
È la lezione di una lunga storia in cui bellezza è stata sinonimo di giustizia: una lezione ancora carica di futuro.
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. Il Fatto quotidiano, blog di Manlio Lilli, 18 gennaio 2016
“Ca’ Corner della Regina, costruito tra il 1723 e il 1728 da Domenico Rossi per conto della famiglia dei Corner di San Cassiano, è un palazzo veneziano situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande. Dal 2011 diventa la sede veneziana della Fondazione Prada che ha presentato finora in questi spazi cinque mostre di ricerca, in concomitanza con il restauro conservativo del palazzo che si sta attuando in più fasi”.
“Il restauro conservativo di Ca’ Corner della Regina, promosso dalla Fondazione Prada dalla fine del 2010 in linea con le direttive della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e della Laguna, si sta attuando in più fasi. La prima, conclusasi nel maggio 2011, ha previsto interventi di messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, il rilievo di tutte le parti impiantistiche incoerenti, la manutenzione dei serramenti lignei, l’eliminazione delle partizioni non originarie e il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi. Per quanto riguarda gli apparati decorativi, sono stati messi in sicurezza affreschi, stucchi e materiali lapidei che ornano il portego e le otto sale del primo piano nobile del palazzo. Questi lavori consentono nel giugno 2011 l’apertura al pubblico del piano terra, del primo e secondo mezzanino e del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina”.
Evviva, verrebbe da dire. La lente del pregiudizio ha viziato la lettura iniziale. Venezia acquista uno spazio per l’arte internazionale. Ed è così. Ma accanto alle sale attraversate dai visitatori, ci devono essere anche parti “riservate”. Insomma appartamenti. E’ stabilito nel contratto. Per questo rimangono a lungo in sospeso 8 dei 40 milioni di euro. Miuccia Prada deve avere certezza di poter riposare nel palazzo che dal 1975 al 2010 è stato sede dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. La Direzione Generale dei Beni Culturali si oppone alla destinazione residenziale ritenendola incompatibile con le caratteristiche storiche del Palazzo e con il mantenimento di un suo uso pubblico. E’ così fino a ottobre 2015.
Prosegue la soprintendente Codello
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. A Ca’ Corner, dove si sperimenta da anni l’alienazione del patrimonio pubblico, il nuovo modello-Italia sembra giunto al suo epilogo. Finalmente, svelandosi in maniera completa. Dopo alcuni tentativi falliti. Lo Stato è un moribondo da sostituire e non da affiancare. Quindi spazio ai nuovi mecenati. Poco importa se esigono un appartamento nel palazzo restaurato. I nuovi Signori sono loro.
Alcuni spunti emersi dalle discussioni di studiosi professionisti cittadini, su un tema strategico che probabilmente è rimasto piuttosto sottotono rispetto alla sua importanza nell'ultima amministrazione, vuoi per consapevoli scelte tattiche, vuoi per sottovalutazione
Il giorno 16 gennaio 2016, l’Associazione Architectural & Urban Forum (*) ha inviato una lista di 10 domande ai candidati alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano (Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala), per meglio conoscere i rispettivi programmi, con riferimento a temi urbanistici e territoriali cruciali per la città.
«Campidoglio. Fassina: se c'è il senatore pronto a ritirarmi. Ma a casa dem è scontro ruvido. Il commissario: chi vuole si presenti alle primarie» Nel PD non sono tutti uguali: chissà perchè resistono. Il manifesto, 17 gennaio 2016
Ieri Walter Tocci, invocatissimo senatore dissenziente ed ex assessore a Roma, da tempo candidato del cuore di una parte della sinistra capitolina ben oltre il Pd, sul suo blog ha rilanciato la proposta di «una lista civica di centrosinistra», mettendo «da parte il simbolo di partito», «non una rinuncia, ma un investimento per la riscossa». Per Tocci in questi giorni «si ripete il vecchio copione. Il Pd romano si ripresenta alle elezioni senza un programma credibile. Affida alle primarie il compito improprio di sciogliere i nodi politici. Seleziona i candidati nel recinto di partito, sempre più angusto. Sono gli stessi errori del 2013. È sconcertante ripeterli oggi». Tocci chiede un congresso prima del voto e giudica esaurita la funzione del commissario del Pd romano Matteo Orfini. «Sarebbe il momento di tentare soluzioni nuove, di immaginare scenari inediti, di alzare lo sguardo intorno a noi. Ci vorrebbero umiltà e coraggio».
