«Nell’Allegato infrastrutture del Def si parla di politica dei trasporti sostenibile. Ma c’è il rischio che cancellata la legge Obiettivo restino in corsa le grandi opere, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006». Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2016 (p.d.)
Il documento contiene in Appendice anche la “lista delle 25 opere prioritarie” – già in corso di realizzazione, approvate o in progetto secondo le procedure della Legge Obiettivo già indicate nel DEF 2015 dal Ministero – che vanno avanti come se niente fosse, mentre dovrebbero essere verificate e riviste secondo i criteri di utilità pubblica e analisi costi/benefici indicati dallo stesso documento. C’è quindi una vistosa contraddizione tra i buoni principi e la realtà delle grandi opere in corso.
Il documento è coerente con i contenuti del nuovo Codice Appalti entrato in funzione il 19 aprile 2016, che cancella le semplificazioni della Legge Obiettivo 443 del 2001 del Governo Berlusconi. Le nuove regole cancellano il Piano delle Infrastrutture Strategiche (PIS), l’esclusione dei Comuni dalle decisioni, la VIA sul progetto preliminare. Si torna ad un unico regime ordinario di regole per realizzare le opere, il procedimento sarà in mano al Ministero dei Trasporti e le Infrastrutture, ritorna la VIA sul progetto definitivo, ma resta l’approvazione dei finanziamenti e dei relativi progetti rilevanti al Cipe. L’ultima versione del Codice Appalti pubblicata in Gazzetta ha indebolito il MIT e rafforzato il Cipe, come voleva peraltro la Presidenza del Consiglio.
Il ritorno alla pianificazione dei trasporti e della logisticaLa programmazione delle infrastrutture viene demandata a due strumenti fondamentali: il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica che deve indicare le politiche, gli obiettivi e gli strumenti, che motivano la scelta delle opere, da aggiornare ogni tre anni.
Il secondo strumento è il Documento Pluriennale di programmazione (DPP) che deve integrare tutti i programmi esistenti nelle opere pubbliche – RFI, ANAS, Porti, Aeroporti, reti urbane, Concessionarie Autostradali – con coerenza secondo i principi del DglS 228 del 2011 e mai applicato. Adesso ogni piano settoriale viene approvato ed attuato in modo separato, senza attenzione ai nodi ed alla integrazione dei progetti e dei servizi. Il primo DPP dovrà essere predisposto entro un anno.
A questo strumenti si aggiunge la project review, per rivedere le opere non ancora avviate ma già decise con le procedure della legge obiettivo.
L’Allegato, con le analisi sulla mobilità e le infrastrutture sono già “la premessa ad un nuovo Piano Generale dei Trasporti e della Logistica” con un quadro organico degli obiettivi, delle strategie, delle azioni intraprese e da intraprendere.
Il contesto di riferimento si inquadra nelle politiche europee delle reti TEN, analizza lo stato dei poli e delle reti urbane e metropolitane sottolineando i problemi di accessibilità nelle città, valuta lo stato dei nodi come porti, interporti ed aeroporti, effettua una disamina delle stato delle reti come strade, autostrade e ferrovie.
Di questo contesto italiano analizza i punti di forza e di punti di debolezza, tra cui le scarse risorse investite per la manutenzione, la ripartizione disomogenea di infrastrutture e servizi sul territorio nazionale, lo squilibro modale a favore della modalità stradale.
Nel secondo capitolo vengono indicati quattro obiettivi prioritari della strategia per le infrastrutture e di trasporti:
Per l’accessibilità viene indicato un obiettivo, un target: il 30% della popolazione dovrà essere servita dall’Alta velocità entro il 2030, ed un massimo di due ore per accedere a porti ed aeroporti.
Molto significativo ed opportuno per le aree urbane e metropolitane il target di mobilità sostenibile entro il 2030: la ripartizione modale della mobilità urbana dovrà raggiungere il 40% di trasporto pubblico, il 10% di mobilità ciclopedonale e si dovrà incrementare con un + 20% i km di tram/metro per abitante.
Obiettivi davvero sfidanti e necessari per garantire accessibilità, vivibilità nelle città, riduzione dei gas serra e delle emissioni inquinanti, che qualificano in senso innovativo la strategia del Ministro Delrio sulla mobilità urbana.
Le linee d’azione puntano all’integrazione modale, alla cura del ferro, allo sviluppo urbano sostenibile, alla crescita della portualità e della logistica, al riequilibro modale, favorire l’uso degli ITS, ad incrementare la manutenzione delle reti e la valorizzazione del patrimonio esistente, il potenziamento tecnologico delle infrastrutture.
Un’osservazione critica: tra gli strumenti non viene mai richiamata la VAS, la Valutazione Ambientale Strategica che dovrà accompagnare tutti i processi di elaborazione, partecipazione e valutazione dei Piani e Programmi, ormai obbligatoria. Non era un richiamo inutile in un documento che si pone obiettivi di sostenibilità e che dovrà fare i conti anche con la riduzione delle emissioni dei gas serra – i trasporti pesano per il 26% delle emissioni totali – con gli impegni sottoscritti dal governo italiano.
Positivo che si torna a ragionare di pianificazione, di programmazione, di qualità dei progetti, con una critica esplicata alle semplificazioni ed alle liste della Legge Obiettivo, da sostituire con “investimenti realmente utili al Paese” per offrire servizi di trasporto capaci di soddisfare i bisogni di mobilità ed accessibilità del paese.
Ma intanto avanzano le grandi opere della legge obiettivoInfrastrutture utili, snelle e condivise: cosi è il titolo del capitolo dedicato agli investimenti per i trasporti nell’Allegato: ottimo principio ma quando accadrà davvero?
Come detto nello stesso Allegato DEF 2016 si confermano in Appendice le 25 opere strategiche già decise con l’Allegato Infrastrutture del 2015, in parte in corso di realizzazione ed in parte in corso di progettazione, del valore di 70 miliardi di costo e di cui sono disponibili 48 miliardi, incluse le risorse private dei concessionari. Ma anche su queste opere sarebbe necessario applicare la project review, la revisione di progetto per verificarne l’utilità ed il sovradimensionamento.
Tra queste 25 opere vi sono opere utili come metropolitane, reti tramviarie e Servizi Ferroviari Metropolitani. Ma ci sono anche pezzi di alta velocità come il terzo valico Milano-Genova o nuove autostrade come la Pedemontana Lombarda, che davvero dovrebbero essere riviste dato che la loro realizzazione è al 15% ed hanno un impatto e costi davvero notevoli a fronte di una scarsa utilità collettiva.
Una analogo ragionamento riguarda l’Alta Velocità Torino-Lione, di cui si è ampiamente documentato la scarsa utilità, gli alti costi ed impatti: difficile quindi considerarla una priorità come fa il documento del Ministro Delrio, che motiva la scelta in relazione alle reti TEN europee.
Si dovrebbe rivedere anche la Pedemontana Veneta, che è diventata un ibrido tra superstrada a pagamento ma con caratteristiche autostradali, che grazie al Commissario è stata approvata in deroga alla stessa legge obiettivo e di cui la Corte dei Conti ha denunciato nella sua relazione l’insostenibilità finanziaria.
Di una verifica hanno bisogno anche gli investimenti sulla SS Ionica 106, di cui circa 1 miliardo sono lavori in corso ed altri 6, 3 miliardi sono quelli in progettazione: abbiamo visto progetti sovrastimati, impatti devastanti e costi insostenibili che niente hanno a che fare con il necessario adeguamento della Strada Statale Ionica.
Oltre le 25 opere prioritarie ci sono altre 165 le opere – per un costo complessivo di 145 miliardi – che sono state approvate dal Cipe con progetto preliminare, progetto definitivo e/ quadro economico e finanziario, ai sensi della Legge Obiettivo. Sarà necessario intervenire per selezionare, ridimensionare e cancellare una buona parte di queste opere come prevede lo strumento della project review previsto dal nuovo Codice Appalti.
Tra queste opere c’è l’Autostrada della Maremma, che dopo molte polemiche e revisioni di tracciato, con l’ultimo accordo MIT-SAT-Regioni prevede un progetto autostradale tra Grosseto e Tarquinia a ridosso dell’Aurelia: i scarsi volumi di traffico non giustificano un sistema chiuso, basta adeguare l’Aurelia dove è ancora a due corsie ed introdurre un pedaggio free flow che escluda i residenti.
Ci sono opere come l’Autostrada Cispadana, la Gronda di Genova, il Passante di Bologna che dopo l’abbandono del tracciato nella pianura adesso è tornato come potenziamento del fascio tangenziale ma non avrà pochi problemi di impatto sulla città: bisognerebbe ragionare su come usare in modo efficiente le attuali corsie senza ampliamenti, aprendo anche quelle autostradali (in gergo si chiama banalizzazione).
Per il TiBre autostradale Parma-Verona, il Ministero e Regione Emilia Romagna hanno deciso di abbandonare il secondo lotto – costoso ed impattante – con il disaccordo delle Regioni Veneto e Lombardia. Puntano comunque alla realizzazione del primo lotto, 10 km per 513 milioni di euro: anche qui serve un miglioramento della viabilità locale in diversi punti, un potenziamento delle ferrovie e l’abbandono definitivo del tracciato autostradale.
La cancellazione del progetto autostradale Orte Mestre è già stato annunciato dal Ministro Delrio e Anas ed si punta al miglioramento della E45 e della E55: questo è un bel passo in avanti e sarà importante la qualità dei progetti di adeguamento.
Pessime notizie invece sulla bretella Campogalliano Sassuolo, con il Cipe che nella seduta del 1 maggio 2016 avrebbe sbloccato e risolto gli aspetti finanziari, con la concessione di un prestito statale (da restituire nei primi 10 anni di gestione) e la defiscalizzazione dall’undicesimo anno di gestione in poi. Decisione prese al CIPE ai sensi Dlgs 163/2006 parte Legge Obiettivo, che quindi anche in questo caso continua a produrre i suoi effetti.
Con il nuovo Codice ha debuttato l’obbligo nelle concessioni di traferire al privato il “rischio operativo”, incluse le fluttuazioni del traffico per quelle autostradali, senza che siano presenti garanzie pubbliche. Resta da capire come e se verrà applicata alle concessioni in essere, che hanno atti convenzionali già sottoscritti e che faranno una resistenza granitica all’introduzione di questo principio.
E le preoccupazioni aumentano con il parere circolato nei giorni scorsi del DIPE, Presidenza del Consiglio, in cui si ipotizzava che tutte le opere con procedure autorizzative avviate con la legge obbiettivo dovranno concludersi nello stesso modo.
Se poi aggiungiamo le semplificazioni in arrivo ai sensi della norma Madia,come la nuova Conferenza dei Servizi con il silenzio assenso anche per gli enti di tutela e la VIA ed il Regolamento “sblocca opere” per la completa delegificazione della Pubblica Amministrazione, il quadro è completo e preoccupante.
