«La legge di stabilità promuove un programma straordinario per la riqualificazione urbana. Migliorare la qualità della vita nelle nostre città è fondamentale ma serve un nuovo programma?» Sbilanciamoci.info, 3 maggio 2016
Migliorare la qualità della vita nelle nostre città, e soprattutto nelle loro periferie, è fondamentale anche per contenere le aree di disagio e marginalità sociale ed esistenziale. Ma serve proprio un nuovo programma?
La riqualificazione una e trina
Nel prospetto riportato qui sotto, sono stati messi a confronto i principali parametri e caratteristiche dei tre più recenti programmi di riqualificazione urbana che perseguono gli stessi obiettivi: uno promosso, nel 2012, dal governo Monti e ancora in corso di attuazione, e due dal governo Renzi, con le leggi di stabilità 2015 e 2016; gli interventi da realizzare con il primo di questi ultimi due programmi sono ancora nella penna dei progettisti, malgrado sia passato ormai quasi un anno e mezzo dalla sua approvazione.
Dalla lettura del prospetto si può osservare quanto segue.
1) Fin dalla loro denominazione sono intuibili le sovrapposizione tra i tre programmi. Al riguardo i possibili dubbi sono fugati dalla descrizione sintetica delle opere che possono essere finanziate: i progetti ammessi devono riguardare l’ampio spettro degli Interventi finalizzati al miglioramento delle aree urbane degradate e marginalizzate e al recupero del degrado sociale, che è fonte anche di insicurezza. Nelle liste dettagliate degli interventi finanziabili le descrizoni di alcune di esse sono pressoché le stesse in tutti e tre ibandi indetti per la realizzazione dei programmi.
2) L’ultimo programma promosso limita la partecipazione alle sole città metropolitane e ai comuni capoluogo di provincia. Questi comuni potevano, però, partecipare anche ai bandi relativi ai due precedenti programmi.
3) Le leggi che hanno promosso i due programmi del governo Renzi hanno stabilito un calendario per l’emanazione dei bandi e per la presentazione dei progetti da parte dei comuni. In entrambi i casi le scadenze previste non son state rispettate né per l’emanazione dei bandi né per la presentazione dei progetti.
4) La gestione del piano nazionale per le città è affidata al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, competente in materia delle politiche per la casa e per la riqualificazione urbana. La selezione dei progetti da finanziarie con i due programmi promossi dal governo Renzi è affidata ad apposite strutture temporanee costituite presso la presidenza del consiglio dei ministri.
5) La dotazione finanziaria dei programmi è modesta non solo con riferimento ad ognuno di essi, ma anche per tutti i tre insieme. Lo stanziamento totale si attesta sul miliardo di euro; metà di questa cifra è distribuita tra il 2012 e il 2017.
La rinuncia all’efficacia
È una profezia facile prevedere che l’ammontare del finanziamento chiesto dai comuni, sui due programmi più recenti, sarà molto più elevato delle somme messe a disposizione dal bilancio statale. È già successo con il piano città promosso dal governo Monti. In quel caso, i comuni presentarono 457 progetti; con i poco più di 300 milioni di euro disponibili ne sono stati finanziati 28, la cui realizzazione richiede un investimento complessivo di 4,4 miliardi di euro. Non sono reperibili dati sul stato di attuazione degli interventi finanziati, ma è molto probabile che per alcuni di essi sia ancora molto arretrato, considerato che in molti casi il finanziamento ottenuto è solo una percentuale molto piccola della spesa da sostenere.
È prevedibile che un certo numero di progetti non finanziati con il piano città sia già stato ripresentato per concorrere al bando del programma 2015; le città metropolitane e i comuni capoluogo di provincia, ritenteranno, con gli stessi progetti, la sorte anche con il programma di quest’anno ad essi riservato.
La moltiplicazione di programmi con la stessa finalità dotati di risorse scarse, mentre è già disponibile una lunga lista, di recente formulazione, di progetti già valutati, non può essere classificata tra le pratiche di buon governo e di buona amministrazione. Finanziare con le somme nel frattempo trovate nel bilancio dello stato alcuni dei progetti già valutati positivamente per il piano delle città, ma non finanziati per mancanza di fondi, avrebbe fatto risparmiare costi amministrativi ai comuni e all’amministrazione centrale e ridotto i tempi di avvio delle opere. La celerità nell’esecuzione degli interventi darebbe anche una spinta all’economia. Se fosse stato ritenuto utile, con le stesse norme di promozione dei due nuovi programmi, o con atti amministrativi, le nuove risorse potevano essere riservate a particolari tipologie di opere o di comuni.
Certo questa scelta razionale avrebbe avuto, per il governo, due controindicazioni: a) se si fosse semplicemente scorsa la graduatoria del piano città non sarebbe stato possibile trasferire la gestione dei fondi dal ministero delle infrastrutture alla presidenza del consiglio dei ministri; b) sul versante della comunicazione politica fa più effetto l’annuncio di una nuova iniziativa che la comunicazione del rifinanziamento di una analoga già in essere.
A dire che l’efficacia dell’azione amministrativa e delle esigenze delle città sono state sacrificate ad esigenze politico-mediatiche, si fa, forse, peccato, ma è legittimo ritenere che l’ipotesi sia plausibile.
Non funzionalità e servizio ai passeggeri,(che non a caso vengono chiamati clienti) ma ancora una volta, il vero obiettivo è la mercificazione, il consumo e il massimo ricavo. Corriere della Sera, 3 maggio 2016 (c.m.c.)
E' degno di nota l’impegno con cui «Grandi Stazioni» — non so se spinta da una disperato bisogno di risorse per problemi di bilancio, o forse da pura avidità — si dedica da tempo a deturpare il patrimonio architettonico italiano e a contribuire al degrado ambientale del nostro Paese.
«Grandi Stazioni», per chi non lo sapesse, è una società del gruppo Ferrovie dello Stato, la quale gestisce per l’appunto le 14 maggiori stazioni del sistema ferroviario nazionale. O meglio, più che gestirle direi che le munge. Nel senso che da anni il suo unico scopo sembra quello di risistemarne gli interni allo scopo di riempirli all’inverosimile di spazi commerciali da affittare, obbligando poi i viaggiatori a seguire «percorrenze riorganizzate» (così nell’«italiese» del suo sito), al fine di indurli a comprare quante più cose possibili. Anche la scarsità di posti dove sedere e riposarsi obbedisce allo stesso scopo. Non solo. Pur di far soldi, infatti, «Grandi Stazioni» ha piazzato lungo le banchine dei treni anche una miriade di schermi dove si proiettano interrottamente, per il piacere di chi aspetta di partire, video pubblicitari dal sonoro altissimo.
Per avere un’idea del risultato di tutto ciò basta avventurarsi alla stazione Termini di Roma. Un vero inferno. L’intero disegno architettonico originario, niente affatto spregevole, è stato completamente stravolto da una miriade disordinata di chioschi e di box commerciali disseminati dappertutto, che obbligano i passeggeri a dei veri e propri slalom in un pigia pigia assordante per giungere ai treni. In pratica ci si muove come su un autobus nell’ora di punta. A tutte le ore, poi, centinaia di viaggiatori di tutte le età, non trovando un posto decente dove stare, giacciono buttati per terra. In compenso i negozi sono pieni, e «Grandi Stazioni» rimpingua i suoi bilanci.
«Dopo le polemiche bolognesi, i murales del celebre street artist irrompono in val Susa a fianco del movimento che si oppone all’«alta voracità» e a difesa della casa di Ines, minacciata dalle ruspe». Il manifesto, 3 maggio 2016 (c.m.c.)
Un eurocrate carponi, la cui testa invisibile entra dentro la zona rossa del cantiere dell’alta velocità, defeca denaro. Dietro di lui un sindaco, con fascia tricolore, nella stessa posizione raccoglie una manciata delle feci sonanti e se ne ciba. E poi un costruttore, un giudice con parrucca e toga e una serie di poliziotti: chi armato di codice penale, chi di fucile e chi di manganello. Tutti carponi, tutti coprofagi di denaro, quello prodotto dal cantiere di Chiomonte, in val Susa. È la prima delle due opere dipinte la scorsa settimana da Blu, l’artista anonimo definito dal Guardian «uno dei dieci migliori street artist in circolazione».
«Alta voracità», questo il titolo dell’imponente murales, dà il benvenuto all’interno del cantiere fortezza di Chiomonte. Arrivato giovedì scorso, inaspettato dai più, l’artista ha preso possesso della massicciata oggetto di infinte scritte No Tav negli ultimi anni. Sotto lo sguardo incredulo dei poliziotti – è stato necessario spiegare che si trattava di un artista di fama mondiale – Blu ha iniziato il suo lavoro di pulitura del muro. Dopodiché ha costruito la scena che ricorda il celebre film horror The human centipide, incentrato su un folle medico che vuole unire chirurgicamente tre persone, bocca con ano, allo scopo di creare un «centopiedi umano».
Tutti i personaggi hanno figura vagamente porcina, occhi privi di pupille, sguardo stravolto e perso nel vuoto, e utilizzano la mano sinistra per raccogliere il denaro e divorarlo. Stagliati a metà dell’opera, lunga circa cinquanta metri e alta dieci, si evidenziano le figure del costruttore e del giudice, punto centrale della catena alimentare che mette in relazione il grande burocrate con i soldati posti a difesa del cantiere più contrastato d’Europa.
L’opera è in sé un grande treno umano, che si ciba delle proprie deiezioni per sopravvivere. Ma i personaggi finali di «Alta Voracità», sempre più indistinti, divengono deformi e piccoli, fino ad essere solo dei mostri dalle forme disumane. La disumanizzazione del capitalismo assume così forme disgustose, estreme, che giungono perfino a violare un principio biologico atto a preservare la vita. Ma l’alienazione che parte dal burocrate e si sviluppa per i passaggi successivi rende ciechi coloro che detengono le leve del potere, ignari che stanno distruggendo anche se stessi.
Blu, nella sua opera, getta fiumi di sarcasmo, perché gli unici che possono entrare dentro quel cantiere, che possono oltrepassare quella porta inviolabile ai cittadini della valle, sono i personaggi coprofagi della sua opera: dal burocrateal costruttore, fino alle varie polizie che ogni giorno, che gli piaccia o no, sono poste a difesa di un sistema malato e distruttivo.
Intorno a Blu intento a dipingere si è radunata la solita folla di militanti No Tav, che non aspettavano il suo arrivo. Molto conosciuto in valle, Blu ha solidarizzato con la lotta che vede un momento di calma apparente. Il cantiere di fatto è esiliato in una stretta e lontana valle laterale, e il tunnel di base procede a ritmo blando, senza fretta. La val Susa in sé è intatta, molto meno le casse dello Stato sottoposte all’emorragia Tav. Dopo aver concluso l’opera, apparentemente apprezzata anche dai militari posti al check point adiacente che hanno guardato con curiosità e fotografato, Blu si è spostato nella frazione di san Giuliano, dove dovrebbe sorgere la grande stazione internazionale di Susa.
Prima di passare al secondo capolavoro di Blu è necessario scendere negli abissi dell’irrazionalità. Susa è una bella cittadina incastrata in un fondo valle, famosa per la sua focaccia e l’arco romano in perfette condizioni. Non è poco, ma altro non c’é. Conta ben 6mila abitanti, e nella frazione di San Giuliano, poche case e un forno, si vorrebbe costruire una stazione ferroviaria degna di una metropoli di medie dimensioni.
Qui abita la signora Ines, e la sua bella cascina verrebbe abbattuta qualora si procedesse con la costruzione della Stazione Internazionale di Susa. Blu le ha chiesto se poteva «dare un tinteggiata» alla parete esposta a est. Nulla di meglio per la battagliera signora che espone orgogliosa una bandiera col treno crociato sul balcone. Blu ha disegnato una megamacchina arancione, dotata di benne, manganelli, punte, picconi, mani che impugnano denaro e bandiere. Lanciata contro l’albero della vita così diverso da quello Expo che si spiega su una distesa di cemento. La macchina fuoriesce dalla montagna lasciando alle sue spalle una distesa grigia, fatta di nulla.