Ma il senatore chiarisce una volta per tutte che non si candiderà: «La mia candidatura non è mai esistita, è un’invenzione del chiacchiericcio politico-giornalistico». La sua proposta piacerebbe a sinistra, innanzitutto a chi non si rassegna alla morte del centrosinistra. Piace persino a Stefano Fassina che da sempre, pur bocciando in blocco il Pd romano, fa un’eccezione per il compagno di tante battaglie. Fassina, che per oggi ha organizzato un incontro in ogni municipio della capitale, in questi giorni ha dovuto difendersi dall’accusa di voler rompere la coalizione ’a prescindere’. Ieri, con un tweet, ha mostrato di aprire uno spiraglio: «Se il Pd Roma raccogliesse la proposta di Tocci per lista civica di centrosinistra, pronto a ridiscutere tutto».
Ma la schiarita è durata poco, appunto, lo spazio di un tweet. Al quale a stretto giro il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha risposto con un no secco alla lista civica. «Il Pd è orgoglioso del suo simbolo. Soprattutto a Roma dove dopo un anno di rigenerazione c’è un Pd diverso da quello che non si accorgeva di mafia capitale. Con quel simbolo ci presenteremo alle elezioni». La decisione è presa, l’aveva anticipata anche il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Le primarie saranno il luogo delle scelte che, come sempre, spetteranno ai nostri elettori e non ai caminetti. Se qualcuno vuole misurare opzioni e proposte differenti si candidi alle primarie e si confronti con loro», chiude il commissario. Che con l’occasione, per ribadire il concetto non solo a Tocci ma anche a Sinistra italiana, ingaggia un ruvido scambio di tweet con Vendola e i suoi che dall’assemblea di Sel lo accusano di aver rotto il centrosinistra: «Dunque caro @NichiVendola, tu puoi scegliere nel chiuso di una stanza un candidato, mentre uno che si candida alle primarie divide?». La rispostaccia arriva dal giovane Marco Furfaro: «Parlò quello che nel chiuso di una stanza decise di dimissionare dal notaio il sindaco eletto dai cittadini romani».
La fine del 2015 oltre a darci uno dei periodi più lunghi degli ultimi anni con il superamento dei livelli di norma per le polveri sottili, ci ha anche lasciato lo psicodramma politico generato dalla vicenda della ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma per la riqualificazione degli scali ferroviari. Risultato che, come noto, non è stato successivamente conseguito.
In questo psicodramma la discussione sullo specifico in realtà ha avuto poco spazio e con questa affermazione non parliamo dei numeri, dei mq. edificabili, delle compensazioni o altro ma piuttosto di una esplicita discussione sugli obiettivi strategici, il senso e merito, le ragioni del “patto di utilità collettiva” tra i diversi contraenti. Il passaggio in Consiglio comunale non avrebbe dovuto avere anche queste finalità?
La maggior parte dello spazio è stato invece consumato in un dibattito condizionato da logiche politiciste con la finalità di addossare colpe a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, ne avrebbe favorito il fallimento. Il mantra ossessivamente veicolato, obbediente a una logica secondo noi mal impostata, recitava che quello in approvazione rappresentava “il miglior accordo possibile”. Qualità che si sostanziava nella riduzione dei volumi edificabili e nel miglioramento delle contropartite per la pubblica amministrazione, complessivamente intese, rispetto alla precedente versione dello stesso Accordo proposto dalle giunte di centro-destra.
Forse per valutare e qualificare meglio questa affermazione sarebbe opportuno rimettere in ordine i fattori di questa scelta e capire di che cosa stiamo parlando anche per stimolare coloro che nell’amministrazione comunale dovranno riprendere in mano la questione. Anche in ragione di una dialettica più laica e meno legata alle utilità e alle contingenze del momento.