Il rischio concreto è che, cancellata la legge obiettivo, non si cancellino le grandi opere inutili e devastanti, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006. Serve una azione energica di indirizzo sul regime transitorio della legge Obiettivo del Ministro Delrio, capace di trasformare in fatti concreti le politiche positive annunciate nell’Allegato al DEF, per realizzare le opere utili, snelle e condivise.
«Il governo stravolge il ddl che doveva tutelare i terreni agricoli: adesso apre al cemento. Da Fai a Legambiente, le associazioni sono preoccupate. Cinquestelle protestano e spiegano il loro no in cinque punti». Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)
Il testo approvato contiene «norme innovative, ma ancora molti punti contradditori e pericolosi», affermano le associazioni Fai, Legambiente, Slow Food, Touring Club italiano e Wwf, chiedendo al Senato di «aprirsi al confronto per migliorarlo».
La legge era attesa da anni: è la prima in Italia che si pone organicamente l’obiettivo di fermare il consumo di suolo (l’Ispra calcoa che ogni secondo vengono cementificati 7 metri quadrati), inducendo a riqualificare e rivalutare le aree già costruite. Tra gli aspetti positivi, a parte l’obiettivo in sé (fissato a 35 anni), secondo le associazioni c’è «l’introduzione di un censimento degli edifici e delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate, come precondizione per approvare qualsiasi nuovo consumo di suolo»: il censimento sarà obbligatorio e toccherà ai Comuni. Ancora, agli stessi Comuni viene vietato «di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente e di modificare la destinazione d’uso per le superfici agricole che hanno beneficiato di aiuti Ue».
Vincoli e paletti che dovrebbero aiutare a conservare il verde dei nostri paesaggi. Se nel frattempo non fossero intervenute, proprio negli ultimi passaggi in Commissione Ambiente, delle modifiche che hanno mutato il ddl originario, quello impostato già quattro anni fa dall’ex ministro Mario Catania e che era sostanzialmente condiviso anche da parte dei Cinquestelle. In particolare, sono cinque i punti critici: ce li illustra Massimo De Rosa, deputato M5S.
1) Alcuni rischi possono venire dalla nuova definizione di termini come «impermeabilizzazione», «consumo di suolo», «suolo consumato», che già contengono in sé deroghe all’edificazione. «Il suolo anche solo parzialmente impermeabilizzato non viene considerato perso – spiega De Rosa – Se ad esempio consideriamo un parcheggio fatto con i cosiddetti “autobloccanti a verde”, il fatto che lascia passare l’acqua tra un mattone e l’altro secondo la nuova legge permette di non farlo rientrare nel suolo consumato. Quindi non entrerà neanche nelle relative rilevazioni».
2) Il meccanismo di calcolo e pianificazione dei nuovi suoli consumabili apre a forti consumi in attesa della deadline del 2050. «Stato, Regioni e Comuni devono definire e calcolare a cascata, ma non ci metteranno meno di due anni – spiega De Rosa – Inoltre non ci sono obblighi né sanzioni, quindi è probabile che molti dati non perverranno mai. Una volta ogni 5 anni si decide quanto suolo si è autorizzati a consumare: ma non è che rischiamo di cementificarne troppo entro i prossimi 35 anni?».
3) L’articolo 5, quello dedicato alla «rigenerazione urbana», prevede una delega al governo senza troppi paletti, perché semplifichi le procedure per la riqualificazione di intere porzioni di città. «Semplificazione – secondo l’M5S – rischia di coincidere con “abusi”, visto che non si cita nessun obbligo di riferimento al Testo unico sull’edilizia: e così addio al rispetto degli spazi, delle sagome, dei servizi minimi da offrire ai cittadini».
4) Nell’articolo 6 si permette la modifica di destinazione uso dei fabbricati agricoli, che potranno essere demoliti e ricostruiti diventando studi medici, uffici, spazi ludico-ricreativi o sociali. «La componente maggiore dovrà restare a disposizione di usi agricoli – dice De Rosa – ma nonostante questo si stravolge la storia di interi siti, rischiando peraltro che vengano abbattuti edifici storici non vincolati dalla Soprintendenza».
5) Articolo 11, deroghe pro-Anci: il testo era rimasto immutato per mesi, poi in prossimità dell’arrivo in Aula la maggioranza ha fatto sue le richieste dell’Anci: «Si fa salvo – denuncia l’M5S – quasi tutto quanto già previsto dai piani di trasformazione: e non solo quello che è in fase di lavori avanzati, basta essere al grado della programmazione. Chiaro che ora, prima che entri in vigore la legge, tutti correranno a programmare interventi edilizi: una sorta di maxi-sanatoria». «Per noi la pianificazione del territorio deve essere statale, e il privato deve venire dopo, ma qui è passato il principio contrario – conclude l’M5S De Rosa – Prima di costruire su nuovi suoli, rigeneriamo e bonifichiamo l’esistente. E mettiamo le risorse sulla riqualificazione energetica: ogni miliardo investito crea 17-18 mila posti di lavoro e fa bene all’ambiente».
«"Contenimento del consumo di suolo". Le legge appena approvata dalla Camera favorisce l’aggressione di quanto resta dei territori agricoli e lascia mano libera alla grande proprietà immobiliare di approvare interventi di demolizione e ricostruzione con mostruosi incrementi volumetrici». Il manifesto, 13 maggio 2016
Prima di descrivere le aberrazioni nascoste nella legge, è però opportuno chiarire che il giudizio negativo non riguarda – come vogliono far credere i commenti trionfali del Pd – la normale dialettica democratica in cui le opposizioni (in questo caso 5 Stelle e Sinistra italiana) criticano i provvedimenti della maggioranza. Molti comunicati emessi dalle associazioni ambientaliste e della tutela – dalla Lipu a Salviamo il Paesaggio – non appena approvata la legge dimostrano che è pessima e solo una sfrontata propaganda può gabellarla come un successo. Le bugie stavolta hanno le gambe corte e inciampano sulla realtà: quelle associazioni hanno collaborato in numerose riunioni e audizioni in Parlamento presentando emendamenti per rendere la legge più efficace. Non è stato concesso loro alcuno spazio e in sede di approvazione in aula sono stati votati articoli che hanno ulteriormente peggiorato la legge rendendola un grande regalo al partito del cemento.
La grancassa renziana dirà che si tutelano le aree agricole. L’articolo 6 si intitola al contrario «compendi agricoli neorurali periurbani», una locuzione marinettiana che serve «a favorire lo sviluppo economico sostenibile del territorio» e consente ai proprietari di realizzare in aree agricole «alberghi, case di cura e uffici». È noto a tutti – e dunque anche al legislatore – che l’Italia ha gli indici di consumo di suolo più alti dell’Europa intera: abbiamo cementificato circa l’8% del territorio a fronte della media del 4,7% di Paesi europei (fonte Ispra): la ricetta della maggioranza è invece quella di incrementare ancora la frammentazione territoriale.
Ma veniamo al cuore del provvedimento, e cioè l’articolo 5 che porta come titolo «Interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate». Lì è contenuta – come nel caso delle riforma Madia per le amministrazioni pubbliche – la pericolosa delega in bianco all’esecutivo per emanare decreti legislativi per agevolare gli interventi di rigenerazione urbana. In realtà è noto che queste leggi già esistono e non vengono utilizzate proprio perché non permettono di poter aumentare a piacimento le volumetrie da realizzare e obbligano al rispetto degli interessi pubblici. Cose vecchie nella devastante cultura nuovista. Per far capire dove si vuole arrivare, l’aula ha approvato un emendamento del Pd che consente deroghe volumetriche anche per gli interventi in corso. È l’estensione del Piano casa berlusconiano a tutto il territorio.
Del resto, a capo dell’associazione dei comuni italiani siede Piero Fassino, esponente Pd, ed è stata proprio l’Anci a chiedere di escludere dalla tutela le aree di completamento urbanistico «anche future»! Altro che riduzione del consumo di suolo: è il trionfo della speculazione edilizia, come conferma la relatrice di maggioranza Chiara Braga (Pd) che per difendersi dalle critiche ha detto che non bisogna «mortificare l’iniziativa privata». Brava. Se ne sentiva davvero il bisogno perché la deregulation dura da oltre due decenni e a furia di non mortificare l’iniziativa privata sono stati cancellati diritti dei cittadini ad avere città vivibili e territori tutelati.
Da pochi giorni è uscito un volume prezioso – «Viaggio in Italia, le città nel trentennio liberista» (ed. manifestolibri) – che narra gli scempi compiuti in molte città italiane sulla base della cultura della deroga. Il predominio di pochi contro gli interessi di tutti che ha portato ad un eccesso di alloggi costruiti, alla conseguente riduzione dei valori immobiliari – salvo quelli di pregio – e alla demolizione del welfare urbano. La legge renziana approvata ieri dimostra che nonostante i fallimenti non si cambia cura: ancora ulteriore consumo di suolo e ancora nuove costruzioni.
In Italia solo cittadini e comitati si sono mobilitati per denunciare il grande inganno delle concessioni autostradali. Inascoltati si sono rivolti all'Europa, che ora interviene. Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016 (m.p.r.)
La politica di manica larga del governo nei confronti dei signori pubblici e privati delle autostrade insospettisce parecchio l’Europa. Margrethe Vestager, la commissaria per la Concorrenza, ha inviato a Graziano Delrio una raffica di lettere chiedendo spiegazioni su tutte le scelte autostradali più importanti del ministero dei Trasporti: quelle missive sono l’apertura di una campagna in grande stile. Le lettere riguardano la Brebemi, la A 4 Brescia-Padova, la A 22 del Brennero, le Autovie Venete e la Sat, la Società dell’autostrada tirrenica del gruppo Benetton che all’inizio di aprile ha aperto il tratto tra Civitavecchia e Tarquinia (19 chilometri) imponendo un nuovo pedaggio.
Due in particolare le scelte su cui la Ue concentra l’attenzione: la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) e la proroga della A 4 Brescia-Padova incardinata sulla estensione verso nord fino a Trento della Valdastico che ora da Rovigo raggiunge solo Piovene Rocchette. Per la Brebemi (socio di riferimento Banca Intesa) la lettera della commissaria più che una richiesta di chiarimento è il preannuncio di una procedura di infrazione per violazione della concorrenza. Inaugurata a luglio 2014 l’autostrada padana si è rivelata un flop con un’intensità di traffico molto più bassa di quella prevista dal Piano economico e finanziario (Pef) fatto a sostegno della realizzazione dell’opera. Lo scompenso tra attese e realtà è stato così disastroso che dopo un anno il governo ha deciso (luglio 2015) di intervenire con una delibera del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) a favore della società di gestione con una defiscalizzazione del valore di circa 320 milioni di euro sulle tariffe applicate per i pedaggi. L’iniezione di liquidità non è piaciuta all’Europa, propensa a ritenere che quell’intervento sia aiuto di Stato.
Anche la proroga della concessione della A 4 Brescia-Padova sta mettendo sul chi va là l’Europa. Scaduta a giugno di tre anni fa, la concessione della A 4 era stata temporaneamente prorogata senza gara per 2 anni dall’allora ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, sulla base dell’impegno da parte della stessa A 4 di completare la Valdastico verso nord. Intorno a questo tracciato autostradale relativamente breve (90 chilometri) nel frattempo è stato ingaggiato un braccio di ferro durissimo.
