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«A lanciare l'allerta il n° 1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede "sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record"». Il Fatto Quotidiano online, 22 aprile 2016 (p.d.)

Le temperature superficiali della Terra già nel 2016 potrebbero avvicinarsi pericolosamente a 1,5 °C in più rispetto ai livelli pre-industriali. Un aumento che potrebbe, cioè, sfiorare proprio quel grado e mezzo in più fissato come soglia limite a dicembre dalla comunità internazionale nell’accordo sul clima di Parigi. A lanciare l’allerta il n°1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede “sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record”. L’annuncio, ripreso dalla rivista New Scientist, arriva a ridosso dell’Earth Day, la Giornata della Terra scelta dalle Nazioni Unite ogni 22 aprile, a partire dal 1970, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità della conservazione delle risorse naturali del Pianeta.

Per approfondire questi dati l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il panel Onu sul clima, come riportato dalla rivista Nature, in un meeting che si è appena concluso a Nairobi si è impegnato a realizzare tre report nei prossimi anni. Le nuove indagini, la prima delle quali sarà completata entro il 2018, analizzeranno l’impatto sul Pianeta dei mutamenti climatici legati a un aumento delle temperature di 1,5 °C. “Finora abbiamo focalizzato la nostra attenzione su quel che potrebbe accadere con un aumento delle temperature di 4 gradi o più rispetto ai livelli pre-industriali – sottolinea su Nature Corinne Le Quéré, direttrice del Tyndall Centre for Climate Change Research di Norwich, e autrice di molti dei report Ipcc -. L’impatto di un riscaldamento relativamente più modesto, infatti, è molto meno studiato. E dobbiamo imparare a comprenderlo”, precisa l’esperta.

L’impegno a “portare avanti ogni sforzo per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C”, come prevede l’accordo sul clima, è, infatti, uno dei punti salienti dell’intesa stipulata da 195 Paesi alla conferenza “Cop21″ di Parigi. Ma già all’indomani del summit, alcuni esperti avevano sollevato dubbi sull’efficacia dell’accordo, giudicato insuffficiente a limitare le emissioni di gas serra, e a contenere la febbre del Pianeta. I primi dati raccolti nel 2016 e le previsioni dell’esperto Nasa sembrano andare nella stessa direzione, confermando alcune perplessità iniziali.

Secondo quanto scrive la rivista New Scientist, per sapere se le temperature medie globali della superficie del Pianeta si manterranno elevate per tutto il 2016 bisognerà, tuttavia, guardare a El Niño, l’aumento delle temperature superficiali del Pacifico. Un’attenuazione di questo fenomeno tropicale, alla base del motore climatico terrestre, potrà infatti portare, secondo gli esperti, a una riduzione di questo trend di crescita. “È essenziale – conclude Jan Fuglestvedt, climatologo del Center for international climate and environmental research di Oslo, e vice presidente del gruppo di scienze fisiche dell’Ipcc – che i Governi sappiano come e quando è necessario agire, per mantenere il surriscaldamento al di sotto di 1,5 °C”.

Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2016 (p.d.)

Si moltiplicano le adesioni alla grande manifestazione del 7 maggio a Roma “Emergenza Cultura” contro il caos e la paralisi che regnano nella rete della tutela del Belpaese, ma giornali e tv in maggioranza tacciono (la Rai totalmente) e continuano a parlare di “Bellezza” come di un bene al sicuro.

Comincia Matteo Renzi nel 2011 a scrivere nel suo “Stil Novo” contro il “potere monocratico” dei Soprintendenti che gli impediscono di sforacchiare il grande affresco di Giorgio Vasari dietro il quale, secondo lui, noto specialista, c’è ancora la Battaglia di Anghiari di Leonardo. E conclude con stile: “Sovrintendente de che?” Presto, presto, va indebolito, reso innocuo, sottomesso.

PRIMA MOSSA: poiché i Soprintendenti non hanno mai saputo valorizzarli (una balla, ovviamente) Franceschini stacca i musei da loro e quindi dal territorio (pure quelli di scavo...) onde renderli autonomi. Primo caos: da dividere ci sono sedi comuni, archivi cartacei e fotografici comuni, secolari, personale (poco e anziano), ecc.

SECONDA MOSSA: venti musei di “eccellenza” godranno di totale autonomia e dovranno rendere soldi (Renzi ignora che la macchinona del Louvre costa 204 milioni di euro l’anno e non frutta un solo euro, anzi lo Stato deve ripianare il suo passivo con 102 milioni). Per questi musei non si utilizza un regolare concorso europeo, ma l’accrocco di una “selezione” internazionale, colloqui e curricula. Alla fine, o bella, un solo funzionario già in carica viene “promosso”. Bocciati tutti i direttori in carriera, inclusi quanti, per esempio Antonio Natali agli Uffizi, hanno lavorato bene in condizioni impervie. Al suo posto, il tedesco Schmidt fin lì direttore del Museo di arti applicate e tessili del Minnesota. A Paestum, un giovane svizzero che non ha mai gestito nulla. A Napoli, mirabile museo greco-romano, un etruscologo dalla bibliografia minima. A Taranto, capitale della Magna Grecia, un’archeologa medioevale. Alla Reggia di Caserta, un laureato in marketing che esibisce due libroni sui cimiteri... Leggere per credere. Per essi stipendi da 145.000 euro lordi in su l’anno contro i 35.000 lordi dei loro predecessori.

TERZA MOSSA: Marianna Madia, nella maxi-riforma amministrativa, dà una mano a Renzi e alle pratiche “veloci” già previste dallo Sblocca-Italia ribadendo il micidiale silenzio/assenso se in 90 giorni le Soprintendenze non riusciranno a dare il loro parere e cinicamente si sa già che, con poco personale e tante pratiche, non ce la faranno mai. Quindi passerà trionfalmente anche il peggio del peggio della speculazione.

QUARTA MOSSA: la stessa angelica Madia infila una norma-killer con cui le Soprintendenze tanto detestate da Renzi finiranno (succedeva nel Regno di Sardegna, arretrato in materia), gerarchicamente sotto i Prefetti. Ai quali toccherà decidere, ad esempio, se mandare un archeologo o invece un dirigente Asl alla conferenza di servizi “delicata”. E comunque se mettere o no il vincolo lo deciderà l’onnisciente signor Prefetto.

QUINTA MOSSA: Franceschini ficca sotto la legge di Stabilità una mina che fa saltare le Soprintendenze archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle Arti e Paesaggio. “Un mostro”, secondo Antonio Paolucci, già grande soprintendente e ora direttore dei Vaticani. Accorpamento già fallito nel 1923, cancellato nel 1939 da un altro ministro fascista, il colto e ben consigliato Giuseppe Bottai che riconobbe il valore assoluto delle specializzazioni. Ora no, in pochi minuti, si rottamano sprezzantemente controlli e procedure tecnico-scientifiche a difesa degli interessi di tutti. E si vogliono pure allentare (emendamento del renzianissimo senatore Andrea Marcucci) i vincoli all’esportazione di opere d’arte. Godi, o Mercato.

Ma quali idee geniali sono venute sin qui ai venti super-pagati direttori? Dal bel servizio Ansa di Silvia Lambertucci si apprende che gioiscono per l’iniziativa dello svizzero Gabriel Zulchfriegel a Paestum di aprire a pagamento l’area sacra a matrimoni, festini, rinfreschi di nozze. Plaude Mauro Felicori dalla Reggia di Caserta (che ieri ha annunciato: “Voglio far nuotare Federica Pellegrini nella piscina della Reggia di Caserta. Bisogna aprire, diventare popolari”), è vivamente interessato per il Giardino d’Inverno di Urbino l’austriaco Peter Aufreiter. Esultano i wedding planners. È la Valorizzazione, bellezza!

Solo di stipendi, questi primi venti direttori –usciti col “bando della salama da sugo” (come è stata ribattezzata, alla ferrarese, la selezione franceschiniana) –costano oltre 3 milioni l’anno. Per genialate del genere non bastavano le Proloco coi loro pochi spiccioli di contributo annuale?

Edward Loure, pastore della Tanzania, ha vinto il premio ambientalista Goldman. Ha difeso trenuamente ed efficacemente il dritto degli abitanti dei pascoli del Rift a difendere i loro paesaggi tutelandone l'ambiente in modo migliore dei parchi dei colonialisti. La Repubblica, 21 aprile 2016

È UN CAPO tribù masai della Tanzania e grande difensore delle terre del suo popolo, il vincitore dell’ultima edizione del Premio Goldman, sorta di Nobel americano dell’ambientalismo. Si chiama Edward Loure, ha una quarantina d’anni circa ed è un pastore prestato alla giurisprudenza, perché dopo aver conseguito una laurea in management ha trovato il modo di salvare i pascoli della sua gente operando una piccola modifica a una legge già esistente ma inefficace. Grazie all’introduzione di questo cavillo giuridico, che assieme alla ricca fauna che vive nelle praterie della Valle del Rift salvaguarda anche la più ancestrale cultura masai, Loure è stato premiato il 18 aprile scorso a San Francisco. Non solo: il suo lavoro di attivista è anche servito a far riconoscere per la prima volta l’importanza della pastorizia nella conservazione della natura in Tanzania.

Loure è nato nelle vaste pianure di Simanjiro, che spaziano su 3 milioni di ettari nel nord del Paese, dove da millenni vivono sia pastori sia cacciatori-raccoglitori in armonia con numerose specie di ungulati, dagli impala agli gnù e a ogni tipo di gazzelle. Da tempo, però, buona parte di quelle regioni sono state trasformate in parchi nazionali, e le popolazioni semi-nomadi che da generazioni vi allevavano bestiame sono state deportate altrove dal governo tanzaniano dopo espropri abusivi. «Noi dipendiamo dalle nostre terre, che hanno modellato la nostra cultura e il nostro modo di vita. Per noi rappresentano tutto. Se ci tolgono i nostri pascoli non avremo più vacche, e senza vacche moriremo tutti», spiega Loure.

È dal 1950 che si è cominciato a compromettere questo fragile equilibrio, sbocconcellando progressivamente le terre masai per farvi parchi per i turisti. Recentemente, la situazione s’è di molto aggravata, perché lo Stato ha iniziato a vendere quelle aree sia agli organizzatori di caccia grossa e altri safari, sia ai cosiddetti “ladri di terre”, e cioè a quegli speculatori che usano gli antichi pascoli tribali per crearvi allevamenti intensivi illegali. Tutto ciò ovviamente a scapito dei popoli autoctoni.

La stessa tribù del vincitore del premio Goldman fu deportata nel 1970, quando il governo creò il Ujamaa Community Resource Team (Ucrt), una delle prime ong locali tanzaniane in lotta per lo sviluppo sostenibile e per i diritti della terra. Lo strumento che per anni ha adoperato l’Ucrt è il Village Land Act, una legge fondiaria destinata a garantire ai villaggi locali la proprietà delle loro terre. Questo strumento giuridico ha tuttavia l’inconveniente di essere lento e costoso, e di facilitare se non di promuovere la corruzione e gli abusi politici. Col risultato che numerose zone protette dalla legge sono state vendute a grossi imprenditori agricoli, e che perciò sia i pascoli masai sia le zone di natura selvaggia si sono ridotte in maniera considerevole. Fino al giorno in cui Loure ha finalmente identificato un meccanismo giuridico chiamato il Certificates of Customary Rights Occupancy, che conferisce inalienabili diritti fondiari a un’intera comunità. Questi “certificati” differiscono dalla legge precedente in quanto riconoscono il possesso non più a singoli individui, bensì a tutto un popolo. E grazie a questo sistema, il Village Land Act può finalmente proteggere i pascoli masai dalle interessatissime mire degli tour-operator e degli speculatori agricoli.

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante ... (continua la lettura)

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante da tanto che ce la ripetono in salse diverse invece uguali; poi “attrattività”. Politici di destra e di…, ce ne sono altri? Insomma, Milano già adesso attraente - vedremo chi e cosa - deve aumentarla immantinente, appunto, la famosa propensione a tener le porte aperte. Infatti, è riuscita a cacciar fuori di esse oltre mezzo milione di milanesi, in parte sostituiti, solo per numero e non per funzione, da immigrati per lo più non comunitari.

Quale innovazione? Se la volessero davvero e conoscessero la vicenda storica milanese dovrebbero perorare una curva a U: tornare indietro e ritrovare la condizione della Milano primatista assoluta per la produzione in un gran numero di settori, per il rapporto fra le classi sociali dialetticamente egemoni (numerosa classe operaia «per sé» e forte borghesia produttiva, dominante ma con giudizio, se così possiamo dire), per la cultura della sinistra antidogmatica: come fossero pungolati dal ricordo di un Karl Marx che studiava i primitivi, da cui il principio che il più alto livello di società moderna consisterebbe nella riproduzione in forma superiore di un tipo arcaico di società[i]. Dunque ritorno alla proprietà comunitaria collettiva e ai conseguenti rapporti sociali. Una forma di arcaismo sociale del resto la offrono «luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più lenta ove gli itinerari singoli si incrociano e si mescolano»[ii]: come avviene ancora nelle piccole città dove resiste la piazza medievale e il gruppo sociale vi si riconosce e vi pratica relazioni di ogni genere[iii].

Ricostruire ovunque quei rapporti e istituire urbanistiche per spazi coerenti sarebbe utopia rivoluzionaria (ossimoro dovuto)? Se bandissimo persino il solitario piacere di poter pensare sia l’utopia che la rivoluzione introdurremmo anche nel profondo del nostro cervello il germe dell’incurante consentimento verso i contraffatti poteri già penetrato nel cuore. Gli innovatori della domenica, quando un sopravvissuto di quella sinistra riuscisse a raschiare pazientemente il palinsesto della città e mostrasse al mondo la verità della passata superiorità milanese a fronte della loro menzogna, lo farebbero arrestare dai vigili urbani (detti, ora, polizia locale, chiara allusione a più ampi poteri) e carcerare per turbativa del nuovo ordinamento d’obbedienze milanese[iv].

L’attrazione effettiva della città non rientra nel significato che i nostri sembrano attribuire a una parola che non esiste nella lingua; intendono una certa dote speciale, probabilmente riferibile a risorse e a richieste cosiddette immateriali, prodromi di una nuova generazione di affari: tanto per gabellarsi da capintesta preparati, moderni business-leader. Intanto permane l’obbligo a sopportare un faticoso pendolarismo sia per i lavoratori del terziario espulsi nell’hinterland dall’impossibilità di trovar casa a costo ragionevole sia per i loro colleghi già insediati nello sprawl. Niente è cambiato con l’istituzione formale della città metropolitana. D’altronde il richiamo di Milano ha trasfigurato la sua natura: mentre attraverso le famose porte aperte si disperdeva una impareggiabile carica produttiva sociale culturale, vi avanzava inesorabile come jüngeriana tempesta d’acciaio la totale finanziarizzazione dell’economia e della società. Principale preziosa derrata, al posto della produzione di beni e servizi utili, il denaro, unica chiesa la borsa, unico rapporto quello commerciale: comprare e vendere, il denaro poi le merci tipiche del consumismo il più esagerato, in qualsiasi parte del mondo prodotte e confezionate meno che a Milano.

Così entra tranquillamente nella nostra città anche una enorme massa di capitali di mafia, ‘ndrangheta e affini. Denaro che va a ripulirsi mediante investimenti, ritenuti legittimi, nella speculazione finanziaria e soprattutto in attività commerciali aperte appartenenti al circuito di vendita/acquisti più ricco o più frequentato. La magistratura ha segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenklatura siciliana o calabrese (o napoletana, pugliese o perché no lombarda). La vox populi dice che quando mangiamo in pizzeria la probabilità di farlo in un locale acquistato o finanziato dalla mafia è almeno del 50%. Questo, tuttavia, è un dettaglio insignificante nel quadro formato da negozi, magazzini, in ogni caso locali per acquisti di merci o per consumi in sito.

Consigliamo di compiere con gli occhi ben aperti rivolti man mano lentamente verso destra e verso sinistra, rischiando il torcicollo, il percorso da Piazzale Loreto a Largo Cairoli, l’asse commerciale più importante e sfavillante della città: Corso Buenos Aires, Corso Venezia, Piazza San Babila, Corso Vittorio Emanuele II, Duomo, Via Mercanti, Piazza Cordusio, Via Dante: circa 4.200 metri. Ebbene, sarete tramortiti dalla visione di non sappiamo quante centinaia se non migliaia di vetrine (anche dehors) dedicate quasi esclusivamente all’abbigliamento e, secondariamente, ai bar-fittizi-ristoranti; ma prima di cadere per terra avrete giudicato impossibile che tutta questa esibizione corrisponda a una realtà di commerci e consumi umanamente usuali, onesti. Meritati diversi giorni di riposo, provate a ripetere l’esperienza limitandola ai 450 metri di Corso Vittorio Emanuele, se riuscirete a muovervi dentro il travolgente flusso di gente.

Noterete la logica della sparizione/sostituzione delle insegne, dei veri e falsi marchi, degli svuotamenti incomprensibili. È la tecnica della mafia e del commercio ballerino poco pulito, l’una per spostare capitali e luoghi, farli girare vorticosamente rendendoli sfuggenti, l’altro per sostenersi in qualsiasi maniera nel grillo fra rischio e fallimento. Aggiungete che esistono molte altre strade commerciali a forte intensità (Corso Vercelli, Corso Torino, Corso XXII Marzo…) similmente trasformate; infine non dimenticate che rivoli derivati dai fiumi si riversano dappertutto: la costituzione di una Milano essa stessa smerciabile vi apparirà in tutta la sua avvilente (per noi) portata. Anche manifestazioni fieristiche come il salone del mobile (niente è prodotto qui), anche l’insistente riferimento al design, una volta glorioso e ora tradito da un liberismo svaccato delle forme (come nell’architettura degli internazionalisti), vi appartengono con perfetta coerenza. Né le decantate sfilate di moda possono sottrarvisi, mentre le più importanti case stanno cedendo il marchio a gruppi stranieri.

Ci dicono che è aumentato in modo esponenziale il turismo. È vero, la folla strascicata dei rutilanti percorsi commerciali comprende stranieri singoli o in gruppo, in maggioranza giapponesi, cinesi, sud-coreani, poi sudamericani, pochi europei… Comprano, spendono. È questo il turismo che vogliamo? Altro che turismo culturale, altro che turismo sociale. Nei luoghi monumentali, visitatori che dovrebbero far gara per goderseli all’esterno e all’interno non se ne vedono. Eccezioni: eccoli nella piazza davanti al Cenacolo, ma nessuno entra in Santa Maria delle Grazie; eppure lì la Tribuna del Bramante ti prende e ti trattiene a percepire quanto l’opera d’immensa arte contribuisca al tuo star bene nell’animo e nel cervello. Ah! il Duomo! Ci vanno in massa, incanalati fra indecorose transenne, pagano l’ingresso e nell’interno altre transenne li suddividono secondo diverse zone, per sorvegliarli e talvolta per concedere un misero diritto alle funzioni. Il milanese che voglia ripassare la propria conoscenza del grandioso spazio nell’insieme e nei particolari è svantaggiato per sempre.

La chiesa di Santa Maria Nascente appartiene in pieno, smaccatamente e volgarmente, al circuito commerciale, alla più vera Milano d’oggi. Sul fianco sinistro la curia ha fatto costruire un sensazionale volume in legno e vetro, sollevato dal suolo e dotato di scalinata. Magliette e gli altri capi d’abbigliamento più appetiti sono appesi ben in vista dietro le vetrate. Una grande scritta sottolinea la destinazione del manufatto, semmai qualcuno dubitasse: DUOMO SHOP. Non basta: raccontano che la forma sarebbe quella delle imbarcazioni che per secoli hanno trasportato i blocchi di marmo dalla Cava di Candoglia per la costruzione della Cattedrale. Su internet si può leggere addirittura: «un punto vendita carico di storia, all’ombra della Madonnina».

Allora, si accomodi Santa Maria Nascente, lasci spazio alla divinità pagana Mercurio, lei autentica protettrice del commercio e delle attività mercantili.

Carla Ravaioli, l’indimenticabile saggista critica del whirl capitalism strangolatore del mondo, non perdonava ai politici e agli amministratori locali l’incapacità o la contrarietà a liberare il turismo dalla soggezione, anch’esso come ogni altra attività individuale e sociale, al processo di assimilazione alla merce, «che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze». E osò affermare che anche il turismo inquina (riferendosi, come esempio, allo stravolgimento delle coste italiane causato da un’enorme quantità di costruzioni private)[v].