Esigenze di sintesi ci obbligano a dare per conosciuti gli aspetti di contenuto di questo Accordo, richiamando il fatto che le funzioni prevalenti individuate coincidono con insediamenti residenziali, comprese quote di edilizia sociale, verde e urbano e connessioni viabilistiche e ciclabili (i contenuti di dettaglio sono comunque qui consultabili).
A Milano gli scali ferroviari costituiscono uno stock di circa 1.250.000 mq di aree molto diverse tra loro per collocazione, dimensione, qualità del contesto urbano nel quale si inseriscono; sono però accomunate da una medesima caratteristica: essere posizionate sulla e nei nodi della rete del trasporto pubblico su ferro, di livello nazionale, metropolitano e urbano.
Una caratteristica eccezionale che assegna quindi a queste aree un valore strategico per qualsiasi ipotesi di riassetto dell’area metropolitana. Ancorché attualmente in condizioni di dismissione e di degrado, esse rappresentano aree privilegiate e da privilegiare in funzione di qualunque ipotesi di disegno che voglia reinterpretare le relazioni e le dinamiche che attualmente qualificano il livelli di qualità del sistema, rendendola attrattiva e competitiva sia dal punto di vista urbanistico-territoriale che da quello dello sviluppo economico, del riequilibrio ambientale o delle modalità che condizionano gli spostamenti e la mobilità di circa 1.300.000 abitanti residenti e quasi 3.000.000 di city users.
Se c’è accordo sul riconoscimento di queste caratteristiche e sulle relative potenzialità, riavviare il processo di riqualificazione di queste aree dovrebbe comportare la necessità di riflettere su alcune questioni e domande preliminari. Proviamo ad elencarne alcune, anche se in forma non esaustiva, che non vogliono essere per nulla retoriche ma che hanno la funzione di mettere a fuoco alcuni aspetti che riteniamo essere stati fino a ora considerati in modo non sufficientemente approfondito.
1 Per le caratteristiche cha abbiamo richiamato, queste aree rappresentano “per definizione” dei nodi di rilevanza metropolitana. È quindi lecito – utile – opportuno mettere in gioco queste aree e chiudere la porta a qualsiasi altra opzione, senza un preventivo confronto con le esigenze dell’area metropolitana nel momento in cui la stessa Città Metropolitana sta elaborando il proprio Piano Strategico?
2 Qual è il disegno o la strategia urbana supportato dalla messa in gioco di queste aree (pregiatissime) e la relativa destinazione funzionale?
3 Preliminarmente all’Accordo, non sarebbe opportuno esprimere un progetto a cui legare il “Patto di utilità collettiva” fra i diversi contraenti, esplicitandone le ragioni e gli obiettivi? Ovvero, la cessione di tali quantità di rendita urbana si giustifica nelle funzione insediate con un adeguato ritorno utile alla collettività e alla istituzione metropolitana e comunale?
4 Milano ha un serio problema nel PGT ereditato che, anche se debolmente emendato, conserva una impostazione orientata soprattutto allo sviluppo edilizio e alla valorizzazione immobiliare, senza una visione strategica, con un approccio poco aperto alla dimensione metropolitana e che non ha integrato sistema urbano e bisogni di mobilità. È opportuno dar luogo alle trasformazioni sugli scali senza sintonizzare lo strumento urbanistico con una idea di città di medio-lungo periodo che assuma obiettivi diversi come ad esempio ipotesi di riequilibrio ambientale che si reggano su una radicale trasformazione della mobilità dell’intera Città Metropolitana?
5 Qual è il senso di trattare in modo indifferenziato dal punto di vista del mix funzionale, delle densità e dei parametri urbanistici, aree che hanno dimensioni e morfologie tanto diverse e che dovrebbero dialogare con contesti urbani così disomogenei? Quali sono le economie urbane e gli effetti di rigenerazione che si intendono promuovere?
6 L‘esperienza della riqualificazione delle aree Expo ha evidenziato che il ricorso alla sola valorizzazione immobiliare di un’area con dimensioni rilevanti, seppur strategica e con elevati livelli accessibilità, costituisce un approccio fallimentare se non connessa a una idea e a un progetto molto caratterizzato e di largo respiro. Tant’è che dopo che il “mercato” ha bocciato questo approccio, si è deciso di cambiare rotta. Perché riprodurre quindi un analogo modello di intervento?