La A 4 è controllata da Banca Intesa più Astaldi, molto interessati alla costruzione dei 90 chilometri perché a essi è collegata la possibilità di estendere per altri 10 anni la concessione della stessa A 4 aumentandone il valore proprio nel momento in cui è stata messa in vendita. Gli spagnoli di Abertis da mesi premono per acquistare e ieri Astaldi ha annunciato di aver venduto proprio agli spagnoli la sua quota del 31,85 per cento per 130 milioni di euro. Ma la chiusura formale dell’affare è stata rinviata per la terza volta, in questo caso a fine luglio, subordinandola all’approvazione da parte del Cipe della realizzazione della Valdastico Nord.
Ma c’è un terzo incomodo, la provincia di Trento, azionista di maggioranza della A 22 del Brennero, l’autostrada su cui dovrebbe innestarsi proprio a Trento la Valdastico Nord. La provincia di Trento quei 90 chilometri non li vuole adducendo un motivo ecologico: scaricherebbe troppo traffico sull’Autobrennero in prossimità della città. In realtà le motivazioni vere sono altre: la Valdastico non scaricherebbe traffico sulla A 22, ma glielo toglierebbe a sud per riconsegnarglielo più a nord. E la provincia di Trento non vuole perdere traffico perché i viaggiatori dell’Autobrennero sono oro. Così, dopo aver ottenuto dal governo il prolungamento di 30 anni della concessione per la A 22 (valore 11 miliardi di euro) promettendo il suo assenso per la Valdastico, ora la provincia di Trento fa melina. In Italia nessuno fiata, in Europa vogliono vederci chiaro.
Approvata da un Parlamento illegittimo, e per di più incompetente, una legge che, col pretesto della riduzione del consumo di suolo, non lo riduce affatto e in aggiunta favorisce la cementificazione plus delle aree già edificate. Un nuovo capitolo del "Rottama Italia". La Repubblica, 11 maggio 2016
Roma. Sette metri quadrati di terra fertile persi al secondo, 80mila ettari consumati dal 2012 a oggi, un’estensione pari a otto volte Parigi. I dati allarmanti dell’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore di ricerca ambientale) dimostrano che il nostro Paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti in Europa, nonostante le caratteristiche orografiche del territorio e l’elevato rischio idrogeologico. Ma se negli ultimi trent’anni sono stati divorati 5 milioni di ettari di terreni agricoli, una media di 80 campi da calcio al giorno, evidentemente il cemento ha avuto la meglio.
Un nuovo volume a cura di I. Agostini e P. Bevilacqua edito da manifestolibri. 11 maggio 2016. La raccolta degli articoli pubblicati sul "quotidiano comunista" nella seri"Viaggio in Italia, promossa da Piero Bevilacqua, e successivamente ampliata (p.d.)
La gestione delle città si adegua al modello liberista e fa proprie le regole dell’economia finanziaria. Nei comuni impoveriti dai tagli statali, l’urbanistica contrattata e la cultura della deroga creano le condizioni per la bolla edilizia; nelle aree centrali delle città, i grattacieli soddisfano gli appetiti della rendita; nei territori, il consumo dei suoli agricoli altera gli equilibri ecosistemici.
Nel trentennio, un universo di comitati autorganizzati in difesa della città pubblica si oppone all’erosione degli spazi e dei beni comuni, al processo di indebolimento della democrazia rappresentativa e alla crescita del potere nelle mani dei sindaci. E restituisce all’intero paese la speranza di un cambiamento radicale.
Il quadro della fase storica neoliberista è ricostruito da architetti, urbanisti, territorialisti, geografi, poeti, narratori, storici, politologi, giornalisti, medici, agronomi, economisti, che raccontano le città secondo competenze disciplinari e prospettive diverse. Al primo nucleo di città apparso su “il manifesto” nella rubrica Viaggio in Italia – Avellino, Bologna, Cagliari, Catanzaro, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Parma, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Sassari, Taranto, Torino, Venezia – si aggiungono in questo libro Bolzano, Catania, Cosenza, Genova, L’Aquila, Modena, Pisa, Ravenna e Siena.
Scritti di I. Agostini, F. Arminio, G. Barbera, P. Berdini, P. Bevilacqua, S. Brenna, D. Cersosimo, C. Ciampa, A. Costabile, A. Dal Piaz, V. De Lucia, F. Farinelli, G.J. Frisch, C. Greppi, F. Leder, A. Magnaghi, T. Perna, A. Perrotti, M. Preve, R. Radicioni, E. Righi, C. Rizzica, S. Roggio, E. Salzano, F. Sansa, A. Savini, E. Scandurra, P. Scarpa, M.A. Teti, G. Todde.
Un'interrogazione del senatore Felice Casson costruita dopo aver ottenuto l'accesso agli atti e averli esaminati con attenzione, rivela che il Re è nudo. Nonostante i lori sforzi congiunti Paolo Costa e Luigi Brugnaro non hanno in mano nessuna carta per violentare la Laguna. Nessuno dei progetti presentati per far entrare le Grandi navi in Laguna è legittimo, nessuno è stato correttamente depositato. La Nuova Venezia, 11 maggio 2016, e il testo dell'interrogazione
La Nuova Venezia
IL TESTO DELL'INTERROGAZIONE
di Felice Casson
alla data del 20 aprile 2016, giorno di entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, non risulterebbe pervenuta al Ministero dell'ambiente alcuna istanza di VIA che faccia rientrare il progetto nella condizione prevista dall'art. 216;
il capitano di vascello Goffredo Bon, prima ancora di assumere il comando della Capitaneria di porto di Venezia, in un'intervista rilasciata venerdì 6 aprile, ha dichiarato: «penso che il progetto delle Tresse possa essere la soluzione valida», dimostrando di non essere informato minimamente del fatto che l'istanza di VIA non era stata nemmeno incardinata e che il progetto sarebbe quindi giuridicamente inesistente;
si chiede di sapere:
se i Ministri in indirizzo siano a conoscenza dei fatti rappresentati e quali decisioni e controlli intendano esercitare;
se non ritengano necessaria, nel caso specifico del canale Tresse nuovo, una ricostruzione dei rapporti intercorsi tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Autorità portuale di Venezia, anche per fare chiarezza sulle continue dichiarazioni del presidente Paolo Costa, che chiamano in causa direttamente lo stesso Ministro e comunque i suoi uffici;
se in effetti il cosiddetto progetto canale Tresse nuovo sia giuridicamente inesistente in quanto a) ogni nuovo progetto dovrebbe essere conforme al livello di progettazione previsto dal codice degli appalti e privo di difformità progettuali; b) va evitata qualsiasi forma di pressione o interferenza da parte degli uffici ministeriali circa la definizione, la priorità e l'esito delle procedure di valutazione di impatto ambientale, in contrasto con la normativa vigente, e c), in particolare, vanno rispettate le nuove norme e ogni nuovo progetto nello specifico relativo alla laguna di Venezia, dichiarata di preminente interesse nazionale, deve essere valutato in relazione alle qualità ambientali dei progetti, previste dagli art. 95 e 183 del decreto legislativo n. 50 del 2016;
se, relativamente alle dichiarazioni del nuovo comandante della Capitaneria di porto, non ritengano di dover verificare quanto segnalato, d'intesa eventualmente con l'ammiraglio ispettore delle Capitanerie di porto;
se non ritengano necessario esercitare la vigilanza sul bando dell'Autorità portuale circa l'assetto societario e la cessione delle quote azionarie;
se non ritengano opportuno attendere il pronunciamento della sentenza del TAR del Veneto ordinata dal Consiglio di Stato per la prosecuzione del bando;
se il valore delle quote deciso dall'Autorità portuale sia un valore reale o sia invece legato ad una valutazione speculativa, stante la breve durata della concessione.
La Nuova Venezia
VTP, CONTROLLO PUBBLICO A TERMINE
REGIONE PRONTA A CEDERE LE QUOTE
di Gianni Favarato
«Il sindaco anti abusivi non lascia "Ho paura ma resisto per mio figlio". Dopo l’attentato a Licata arriva Alfano. Nessuna sanatoria per le villette da demolire». Corriere della sera, 11 maggio 2016
L'arcivescovo di Agrigento sta con il sindaco di Licata. Dice no alle case abusive. Una svolta. Per troppo tempo la Chiesa siciliana ha avuto sul tema posizioni ambigue.
La tentazione di mollare tutto, di dimettersi dalla carica di sindaco, di fermare la sua battaglia contro gli abusivi con le case sul mare era inevitabile dopo una notte insonne trascorsa, prima, davanti alla sua casa di campagna dove i vigili del fuoco sono arrivati in tempo per evitare il peggio, poi fino all’alba a riflettere con la moglie in attesa di un bebè. Atterriti da un attentato odioso. Da una plateale minaccia destinata ad avvelenare in questo tormentato lembo della provincia di Agrigento la lotta per il ripristino della legalità, mentre le ruspe continuano a demolire i mostri di cemento con le zampe sulla sabbia.
Ma il sindaco di Licata, Angelo Cambiano, 38 anni, insegnante di matematica in aspettativa, un bernoccolo recente per l’aggressione di un pescivendolo contrario alla riorganizzazione del mercatino, nonostante l’emozione, gli occhiali da sole per coprire gli occhi rossi e un primo sfogo davanti al municipio, dopo avere partecipato ad una riunione sulla sicurezza con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, precipitatosi nella sua contraddittoria provincia per solidarizzare con scelte concrete, ha deciso di provare a resistere: «Non so se ci riuscirò, ma per ora resto. Ovvio che mi chieda chi me lo fa fare a rischiare la vita per 1.700 euro al mese. Io non sono un eroe. Vorrei solo amministrare rispettando le leggi. Si, la paura c’è. Ma poi guardo mia moglie che partorirà fra poco e penso a mio figlio. Che gli racconto? Che suo padre scappa? Resto. Serve però la squadra».
Un appello che ieri, si spera non solo per un giorno, sembrava essere stato recepito. Non solo dal ministro, arrivato con il prefetto Nicola Diomede, il questore Mario Finocchiaro, ufficiali di carabinieri e guardia di finanza, ma anche da 40 sindaci e amministratori dei comuni vicini per un’ora in riunione con lui. Tutti apparentemente consenzienti con Alfano, pronto a soffocare le speranze di una sanatoria aleggiata nei giorni scorsi perfino con un disegno di legge presentato all’Assemblea regionale: «Oggi è giunto il tempo della politica e delle istituzioni che fanno rispettare le leggi, puntando al consenso democratico di quei cittadini che onestamente, per fare una casa, chiedono il permesso».