Di fronte un albero possente si erge a difesa della bellezza, che non vale niente perché non serve a nessuno. È un’epopea quella dipinta da Blu, in cui sono rappresentati tutti i valori della lotta No Tav. L’albero, protetto da barricate fatte di copertoni, ha rami che si trasformano in braccia che si difendono, che fanno resistenza attiva. Macchine fotografiche, la storica bandiera del movimento, fionde, tronchesine, molotov ricolme di foglie tutto è impugnato: ma soprattutto ci sono braccia che si stringono forte, che serrano i ranghi. E nella parte superiore, dove la quercia si biforca in due possenti rami, le catene si spezzano e l’albero è finalmente libero di crescere.
Quelle di Blu in val Susa sono le prime opere dopo la volontaria cancellazione di alcuni suoi murales a Bologna. Scelta dovuta alla pretesa che le sue opere fossero di fatto privatizzate e mercificate. In val Susa, soprattutto per quanto riguarda il murales dipinto sulla casa della signora Ines, il problema sarebbe diverso: verrebbe perso per sempre, abbattuto. E data la presenza di tre opere di Blu in questo territorio, il movimento No Tav ipotizza una valorizzazione culturale che coinvolga anche le istituzioni. Un percorso nell’arte gratuita, quella che “serve”” ad elevare il cittadino, unica valorizzazione prevista dalla Costituzione.
«Presentato nel 2014 con l'accordo tra associazioni e politica il testo definitivo va in aula il 3 maggio. Ma ha subito una profonda revisione che premia chi erode ancora territorio». Il Fatto Quotidiano online, 2 maggio 2016 (p.d.)
Il terreno “consumabile”, di fatto, è stato ampliato a colpi di definizioni: non si considerano più, ad esempio, “superficie agricola” gli spazi destinati a servizi pubblici come scuole, fermate dell’autobus, strutture sanitarie. Le miniere non vengono più considerate consumo di suolo e nemmeno le grandi opere della legge Obiettivo. Quelle potranno continuare a divorare terreno vergine senza intaccare minimamente le statistiche di consumo di suolo in Italia. Un testo, quello che arriverà in Aula martedì, che il costituzionalista Paolo Maddalena, ex vicepresidente della Consulta, aveva definito al fattoquotidiano.it, “incostituzionale”, oltreché illogico.
Come se non bastasse, il 19 aprile è arrivato l’ultimo colpo di spugna: con un emendamento è stato cancellato un comma intero (il 3 dell’articolo 5) che conteneva il vincolo che avrebbe spinto i Comuni a rendere più oneroso costruire su terreni inedificati e più vantaggioso intervenire per riqualificare il patrimonio edilizio già esistente. Ogni Comune, in altre parole, avrebbe potuto decidere come giocare con le aliquote secondo le proprie esigenze. Secondo la commissione bilancio questo meccanismo era incostituzionale, perché avrebbe intaccato la casse comunali. Secondo il M5S era vero giusto il contrario. “Quel comma – fa sapere al fattoquotidiano.it Massimo De Rosa, membro della commissione ambiente nonché primo firmatario della proposta di legge poi confluita all’interno del testo unico – proponeva di limitare il consumo di suolo, facendo in modo che i Comuni rendessero più conveniente riqualificare l’esistente, piuttosto che investire in nuove costruzioni”. Ma nulla: il comma è sparito. E tutti i “poteri” finiscono in mano al Governo. “Si tratta – continua De Rosa – dell’ennesimo tentativo della maggioranza di svuotare di significato un testo nato per salvaguardare i territori dal cemento, e che invece adesso strizza in più passaggi l’occhio a speculatori del mattone e palazzinari. Il Pd chiede nei fatti una deroga sconfinata per poter decidere dove come e chi far costruire in futuro e un amnistia per quanto riguarda gli scempi passati e quelli attualmente in programma”.
Le stesse associazioni ambientaliste adesso, come detto, prendono le distanze dalla loro “creatura”, con tanto di appello inviato a tutti i deputati. “Nel ribadire l’urgenza di una legge efficace, fondata su principi giusti, rigorosi e condivisi – si legge – le chiediamo, di nuovo, di impegnarsi personalmente perché nel testo che state per discutere vengano inseriti dispositivi essenziali per compiere un decisivo passo verso una inversione di rotta non più procrastinabile. Se non lo ritiene possibile, piuttosto che approvare una legge del tutto inadeguata allo scopo che si propone, le chiediamo di fermarsi, per tornare a lavorare ad un nuovo ed efficace impianto legislativo sulla scorta di quanto proposto dal Forum Salviamo il Paesaggio, così da dimostrare al Paese la volontà di voler davvero arrestare, anche se in modo progressivo, il consumo di suolo”.
Non è detto, tuttavia, che questo testo abbia strada spianata. Ncdinfatti non vuole portarlo in aula e chiede di rinviarlo ancora. A questo si aggiunge la “contrarietà” dell’Anci che solo ora, a pochi giorni dall’arrivo in Aula, ha prodotto una nota di sei pagine elencando tutte le sue perplessità. L’associazione guidata da Piero Fassino chiede di modificare (ancora) la definizione di “superficie agricola”, di semplificare il calcolo delle quote di suolo consumabili e di prevedere una norma di raccordo tra il ddl e la normativa. Secondo Agricolae i timori dell’Anci sono riconducibili agli investimenti edilizi sul territorio che “sembrerebbe constino di circa un miliardo di euro in pancia alle banche”. Soldi e risorse che potrebbero essere messi a rischio proprio dall’approvazione della legge sul Consumo del suolo.
Riferimenti
La posizione pesantemente critica di eddyburg sulla proposta legislativa oggi in discussione, sul suo impianto e sulla sua assoluta inefficacia ai fini del blocco del consumo di suolo inutile è stata argomentata più volte. Vedi per tutti l'eddytoriale 169 e i numerosi testi ivi collegati
Ancora effetti perversi dei tagli imposti dalla micidiale politica dell'Unione europea e interpretata dal governo Renz: alloggi pubblici all'asta per mitigare gli effetti della riduzione dei finnziamenti alla sanità. La Nuova Venezia, 1 maggio 2016 (p.s.)
Nei mesi scorsi l’Asl ha chiesto all’Agenzia delle Entrate la valutazione degli immobili, e ora è in attesa dell’autorizzazione da parte della Regione Veneto, cui spetta il via libero definitivo per l’alienazione degli immobili di proprietà dell’azienda sanitaria. Dopodiché si passerà all’asta. Già l’anno scorso l’Asl aveva deciso di mettere in vendita oltre trenta appartamenti, soprattutto in centro storico, per un valore complessivo di almeno 14 milioni di euro. In un primo momento aveva cercato di venderli tutti insieme, con l’obiettivo di far gola a qualche fondo immobiliare, senza riuscirvi. E quasi a vuoto erano andate anche le singole aste degli immobili messi in vendita - solo 4 ceduti - motivo per cui si è poi passati a trattative private.
La manifestazione d’interessa va presentata entro il 27 maggio. Per questo secondo pacchetto di immobili, non appena la Regione darà il via libera, bisognerà procedere con l’asta pubblica e l’Asl 12 dovrà decidere se provare a vendere, in prima battuta, il pacchetto intero, o procedere alle singole alienazioni. Nel lungo elenco girato dal direttore generale, Giuseppe Dal Ben, alla Regione e al ministero dei Beni culturali - qualora emergesse che alcuni edifici risultano vincolati - ci sono appartamenti il cui valore è compreso, mediamente, tra 200 mila e 700 mila euro, come per un edificio a Cannaregio 2082.
Degli oltre cinquanta immobili in vendita cinque si trovano a Mestre tutti in via Torre Belfredo 60 (ex calle della Testa 3) mentre gli altri, con l’eccezione di un caso a Pellestrina, in calle Chiori 986. Gli altri edifici in vendita si trovano per la maggior parte a Cannaregio (32 appartamenti) dove si trovano gli immobili più costosi, mentre altri 17 appartamenti si trovano nel sestiere di Castello. Proprio per la scarsità di risorse nelle scorse settimana la Regione aveva respinto la richiesta dell’Asl 12 di abbattere la palazzina ex Ced alle spalle del distretto sanitario di via Cappuccina.
Dal Ben voleva abbatterla per poi ricostruirla ex novo, per una spesa di 2 milioni e 300 mila euro prevista nel 2017 (un milione) e nel 2018 (un milione e 300 mila euro) ma la Regione ha congelato il piano dell'Asl, invitandola a rinviare la demolizione.
Mentre in città proliferano residenze turistiche e b&b abusivi ed esentasse, il sindaco fa sgomberare la casa dei senza tetto. La Nuova Venezia, 1 maggio 2016 (p.s.)
Quattro tende da campeggio, una decina di materassi e tanti altri rifiuti da riempire un autocarro intero: la nuova operazione antidegrado è stata portata a termine tra giovedì e venerdì 29 aprile dalla sezione Pronto intervento della Polizia municipale, che ha smantellato cinque accampamenti di questuanti romeni, collocati sotto i cavalcavia di via Rizzardi e via della Pila, nella zona di Marghera.
Le operazioni sono state condotte da una squadra antidegrado, composta da quattro operatori della Polizia Municipale, da personale specializzato di Veritas e da una ditta di fabbri fatta intervenire dal Comune per ripristinare le barriere elettrosaldate anti intrusione.
Durante l’intervento sono stati rimossi giacigli, viveri, materassi e tanto altro materiale. Nella zona della ferrovia sono stati anche sgomberati, previa identificazione, quattro questuanti di nazionalità rumena e i loro giacigli.
Le operazioni di sgombero, sono state effettuate sulla scorta di un’ordinanza di rimozione firmata dal sindaco ed emanata sulla base dei rapporti redatti dagli operatori della Sicurezza urbana incaricati dell'attuazione del programma di rigenerazione urbana "Oculus".
I dati sulle presenze dei senza tetto accampati nella zona industriale tra Mestre e Marghera sono stabili da anni e l'esecuzione di frequenti sgomberi da parte della Polizia Municipale ha finora efficacemente contrastato l'insorgere di stabili e vasti accampamenti abusivi. Il programma Oculus proseguirà con intensità anche nelle prossime settimane.
Introduzione a un libro che documenta e commenta le iniziative di resistenza nella città del Giglio alla politica neoliberista,di cui l'ex sindaco (e attuale Re d'Italia) è autorevole esponente 1
L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale.
Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico.
Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata.
Firenze è per l’intero decennio il banco di prova per il grande cantiere politico nazionale. Nel 2004, alla Provincia è eletto presidente in quota democristiana (Margherita) Matteo Renzi, ignoto trentenne, che diventerà sindaco nel giugno 2009 raccogliendo il testimone da Leonardo Domenici (Ds-Pd) ma cedendolo per occupare Palazzo Chigi, pochi mesi prima della naturale scadenza. Nella città toscana sono messe in atto le politiche che dal febbraio 2014, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri, il “sindaco d’Italia” estenderà dalla scala urbana all’intero paese[4]: concentrazione del potere e svilimento del ruolo degli organi collegiali, velocità decisionale e forzatura delle norme, propaganda in luogo della pianificazione, obliterazione del dato sociale in nome del nuovo, del brand e dello smart. E apologia della tabula rasa.
La città iniqua
Non solo. L’urbanistica si rende “mezzo politico” capace di trasformare i quartieri in territorio di conquista da parte di quel segmento finanziario che non intrattiene «alcun legame con i luoghi in cui la ricchezza si produce»[7]. L’urbanistica diventa «qualcosa che può essere quotato in borsa, giocato con la stessa logica dei “derivati” su proiezioni del futuro»[8]. Si fa tossica. Alligna tra la debolezza dell’amministrazione e la miopia della speculazione finanziaria. Acceca i politici cui offre scenari a prospettiva raccorciata. In questa temperie si generano i disastri dei fallimenti comunali che alcuni critici denunciano da tempo[9].
Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano sempre più estese e più ingiuste. All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese – a tempo indeterminato – per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di servizio e per i trasporti. Più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari che deliberatamente rompono il patto sociale su cui si fonda la vita civile (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro anche il patto generazionale). I bilanci comunali vacillano. Il rientro dal debito – nel segno dell’“austerità” – crea nuove sofferenze urbane nelle «periferie dolenti». A Firenze la polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido e usato come mero strumento di accumulazione e finanziarizzazione, ha valenza didascalica: a dispetto della propaganda renziana basata sulla necessità di un ribaltamento del vecchio sistema economico-politico che erodeva risorse a danno dei “giovani”, il «restyling» di via Tornabuoni fortemente voluto dallo stesso Renzi, è stato finanziato con un mutuo a lungo termine. Proprio il contrario di quanto sbandierato nei salotti televisivi.
«Tutto quello che vedi è in vendita», ricordava uno striscione sulla ringhiera del piazzale Michelangelo da cui si offre la vista di una città ridotta a puro valore di scambio. La mercificazione si attua prioritariamente attraverso la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. La cittadinanza viene espropriata del fondativo diritto alla proprietà collettiva, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione come avverte da anni Paolo Maddalena[10].
L’alienazione degli edifici pubblici rientra tra i principali elementi di pauperizzazione delle città italiane. Nel solo centro storico fiorentino sono centinaia di migliaia i metri quadri in vendita e in trasformazione, spesso in edifici di valore monumentale dei quali è negata la disponibilità sociale, come illustra Daniele Vannetiello nel saggio dedicato alla Firenze intramuros. La loro vendita vede tra i maggiori acquirenti una compiacente Cassa depositi e prestiti Spa (su cui ritorna Berdini nel capitolo che segue) e nel post-Renzi assume i toni grotteschi del “Florence, city of the opportunities” (sic): operazione propagandistica che vede il neosindaco Nardella vestire l’abito dell’agente immobiliare per promuovere edifici pubblici (ma anche privati) presso le fiere internazionali del real estate. È la parodia della politica urbana, che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.
I servizi alla cittadinanza, mercificati e privatizzati, drenano enormi ricchezze pubbliche. Rappresentano un non secondario aspetto della città iniqua: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici”, mentre costituiscono uno dei favoriti finanziamenti occulti della politica. La privatizzazione dell’Ataf, il servizio comunale di autotrasporti pubblici fiorentini, ha avuto forti ripercussioni sulla qualità della vita cittadina. Ma il presidente della società, privatizzata nel 2012, è ora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Mobilità sociale.
Sulla mobilità veicolare si concentra in effetti il progetto “pubblico” della città, più futurista che moderno. Sottolineava Enzo Scandurra, in un recente dialogo, che l’urbanistica fiorentina si riduce ormai a due soli elementi: l’aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Il nuovo aeroporto, fortemente voluto da Renzi presidente del Consiglio[11], adombra per mole di affari il grande nodo irrisolto della lottizzazione di Castello, come spiega nel suo saggio Antonio Fiorentino. Della resistenza civile e dei controprogetti “dal basso” al passaggio sotto Firenze del treno ad alta velocità parlano in questo libro Tiziano Cardosi e Alberto Ziparo, dando testimonianza, l’uno, del lavoro di costruzione corale del sapere critico nel comitato No Tunnel Tav, e l’altro, dell’impegno di un docente di urbanistica organico al movimento.
La città desacralizzata
A Firenze – palcoscenico del “nuovo” nazionale – è fatto abuso dei concetti di città creative e smart, invenzioni strumentali all’urbanistica «ossessionata dal marketing». Le une, le creative cities, ridicolizzano l’autorappresentazione urbana tramite un “brand”, creato espressamente per la competizione globale tra città che aspirano a collocarsi in classifiche di attrattività internazionale (per sedi di expó, olimpiadi o capitali della cultura, e per gli agognati “investimenti stranieri”). In esse, eventi e grattacieli sono icone che uccidono i simboli autocostruiti. Ognuna singolarmente, ognuna alienata dal contesto, le nuove icone sono messe in campo per mascherare l’obliterazione del dato sociale nelle politiche urbane. La civitas è sostituita con un simulacro vendibile: in questa logica, nel 2012, l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico del sindaco, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione.
Dal canto loro, invece, le smart cities – città furbette più che intelligenti, stigmatizzava Franco Farinelli[12] – incarnano il sogno delle città informatizzate: i problemi del traffico, della “sicurezza” o quelli ambientali, ognuno a sé stante, sono rimandati agli esperti di settore. Urbanisti e piani possono essere buttati al macero. In fondo, lo si è già detto, gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta la «de-significazione» del piano urbanistico. Nel caso fiorentino, il Piano strutturale (2011) e il Regolamento urbanistico (adottato nel 2014) – ormai privi del significato di “progetto comune sullo spazio comune” – eludono la materia pianificatoria e, infarciti di proclami, rifuggono una “narrazione” che possa contribuire al disegno della città futura.
Gli strumenti approvati o concepiti nel decennio si inviluppano nella triade «mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile»[13], valida per lenire tutti i mali della città globale, che a Firenze si declina: nel «mix di funzioni» (funzioni che tuttavia sarà il privato a determinare, come approfondiamo nel saggio dedicato ai Piani neoliberisti); nella partecipazione (risolta nella farsa dei «facilitatori del consenso»); negli ammiccamenti a una “natura in città” (lo studio delle relazioni profonde dell’ecosistema urbano è tuttavia accuratamente evitato). In contrapposizione alle “scelte” di piano del tutto avulse dal contesto ambientale e impermeabili ai suggerimenti morfologici offerti dai luoghi, Roberto Budini Gattai offre in queste pagine soluzioni convincenti e non prive di fascino. Mentre Giorgio Pizziolo costruisce l’ipotesi a scala territoriale della «città/paesaggio» nella quale le relazioni ecologiche – ambientali, soggettive, sociali – guidano il progetto futuro di una città come «luogo vivente».
Il «bacio mortale»[14] dell’Unesco – che dal 1982 ha inserito nel world heritage il centro storico di Firenze – completa il quadro della desacralizzazione urbana nel segno della monocultura economicista. Il turismo, inesauribile «cash machine», estrae beni territoriali e li reinveste nelle cittadelle della finanza mondiale. Il tessuto della città storica è sottoposto a una pressione insostenibile che, ancora una volta, produce risultati nel segno dell’iniquità. La città dell’1% si realizza prioritariamente sull’espulsione dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco e della riuscita della città nella “competizione globale” è stato – da tempo – sterilizzato: via residenti e luoghi di aggregazione, via le bancarelle e via anche le macchine (oggi l’espulsione si attua anche attraverso una pedonalizzazione cui non faccia seguito un buon servizio di trasporto pubblico). Nei quartieri storici limitrofi al “salotto buono”, il processo di imborghesimento – nella letteratura di settore, processo definito «gentrificazione» – è in atto, e si realizza nella formula che fa coincidere il rinnovamento dei settori urbani con il rinnovamento dei residenti[15]. Laddove invece la concentrazione di popolazione migrante impedisce l’innalzamento di rango e di valore immobiliare dei quartieri centrali, la risposta dell’amministrazione risiede nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione violenta di stile carcerario e le videocamere periferizzano alcuni settori della Firenze duecentesca (quartiere di San Lorenzo, via Palazzuolo). È l’altra faccia del modello centro-periferico che relega l’«umanità eccedente»[16] in aree non necessariamente remote.
La città felice?
Il capitalismo dalle nuove fattezze, del money by money, ha una sua precisa idea di città e di governo delle cose urbane. Una città mercantil-proprietaria che, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, nega la presenza attiva della cittadinanza che si autodetermina, ne nasconde i corpi, cancella le pratiche urbane con cui «gli abitanti usano e vivono lo spazio, e al contempo [...] gli attribuiscono un significato e un valore simbolico»[17]. Nel capoluogo toscano un esempio, forse minore, è tuttavia indicativo: il Mercato centrale, trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois-bohème), non risponde alla richiesta diffusa nel quartiere di luoghi di assemblea e di riunione, di cui la città di Renzi-Nardella è sempre più avara.
La città comune – lo spazio urbano, le strade, le piazze, gli edifici collettivi, il suo paesaggio e la sua corona agricola – è gestita in stile privatistico, “valorizzata” con i metodi classici della produzione capitalista e i più moderni del turbocapitalismo. L’urbanistica neoliberista cala la maschera. Si accanisce sui luoghi di sperimentazione creativa, sociale e di «welfare dal basso», su ogni pratica di appropriazione collettiva di luoghi dismessi e oggi nuovamente appetiti. La sua fisionomia autoritaria si tratteggia nitida ogni volta che la legalità di un vuoto piano urbanistico viene a prevalere sulla legittimità di usi pluridecennali, autorganizzati, a servizio di quartieri poveri di luoghi di aggregazione.
Le autrici e gli autori dei saggi contenuti nel presente volume sono, oltre che narratori, protagonisti di quella decennale sperimentazione di ipotesi teoriche ed operative che abbiamo definito “urbanistica resistente”: un complesso di azioni animate dalla riflessione critica – di segno politico-tecnico, ecologico ed antropologico – sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana. La loro esperienza dà linfa alla convinzione che sia ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Un progetto che implica la costituzione di una nuova civitas avvertita delle relazioni col territorio, che dia spazio al mutualismo senza soffocare i conflitti, che incoraggi l’autorganizzazione e l’autogoverno delle risorse naturali, economiche e demiche[18]. In questo progetto tutti sono chiamati all’impegno in prima persona, ad essere il corpo vivo della città, presente nelle piazze e nei luoghi di rinascita collettiva, e a sostenere pratiche di cura e di accoglienza per rafforzare le convivenze possibili e ricostruire il legame sociale indebolito. Impegno non limitato, come talvolta accade, a mantenere «vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», ma capace – sono ancora parole di Simone Weil – di rifondare «città umane [che...] avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano»[19]. A partire da questa resistenza corale si invera l’altra idea di città.
Il libro è stato discusso e progettato collettivamente dal Gruppo Urbanistica della lista di cittadinanza perUnaltracittà (Puc). I suoi capitoli descrivono il quadro teorico e politico, le vicende urbanistiche, l’impegno e il lavoro di opposizione, le ipotesi progettuali condivise. Ma il libro non mira a raccontare dieci anni di storia urbanistica. Esso registra i modi della resistenza vissuta e ne delinea quelli futuri, raccoglie i risultati di una ricerca-azione di durata decennale che ha favorito e messo a frutto capacità relazionali e competenze nell’ascolto, abilità pratiche e organizzative con attenzione al calendario politico etc. Così la narrazione, da una parte, affonda nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altra attinge alle fonti documentarie consentanee alla ricerca in urbanistica. Ossia alla produzione del Comune (delibere, atti, determine etc.) e ai piani urbanistici (studiati con attenzione e puntualità anche per la loro traduzione alla cittadinanza attiva “non esperta”); all’informazione a stampa; alla controinformazione. E, infine, sui materiali autoprodotti per l’opposizione in Consiglio: dai comunicati stampa alle pubblicazioni cartacee e digitali, disponibili sul sito della lista consiliare.
Il sito è tutt’oggi attivo e costantemente aggiornato dal “Gruppo Comunicazione”: nelle pagine del libro, Cristiano Lucchi ne rivela i segreti che non di rado hanno permesso di far breccia nel muro di silenzio dell’informazione ufficiale. Maurizio Da Re, segretario “in palazzo”, estrae dalla mole documentaria prodotta quegli atti consiliari, interrogazioni e domande di attualità che hanno avuto maggiori ripercussioni sull’andamento della politica cittadina, dando talvolta vita a vicende trasposte nelle aule del tribunale. Infine, lo spirito dell’azione politica della lista è illustrato dalla consigliera Ornella De Zordo che ha instancabilmente intessuto relazioni tra il palazzo, i quartieri cittadini e il territorio metropolitano, mettendo in rete l’esperienza fiorentina con le analoghe che cominciavano a dispiegarsi a scala nazionale.