Quest’ultimo tema, relativo alla valorizzazione immobiliare, evidenzia un’altra questione di grande impatto in relazione alla attuale proprietà delle aree e ai relativi aspetti di negoziazione dei limiti degli interventi. Come noto, la disponibilità di queste aree è stata ottenuta a suo tempo in relazione alla necessità di esercitare un servizio di interesse pubblico e collettivo, quindi non con procedure negoziali e di mercato ma mediante acquisizione per pubblica utilità (con uno sforzo collettivo quindi), in uno scenario che non prevedeva la successiva privatizzazione dei gestori di questo patrimonio che oggi mirano principalmente alla valorizzazione immobiliare dei siti.
Questo non è un tema esclusivamente milanese ma coinvolge una questione di livello nazionale che interessa in prevalenza i maggiori centri urbani e capoluoghi del Paese. L’anomalia e la difficoltà di gestire da parte delle singole Amministrazioni comunali un rapporto oggettivamente asimmetrico con un soggetto oggi “non formalmente pubblico” che gestisce un patrimonio acquisito con risorse collettive, dovrebbe essere quantomeno oggetto di attenzione a livello nazionale, anche per riequilibrare le rispettive capacità di negoziazione nei confronti di un effettivo interesse pubblico e non essere appiattita sulle esigenze di “fare cassa” e slegata da una effettiva costruzione sociale.
Perché allora non promuovere un’interlocuzione con il Governo nazionale che veda Milano e la sua Città Metropolitana aggregare intorno alla questione l’ANCI e alcune delle più importanti città del Paese, per riequilibrare questa asimmetria e conseguire maggiori gradi di libertà e di potere contrattuale nel definire le proprie strategie e politiche urbane?
Riferimenti
Qui il collegamento alla pagina del comune dove sono scaricabili i documenti
Sullo stesso argomento: su arcipelagomilano.org, le opinioni di Luca Beltrami Gadola, Sergio Brenna, Giorgio Goggi, Giuseppe Longhi.
«Non direi che una minaccia è più forte dell’altra. Io vedo una perfetta integrazione tra i due problemi: il cambiamento climatico rafforza il terrorismo e il terrorismo rafforza il cambiamento climatico. Serve una risposta capace di agire su entrambi i fronti». Pascal Acot, storico del clima, commenta le conclusioni del Global Risks Report, stilato da esperti e leader del World Economic Forum, da Parigi, città che nell’arco di un mese è stata vittima del terrorismo e regista del nuovo accordo sul clima.
La prima parte di un lavoro su Pisa che si propone di seguire i tre passi indispensabili per cambiare le cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Che significa anche sbugiardare i bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 11 gennaio 2016
Le aree utilizzabili nel mondo per la produzione di cibo (senza necessità di sistemazioni idrauliche e altre sistemazioni agrarie, e senza irrigazione) coprono circa l’11% delle terre emerse, e sono le stesse che vengono scelte per costruzioni e infrastrutture: così oggi produzione di cibo e consumo di suolo sono in diretta concorrenza, a scapito della produzione di cibo. In particolare nel nostro Paese, che non è in grado di garantire la sicurezza alimentare: siamo in grado di produrre cibo solo per circa l’80% della popolazione italiana e, secondo il Sustainable Europe Research Institute, l’Italia è il 3° paese in Europa e il 5° nel mondo per deficit di suolo agricolo.
A fronte di questi inequivocabili dati, oggi a qualunque livello di governo, si proclama la necessità di fermare il consumo di suolo e bloccare le previsioni di nuove costruzioni. Certo, fatte salve le “dovute, necessarie eccezioni”. Di fatto, i processi economici che spingono ad investire sul mattone e che sono strettamente connessi ad un’economia finanziaria basata sulla rendita, non solo non si sono arrestati, ma in qualche modo si sono esacerbati. Perché, per “rimettere in moto l’economia” si ricorre di fatto ad ulteriore consumo di suolo, in contrasto con i proclami fatti. Quindi, data la gravità del fenomeno, è necessario porsi una domanda: quando si parla di “dovute, necessarie eccezioni” allo stop al consumo di suolo, cosa si sta davvero dicendo?