Avrà una scorta il sindaco, incoraggiato dall’incontro con Alfano, sollevato e determinato nel contrasto ai comitati impegnati in manifestazioni continue, a difesa delle villette sul mare di Mollarella e Torre di Gaffe, una costa offesa da 500 costruzioni tirate su sin dagli anni Settanta, a due passi dalla battigia, comunque a meno di 150 metri dalla spiaggia. Tema di una riflessione chiara da parte del sindaco in Tv, ospite domenica dell’«Arena» di Massimo Giletti: «La Procura di Agrigento impone a noi di eseguire demolizioni per le case sulle quali esiste un verdetto definitivo della Cassazione e noi amministratori non possiamo sottrarci». Il giorno dopo, il finimondo. Alle sette di lunedì sera c’è voluto un cordone di polizia per fare uscire sindaco e assessori dal municipio. E due ore dopo qualcuno ha appiccato il fuoco.
Adesso l’amarezza di Cambiano diventa anche denuncia: «In questi giorni ho avvertito la presenza di uno sciacallaggio con politici locali che scaricano sulla mia persona la responsabilità delle demolizioni...». Un dettaglio che viene analizzato dal procuratore della Repubblica Renato Di Natale e dal suo aggiunto Ignazio Fonzo, fiduciosi sulle indagini: «Abbiamo un’idea precisa. Soprattutto sugli ispiratori... Ma importante è sapere che l’azione di ripristino della legalità non si fermerà». Come dire che non serve presentare disegni di legge o emendamenti pro sanatoria come hanno fatto all’Assemblea regionale Girolamo Fazio, ex sindaco di Trapani in quota Forza Italia e un deputato avvicinatosi al Pd, Michele Cimino. Proposte lette con sgomento dal procuratore di Natale: «Sono contro legge. E i cittadini debbono saperlo» .
«Si tratta di progetti estremamente impattanti contenuti nel PTRC partorito dall'ultima giunta Galan-Chisso e mai emendati dai successivi governi regionali guidati dalla Lega». Opzionezero.org, 10 maggio 2016
Comunicato stampa Opzione Zero
«Se qualcuno pensa di approfittare del problema “grandi navi” per ridare la stura a vecchi progetti che sanno tanto di speculazione immobiliare come i poli logistico e crocieristico di Dogaletto, si sbaglia di grosso. Cementificare centinaia di ettari di suolo agricolo in riva alla Laguna per fare spazio ai mostri del mare è una follia che contrasteremo con ogni mezzo a disposizione. Che le si voglia piazzare a Venezia, a Marghera, a Dogaletto o da qualsiasi altra parte, le “grandi navi” rimangono sempre incompatibili e insostenibili. Come comitato siamo uniti e compatti con il Comitato No Grandi Navi e con le associazioni ambientaliste per bloccare la costruzione di nuovi canali o nuovi terminal. Le “grandi navi” devono stare fuori dalla Laguna punto e basta».
E' questa la pronta risposta di Opzione Zero alle dichiarazioni rilasciate oggi sulla stampa da parte del presidente della società Venezia Terminal Passeggeri (VTP) Sandro Trevisanato sulla possibilità di un terminal a Dogaletto.
In un articolo del Gazzettino, Trevisanato prende infatti spunto dalla proposta fatta da Venezia Investimenti di ricollocare le navi da crociera oltre le 96.000 ton a Marghera, per rilanciare l'idea di costruire un nuovo terminal crociere sfruttando le aree agricole che si affacciano sulla Laguna nei pressi della Cassa di Colmata A in Comune di Mira, o forse là dove era previsto il Polo Logistico.
«Si tratta di progetti estremamente impattanti contenuti nel PTRC partorito dall'ultima giunta Galan-Chisso e mai emendati dai successivi governi regionali guidati dalla Lega - prosegue Opzione Zero - Progetti che rientravano in pieno nella furia speculativa e cementificatrice che ha devastato il Veneto, e di cui il caso MOSE ha offerto uno spaccato inequivocabile».
Per Opzione Zero è necessario stroncare immediatamente un disegno del genere, e per questo chiede al Comune di Mira di intervenire facendo pesare fino in fondo il proprio ruolo di comune lagunare presso la Regione, l'Autorità Portuale e presso il Comitatone.
Opzione Zero presenterà inoltre un proprio contributo in fase di osservazioni al nuovo Piano di Assetto del Territorio, con l'intento di introdurre vincoli più specifici e più stringenti per le aree potenzialmente interessate da questi progetti.
«"I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi" dall'omelia per il solenne inizio del ministero petrino». Il manifesto, 29aprile 2016 (c.m.c.)
Mi soffermo su tre paragrafi del sesto ed ultimo capitolo della Enciclica Laudato si’ dove Francesco ragiona di «conversione ecologica». «Desidero proporre ai cristiani alcune linee di spiritualità ecologica che nascono dalle convinzioni della nostra fede, perché ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere».
ESISTE il rischio jihadista nelle nostre città, nelle nostre periferie? Questa domanda serpeggia nella pancia degli italiani. La risposta più comune, da parte di studiosi e autorità pubbliche, oscilla tra il “no” rassicurante e il prudente “meno che altrove”. Certo meno che a Londra, Parigi o Bruxelles. Soprattutto per due fenomeni tipicamente nostrani: non essere stati vero impero, non sentirsi vera nazione. La modesta e tardiva proiezione imperiale comporta che rispetto alle metropoli delle ex potenze coloniali europee le nostre città ospitino un minor numero di musulmani (il 4% nella provincia milanese, la metà in quella capitolina, contro le percentuali a due cifre di Londra o Parigi), in maggioranza ancora di prima generazione.
La tipologia della banlieue come società parallela, ghetto per comunità allogene isolate dal centro dominato dai cittadini “di ceppo”, non ha preso piede da noi.Il moderato sentimento nazionalistico e la tendenza a non enfatizzarlo nella vita quotidiana favoriscono poi la disposizione all’accoglienza del migrante, cui viene di fatto attribuito un ruolo economico e sociale decisivo, fosse solo per limitare l’altrimenti irreversibile declino demografico e per sobbarcarsi lavori cui i nativi sono ormai refrattari. Sicché un Paese che non si pretende paradigma identitario può costituire un caso di integrazione informale che culmina nella “ mixité alla romana” o nel “multiculturalismo alla napoletana”. Architetture sociali precarie, forse irriproducibili, eppure relativamente efficienti.
Ma tali peculiari equilibri sono instabili. Le valvole di sicurezza potrebbero saltare. La paura dell’alieno potrebbe prevalere, istigando e legittimando la ghettizzazione. Così eccitando la stigmatizzazione dello straniero, a cominciare dall’islamico. E la diffusione di ghetti urbani a forte omogeneità etnica, monadi di sofferenza e rabbia. Terreno di coltura per potenziali jihadisti.
L’ossessione securitaria minaccia però di farci perdere di vista i termini davvero decisivi della partita delle nostre periferie. Di quegli spazi che ci ostiniamo a definire periferici, identificandoli non in base alla geografia, che li renderebbe quasi indistinguibili dall’ipotetico centro, ma al disagio urbano. Perché è da qui che conviene muovere per identificare le “periferie” — le virgolette stanno a ricordare la vaghezza del termine — e per tentarne la riqualificazione. Stefano Boeri indica la polarità città-anticittà come più pertinente della coppia centro-periferia nel determinare le direttrici della battaglia per la riabilitazione del nostro frammentato tessuto urbano, che specie lungo la fascia adriatica non ha quasi soluzione di continuità.
Dove per anticittà s’intende il degrado delle infrastrutture, dei servizi e degli edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali che segnano storia e spirito della civitas — pur sempre una specialità italiana — il predominio delle mafie. Mentre città significa luoghi di aggregazione — cominciando dalle piazze, dalle scuole, dai centri sportivi e artistici — dove gente diversa costruisce insieme, a partire dalle proprie radici, l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico.
Ricucire e riabilitare il nostro territorio urbanizzato, dove grande capitale privato e “imprenditori in canottiera” hanno dettato ritmi e moduli della frammentazione urbana con un tasso parossistico di consumo del suolo, significa progettare una strategia a tenaglia, che tenga insieme “alto” e “basso”, pubblico e privato, nazionale e locale, centri e periferie, italiani “di ceppo” e nuovi aspiranti italiani. Perché il Paese delle cento città non scada a terra delle mille periferie.
http://www.limesonline.com
«Una riflessione di Giovanni Caudo, ex Assessore alla Trasformazione Urbana della Giunta Marino, sul manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea, Londra, a confronto con il dibattito elettorale in corso nella Capitale d’Italia». Carteinregola, 8 maggio 2016 (p.d.)
Contrastare l’emergenza abitativa, costruire migliaia di alloggi ogni anno e raggiungere l’obiettivo che almeno il 50% dei nuovi alloggi sia realmente a costo accessibile; e comunque fare in modo che il canone sia remunerativo per i proprietari degli alloggi dati in affitto. Essere il sindaco più pro-business di sempre, lavorando in partnership con le imprese per realizzare le infrastrutture e sostenere lo sviluppo. Assicurare una qualità dell’aria sana, entro i limiti di sicurezza fissati dalla legge, agendo per un trasporto più verde, ampliare le aree pedonali continuando a proteggere la cintura verde della città. E ancora, fare della città una tra le più tolleranti, aperta e accessibile a tutti e dove ognuno può vivere e prosperare libero dai pregiudizi.
Sono solo quattro delle dieci priorità, dettagliatamente descritte e misurate, che compongono il manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea: Londra (http://www.sadiq.london/introduction_manifesto).
Un linguaggio chiaro diretto, impegni semplici e precisi sostenute da schede per ognuno dei temi e l’obiettivo di governare una realtà complessa, diversa certo, ma non meno di quella romana.
Anche a Roma siamo in campagna elettorale, una campagna che deve affrontare la crisi profonda nella quale la città è sprofondata, soprattutto – a quanto ci dicono – negli ultimi tre anni. Ti aspetti proprio per questo che la campagna elettorale affronti in profondità e metta a fuoco i temi anche strutturali, quelli veri, la cui soluzione è indispensabile se si vuole invertire il declino e risanare la città, non da ultimo ad esempio le radici che hanno fatto proliferare Mafia Capitale (c’è un processo in corso ma sembra che nessuno sia interessato a sapere che cosa è successo). Una funivia tra due località in piano, la pubblicità per adottare le buche e ripianarle e poco di più sono gli argomenti riportati dai giornali, per altro in poche righe, e che hanno fatto “discutere” di programmi.
La sensazione prevalente è che a Roma sembriamo destinati ancora una volta a essere “figli di un Dio Minore”, e non solo rispetto a Londra, ma forse anche a Tunisi. E’ lodevole l’iniziativa del Corriere che con la rubrica “Cosa chiedo al sindaco” sta cercando di alzare il livello e spostare l’attenzione su questioni realmente centrali per il futuro della Capitale. Ma non dovremmo prima sapere da loro, dai candidati sindaco, cosa vogliono fare e con quali idee si candidano? Ho fatto un giro sui siti dei candidati in cerca dei programmi ma, nonostante l’impegno lodevole di alcuni, non mi sono sentito affatto rassicurato. Penso ad esempio che per esercitare il diritto di delega che la democrazia rappresentativa ci affida sarebbe importante che i candidati sindaco ci dicessero qualcosa ad esempio su:
– Su quale progetto per le Olimpiadi metteranno la firma, deciso da chi, dove e quando?