Il progetto della Cassa Depositi e Prestiti per "riqualificare" una caserma a Torino è un caso esemplare di come un ente finanziato dai risparmiatori sia stato trasformato in società immobiliare controllata dal governo e dai suoi amici. Il Sole 24 Ore Casa 24 Plus, 1 maggio 2016 (p.s.)
Comincia da Torino il processo di riqualificazione delle ex caserme dismesse. Con un progetto del Gruppo Cassa depositi e prestiti da 25-30 milioni di euro per recuperare la caserma La Marmora in via Asti. Un luogo storico per la città che ,dopo l’intervento in variante fatto dal Comune e l’acquisizione da parte di Cassa depositi e prestiti, si trasformerà in uno spazio aperto e fruibile, destinato al residenziale e alla fruizione da parte di start up, laboratori e aree di co-working.
Le linee del progetto, sviluppato con Carlo Ratti, fondatore dello Studio Carlo Ratti Associati e docente al Mit di Boston, le descrive Aldo Mazzocco, Head of Group Real Estate di Cassa depositi e prestiti, proprietaria del complesso: «La caserma di via Asti si trasformerà per il 60% in nuove residenze e in uno spazio destinato allo Smart housing, una formula di recupero e valorizzazione di aree della città che accomuna Berlino, San Francisco e Barcellona e che punta su un’offerta residenziale con spazi condivisi, che possa attrarre creativi, startupper e giovani». Una prospettiva architettonica e sociale, insieme, che passa attraverso il co-working, ma che si allarga a forme nuove di co-living e co-making.
L’idea è di proporre una formula di residenzialità basata sugli affitti a costi approcciabili, in un contesto aperto e stimolante, che possa agevolare la nascita e lo sviluppo di nuove idee e che risponda, sottolinea Mazzocco, alle nuove esigenze di mobilità piuttosto che soltanto a criteri di reddito. «Si tratta di un modello che funziona nella Silicon Valley – racconta – che ha funzionato in città europee come Berlino e Barcellona e che può funzionare a Torino per le sue caratteristiche strutturali, per il tipo di mercato immobiliare presente e per la buona qualità di ricerca e università».
L’innovazione accanto alla storia. La Caserma La Marmora fu sede, dal 1943 al 1945, dell' Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana. Lì vennero imprigionati, torturati e interrogati decine di partigiani, in tanti persero la vita. Nell’area sarà ospitato il Museo della Resistenza. Per il sindaco di Torino, Piero Fassino, quello di via Asti è «un intervento di valore, per la rilevanza architettonica degli spazi e per l’importanza storica che mantengono nella memoria collettiva della città. La riqualificazione servirà a mantenere viva la memoria».
L’intero complesso ha una superficie di circa 20mila metri quadrati, l’impianto è formato da otto corpi di fabbrica intorno ad una corte centrale, racchiusi da muri di cinta lungo tutto il perimetro. Il progetto prevede la realizzazione di nuove residenze, attraverso un recupero rispettoso dell'architettura originale, risalente alla fine del XIX secolo. Le soluzioni realizzate avranno la caratteristica di moduli, seguendo le caratteristiche architettoniche degli edifici, con taglie diverse. Da extra small (20 metri quadri) a XL, 180 metri quadri. La “corte urbana” centrale, circa un terzo di piazza Vittorio, la più ampia di Torino, diventerà luogo di aggregazione e di rete per le attività che sorgeranno nell’area.
L’esperienza di Torino è anche una sorta di debutto per il nuovo modello di riqualificazione che intende proporre CDP per ricucire e rivitalizzare il tessuto urbano delle città italiane attraverso
forme innovative di residenzialità, perlopiù in locazione, arricchite di nuove di nuove funzionalità per le comunità urbane, sempre recuperando patrimoni storici e architettonici.
Completato lo studio di fattibilità da parte dello Studio Ratti, si prevede i lavori possano essere avviati nel 2017. Dal punto di vista urbanistico, spiega l’assessore del Comune di Torino Stefano Lorusso, si proseguirà con la progettazione urbanistica attuativa per poi avviare la commercializzazione dell'asset a seguito dell'adozione del Piano attuativo, entro il secondo semestre dell’anno.
«La manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma, è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti». Il Fatto Quotidiano online, 1 maggio 2016 (c.m.c.)
“Fatico a comprendere come si continui a dire che il nostro è stato un tentativo di separare la valorizzazione del patrimonio culturale dalla tutela. In realtà abbiamo tentato di distinguere i compiti e le finalità pubbliche creando un equilibrio territoriale”, ha detto il ministro dei beni culturali Franceschini, intervenendo il 21 aprile alla presentazione del libro di Lorenzo Casini Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale .
Quanto quell’equilibrio territoriale sia precario, quanto la distinzione di compiti e finalità pubbliche sia incerto non lo sostengono ostinati detrattori. Né tanto meno elitari rappresentanti di una casta che osteggia qualsiasi cambiamento.A certificarlo sono le notizie che giungono da ogni regione d’Italia, esito naturale di politiche scellerate nelle quali la riforma delle soprintendenze costituisce soltanto cronologicamente l’ultimo intervento. Notizie sull’utilizzo di aree archeologiche e musei, ma anche di palazzi storici per eventi di ogni tipo. Ben inteso, eventi indiscutibilmente privati. Come aperitivi, matrimoni, convention aziendali, vernissage e perfino incontri politici. Servono profitti! Quindi avanti con chiusure temporanee, parziali e totali, di spazi pubblici. Quasi sempre spazi rappresentativi e in condizioni di conservazione tali da far bella mostra di sé. In ogni caso chiusure che penalizzano la libera fruizione.Creano le premesse per un pericoloso discrimine tra il semplice visitatore e l’imprenditore di turno.
Non è tutto.In questa operazione di nuovo marketing, che ha da tempo investito il patrimonio italiano, ci sono i riutilizzi. Ville e palazzi storici soprattutto, ma anche tipologie più specifiche come fari e forti militari, conventi e castelli, sparsi da nord a sud del paese. All’interno dei centri abitati, oppure isolati tra campagne e montagne. Beni, in gran parte di proprietà del demanio, messi sul mercato. Non di rado proprietà comunali e regionali. Un’asta per ricchi in cerca di un luogo prestigioso nel quale risiedere, il più delle volte nel quale sviluppare un nuovo business. Hotel a 5 stelle, come si accade a Venezia, B&B affacciato sui resti del foro romano, come accade a Brescia, appartamenti come accade a Firenze nel Palazzo della Beatrice dantesca.Esempi di un riutilizzo che sembra non avere regole. Verrebbe da dire, accortezze. Il palazzo del seicento trattato alla stregua del faro novecentesco. Ogni struttura come ciascun complesso, poco più di una elemento da monetizzare. Questo il punto.
Questa l’idea di fondo, che accomuna la riforma delle soprintendenze e la lista dei beni demaniali da mettere in vendita, con il corollario della riorganizzazione dei musei, di alcune misure dello “Sblocca Italia” e della legge Madia. La chiamano valorizzazione, anche se ha tutta l’aria di essere un’enorme dismissione. Articolata, certo. Ma pur sempre una dismissione. Nella quale i Beni Comuni vengono progressivamente cancellati, per diventare di pochi.Un’autentica emergenza culturale nella quale la valorizzazione, nella sua interpretazione corrente, diviene lo strumento non per esaltare monumenti e siti archeologici ma per farne contenitori di eventi.
Insomma qualcosa tra un set cinematografico e un palcoscenico. Mentre la tutela appare scriteriatamente dimezzata. Con nuove soprintendenze onnicomprensive che dovranno districarsi tra organici esigui e criticità crescenti. Ulteriormente e forse definitivamente relegate ad un ruolo di subalternità decisionale. Per questi motivi i rischi. anche se meno evidenti, sono grandissimi. La rincorsa negata, ma reale, a questa pseudo valorizzazione senza alcun limite e separata dalla tutela, sta rapidamente avvicinando il paese non soltanto a un’emergenza culturale ma anche della repubblica. Sempre meno garante della tutela ad esempio del paesaggio e del patrimonio storico e artistico.Sempre meno promotrice dello sviluppo della cultura che da bene comunitario si sta trasformando in risorsa per pochi.
Anche per questo la manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini a Roma è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti. “Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero. – Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?-. Ma il ferroviere, pronto e cortese: – Noi non vendiamo il nostro Paese”, scriveva nel 1960 Gianni Rodari in “Filastrocche in cielo e terra”. Il rischio che qualcuno voglia vendere il Paese esiste. E’ realtà, non è letteratura.
Il Fatto quotidiano online, 30 aprile 2016 (p.s.)
La regione settentrionale cinese della Mongolia Interna descritta nell’opera di Zhao Liang ha un ciclo dello spreco davvero esemplare. Con le miniere, si sono arricchiti i funzionari locali che poi hanno preso a esempio quanto avvenuto nelle grandi città perreinvestire nell’immobiliare. Se però nella geometrica urbanizzazione di Pechino e Shanghai la proprietà di una casa ha dato il via al processo che ha creato il ceto medio cinese, a Ordos le case restano vuote. Quindi chi ci va ad abitare? E chi restituisce l’investimento fatto nel mattone? Le ultime novità che arrivano dal fronte “ghost city” dicono che i funzionari di Ordos si stanno arrampicando sugli specchi: appartamenti gratis per i pastori nomadi, mutui ultra-agevolati, organizzazione di imperdibili eventi per attirare la gente in città, come la finale di Miss Mondonel 2012 e le olimpiadi delle minoranze etniche cinesi. Tuttavia, senza una struttura economica forte, è dura riempire tutte quelle case: anche il carbone, risorsa principale di tutta l’area, non tira più come una volta.
Primum costruire. E a riempire gli spazi vuoti ci si penserà dopo - Insomma, in Cina prima si costruisce e poi si pensa a chi e come riempirà gli spazi vuoti. Il che è molto taoista – l’antica filosofia considera a ragion veduta più utile la parte vuota di un secchio che quella piena – ma poco pratico. Ed economico. Costruire così corrisponde in realtà a due esigenze. Crea ricchezze immediate e permette di bruciare risorse in eccesso, come nel caso dell’acciaieria di Behemoth. Ma nel lungo periodo porta all’estremo i difetti del modello cinese: inquinamento, investimenti che non generano profitti, bolle speculative. Nodi che ora stanno venendo sempre più al pettine. Klaus Rohland, ex direttore della Banca Mondiale per la Cina, ha spiegato a ilfattoquotidiano.it qual è il nodo di fondo, nonché il principale motivo di dissenso tra la sua organizzazione e Pechino quando si parla di urbanizzazione: “In Cina le città crescono più in dimensione che in popolazione. Noi sosteniamo che le due debbano essere allineate. Loro pensano a quanti chilometri di strade o di metropolitana siano necessari e così via, mentre noi facciamo un passo indietro e guardiamo alla corretta progettazione delle città, il che significa anche l’aspetto sociale e ambientale”.
Il progetto della piccola Firenze in mezzo alla steppa - Il fenomeno è diffuso e tentacolare. Cento chilometri a nord di Shenyang, nel profondo nord-est cinese, nel 2013 un intero comitato municipale ha approvato un enorme progetto per la costruzione di una replica di Firenze nel bel mezzo della steppa. Avrebbe dovuto essere un grande centro commerciale, circondato dalle solite file di palazzi residenziali da trenta piani e da non meglio precisati uffici. Il locale segretario del Partito, circondato da tutti i notabili del luogo, ha ascoltato per un’ora il palazzinaro e gli architetti italiani che presentavano il progetto come un motore di crescita per tutta l’area, poi ha tagliato corto: “È bellissimo, ora sta a noi farlo diventare reale!”. Tutti si sono riscossi dal torpore, è scattato l’applauso e il progetto è stato approvato. Non si sa poi che fine abbia fatto la Firenze nel nulla, dove per inciso il costruttore voleva piazzare una chiesa barocca ungherese al posto di Santa Croce, perché gli piaceva di più. Probabile che l’acuirsi della campagna anticorruzione abbia indotto i funzionari locali a lasciar perdere.