Concludiamo ritornando ai personaggi in mostra per le elezioni. La loro storia professionale-politica e le prospettive di governo annunciate si conformano senza forzature alla condizione di una città tutta volta alla finanza, al commercio, all’edilizia, questa pur essa commercializzazione, compravendita o affitto in un sistema tutto privato, grazie all’indifferenza degli enti pubblici verso la costruzione di case sovvenzionata. Identici davvero i nostri, edilizia (speculativa) e connessa urbanistica (nemmeno riformista) attrazioni fatali. Sala avocherà a sé l’urbanistica, fra gli scopi un nuovo piano di governo del territorio; Parisi ripartirà dal piano e dalle pratiche dell’amministrazione Moratti-Masseroli (l’assessore che rinunciò nel 2013); intanto Albertini, capolista per Parisi, rivendica un «enorme processo di riqualificazione» della città al tempo di lui sindaco, quando parlava dei «suoi» architetti i migliori del mondo, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni» (Hadid, Isozaki, Lebeskind…) o denominava «nostro Central Park» il verde sparpagliato fra i grattacieli sull’area dell’ex Fiera (futura City Life)[vi]. Poi, a rafforzare la figura di una Milano priva di industria manifatturiera e già diventata, al posto di una Roma del passato prossimo, «città della cazzuola», contribuisce il presidente della Triennale De Albertis, numero uno dell’Assimpredil e presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Tutto si tiene in una evidente collocazione o spostamento a destra dei (mediocri) maggiorenti.

Terminiamo con la recitazione dei due candidati principali nel ridicolo teatrino di provincia, altro che metropoli. Parisi: Sala è più a destra di me. Giornalista: entrambi sono manager, entrambi sono stati direttori del Comune con amministrazioni di centrodestra, Parisi con Albertini, Sala con la Moratti. Sala: io sono uno che lavora, ha sempre lavorato mentre lui occupava i palazzi romani. Lui è più burocrate, io sono più operativo[vii]. Se questi sono i protagonisti…

[i] Cfr. L. Krader, Quando Marx studiava i primitivi, in «Rinascita», n. 10, 1978, p. 21.
[ii] M. Augé,
Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (orig. Non-lieux, Seuil, Paris 1992), Elèuthera, Milano 1993, p. 63.
[iii] Cfr. L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in
eddyburg, 25 novembre 2006, in «il Grandevetro», novembre-dicembre 2006, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, politecnica, 2008, p. 15.
[iv] Sulla trasformazione sociale di Milano vedi anche L. Meneghetti,
Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, in eddyburg, 11 aprile 2015.
[v] C. Ravaioli,
Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005. Cfr. anche L.Meneghetti, Coraggiosa Carla Ravaioli. Turismo inquinante, in eddyburg, 22 aprile 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006, p. 11.
[vi] Dal «
Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006, p. 3.
[vii] Da A. Gallone e O. Liso in «
Repubblica - Milano», 3 marzo 2016.

Noi – cittadini italiani, donne e uomini impegnati con il nostro lavoro, stabile o precario, a produrre e diffondere cultura, membri delle associazioni professionali e delle associazioni per la tutela, studentesse e studenti delle università e delle scuole – denunciamo che «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» (art. 9 Cost.) sono oggi in gravissimo pericolo.

Denunciamo che le modifiche dell’ordinamento introdotte dal Governo Renzi, e passivamente subite dal ministro Dario Franceschini, stanno di fatto rimuovendo dalla Costituzione l’articolo 9.

Le generazioni future rischiano di non ricevere in eredità l’Italia che noi abbiamo conosciuto.

Il nostro è un grido di allarme: è emergenza per la cultura!

Noi vogliamo che la cultura sia davvero un servizio pubblico essenziale: che le biblioteche e gli archivi funzionino come negli altri paesi europei, che i musei siano fabbriche di sapere, che le scuole formino cittadini e non consumatori, che la salvezza dell’ambiente in cui viviamo sia l’obiettivo più alto di ogni governo.

Per questo chiamiamo a raccolta tutte le cittadine e i cittadini italiani: li chiamiamo a scendere in piazza, a Roma, il 7 maggio 2016.

Questa manifestazione chiederà al governo Renzi di sospendere l’attuazione dello Sblocca Italia, della Legge Madia e delle ‘riforme’ Franceschini: perché si apra un vero dibattito, nel Paese e nel Parlamento, sul futuro del territorio italiano, bene comune non rinnovabile.

Questa manifestazione chiederà di introdurre l’insegnamento curricolare della storia dell’arte dal primo anno della scuola superiore.

Questa manifestazione chiederà di permettere ad una nuova leva di ricercatori di entrare nei ranghi del Ministero per i Beni culturali: non con l’effetto-annuncio delle una tantum, che generano solo illusioni, ma con la costruzione di un futuro normale per chi vuole mettere la sua vita al servizio del paesaggio e del patrimonio culturale del Paese.

«La Repubblica tutela»

Chiediamo che si rinunci al ricorso a legislazione d’emergenza e di urgenza per aprire le porte alle devastanti Grandi Opere, come prevede lo Sblocca Italia.

Al governo che vuol fare il Ponte sullo Stretto, promuove nuove trivellazioni a danno del nostro mare e delle nostre coste, legittima il transito delle Grandi Navi nella Laguna di Venezia, chiediamo invece che venga studiata, finanziata, avviata l’Unica Grande Opera utile, anzi vitale per il futuro del Paese: salvare il territorio, risanarlo, metterlo in sicurezza sia dal punto di vista idrogeologico che dal punto di vista sismico.

Chiediamo che sia abbandonata la filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi, che comporta lo sfruttamento intensivo di una piccola porzione del patrimonio – spesso a vantaggio di pochi privati con forti connessioni politiche – e l’abbandono e l’incuria per la maggioranza dei siti. Sul territorio si deve continuare a fare tutela, ma anche valorizzazione: il vero obiettivo è portare gli italiani e i turisti nel nostro patrimonio diffuso, che nessuno conosce e che dunque cade a pezzi.

Chiediamo che si torni indietro rispetto all’idea cardine della Riforma Franceschini: la miope e pericolosissima separazione radicale tra tutela (di fatto impedita) e valorizzazione (troppo spesso trasformata in mercificazione). Chiediamo che si interrompa il processo di trasformazione dei musei statali in fondazioni di partecipazione aperte agli enti locali e ai privati. I musei devono continuare a fare sia tutela che valorizzazione: devono avere al loro interno vere comunità scientifiche permanenti, in grado di fare ricerca e comunicare la conoscenza. La selezione del personale deve essere seria e trasparente, non spettacolarizzata e deludente. E la politica deve ritirare le sue lunghe mani dai consigli d’amministrazioni, dai consigli scientifici e dalle direzioni dei musei autonomi.

Chiediamo che sia sospesa l’attuazione dell’accorpamento delle soprintendenze archeologiche, la soppressione della direzione generale per l’archeologia, lo stravolgimento dei depositi e degli archivi delle strutture territoriali di tutela.

Si rimediti sulla generalizzata confluenza delle soprintendenze storico-artisitiche con quelle ai beni architettonici: che dà già pessimi risultati.

Prima di qualsiasi riforma è necessario aprire un dibattito serio con le realtà del settore, in modo che si possa procedere a una vera modernizzazione, condivisibile e condivisa.

Chiediamo che venga ritirata la norma del silenzio-assenso contenuto nella Legge Madia: perché è incostituzionale, e perché fa scontare all’ambiente e al paesaggio gli inevitabili ritardi di una amministrazione che prima è stata scientificamente massacrata nei ranghi, nei finanziamenti, nel morale.

Chiediamo che il governo rinunci a far confluire le Soprintendenze in Uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti.

Chiediamo che venga ripristinata la competenza del Ministero per i Beni Culturali nella scelta degli immobili pubblici da vendere ai privati.

Chiediamo che non si indebolisca in alcun modo la legislazione sull’esportazione delle opere d’arte dall’Italia. Che il limite rimanga a 50 anni. Che non si introduca alcuna soglia di valore, né alcuna autocertificazione.

Chiediamo che si rinunci all’idea di smembrare i Parchi nazionali, che si rinunci al loro depotenziamento, che si nominino presidenti e direttori di livello nazionale e non più esponenti locali, adeguando la legge sulle aree protette al Codice per il Paesaggio.

Fondata sul lavoro

Denunciamo la demonizzazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei funzionari pubblici, dei dipendenti dello Stato: i quali mantengono aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione, nonostante gli stipendi risibili, e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. I singoli casi di inadempienza sono da sanzionare, ma non devono oscurare il fatto che il lavoro nel settore, nonostante gli stipendi risibili, rappresenta la leva per mantenere aperto a tutti il patrimonio culturale della nazione e nonostante l’incuria e il tradimento dei governi della Repubblica. Le polemiche cavalcate dallo stesso Governo sulla chiusura di siti culturali famosi (basti pensare al polverone su Pompei o sul Colosseo) per assemblee o iniziative di protesta del personale hanno avuto un semplice fine, grave e inaccettabile: limitare le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori del settore

Denunciamo che, nonostante l’annuncio di misure palliative di puro impatto mediatico (le ventilate 500 assunzioni dal 1° gennaio 2017 non serviranno nemmeno a rimpiazzare chi andrà in pensione da ora ad allora), vengono frustrate ancora un volta le speranze di chi si è duramente formato per lavorare al servizio del patrimonio culturale, della sua tutela e della sua apertura ai cittadini dell’Italia e del mondo.

Chiediamo che la tutela e la valorizzazione del patrimonio e la direzione degli istituti della cultura (compresi i musei) continuino ad essere affidate a professionisti (archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti, restauratori, conservatori, demoetnoantropologi, diagnosti, operatori museali specifici e naturalisti, etc). Chiediamo che questo compito sia affidato agli operatori dei beni culturali, individuati dalla recente legge n°110 del 22 luglio 2014 sulle professioni nell’esercizio delle azioni di tutela e valorizzazione) assunti attraverso concorsi pubblici trasparenti, che tengano conto dell’offerta formativa presente nelle università del nostro Paese, indipendenti dal potere politico, tenuti ad obbedire solo alla legge, alla scienza e alla coscienza. Chiediamo che – come imponeva il comma 2 dell’art. 2 di quella legge – venga emanato (sentite, come imposto dalla legge, le associazioni professionali individuate dalla legge 4/2013 – o, in assenza delle stesse, una rappresentanza delle principali realtà associative – e il mondo della formazione), un decreto ministeriale che stabilisca le modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi nazionali, nonché le modalità per la tenuta degli stessi elenchi nazionali in collaborazione con le associazioni professionali. Chiediamo che vengano adeguatamente valorizzate le professionalità interne, troppo spesso mortificate e compresse, tramite lo sblocco dei percorsi di carriera e nel concreto riconoscimento della qualità degli apporti professionali.

Chiediamo che le competenze e l’impegno dei professionisti del patrimonio culturale non vengano sostituite ricorrendo a forme più o meno surrettizie di sfruttamento, mascherate da volontariato, o da formazione, come il fondo “1000 giovani per la cultura”. In un Paese con un tasso del 42% di disoccupazione giovanile e del 12% di disoccupazione tout court, ogni forma di volontariato utilizzato come scorciatoia per abbattere i costi del lavoro rischia di entrare in rotta di collisione con le professioni e con le competenze dei professionisti, e di portare dunque danni permanenti al Paese, sia dal punto di vista economico sia culturale – come lasciano intendere le caratteristiche del flusso turistico o la percentuale di lettori e di analfabeti di ritorno, paragonati ad altri paesi europei.

Chiediamo che vengano assunti immediatamente i 1400 lavoratori necessari a compiere l’organico del Ministero per i Beni culturali, e che quindi venga sbloccato il turnover annuale, attraverso concorsi regolari per l’assunzione a tempo indeterminato di professionisti.

Chiediamo dignità professionale e riconoscimento di diritti a tutele per i tanti professionisti del settore che esercitano con partita IVA: equità fiscale e previdenziale, protezioni sociali per maternità e malattia, sostegno al reddito anche per i lavoratori autonomi. Proponiamo agevolazioni sull’IVA (come già avviene per le guide turistiche) e una riduzione dell’aliquota previdenziale al 24% (così come previsto per artigiani e commercianti).

Chiediamo che, dalla bozza riguardante le linee guida per l’archeologia preventiva elaborata dalla Direzione Generale del MiBACT, si passi celermente all’emanazione di un provvedimento che ponga fine a difformità, spesso piuttosto marcate, di prescrizioni e procedure, anche all’interno degli uffici, sul territorio nazionale, con sensibile miglioramento dell’attività di tutela e offrendo nel contempo possibilità di lavoro qualificato ai professionisti del settore.

Finanziamenti

Chiediamo un piano di investimenti in settori chiave quali ricerca e istruzione, che generano ricadute virtuose sia in termini di competitività internazionale del paese, che in termini di cultura civile e democratica. Non la girandola di una tantum venduta come risolutiva dal Governo Renzi, né tantomeno il superfinanziamento di carrozzoni privati.

L’investimento in cultura e la produzione di conoscenza costituiscono la leva strategica di un modello di sviluppo la cui competitività non si risolva in sfruttamento della manodopera, ma in innovazione. E non c’è innovazione se non si garantiscono risorse adeguate alla scuola e all’università pubbliche, oltre che nelle infrastrutture della ricerca, a partire da biblioteche, archivi, laboratori scientifici.

Chiediamo che le biblioteche, gli archivi e in generale gli istituti di cultura statali – depositari di un tesoro librario in tutto paragonabile alle collezioni di arte e famoso in tutto il mondo – ricevano regolarmente il finanziamento ordinario che solo può consentirne la vita, e che di conseguenza possano assumere personale qualificato.

Formazione
Chiediamo che sia garantita a tutti la fruibilità pubblica della cultura e del patrimonio storico-artistico, chiave di ogni formazione alla cittadinanza attiva e consapevole. Chiediamo, dunque, che ogni politica di bigliettazione e gratuita sia fondata solo sul criterio della maggior accessibilità sociale, considerando tutti i luoghi della cultura, come parchi, siti, musei, archivi, gallerie, cinema e biblioteche come parte integrante del percorso formativo di ognuno.

Chiediamo che si insegni davvero la Storia dell’arte nelle scuole italiane: che la si insegni in tutte le scuole secondarie. Che la si insegni con particolare attenzione alle sue implicazioni culturale, a livello locale, nazionale e internazionale.

Chiediamo che, subito, si cominci col ripristinare le molte ore tagliate dalla Riforma Gelmini e non più reintrodotte, nonostante le promesse di questo Governo, e che gli insegnanti siano quei laureati e abilitati in Storia dell’arte, la cui preparazione costituisce un valore aggiunto per un’offerta formativa non solo culturale, ma anche civica e sociale.

Chiediamo un pieno finanziamento del diritto allo studio e dei luoghi della formazione nel nostro Paese. Chiediamo che scuole ed università tornino ad essere, in ottemperanza alla Costituzione, accessibili a tutti e baricentro di relazioni e interscambi con siti museali e patrimonio storico-artistico del territorio.

Conclusione

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ama usare senza risparmio la retorica della Bellezza, e contemporaneamente sostiene che «soprintendente» sia la parola più brutta della burocrazia. Noi ci rivolgiamo al Paese per smascherare questa narrazione, questo storytelling, questa gigantesca mistificazione: se l’Italia è ancora bella, è perché le generazioni che ci hanno preceduto hanno saputo scrivere regole giuste e lungimiranti, e hanno saputo investire sul lavoro di chi era chiamato ad applicarle e a farle rispettare. Una storia antica, che è stata messa in crisi dalle decisioni dissennate prese nel ventennio berlusconiano, che tuttora si continua a seguire.

Oggi, invece, il governo Renzi scommette tutto sulla rimozione delle regole, e progetta un futuro in cui nessun tecnico possa opporsi all’arbitrio del potere esecutivo: questo significa porre le premesse del consumo finale del nostro paesaggio e della nostra arte.

Non ci riconosciamo in questa Italia che divora se stessa a beneficio di pochi ricchi e potenti. Ci riconosciamo, invece, nel progetto della Costituzione, per la quale il patrimonio culturale serve alla costruzione dell’uguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.

Chiediamo con forza che quel progetto sia finalmente realizzato, non smantellato.

È emergenza cultura: salviamo l’articolo 9!

qui il link al sito del Comitato promotore

Due promotrici e organizzatrici dello straordinario lavoro compiuto delle persone che si sono impegnate nella grande battaglia contro il consumismo energetico e a difesa dei patrimoni e delle risorse comuni sottolineano i risultati positivi raggiunti al di là del dato registrato dalle urne.

La sconfitta di Renzi: aver cercato di mortificare la democrazia, piegato l'informazione, favoritointeressi privati e illeciti facendosene un vanto
La vittoria dei “comitatini ambientalisti”: aver vinto a tavolino 3 su 6 referendum proposti,
aver dato uno stop alla “necessaria” strategicità del fossile in Italia; avere imposto al dibattito politico italiano il tema della conversione ecologica; aver riattivato una coesa opposizione sociale in Italia
Era dal 2011 (referendum Acqua, Nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese.

In appena un mese, quello concesso dal governo per informare i cittadini, e senza alcuna risorsa se non le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra creatività, siamo riusciti ad ottenere l’attenzione ed il voto di un terzo degli italiani. Questo a testimonianza che la società reagisce quando stimolata e non narcotizzata dall’informazione o dalle forme autoreferenziali della politica.

Il successo dei referendum NO TRIV parte dall’aver convinto, da movimenti, ben 10 regioni a deliberare a maggioranza assoluta la loro proposta. Successo che prosegue con la resa del governo Renzi, che pur di non fare esprimere i cittadini sulle trivelle a mare e terra, ha assorbito in legge di stabilità tre dei sei quesiti. Sono state così rigettate dal MISE, Ministero dello Sviluppo Economico, 27 autorizzazioni a nuove trivellazioni entro le 12 miglia, tra cui Ombrina mare, segnando la seconda vittoria del fronte NO TRIV. La terza e più importante vittoria è stata quella di aver imposto al dibattito pubblico il tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi di Parigi sulla riduzione dei gas climalteranti che ha come unica via d’uscita un cambiamento delle politiche energetiche che conducono alla conversione ecologica, mettendo in luce al contempo la grave compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.

In appena un mese sono nati spontaneamente in tutt’Italia centinaia di comitati che hanno lavorato a testa bassa per informare e promuovere il SÌ, lottando contro la mistificazione, la disinformazione del governo e contro l’invito all’astensione.

È stata cosi disvelata una presa di posizione gravissima dell'esecutivo di governo che tradisce una insofferenza all'esercizio democratico popolare previsto dalla Costituzione, ed ancor più il desiderio di avere mani libere nelle decisioni assunte, non solo scavalcando regioni ed enti locali, ma prefigurando una volontà autoritaria che si concretizza nelle riforme costituzionali in combinato con la legge elettorale.

Infatti proprio sulla modifica costituzionale del Titolo V, con cui il governo vorrebbe accentrare al proprio esecutivo scavalcando lo stesso parlamento le competenze attribuite alle regioni in materia ambientale, si riaprirà presto la partita per la democrazia sostanziale e di prossimità.

Laddove si vorrebbe sanare attraverso le modifiche costituzionali quella che è diventata, di fatto, una democrazia solo formale trasformandola in “democratura”, si troveranno i cittadini, i comitati e le associazioni.

Il referendum NO TRIV ha aperto una strada, ha costretto la politica a schierarsi pro o contro, a dividersi facendone emergere le pesanti contraddizioni interne. Ha ridato voce ad un terzo degli cittadini, ha rivitalizzato ogni territorio con un mese di mobilitazioni dal basso che restituiscono linfa vitale alla Democrazia ed alla partecipazione.

Non è che l’inizio! Siamo partiti da tempo promuovendo un altro modello di sviluppo, sostenibile, solidale. Non ci fermeremo.

Un altro mondo è possibile e siamo qui per costruirlo!

(

«Incidenti come quelli di Genova sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle». Il manifesto, 20aprile 2016 (c.m.c.)

È difficile non leggere l’amara vicenda del disastro petrolifero del Polcevera alla luce dell’esperienza referendaria che è stata l’occasione per parlare dei rischi della droga petrolifera che circola nelle vene della nostra società. Le maree nere, gli oleodotti che esplodono, sono solo la cima dell’iceberg di un fiume di idrocarburi (e soldi) che inquinano mari, fiumi e laghi, terre e cielo. E, ovviamente, anche la politica: non solo in Italia.

Di guerre per il petrolio ne abbiamo viste fin troppe (dell’ultima «guerra promessa», in Libia non si sente più parlare… ) ma abbiamo appena assistito a un capitolo di una guerra oggi forse più importante: quella tra il petrolio (e gli idrocarburi in genere) e le nuove fonti energetiche. Meno sanguinosa, ma non meno spietata. Abbiamo infatti avuto il privilegio di assistere alla prima campagna referendaria astensionista di un governo della Repubblica che si adopra per mantenere in vigore un codicillo che è solo l’ennesimo favore ai petrolieri (preoccupati dal nuovo che avanza).