– In che modo si aprirà la città agli investimenti privati esteri (un obiettivo concreto potrebbe essere quello di vederli quintuplicati nei prossimi tre anni, arrivare almeno allo stesso livello di Dublino!);
– Quale modello aziendale si pensa di perseguire per mettere insieme energia, acqua e rifiuti? In che modo realizzare una integrazione che apporti più efficienza nel servizio ai cittadini e realizzi un modello industriale all’altezza delle sfide tecnologiche del settore energetico e ambientale?
– Come si pensa di contrastare e ridurre le crescenti disparità e disuguaglianze economiche e sociali che stanno lacerando il tessuto sociale della città, sempre più diviso tra ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e poveri (sempre di più e sempre più poveri)?
Ora che è ufficialmente aperta, buona campagna elettorale e che sia vera. Altrimenti ci assale il dubbio che sia solo una rappresentazione per il popolo, mentre dietro le quinte tutto è stato già deciso e andare a votare serve a eleggere si il sindaco migliore… ma a tagliare i nastri.
Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)
Allo storico dell’arte Salvatore Settis, uno dei promotori della manifestazione «Emergenza cultura» che ieri ha sfilato a Roma per chiedere di rivedere la riforma Franceschini sui beni culturali, lo Sblocca Italia e la riforma Madia, chiediamo perché ritiene fondamentale l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione. «È un articolo che viene ricordato anche da chi ci governa, senza però averne consapevolezza – risponde – Di solito viene usato per lodare le bellezze culturali o per dire che l’Italia è un museo a cielo aperto. Vuol dire conservare il patrimonio e il paesaggio nella sua peculiarità: la diffusione capillare su un territorio benedetto dalla storia che non ha pari in Europa. Il taglio delle risorse finanziarie e umane ha aumentato la crisi del settore e ha fatto crescere l’attenzione sul problema. Per fortuna un numero crescente di persone si stanno attivando per chiedere l’attuazione del diritto al patrimonio culturale».
Chiedete di rivedere la riforma Franceschini. L’abbiamo conosciuta a partire dalle nomine dei direttori dei musei italiani. Ad oggi qual è il bilancio?
Personalmente non sono mai stato contrario all’idea di dare uno scossone all’amministrazione, che ne ha bisogno. Aprire i concorsi anche agli stranieri è un’idea giusta. Non si capisce perché un italiano possa diventare direttore in Inghilterra e non viceversa. Il problema è che Franceschini ha formato una sola commissione composta da cinque persone che in poche settimane ha nominato venti direttori. Questo è fuori dagli standard internazionali. Non basta dare uno scossone solo a livello dirigenziale. Nemmeno un genio può fare qualcosa se mancano le risorse e non si assume il personale.
Il governo ha promesso cinquecento assunzioni. Sono sufficienti?
È una notizia molto positiva. Per il momento è un annuncio e il concorso non è stato fatto. Quando questi funzionari entreranno in servizio ne saranno andati in pensione altri mille. Stiamo mettendo pezze a una situazione emergenziale. Non si sta facendo nulla per far funzionare bene il paese.
Il governo stanzierà un miliardo per la cultura. È soddisfatto?
Ogni volta che ci sono soldi nei beni culturali bisogna essere contenti. Spero che siano soldi freschi e non una bufala come quella dei 2,5 miliardi per la ricerca denunciata Giorgio Parisi secondo il quale dal fondo manca un miliardo. Franceschini ignora che il problema non è avere fondi eccezionali una tantum, ma assicurare la normale amministrazione. Oggi non ci sono i soldi per pagare la benzina all’archeologo che deve fare un sopralluogo. È come per l’università: non ci sono i soldi per assumere i docenti già abilitati, ma si trovano quelli per creare 500 «cattedre di eccellenza». Vorrei vivere in un paese dove funziona l’ordinaria amministrazione e poi si aggiungono risorse. Non il contrario.
La riforma Franceschini interviene sulle soprintendenze e le direzioni generali del Mibact. Quali sono i problemi a suo avviso?
Franceschini ha fatto una scelta molto strana. Ha lasciato intatte le dieci direzioni generali, ha accorpato tre direzioni generali che tutelano il territorio, ha creato in tutta Italia soprintendenze miste. Non ci saranno più quelle archeologiche che esistono da 100 anni. Un solo soprintendenze dovrà dunque badare a tutti gli aspetti del territorio. Tutto è stato fatto in maniera velocissima senza fare nuove assunzioni. Non ci si è resi conto che in Sicilia le soprintendenze miste esistono da tempo e non hanno funzionato. Sarebbe stato il caso di studiare il perché, ma non lo hanno fatto. È una riforma fatta a tavolino, su indicazione dei consiglieri giuridici del ministro. Suppongo che conoscano bene il diritto, ma non hanno la minima idea di come funziona un museo.
La legge Madia metterà le soprintendenze sotto l’autorità dei prefetti. Cosa c’è di sbagliato?
È gia così di fatto. In questo modo la tutela territoriale che richiede competenze professionali precise viene assoggettata al prefetto al quale si attribuisce il potere di tacitare la voce dei soprintende, se questa voce verrà espressa. È come far dirigere un ospedale da un prefetto che dovrà decidere se si deve operare una persona o no. Per tutelare il territorio c’è bisogno di un archeologo, non di un prefetto. Un principio elementare disatteso dal governo.
Chiedete l’abolizione dello Sblocca italia. Cosa c’entra questa legge con il patrimonio culturale?
Quando la Costituzione dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio culturale dice che questi aspetti fanno parte dei diritti del cittadino. Nello Sblocca Italia ci sono varie ragioni di incostituzionalità riconosciute dalla Corte costituzionale. La legge dà nuova linfa alle grandi opere e istituisce il meccanismo del silenzio-assenso già condannato in passato. Era un’idea fissa dell’ex ministro Lupi contro la quale il Pd si è battuto, ma che poi ha votato quando ha condiviso con lui il governo.
Cosa pensa dei bandi del Mibact che usano il volontariato e gli stagisti per mansioni che dovrebbero essere svolte da professionisti?
Il volontariato è una grande risorsa per creare la solidarietà sociale prevista dalla Costituzione, ma viene usato per sostituire il personale che manca o come alibi per le assunzioni che non si fanno. Queste sono mosse per far lavorare la gente con i voucher o addirittura senza pagarla. Sono provvedimenti che vengono imbellettati da soluzioni di avanguardia, mentre sono foglie di fico che occultano i veri problemi.
«Un impegno corale, a cui architetti e urbanisti contribuirono con intelligenza e passione. A molti aspetti l’esperienza del Friuli rinvia, e su tutti è necessario riflettere». La Repubblica, 7 maggio 2016 (c.m.c.)
Per molte ragioni è importante riflettere su tutti gli aspetti dell’esperienza del Friuli, su tutti gli elementi che la resero possibile: 75mila case danneggiate e 18mila distrutte nel 1976, 74mila riparate e più di 16mila ricostruite dieci anni dopo.
È importante farlo in un Paese troppo spesso dimentico di quel che ha saputo fare e incapace di trarre insegnamenti dal passato. Molti elementi concorsero allora, in primo luogo un appassionato protagonismo collettivo — ricco anche di elementi conflittuali — e una altrettanto felice capacità di ascolto delle istituzioni: con leggi nazionali e regionali che, sulla scia del miglior riformismo degli anni 70, decentrarono le decisioni e trovarono amministratori locali all’altezza dei propri compiti.
Era l’Italia del 1976, percorsa da ansie diffuse di partecipazione, e in essa prese corpo una “democrazia dal basso” — nelle assemblee delle tendopoli e nel coordinamento dei paesi terremotati — di cui ho viva memoria: un clima immaginabile solo in quella Italia, percorsa da una diffusa speranza di rinnovamento radicale (di lì a poco le devastazioni del terrorismo avrebbero stravolto il quadro, ma forse non era inevitabile che le cose andassero così).
Le cronache dell’epoca ci riconsegnano bene quell’“aura”: “i terremotati hanno deciso di passare all’attacco — scriveva a esempio a luglio Giuliano Zincone — hanno eletto delegati di tendopoli, organizzano assemblee e a giorni faranno una grande manifestazione a Trieste, sede della Regione, per evitare che il terremoto si trasformi definitivamente in una Caporetto civile”. Il “rischio Caporetto” non c’era stato in realtà a maggio, nella risposta immediata delle popolazioni colpite e del Paese. Di tutto il Paese, in una mobilitazione che coinvolse differenti generazioni e diversissimi vissuti: dai giovani volontari, non immemori di ansie sessantottine, alle associazioni degli alpini, dai boy scout ai molti friulani che ritornarono nella loro terra, anche dall’estero, per “dare una mano”.
Si affacciò per un attimo a settembre, quel rischio, quando una seconda ondata di scosse portò un colpo mortale alle illusioni di una ricostruzione immediata, che pure erano ampiamente circolate: l’esodo forzato verso le zone più sicure dei litorali o altrove — avvicinandosi ormai l’inverno — sembrò segnare la fine di una stagione di speranze. Così non fu, ed entra qui in campo anche il secondo aspetto decisivo di quell’esperienza: la capacità di ascolto delle istituzioni e la scelta di affidare le decisioni alle amministrazioni locali (amministrazioni che nel loro operare avrebbero mostrato quanto quella scelta fosse fondata).
Assieme al ruolo svolto dal commissario straordinario Giuseppe Zamberletti: nacque allora la nostra Protezione civile. Sono i mesi in cui nasce anche il primo “governo di unità nazionale”, o “delle astensioni”, guidato da Andreotti, nell’incerto scenario aperto dalle elezioni del 1976 (di poco successive al sisma): con la Dc “costretta” a coinvolgere in qualche modo il Pci ma altrettanto “costretta” (per propria vocazione e per persistenti veti internazionali) a tenerlo sull’uscio.
Quel clima favorì talora un “consociativismo” portato a prevalere sui cittadini, in Friuli accadde esattamente il contrario: favorì decentramento e partecipazione. E in tutto questo si inserì il ruolo svolto dalla Chiesa friulana — guidata da un vescovo di straordinaria levatura e umanità, Alfredo Battisti — che trovava radici nella sua “vicinanza storica” alla popolazione (una vicinanza non priva di suggestioni “autonomistiche”): “prima le fabbriche e le case, e poi le Chiese”, si disse, e da più parti venne dato impulso anche alla nascita dell’Università di Udine.
Un impegno corale, dunque, cui architetti e urbanisti contribuirono con intelligenza e passione, e favorito in qualche modo anche dalla natura degli insediamenti colpiti: il sisma riguardò infatti una estesa rete di centri relativamente piccoli (o comunque organizzati in borghi, come Gemona), e le tendopoli ricostruirono subito i tessuti sociali e gli stessi rapporti con gli amministratori.