La “resistenza” del villaggio di Bishan - Nella campagna dell’Anhui, Cina centro-meridionale, alcuni intellettuali di città stanno cercando di ribaltare il modello. La valle ai piedi dei monti Huangshan è un’attrazione turistica, costellata di villaggi degli antichi mercanti Hui, con l’inconfondibile architettura di case a corte con tetti spioventi e muri bianchi. Ou Ning, l’iniziatore del progetto di “ritorno alla terra”, sta cercando di preservare il villaggio di Bishan dalla versione turistica dell’urbanizzazione, lo svuotamento delle antiche case per riempirle di negozi di souvenir, la trasformazione dei contadini in venditori di cianfrusaglie, il biglietto d’ingresso per entrare nei villaggi. Ha comprato casa ristrutturandola in maniera conservativa, ha messo in piedi una biblioteca per gli abitanti del paese, sta cercando di valorizzare le conoscenze del luogo per creare un’economia a chilometro zero, basata sull’agroalimentare. Quando ha iniziato l’impresa, qualche anno fa, ci ha detto: “Se questo esperimento funziona, ribalteremo tutto il modello di sviluppo”. Ammirevole, ma utopistico. A un chilometro da Bishan, in direzione del capoluogo di contea, già sorgeva un outlet a cielo aperto circondato da villette a schiera. Vuote.
L’utopia delle città sostenibili che rischiano di diventare nuove ghost town – Il progetto di centinaia di nuovi centri urbani per decongestionare le megalopoli è all’ordine del giorno nella Cina di oggi. Il premier Li Keqiang insiste sulla “urbanizzazione a misura d’uomo” come motore della crescita. Si vuole limitare l’accesso ai maggiori centri e costruire città sostenibili, ecologiche, che allentino la pressione demografica. Un sistema urbano diffuso e integrato da reti informatiche e ferrovie ad alta velocità. A dare speranza, ci sono i numeri proiettati nel futuro: decine di milioni di cinesi che passano dalla condizione di mingong – migranti rurali – a quella di ceto medio che sul binomio casa-macchina costruisce la propria nuova identità. Ma il rischio è che la gente continui a convergere su Pechino, Shanghai e le altre megalopoli facendo delle nuove “città sostenibili” le ennesime ghost town.
Il Partito spera nei migranti arricchiti - In epoca fordista, si chiamava “esercito industriale di riserva” il proletariato già contadino e poi urbanizzato che costituiva un enorme bacino di manodopera a basso costo per le fabbriche. È un fenomeno che in Cina è durato fino a pochi anni fa. Ma il recente esaurirsi della rendita demografica a causa del calo della popolazione, complice la politica del figlio unico, ha ridotto il numero dei lavoratori migranti disponibili a lavori infami e aumentato i salari. A questo punto, il nuovo “esercito” su cui fare affidamento per continuare a spingere l’economia è quello dei consumatori. Il lavoratore migrante che si fa piccolo borghese riempirà gli appartamenti che lui stesso ha costruito. Almeno nelle speranze del Partito.
E la Mongolia ha importato il modello del ricco vicino - Ma se 1,3 miliardi di sudditi dell’ex Impero Celeste potrebbero forse occupare gli spazi vuoti, prima o poi, diverso è il caso di chi haimportato pari pari il modello cinese nella vicina Asia. Periferia sud di Ulan Bator, Mongolia. Il quartiere di Zaisan è nato dal nulla, dove qualche anno fa c’era solo steppa. Ora decine e decine di palazzi di lusso occultano perfino la collina su cui svetta il memoriale al soldato sovietico caduto nella seconda guerra mondiale. Quattro, cinquemila dollari al metro quadro, gli appartamenti sono in gran parte disabitati. Il quartiere è il perfetto contrappunto a Chingeltei, lo slum di ger (yurte) sul lato opposto della valle, a nord. Qui, l’esplosiva ricchezza dei nuovi businessmen mongoli legati all’indotto delle miniere; là, l’affollarsi dei nomadi di recente inurbamento, che tirano a campare. Qui il vuoto, là il pieno. I mongoli non sono più di tre milioni. Di questi, quasi due vivono già nella capitale e l’economia stenta. Per chi sono tutte queste case di lusso che si aggiungono al parco immobiliare già esistente?
“Se non ce la fanno a comprare le case ci penserà il governo” – Bayarbat è sulla trentina, ha studiato in Canada e poi è tornato a casa per cogliere le opportunità del mattone. Critica i propri connazionali, così stupidi secondo lui da non capire che è demenziale continuare a costruire forsennatamente senza preoccuparsi del perché. Lo dice di fronte a una delle villette a schiera per ricchi che la sua immobiliare sta tirando su, proprio sul lato sud della valle. Non afferra la contraddizione che incarna, spera che “quelli dall’altra parte”, i poveri, abbiano prima o poi abbastanza soldi per trasferirsi in massa nelle nuove abitazioni per il ceto medio-alto. Improbabile. “Se non ce la fanno da soli, ci penserà il governo – dice – con i mutui agevolati”. Devono essere agevolatissimi, i mutui, per consentire l’esodo in tempo ragionevole. Così nasce una bolla immobiliare. E così si manda un Paese in bancarotta.
Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2016 (p.d.)
Parliamo di uno dei borghi più belli e delicati della Liguria. Con quei suoi palazzi antichi alti sulle rive. Con i vicoli che si aprono sul mare. Era il 2009 quando venne lanciato l’allarme per la costruzione di un nuovo albergo da settemila metri quadrati, un pugno nell’occhio proprio ai margini del centro storico. Poi nuovi palazzi, case.
I veri affari, però, si fanno sotto la superficie. Con i box auto appunto. Soprattutto con la mega-operazione accanto alla stazione ferroviaria. Un piano approvato anni fa e poi via via rinnovato, ampliato. Fino all’ultima versione che prevede due lotti: uno per 235 posti interrati (più 36 all’aperto), più un secondo per 225 box (più 25 posti in superficie). Tutto su quattro piano interrati. L’esposto è firmato da decine di persone, tra l’altro da Andrea Bignone, presidente della sezione genovese di Italia Nostra. Nella premessa si legge: “Oltre all’impatto rilevante sulla città di Camogli, evidenti sono i gravissimi rischi per l’ambiente e l’assetto idrogeologico della zona, ma anche per la pubblica e privata incolumità e per la sicurezza della linea ferroviaria e la stazione a pochi metri dall’area interessata”. Emanuele Giudice, urbanista di vecchia data e socio di Italia Nostra, chiede “che sia fatta chiarezza sulle procedure che hanno portato all’assegnazione dei lavori alla società Novim di Milano, unico concorrente della gara”. Ancora: “Che si spieghino i vantaggi economici per l’amministrazione pubblica di un progetto che è chiaramente molto favorevole al privato”.
Francesco Olivari (sindaco Pd di Camogli e già in passato membro dell’amministrazione) risponde: “Quei posti auto sono necessari per la viabilità del paese”. Cinquecento posti per cinquemila abitanti? “Sono stati fatti accurati studi in proposito. E quell’area era già stata rimaneggiata in passato”. L’ingegner Giorgio Frassella della Novim assicura: “La procedura seguita è regolarissima. A noi alla fine resteranno meno della metà dei posti, gli altri diventeranno parcheggi a rotazione del Comune”.
Ma i comitati e tanti cittadini non sono d’accordo: “A Camogli hanno già costruito decine e decine di parcheggi negli ultimi anni. Mentre all’estero allontanano le auto dai borghi più belli, noi ne portiamo centinaia. Nonostante ci sia una stazione ferroviaria in centro”. E non ci sono soltanto i box di Camogli. Dall’altra parte del promontorio, a Santa Margherita, c’è il progetto per il porticciolo: un investimento da decine di milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri benessere, oltre a posti auto interrati.
A realizzarlo la Santa Benessere & Social Srl, già guidata da Andrea Corradino, fedelissimo dell’ex senatore Luigi Grillo (Pdl). Tra i soci una società anonima lussemburghese a sua volta controllata da società delle isole Vergini e di Panama), la Rochester Holding, che fa capo a Gabriele Volpi. Lo stesso Volpi – che è diventato miliardario con il petrolio nigeriano e recentemente si è visto sequestrare un aereo privato dalla Finanza – che adesso sarebbe interessato anche ad altri progetti immobiliari tra Rapallo (con Flavio Briatore) e Recco (con imprenditori vicini alla Curia di Tarcisio Bertone). Volpi e Briatore sono compagni di cene del governatore ligure Giovanni Toti. Il padre del nuovo Piano Casa che, racconta Emanuele Giudice di Italia Nostra, “rischia di portare di nuovo il cemento sul monte di Portofino”.
«Quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privati». La Repubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)
UNO dei mantra più ripetuti dai politici di ogni colore e da molti commentatori è che condizione indispensabile per una maggiore crescita economica è far ripartire gli investimenti pubblici. E, per rafforzare il concetto, si sottolinea che l’Italia è terzultima in Europa, seguita solo da Grecia e Portogallo, come percentuale di spesa pubblica dedicata agli investimenti rispetto al Pil.
Il piano Juncker è stato presentato come una occasione di sviluppo e non passa giorno in cui i ministri non annuncino deroghe intelligenti al Patto di Stabilità per permettere ai Comuni di spendere in infrastrutture, nuovi stanziamenti per metropolitane, strade, ferrovie, tram, fibre ottiche e ogni opera che renda più efficiente il Paese in attesa della possibile apoteosi dell’investimento infrastrutturale, vale a dire le Olimpiadi di Roma del 2024.
Ma è proprio vero, per utilizzare il paradosso keynesiano, che mettere uomini a scavare buche e poi riempirle genera reddito? Partiamo da due recenti episodi. Il primo è l’audizione del ministro Delrio del 20 aprile sull’autostrada Pedemontana, progetto vecchio di lustri che avrebbe dovuto decongestionare il traffico nell’Alta Lombardia nell’affollata area tra Milano, Como e Varese. Ebbene, la parte finora realizzata di strada non attira traffico sufficiente, il 30% in meno rispetto al budget, nonostante sconti ed esenzioni distribuiti a pioggia agli automobilisti poco inclini a pagare il pedaggio.
Lo Stato ha già stanziato per l’opera 1,245 miliardi con contributi a fondo perduto ed è previsto un ulteriore sconto fiscale di quasi 400 milioni. Nonostante in teoria i 4,2 miliardi previsti per il completamento dell’autostrada (schizzati a 5,87 se si comprendono gli oneri finanziari) dovrebbero essere in gran parte messi a disposizione da privati, finora la parte del leone l’hanno avuta i contribuenti, avendo lo Stato versato ben 900 milioni. Né sorte migliore sembra arridere alla Brebemi, che collega Milano a Brescia ed è in cronica perdita di esercizio. Minacciando sfracelli, i soci privati della società concessionaria sono riusciti ad ottenere nel 2015 ben 320 milioni da Stato e Regioni e l’allungamento della concessione per sei anni con la garanzia che alla fine lo Stato rileverà la tratta per 1,25 miliardi.
Questi investimenti hanno creato o distrutto valore? Uno studio del 2014 di tre economisti, Maffii, Parolin e Ponti, esaminando una lista di progetti costosi ed inefficienti, ha concluso che le “grandi opere”, presentate dai governi come fiore all’occhiello dell’investimento pubblico, sono caratterizzate da alcuni elementi poco lusinghieri. Primo: sistematica assenza di valutazioni negative nelle analisi costi-benefici rese note al pubblico; secondo, scarsità di tali analisi; terzo, assoluta mancanza di terzietà delle stesse, che perdono così di credibilità in quanto eseguite da «portatori di interessi favorevoli della fattibilità dell’opera analizzata»; quarto, assenza di analisi comparative. Le conseguenze sono ovvie: scorretta definizione del progetto da attuare e delle soluzioni proposte, carenza di alternative, previsioni di domanda sovrastimate.