Il testo su cui ci siamo espressi è stato inserito lo scorso dicembre dal governo nella Legge di stabilità. È singolare che il medesimo governo non abbia avuto il coraggio di difendere il suo operato, invitando a votare No, preferendo raccontare un sacco di frottole. Ad esempio, sull’occupazione. Come poteva questo referendum mettere a rischio 11.000 posti di lavoro? Di questi allarmi non si era mai sentito parlare prima, quando (fino al Natale scorso…) vigevano le stesse regole che il referendum avrebbe, semplicemente, ripristinato. Forse, quei 74 posti di lavoro (tanti sono gli «occupati» sulle piattaforme oggetto del referendum) sono più a rischio adesso, vista la valanga di ricorsi annunciati alla Commissione Europea: rischiamo una multa salata.

Una concessione di suolo pubblico deve avere precisa scadenza. L’Ue ci ha bacchettato per aver concesso il «rinnovo automatico» delle concessioni ai balneari. Starebbe zitta su concessioni che possono durare «a piacere» per i petrolieri? La verità è che quei posti di lavoro (gli 11.000 e tutti gli altri del settore) sono a rischio comunque, visto che in tutto il mondo l’occupazione connessa alle attività «petrolifere» è in calo. Per il semplice motivo che gli investitori hanno capito che l’era del petrolio sta finendo e che è il momento di guardare altrove.

Negli scorsi anni, le rinnovabili hanno avuto una crescita tumultuosa in Italia, con errori, sprechi e (come sempre, dove ci sono soldi) intrusioni affaristiche e mafiose. Sarebbe stato saggio regolare e guidare questa crescita, non sabotarla come hanno fatto gli ultimi tre governi. Negli ultimi anni il settore ha perso decine di migliaia di posti di lavoro (secondo il Gse, dal 2008 al 2014 gli occupati (stabili e temporanei) sono passati da 195.000 a 75.000!). Che adesso il Primo Ministro ci ricordi che l’Italia ha un record nel settore fa un po’ strano. Ricorda quell’altro Premier che a L’Aquila, dopo il terremoto, inaugurava prefabbricati regalati da altri. La verità è che nel 2012 in Italia sono stati attivati oltre 150.000 impianti fotovoltaici; nel 2014, primo anno di vita di questo governo, solo 722.

Incidenti come quelli di Genova ce ne sono stati e, purtroppo, ce ne saranno ancora. Sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare (come i veleni nell’aria che respiriamo, mari inquinati, eccetera). Quanto a lungo dovremo pagare questo pedaggio, dipende anche da noi. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle.

Una prima analisi sulle sconfitte e sulle vittorie del referendum. Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (p.d)

Il referendum è fallito, viva il referendum. Il risultato finale, nonostante il mancato raggiungimento del quorum, è in chiaroscuro: i comitati per il “Sì” ieri hanno senz’altro mancato l’obiettivo di portare a votare la metà più uno degli italiani, eppure la stessa presenza in campo dei quesiti (all’inizio erano sei) ha cambiato le carte in tavola.

Partiamo da cosa non è andato. Il referendum chiedeva agli elettori di abolire la norma che permette di prorogare le concessioni per estrarre gas e petrolio in mare entro le 12 miglia (in questo limite è già vietato concedere nuovi permessi) fino all’esaurimento del giacimento.

Il referendum ha perso: regalo ai produttori

Milioni di italiani si sono schierati per non prolungare a tempo indeterminato lo sfruttamento dei giacimenti esistenti o prorogati all’ultimo secondo come Vega A, impianto Edison in Sicilia che è a processo per smaltimento illecito dei rifiuti (li avrebbero iniettati in un pozzo sterile risparmiando 70 milioni). Il quorum, però, non è stato raggiunto e dunque tutto rimane com’è: le proroghe delle 44 concessioni (con 90 piattaforme e 484 pozzi) potranno solcare i decenni con relativo ampliamento degli impianti fino alla fine della “vita utile del giacimento”. Il ritmo di estrazione, peraltro, continuerà a deciderlo l’azienda: metà delle piattaforme, infatti, sono già ferme e la stragrande maggioranza di quelle attive già oggi produce “sottosoglia”(non raggiunge cioè il limite sopra il quale comincia a pagare le royalties allo Stato).

L’effetto sui posti di lavoro temuto dai sindacati e agitato dal governo non ci sarà: va ricordato che i numeri, nel caso di specie, sono assai ballerini. Assomineraria, per dire, ha stimato gli addetti (indotto incluso) prima in 5mila, poi 13mila; i chimici Cgil dicono 10mila; legambiente 3mila. Per la Fiom Cgil, invece, sulle piattaforme oggi lavorano in 100. Qualunque sia la cifra, non cambierà niente. Le compagnie petrolifere poi, col prolungamento delle concessioni, ci guadagnano il rinvio sine die dello smantellamento di quasi la metà delle piattaforme esistenti classificate “non eroganti” o “non operative”: bonificare quei 35 impianti gli costerebbe almeno 800 milioni, ma bonifica e smantellamento sono fasi a grande intensità di manodopera (tradotto: creano più posti di lavoro per anni).

Rimane in piedi, ovviamente, il rischio ambientale: per Greenpeace - che si basa su dati Ispra raccolti in 34 piattaforme Eni - le cozze cresciute sugli impianti hanno livelli oltre i limiti per almeno una sostanza chimica pericolosa nel 75% dei casi.

Il referendum ha vinto: l’esecutivo ci ripensa

La consultazione di ieri, in realtà, ha vinto anche se è fallita: i 10 consigli regionali che hanno chiesto i referendum avevano infatti presentato sei quesiti sul tema energetico, tutti “ispirati” dalle forzatura del decreto cosiddetto “sblocca Italia” del 2014, il cui fine ultimo era esautorare le Regioni da qualunque processo decisionale. Il governo Renzi ha avuto paura e pian piano ha abolito tutte le norme contestate: solo un trucco per tenere in vita senza limiti di tempo le concessioni entro le 12 miglia ha di fatto imposto alla Cassazione di dare il benestare al voto tenutosi ieri.

Le Regioni, in ogni caso, hanno costretto il governo a fare marcia indietro su temi fondamentali: ad esempio è stata abolita la previsione che le trivelle hanno caratteristica di “strategicità, indifferibilità e urgenza”, il che esautora i governi locali da qualunque decisione e militarizza gli impianti sul modello del Tav Torino-Lione. Anche il “titolo concessorio unico” è stato abbandonato: previsto dallo “sblocca Italia” regalava in sostanza alle compagnie petrolifere il tratto di mare da perforare senza alcun limite di tempo (ora dura 30 anni, ma è vigente pure il vecchio iter prorogabile a piacere dal ministero fino a 50 anni).

Il tema del “Piano delle aree” invece è una vittoria agrodolce. Serviva a decidere una volta per tutte dove si può trivellare e dove no: il governo voleva decidere da solo, Regioni e territori chiedevano di partecipare. Soluzione: il “Piano delle aree” è stato abolito. Curioso che la norma sulle proroghe salvata dal fallimento del referendum potrebbe essere abolita dall’Ue: viola i principi della concorrenza.

Articoli di Norma Rangeri, Maria Rita D'Orsogna, Ilvo Diamanti, Marco Bersani, Massimo Franco, Lina Palmerini. Il manifesto, Comune-info, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, 19 aprile 2016 (p.d., m.p.r.)



Il manifesto
PERCHÉ RENZI NON HA MOLTO DA FESTEGGIARE

di Norma Rangeri

Lo scrittore francese, poco noto in Italia, Robert Sabatier, amava gli aforismi. Uno calza alla perfezione con gli ultimi avvenimenti: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare».

Possiamo analizzare il voto di domenica sotto diversi punti di vista, e probabilmente capiremmo che la ragione, o il torto, non stanno tutti da una parte. In particolare quando si tratta di argomenti sui quali cade il macigno della strumentalizzazione politica, mettendo in ombra il cuore del problema.

Tuttavia su un aspetto dovremmo concordare in tanti: l’invito a non votare, a non partecipare ad un momento importante, tra i più significativi della vita democratica, rappresenta un vulnus per la stessa democrazia E chi sostiene che altrove la bassa partecipazione elettorale è una cosa normale, forse non si rende conto che in Italia questo comportamento determina un distacco crescente dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma dello stesso vivere civile.

Per noi è stata una bella battaglia, tutta da rivendicare.

Una battaglia politica combattuta nel paese ad armi impari, senza poter informare sui temi grandi che sono in campo quando si parla di scelte strategiche per un modello di sviluppo. Questioni importanti affrontate dal presidente del consiglio con l’invito alla cittadinanza di disertare le urne. Salvo apparire in tv, subito dopo i risultati, per dirci che l’appello astensionista gli era costato molto, ma che l’aveva fatto solo per salvare tanti posti di lavoro.

Il giovane cinico della politica italiana deve correre ai ripari («chi vota non perde mai») perché il boomerang astensionista domani potrebbe colpire proprio lui.

Nessuno esce vincitore da questa consultazione. Vediamo perché.

Chi ha promosso il referendum sperava davvero di poter dare una scadenza alle trivellazioni (che adesso avranno vita più facile). Così non è stato. E il quorum è rimasto molto lontano.
Chi pensava di usarlo per una spallata al governo – dalla Lega ai 5Stelle – ha perso la partita. Anche perché non l’ha giocata fino in fondo, come avviene per le elezioni politiche e amministrative, quando è in ballo il potere vero.
Gli oppositori di Renzi hanno utilizzato – soprattutto i 5Stelle – soltanto la mano sinistra. Più che essere attori protagonisti si sono comportati da “spalle”, per saggiare il terreno in vista delle prossime battaglie frontali (sui Comuni e sul referendum costituzionale).
Chi predicava l’astensione sa di aver fatto ricorso a un’arma a doppio taglio. Domani la chiamata alle urne sarà complicata, in particolare nei confronti delle persone indecise: volteranno le spalle a chi pensa di usarle solo per il proprio tornaconto.
Infine, chi crede di aver vinto domenica – in primo luogo il presidente del consiglio – raccoglie un risultato miserrimo, perché la frantumazione della sinistra è evidente, perché il Pd è un partito sfasciato, perché gli oltre 13 milioni di votanti per il Sì non faranno sconti a Renzi (che vinse le europee con 11 milioni di voti).

Il premier ha accusato Michele Emiliano, il governatore della Puglia, di aver condotto una battaglia politica a fini personali, come se Emiliano non fosse un rappresentante eletto dal popolo che, come il voto dimostra, lo aveva delegato a condurla (la Puglia, insieme alla Basilicata, ha avuto la più alta partecipazione, in queste terre siamo al 40 e oltre il 50 per cento). Ma a Potenza, a Matera, a Bari, Renzi preferisce Ravenna, che cita come buon esempio di rifiuto del voto. Dimenticando che già alle ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna aveva votato solo il 37 per cento. Già allora, a onor del vero, disse che l’astensionismo non era un problema perché l’importante era portare a casa il risultato. In questo bisogna riconoscergli un pensiero coerente.

Domenica nelle urne ha vinto il grande partito dell’astensione, è questa l’unica vittoria (di Pirro) che può intestarsi il gruppo di palazzo Chigi.

I 16 milioni di italiani che hanno scelto di andare al seggio (l’85% per il si, il 14% per il no) hanno seguito una strada diversa da quella indicata da chi ci governa. Tra questi Romano Prodi, come anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Anche se, per recarsi al seggio, il capo dello stato ha atteso la tarda serata, una scelta curiosa da parte di chi, per tenersi fuori dalla mischia, finisce per distinguersi, in negativo, dal voto mattiniero dei due presidenti del parlamento.

E hanno vinto anche i padroni dei pozzi petroliferi, pur ballando sulla graticola per la vicenda della Total e lo scandalo che sta inchiodando persone importanti. Potranno sfruttare le risorse del territorio a loro piacimento – vita natural durante – e senza creare nuova occupazione. Poi, un giorno, sarà lo Stato italiano a doversi accollare i costi per smantellare gli impianti. Tra l’altro chi sostiene che sono stati salvati posti di lavoro sa – o finge di non sapere – che l’esaurimento delle scorte ridurrà sempre di più il numero di impiegati e operai addetti.

La nuova occupazione si crea progettando cambiamenti duraturi nel tempo. Invece, questo tema, molto forte, è passato in secondo piano. Ma resta un problema centrale, italiano e internazionale. Almeno così pensano quei tredici milioni di italiani che hanno votato Sì.

Certamente non sono tutti ambientalisti, altrimenti avremmo già un partito “verde” rilevante. Tuttavia il “messaggio” lasciato nelle urne è ricco di significati, che solo gli azzeccagarbugli della politica non sono in grado di capire, perché si accontentano di raccogliere le briciole del giorno dopo.

Buon per loro. Non per noi.





Comune-info.net
NON CI SIAMO RIUSCITI.
ANDIAMO AVANTI
di Maria Rita D'Orsogna


Il referendum ha portato il tema petrolio in tutte le case. Gli incontri nei quartieri, lo studio del problema, l’informazione on line sono un patrimonio: occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità

Non ci siamo riusciti. Nonostante tutta la nostra buona volontà e il nostro entusiasmo, la macchina del no, dell’astensionismo, dei geologi al soldo delle fossili, dei lobbisti del petrolio hanno avuto la meglio su di noi. Lo sapevamo tutti che non era una partita alla pari fin dal primo giorno: una data a casaccio, la stampa ufficiale contro di noi, poca e cattiva informazione, gli spauracchi immaginari della disoccupazione e delle luci spente, un primo ministro che invita all’astensione. Onore a noi tutti per averci provato e per averci creduto fino all’ultimo voto.

Mi dispiace molto, e per prima cosa voglio ringraziare tutti quelli che si sono adoperati condividendo post su Facebook, promuovendo incontri di quartiere, facendo passaparola. Voglio ringraziare ogni nipote che lo spiegava al nonno perché votare sì, e ogni nonno che ha capito che era importante. Voglio ringraziare tutti quelli che sebbene lontani da comunità trivellate o trivellande si sono presi la briga di studiare, e sono diventati piccoli attivisti. Anche se non ci siamo riusciti è stato lo stesso una bella pagina di democrazia sana, in cui molti si sono sentiti investiti, con il desiderio di poter far qualcosa di buono.

La sconfitta ci insegna che abbiamo ancora tanta strada da fare. Ma non tutto è perduto. Questo referendum ha avuto il merito di aver portato il tema petrolio nelle case degli italiani, e quantomeno il dubbio che le trivelle non siano benessere e non siano ricchezza per l’italiano medio. Purtroppo per noi, ci sono altre concessioni in terra e in mare previste in varie parti dello stivale per i prossimi mesi, per i prossimi anni. Grazie a tutti i dibattiti referendari quelli che avranno la sfortuna di viverci vicino avranno vita più facile nel contrastare questi progetti, se lo vorranno. Sapranno che si può e si deve lottare, anche se si è in pochi, anche se è difficile. Avranno materiale ed esempi. È tutto scritto, documentato, dai pesci ai terremoti. È scomparso il vuoto mediatico che c’era dieci anni fa e questo anche grazie al referendum che ha obbligato stampa e Tv ufficiali a parlarne, seppure spesso in modo distorto.

A suo modo questa sensibilizzazione è già una vittoria. E adesso cosa fare?Occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità. È persa la battaglia, non la guerra, non la storia.

Anche se Matteo Renzi e Claudio Descalzi andranno a brindare, la storia è dalla nostra parte. Cent’anni fa facevamo buchi perché pensavamo che far buchi fosse lo stato dell’arte. Lo stato dell’arte nel 2016, nonostante il referendum, nonostante chi ci governa, non è fare buchi. È fare tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi con le fonti fossili senza trivellare ad infinitum, senza distruggere la vita di nessuno, senza martoriare l’unico pianeta che abbiamo.

Dobbiamo continuare a opporci alla petrolizzazione d’Italia come fatto finora, ogni santo giorno, e cioè dal basso. Dobbiamo continuare a esigere un ambiente e una democrazia pulite, un Italia che guardi alle rinnovabili e al futuro e non alle trivelle e al passato.

Vinceremo. La storia è più grande di Matteo Renzi.

La Repubblica
L’ANALISI DEL NON VOTO
di Ilvo Diamanti

L’obiettivo prioritario della consultazione si è rivelato quello di mettere in difficoltà il premier: rispetto al risultato del 2011 è significativo che l’astensione sia cresciuta nelle “zone rosse”

Si è conclusa la prima tappa della marcia elettorale che ci attende, da qui fino all’autunno. Dopo il referendum sulle trivelle, infatti, all’inizio di giugno avranno luogo le elezioni amministrative, in alcune città fra le più importanti. Roma, Milano, Torino, Napoli. E in altri tre capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari e Trieste. Infine, in autunno si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento una settimana fa. Il premier, Matteo Renzi, ne ha fatto il banco di prova definitivo per il proprio governo, ma, prima ancora, per se stesso. In fondo: per la propria leadership. Ogni passaggio elettorale assume, però, lo stesso significato. Diventa, cioè, una verifica del consenso verso Renzi e la sua maggioranza. Il premier, d’altronde, non ha fatto nulla per evitarlo. Al contrario. Anche questo referendum è stato puntualmente orientato in questa direzione. Non tanto per decidere sulle “trivelle”, ma per esprimere dissenso oppure consenso verso Renzi. Partecipare al voto significava, dunque, sfiduciare Renzi. Al contrario: astenersi – in subordine: votare no – gli avrebbe fornito sostegno. Conferma. Ed è ciò che, in effetti, è avvenuto. Perché oggi, l’unico argomento di cui si discute riguarda Renzi. Non certo le trivelle.

Eppure, se si valutano i risultati con qualche attenzione, l’importanza delle “trivelle” appare evidente. Basta considerare la geografia della partecipazione elettorale. I livelli più elevati di affluenza si osservano, infatti, nelle aree maggiormente interessate al problema. Cioè, alle trivellazioni. In particolare, la Basilicata (l’unica dove sia stato superato il quorum del 50% degli elettori aventi diritto), quindi, la Puglia e il Veneto. Fra le regioni che hanno promosso il referendum, emergono livelli di partecipazione molto elevati anche in Molise e nelle Marche. Tra le altre: in Abruzzo ed Emilia Romagna. In altri termini: lungo la fascia adriatica. Tuttavia, se ragioniamo sull’astensione “aggiuntiva” rispetto al referendum del 2011, che riguardava “l’acqua pubblica”, si delinea una mappa diversa. Con una caratterizzazione politica più specifica.

Anche il referendum del 2011 aveva una connotazione “ambientalista”. Per questo è significativo che il peso dell’astensione, nel referendum sulle trivelle, cresca, in misura particolare, nelle “zone rosse”. Ma soprattutto in Toscana. La Regione di Renzi. E ciò conferma come le “trivelle” e l’ambiente siano divenuti un argomento, in qualche misura, strumentale. Ricondotto progressivamente all’obiettivo prioritario di “trivellare Renzi”. A questo proposito, il verdetto della consultazione appare chiaro. Non solo perché alle urne si è recata una minoranza (benché rilevante): poco meno di un terzo degli elettori. Ma perché è difficile riassumere per intero la partecipazione al voto sotto le bandiere dell’anti-renzismo.

Lo suggeriscono i dati di un sondaggio condotto da Demos circa una settimana prima del voto. Certo, fra gli elettori del M5S e dei partiti a sinistra del Pd la quota di coloro che si dicono certi di votare risulta particolarmente elevata. In entrambi i casi, poco sotto il 50%. Mentre fra gli elettori degli altri partiti l’intenzione di partecipare al referendum appare più ridotta. In particolare, nel Pd non raggiunge il 30%. Per questo è azzardato interpretare l’affluenza degli elettori come un indice di “sfiducia” nei confronti del governo e del premier. D’altra parte, tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo.

Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e “personale” che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi e, in modo ancor più esplicito, i “renziani” hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.

Ovviamente, questa impostazione rischia di produrre esiti singolari. Trasformando un cittadino, qualsiasi cittadino, interessato a fermare la trivellazione nella costa davanti alla sua città in un anti- renziano, tout-court. E un elettore, anche se ferocemente anti-governativo, ma impossibilitato a partecipare al voto, per motivi di forza maggiore, oppure semplicemente, disinteressato al problema, in un partigiano di Renzi. Ma mi sorprende - e inquieta - che lo stesso premier possa vedere nell’astensione - anche se in un caso specifico come questo - una risorsa. Una fonte di consenso politico. Personale.