Sono più chiare allora le molte radici dell’esperienza friulana, e sono possibili anche alcune riflessioni sul diverso calvario dell’Abruzzo colpito dal sisma del 2009. Colpito sin nel suo cuore, L’Aquila: con la popolazione dispersa spesso nelle differenti zone della Regione, e “isolata” al tempo stesso da un centralismo che ha tentato di impedirle in tutti i modi di partecipare alle decisioni.E con una berlusconiana “politica del fare” incentrata su insediamenti inventati ex novo (l’esatto contrario di quel che rese vincente l’esperienza friulana), con conseguenze pesanti per il futuro di una città e di una regione. A molti aspetti dunque l’esperienza del Friuli rinvia, e su tutti è necessario riflettere.
Il terremoto nel Friuli. Il racconto di quegli istanti, di quel luogo e la scomparsa di un mondo antico. La Repubblica. 7 maggio 2016 (c.m.c.)
Ricordo perfettamente dov’ero e cosa facevo quando arrivò il terremoto del 6 maggio ‘76, e anche dov’ero e cosa facevo durante le scosse successive. Sono fotogrammi stampati nella memoria con nitidezza impressionante. È come per l’11 settembre 2001: tutti ricordiamo il momento in cui arrivò la notizia. Io ero a spasso per Napoli, c’era il sole, e una donna lanciò da una finestra il grido “Hanno bombardato New York, poi il grido si moltiplicò, corse di bocca in bocca come una fucilata per Spaccanapoli fino ai Quartieri Spagnoli.
Quella sera che la voce del Profondo urlò sotto i monti del Friuli stavo lavorando nella redazione de Il Piccolo, a Trieste, a 80 chilometri dall’epicentro. Una vecchia stanza con due scrivanie, ai piedi del Colle di San Giusto. Faceva caldo, le finestre erano aperte sulla strada, si sentiva profumo di acacia. Ricordo che scrivevo un pezzo sulla “Dottrina Brežnev” su una Olivetti Lettera 32. Alle 21 ci fu un tremito lungo e così regolare che immaginai una messa in moto anticipata delle rotative, due piani più in basso. Non mettevo minimamente in conto una cosa lontana, visto che la sedia ballava, e la sedia era sotto di me.
Il fatto è che quella cosa tremendamente vicina non accennava a smettere. Poi, dalla finestra, vidi che tutto il giornale — giornalisti e tipografi — si era riversato per strada. Ero l’unico rimasto in redazione. Uscendo, feci in tempo a vedere la tromba delle scale contorcersi su se stessa. La percorsi e quando arrivai per strada — senza correre per conservare un minimo di dignità — era già tutto finito. Non c’era nemmeno un’automobile in giro, il traffico era scomparso, ma le strade erano piene di gente. Tutta Trieste era uscita in ciabatte o maniche di camicia. Non avevamo la minima idea di dove avesse picchiato il terremoto.
La parola Friuli arrivò solo un’ora dopo, sotto forma di lancio d’agenzia, mentre ero chino sui tavoli della composizione del giornale. Volarono nomi di montagne note: San Simon, Chiampon.
Li sentii rimbombare cupamente. Poi si parlò di centri abitati. Gemona. Venzone. Noti anche quelli. Partirono i primi inviati e i primi soccorsi. Ma il terremoto ci mise del tempo a uscire dalla dimensione astratta di un telex. Non sapevamo che in quei cinquanta secondi era scomparso un mondo antico. Per quanto mi riguarda, forse non lo volevo sapere.
Ma sì. Non era possibile che fosse scomparsa Montenars, dove da bambino avevo passato estati a caccia d’asparagi o di gamberi di fiume sotto il Monte Quarnan. Non poteva essere crollata la bottega di alimentari di “sior Raffaele” dove avevo imparato la lingua locale e il gioco fulmineo della morra. Era impossibile che se ne fosse andata la piccola Magnano in Riviera, il paese che nonno Domenico aveva lasciato a otto anni per un destino d’emigrazione a Buenos Aires. Rifiutavo che non ci fosse più Artegna, con la casa della bella “Mariute” dal sottotetto pieno di pannocchie e la grande aia pavimentata con ciottoli dove avevo visto ammazzare il maiale.
All’alba del 7 maggio ci furono scosse di assestamento e ne ricordo perfettamente la prima. Ero in cucina, avevo in braccio mio figlio Andrea di tre mesi che, succhiando il biberon, subito avvertì il mio allarme sbarrando gli occhi. Fu solo allora, ricordo, nel grande silenzio della casa, che ebbi la percezione nitida della potenza del Profondo e capii perché quelle montagne mi erano sempre apparse arcigne. La cordigliera dei Musi, in particolare, segnata di bianche abrasioni, simile all’onda di uno tsunami, che separava le Alpi Giulie dalla pianura friulana. Poi aprii la radio e cominciò la conta dei morti e dei paesi distrutti.
Il 15 settembre mio cognato andava a insediarsi come pretore a Tolmezzo e si beccò entrambe le scosse, micidiali, che quel giorno diedero al Friuli il colpo di grazia. Con la seconda gli venne addosso l’intera parete di scaffali e bottiglie nel bar dove era andato a brindare al primo incarico di magistrato. Nelle settimane seguenti mollai per un po’ la redazione e finii con i soccorritori nella selvaggia alta valle del Torre, un posto dimenticato da Dio e anche dalla politica, dove avevamo allestito un campo di fortuna.
Fu lì che, verso sera, sentii il ghigno della Signora del profondo come mai prima. Ero in tenda, sfinito. Leggevo, ricordo, Praga Magica di Ripellino, l’unico libro che avevo nello zaino. A un tratto, con veloce crescendo, un lamento baritonale si impossessò della valle. Pareva un corno tibetano. Solo quando aprii la zip e guardai fuori, arrivò la scossa, sfasata di alcuni secondi rispetto al tuono. Era un banale assestamento, ma egualmente la valle parve rattrappirsi e gli strati contorti della montagna, in alcuni punti, presero a sparare scintille. Massi rotolarono nei ghiaioni, poi fu di nuovo silenzio. E non esiste silenzio più silenzio di quello che segue un terremoto.
Sono passati quarant’anni e non sono mai tornato nei posti dell’anima che avevo conosciuto prima del 6 maggio del ‘76. Mai più ad Artegna, a Magnano o a Montenars. Ci ho sempre girato attorno, meticolosamente. Troppa la paura di non saperli ritrovare o di scoprirvi l’ombra irriconoscibile del bambino che ero. Viaggiando, capivo che la ricostruzione più ben fatta d’Italia aveva cambiato tutto. Aveva sepolto un mondo più della furia di Persefone. Forse tutto sarebbe cambiato egualmente, certo. Ma quella resta per me la cesura. Non troverò mai più il Friuli che ho amato.
«Intervista a Virginia Raggi la candidata sindaco del M5S ci parla del suo programma per Roma: trasparenza e sicurezza, zero consumo di suolo, tutela dei beni comuni, laicità» Buone idee, ma non c'è una strategia per il territorio. MicroMega newsletter, 5 maggio 2016
Legalità. La parola viene scandita più volte da Virginia Raggi. “I partiti hanno creato questo disastro, noi metteremo in atto una rivoluzione legalitaria”. Nella città di Mafia Capitale e della corruzione endemica della governance, la candidata sindaco del M5S – 37 anni, già consigliera comunale – si mostra sicura di sé e guarda al ballottaggio: “Giachetti, Marchini, Meloni… non importa contro chi, rappresentano tutti il vecchio. È il turno del M5S”.
La deputata grillina Paola Taverna ha ipotizzato un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Al di là della polemica che ne è scaturita, chiunque andrà a governare la città non rischierà di “bruciarsi” in poco tempo viste le enormi difficoltà?
Il punto è provarci, senza false promesse ed illusioni. Ci vuole pragmatismo. E noi siamo gli unici ad avere un progetto credibile perché sono stati i vecchi partiti gli artefici di tale dissesto. Il debito chi l’ha creato? E il disastro nelle municipalizzate? E i rifiuti per strada? E la corruzione? Roma è una città molto difficile ma riteniamo che non ci sia altra soluzione se non quella di rimboccarsi le maniche.
Esiste un debito di quasi 14 miliardi di euro, una voragine…
Le casse in rovina sono quelle ordinarie. E lì c’è da intervenire con una gestione oculata che miri al taglio degli sprechi, al recupero di risorse (sino ad oggi mai recuperate) e ad un livello di spesa che sia adeguato ai servizi, oltre a iniziare a lavorare per ottenere fondi europei tramite i bandi pubblici e per questo ho in mente una squadra di professionisti ad hoc che si occuperà proprio di ottenere queste risorse. Poi c’è la piaga del debito che è una cassa diversa, una gestione separata, come se fosse una bad company rispetto a Roma Capitale. E pare impossibile entrarci. Quando eravamo all'opposizione abbiamo provato a fare richiesta di accesso agli atti e ci è stata chiusa la porta in faccia.
Anche il commissario prefettizio Tronca ha risposto con un diniego alle vostre richieste?
Lui e i subcommissari non hanno ritenuto importante analizzare e approfondire la composizione di tale debito pur essendo una spada di Damocle per l’amministrazione della città: un mutuo che finiremo di pagare tra il 2040 e il 2048 a tranche di 500 milioni di euro l’anno.
Quindi, qual è la exit strategy? Esiste?
Vogliamo ristrutturare il debito di Roma, un debito che è principalmente finanziario e nei confronti delle banche. È nato per l’indebitamento di Roma Capitale verso fornitori e di soggetti vari, pensi che un miliardo riguarda le indennità da esproprio per i mondiali di calcio di Italia ‘90... C’è poca chiarezza. A nostro avviso bisognerebbe capire perché sono stati contratti quei debiti. Quindi interrogarsi sulle responsabilità e sui tassi di mutuo – se sono regolari o meno – ed infine trovare il modo per rinegoziare il debito con gli istituti di credito.
Le banche si opporranno, ovviamente.
Da sindaco, avanzerei l’ipotesi di un’Audit sul debito e pretenderei di entrare nella gestione commissariale, ormai priva di qualsiasi possibilità di controllo malgrado tutti i cittadini italiani paghino per ripianare questo debito. È possibile che nessuno possa entrare? Non è un tema soggetto a segreto di Stato. Hanno paura – e hanno ragione – che scopriamo la verità e rovesciamo il tavolo.
La accusano di provenire dal mondo di destra. Si sente tale?
Ho pure sempre votato a sinistra (ride).
Additano il M5S romano di essere legato e di provenire dal mondo della destra imprenditoriale e non..
Accusa sterile. Dove sono le prove? Quale mondo di destra? Quando parliamo di sicurezza ci accusano di essere di destra, quando parliamo di scuola o acqua pubblica ci accusano di essere di sinistra. Si mettessero d’accordo e decidano come vogliono definire il M5S.
Però c’è da chiarire la questione del suo curriculum: non crede ci sia stata poca trasparenza? Fa mea culpa?
No, ho inserito le mie esperienze lavorative e tendenzialmente lo studio presso cui si effettua la pratica forense non viene inserito a meno che non sia il medesimo studio nel quale si esercita l’attività. Da 13 anni lavoro in un altro posto.