Un bell’esempio di come una semplice analisi comparativa potrebbe fare miracoli è fornito dalla linea Alta Velocità Milano-Venezia. Nel 2005 il costo stimato per l’opera era di 8,6 miliardi. Nel 2014 era schizzato a 13,368 miliardi, quasi 5 in più! Notevoli i 1202 milioni per il collegamento con l’aeroporto di Montichiari vicino Brescia: zero voli passeggeri e solo un paio al giorno per la posta (vogliamo dimenticarci gli inutili, deserti aeroporti in perdita di cui è disseminata l’Italia, da Siena a Pescara?). Le tratte padane orientali hanno un costo superiore a quelle occidentali, Torino-Milano e a quelle appenniniche Firenze-Bologna. Se poi facciamo la comparazione di costo per chilometro con Francia e Spagna, i binari italiani vengono pagati multipli rispetto a quelli franco-iberici.
Esempi eclatanti che vanno inquadrati in un contesto più ampio? Meglio di no. Sia lo studio del Fondo Monetario Internazionale del 2015 che quello della Banca Mondiale del 2014 mettono in luce la scarsa efficienza dei nostri investimenti pubblici a causa di aggiramento delle leggi, decisioni prese per motivi elettorali, corruzione, ritardi, innalzamento dei costi e bassa qualità di quanto realizzato. Solito pregiudizio anti- italiano? Chissà.
Certo è che nell’Allegato sulle infrastrutture al recente Def 2106, annunciando nuovi criteri di valutazione e velocizzazione delle opere pubbliche, il governo ha sottolineato carenza nella progettazione che porta a realizzazioni di bassa qualità; polverizzazione delle risorse; incertezza dei finanziamenti, addebitabile, tra l’altro, alla necessità di reperire risorse a causa dell’aumento dei costi delle opere ed ai contenziosi in fase di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori; rapporti conflittuali con i territori dovuti anche all’incertezza sull’utilità delle opere.
Insomma, quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, quando si impugna il badile, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privatamente allocati tra politici, burocrati ed appaltatori.
Sapendo di godere dell'appoggio delle pubbliche istituzioni, gli armatori alzano le pretese. Ora vogliono venga abolito il limite delle 96 mila tonnellate per le grandi navi in laguna. Se non saranno accontentati, "minacciano" di andarsene. La Nuova Venezia, 29 aprile 2016 (p.s.)
Venezia. Traffico crocieristico in calo a Venezia negli ultimi due anni e anche in quello in corso, e una richiesta precisa che arriva dal presidente - in scadenza - della Venezia Terminal Passeggeri Sandro Trevisanato: quella che per la fase transitoria, in attesa del nuovo tracciato per le Grandi Navi (un’attesa che potrebbe durare diversi anni) il Governo, con nuovo decreto, abolisca il limite delle 96 mila tonnellate, ora vigente, per consentire l’ingresso in laguna delle navi da crociera.
La previsione per il 2016 annunciata da ieri da Vtp, è quella di un milione 550 mila passeggeri. Nel 2015, i passeggeri erano stati 1.582.483, contro il milione e 733 mila del 2014 e il milione e 815 mila passeggeri del 2013. Un calo - secondo Trevisanato e l’amministratore delegato di Vtp Roberto Perocchio - dovuto appunto al limite di tonnellaggio, accettato dalle compagnie per entrare in laguna, che allontana quelle più grandi e più nuove e rischia appunto di ridimensionare lo scalo veneziano.
Trevisanato, giunto al termine del suo mandato (prorogato solo in attesa del riassetto di Vtp), invoca due misure da parte del governo, da prendere entro il 2016, per evitare che le compagnie si spostino verso altri home port, «che saranno soprattutto stranieri, perché Trieste non ha lo stesso appeal di Venezia»: l'individuazione rapida della via alternativa al passaggio in Bacino San Marco, che è la soluzione Tresse Nuovo - sostenuta dal sindaco Luigi Brugnaro e dal presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa - e la fissazione di limiti non quantitativi, ma qualitativi.
«Rispettando regole di costruzione riguardanti la chiglia - spiega - garantendo manovrabilità per la sicurezza e utilizzando carburanti e apparecchi per abbattere le emissioni supereremmo la completamente la crisi e Venezia potrebbe riesplodere, potendo puntare ai due milioni e mezzo di passeggeri. In caso contrario, riteniamo che di più non si possa fare e Venezia sarebbe destinata ad un declino progressivo». Di qui la richiesta al Governo - dopo il Clini-Passera che fissava appunto il limite di ingresso delle Grandi Navi a 96 mila tonnellate - di un nuovo decreto “qualitativo” «che superi l’illogicità del limite già annullato dal Tar del Veneto».
E a sostegno Trevisanato cita le recenti dichiarazioni alla Fincantieri del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e il sostegno del nuovo sottosegretario ai Beni Culturali Dorina Bianchi. «Sappiamo quanto è importante il settore crocieristico per l'Adriatico», aveva detto tra l’altro Delrio, «però i documenti relativi ai tragitti alternativi al bacino di San Marco devono essere analizzati accuratamente. Stiamo definendo una data per riconvocare il Comitatone e decidere come gestire, nel frattempo, l'accesso a Venezia di navi da crociera che gli armatori vogliono sempre più grandi».
Il consumo di suolo – 8 mq al secondo in Italia – costituisce una delle maggiori componenti del degrado ambientale e della crisi climatica che segnano il nostro quotidiano, ed esaspera spesso le tragedie sociali, esistenziali e civili che connotano l’attualità.
Nel volume Che cosa c’è sotto? Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (AltrEconomia, 2015, pp.160) Paolo Pileri, urbanista del Politecnico di Milano, ne fornisce una lettura sistemica; utile a interpretare le relazioni tra gli errori che caratterizzano le politiche, e i crescenti disagi che segnano le condizioni del vivere. Che diventano catastrofi epocali nelle aree «dei Sud», in cui le varie forme di rendita, dapprima economica quindi finanziaria, hanno preteso di estrarre gran parte del valore dei vari territori, accaparrandosene le migliori risorse. Spesso al prezzo della distruzione di fattori essenziali dell’assetto sociale, ambientale e di vita dei contesti investiti.
La perdita di suolo – e di quello che c’è sotto – costituisce quindi un «disastro di fase» nella attuale epoca di finanziarizzazione globalizzata. La perdita di suolo – quasi sempre per urbanizzazione/cementificazione – colpisce la varietà multidimensionale della «ricchezza» racchiusa nel patrimonio territoriale, ben oltre i problemi strutturali e funzionali di organizzazione dello spazio.
Pileri spiega bene che distruggere quello strato di crosta terrestre che sta sotto i nostri piedi, «fino a una profondità variabile tra i 70 e i 200 centimetri», ci priva di funzioni e beni bioecologici, economici, agricoli, nutrizionali, decisivi per la nostra vita.
L’urbanista infatti – prima di soffermarsi sull’elaborazione concernente il problema del consumo di suolo – spiega la funzione portante di quest’ultimo rispetto all’intero assetto territoriale, e si sofferma sulla «ricca complessità» ecologica contenuta nel suolo-bene comune. Ques’ultimo ha infatti «impiegato decine di milioni di anni per presentarsi a noi nello stato in cui oggi lo conosciamo. Tra le tante cose che ha messo a punto, la più geniale riguarda forse il modo di relazionarsi con il carbonio.
Proviamo allora a capire chi porta il carbonio nel suolo: i protagonisti sono tanti, ad esempio una semplice foglia che cade silenziosa da un albero, gli aghi di un abete che piovono ogni 5 anni, una graminacea (ovvero un filo d’erba) che appassisce stendendosi sulla terra: un calabrone che vi finisce i suoi giorni, come pure un cervo un uccello; e poi lo sterco di mucca, cinghiale, lepre, passerotto, orso, topo, lucertola, lumaca e vipera, sono fonte preziosa di carbonio. Quasi nulla in natura muore quando cade a terra, e quasi tutto ritorna cibo. Quel che era rifiuto, nel suolo diviene energia vitale e vera e propria vita, di nuovo».
La perdita della componente organismica comporta effetti micro e macro, dovuti alla cancellazione degli appartai paesistici cui consegue spesso il dissesto idrogeologico. Che dunque – sottolinea Paolo Pileri – è dovuto «a bombe di cemento, altro che bombe d’acqua». Paradossalmente il cemento, icona della «sicurezza moderna del costruito novecentesco» è diventato il primo fattore di indebolimento del territorio di fronte alle ricadute dei cambiamenti climatici.
Non meno gravi sono le conseguenze in termini agroalimentari. L’autore ricorda come «tra il 1990 ed il 2006, i diciannove paesi membri UE hanno cementificato terreni agricoli contraendo la loro produzione interna annua per un equivalente di oltre 6,1 milioni di tonnellate di cemento, pari all’1% della produttività annua europea». Un dato che sembra poco rilevante ma che ha comportato la conversione forzata a produzione agricola, destinata al consumo europeo, di milioni di ettari naturali e seminaturali in paesi africani e sudamericani.
Paolo Pileri sostiene quindi la necessità di una svolta drastica nelle politiche ambientali, che innovi i modi che hanno portato alla situazione attuale di ipercementificazione, in Italia e non solo. Affrontare i nodi critici di politiche e strategie programmatiche, dall’abbattimento della rendita urbana e finanziaria, alla formulazione corretta degli strumenti di politica urbanistica, al riconoscimento di suolo e territorio quali beni comuni, significa concentrarsi su ciò che è importante. Bisogna infatti sancire la fine dell’epoca della crescita urbana e l’avvento della cosiddetta «urbanistica del recupero»: una svolta che necessita forse di qualcosa di simile a quella che Salvatore Settis ha chiamato «azione popolare».
«Ambiente. Alla Cop21 riconosciuta solo ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani». Il manifesto, 27 aprile 2016
Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21 del dicembre scorso.
Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe – attraverso una visione «decolonizzata» non certo «catastrofista» – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita.
Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage), «escamotage» per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra.
Un’incompatibilità che caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.
Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa «pressione all’esborso» è stata foriera di grandi disastri e di un altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di carbonio.
Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo – progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la produzione di gas e petrolio di scisto.
È questo il lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.
«“Preghiera per Chernobyl”, il libro del premio Nobel Svetlana Aleksievich, Keith Gessen ricorda l'esplosione del reattore e l'incendio nucleare scoppiato il 26 aprile 1986 alla centrale di Chernobyl, Ucraina (allora Unione Sovietica)». Il Sole 24 ore, 25 aprile 2016 (c.m.c.)
Uno dei ricordi di Chernobyl che rimane più impresso nella mente sono le izbe della “exclusion zone”, casette senza più abitanti su cui si avventano gli alberi, come serpenti, per soffocarle. Immagine simbolo di un luogo “liberato” dalla presenza umana, su cui la natura ha il sopravvento. Una riserva unica al mondo, macchiata però dal mostro invisibile delle radiazioni, che ancora contaminano queste terre perpetuandosi attraverso le bacche, i fumi, la polvere, la pioggia, per migliaia di chilometri quadrati tra Bielorussia, Ucraina, Russia.
Nell'introduzione a “Preghiera per Chernobyl”, il libro del premio Nobel Svetlana Aleksievich, Keith Gessen ricorda come l'esplosione del reattore e l'incendio nucleare scoppiato il 26 aprile 1986 alla centrale di Chernobyl, Ucraina (allora Unione Sovietica), provocarono più superstiti che vittime. Nelle settimane successive furono 31 i lavoratori della centrale e i pompieri uccisi dalle radiazioni. Ma sono decine di migliaia le persone che si ammalarono in seguito, un coro disperato e senza numero perché non c'è un modo per stabilire con certezza, negli anni, la responsabilità di morti e malattie legate a Chernobyl. I liquidatori, i “chernobyltsy”, mandati allo sbaraglio quella notte. Oppure i bambini nati tanti anni dopo, in terre ancora condannate dal cesio.
E come spesso avviene, in occasione di un anniversario si risveglia l'attenzione su un tema dimenticato. Il mondo torna a posare gli occhi su Chernobyl e per qualche giorno si chiede: 30 anni dopo, che succede là dove è avvenuto uno dei più gravi disastri nucleari della storia? Ha un senso per Chernobyl usare la parola “guarire”? O quale prezzo pagano ancora le foreste, gli animali? E gli uomini?