Pisa: un caso esemplare?
A Pisa abbiamo cercato di capirlo, aggiornando al 2015 i dati della campagna “Riutilizziamo Pisa”che fu condotta per la prima volta nel 2012. La mappa che identifica le aree abbandonate e gli immobili censiti è disponibile a questo link: https://goo.gl/Ws2qIv
Abbiamo trovato dati inquietanti e abbiamo sviluppato degli indici di valutazione i cui risultati non solo non restituiscono l’immagine di una pretestuosa rinascita della città, sbandierata ad ogni possibile occasione dall’amministrazione comunale, ma sono al contrario la prova che Pisa è schiacciata dal peso della speculazione e degli interessi privati. Le politiche del cemento e del consumo di territorio da un lato, e dell’abbandono di decine e decine di edifici pubblici e privati dall’altro, sono andati avanti, diventando via via più aggressive.
Pur trattandosi di una analisi non esaustiva, ma fatta principalmente sulle grandi aree, il primo dato calcolato è impressionante: circa 360mila metri quadrati sono aree abbandonate o parzialmente utilizzate, di cui 239mila completamente abbandonati. Per quanto elevatissimo il dato è sottostimato: andrebbe considerevolmente aumentato se contassimo tutte le aree abbandonate delle zone industriali (capannoni e ex uffici). Inoltre, non sono conteggiati gli alloggi sfitti di proprietà privata; in una città che ha solo circa 89.000 residenti, dal censimento del 2011 emergono 14.633 alloggi statisticamente vuoti, di cui circa 8.500 sono realmente vuoti (o affittati per brevi periodi per turismo – specie sul litorale -, o locati “in nero”) o inagibili da ristrutturare.
Come mai si continuano a prevedere nuove abitazioni quando già così tante in città non sono utilizzate? La variante di monitoraggio del piano regolatore che il Comune di Pisa ha approvato alla fine del 2015 non prevede che minimi tagli alle nuove edificazioni previste, a fronte delle numerose approvazioni di varianti per nuove aree a destinazione edilizia. Mantiene tutte le previsioni di sviluppo e nuovo consumo di suolo nella zona di Ospedaletto. Nonostante si propagandi una politica del recupero degli immobili, di fatto si prevedono una serie di abbattimenti e ricostruzioni, senza immaginare mai un vero e proprio riutilizzo del patrimonio esistente (segue).
Tiziana Nadalutti e Fausto Pascali, Municipio dei Beni Comuni
Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)
Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.
L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».
E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.
La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».
La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».
Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».
i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016
Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.
La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.
L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).
A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».
La Repubblica
Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».
Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.
Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.
Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.
I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.
Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO”
“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini
L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata ...(continua a leggere)
L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata dai capelli turchini. E, purtroppo, ogni medico ha una ricetta diversa e difende la sua con intemerata convinzione. L’ILVA è una fabbrica che produce una merce, l’acciaio, una lega di ferro e altri elementi, partendo da minerali nei quali il ferro è, in qualche forma, legato all’elemento ossigeno. Tutta l’operazione consiste nel “portare via” l’ossigeno (si chiama “riduzione”) degli ossidi di ferro del minerale e nel “liberare” ferro da adattare poi ai vari usi tecnici e commerciali. Ciò avviene usando come agente “riducente” il carbone; altrove l’acciaio viene prodotto con forni elettrici rifondendo il rottame. La produzione mondiale annua di acciaio ammonta a circa 1600 milioni di tonnellate; quella italiana a circa 25 milioni di tonnellate, circa la metà fabbricata a Taranto. Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.
Il carbone è il principale responsabile della crisi ambientale a causa delle sostanze nocive che si formano nei processi di trasformazione del carbone fossile in carbone coke, nell’agglomerazione del carbone coke con il minerale di ferro e con calcare e nella trasformazione, negli altiforni, col calore ottenuto anch’esso dal carbone, dell’agglomerato in ghisa. La ghisa viene poi trasformata, insieme al rottame, in acciaio nei convertitori mediante ossigeno.