Personalmente, osservo con qualche inquietudine questa “deriva” del dibattito politico. Che, peraltro, talora in contrasto con le stesse intenzioni dei protagonisti, trasforma e estremizza ogni confronto in senso “personale” e “referendario”. In altri termini, riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi. Che si snoderà da qui in avanti. Non solo nei prossimi mesi.
Se questa idea fosse fondata, allora sarebbe meglio non nascondere la testa sotto la sabbia. Perché significherebbe che, con il contributo attivo del fronte anti-renziano, ci stiamo avviando verso un “governo personale” del premier. Come ho già scritto in passato: in un premierato – per non dire in un presidenzialismo – “preterintenzionale”. Al di là delle intenzioni: nei fatti e nella pratica. A maggior ragione se si tiene conto degli effetti di “semplificazione” prodotti, nei processi decisionali, dalla riforma costituzionale e dalla nuova legge elettorale.
Personalmente, non ho pregiudizi. Ma se si va verso una democrazia “immediata” e “personalizzata”, allora, forse, sarebbe meglio tenerne conto per tempo. E orientare in quella direzione la “riforma” della Costituzione. Senza riscriverla e ricostruirla un pezzo dopo l’altro. Una spinta dopo l’altra. Un referendum dopo l’altro. In modo preterintenzionale.

Il manifesto
LE RAGIONI DEL QUORUM MANCATO
SULLE TRIVELLE
di Marco Bersani

Un’analisi del voto referendario del 17 aprile richiede una valutazione complessa per le numerose variabili da considerare. Tredici milioni di persone che votano Si in un referendum che si è fatto di tutto per boicottare, non sono poche, soprattutto in un paese dove la disaffezione al voto – frutto della caduta verticale di fiducia verso la politica istituzionale – è diventata di ampia portata e quasi endemica.

Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in campo per il mantenimento dello statu quo. Il presidente del consiglio, dapprima con la definizione della data – nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria – poi con la discesa in campo aperto per l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria che propone al paese.

I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte. A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.

Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta. Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.

Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito.

La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.

Se Eugenio Scalfari può scrivere sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara -e la utilizza pro-Renzi- esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.

E’ questa realtà a dimostrare, come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.

Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da due settimane, sui referendum “sociali”.

A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la partecipazione al voto.

Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno determinato l’impossibilità “strutturale” di un esito positivo.Tredici milioni di persone hanno comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai poteri forti di questo paese. A mio avviso si parte da lì.



Corriere della Sera
VITTORIA NETTA
MA DA GESTIRE SENZA IRRITARE GLI SCONFITTI PD
di Massimo Franco

Con una punta di fatalismo, l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha liquidato le polemiche post-referendum commentando: «Il Paese è fatto così». Eppure, nello scontro seguito alla bocciatura del voto sulle trivellazioni, sono emerse due caratteristiche aggiuntive. La prima riflette il modo strumentale col quale la minoranza del Pd ha affrontato il referendum. Ha cercato la saldatura con le opposizioni, sperando di colpire Matteo Renzi e il suo governo, favorevoli all’astensionismo: operazione miseramente fallita. Ma anche il premier, forse, sopravvaluta il proprio ruolo.

Il non voto, che Palazzo Chigi comprensibilmente legge in chiave di partito, avrebbe vinto comunque, visto il tema sul quale si era chiamati a decidere. Anzi, non è da escludersi che la radicalizzazione del confronto abbia portato alle urne più gente di quanta sarebbe andata senza le liti tra Renzi e il fronte antigovernativo. E questo porta alla seconda riflessione, legata allo strumento referendario. Ormai è chiaro che si tratta di un istituto in crisi. Nato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per grandi battaglie come divorzio, nel 1974, e aborto nel 1981, ha poi vissuto una rinascita coi referendum elettorali: prima quello di Mario Segni nel 199, poi quelli radicali del 1993.

Sono state le ultime vampate di uno strumento di democrazia diretta, svuotato dall’abuso che ne è stato fatto. E dopo le percentuali bassissime di ieri, appena sopra il 32 per cento, si ripropone il tema di come regolamentarlo. Il tema è quello di conciliare la voglia di cambiare le leggi dal basso, con l’esigenza di non imporre al corpo elettorale di pronunciarsi su temi troppo settoriali e astrusi. Eppure, M5S, di FI e avversari di Renzi nel Pd rilanciano. Puntano a sconfiggere il governo in quello istituzionale di ottobre sulle riforme, tentando una seconda spallata dopo quella appena fallita. Gli oltre 15 milioni di elettori che comunque sono andati a votare sulle trivellazioni vengono presentati come una sorta di avanguardia dell’armata anti-premier. La sconfitta di domenica viene così rimossa e sostituita da una nuova offensiva: confidando magari in un insuccesso del partito del premier alle Amministrative di giugno in grandi città come Milano, Roma e Napoli.

I toni usati dallo stesso Renzi e da alcuni esponenti a lui vicini possono rivelarsi a doppio taglio. La tesi secondo la quale «la demagogia non paga» e che col referendum sono stati buttati 300 milioni di euro, è difficilmente contestabile. Non vedere, però, che in questo modo Palazzo Chigi può esacerbare la minoranza del Pd alla vigilia di elezioni già difficili, è assai rischioso: sebbene gli avversari sottovalutino l’immagine di novità che le riforme, al di là del loro merito, proiettano sul referendum prossimo venturo.

Il Sole 24 Ore
LE DUE VERSIONI SUL QUORUM
di Lina Palmerini
La versione degli sconfitti al referendum è una non-notizia: ossia che nel Paese c’è un’opposizione a Renzi. La versione del vincitore è che negli italiani è prevalso il buon senso sul tema energetico, sulla tutela del lavoro e sullo sviluppo. Per il premier c’è quindi una maggioranza che sostiene la sua spinta riformista contro l’immobilismo.
Versioni che presto saranno verificate alle amministrative e in particolare a Milano e Torino. Perché la questione dell’economia e dell’occupazione, della cultura pro-impresa contro gli sbarramenti dell’ambientalismo è di certo più sentita in quelle aree del Nord che non a caso sono state sempre il terreno più difficile per la sinistra pre-renziana. Ci provò Walter Veltroni nel suo discorso del Lingotto a descrivere un’altra idea di sinistra sullo sviluppo ma, da allora e nonostante il 34% dell’ex leader, il Pd non ha mai vinto le elezioni. Non nel 2008, non nel 2013. E questa resta la prova più ardua anche per Renzi, verificare la credibilità del riformismo del suo Pd. Quello del Jobs act e del taglio dell’Imu, degli 80 euro in busta paga e della promessa del taglio Ires e, magari presto, dell’Irpef. Per non parlare del nome del ministro dello Sviluppo che ancora non c’è. E che sarà un tassello non banale nella squadra di governo anche in un’ottica Sud-Nord.
Per questa ragione in quelle due città in cui si vota a giugno, Milano e Torino, si farà un test importante dal punto di vista dell’approccio renziano all’economia oltre che cruciale sul piano del risultato. Perché se è vero che Napoli e Roma hanno degli alibi, sia pure striminziti, viste le precedenti gestioni e lo stato del partito, in quelle due città Renzi non può perdere. Tra l’altro, erano date vinte in partenza ma più si avvicina il voto – anche se manca ancora troppo tempo - più appaiono in bilico secondo i sondaggi. Si parla di un testa a testa tra Giuseppe Sala e Stefano Parisi, e di uno scarto minimo anche tra Piero Fassino e Chiara Appendino dei 5 Stelle. E non si potrà nemmeno dire che i due candidati sono estranei alla “cultura” renziana visto che il primo è stato scelto proprio dal premier, il secondo è stato con il premier già dalla battaglia congressuale.
E dunque se è vero che il referendum sulle trivelle non ha dato quorum perché, come dice Renzi, c’è un’Italia che ha premiato un’idea di sviluppo e tutela del lavoro piuttosto che le ragioni personali dei suoi oppositori, tanto più dovrebbe ritrovarsi in queste due città del Nord.
Gli sconfitti del referendum ancora ieri agitavano i numeri contro Renzi, chi parlava dei 13 milioni di votanti chi addirittura 16 milioni, ma questo si sapeva già. Perfino alle europee di due anni fa contro il premier ha votato (o non votato) il 60% degli italiani. Il punto è che alle urne di domenica sono rimasti minoranza. E per trasformare questa massa critica in maggioranza servono contenuti che non si vedono e che certo sono mancati nella battaglia referendaria. O almeno che non sono stati convincenti per gli italiani. Oggi si replica. Nel senso che alla non-notizia che esiste un’opposizione nel Paese, si vedrà che esiste anche al Senato ma che non ha i numeri per rovesciare il governo. Nel pomeriggio, infatti, si voterà la mozione di sfiducia contro il governo. Sarà al Senato, Renzi parlerà alle 18, le opposizioni si coalizzeranno contro di lui ma difficilmente le minoranze diventeranno maggioranza. Dunque due esercizi andati a vuoto.
Di portata diversa è stato l’esercizio di ieri di Banca d’Italia che ha messo in dubbio le previsioni del Def considerando i rischi al ribasso sulla crescita determinati dalla complessità del quadro internazionale oltre che interno. Insomma, la battaglia del quorum è stata certamente vinta ma non è detto che le ragioni siano quelle di cui parla Renzi. Si vedrà a giugno, se il premier farà breccia in due luoghi emblematici del Paese.

« Quasi 16milioni alle urne, altro che referendum bufala. La rabbia dei No Trivdella Lucania, unica regione in cui è stato raggiunto il quorum.Scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute: ilministero sapeva. Arriva una nuova richiesta di moratoria. In attesache la Ue apra un procedimento d’infrazione». Il manifesto, 19aprile 2016 (c.m.c.)

I no oil rilanciano. E per Renzi – è quasi una promessa quella che viene fatta il giorno dopo il referendum – saranno seccature grosse. Se il premier pensava che, dopo il voto, il fastidioso refrain del «no alle piattaforme offshore», si sarebbe esaurito, beh, si sbagliava. Perché «il referendum bufala», come lui l’ha definito, in realtà per gli ambientalisti, per tante organizzazioni e associazioni è servito come spinta a proseguire la battaglia contro l’assalto delle compagnie del petrolio alle coste, e non solo, del Belpaese.

«Il quorum – dice il Coordinamento nazionale No Triv all’indomani della consultazione popolare che ha portato alle urne 15.806.788 cittadini su 50.675.406 aventi diritto (31,19%) – non è stato raggiunto a causa dei reiterati attacchi del governo alla democrazia. Inoltre lo smantellamento progressivo dei diritti, il dilagare della precarietà e della disoccupazione di massa, hanno incancrenito livelli inediti di sfiducia nello Stato, relegando alla chiusura in sé quasi il 50% della popolazione. Ancora più grave, in tale contesto, la scelta, contra legem, di un presidente del Consiglio e di un ex presidente della Repubblica, di invitare all’astensione. Ma il referendum – viene aggiunto – non è mai stato un punto di arrivo: è una tappa di percorso, perché la nostra battaglia contro le lobby delle fossili continua».

A rintuzzare l’attacco Enzo Di Salvatore, costituzionalista, autore dei quesiti referendari. Che spiega, al di là delle cifre, l’utilità dell’iniziativa referendaria: «Innanzitutto la Strategia energetica nazionale, avviata da Monti, ha subito modifiche. La questione delle trivelle e della necessità delle rinnovabili pulite è entrata nelle case degli italiani, ha mobilitato i territori – mentre prima questi temi erano relegati alle aule universitarie – e ha conquistato uno spazio centrale nel dibattito politico. Ventisette procedimenti per il rilascio di nuove concessioni in mare sono stati chiusi e alcune compagnie petrolifere, come Shell e Petroceltic, hanno rinunciato a permessi già ottenuti. In Abruzzo è stato bloccato il progetto “Ombrina Mare” sulla Costa dei Trabocchi».

Ancora. È stato scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute in Adriatico, di cui il ministero dello Sviluppo economico sapeva, e rispetto alle quali ha lasciato che l’attività estrattiva «andasse avanti in spregio alla legge». «Io – tuona Di Salvatore – non mi posso permettere di andare i giro con l’assicurazione o la patente scaduta perché scattano sanzioni. Mentre i petrolieri, con le autorizzazioni scadute e non rinnovate – qualcuna addirittura dal 2009 – continuano a tirar fuori idrocarburi». Tutti adesso – viene inoltre sottolineato – «sanno che non c’è da fidarsi dei controlli che vengono fatti e che il ministero dell’Ambiente ignora (come nel caso della piattaforma Basil), lasciando che le multinazionali avvelenino il nostro mare».

«La battaglia contro le trivelle – prosegue Di Salvatore – riparte con più forza: innanzitutto con la messa in mora del Mise rispetto alle concessioni scadute prima del 31 dicembre 2015, che dovranno cessare la loro attività immediatamente e, in seconda battuta, con una nuova richiesta di moratoria delle attività estrattive, sull’esempio di Francia e Croazia». In ballo poi c’è anche l’interrogazione dell’europarlamentare Barbara Spinelli (gruppo Gue/Ngl) che ha chiesto alla Commissione europea se non ritenga di aprire una procedura di infrazione per violazione delle regole sulla concorrenza in merito alla durata delle concessioni fino a esaurimento dei pozzi. «Invitiamo tutti a non abbassare la guardia e a non farsi abbindolare da frasi barzelletta su posti di lavoro e cali sulla bolletta».

Durissimi i No Triv della Lucania, l’unica regione in cui il quorum è stato raggiunto. In un documento attaccano il «governo burattino delle lobby del petrolio che, stando alle inchieste dei carabinieri del Noe e della Direzione nazionale antimafia in atto in Basilicata, mostra di ora in ora la sua vera natura di comitato d’affari. Numeri alla mano, – sottolineano – questo referendum mette definitivamente in minoranza le pulsioni petrolifere del presidente renziano Pittella, che deve smetterla di blaterare di “limite invalicabile” dei 154mila barili giornalieri, ben sapendo che sta chiedendo il raddoppio estrattivo di fatto, in una realtà che ha già dato troppo, in termini di salute, di esodo, di sacrificio della propria autonomia decisionale, economica e democratica! Chiederemo i dovuti e necessari accertamenti sulla situazione delle falde acquifere dopo un secolo di attività estrattive in Basilicata; sulla situazione dei pozzi chiusi, incidentati, abbandonati».

È rabbia pura nel posto d’Italia dove i due terzi del territorio sono stati «sacrificati alle multinazionali del fossile e alle casse del fisco come hub energetico”» Insomma i «4 comitatini» (come li ha definiti Renzi) si sono organizzati…

La cronaca del voto. Il Fatto Quotidiano online, 18 aprile 2016. (p.d.)

Il referendum sulla durata delle concessioni alle trivelle non è valido. Alle urne si è presentato il 32,15 per cento degli elettori aventi diritto, che scende al 31,18 se si tiene conto del (non) voto degli italiani residenti all’estero. In totale si tratta di 15 milioni e 806.788 elettori. I sì sono la maggioranza conl’85,84 delle preferenze (contro il 14,16 dei no), ma l’esito della consultazione non sarà tenuto in considerazione. Solo la Basilicata supera la soglia minima del 50 per cento, segno che ha l’inchiesta sul petrolio ha pesato nelle decisioni degli elettori, anche se non tutte le zone interessate dalla presenza di impianti hanno reagito allo stesso modo (basti pensare al 28,58 di affluenza di Ravenna). Alle 19 aveva votato il 23,5 degli aventi diritto, mentre alle 12 l’8,35.

Hanno votato le più alte cariche dello Stato: in mattinata si sono presentati alle urne i presidenti di Camera e Senato, solo alla sera – intorno alle 20,40 – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tra gli altri esponenti politici si sono presentati ai seggi il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, il leader del M5s Beppe Grillo e l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Il Pd aveva dato indicazione di astenersi, ma non tutti gli esponenti hanno rispettato la direttiva. Ha votato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, mentre non si è presentato al seggio Silvio Berlusconi.

Pochi minuti dopo la chiusura delle urne, il primo a commentare è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi con un discorso da Palazzo Chigi. E ha attaccato, senza citarlo, il governatore Pd della PugliaMichele Emiliano: “Ha perso chi voleva il voto per motivi personali”. Il presidente Pd, tra i sostenitori del referendum, aveva esultato dopo la prima rilevazione dell’affluenza alle 12 dicendo che “il quorum era un’impresa possibile”. Poi in serata, quando sembrava difficile ottenere il risultato, aveva detto: “Sono soddisfatto, hanno votato 11 milioni di elettori come quelli che hanno espresso la preferenza per il Pd alle scorse Europee. Il governo dovrà tenere conto che milioni di italiani hanno un’idea delle politiche energetiche diverse”. Della stessa opinioni i comitati No Triv che hanno commentato: “E’ già un risultato straordinario quello ottenuto”.

I problemi, al di là del risultato, riguarderanno i contraccolpi all’interno del Partito democratico in vista delle amministrative, ma anche del referendum confermativo sulle riforme costituzionali. Infatti molti esponenti del Pd hanno deciso di andare contro la linea di non andare al voto e nel pomeriggio le polemiche sono scoppiate su Twitter. Il deputato renziano Ernesto Carbone ha canzonato i sostenitori del referendum scrivendo: “Quorum? Ciaone”, ed è stato sommerso dalle critiche. Poco dopo c’è stato un botta e risposta tra Emiliano e il membro dello staff comunicazione di Renzi Francesco Nicodemo.

Superato il quorum in Basilicata e alle isole Tremiti
In Basilicata e alle Isole Tremiti il referendum ha raggiunto il quorum. Entrambe le realtà sono toccate da vicino dalla questione trivelle. Per le Isole Tremiti il pericolo sembra scongiurato vista la rinuncia della società Petroceltic che avrebbe dovuto estrarre idrocarburi al largo di San Domino, mentre nel territorio potentino c’è il Centro Oli di Viggiano al centro delle polemiche per l’inchiesta sul petrolio.

Il paragone con il 1999
L’unico confronto possibile è stato quello con il referendum sul sistema elettorale maggioritario dell’aprile 1999, perché anche in quel caso si è votato un solo giorno: alle 11 di quel giorno l’affluenza era del 6,7%. A fine giornata si arrivò al 49,58%. A un passo dal quorum. Più difficile il paragone con l’ultimo referendum che ha raggiunto il quorum, quello del 2011 su acqua, nucleare e legittimo impedimento: in quel caso si votava anche di lunedì.

Comitato No Triv: "Un successo"
Secondo il coordinatore nazionale del comitato “No Triv” e autore dei quesiti referendari Enzo Di Salvatore “è già un risultato straordinario”: “Su un tema cosi difficile”, ha detto all’agenzia Ansa, “e con poco tempo concesso per far dibattere paese, comunque vada a finire è già un risultato straordinario. Al di là di come finirà, sottraendo il 25% degli elettori che non va a votare calcolandolo sulle politiche, se si supera il 35% è un risultato straordinario, si può dire la maggioranza di quelli che vanno alle urne”. Per Di Salvatore va considerato anche che in passato “si è votato su due giorni e solo una volta in aprile. In questa occasione è stata una campagna breve, e organizzarsi difficile, ma quello che abbiamo fatto in due mesi e mezzo è stato strepitoso”.

PD spaccato, lite su Twitter. Carbone: "Quorum? Ciaone"
Il partito resta profondamente spaccato e i dirigenti Pd non hanno perso occasione di scontrarsi sui social network a urne ancora aperte. A far discutere il tweet del deputato renziano Ernesto Carbone che ha lanciato l’hashtag #ciaone per canzonare i sostenitori del referendum: “Prima dicevano quorum”, ha scritto, “Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare”.
Lite su Twitter anche tra il presidente Emiliano e il membro dello staff comunicazione di RenziFrancesco Nicodemo. A provocarlo quest’ultimo che gli ha scritto: “Nonostante i retweet alla gente che odia il Pd, il quorum è lontano. E mo’?”. Il governatore della Puglia ha risposto: “Stanno andando a votare milioni di italiani, non far perdere altri voti al Pd che avete già fatto un danno enorme”. E infine la controreplica di Nicodemo: “Hai attaccato il tuo segretario e il tuo partito. E questo è il risultato. Non ho altro da aggiungere”.

Comitato per il SI denuncia "anomalie" ai seggi
Il Comitato “Vota Sì per fermare le trivelle” ha raccolto numerose segnalazioni da parte di cittadini che denunciano ostacoli nell’esercizio del voto. In particolare a Roma “alcuni cittadini hanno denunciato di aver trovato sbarrato il seggio dove erano soliti votare come nel caso di Via della Magliana 296, senza aver avuto preventiva informazione dell’accorpamento del seggio da parte del Municipio di competenza”. In alcuni seggi starebbero conteggiando, tra i votanti, anche minorenni che non hanno diritto al voto. Grazie a scrutatori attenti, dicono dal Comitato, “è stato possibile riconteggiare correttamente i votanti ai fini del quorum”. Nel pomeriggio il Comitato ha segnalato anche che nei seggi 1719, 1720, 1721 del quartiere Prati (Roma), “l’urna è stata consegnata dopo le ore 8 a più di un’ora dall’apertura. La stessa cosa è accaduta presso laScuola Cairoli per i seggi 1765, 1766, 1767″. Il Comitato ha inoltre denunciato che “a studenti rappresentati di lista è stato vietato di votare perché le deleghe non sono state trasmesse dal comune di Roma”.