C'è di nuovo vita intorno a Chernobyl, malgrado chiamino “zona della morte” l'area proibita all'uomo, per un raggio di 30 km dalla centrale. Gli scienziati mettono le mani avanti: non esistono ancora studi affidabili che valutino con precisione l'impatto di quella nube radioattiva e i rischi per la salute, ora e negli anni a venire. Nella “exclusion zone” però il ritorno di diverse specie animali, anche protette, potrebbe far pensare che per loro l'impatto dell'assenza dell'uomo sia superiore a quello negativo della radioattività. Lupi, volpi, cinghiali, cavalli selvatici, linci, cervi: “La distribuzione degli animali non è influenzata dai livelli della radioattività”, hanno concluso i ricercatori americani della Georgia University. Anche se intorno alla centrale esplosa, oppure tra le strade spettrali di Pripyat - la città dei dipendenti evacuata solo a diverse ore dal disastro - i tassi di radioattività variano tantissimo. Aumentano precipitosamente scavando nel terreno: la ragione per cui a Pripyat nessuno potrà mai più tornare.
Ma più lontano, qua e là nei villaggi, qualcuno pian piano è tornato: anziani su cui le autorità ucraine chiudono un occhio, 300 persone troppo povere per vivere altrove, o troppo legate alla propria casa per lasciarla. Vecchi convinti che per raggiungerli la radioattività impiegherebbe più tempo di quanto resta loro da vivere. Non fanno turni nella “zona della morte”, a differenza delle circa 6.000 persone impegnate nello smantellamento della centrale.
E poi ci sono gli abitanti dei villaggi oltre la “zona di esclusione”, nelle province russe e bielorusse più vicine all'Ucraina, investite 30 anni fa dalla nube e ancora in prima linea nel pagarne le conseguenze, soprattutto ora che la crisi economica riduce gli aiuti dei rispettivi governi. Ma anche nel calcolo delle vittime dell'incidente - quelle degli anni passati e quelle che verranno - le stime variano tantissimo e sono controverse. Si parla di qualche migliaia di morti oppure - è l'opinione di Greenpeace - di 100mila. A ogni anniversario si moltiplicano i rapporti scientifici che cercano di quantificare l'impatto dell'esposizione alla polvere radioattiva analizzando l'aumento dei casi di tumori alla tiroide tra i bambini, il calo demografico e l'infertilità delle donne, le malformazioni genetiche.
Non c'è bisogno di un numero preciso per dare una dimensione infinita alla tragedia di Chernobyl. Tra le voci che gridano dalle pagine del libro di Svetlana Aleksievich c'è quella di Lyudmilla Ignatenko, moglie di Vasily. Uno dei primi mandati a spegnere l'inferno, come se fosse stato un incendio qualsiasi. “Torno presto”, le disse quella notte.
Mentre lui moriva, in ospedale a Mosca, soffocato dai suoi stessi organi sfracellati, volevano impedire a Lyudmilla di abbracciarlo: “Non è più tuo marito, non è più una persona amata, ma un oggetto radioattivo”. Ora a Chernobyl c'è un monumento che onora i “liquidatori”, un gruppo di statue grigie di pompieri con un semplice idrante in mano, attorno a una stele e a una croce. E c'è una targa: “A coloro che hanno salvato il mondo”.
«Summit Onu. A poche ore dalla cerimonia ufficiale di New York in cui 170 Stati hanno ratificato l'accordo di Parigi per la riduzione dei gas serra, l'Europa ammette che i 28 paesi dell'Unione non hanno ancora stabilito politiche condivise per abbattere le sostanze inquinanti». Il manifesto, 24 aprile 2016
L’intesa, sulla carta, rappresenta una svolta che la retorica in mondo visione ha già salutato come epocale. Abbiamo sentito dire che le firme dei 170 paesi che all’Onu si impegnano a far entrare in vigore l’accordo globale sul clima di Parigi potrebbero essere un risultato storico (obiettivo: limitare la temperatura media globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali). Sicuramente c’è del vero. Ma per passare dalle parole ai fatti bisogna fare in fretta perché il tempo è già scaduto. Di più, subito. E qui rischiano di essere problemi grossi proprio per il vecchio continente, disarticolato e litigioso con le sue 28 membra stanche (spesso in disaccordo tra loro) che saranno chiamate a ratificare l’accordo sulla base di intese comuni e politiche condivise.
Tanto che, a poche ore dalla cerimonia ufficiale della firma di New York, gli osservatori sanno bene che mentre Usa, Cina e India stanno correndo verso l’obiettivo l’anello debole della catena è proprio l’Europa, ancora ferma in attesa di definire i target nazionali di riduzione della C02 previsti per 2030. Il processo “prenderà del tempo”, ha ammesso il commissario europeo al Clima Miguel Arias Canete durante il discorso alle nazioni unite.
Perché non rimanga lettera morta, l’accordo mondiale per la riduzione di gas serra deve essere ratificato da 55 paesi che coprono almeno il 55% delle emissioni globali. E non è improbabile che questo possa avvenire anche senza il contributo dei 28 paesi europei, un fatto clamoroso che potrebbe escludere l’Europa dalle prime decisioni fondamentali per abbattere gli inquinanti e invertire la rotta delle politiche energetiche. “Dopo Parigi tutto il mondo si sta muovendo tranne l’Ue”, ha detto Bas Eickhout, vicepresidente del gruppo dei Verdi europei.
Usa e Cina (il paese che più di tutti sta investendo sulle energie pulite) hanno dichiarato di voler ratificare l’accordo entro la fine di quest’anno, forse già a settembre quando si terrà l’assemblea generale dell’Onu. Se così fosse, è la matematica a dire che l’Europa potrebbe diventare irrilevante anche sul piano della lotta al riscaldamento globale. “Questi due paesi – ha precisato Eickhout – insieme contano circa il 40% delle emissioni, che con l’India diventano il 45%. Se si dovesse aggiungere anche il Giappone, dietro pressione degli Usa, l’entrata in vigore nel 2016 o 2017 diventa probabile senza l’Unione europea”. Eppure Giovanni La Via (Ppe), presidente della Commissione ambiente dell’Europarlamento, non sembra molto preoccupato: “Siamo 28 paesi, è normale che il processo di ratifica sia più complesso, non è una gara e quello che conta è l’obiettivo”.
L’opinione comune, al di là dei riflessi appannati dell’Europa, è che l’accordo di Parigi dovrà ancora superare molti ostacoli prima di diventare operativo, e non solo in Europa (l’organizzazione mondiale marittima e quella dell’aviazione civile, per esempio, non hanno ancora stabilito misure per abbattere le emissioni). E che ormai il tempo è scaduto. Il “rapidamente” non basta più, spiega il Wwf in una nota, perché oltre al trattato di Parigi “anche le temperature planetarie e gli impatti climatici stanno già scrivendo un pezzo di storia del pianeta”. E questa è cronaca: è appena trascorso anche il marzo più caldo di sempre (dopo undici di mesi di record analoghi), l’Africa orientale e meridionale è colpita da una delle peggiori siccità di sempre, la quasi totalità della barriera corallina ormai è sbiancata per le acque calde e in Groenlandia ci sono temperature record attorno ai 20 gradi sopra la media. Ce n’è di che per convocare un bel vertice europeo?
«Quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune». La Repubblica, 24 aprile 2016
Le immagini di ciò che sta accadendo a Genova mi portano ad una riflessione: che cosa ci sembra pericoloso, oggi? Ho la sensazione che non sia chiaro cosa davvero mette a rischio la nostra esistenza. Ci spaventano i pericoli diretti, quelli che possono uccidere in poco tempo una persona (e solo se si tratta di qualcuno che conosciamo), mentre ci fanno meno paura i pericoli a lunga scadenza, quelli, per intenderci, che non mettono a rischio immediato la vita di prossimità (la nostra o quella dei nostri cari) ma “solo” la vita di qualcuno che è lontano, in termini di spazio e di tempo (le future generazioni) o in termini biologici (i viventi non umani, dai microrganismi ai grandi mammiferi).
Il Fatto Quotidiano online, 24 aprile 2016 (p.d.)
Chernobyl, il più grave disastro nucleare della storia, è soprattutto una strage di bambini. Di chi era bambino ai tempi e di chi lo è ora perché l’esposizione a sostanze atomiche è come una maledizione: si passa di padre in figlio e trent’anni dopo quel 26 aprile 1986 l’Ucraina sta ancora facendo i conti con quella terribile eredità.
La fuoriuscita di vapore contaminato cessò il successivo 10 maggio, ma il reattore numero 4 della centrale fu definitivamente tombato nel “sarcofago” solo tre anni dopo grazie al lavoro di un esercito di 600mila uomini che si sottoposero a dosi di radiazioni altissime. La storia li ricorderà come “i liquidatori”.
Nonostante il loro sacrificio, gli isotopi della morte sono riusciti ad avvelenare un territorio di 150mila chilometri quadrati fra Ucraina, Russia e Bielorussia su cui vivevano più di 17 milioni di abitanti. All’epoca tra loro 2 milioni e mezzo avevano meno di sette anni.
Nel 1991 il governo di Kiev riconobbe come “vittime del disastro di Chernobyl”, bisognose di protezione sociale e medica, tre milioni e 400mila persone. Un milione e duecentomila erano bambini. I bambini di Chernobyl, come vengono ricordati in Italia, il paese che creò la più grande rete di accoglienza al mondo per i piccoli residenti delle zone colpite dal disastro.
Trent’anni dopo una serie di analisi dimostrano che la situazione è ben più grave rispetto a quella fotografata nel 1991. Come spiegano diversi studi, fra cui “Health effects of the Chornobyl accident. A quarter of century aftermath” (2006) e il più recente rapporto di Greenpeace “Nuclear scars: the lasting legacies of Chernobyl and Fukushima” (2011), nel ventennio compreso fra i 1991 e il 2010 la popolazione ucraina è diminuita di 6 milioni e 500mila unità. Il motivo? L’incremento delle morti infantili, soprattutto entro il primo anno di vita. Di pari passo nel Paese è diminuita anche l’aspettativa di vita: da 71 a 67 anni.
Nonostante gli sforzi di Kiev e della comunità internazionale a favore dei più piccoli, la diminuzione delle persone colpite dalle radiazioni completamente sane fa paura: se nel 1986 erano il 27 per cento, oggi si è passati al sette. Di pari passo è aumentata la percentuale di bimbi colpiti da malattie croniche: dall’8,4 del periodo prima dell’incidente a quasi l’80 per cento.
Preoccupante anche lo stato dei discendenti dei bambini di Chernobyl, di chi era piccolo allora che in questi anni è diventato a sua volta genitore. Gli studi dimostrano che l’instabilità genomica aumenta preoccupantemente la probabilità di contrarre un tumore, malattie genetiche e malformazioni. I problemi però non riguardano solo chi viveva vicino all’impianto (sito a 100 chilometri dalla popolosa capitale). Basti pensare che uno studio commissionato a Rivne, 340 chilometri a ovest della centrale ha dimostrato la maggior incidenza in Europa di malformazioni del tubo neurale degli embrioni, il luogo dove durante la gravidanza si svilupperà il cervello.
A Kiev l’Istituto ucraino di Radiologia nucleare e l’Organizzazione mondiale della Sanità hanno organizzato un convegno sull’impatto delle radiazioni sulla salute umana dopo trent’anni dove scienziati da tutto il globo hanno presentato le loro ricerche. L’unica realtà italiana presente era Soleterre, l’organizzazione non governativa impegnata nell’oncologia pediatrica in molte zone del mondo con cui il Fatto Quotidiano due anni fa visitò i nosocomi del paese est-europeo. «Molti donatori internazionali hanno sottolineato che le condizioni ambientali rendono molto difficile la cura dei tumori», spiega il presidente Damiano Rizzi che al convegno ha presentato uno studio sull’impatto psicosociale dei tumori e sull’accoglienza dei bambini oncomalati. Dal 25 aprile al 14 maggio l’ong promuove la campagna “Grande contro il cancro” per raccogliere fondi da destinare alle cure dei bimbi ucraini e di altri paesi del Sud del mondo come Costa d’Avorio, India e Uganda.