E cosa mi dice del ruolo in una società in qualche modo vicina ai giri alemanniani?
Innanzitutto non era vicina agli alemanniani e a confermarlo è stato lo stesso Alemanno. Questo le fa capire la dimensione delle accuse che mi vengono rivolte dal Pd. Si trattava di un incarico, non di un lavoro, che svolgevo per conto dello studio Sammarco, tanto che poi ho lasciato l’incarico una volta che la Hgr ha interrotto il suo rapporto con lo studio. Quindi cosa avrei dovuto inserire nel cv? È come se mi veniste a chiedere di indicare i clienti che ho patrocinato in questi anni. C’è un codice deontologico e io non ritengo di dover inserire queste specificazioni.
Non temeva di essere attaccata e per questo ha volutamente preferito di sottacere l’informazione?
Dove avrei sbagliato? Di essere stata un presidente senza deleghe di una società per un anno? E perché? Fossi stata presidente di Telecom probabilmente avrebbe avuto un senso ma qui parliamo di una società con solo 20mila euro di capitale. Sa che le dico?
Cosa?
Mi stanno fossilizzando per un passato professionale perché evidentemente non possono attaccarsi a nessun tipo di trascorso politico. Sono ossessionati.
Cambiamo discorso. Il M5S si è sempre schierato per la difesa dei beni comuni. Da sindaca ripubblicizzerà Acea e gli altri servizi locali?
Vuole nuovamente far crollare il titolo di Acea in borsa? (ride, nuovamente. Poi torna subito seria). Vogliamo rispettare il risultato del referendum del 2011 e gestire i servizi idrici in maniera il più rispondente alle esigenze dei cittadini. Bisogna investire sulle reti, evitare i distacchi e i successivi riallacci, operazioni costose, soprattutto per le famiglie meno abbienti. È necessaria una gestione virtuosa di questa spa.
Il contrasto agli sprechi e la razionalizzazioni delle risorse forse non sono sufficienti per riassestare le municipalizzate. Saranno previsti licenziamenti?
Perché mai. In molte municipalizzate persevera la politica dei mega appalti dati ovviamente a soggetti terzi per effettuare servizi che gli stessi operatori di Acea potrebbero tranquillamente effettuare: dalla manutenzione, alle riparazioni, alla gestione dei guasti. Le società municipalizzate si trovano, di fatto, a pagare due volte per lo stesso servizio. Una follia.
Roma è da sempre la città dei palazzinari. Negli anni è stata svenduta ai privati con piani regolatori che hanno avvantaggiato i Caltagirone o i Parnasi di turno. Come vi opporrete ai poteri forti della città?
Roma non può essere ulteriormente devastata dal cemento. Consumo di suolo zero, basta. L’Istat ci dice che ci sono oltre 100mila appartamenti tra sfitti e invenduti quindi non c'è fame di nuove case. Caso mai ci sarà fame di occupare quelle già esistenti. Allora, il settore edilizio che è uno dei più operosi nella Capitale non va bloccato ma riconvertito in maniera sostenibile e compatibile con l'ambiente: rigenerazione energetica, riqualificazione, stabilità degli edifici, messa in sicurezza delle strade etc.
Non verrà costruita nuova edilizia pubblica nemmeno per porre fine all’annosa emergenza abitativa?
Il recupero del demanio pubblico presuppone un censimento, che ad oggi ancora non è completo, sugli immobili di proprietà del Comune di Roma. Completato il censimento, bisognerà capire quanti immobili potranno essere riconverti in alloggi popolari. E poi ci sono i temi dell'autocostruzione e dei piani di zona. Negli anni è stato consentito ai privati di costruire a prezzi agevolati ottenendo sovvenzioni dalla Regione, ottenendo sconti anche a livello di oneri che i privati avrebbero immesso sul mercato questi appartamenti o a canoni di locazione concordati o con un prezzo di cessione basso. Molti privati, invece, hanno violato gli accordi aumentando i canoni di locazione. E quindi gli inquilini che avevano accettato determinate condizioni si sono visti cambiare in corsa queste condizioni e sono ora a rischio sfratto. Parliamo di edilizia per una fascia media di popolazione che è stata truffata e va ora protetta.
Sulle molteplici occupazioni abitative invece ci sarà tolleranza?
Umanamente non possiamo rimanere sordi davanti al dramma di queste persone. Però, contemporaneamente, ci sono da anni migliaia di persone in lista d'attesa per un’assegnazione di una casa popolare. E noi dobbiamo ripristinare un discorso di legalità, senza dubbio. Perché tollerare un’occupazione a fronte di una persona che ha lo stesso diritto e si mette pazientemente in lista ad attendere? Ovviamente non faremo sgomberi coatti e aiuteremo gli occupanti a trovare una ricollocazione. Dobbiamo rimettere in circolo le buone pratiche.
Più volte ha ripetuto che le Olimpiadi non sono un’occasione per rilanciare Roma. Ma non sarebbe un’occasione importante per la città, anche in termini di immagine?
I fondi messi a disposizione dal CIO non sono sufficienti quindi la città dovrebbe indebitarsi ulteriormente per sostenere le Olimpiadi. Mi sembra alquanto azzardato. Detto questo, siamo contrari alle grandi opere e vogliamo riportare la politica del quotidiano. Se si vuole incidere sulla pratica sportiva iniziamo a ripristinare tutti i campi sportivi di atletica che abbiamo a Roma e che cadono a pezzi, che hanno il tartan sgretolato ad esempio. Ripartiamo da qui, altro che super piste e piscine.
Rimaniamo sul tema dell’edilizia, sullo stadio di calcio della As Roma che mi dice? Lo costruirete?
La legge stadi dà delle indicazioni precise riguardo alle modalità e ai luoghi nei quali debbono essere costruiti i nuovi impianti: o si recupera uno stadio esistente oppure si costruisce in un'area già urbanizzata. Noi vogliamo uno stadio della Roma così come vogliamo uno stadio della Lazio e faremo il possibile affinché siano realizzati, nel rispetto della legge.
Altro discorso. Secondo lei, l'immigrazione è un tema legato soltanto alla sicurezza? Sarà la questione su cui si giocheranno le elezioni?
Anche qui ci vuole pragmatismo. Abbiamo visto come Mafia Capitale abbia evidenziato che l'immigrazione e le politiche sociali siano utilizzati come cavalli di battaglia per stimolare da un lato la risposta pietistica delle istituzioni, dall'altro una pletora di avvoltoi dediti a lucrare sulle disgrazie umane. Il tema dell'immigrazione coinvolge quasi a 360 gradi la gestione delle casse capitoline, o almeno sicuramente i fondi per la sicurezza e l'inclusione sociale. Dobbiamo insistere affinché tutte le attività relative al riconoscimento dei diritti di asilo, per chi ne ha diritto, e dei migranti transitanti vengano effettuate nel minor tempo possibile, altrimenti si rischiano bombe sociali soprattutto nelle periferie più abbandonate.
E il Baobab - il centro di volontariato che si è occupato per mesi di accoglienza migranti ma poi sgomberato - riaprirà?
Nel solco della legalità dobbiamo di fatto incentivare queste forme di mutuo soccorso ma è chiaro che l'accoglienza è un’attività che va gestita direttamente dalle amministrazioni. La buona volontà dei cittadini e il loro attivismo nel sociale è fondamentale, ma è l’amministrazione in primis che deve creare le opportunità per una sana gestione del fenomeno.
Quindi è un no, il Baobab non avrà una nuova casa?
Valuteremo, ascoltando anche in questo caso la voce dei cittadini: che siano i residenti e che siano tutti quei volontari che vi hanno prestato servizio.
Il candidato sindaco di Napoli, De Magistris, ha dichiarato “Non sono violento ma meglio i centri sociali che i Casalesi”. Lei direbbe mai una frase del genere?
Non farei questo accostamento. È irrilevante, le due cose non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra. I Casalesi sono da combattere sempre e comunque.
E i centri sociali?
Sono da ricondurre anche qui nell'alveo di una legalità, valorizzando comunque quanto di buono fatto per il territorio.
Non esclude nuovi sgomberi, anche se di fatto parliamo di realtà sociali che in alcuni territori hanno costruito welfare e servizi dal basso?
Vedremo caso per caso. Sicuramente i centri sociali nascono in un momento di manchevolezza delle istituzioni ree di aver abbandonato interi quartieri e di non aver valorizzato il protagonismo dei cittadini che riprendevano possesso del territorio sottraendolo al degrado. Si tratta di una tutela di un bene pubblico per fini non privatistici. Ma ora è finita l'era delle assegnazioni dirette. Lo dice pure il magistrato Cantone. Si passa per i bandi pubblici. Se questi spazi hanno lavorato bene sul territorio, parteciperanno al bando e, se meritevoli, lo vinceranno.
Oltre la legalità e il contrasto agli sprechi quali sono i suoi cavalli di battaglia per governare la città?
Beh, sicuramente, con una rapidità estrema ci sarà da verificare tutte le scadenze degli appalti che sono attualmente in essere in modo tale da poter riprogrammare subito le gare. Più trasparenza, quindi. Dobbiamo iniziare da subito a impostare bene il lavoro per il futuro. Un'altra cosa importante sarà verificare perché non c'è mai stato un potere ispettivo vero e proprio dei funzionari del Comune di Roma sulle società partecipate, per poter capire effettivamente come stanno i conti. Inoltre, istituiremo un ufficio che inizi l'immane lavoro di verifica dei piani di zona.
Il centro storico rimarrà pedonalizzato come ha deciso l’ex sindaco Ignazio Marino o ritornerà come prima?
Al momento quell'area è soltanto sottratta al traffico privato perché è un'area di cantiere. Hanno spacciato per pedonalizzazione una cantierizzazione.
Quindi voi chiuderete il centro storico anche a bus, taxi e auto blu?
Se la metro C, come sembra, arriverà al Colosseo il cantiere dovrà rimanere aperto, non c'è nulla da fare. Per il resto, creeremo delle aree pedonali all'interno di ogni municipio: zone pedonali che trovano il favore sia dei cittadini che dei commercianti.
Emergenza rifiuti. La discarica di Malagrotta verrà chiusa del tutto?
Si lavorerà in tale direzione. Sentendo i dipendenti dell’Ama, dobbiamo prevedere una riorganizzazione della raccolta dei rifiuti eliminando le varie storture, in modo tale che i lavoratori possano effettuare giri in maniera regolare tutti i giorni e in tutte le vie. E poi c'è tutta la parte dello smaltimento con centri di riuso, riparazione e recupero che per altro portano posti di lavoro. Possibilmente centri in tutti i municipi o comunque iniziando in tutti i quadranti di Roma affinché i prodotti di scarto vengano intercettati prima e vengano reimmessi sul mercato e se è possibile recuperati.
Mi sembrano obiettivi molto difficili da raggiungere. Sicura che non ci sarà bisogno di inceneritori?Non fanno parte del nostro vocabolario. Puntiamo sulla politica dei “rifiuti zero”.