Lo scrittore No Tav: « l’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, il premier è spaventato da qualunque dissenso. Domani qualcuno canterà: ’Quorum ingrato’, spero che sia lui». Il manifesto, 17 aprile 2016 (c.m.c.)

Intervista a Erri De Luca

Lo scrittore Erri De Luca è tra i firmatari dell’appello «Ferma le trivelle, Vota Sì» promosso, tra gli altri, dal Coordinamento nazionale No Triv, Referendum 2016 Trivelle in Mare, Slow Food, Legambiente. Nel video diffuso in rete spiega: «Affolliamo di sì le urne per non svendere il mare nostro e per conservare il reddito della bellezza». Un impegno che prosegue la battaglia contro la Tav, per cui ha subito un processo da cui è uscito assolto a ottobre 2015. Dallo sventrare montagne e territori a perforare i fondali senza limiti di tempo, nei governi italiani sembra esserci continuità.

Legambiente ha disegnato la mappa delle inchieste italiane nel settore idrocarburi: tra gli esempi, l’accusa di smaltimento illegale delle acque provenienti dalle lavorazioni petrolifere al «Centro Oli di Viggiano di proprietà dell’Eni; la questione della piattaforma Vega A al largo delle coste siciliane di Pozzallo della Edison; lo scossone giudiziario che nel 2008 ha coinvolto il gruppo Total per un’inchiesta della procura di Potenza per tangenti sugli appalti per l’estrazione del petrolio in Basilicata».

La ministra Guidi ha dato le dimissioni per l’inchiesta Tempa Rossa ma Renzi rivendica le norme varate dal governo. L’azione dell’esecutivo sembra imbastita sulle lobby.

Come per la fasulla alta velocità in Val di Susa, spacciano vocabolario falso, dichiarano strategiche opere di perfetto spreco delle risorse pubbliche, si intascano tangenti a tutti i livelli di intermediazione: voglio credere che questo referendum dichiari l’Italia fuori della disponibilità di questo curatore fallimentare.

Renzi ha schierato governo e maggioranza Pd per l’astensione. Molti presidenti di regione si tengono lontani dal voto. L’ex presidente Napolitano è intervenuto per bollare la consultazione come «pretestuosa». Perché il quesito preoccupa il governo?

Il governo è preoccupato da qualunque dissenso. In Parlamento se la cava con l’aiuto di tutti quelli che vogliono far durare la legislatura fino all’ultimo spicciolo di stipendio, fuori di lì annaspa. Il referendum di oggi non è necessariamente un voto anti governo, ma l’istigazione a non votare, per sabotare il quorum, lo ha trasformato in un pronunciamento di più vasta portata. Ora il governo è spaventato dal quorum, cioè dai cittadini. Domani qualcuno canterà: «Quorum ingrato», spero che sia lui.

L’informazione mainstream sembra aver sposato la linea del governo. L’opposizione al premier, soprattutto se viene da comitati e movimenti, spesso viene liquidata o oscurata.

L’informazione? Non posso chiamare così il servizio stampa governativo che domina a reti unificate, con giornalieri al seguito. Godiamo ufficialmente della minore libertà di stampa di Europa. Il referendum è un buon assaggio per sapere se possiamo fare a meno dei loro notiziari drogati, se possiamo informarci e avere voce senza di loro.

Estrarre petrolio e gas a costo di rovinare mare, aree paesaggistiche e agricole più la salute dei cittadini, agevolando le compagnie petrolifere, è l’unica via che abbiamo?

E’ l’unica via, anzi l’unico vicolo cieco che vedono loro, la svendita più facile e al ribasso delle nostre coste, della economia di paese, di mare, della nostra salute disprezzata come mai prima nella storia moderna. L’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, scegliendo di dipendere dal sole e dal vento, non dalle trivelle che concedono quel rimasuglio di greggio a petrolieri in via di esaurimento energetico e nervoso.

Matteo Renzi racconta che il referendum «è una bufala». Non dice che il referendum impedirà ulteriori ampliamenti. Mette sul tavolo i posti di lavoro che si perderebbero ma sorvola sul reddito medio in Basilicata: il Texas italiano è tra le regioni più povere del paese.

Ben detto, ma grida vendetta il guasto dell’Eni a Viggiano. Un giorno saranno chiamati a rispondere di crimini di guerra in tempo di pace contro la popolazione civile.

Un articolo di Carlo Olmo e un'intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo sul tema al centro della prossima Biennale architettura. Progettare per combattere il disagio abitativo e garantire il diritto alla città oppure per creare oggetti e celebrare se stessi? La Repubblica, 17 aprile 2017

ARCHITETTURA POVERA
di Carlo Olmo

Celebri progettisti come Renzo Piano si dedicano alle aree periferiche, in Italia e negli Stati Uniti La prossima Biennale apre all’inclusione sociale e alla riduzione delle disuguaglianze. Tornano in voga questioni già poste dal movimento moderno e accantonate da una ricerca esasperata di forme bizzarre e spettacolari. Ma è una vera svolta?

Stiamo forse assistendo a un ennesimo ribaltamento del rapporto tra architettura e città, tra architettura e società? Rientra al centro dell’attenzione un’architettura che si misura con le necessità primarie dell’individuo, con l’inclusione sociale e che accantona la ricerca estetica portata fino alla bizzarria? E il pendolo di una sia pur debole teoria sta forse tornando a orientarsi sui temi dell’abitare di una popolazione che però non conosce quasi più il ceto medio per cui l’architettura e la città del Novecento sono state pensate?

La sensazione di disagio che oggi si vive per esempio scendendo alla Station Front Populaire della linea 12 del metro parigino e avviandosi verso il nascente Campus Condorcet, destinato a ospitare alcune delle più importanti università del Paese, nasce proprio dal percepire un modo di abitare fatto di case, vie e piazze pensate per una popolazione che non c’è. Il Diritto alla città, titolo di uno dei testi più citati su questi argomenti dal 1971 quando Henri Lefebvre lo pubblicò, fondamentale ascensore sociale allora, come si pratica oggi in luoghi che sono situati tra un centro abitato da chi è in grado di pagare il valore simbolico che le centralità incorporano e quella che si è abituati a chiamare città diffusa?

Periferie che hanno perso, per fortuna, la funzione di dormitori di una città moderna e industriale che non esiste più almeno in Europa, ma che conservano luoghi urbani molto identificabili e morfologie oggi criticatissime come, per restare vicino al Campus Condorcet, La Courneuve. Un grand ensemble di 4000 alloggi che Jean-Luc Godard nel 1967 rappresenta in tutti i suoi contradditori aspetti in quel film straordinario che è Due o tre cose che so di lei. E nei confronti della quale, la scelta di raderla al suolo ha trovato nelle comunità che la abitano non solo una resistenza insuperabile, ma una vera forma di patrimonializzazione dal basso del tutto inattesa. Ma gli architetti davvero oggi tornano a essere sensibili a un diritto alla città riproposto in maniera tanto diversa nelle periferie europee o nei più grandi slum del mondo?

Forse il ripensamento che porta Renzo Piano a soggiornare a New York per seguire il completamento del Campus della Columbia University ad Harlem (che firma con uno dei più famosi studi americani, la Skidmore, Owings & Merrill), ha, tra le ragioni, anche quella che ha portato Elisabeth e Christian de Portzamparc – due archistar dalla storia davvero diversa – a partecipare (vincendolo) al concorso per la biblioteca proprio del Campus Condorcet. E questo mentre un testo culto dell’architettura contemporanea, Delirious New York, della più influente archistar di oggi, Rem Koolhaas, è usato come trama dall’Office of Human Theatre per ironizzare proprio sul mondo che Koolhaas più di tutti incarna.

Una crisi di valori profonda impone ad architetti e urbanisti una riflessione su alcune rotture che si sono prodotte nel mondo dell’architettura, rotture che la prossima Biennale di Alejandro Aravena e il Padiglione Italia sembrano segnalare. La prima, forse la più evidente rottura, è quella tra linguaggi e organizzazione spaziale. Non è forse inutile ricordare che l’esercizio più sofisticato che l’architettura del Novecento abbia conosciuto sono le autentiche variazioni Goldberg che quello straordinario migrante che fu Alexander Klein progettò dal 1927 al 1931, tra Berlino e Lipsia, lavorando sull’Existenz-minimum, vale a dire su come soddisfare i bisogni elementari di un essere umano. Esercitare intelligenza, fantasia, creatività sul modulo abitativo non solo più ridotto – il modulo Loucheur su cui anche Le Corbusier lavorò negli anni Venti in Francia è di 24 metri quadrati – ma che aveva l’ambizione di contenere l’abitare dell’uomo in tutte le sue funzioni essenziali, fu davvero una straordinaria scommessa. La rottura tra linguaggi e distribuzione a favore della ricerca estetica di talune archistar non ha solo messo in discussione lo stesso mestiere dell’architetto, a favore del designer e dell’ingegnere, ma ha favorito un’altra, fondamentale rottura: quella tra involucro e costruzione. Forse quella che stiamo vivendo è la stagione in cui la materia dell’architettura è più omologa, resa tale da società di ingegneria che hanno costruito un oligopolio della costruzione dal Bahrein a San Paolo e da imprese multinazionali che arrivano a costruire architetture in cui si entra, in qualsiasi parte del mondo, e si procede per riconoscimento: dall’ingresso sino alla camera, alla stanza di riunioni, alla sala d’attesa, il percorso, la distribuzione dello spazio è eguale ovunque. Architetture che sembrano richiamare un’estetica del vuoto, quasi lacaniana.

All’architetto e al suo rapporto con la materia resta l’involucro e il suo valore di simbolo estraniato dalla distribuzione spaziale. L’estetica del riconoscimento porta con sé, quasi automaticamente la ricerca di un rococò esasperato, di involucri che devono nascere, non diventare nel tempo e con la selezione delle architetture, landmark, senza però avere come i landmark nella cultura statunitense alcun rapporto con il territorio.

Essere ridotti a mascherare la realtà forse non sarebbe stato sufficiente, se il consumo del suolo, di una risorsa in sé limitata, non avesse quasi imposto la riformulazione del paradigma progettuale. Ritornare a pensare il progetto a partire da modificazioni di un patrimonio stratificato di segni e popolato di tracce, un patrimonio in cui però è sempre più il vuoto a segnare il paesaggio – l’alloggio, il capannone, l’ufficio abbandonati e sfitti stanno diventando la norma – rende quasi necessario calare la maschera. È la rivincita del piccolo sul seriale, della qualità sulla quantità, del metodo che Alexander Klein chiama il procedere per successivi incrementi a riportare in primo piano la necessità di architettura, assieme al mutamento radicale della stessa idea di città.

Nel 2010 esce L’aventure des mots de la ville: 240 voci e 160 autori si confrontano con il mutar di senso delle parole che accompagnano il rapporto tra architettura e città. L’architettura deve oggi misurarsi con mutamenti che interessano le parole che la raccontano e farlo dall’interno di mura non più disegnate da ingegneri militari, ma da un’economia morale della terra. Vincerà La grande trasformazione di Karl Polanyi e con lei un’architettura necessaria perché solo l’intelligenza progettuale può rispondere a questo nuovo paradigma insieme economico, sociale e culturale? Se si guarda ai tanti ribaltamenti anche solo di cosa siano centro e periferia a Neza-Chalco- Itza, lo slum situato alla periferia Nord del Distretto Federale di Città del Messico con 4 milioni di abitanti, o se si riconoscono i mutamenti intervenuti nella più grande favela di Rio de Janeiro, Rocinha, anche attraverso un’architettura che accompagna l’inclusione sociale, necessità e speranza sembrano poter almeno convivere.

È ENTRATO IN CRISI L’ASSURDO SISTEMA
DELLE OPEREECLATANTI”
intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo
«Sono vent’anni che lavoriamo in zone marginali, nelle periferie africane e asiatiche. E in effetti da un po’ di tempo i nostri progetti riscuotono attenzione, veniamo invitati a raccontarli. Poi è arrivato il segnale più forte: la curatela del Padiglione Italia alla prossima Biennale architettura, essa stessa dedicata da Alejandro Aravena al Reporting from the Front ». Raul Pantaleo, milanese, cinquantaquattro anni, è titolare insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso, dello studio TAMassociati. E Taking care. Progettare per il bene comune, s’intitola la loro rassegna, che dovrebbe documentare gli sforzi di un’architettura orientata in senso più etico e politico del passato.
Pantaleo e i suoi colleghi sono impegnati con Banca Etica, progettano ospedali per Emergency, operano in Sudan, in Uganda, nel Senegal, in Iraq, in Afghanistan. E anche in Italia, dove non ci sono guerre, ma dove infuria la camorra, per esempio nel quartiere napoletano di Ponticelli, o dove si accolgono i migranti, come a Polistena, vicino a Reggio Calabria.

La Biennale è dunque il riconoscimento di una trasformazione della scena architettonica: meno archistar, più società. È così?
«Indubbiamente. Se questa è una svolta reale lo vedremo in seguito. L’architettura nelle aree di acuto disagio e di conflitti non è una novità. Né, ovviamente, sono una novità quelle crisi. La novità è che quelle crisi sono giunte alle nostre porte e siamo indotti a concepire la storia non come un percorso lineare verso il progresso. L’effetto, per quanto ci riguarda, è il risalto di cui gode questa architettura. Ben venga che se ne parli. Ma occorre tenere alta la guardia ».

Teme un eccesso retorico?
«Spesso ci si nasconde dietro le parole. Prenda la “sostenibilità”. Fino a qualche anno fa, ora forse meno, tutti i progetti sfoggiavano quel termine. Ma quanti in concreto la realizzavano?».

In ogni caso, l’architettura potrebbe non essere più sinonimo di una grande personalità, di una singola espressione artistica.
«È entrato in crisi il sistema delle opere eclatanti, quelle che non si pongono in rapporto con il contesto, che scansano le compatibilità economiche o ambientali. Una novità è anche che il Padiglione Italia della Biennale sia stato affidato a una curatela collettiva».

Molto dipende da chi commissiona un lavoro. Voi lavorate con il pubblico e con il privato. C’è differenza?
«Ricordo sempre che Manfredo Tafuri, con il quale ho studiato a Venezia, diceva che l’architetto è come l’avvocato, è sempre di qualcuno. Dal punto di vista di un progettista, dovrebbe cambiare poco se il cliente è un privato, un’amministrazione comunale o una ong. Io credo in un’architettura politicamente orientata. Anche se realizzassi un ristorante, resto un architetto che agisce nella collettività».

Tanta attenzione viene dedicata alle periferie. Anche in questo caso ha paura che dietro le parole ci sia poco?
«No. Mi auguro proprio che gli sforzi siano seri. Concordo con quel che dice il ministro Dario Franceschini: finora abbiamo lavorato sui centri storici, per preservarli, ora dobbiamo concentrarci sulle periferie. L’importante è che non ci si riduca a considerarle solo nell’aspetto fisico, trascurando quello mentale o istituzioni fondamentali come la scuola. Fare una piazza aiuta, ma se non la si riconosce e non la si cura come spazio pubblico, non basta. E poi, occorre intendersi: cos’è periferia? Ci sono le grandi periferie metropolitane, diverse fra loro, e c’è, per esempio l’immensa periferia, un po’ città, un po’ campagna, che va da Trieste a Torino».

E poi c’è la periferia del mondo.
«Sotto i nostri occhi abbiamo visto Karthoum, la capitale del Sudan, crescere di otto, dieci volte».

Lei lavora con Renzo Piano e il suo G124.
«Quest’anno ho il compito di tutor per un gruppo impegnato a Marghera. Talvolta penso che ci vorranno 500 anni per riparare un secolo di danni ambientali ».

Un’ultima novità: nella vostra idea di architettura c’è anche un diverso modo di comunicare.
«Il graphic novel. Per Becco-Giallo sono usciti tre volumi, uno sulla speculazione edilizia, un altro sulle architetture resistenti, un altro ancora sui luoghi di Emergency. E anche il catalogo della Biennale sarà a fumetti ».

«Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi». Micromega, aprile 2016

Che un presidente del Consiglio dei ministri, davanti a un evento istituzionale, previsto (ancora!) dalla Costituzione, inviti i cittadini a non recarsi alle urne, è fatto grave, che mostra la lontananza del soggetto in questione dalla stessa dinamica del sistema democratico. Che un ex presidente della Repubblica, che in realtà, più di qualsiasi altro suo predecessore, ha svolto un ruolo direttamente politico, legittimi l’astensione dal voto – non l’astensione nel senso della scheda bianca, ma l’astensione dall’andare a votare, cosa che ha un significato e un effetto politico preciso – appare gravissimo. Mi riferisco naturalmente al referendum detto “sulle trivelle”, sottovalutato a torto da non pochi esponenti del mondo culturale di orientamento progressista (se questa parola ha ancora un senso).

Un referendum oggetto di una disinformazione paurosa (al programma tv Agorà su RaiTre il conduttore, Gerardo Greco, è riuscito a dire: “il referendum si terrà in otto regioni” e alla replica giustamente stizzita del presidente della Regione Puglia, Emiliano, ha corretto: “Sì, ma interessa solo otto regioni…”), e soprattutto di un boicottaggio mediatico e politico che ricorda quello famoso su cui Bettino Craxi, che aveva invitato ad andare al mare, subì una bruciante sconfitta. Ebbene, non soltanto occorre augurarsi che lo stesso effetto abbia la spocchiosa dichiarazione di Matteo Renzi e il paludato assist di Giorgio Napolitano, occorre anche e soprattutto mobilitare ogni forza negli ultimi giorni che precedono il voto del 17 aprile.

Occorre ricordare a tutti gli italiani e le italiane innanzi tutto che questo voto ha in primo luogo un valore pratico enorme, a dispetto di chi lo minimizza per disinformazione o per malafede: difendere l’ambiente, e in specie quello marino, dai signori del petrolio, costituisce un’opzione non negoziabile.

In secondo luogo, il referendum ha un valore simbolico-culturale: bisogna far comprendere che sul tema ambientale si giocherà innanzi tutto il futuro non solo italiano, o europeo, ma del globo terracqueo.

In terzo luogo (last, but not least) il referendum ha e avrà un peso direttamente politico, proprio per la arrogante linea “governativa”, da Renzi (e suoi scherani, dalla Serracchiani a Orfini e via seguitando) a Napolitano (e la pletora di commentatori che si inchina al vecchio ma loquacissimo “re Giorgio").

Si deve ricordare, innanzi tutto che la scelta di indire una giornata di voto distinta dalle elezioni amministrative, facendo ricadere sulla collettività un costo ragguardevole (300 mila euro) che si poteva e si doveva evitare, e soprattutto usando poi come argomento contrario al referendum, proprio il suo costo. Un esempio agghiacciante di cinismo e menzogna.

Si deve poi e soprattutto riflettere sul fatto che questo referendum non è che l’antipasto della “campagna d’autunno”, ossia quella volta a procacciare intorno alla infame “riforma costituzionale” Renzi-Boschi-Napolitano un consenso che si cerca di raggiungere minacciando la madre di tutte le crisi, se non vi fosse l’approvazione popolare.

Sono anni che la politologia all’unisono con gran parte del commento giornalistico parla di “ritorno della piazza”, sia constatando un fatto, la ripresa di movimenti di popolo, dal basso, determinata dalla crisi della democrazia rappresentativa, sia, talora, variamente auspicando o persino sostenendo l’agorà, la democrazia diretta, contro le assemblee elettive, sempre più delegittimate dalla vox populi, e dalle inchieste giudiziarie.

Ebbene, il referendum costituisce un meraviglioso punto d’incrocio fra l’azione diretta dei cittadini, la politica dal basso, da un lato, e le istituzioni dall’altro. Non a caso nel progetto costituzionale si prevede di rendere il referendum uno strumento quasi irraggiungibile, perché il potere lo teme. Anche se poi, come accaduto con quello sull’acqua pubblica, fa di tutto semplicemente per disattenderlo, contando che prima o poi, sulla volontà espressa dai cittadini cada un velo di polvere, e si possa procedere del tutto prescindendo da essa.

Rendendo il referendum più difficile, al limite dell’impossibile, il potere si premunisce. D’ora in avanti, se passerà la “riforma” costituzionale, non dovrà più temerli. E noi? Noi cittadini, che faremo? Rimarremo inerti ad aspettare che ci strappino una delle poche armi che la Costituzione repubblicana ci ha donato?

Anche e forse soprattutto per codeste ragioni questo referendum apparentemente limitato nell’oggetto, ha un valore straordinario. Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop delle trivellazioni in mare, ossia dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi. Far vincere il “Sì” oggi significa porre una prima pietra, importante, sulla strada che ci dovrà condurre al “No” alla pretesa “riforma” costituzionale, domani.