«Il problema atavico del Paese è lo scarso accesso ai farmaci antitumorali», spiega Rizzi che da 12 anni è presente nel Paese. Dal 2014, con lo scoppio delle ostilità nel Donbass, la situazione è precipitata ulteriormente. «Le autorità sanitarie non sono riuscite ancora ad acquistare antidolorifici, analgesici e chemioterapici per il 2016 e siamo già a metà aprile», denuncia Soleterre. Il risultato è che le famiglie ricche riescono a procurarsi le cure per i piccoli al mercato nero (e spesso sono le stesse farmacie degli ospedali a venderle sottobanco), per i più poveri invece il destino è segnato. Se in Europa le percentuali di guarigione sono il 75-80 per cento dei casi, in Ucraina si scende al 55,5.
«Per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili». Il manifesto, 24aprile 2016 (c.m.c.)
I torrenti della città di Genova sono nuovamente al centro dell’attenzione nazionale. Questa volta non sono il dissesto idrogeologico e l’ennesima alluvione a ferire la città ma il petrolio che si è riversato nel piccolo rio Penego, sotto il quale passa l’intricata rete dell’oleodotto di collegamento tra il Porto petroli della città, lo stabilimento di stoccaggio e trasferimento di oli minerali di Fegino e la raffineria Iplom di Busalla, comune alle spalle di Genova.
Un intero ecosistema completamente distrutto perché l’ondata di petrolio che ha attraversato quelle acque ha già raso al suolo la biodiversità presente. «Quanto mi secca avere sempre ragione» esclamava ad un certo punto uno dei protagonisti del primo Jurassic Park inseguito da un tirannosauro. Ecco, quanto ci secca aver avuto ragione quando, nel corso dell’ultima campagna referendaria, denunciavamo i rischi legati alle attività petrolifere. Quanto ci secca che nel nostro Paese non si riesca ad uscire rapidamente dall’era dei fossili poiché la classe politica e quella industriale pensano con arroganza di controllare la situazione e di poter navigare a vista tra proclami e leggi ad aziendam.
Ma cosa c’entra, qualcuno chiede, quanto sta accadendo a Genova con il referendum dello scorso 17 aprile sulle trivelle? La domanda è di per sé disarmante: è una provocazione oppure davvero a qualcuno non è chiaro neanche ora quanto la filiera petrolifera sia rischiosa, inquinante, opaca e soprattutto potenzialmente distruttiva delle attività connesse a pesca, turismo e agricoltura? È quanto in queste settimane abbiamo cercato di spiegare agli italiani confusi da una martellante campagna di disinformazione che puntava sulla difesa dei posti di lavoro (centinaia) legati alle estrazioni petrolifere. Gli Ottimisti e Razionali (il comitato che invitava a votare no o ad astenersi) sin dal loro nome irridevano le preoccupazioni legate all’inquinamento e all’impatto delle estrazioni petrolifere. Ora tacciono.
Estrazioni, trasporto, raffinazione sono tutte attività rischiose e che a questo punto della storia comportano più costi che benefici. Costi per la comunità, benefici per poche compagnie petrolifere che a fronte di royalties irrisorie, scarsi controlli, concessioni illimitate (alle quali si intendeva mettere un termine temporale votando sì) e sgravi fiscali trovano davvero nel nostro Paese l’Eldorado. Ma il prezzo, come stiamo vedendo a Genova e come vedremo nelle prossime settimane, con la stagione turistica alle porte, è altissimo.
C’è poi da aggiungere che gli intensi traffici marittimi legati alla filiera petrolifera rendono il Mediterraneo, un mare chiuso e delicatissimo, una delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento da idrocarburi. Nelle acque del Mediterraneo transita, infatti, il 18% di tutto il traffico mondiale di prodotti petroliferi: circa 360 milioni di tonnellate all’anno. Secondo uno studio del 2008 dello Iucn sugli effetti del traffico marittimo sul Mediterraneo, nel solo 2006 sono stati conteggiati oltre 9000 viaggi di petroliere attraverso il bacino, per una movimentazione complessiva di più di 400 milioni di tonnellate di idrocarburi.
Sembra incredibile ma nelle stesse ore in cui il nostro Premier davanti alle Nazioni Unite sottoscriveva gli accordi sul clima dichiarando la volontà di puntare sulle rinnovabili, il nostro mare davanti a Genova si tingeva di nero. Sì perché per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili. Non bastano slogan, servono decreti che bilancino rapidamente l’attacco subito dall’energia pulita nel nostro paese negli ultimi due anni.
Cambiano le priorità a Rivalta di Torino: si tagliano le previsioni di espansione e si punta sulla tutela del paesaggio e delle attività agroalimentari, sulla mobilità dolce e sul recupero del centro storico e degli edifici inutilizzati. Reticula, n.8 2016 (m.b.)
Si è proceduto ad un confronto con i principali operatori del territorio proponendo una riduzione della capacità edificatoria prevista, in cambio di una maggiore flessibilità delle destinazioni di uso. Nel novembre 2013 l’Amministrazione ha lanciato un bando pubblico per raccogliere richieste di rinuncia alle destinazioni residenziali previste dal Piano di proprietari di aree agricole. La proposta, inusuale nel panorama economico e culturale italiano, caratterizzato dalla convinzione che la migliore valorizzazione dei suoli sia quella che comporta l’edificazione, ha raccolto l’adesione di una decina di proprietà per un totale di più di 30.000 mq. di superficie fondiaria. Tale risposta è dovuta all’inasprirsi della tassazione sulle aree fabbricabili e alla crisi del settore edilizio, ma ha risentito anche, almeno in parte, di una svolta culturale che vede nell’eredità di un terreno verde qualcosa di più importante di una costruzione.
Riferimenti
In eddyburg sono disponibili più di 170 articoli sul consumo di suolo, in parte raccolti nel nuovo sito, e in parte nel vecchio sito.
Per orientarsi, è utile partire da questa visita guidata.
pagheranno chi ha inquinato e chi non ha controllato?. Ilfatto quotidiano.it, 21 aprile 2016 (m.p.r.)
L’ammissione, clamorosa, arriva direttamente dal direttore generale della sanità veneta Domenico Mantoan: «Io sono tra i super esposti - dichiara il dirigente regionale parlando dell’emergenza Pfas, le sostanze cancerogene nelle acque delVeneto - perché ho bevuto per trent’anni l’acqua di casa mia a Brendola, nel vicentino. Ora ho fino a 250 nanogrammi per grammo di Pfas nel sangue». La Regione Veneto cambia passo sull’emergenza sanitaria e ambientale per le sostanze perfluoroalchiliche, di cui fino a poco fa discuteva riservatamente nelle riunioni tecniche definendola “fuori controllo”, e decide di uscire allo scoperto rendendo nota tutta la gravità del problema, insieme agli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Oms. «Più di 60mila persone residenti nelle zone a maggior impatto sono contaminate – spiega l’assessore regionale alla Sanità,Lucio Coletto – Altre 250 mila sono interessate dal problema».
Insieme a Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore di Sanità, a Marco Marcuzzi dell’Oms e al dirigente della sanità veneta Mantoan, l’assessore Coletto ha presentato i primi risultati del biomonitoraggio che la Regione ha realizzato con l’Iss sulla popolazione esposta ai Pfas, “possibili cancerogeni” per lo Iarc. Il risultato è che nel sangue dei veneti - e dei vicentini in particolare - scorrono quantità rilevanti di Pfas, un gruppo di composti prodotti per decenni dalla fabbrica chimica Miteni di Trìssino, nel vicentino, usati per l’impermeabilizzazione di pentole e tessuti, che hanno contaminato le falde acquifere delle province di Vicenza, Verona e Padova. La zona più colpita, dove si trovano i cittadini “esposti” (14 ng/g) e “super esposti” (70 ng/g), è quella compresa tra i comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo,Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, in provincia diVicenza. Mentre la zona di controllo, a impatto minore, interessa i comuni di Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva,Loreggia, Resana e Treviso. Nell’agosto del 2013 è stata effettuata la messa in sicurezza degli acquedotti, tramite l’applicazione di filtri a carboni attivi che costano 2 milioni di euro all’anno. Ma fino ad allora l’acqua ha intossicato la popolazione.
Un’emergenza rimasta a lungo sotto traccia, tanto che le indagini sull’origine della contaminazione, iniziate nel 2013 in seguito a un esposto dell’Arpa, sono rimaste ferme per tre anni inProcura a Vicenza. Secondo gli inquirenti, per contestare il reato di avvelenamento delle acque sarebbero stati necessari i risultati di uno studio epidemiologico. Ora la Regione, sotto il coordinamento dell’Iss, fa sapere di volerne avviare uno “della durata di 10 anni” partendo dalle 60mila persone più esposte della provincia di Vicenza. Le analisi, promette l’assessore Coletto, saranno effettuate a carico della sanità regionale e verranno estese a tutti i 250mila cittadini dei comuni del Veronese e del Padovano coinvolti. Chi risulterà positivo agli esami verrà seguito con un protocollo di follow-up semestrale a partire da gennaio 2017.
I composti Pfas, ha spiegato la dottoressa Musmeci dell’Iss, sono “idrosolubili e vengono assorbiti rapidamente per via orale. Una volta nell’organismo, si legano alle proteine del plasma e del fegato, e vengono eliminate dai reni solo molto lentamente”. Secondo gli studi epidemiologici, effettuati sulla popolazione della Mid-Ohio Valley, negli Usa, e su quella tedesca, i Pfas possono causare «colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide e, nei soggetti iper esposti, tumore del testicolo e del rene». Lo studio avviato in Veneto potrà essere determinante per modificare la classificazione di cancerogenicità dei Pfas fatta dello Iarc, che per ora si basa su una letteratura limitata. Mentre l’Unione Europea sta elaborando, sulla base del caso veneto, una direttiva che imponga minuziosi controlli sui Pfas nell’acqua.
«Intervista. Il presidente del Consiglio, nella sede dell'Onu per ratificare gli impegni presi alla Cop21 di Parigi, con il solito discorso ispirato e visionario dipinge l'Italia come un paese all'avanguardia negli investimenti per le energie rinnovabili. Per Loredana De Petris si tratta della solita propaganda: "Il suo governo sta andando nella direzione opposta"». Il manifesto, 23 aprile 2016 (p.d.)
«La metà della spazzatura finisce in discarica o all'inceneritore, investimenti per bruciare oggetti realizzati con plastiche non "rinnovabili", mancati incentivi. Così accade che alcuni riciclatori siano costretti a importare imballaggi in Pet da Francia e Spagna». Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2016 (p.d.)
Investimenti per bruciare
Numeri che, di fronte alla costruzione degli 8 inceneritori previsti dallo Sblocca Italia (inizialmente erano addirittura 12), potrebbero aumentare ancora. Secondo Francesco Bertolini, esperto di politiche ambientali dell’università Bocconi, infatti, “nel momento in cui si decide di investire in un inceneritore che costa milioni di euro e ha bisogno di grosse quantità di rifiuti per funzionare e ripagare così l’investimento, c’è un allentamento più o meno consapevole nelle politiche a favore del riciclo. Se è vero che nella regola europea delle 4R – riduzione, riuso, riciclo e recupero – la termovalorizzazione è appunto all’ultimo posto, è ovvio che se si investono qui molte risorse, poi ce ne saranno meno per misure a favore del riciclo”.
Materiali difficili da riciclare
Differenziare il Cac
Se ci guadagnano tutti
E c’è chi come Coripet, un consorzio volontario che raccoglie aziende di acque minerali e riciclatori, grazie anche agli incentivi ai consumatori è riuscito a creare un ciclo chiuso, con vantaggi per tutti. Spiega il presidente Giancarlo Longhi: “I supermercati fidelizzano, i clienti hanno uno sconto sulla spesa, i riciclatori possono contare su materiale che rispetta i requisiti Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare, ndr) per produrre scaglie idonee al contatto diretto con gli alimenti e le aziende di acque minerali chiudono il cerchio impiegando le scaglie per produrre le loro bottiglie”.