Alcuni dei medici che cercano di risanare l’ILVA si sono chiesti se non sia possibile ottenere acciaio, di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con un processo, già sperimentato altrove, che usa il metano del gas naturale come agente riducente del minerale. Il metano è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti per “portare via” l’ossigeno dal minerale; si ottiene così un ferro preridotto che, trattato insieme a rottami, può essere trasformato nelle varie qualità e nei vari tipi di acciaio richiesti dal mercato. Il processo consentirebbe di liberare Taranto dalla schiavitù del carbone, comporterebbe un minore consumo di energia per tonnellata di acciaio prodotto e un minore inquinamento e sarebbe certamente molto più “verde” ed ecologicamente accettabile di quello attuale, anche se nessun processo è esente da polveri e fumi e scorie.
I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento; verrebbe così data una risposta alla giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”, e si avrebbero positive ricadute di occupazione nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione dei nuovi impianti.
Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma è ragionevole credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana e dell’acciaieria di Taranto possano passare da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò comunque auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro aspetti geopolitici: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità e dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in aumento.
La transizione potrebbe incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta magica. Si tratta di fare una attenta previsione e programmazione del ruolo dell’Italia nella produzione dell’acciaio identificando la richiesta futura, la qualità dell’acciaio richiesto e i settori di impiego, dall’edilizia alla meccanica, interni e internazionali. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto; una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale” preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle valutazioni finora fatte a disastri avvenuti. Comunque, a mio modesto parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, sta stimolando un dibattito e destando un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si muoia di meno di mali ambientali.
il manifesto, 10 gennaio 2016
TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico
Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.
MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia
per promuovere il solito «sviluppo del territorio». La Repubblica 9 gennaio 2016, postilla (f.b.)
A volte ritornano. Pensavi che portare il mare a Milano fosse un sogno dimenticato. Che l’autostrada d’acqua fra la Madonnina e l’Adriatico fosse solo un disegno su antiche mappe. E invece. Sono ancora accese, in piazza Duca d’Aosta, le luci del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, anche se l’ente è stato soppresso (per non avere raggiunto gli obiettivi) già il 14 giugno del 2000, con decreto del ministro al Tesoro Vincenzo Visco. «Siamo rimasti in quattro, noi dipendenti. E poi ci sono i tre del consiglio di amministrazione, che debbono liquidare il patrimonio». Patrimonio ingente, perché del canale si inizia a discutere nel 1902 — presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli — e fino al 2000 l’ente è stato finanziato con circa 300 miliardi di lire. Sono stati preparati progetti, espropriati terreni e sono stati scavati anche 14 chilometri di canale (su 65), fra Cremona e Pizzighettone. Ma dal 1980 in poi nessuna ruspa è tornata in azione e il Tesoro, quasi 16 anni fa, ha detto basta così. Sembrava una pietra tombale.
Ma anche i canali possono risorgere. L’Aipo — Agenzia interregionale per il fiume Po — sei mesi fa ha infatti stanziato un milione di euro (per metà sono soldi della Commissione europea, che ha definito il canale opera prioritaria) per «valutare la fattibilità di un nuovo canale Milano-Cremona». «Si tratta — spiega l’ingegner Luigi Mille, dirigente Aipo per la Lombardia — di un tracciato meno costoso, perché usa in parte il canale Muzza. Il costo previsto è di 1,7 miliardi di euro, con sette conche e 60 metri di dislivello». Un percorso diverso, di 60 chilometri, ma l’obiettivo è sempre quello: congiungere la periferia sud di Milano a Pizzighettone, dove iniziano quei 14 chilometri di canale usato adesso solo da pescatori e canoisti. «Presenteremo il progetto nei prossimi mesi, all’assessore regionale Viviana Beccalossi e poi saranno le Regioni del Po ed il governo a decidere ».