Significa dunque la speranza di un cambio di pagina politica di cui il Paese ha bisogno urgente: se al contrario dovesse fallire questo referendum, la prospettiva per il successivo, diverrebbe certamente meno favorevole, per chi ritiene che Matteo Renzi, con Giorgio Napolitano alle spalle, costituisca un pericolo per la vita democratica, per lo Stato sociale, e per quel che rimane della sinistra in Italia.

A furia di immagini pubblicitarie e di slogan da pataccaro Renzi tenta di coprire l'ennesimo imbroglio e, soprattutto, la strategia di sostituzione de decisionismo del Capo alle regole della democrazia e l'asservimento delle scelte di "rigenerazione urbana" agli interessi dei poteri economici.

Invitalia spa è l'azienda di proprietà del ministero per lo sviluppo economico che il governo ha scelto come soggetto attuatore per gli interventi nel sito di interesse nazionale (SIN) di Bagnoli-Coroglio. Com'è noto, l'art. 33 dello SbloccaItalia ha deciso di sperimentare a Napoli un nuovo meccanismo istituzionale per le aree compromesse da più gravi inquinamenti selezionate fra i 39 SIN individuati finora. Tale meccanismo include nelle competenze statali non solo la bonifica ambientale, ma anche la rigenerazione urbana, e affida il tutto ad un commissario di governo (per Bagnoli, Salvatore Nastasi), assistito da una cabina di regia (per Bagnoli, presieduta dal sottosegretario De Vincenti e composta da rappresentanti dei tre ministeri dell'ambiente, dello sviluppo economico e delle infrastrutture, della regione Campania e del comune di Napoli), e ad un soggetto attuatore, appunto, che deve redigere il “programma di risanamento ambientale e di rigenerazione urbana”, che – approvato dal commissario, dopo l'esame tecnico-amministrativo di una conferenza dei servizi – equivarrà a variante al piano regolatore e al piano urbanistico esecutivo. Il comune di Napoli, eccependo la incostituzionalità della sottrazione della sua competenza specifica sulla pianificazione urbanistica, ha presentato un ricorso al TAR, che il 22 marzo scorso lo ha però rigettato.

Il 6 aprile, alla riunione in prefettura della cabina di regia alla quale Invitalia doveva sottoporre gli indirizzi strategici del programma è intervenuto anche il A furia di immagini pubblicitarie e di slogan Renzi, che, qualche giorno prima, aveva già annunciato che nella prossima estate ci si sarebbe potuti bagnare sul litorale di Coroglio.

I presenti all'incontro hanno potuto assistere alla proiezione di poco più di una trentina di diapositive intitolate #RILANCIOBAGNOLI : immagini di riprese aeree o satellitari che mettono a confronto lo stato attuale dei luoghi con fotomontaggi delle proposte trasformazioni, accompagnati solo da iscrizioni secche quali «no edilizia residenziale», «balneabilità», «rimozione colmata», «highlights», «smart grid», «green data center», «il waterfront come “segno” del rilancio e principale attrattore», «moduli commerciali a basso impatto», «stadio della vela/centro preparazione olimpica», «riciclo, smaltimento e utilizzo nuove tecnologie e materiali per la nautica da diporto», «cantieristica per il refitting», «parco dello sport e wellness», «campus universitario specializzato in ricerca connessa con economia del mare», «prima università di eccellenza internazionale nel mezzogiorno», «industria creativa per la produzione digitale e multimediale» e via magnificando.

Per la mobilità e i trasporti solo gli annunci di una funivia fra Posillipo e Nisida, dell'interramento di Via Coroglio per la massima integrazione fra parco e spiaggia e di percorsi ciclabili nel parco. In materia di bonifica esclusivamente la specificazione che nel 2016 si effettueranno interventi urgenti e che il programma si completerà entro il 2019.

Nelle immagini della proposta colpiscono:
la spiaggia del tutto libera, da Coroglio al pontile nord, senza più la colmata Italsider e senza più Città della Scienza (il protocollo per l'accordo di programma quadro pubblicizzato a Napoli dal medesimo Renzi il 14 agosto 2014 aveva invece sancito la ricostruzione sul litorale del museo interattivo incendiato),
- un vasto parco verde (oltre 70 ettari, contro i 120 del PUE) con alcuni manufatti di archeologia industriale riutilizzati,
- un porto turistico da 700 posti barca (di cui ben 100, pare, per mega yacht) in ampliamento dell'approdo borbonico di Nisida, integrato da un grande contenitore, il «porto a secco», per i natanti minori,
- gli 'scatoloni' di alcuni nuovi volumi ai limiti del parco :
- il cospicuo «miglio azzurro» della cantieristica e per le attività dell'economia del mare sui suoli ex Cementir (gruppo Caltagirone),
- un albergo a Nisida alle spalle del porto e un altro alla radice del pontile nord (del cui tratto iniziale si prevede una sorta di vestizione in vetro per utilizzarlo come spazio espositivo),
-alcuni edifici di media dimensione verso l'interno.

Il porto a Nisida era stato proposto, mesi fa, dal presidente dell'Unione industriali che, insieme con quello dell'Associazione costruttori, esprime ora vivo consenso agli indirizzi di Invitalia. È vero che Nisida non è compresa nel SIN, ma commissario e soggetto attuatore dichiarano che chiederanno una modifica al suo perimetro, che vi includa quanto meno la costa nord-orientale «per poi valorizzare l'isola, almeno in parte» (Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, durante il forum de Il Mattino, 8 aprile, pagg. 32-33, sintetizzato sotto il titolo «Arriva il porto, via il carcere da Nisida. Nastasi: presto la richiesta al governo»). Non sembrano preoccupare, in rapporto al dimensionamento del porto, né l'assenza di adeguati spazi a terra né l'accessibilità fornita unicamente dall'antico ponte ottocentesco. E non sembra pesare più di tanto il fatto che l'isola sia assoggettata a vincolo paesistico e sia inclusa nei siti di interesse comunitario della rete Natura 2000.

Nisida a parte, la successione delle immagini sembra corrispondere a gran parte delle rivendicazioni delle associazioni ambientaliste e dei comitati di base impegnati da anni su Bagnoli. Accompagnate dall'annuncio di stanziamenti per gli interventi fino a 272 milioni di euro, le diapositive appaiono innanzitutto, con la loro sconcertante estemporaneità, un vistoso spot pubblicitario per sottrarre argomenti e sostenitori alla campagna elettorale del sindaco De Magistris. Tanto – come la nuova previsione per Città della Scienza dimostra – non si avvertirà alcuna difficoltà, nel caso, a cambiare anche radicalmente le soluzioni ora proposte.

Il 14 aprile si è aperta la conferenza dei servizi, che ha discusso ed approvato solo il programma delle caratterizzazioni dei suoli e delle acque, affidato all'ISPRA. Anche i rappresentanti del comune di Napoli lo hanno ovviamente sottoscritto.

Ed è ripartita la propaganda e la disinformazione: «Ricordate che fummo accolti con urla, sassi e proteste e che il comune di Napoli parlò di esproprio del governo che voleva mettere le mani sulla città ? In conferenza dei servizi il governo ha ufficializzato il progetto presentato in prefettura e tutti (compreso il Comune!) hanno approvato all'unanimità» (Renzi su Facebook, citato da Il Mattino del 15 aprile a pag. 28). «Era dai tempi di Damasco che non si vedeva una conversione così efficace !» (Nastasi, riportato nella stessa pagina de Il Mattino).

La conferenza dei servizi si è aggiornata al 3 maggio per esaminare il piano di messa in sicurezza e pulizia dell'arenile nord. Entro un mese sarà bandita la gara europea per i rilievi e le analisi della caratterizzazione, i cui esiti consentiranno di definire poi il programma della bonifica e verificare le scelte di riassetto.

C'è il tempo di superare non solo il referendum sulle concessioni petrolifere in mare, ma anche le elezioni amministrative. Vedremo se, questa volta, a pensar male abbiamo solo commesso peccato.

«Lo studio di "Cittadini per l'aria" con i dati dello European Environment Bureau: "Cambiare le politiche". E l'Italia ha fatto pressione sui Paesi europei per abbassare i limiti. Ora però incombe la procedura d'infrazione sulla questione Pm10.» Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2016 (p.d.)

Ogni anno in Italia l'inquinamento dell'aria provoca 35mila morti premature. E in Europa nessuno sta peggio di noi. Lo dice uno studio finanziato dal ministero della Salute che sottolinea anche un altro dato: rispettando i limiti di legge, nel 2015 si sarebbero potute salvare 11mila vite. A uccidere sono le micropolveri sottili, il biossido di azoto, l’ozono, ma anche quei gas che contribuiscono alla loro formazione (come ammoniaca e metano). Cosa si sta facendo, allora, per abbattere le emissioni? C'è chi ritiene che l'Italia stia giocando al ribasso la partita in corso a livello europeo. A fine febbraio l'associazione Cittadini per l’Aria ha lanciato un allarme sulla base dei dati forniti dallo European Environment Bureau: “Se il governo non modifica la sua ‘politica’ entro il 2030 in Italia ci saranno 15mila morti premature in più causate dallo smog”.

E se gli ambientalisti accusano le istituzioni di aver "abbassato il livello di ambizione", dal ministero delle Politiche agricole ricordano quanto fatto finora: "Con le Regioni sono stati stanziati 2 miliardi di euro a sostegno di pratiche agronomiche a basso impatto ambientale e nella legge di stabilità c'è un fondo da 45 milioni per il rinnovo delle macchine agricole, che devono essere più sicure e meno inquinanti". L’unica certezza è che ci sono molti interessi in gioco: dalle lobby delle industrie ai vari settori, compreso quello agricolo. Perché è da questo settore, per esempio, che proviene oltre il 90 per cento dell’ammoniaca emessa in atmosfera. Sotto accusa anche gli allevamenti intensivi. Nel frattempo, però, l'Italia continua ad accumulare record negativi e, proprio a causa dello smog, rischia una multa di un miliardo di euro.

La denuncia: nel 2030 15mila morti premature in più
L'allarme lanciato da Cittadini per l’Aria sulle morti premature parla di 15mila decessi, oltre ai 650mila già previsti dalla Commissione europea. Questa proiezione è stata ottenuta comparando alcuni dati, tra cui il tasso di mortalità (obiettivo per il 2030) stabilito dalla Unione europea e i dati pubblicati a fine 2015 dall'Agenzia per l’ambiente europea, dai quali risulta che l'Italia è il Paese dell'Unione con più morti premature. Nel 2012 sono stati 84.400, su un totale di 491mila a livello europeo. Ma in media l'inquinamento accorcia la vita di ciascun italiano di 10 mesi: 14 per chi vive al Nord, 6,6 al Centro e 5,7 al Sud e nelle isole. I risultati del progetto Viias, finanziato dal Centro controllo malattie del ministero della Salute, rivelano che in Italia 30mila decessi all'anno sono causati solo dal cosiddetto "particolato fine".

La direttiva Nec
Secondo la onlus all'Italia una via d’uscita la offre la negoziazione in corso da mesi tra Consiglio, Parlamento e Commissione sulla Direttiva Nec (National Emission Ceilings), normativa che riguarda i nuovi limiti nazionali delle emissioni dal 2020 fino al 2030 con cui l'Ue intende inasprire la lotta all'inquinamento. La trattativa va avanti, ma nel frattempo sono già accadute un po' di cose. Il Consiglio europeo dei ministri dell'Ambiente ha "alleggerito" la revisione della direttiva approvata dal Parlamento europeo il 28 ottobre. La maggioranza qualificata di 24 Paesi membri (tra cui l’Italia) ha abbassato i nuovi limiti di emissioni. Si parla di anidride solforosa, ossidi di azoto, composti organici volatili non metanici, micro polveri sottili (Pm 2.5), ammoniaca e metano, questi ultimi due precursori dell'ozono e delle micro-polveri. "Nel documento adottato – spiega la onlus – sono scritte nero su bianco le percentuali: per il 2030 vanno ridotte del 40 per cento (rispetto al 2005) le emissioni di Pm2.5, del 71 quelle di anidride solforosa, del 65 quelle di ossido di azoto".

Il pressing italiano
Per arrivare a questi limiti si è dovuto fare i conti con le esigenze dei singoli Paesi e dei vari settori. Dai trasporti all'agricoltura, dalla quale dipende il 90 per cento delle emissioni di ammoniaca. Non è un caso se il valore massimo per questo composto è stato fornito direttamente dal ministero delle Politiche agricole. E ancora: l'industria della carne produce il 65 per cento del protossido d'azoto emesso in atmosfera e il 44 per cento del metano. Questi gas contribuiscono alla formazione di micro polveri e ozono. Eppure nel testo adottato dai Paesi europei non c'è più traccia dell’obiettivo di riduzione per il metano, mentre l'Italia ha fatto pressione per abbassare la percentuale per l'ammoniaca dal 22 al 14 per cento. È sceso di 10 punti percentuali anche l'obiettivo per il Pm 2,5. "Il governo ha ridotto il livello di ambizione delle politiche italiane per i prossimi 15 anni" spiega Anna Gerometta, presidente di "Cittadini per l’aria". Di più: insieme ad altri Paesi, "anche l'Italia ha spinto affinché fossero introdotti dei "meccanismi di flessibilità" legati a situazioni straordinarie (vedi estati particolarmente siccitose o inverni molto freddi)" e proroghe per un inquinante in caso di risultati migliori per un altro.

I ministeri: "In Europa siglato un buon accordo"
I rappresentanti del ministero dell'Ambiente che si occupano di Affari europei ritengono che quello raggiunto in Consiglio sia "un buon accordo, perché coniuga un elevato livello di ambizione con la raggiungibilità degli obiettivi", senza posizioni oltranziste "come quelle riscontrate in alcuni settori del Parlamento, che rischierebbero di ottenere un effetto opposto". Il riferimento è a possibili infrazioni in mancanza di un accordo.
La denuncia degli ambientalisti si scontra, inevitabilmente, con gli interessi sì delle lobby, ma anche con le preoccupazione dei vari settori. In primis, quello dell’agricoltura. La stessa Coldiretti ha più volte sollecitato i ministeri dell'Ambiente e delle Politiche agricole a tenere conto di "possibili ripercussioni sul settore zootecnico derivanti dall'adozione di limiti eccessivamente restrittivi". Il Copa Cogeca (Comitato delle organizzazioni professionali agricole e della cooperazione agricola dell'Ue) ha invece ricordato che "le emissioni di ammoniaca in Italia, nel settore agricolo, sono calate del 25 per cento dal 1990 al 2009, particolarmente nell'allevamento avicolo". E il ministero delle Politiche agricole fornisce altri dati: "L’agricoltura italiana ha il 36% di emissioni di gas serra in meno rispetto alla media europea e abbiamo abbattuto del 45% l’utilizzo dei pesticidi nei campi negli ultimi 10 anni".

Nuova procedura d'infrazione: rischio multa da un miliardo

Da Bruxelles, intanto, arrivano brutte notizie. L'Italia rischia una multa di un miliardo di euro a causa dello smog. Le soglie per la concentrazione di Pm10 sono state abbondantemente superate in tutta la Pianura Padana (Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Veneto), a Roma e a Napoli, ma anche in altre aree. Il primo richiamo della Commissione europea era arrivato a luglio 2014, ma da allora non è stato fatto abbastanza e ora, a distanza di un anno e mezzo, secondo fonti della stessa Commissione, l'esecutivo comunitario sarebbe pronto a inviare all'Italia un parere motivato, passando così alla seconda fase della procedura di infrazione. Che solitamente anticipa il ricorso alla Corte di Giustizia europea. Non è la prima volta per l'Italia, che già nel 2012 si è vista comminare una sanzione per aver oltrepassato i limiti di Pm10 in 55 zone tra il 2006 e il 2007. E può andare peggio.
«Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa». Il manifesto, 16 aprile 2016 (c.m.c.)

Il referendum di domani, al di là del suo portato specifico, rivela, l’esistenza di due opposte concezioni del mondo, della politica e, in ultima analisi, del senso del vivere nel nostro Paese ma anche oltre i nostri confini. Buon ultimo, il governo Renzi, coerente con i precedenti esecutivi e in ossequienza a tutti coloro che esso rappresenta, – ovvero i grandi interessi industriali e finanziari – è allergico già in prima istanza, a misurarsi con l’espressione diretta della volontà popolare.

Non tragga in inganno il referendum inevitabile sulla “deforma” costituzionale; Renzi non lo vive per ciò che dovrebbe essere, un confronto con la volontà popolare, ma come la proiezione plebiscitaria sulla sua personale narcisistica leadership. Sulle questioni strategiche che attengono praticamente e simbolicamente al futuro delle persone e alla qualità della loro esistenza, ritiene che esprimersi direttamente sia una perdita di tempo. Davvero una singolare idea del valore della democrazia diretta, ma Renzi e i suoi hanno sposato a monte un’ideologia che si fonda esclusivamente sugli interessi dei potentati di ogni settore delle attività economico finanziarie.

L’azione legislativa e la sua comunicazione, si iscrivono in una visione frusta e consunta del modo di governare una società che fa leva sulle presunte ragioni della millantata creazione e/o conservazione di posti di lavoro, come se la prosperità economica potesse essere pensata solo a senso unico. Lo scopo di questa ideologia è quello di fare apparire le alternative all’economia del privilegio come chimere o, peggio, come il frutto di un conservatorismo deteriore nemico dello sviluppo ipercapitalistico dichiarato assiomaticamente come l’unica via possibile, l’unica soluzione virtuosa. Tutto lo sforzo di coloro che si oppongono al confronto sul merito del referendum è di screditarne il valore, di screditare quei cittadini che, con passione civile e non per servire interessi precostituiti e favoriti per titolarità a priori, vogliono il referendum per fare sentire la propria voce.

Qual è la richiesta dei cittadini sostenitori dell’opzione referendaria? Essi chiedono che per ogni decisione che attiene alla salute degli esseri umani e dell’ambiente, sulle questioni che attengono al rapporto fra scelte economiche e qualità della vita, sia garantita la loro partecipazione attiva. Il malcelato sentimento di sufficienza, quando non di disprezzo nei confronti di chi si schiera con impegno per il voto, la dice lunga su come pensano il confronto sui grandi temi coloro che invitano i cittadini italiani a disertare le urne per sabotare il raggiungimento del quorum.

La democrazia che vogliono è quella dei governi non eletti, o dei governi eletti da elezioni formali, esito di una routine di cui si è perso il senso, visto che la classe politica è sempre più lontana dagli elettori e sempre più impegnata in un’autoperpetuazione svuotata di significato. Colpisce e sconcerta qualunque cittadino si sia formato attraverso l’insuperato ammaestramento della nostra mirabile Costituzione, la protervia con cui un presidente del consiglio che ha ricevuto la fiducia da un parlamento delegittimato per essere stato invece eletto con una legge vergognosa definita dal suo stesso estensore una porcata, invita alla diserzione dall’atto di massima espressione di una democrazia autentica.

Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che sono i cittadini a decidere l’ordine delle priorità, che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa, che la volontà dei cittadini partecipanti si oppone all’improntitudine di chi la considera irrilevante. Dichiariamo che noi non siamo i sudditi degli interessi di pochi potentati, che le migliori scelte economiche sono quelle che si rivolgono alle opportunità offerte da uno sviluppo economico fondato sul benessere delle persone e la salute del pianeta, a fortiori oggi dopo la conferenza sul clima di Parigi che, pur con tutti i suoi limiti, ha affermato l’urgenza della questione ecologica.

Il decisionista di Rignano sull’Arno ci vuole far credere che lui ritiene inutile questo specifico referendum, ma non è così. Non è difficile intuire cosa il Matteo nazionale pensi per esempio del referendum sull’acqua pubblica che vide una travolgente partecipazione degli italiani che, quasi unanimemente chiesero che l’acqua fosse bene pubblico. È in questa direzione che intende andare il governo? Neanche per sogno. Quindi non è difficile intuire che per il nostro presidente del consiglio la partecipazione attiva e diretta dei cittadini sia solo un fastidioso ingombro ed è allarmante constatare che lo stesso pensiero sprezzante animi il nostro ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

C’è seriamente da chiedersi: ma noi italiani, per oltre un settennato abbiamo avuto un Presidente della Repubblica super partes o un ottimizzatore di governi con legittimità a scartamento ridotto?

«Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria». Il manifesto, 15 aprile 2016 (c.m.c.)

Ho discusso in queste ultime settimane con i miei studenti della specialistica e mi sono accorto che sul referendum del 17 Aprile regna una grande confusione, grazie all’azione diseducativa svolta dalla gran parte dei mass media. Rispetto al referendum sull’acqua pubblica ci troviamo in una situazione di svantaggio.

In primis, non è così chiaro e dirompente il tema che si affronta: non si bloccano le trivellazioni in generale ma solo le future concessioni e solo nell’area marina di pertinenza del demanio. Per la maggioranza della popolazione la questione delle trivellazioni marittime è molto specifica, tecnica, non affronta un tema universale come quello dell’acqua “bene comune”. Non ha la sua forza evocativa, né la sua carica emozionale: sembra un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori o le popolazioni che vivono lungo le coste dell’Adriatico e dello Jonio.

Teniamo presente, inoltre, che portiamo sulle spalle l’onta della non applicazione al livello locale (con qualche lodevole eccezione come Napoli) del risultato del referendum del giugno del 2011 che portò 26 milioni di cittadini alle urne. Questo fatto ha prodotto, bisogna riconoscerlo, una sorta di sfiducia generalizzata sull’efficacia di questo tipo di consultazione. Infine, anche se pochi se ne sono accorti, non c’è stata la mobilitazione del M5S che sul referendum sull’acqua “bene comune” si era speso in tutte le aree del nostro paese, con un impegno capillare, costante, incisivo.

Per tutte queste ragioni siamo in tanti ad essere preoccupati per il non raggiungimento del quorum. Sarebbe una iattura. Questo referendum, infatti, ha una valenza simbolica di grande rilevanza. Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria.

Se non raggiungiamo il quorum rafforziamo la lobby petrolifera che si convincerà che non ha più ostacoli in questo paese, che può pensare tranquillamente ad altri programmi di trivellazione anche sulla terraferma. Sicuramente gioirebbe il presidente del Consiglio che potrebbe cogliere questo risultato come un buon auspicio, una sorta di prova generale del più impegnativo referendum confermativo di ottobre. Anche se non sarà stato lui a convincere gli italiani a non andare a votare potrebbe facilmente intestarsi il successo.

Per questo vale la pena spendere questi ultimi giorni ed ore per convincere gli indecisi ad andare a votare. Non necessariamente a votare Si, ma ad andare a votare comunque per non farsi togliere, svilire, uno strumento fondamentale per la democrazia.

Il Capo comincia a temere d'essersi sbilanciato troppo. Anche Franceschini e Madia non voteranno. Laura Boldrini invece si: «è un dovere per tutti». Intanto si scopre che le concessioni erano illegittimeArticoli di Andrea Colombo e Serena Giannico. Il manifesto, 15 aprile 2016

REFERENDUM. ORA RENZI TEME
IL PASSo FALSO

di Andrea Colombo
Il premier preoccupato: la sua sovraesposizione con l’invito all’astensione a rischio boomerang. Anche i ministri Franceschini e Madia annunciano che si terranno lontani dalle urne. La presidente della camera Laura Boldrini: «Non votare è la conferma del disamore per la politica»
Il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi del Codacons e dei radicali sulla scelta di fissare il referendum in data diversa da quella delle elezioni comunali. Il voto sulle trivelle resta convocato per domenica prossima. Poco male se lo scherzetto costerà 300 milioni. L’importante è evitare che i votanti superino il 50%, e non si badi a spese.
Nel quartier generale di Renzi sono contentoni. Ci voleva una notizia rassicurante, tanto più perché da quelle parti si è diffuso un tangibile nervosismo, la sensazione, condivisa dallo stesso capo, di aver sbagliato strategia. Gli ufficiali renziani ancora non temono il raggiungimento del quorum, che per il premier sarebbe disastroso, però danno per possibile l’afflusso del 40% di votanti: l’asticella che separa un risultato accettabile da una sconfitta politica secca, pur se non esiziale come sarebbe il superamento del quorum e la vittoria dei «sì». Anche perché, segnalano alcuni dei più vicini al capo, una percentuale alta di votanti renderebbe poi inevitabile il paragone con quanti voteranno nel referendum del prossimo ottobre, e se in quell’occasione la percentuale dovesse scemare, sarebbe imbarazzante.

Insomma, siamo alle previsioni metereologiche. I renziani contano su una domenica di caldo eccezionale, prevista dai nipotini del colonnello Bernacca, e si fregano le mani: saranno in tanti ad andarsene al mare. Spiano i sondaggi, che nei giorni roventi di Tempa rossa erano arrivati sulla soglia del fatidico 40% ma ora sono lievemente scesi. Si complimentano con se stessi per aver spostato con le cattive il voto sulle mozioni di sfiducia a martedì prossimo, dopo il referendum. Con il sottosegretario targato Pd Vito De Filippo, ex presidente della Basilicata, indagato per Tempa rossa, il dibattito sarebbe stato la miglior pubblicità possibile per il referendum. Ma la paura resta.
Lui, Renzi, non lo ammetterebbe mai apertamente, ma dicono che oggi consideri uno sbaglio l’essersi esposto tanto su quel referendum. Un po’ perché gli sarebbe stato facile lasciare libertà di voto tirandosi fuori dalla mischia, e molto perché proprio la sua discesa in campo spinge anche la destra verso le urne. Gli esponenti della Lega e di Fi annunciano voti diversificati: Brunetta per il no, la Brambilla per il sì e così via. Però molti andranno a votare non per le trivelle ma per Renzi, e se la scelta dovesse essere fatta anche da molti elettori di destra del nord, dove il problema trivelle è assai meno avvertito che nel sud, allora sì che sarebbe un guaio.

Inoltre, è stata sempre la sovraesposizione del premier a rendere la faccenda un caso istituzionale di rilievo. Ieri la presidente della Camera Laura Boldrini è tornata sull’argomento: «Andrò a votare perché ritengo che sia un dovere. Non andare a votare è la conferma del disamore per la politica e della disillusione». Per quanto il Pd ci voglia girare intorno, lo spettacolo dei quattro vertici istituzionali, il capo dello Stato, i presidenti delle camere e quello della Consulta, che vanno a votare mentre il premier e i suoi ministri di fiducia invitano all’astensione sarà giocoforza parecchio increscioso.
Ieri altri due ministri renziani di peso, Franceschini e Madia, hanno annunciato che domenica si terranno lontani dalle urne. La Boschi farà lo stesso, ma senza nemmeno avere il coraggio di dirlo apertamente come i colleghi in questione: «Seguirò le indicazioni del mio partito».

Il quale però è tanto spaccato da far sì che questo referendum sia anche una prova generale del prossimo, quello di ottobre sulla riforma costituzionale. L’area che domenica intende andare a votare, sia pure in modo differenziato, con Bersani per il «no» e Speranza impegnatissimo sul fronte opposto, è la stessa che non ha ancora sciolto la riserva sul voto autunnale, in attesa di una provvidenziale modifica dell’Italicum. Quella revisione non arriverà, Renzi lo ha garantito una volta di più proprio ieri. Ma se la minoranza voterà no al referendum sulla riforma costituzionale, tanto più in una prova che lo stesso Renzi ha trasformato in plebiscito su se stesso, la convivenza nello stesso partito diventerà impossibile.


«QUELLE TRIVELLAZIONI
ERANO ILLEGALI»
di Serena Giannico
Adriatico. 44 concessioni petrolifere sanate dall'allora ministra Guidi con la legge di stabilità. Accusa di Sel-Si
Quel comma salvaguai… «Nove delle 44 concessioni, oggetto del prossimo referendum, erano già scadute a fine 2015, alcune anche da vari mesi, altre da anni (una addirittura dal 2009). Ciononostante le compagnie petrolifere hanno continuato ad operare. Queste piattaforme sono nel mare di quattro regioni dell’Adriatico: Abruzzo, Marche, Veneto ed Emilia Romagna. L’ultima Legge di stabilità (nell’articolo 1, comma 239, che consente di protrarre la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa ‘per la durata di vita utile del giacimento’, ndr) ha sanato queste irregolarità come si evince dal Bollettino degli idrocarburi del ministero dello Sviluppo economico della ministra Guidi, in data 31 dicembre 2015. Si è cioè sanato a posteriori l’illegalità, attraverso la modifica della disciplina della normativa sulla durata delle concessioni e legando questa alla vita utile del giacimento, con effetto retroattivo: un bel dono alle compagnie petrolifere! Ciò, ora, è oggetto del referendum del 17 aprile». Attacca così l’interrogazione a risposta scritta inoltrata al presidente del Consiglio dei ministri da Sel -Sinistra italiana.

A firmare l’atto il deputato Gianni Melilla. Alla vigilia del referendum antipetrolio salta fuori l’ennesimo scandalo legato alle trivelle. Ventiquattro piattaforme marine – tutte produttive – legate alle 44 concessioni che sono oggetto della prossima consultazione popolare hanno continuato a lavorare, anche per anni, senza avere la proroga necessaria. Con le autorizzazioni scadute. Altre 9 piattaforme, su 4 concessioni non produttive, sono rimaste in acqua senza titolo per farlo. Le aziende avevano fatto richiesta di proroga nei tempi stabiliti, ma il ministero dello Sviluppo economico non ha risposto. Le compagnie estrattive, a questo punto, avrebbero dovuto bloccarsi e aspettare le decisioni del Mise. Ma hanno proseguito con le estrazioni. E alla fine del 2015 è arrivata, magica, la Legge di stabilità che – sembrò strano e inspiegabile – ha legato le concessioni alla «durata di vita utile del giacimento». Le ha in sostanza prorogate ad oltranza. Senza limiti.

Un regalo alle multinazionali, e future scartoffie, e inadempienze, in meno per il Mise. «Fondato il sospetto – dice Melilla – che si sia voluto scongiurare l’ipotesi di un imminente smantellamento delle piattaforme, a costi elevati per le società». Eni in pole position, ma anche Edison. «Il fatto che sia arrivata la benevola sanatoria dal 1 gennaio 2016, con effetto retroattivo, rende ancora più evidente la opacità del comportamento del Mise e dei suoi uffici preposti all’esame delle autorizzazioni e delle proroghe alle compagnie petrolifere».

Al premier si chiede «quali iniziative intenda assumere per accertare la gravità dei fatti sopra denunciati e di rimuovere i responsabili di questo comportamento al fine di fare chiarezza e affermare l’interesse generale al risanamento ambientale e alla libera concorrenza del mercato». «Il governo deve rispondere al Paese per quanto è accaduto. Davanti a un fatto di tale gravità è doverosa la rimozione del responsabile della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, Franco Terlizzese», tuona Enrico Gagliano, del Coordinamento nazionale dei No Triv. Quel comma nelle Legge di stabilità? «Spuntato dal nulla, di cui nessuno ha voluto parlare. Serviva forse a rimettere in carreggiata le concessioni, quasi tutte targate Eni? E’ proprio su questo – evidenzia – che gli italiani sono chiamati a votare il 17 aprile. Sono chiamati a ristabilire una data di scadenza certa per la fine della concessione, come previsto anche dall’Unione Europea». Ma se non fosse raggiunto il quorum? «Sarebbe un omaggio alle società del greggio e del gas».

Norma sotto accusa, dunque. Della cui «sospetta illegittimità, poiché una durata a tempo indeterminato delle concessioni violerebbe le regole del diritto Ue sulla libera concorrenza», parla anche l’eurodeputata Barbara Spinelli (Gue/ngl) che, con un’interrogazione, fa giungere la questione trivelle – con annesso referendum – sui tavoli della Commissione europea. «Nonostante la Convenzione di Aarhus sia stata ratificata dall’Ue nel febbraio 2005 e recepita dall’Italia con decreto legislativo dell’agosto dello stesso anno – scrive – l’Italia non ha rispettato i propri obblighi, sanciti dalla stessa Convenzione, di consentire la partecipazione del pubblico al processo decisionale in materia ambientale». L’europarlamentare quindi chiede se, esaminati gli atti, «… si intenda promuovere una procedura di infrazione contro l’Italia e se, in ogni caso, si voglia esortare il governo italiano a modificare tale comma».

Referendum del 17 aprile «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perché è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì». La Repubblica, 14 aprile 2016 (c.m.c.)

Meno tre al referendum anti-trivelle, e nel fronte del Sì si alza ancora una volta la voce della Chiesa. «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perchè è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì» scrive la diocesi di Fano, nelle Marche, una delle regioni nel cui mare operano gli impianti di estrazione sottoposti alla consultazione. Il documento contiene un esplicito invito a votare Sì, «perchè il mercato non è in grado di difendere l’ambiente», oltre che a «modificare gli stili di vita».

Il caso di Fano è la traduzione in pratica della strada indicata dalla Cei: i vescovi parlino ai fedeli e li sensibilizzino. La parola-guida che in questi giorni muove il segretario della Cei Nunzio Galantino è «confrontarsi». E cioè «coinvolgere gli abitanti, chi di quel mare vive. Gli slogan non funzionano, bisogna creare spazi di incontro e confronto». I vescovi, in ogni caso, si sono espressi in maggioranza per il Sì.In questo senso va interpretata anche una pagina di Avvenire

che promuoveva inchieste sui luoghi interessati dall’effetto-trivelle.

Intanto il Tar ha respinto la richiesta di un election day per accorpare il referendum alle amministrative di giugno. I ricorsi contro la data del 17 aprile erano di Codacons e Radicali. La linea del governo è il non voto ed è stata ribadita ieri dalle ministre Maria Elena Boschi («Seguo le indicazioni») e Beatrice Lorenzin («Il non voto è una scelta politica»). Intenzionati a disertare le urne sono anche Dario Franceschini e Graziano Delrio.

Roberto Speranza, capo della corrente di minoranza del Pd Area riformista, si batte invece per il Sì: «L’astensione è un grave errore - scrive ai militanti -. Spero che il popolo del Pd corregga i dirigenti».

« Nell’aprile del 1994 iniziava il massacro porta a porta dei Tutsi residenti nel paese centro-africano. Ma anche degli Hutu che il regime considerava oppositori politici. Uno sterminio accuratamente pianificato, che nei successivi 100 giorni provocò oltre 800 mila morti». Il manifesto, 13 aprile 2016 (c.m.c.)

Dopo che il 98 per cento dei ruandesi ha votato a favore delle riforme costituzionali al referendum del 18 dicembre 2015 per modificare il limite dei mandati presidenziali, l’annuncio di Paul Kagame a gennaio scorso di voler candidarsi alle elezioni presidenziali del 2017 non è tardato ad arrivare.
In caso di vittoria, per il presidente del Ruanda si tratterebbe del terzo mandato e gli permetterebbe di governare fino al 2024. E potenzialmente a vita.

La decisione è stata criticata dalla Casa bianca, dall’Unione Europea e soprattutto dalle associazioni per i diritti umani che benché riconoscano il ruolo svolto dal presidente Kagame nel processo di ricostruzione, stabilità e crescita economica del Ruanda dopo il genocidio del 1994, accusano le autorità di usare le leggi contro l’ideologia, il revisionismo e il negazionismo del genocidio per imbavagliare la stampa e l’opposizione politica e limitare la libertà di espressione dei cittadini.

Vittime o carnefici

Politici, attivisti e giornalisti sono stati accusati di perpetuare un’ideologia del genocidio e di revisionismo per aver suggerito che nel 1994 non solo i Tutsi ma anche gli Hutu furono vittime del genocidio, contraddicendo in questo modo la versione ufficiale con cui essenzialmente Kagame legittima il suo potere. È il caso della Bbc i cui servizi in Ruanda sono stati sospesi nell’ottobre del 2014 a seguito del documentario Rwanda’s Untold Story con le accuse di abuso della libertà di stampa e violazione della legge ruandese in materia di negazione del genocidio e di revisionismo.

A suscitare le polemiche furono in quel caso le interviste ad alcuni ex alleati di Kagame che lo accusavano di complicità nell’assassinio dell’ex presidente Habyarimana e quelle ad alcuni ricercatori americani secondo cui molti dei ruandesi uccisi durante il genocidio erano Hutu uccisi dai ribelli del Rwandan Patriotic Front (Rpf) guidato da Kagame.

Agnès Uwimana e Saïdati Mukakibibi, due giornaliste ruandesi, furono condannate per aver accusato nei loro articoli alcuni ufficiali di corruzione e criticato Kagame in vista delle elezioni del 2010, oltreché per negazionismo per aver scritto che «i Ruandesi si uccisero gli uni gli altri»: un’affermazione che contraddice la versione ufficiale secondo cui ci fu un solo genocidio, quello contro i Tutsi. Nel 1994, in soli 100 giorni, da aprile a luglio, più di 800 mila persone furono trucidate in Ruanda: circa tre quarti della popolazione Tutsi, insieme a migliaia di Hutu che si opponevano a quella campagna genocidaria.

Quelli che attaccano

Il 6 aprile 1994 l’aereo che trasportava l’allora Presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira fu abbattutto in fase di atterraggio a Kigali. Nel giro di poche ore, ufficiali militari e amministratori locali diedero l’ordine alle milizie Hutu Interahamwe (“Coloro che si alzano insieme” o che “attaccano insieme”) e alle cosiddete “forze di autodifesa civile” di cominciare, porta a porta, lo sterminio delle popolazioni Tutsi e di tutti gli Hutu accusati di essere degli oppositori politici.

Fu l’inizio dell’esecuzione materiale e sistematica di un piano genocidiario messo a punto negli anni precedenti da parte dell’élite politica allora dominante, gli Hutu, all’interno di una ideologia e di un disegno politico e attraverso un’opera di propaganda atti al mantenimento del potere e al contrasto all’opposizione politica attraverso la violenza e la paura.

Migliaia di Tutsi i cui nomi e indirizzi formavano lunghe liste, furono assassinati nelle loro case da squadre armate di machete, coltelli e bastoni o trucidati ai posti di blocco da miliziani a cui bastava leggere la loro etnia di appartenenza sulla carta d’identità. Migliaia di Hutu – a cui soldati ed ex leader politici nonché uomini d’affari vicini a Habyarimana avevano distribuito nei mesi precedenti un gran quantitativo di armi da fuoco e machete – risposero alla chiamata di «assistere le forze armate a finire il lavoro» e agli incitamenti a uccidere trasmessi da Radio Mille Collines.

Allo stesso tempo, le prime teste a cadere tra gli Hutu considerati oppositori politici furono quelle di politici, funzionari governativi, avvocati, insegnanti, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Tra cui il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, il presidente della Corte Costituzionale e il ministro che aveva minacciato di chiudere Radio Mille Collines. Testimoni-spettatori di questa lunga scia di assassinii per le strade di Kigali erano i soldati dell’Unamir (United Nations Assistance Mission for Ruanda). I maggiori attori politici sullo scacchiere internazionale tra cui Francia, Stati Uniti e Onu, nonostante fossero a conoscenza dei piani di sterminio non impedirono quanto era sotto i loro occhi.

Alle origini del problema

Se il genocidio fu una scelta strategica di lotta per il potere da parte del gruppo allora dominante degli Hutu, le responsabilità delle divisioni e dei contrasti tra Hutu e Tutsi (che per lungo tempo avevano condiviso lingua – il Kinyarwanda – e cultura comuni nonché matrimoni misti) risalgono all’epoca coloniale.

Durante la dominazione belga, infatti, quella che era un’opposizione sociale tra Tutsi (“gruppo elitario”, originariamente “proprietario di bestiame”) e Hutu (“subordinato”, esclusi dall’accesso all’istruzione superiore e alle posizioni di potere) fu trasformata in distinzione etnica attraverso l’indicazione sulla carta d’identità. La rivoluzione Hutu del 1959 (con cui gli Hutu rovesciarono i Tutsi) rappresentò un evento tragico per i Tutsi ed eroico – perché di liberazione dal dominio della minoranza Tutsi – per gli Hutu. Tanto che durante il genocidio del 1994, molti leader politici Hutu insistettero proprio sull’importanza di proteggere le «conquiste della rivoluzione», cioè il controllo del potere politico e delle terre una volta nelle mani dei Tutsi e distribuite agli Hutu dopo il 1959.

Il genocidio terminò nel luglio del 1994 con l’ingresso in territorio ruandese del gruppo ribelle (tutsi) Rwandan Patriot Front (Rpf) sotto la guida di Paul Kagame. Quando, in seguito, un governo guidato da Tutsi prese il potere, le milizie Hutu si rifugiarono in Congo insieme a molti civili Hutu. Mentre il Ruanda ha sempre sostenuto di aver attaccato – durante l’invasione del Congo nel 1996 – esclusivamente i miliziani Hutu che si nascondevano tra i civili, un rapporto dell’Onu del 2010 (Democratic Republic of Congo, 1993-2003) invece documenta dettagliatamente deliberati e sistematici attacchi di rappresaglia contro i civili dei campi profughi – bambini, donne, anziani e malati – tali da poter essere considerati atti genocidari contro decine di migliaia di Hutu ruandesi e congolesi.

Argomentate risposte alle riserve sollevate su quesiti importanti:l lavoro, l'indipendenza energtica, quella economica, il ruolo dello stato. E una domanda soprattutte: Dobbiamo dirigerci verso un futuro di maggiore spreco di risorsr irriproducibili, o dobbiamo finalmente risparmiarle? Internazionale.it, 12 aprile 2016 (m.p.r.)

Il referendum del 17 aprile riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Dunque riguarda il futuro di 88 piattaforme oggi esistenti entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni a “coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi. Sono in buona parte nell’Adriatico, un po’ nello Ionio e nel mare di Sicilia, come si vede da questa mappa interattiva.