Canale Muzza nel Lodigiano - Foto F. Bottini |
È bastato però l’annuncio dello studio in atto per provocare proteste. «Mi sembra — dice Alessandro Rota, presidente della Coldiretti Milano Lodi — che la vicenda dello stretto di Messina sia stata trasportata al nord. Si discute del canale da più di cento anni e l’unico risultato è stato quello di buttare miliardi. Che merci potrebbe portare, questo canale?». Ufficialmente, il Consorzio nasce con la legge 1044 del 1941, sostituendo l’Azienda portuale di Milano del 1920. «In passato la nostra grande città aveva le acciaierie, la gomma, la chimica. Adesso ci sono solo terziario ed uffici, con la produzione delocalizzata in mezzo mondo. Con il canale si butterà ancora cemento sul terreno agricolo più fertile d’Italia».
Forse non tutti i milanesi ricordano che la fermata della metropolitana Porto di mare, accanto a Rogoredo, si chiama così perché in quella che nel 1920 era campagna doveva nascere il porto di accesso al canale. «Adesso invece dobbiamo partire una ventina di chilometri più a sud. Il porto di mare è un quartiere», raccontano al Consorzio Muzza di Lodi, incaricato di preparare la relazione tecnica per il progetto di fattibilità. Il nuovo percorso che sarà presentato «nei prossimi mesi» non è comunque un segreto: se n’è discusso in un convegno a Viadana e l’Unioncamere del Veneto l’ha messo in rete.
«Noi proponiamo — raccontano il direttore e il vice del Muzza, gli ingegneri Ettore Fanfani, Marco Chiesa e Giuseppe Meazza — di partire da Truccazzano, dove c’è una grande cava già piena d’acqua. Serviranno collegamenti con Brebemi, Linate, tangenziale esterna e grandi spazi per imprese di trasporto, industrie». Il canale Muzza verrà utilizzato ma solo in minima parte: 2,7 chilometri. «Ci sono problemi di corrente. Nel nostro canale di irrigazione la velocità è di un metro al secondo. In un canale di navigazione deve essere pari a zero». Il vecchio tracciato tagliava a metà Paullo. «Ora è impossibile passare di lì. Abbiamo scelto il parco a sinistra dell’Adda. Sappiamo già che ci saranno proteste».
I tecnici mettono le mani avanti. «L’Aipo ci ha affidato lo studio e noi lo prepariamo. Ma siamo come chirurghi. Apriamo il malato e vediamo cosa si può fare. Sappiamo però che i problemi sono davvero seri. Le infrastrutture non saranno cosa semplice. A sud di Lodi, ad esempio, bisognerà costruire un sovrappasso per scavalcare, in 500 metri, la linea Fs Milano-Bologna, il canale di regolazione e la via Emilia. Ancora più a sud bisognerà superare l’Adda con un altro ponte-canale. Da un punto di vista tecnico si può fare tutto. In Belgio queste strutture si costruiscono da decenni. Il progetto è ambizioso, vista anche la spesa, 1, 7-2 miliardi. Nel canale potranno passare navi di classe V Europa, lunghe 110 metri, larghe 11,40, con 2,50-2,80 di pescaggio e 2500-3000 tonnellate di carico. Ognuna potrebbe portare l’equivalente di 70 vagoni ferroviari o di 100 tir. Ma ci chiediamo: ci saranno le merci da trasportare? È giusto un investimento così importante? Per fortuna questo non è un problema nostro. Ci saranno economisti e altri tecnici a completare lo studio. Noi sappiamo comunque che c’è un altro grande handicap: l’acqua. Dove si prenderà quella che serve al canale? Adesso non basta nemmeno per l’irrigazione, lo sappiamo bene noi che serviamo 80mila ettari di pregiato territorio agrario». Corrono le folaghe e volano gli aironi, sul canale Muzza. Forse potranno stare tranquilli. A volte ritornano. Per fortuna non sempre.