In questione c’è la durata delle concessioni. Il quesito infatti chiede di abrogare la norma, introdotta nella legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessione “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito. Se vincerà il sì quella frase sarà cancellata. In tal caso torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti.

In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto.

Dunque, se vince il sì le piattaforme oggi in attività continueranno a lavorare fino alla scadenza della concessione (o dell’eventuale proroga già ottenuta), ma non oltre. Certo, in gioco c’è molto di di più. I sostenitori del sì rimandano alla politica energetica del paese, parlano di energie rinnovabili, di investimenti in efficienza energetica. Ma sono accusati di mettere a repentaglio attività economiche e posti di lavoro.

Il referendum è inutile?

Chi si oppone alla consultazione ricorda che la legge di stabilità 2016 ha già bloccato il rilascio di nuovi titoli (permessi) per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. La durata della concessione però non è irrilevante, e ha risvolti molto pratici. Infatti, il blocco di nuove concessioni non impedisce che all’interno di concessioni già esistenti siano perforati nuovi pozzi e costruite nuove piattaforme, se previsto dal programma di lavoro. Potrebbe essere il caso della concessione Vega, nel mar di Sicilia, dove l’Eni progetta da tempo una nuova piattaforma (Vega B) da aggiungere a quella oggi in esercizio (la concessione scade nel 2022).

Ancora più importante: prolungando la durata della concessione si rinvia il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate e rimosse. È un’operazione costosa che da contratto spetta alle aziende concessionarie insieme al ripristino ambientale, quindi la spesa dovrebbe essere già inclusa nei bilanci. “Sospetto che le compagnie petrolifere puntino anche a questo, a rinviare in modo indefinito il momento in cui dovranno smantellare piattaforme obsolete”, dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.

Se vince il sì chiuderanno piattaforme operative e perderemo posti di lavoro?

È una delle obiezioni di chi è contrario al referendum. Ma si può confutare. Primo, la vittoria del sì non significa la chiusura immediata di tutte le attività in corso: le concessioni oggi attive scadranno tra il 2017 e il 2034. Il referendum poi non mette in questione le attività di manutenzione né, ovviamente, quelle di smantellamento e ripristino ambientale.

Quanto ai posti di lavoro, i numeri sono incerti. Assomineraria, l’associazione delle industrie del settore, parla di 13mila persone; la Filctem, la federazione dei lavoratori chimici della Cgil, parla di circa diecimila addetti solo a Gela e Ravenna. L’Isfol, ente pubblico di ricerca sul lavoro, parla di novemila occupati in tutto il settore (mare e terra).

Quanti di questi posti siano legati alle piattaforme entro le 12 miglia è opinabile. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom Cgil afferma che sono meno di cento. «Considerando l’indotto, arriviamo a una stima massima di circa tremila persone», dice Giorgio Zampetti, esperto di questioni petrolifere per Legambiente.

Una cosa certa è che le attività sulle piattaforme non sono labour intensive (cioè basate soprattutto sulla forza lavoro). Per lo più sono manovrate in remoto: gli addetti lavorano soprattutto nella fase di trivellazione, ma intervengono ben poco nella produzione (darebbe lavoro, casomai, smantellare i vecchi impianti). Gli attivisti di Greenpeace sono rimasti sorpresi, l’anno scorso, quando sono riusciti ad avvicinarsi alla piattaforma Prezioso, di fronte a Gela nel mar di Sicilia, l’hanno scalata e vi hanno appeso un gigantesco striscione, senza trovare ostacoli né risposta: il fatto è che non c’era proprio nessuno.

Quanto petrolio e quanto gas contengono i fondali italiani?

Non poi tanto. La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di smc (standard metro cubo) di gas. In questi giorni circolano molti dati, ma attenzione a non fare confusione. L’intera produzione italiana, a terra e in mare, arriva a circa sette miliardi di smc di gas e 5,5 milioni di tonnellate di olio greggio, secondo l’ufficio per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero per lo sviluppo economico.

Però la produzione nella fascia protetta delle 12 miglia, oggetto del referendum, è una parte minore del totale. Se paragonata ai consumi, copre meno dell’1 per cento del fabbisogno nazionale di petrolio, e circa il 3 per cento del fabbisogno di gas. Insomma: rinunciare alla produzione entro le 12 miglia avrebbe un peso irrilevante sul bilancio energetico italiano.

Uno degli argomenti contro il referendum è che l’Italia, con una vittoria del sì, rinuncerebbe a una risorsa importante. Davvero? L’insieme delle riserve certe nei fondali italiani (entro e oltre le 12 miglia) ammonta a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico. Al ritmo attuale dei consumi, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Quelle di gas arrivano a 53,7 miliardi di smc: neppure un anno di consumo italiano. In termini d’indipendenza energetica è ben poca cosa.

Intanto lo scenario dell’energia cambia. Negli ultimi dieci anni il consumo italiano di idrocarburi è calato, osserva Legambiente riprendendo dati del Mise. Oggi l’Italia consuma in un anno 67 miliardi di smc di gas, e 57 milioni di tonnellate di petrolio: rispettivamente il 21 e il 33 per cento in meno rispetto ai consumi di dieci anni fa. Invece, è aumentata la parte delle fonti rinnovabili, arrivate a coprire il 40 per cento dei consumi elettrici (nel 2005 era al 15,4) e il 16 per cento dei consumi energetici finali (nel 2005 eravamo al 5,3).

Gli idrocarburi portano ricchezza all’Italia?

Neppure questo è tanto vero. L’Italia impone royalty (la somma versata in cambio dello sfruttamento commerciale di un bene) tra le più basse al mondo, pari al 7 per cento del valore del petrolio estratto in mare e al 10 per cento del valore del petrolio estratto a terra e del gas (a terra o in mare). Le royalty e i canoni (sull’occupazione del terreno) pagati dalle aziende sono poi detratti dal reddito su cui le aziende verseranno le tasse. Nel 2015 l’insieme delle royalty pagate allo stato e agli enti locali ammontava a 351 milioni di euro. La royalty si calcola sul prezzo di vendita del petrolio o del gas, al netto di alcune deduzioni. Su ogni giacimento però c’è una franchigia: sono esenti da royalty le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti offshore.

Il risultato è che molte piattaforme non pagano affatto. Secondo elaborazioni del Wwf sui dati del Mise, solo 18 concessioni in mare versano royalty, su un totale di 69 (entro e oltre le 12 miglia), ovvero appena il 21 per cento. Su 53 aziende estrattive, solo otto pagano royalty limitate e sono le più grandi (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni mediterranea idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia). A terra, solo 22 concessioni su 133 pagano royalty. È chiaro che alle aziende conviene prolungare la vita di pozzi che estraggono poco, perché restano sotto la franchigia.

Le piattaforme hanno avuto una valutazione d’impatto ambientale?
Che età hanno le piattaforme disseminate nei mari italiani? Anche questo punto ha risvolti molto pratici, nota l’ultimo studio pubblicato dal Wwf. Dai bollettini del ministero per lo sviluppo economico infatti risulta che 42 piattaforme (su 88) sono state costruite prima del 1986, quando è entrata in vigore la legge che istituisce le procedure di valutazione di impatto ambientale (Via). Tra queste, 26 appartengono all’Eni (o alle sue controllate), nove all’Edison e cinque all’Adriatica gas.

In altre parole, quasi metà delle piattaforme esistenti entro le 12 miglia non è mai stata sottoposta a una valutazione di impatto ambientale. Sembra impensabile, ma è così (il ministero dell’ambiente non ha nulla da obiettare?).

In generale, l’età media delle concessioni è piuttosto alta, 35 anni, e quasi la metà supera la quarantina. Su quel totale di 88 piattaforme, otto sono definite “non operative”, cioè non in produzione, e 31 (tutte a gas) sono “non eroganti” (cioè sono ferme per manutenzione o hanno cessato la produzione).

«Ci chiediamo perché le compagnie petrolifere tengano inattivi così tanti impianti», dice Fabrizia Arduini, autrice di questo studio insieme a Stefano Lenzi. «Il ministero dello sviluppo economico dovrebbe esaminare la situazione, prima che questi relitti obsoleti collassino nei nostri mari». Arduini cita il regolamento offshore sulla sicurezza, emanato dalla Commissione europea nel 2011 e poi diventato una direttiva: il regolamento “riconosce che il rischio di cedimenti strutturali dovuti al logorio degli impianti è uno dei principali fattori di rischio di incidente. Ed è chiaro che un incidente avrebbe conseguenze tanto più gravi se avvenisse vicino alla costa, cioè proprio nella fascia delle 12 miglia”.

Poi c’è il “normale” inquinamento. Il mese scorso Greenpeace ha ripreso i dati delle analisi compiute dall’Ispra (l’istituto di ricerca ambientale collegato al ministero dell’ambiente) su campioni di cozze raccolti intorno ad alcune piattaforme dell’Eni nell’Adriatico, dati mai resi pubblici: rivelano che i campioni contengono metalli pesanti e idrocarburi aromatici in quantità molto superiori ai limiti accettabili (quelle cozze sono normalmente messe in commercio, costituiscono il 5 per cento della produzione annuale della Romagna).

Ha senso continuare a puntare sulle energie fossili?

La decisione di bloccare ogni nuova attività estrattiva nei mari italiani entro le 12 miglia dalla costa risale al 2010: l’aveva deciso il governo Berlusconi sull’onda dell’allarme provocato dal disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico (risale ad allora anche il regolamento europeo sulla sicurezza offshore). Due anni dopo il governo Monti ha riaperto la strada a nuove concessioni, e nel 2014 il governo Renzi ha addirittura definito l’estrazione di idrocarburi una “attività strategica”, quindi non vincolata al consenso delle regioni (che infatti hanno prima impugnato la norma, poi deciso di promuovere il referendum).

Ora le nuove concessioni sono bloccate, ma quelle in corso diventano “a tempo indeterminato”. Ma ha senso continuare a puntare sulle energie fossili? Molti, non solo gli ambientalisti, sono convinti che concentrarsi sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica garantirebbe posti di lavoro, sviluppo, innovazione.

Il 21 aprile 2015, insieme ad altri studiosi, abbiamo indirizzato una lettera al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali per segnalare le condizioni di abbandono della ex Stazione Sperimentale di Agraria di Modena.

Tale Stazione è stata prestigiosa sede operativa del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, il più importante istituto di sperimentazione agraria in Italia. Essa nacque come istituto del ministero dell’Agricoltura nel 1870 e alla sua direzione si succedettero alcuni tra i più importanti scienziati italiani noti a livello internazionale per le avanzate analisi di laboratorio applicate all’agricoltura, per la selezione delle sementi e per le ricerche sulla coltivazione dei cereali.

Primo direttore “agronomo” della Stazione fu Alfonso Draghetti, che vi operò dal 1927, trasferendola nell’attuale edificio ottocentesco in Viale dei Caduti di Guerra. Draghetti, autore di oltre cinquecento lavori, membro di accademie e società scientifiche, delegato italiano alla FAO, si occupò di temi oggi attualissimi come quello della sicurezza agro-alimentare, della fertilità del suolo e della concimazione, della gestione e del governo delle acque, delle analisi bioeconomiche applicate alle aziende agricole. Alfonso Draghetti è oggi considerato a livello internazionale come uno dei padri dell’Agricoltura biologica e dell’Agro-ecologia.

La Stazione è stata chiusa nel 2006, in seguito ad una riorganizzazione voluta dall’allora Ministro delle Politiche Agricole e Forestali Alemanno, i locali sono stati destinati all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, che ha poi deciso di dismettere lo storico edificio. La ex-Stazione conteneva una preziosa biblioteca con oltre 12.000 volumi dal ‘700 ad oggi e rare collezioni (anche quarantennali) di riviste e pubblicazioni, gli strumenti di laboratorio, gli archivi pedologici e di ricerca, un patrimonio culturale, storico e scientifico di enorme valore per il paese. I testi della biblioteca sono stati tolti dalle scaffalature che erano state progettate specificatamente per ospitarli, imballati e inviati a Roma presso il CRA-RPS (Centro di Ricerca per lo Studio delle relazioni fra pianta e suolo). Pare che non siano usufruibili e non è chiaro come questi testi verranno conservati nella loro unitarietà.

La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta e la riproponiamo, a un anno di distanza, segnalando ai partecipanti al convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016, il valore di questo nostro patrimonio storico anche alla luce del fatto che l’agricoltura biologica è cresciuta fino al 10% della superficie agricola utilizzata (SAU), divenendo una priorità strategica per lo sviluppo del sistema agroalimentare italiano.

I firmatari ricordano la numerose istanze presentate dal Comune e dalla società civile di Modena per la salvaguardia del patrimonio della Stazione Agraria e anche che la città di Modena si è già distinta nel panorama internazionale dell'agricoltura biologica per aver ospitato, nell'anno 2008, il XVI Congresso Mondiale dell' "International Federation of Organic Agriculture Movements" (IFOAM) dal titolo “Cultivating the future based on Science”.

L'articolo è inviato contemporaneamente agli organizzatori del convegno sulle Biblioteche ambientali che si terrà a Roma il 15 aprile 2016


«Ferma le trivelle. Tutti i referendum indicano un cambiamento, sono un inizio non la conclusione della loro realizzazione. Saranno i rapporti di forza a segnare la portata del risultato». Il manifesto, 12 aprile 2016 (c.m.c.)

Domenica prossima non andremo a votare solo per chiedere l’abrogazione di una norma (quella che prevede l’estensione delle concessioni per le attività estrattive entro le 12 miglia nautiche). Saremo principalmente chiamati ad esprimerci sui nostri valori di fondo.

Ogni referendum abrogativo, in effetti, ha per sua natura una doppia dimensione: quella strettamente normativa e quella propriamente emblematica che ne esprime l’essenza prevalendo sempre sulla prima, incorporandola e dando senso alla specifica richiesta di abrogazione. Questo plusvalore dei referendum (valgono per ciò che dicono, ma anche per ciò che sottendono) è una costante, contrassegna ogni “appello al popolo”.

Si pensi in Italia ai referendum più noti, anche a quelli i cui quesiti erano diretti ed espliciti. Il referendum sul divorzio, ad esempio, non può essere ridotto al pur importante quesito sull’istituto giuridico dello scioglimento del vincolo matrimoniale, esso ha segnato – soprattutto – un passaggio tra due modi di intendere i rapporti tra coniugi, ha affermato una diversa visione del mondo e dei rapporti tra le persone. Quello sull’aborto non si è limitato a sancire il diritto all’interruzione della gravidanza, ma ha coinvolto il modo di pensare al corpo delle donne, il loro ruolo entro una società, ponendosi come terminale simbolico di una lunga lotta di emancipazione.

La scelta sul nucleare, poi, che ha riguardato disposizioni in sé marginali rispetto alle politiche energetiche (tant’è che nessuno ricorda più su quali quesiti siamo andati a votare), ha avuto un immediato e profondissimo riflesso sulle concrete scelte, sull’idea stessa di sviluppo economico, impedendo l’uso di una risorsa (il nucleare) in base ad una scelta – per una volta – non di mercato, bensì di valore.

L’ultimo referendum, quello sull’acqua, è forse stato il più esplicito nel collegare il voto alla visione del mondo che si poneva a suo fondamento. “Acqua-bene comune” era la formula prescelta dal comitato promotore, il quesito coinvolgeva non solo il servizio idrico, ma anche la questione più ampia dei servizi pubblici locali (una valenza generale che fu riconosciuta dalla Corte costituzionale in sede di ammissibilità dei quesiti). La prospettiva esplicitamente dichiarata era quella di esprimere un altro modello di sviluppo rispetto a quello di privatizzazione neoliberista dominante.

Né può dirsi che il plusvalore simbolico sia meno rilevante a secondo dei tipi – abrogativi od oppositivi – di referendum. Anche quello costituzionale del 2006 ha visto, in fondo, contrapporsi due mondi: da un lato chi pensava alla Costituzione come uno strumento di governo (del governo) per garantire la stabilità del potere, dall’altro chi riteneva all’opposto che le costituzioni servono per limitare i poteri e garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei governanti. Un tema che sarà al fondo anche del prossimo scontro sulla riforma costituzionale.

Ogni volta che si è pensato si potesse limitare la portata del referendum al solo quesito si è commessa una ingenuità. Il caso dei referendum elettorali del 1993 è esemplare in tal senso. La critica ai partiti, la volontà di cambiamento, la crisi delle strategie politiche di riforma sociale si posero alla base di un plebiscito che travolse non solo il sistema elettorale di natura proporzionale allora vigente, ma anche tutti gli equilibri politici, trasformando per intero la nostra democrazia reale.

Gli effetti di quella scelta non sono stati più assorbiti: la riduzione degli spazi della rappresentanza, l’isterilimento degli organi parlamentari, il deterioramento progressivo dei partiti come strumenti di partecipazione, la fine della mediazione politica e l’imporsi della immedesimazione leaderstica, non sono certamente il frutto di quella scelta (ben più profonde le cause del deperimento in corso), ma è vero che lì trovarono una loro fondamentale legittimazione popolare. Quanti sono oggi i pentiti del ’93? L’errore fu pensare al quesito e non anche al suo significato sistemico.

Ed è proprio sugli effetti di sistema che si gioca la partita dopo il referendum. Senza illusioni e con realismo bisogna anche dire che l’appello al popolo non è mai definitivo. Anche in questo caso basta guardare la storia che è alle nostre spalle per comprendere limiti e virtù dello strumento referendario.

Radicalmente diversi sono stati gli esiti nel caso del sistema elettorale e in quello dell’acqua-bene comune. Nel primo il cambiamento è andato ben al di là di quanto veniva richiesto, all’opposto nel secondo nulla è mutato. I referendum, in effetti, sono una prospettiva di cambiamento, non la sua realizzazione; un inizio, non la conclusione di una lotta per l’affermazione di una diversa visione del mondo. Saranno poi i soggetti reali, i rapporti di forza politici, le condizioni culturali a segnare il futuro e la portata del cambiamento.

Lo scontro reale, nel voto di domenica, non riguarderà tanto le concessioni alle imprese petrolifere, bensì coinvolgerà per intero le prospettive di sviluppo: devono queste continuare ad essere basate sulle fonti energetiche tradizionali, sul petrolio, ovvero è giunto il tempo di cambiare investendo nelle fonti alternative, recuperando il gap che vede il nostro paese tra gli ultimi nelle politiche energetiche non inquinanti. Entro questa più ampia visione cadono molte obiezioni che sono state sollevate: la questione della perdita del lavoro causato dalla fine delle concessioni (che non sarebbe comunque immediata), ad esempio, è chiaramente mal posta. Si dovrebbe più correttamente pensare alle possibili ricadute in termini di sviluppo: come riconvertire il nostro sistema energetico.

Si tratta evidentemente di politiche economiche da rilanciare, altre da abbandonare. Solo chi ritiene che esiste un’unica razionalità economica, un’unica ragione del mondo, può affermare che la chiusura protratta nel tempo delle piattaforme di perforazione in profondità per la ricerca di idrocarburi costituisca un serio problema per l’occupazione. Solo chi non ha interesse a rilanciare lo sviluppo su nuove basi più consone al rispetto dell’ambiente può pensare che è necessario continuare sino all’esaurimento dei giacimenti l’attività di estrazione, in eterno dunque. Solo chi non pensa di poter cambiare può essere preoccupato per i posti di lavoro che il settore petrolifero – compreso l’indotto – oggi garantisce, rinunciando così a fornire un diverso futuro a questi lavoratori che ben potrebbero costituire la base di una occupazione ecologicamente compatibile. Solo chi vuole mantenere le attuali storture può essere contro i referendum.

Lo scontro, dunque, è ancora una volta tra chi vuole preservare gli assetti di potere esistenti e chi crede in un altro mondo possibile.n questa prospettiva deve essere valutata anche la portata in sé ridotta del quesito. Se l’effetto del referendum si limitasse ad escludere le proroghe delle concessioni estrattive entro le dodici miglia marine non avremmo fatto granché in tema di risanamento e sviluppo complessivo. Ma qui è appunto la sfida da raccogliere: questo non è che l’esordio di una lotta politica di civiltà, per tentare di risalire la china che ci ha portato all’attuale degrado ambientale, contro la miopia di un ceto politico, nuovo solo a parole, ma che continua a porre resistenza al cambiamento e non vuole progettare il futuro, riproponendo le stesse ricette al servizio dei soliti interessi.

Per cambiare non basta un solo giorno, né un solo quesito, c’è bisogno di una organizzazione sociale, di una cultura diffusa, di un ceto politico in grado di tradurre in politiche realmente innovative la volontà espressa dal corpo elettorale. Per questo possiamo dire che il sì contro le trivelle «ce n’es qu’un début»: altri referendum sono già pronti, altre politiche devono essere immaginate.

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