postilla
Chiunque abbia seguito, su queste o altre pagine, lo svolgersi delle vicende infrastrutturali dell'area padana, dovrebbe aver chiaro come, a parte le classiche polemiche ambientali o di modalità, tracciato, insostenibilità finanziaria e via dicendo, la critica di fondo è quella di voler promuovere attraverso le reti stradali il famigerato «sviluppo del territorio». Che come ben sappiamo non ha nulla a che vedere con l'idea di sviluppo in quanto valorizzazione delle risorse ambientali e umane a scopo di progresso, ma solo assai più banalmente traduce in italiano uno solo dei significati dell'inglese development: edilizia e opere di urbanizzazione. Questa strampalatissima riproposizione dell'antico progetto di canale navigabile, al netto sia delle evocazioni storiche, che delle false sognanti immagini di megalopoli delle acque (potrebbe anche evocare qualcosa del genere, se ben manovrata e farcita di rendering) si colloca esattamente dentro le stesse politiche del «fare e disfare è tutto un lavorare», anzi addirittura pone alcune precondizioni per nuovi svincoli, bretelle, collegamenti su gomma, poli di interscambio, identici e forse peggiori collocandosi in zone agricole di pregio, di quelli già visti con le inutili autostrade padane, a carico del contribuente e dell'ambiente locale. Diffidare, soprattutto quando spunteranno quei disegnini sui giornali compiacenti, magari con una specie di Darsena bis davanti ai terreni di Ligresti, che proprio per puro caso stanno lì vicino all'area detta Porto di Mare, e che importa se in realtà dovesse fermarsi a Truccazzano? Ci hanno già fatto la diramazione Bre.Be.Mi. lì vicino, basta un'altra bretellina e via ... ad libitum (f.b.)
La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Madrid. Si può mettere all’asta un bene così prezioso da essere stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità? Il caso della grotta di Altamira non è una replica dell’esilarante sketch di Totò che mette in vendita la fontana di Trevi, ma non è meno sorprendente. Convinto che non si stia facendo tutto il possibile per sfruttare al meglio dal punto di vista turistico questo gioiello dell’arte rupestre - la “cappella sistina del Paleolitico” come è stata ribattezzata - il governo regionale della Cantabria pensa alla distribuzione di “pass vip”, alla portata solo di appassionati milionari, che consentano di accedere alla grotta di Santillana del Mar nel rispetto dei rigidi limiti stabiliti dagli scienziati.
«Dopo il terremoto del 2009 è ancora il cantiere più grande d’Italia, la ricostruzione prosegue ma la gente se ne va: un terzo delle case dopo il restauro finisce sul mercato. La borghesia è fuggita sulla costa.Il sindaco sogna i turisti ma il rischio è che visitino una Pompei del Duemila». Tomaso Montanari e Corrado Zunino, la Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
COSÌ RISORGE LA CITTÀ DI PIETRA.
MA ÈUNA QUINTA SENZA POPOLO
Finalmente all’Aquila si lavora davvero: grazie soprattutto alla pazienza e alla dedizione di Fabrizio Barca (fino al 2013 ministro per la coesione territoriale del Governo Monti, e vero artefice della ripartenza), a sei anni e mezzo dal terremoto la città è un grande cantiere.Un cantiere in cui non mancano, naturalmente, i problemi. La sezione aquilana di Italia Nostra fa giustamente notare che stiamo rischiando di perdere l’occasione per migliorare il tessuto edilizio: per esempio non eliminando i casermoni degli anni Sessanta e Settanta che sfigurano punti importanti della città storica, come le mura. Ed è anche vero che la ricostruzione del patrimonio architettonico non appare sempre condotta a regola d’arte (non c’è un convincente piano del colore delle facciate, tra l’altro).
AAA VENDESI L'AQUILA
di Corrado Zunino
L’Aquila. Affittasi, vendesi, poi affittasi. Il panorama largo dell’Aquila post-terremoto è ancora assediato dalle gru, che svettano sul cantiere più grande d’Italia in questa giornata di pioggia fredda, e la notte s’illuminano per ricordare le Feste. Se si zooma sugli esterni dei palazzi ricostruiti, più spesso demoliti e ricostruiti dalle fondamenta, s’inquadra invece il cartello: “Affittansi studi professionali”. Segue cellulare. L’annuncio è sul cancello che si apre su un cortile a fianco della Basilica di San Bernardino. La locale società Cogepa ha abbattuto e rifatto in cemento armato due palazzetti. I vecchi residenti non ci sono più: la Cogepa, che acquistò nel 1990, ha rilocato alcune stanze a una banca, altre a una palestra.