Non hai mai nominato le politiche sociali, eppure nella città aumentano le sacche di povertà…
Le politiche sociali e i fondi per la scuola saranno svincolati dal Patto di stabilità. Non è possibile continuare così: ogni anno i servizi sociali terminano i soldi stanziati tra giugno e luglio. Dobbiamo razionalizzare il settore, evitando sprechi, e rifinanziarlo per sostenere i cittadini in difficoltà incidendo anche per quanto riguarda il sistema dell'assistenza domiciliare.
Lei è cattolica. Manterrà il registro delle coppie di fatto?
Siamo stati i primi a depositare la proposta di delibera in Aula Giulio Cesare. Non faremo un passo indietro sui diritti civili.
Ho letto anche della sua proposta di far pagare l’Imu agli immobili del Vaticano, siete pronti alla guerra contro la Chiesa?
È stato lo stesso papa Francesco a dire che gli immobili nei quali si effettua attività commerciale devono pagare le tasse. È giusto, etico e morale.
Data la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, a Roma non si rischia un tasso di astensionismo altissimo?
Da anni il M5S lavora perché il cittadino sia informato e si impegni in prima persona nella gestione della cosa pubblica: organizziamo eventi sulla democrazia partecipata, allestiamo info-point. Stiamo puntando sul far innamorare i cittadini alla prassi della buona politica.
L’astensionismo vi penalizzerà?
Non facciamo previsioni di questo genere. Il nostro obiettivo è far tornare la gente al voto.
Chi teme di più tra Meloni, Marchini e Giacchetti?
Rimasi colpita il primo giorno della mia consiliatura quando in Aula vidi i vari esponenti confabulare tra loro e salutarsi. Un po’ il clima dei compagni di scuola che si rincontrano dopo le vacanze estive. Destra, sinistra, centro… di fatto, tra loro c'è sempre stato un tacito patto per non pestarsi i piedi. Fanno parte di un unico sistema. Al loro Patto del Nazareno bis, preferisco il Patto coi cittadini.
Mi dica almeno chi teme di più al ballottaggio…
Nessuno. Una vale l’altro. Sono il sistema, noi l’alternativa.
Se andate al ballottaggio contro Roberto Giachetti chiederete i voti a Giorgia Meloni o alla sinistra radicale di Fassina?
Non facciamo calcoli né apparentamenti: miriamo a governare la città con il voto consapevole dei cittadini che preferiranno il nostro modo di far politica e le nostre idee.
Domanda personale, quali sono i tre leader politici che l’hanno formata?
San Suu Kyi, Martin Luther King e Gandhi. Mi piacciono le persone che si impegnano anima e corpo nei progetti nei quali credono.
"Desinformemonos", tradotto e rilanciato da Comune-info, 6 maggio 2016 (p.d.)
Non è che i movimenti europei seguano le orme di quelli dell’America Latina: sarebbe come pensare che il nostro continente gioca un ruolo centrale o di “guida” nelle lotte sociali. La cosa nuova è che iniziano a percorrere strade comuni, per lo meno sotto tre aspetti: la territorializzazione delle resistenze, la formazione dei loro partecipanti e la creazione di mondi altri negli spazi riconquistati.
A Vitoria/Gasteiz (Álava) un vasto collettivo di giovani sta recuperando un quartiere operaio contro le mire speculative dell’iniziativa privata. Errekaleor si trova alla periferia della città ed è stato costruito negli anni ‘50 per ospitare i lavoratori dell’industria che provenivano dalle aree rurali. È costituito da 192 abitazioni circondate da campi e da una zona industriale dove vivevano 1200 persone.
Alla periferia della città di Salamanca, nel quartiere Buenos Aires, l’associazione di quartiere e l’associazione delle donne e Asdecoba (Asociación de Desarollo Comunitario Associazione di Sviluppo Comunitario), hanno messo in piedi diverse iniziative degne di nota: cinque orti e una serra dove producono decine di tonnellate di cibo per il quartiere, un catering dove lavorano 20 persone, l’asilo del quartiere e una mensa dove si recano decine di immigrati, poveri ed ex detenuti.
Le iniziative contano sul supporto di padre Emiliano Tapia che da 22 anni gestisce la parrocchia Santa María Nazaret e si dedica con notevole spirito militante a “sostenere il processo per dare dignità alla vita in questo quartiere”. [Il quartiere] Buenos Aires, come tante periferie, è un ghetto di povertà ed emarginazione, popolato da una maggioranza di gitani, afflitto dal traffico di droga, dalla disoccupazione e da un elevato grado di dispersione scolastica. Gli abitanti hanno bloccato l’autostrada chiedendo soluzioni che non arrivano, ma ripongono le loro energie nelle attività volte a trovare soluzioni per la vita degli abitanti del quartiere.
Appena fuori Madrid si è tenuta, dal 22 al 24 aprile, la seconda edizione della Escuela de Movimientos Sociales Ramón Fernández Durán (in omaggio a uno dei militanti sociali più carismatici) durante la quale quasi cento attivisti hanno progettato “analisi e riflessioni per costruire strategie di lotta e proposte per superare il sistema capitalista”. La scuola di formazione è stata organizzata da tre collettivi: il sindacato CGT, Ecologistas en Acción e Balandre che si definisce come “coordinamento delle lotte contro la disoccupazione, l’impoverimento e l’esclusione sociale”.
Hanno partecipato persone venute da tutto lo Stato per discutere delle strategie di fronte alla crisi ambientale, al collasso della civiltà, alla crescente disuguaglianza, al taglio dei diritti, alla privatizzazione dei servizi pubblici, alla repressione e al controllo sociale. Buona parte delle discussioni ruotavano attorno ai rapporti dei movimenti con le istituzioni statali.
Rimarchevole la partecipazione della Asamblea de Parad@s y Precari@s (Assemblea di disoccupat* e precari/e) della CGT di Valencia, che gestisce un ufficio dove vengono dati consigli ai disoccupati sui loro diritti, un aiuto solidale per quanto riguarda prodotti alimentari che hanno battezzato CAOS (Cesta Obrera Autogestionada y Solidaria, Cesta Operaia Autogestita e Solidale) e che distribuisce alimenti donati da membri con impiego fisso: un modo per forgiare legami tra entrambi i settori. Un Guardaroba Solidale fornisce abbigliamento a coloro che ne hanno bisogno e nel laboratorio tessile lavorano tre persone che fanno parte della Asamblea e che possono contare su un macchinario industriale. Non percepiscono neanche un euro dal governo ed esibiscono con orgoglio lo slogan “Di fronte alla dipendenza dallo Stato, autonomia sociale”.
In Italia, possiamo aggiungere la lunga resistenza comunitaria al treno ad alta velocità (No TAV) al nord, l’Azienda Agricola Mondeggi alla periferia di Firenze e la resistenza contro la speculazione immobiliare nel quartiere Pigneto di Roma. Nei 200 ettari recuperati a Mondeggi, una ventina di giovani coltivano la terra cercando di reintrodurre la cultura contadina e, allo stesso tempo, cercano di “trasformare la proprietà pubblica in bene comune”.
Sono solo una manciata delle molte iniziative di resistenza che, in mezzo alla crisi, percorrono “sentieri altri”. Mentre resistono, creano il nuovo; dal basso, in forma autonoma e autogestita. La crisi ha aperto la possibilità di trasformare gli spazi in territori in resistenza. Siamo in grado di iniziare un dialogo orizzontale tra i soggetti, nei territori sia dell’uno che dell’altro continente. La vita ci ha condotti in un posto meraviglioso che, solo pochi anni fa, non avremmo immaginato.
«Dal tramonto delle archistar ai progetti innovativi per le periferie sudamericane Il grande storico Joseph Rykwert parla del futuro del nostro spazio urbano». La Repubblica, 6 maggio 2016 (c.m.c.)
«Un architetto per essere un vero architetto dev’essere un po’ boy scout, diceva Aldo van Eyck, grande progettista olandese. Vuol dire, secondo me, che non può che essere ottimista. Ma io, di motivi per essere ottimista, non ne vedo tanti». Joseph Rykwert ha compiuto pochi giorni fa novant’anni (nato a Varsavia, vive a Londra, ha insegnato negli Stati Uniti). È a Bologna per ricevere, oggi, una laurea ad honorem, che premia una formidabile carriera di storico dell’architettura e di storico della città, in particolare. È una laurea in pedagogia, un riconoscimento alle sue qualità di didatta.
L’idea di città e La seduzione del luogo sono due fra i suoi titoli (editi in Italia da Adelphi ed Einaudi): entrambi propongono l’organismo urbano, dalla Roma antica alle metropoli contemporanee, siano esse Shanghai o New York, Kinshasa o Mumbai, come forma simbolica e non solo come aggregato edilizio, più o meno pianificato. «Per quanto volga in giro lo sguardo», aggiunge, «non scorgo politiche orientate a rendere la città più giusta. Soprattutto nel mondo occidentale».
Ci arriviamo. Intanto mi dica se la città esprime ancora valori simbolici, se rappresenta la visione del mondo di chi la abita?
«In un certo senso è così. Aggiungerei: deve essere così, deve esserlo sempre. Noi vediamo la città come un corpo, come un’entità civile. Questa verità rimane immutata».
Però qualcosa cambia. O no?
«È evidente. È cambiata con la rivoluzione industriale o con il trasporto pubblico non più a cavallo. Io ricordo ancora la Varsavia in cui sono nato: lo sterco dei cavalli per terra era un elemento fondamentale del paesaggio urbano. Poi sono arrivati l’ascensore e l’automobile...».
Ma ora è cambiato qualcosa di più sostanziale, la città ha perso il senso del limite, ha invaso il territorio, non è più distinguibile da esso.
«Non sappiamo come andrà a finire. Però anche in mezzo ai grattacieli di Manhattan o in una baraccopoli sudamericana ognuno ha in mente la pianta del luogo che abita. Non parlo solo di valori simbolici. Ma è presente in tutti una carta geografica del proprio habitat, degli spazi collettivi, dei nodi di scambio. Si riconosce una forma».
La tendenza di certa urbanistica e di certa architettura è di realizzare quartieri ed edifici che vadano bene in Asia come nel Nord America. Vince un linguaggio universale. Qui viene meno il valore simbolico?
«Un mio collega messicano ebbe l’incarico da un governo africano di realizzare un insediamento nella capitale. Ma il progetto fu respinto. Sa perché? Non aveva previsto una selva di grattacieli. Si era ispirato al contesto, ma loro volevano un pezzo di città come a Chicago».
I grattacieli, lei dice, sono il simbolo della potenza finanziaria e immobiliare. E aggiunge: fino agli anni Venti del Novecento erano costruiti lasciando vuoto il pianterreno perché fosse uno spazio pubblico, poi non più. Il grattacielo resta il veicolo di un’immagine?
«Senza dubbio. I grattacieli realizzati di recente a Londra hanno uno spazio aperto, una connessione con la città. Ma quanto effettivamente questi spazi siano pubblici è da vedere. Spesso sono luoghi che aggiungono prestigio al committente, ne offrono un profilo più benevolo».
Quanto è importante per una città garantire spazio pubblico, spazio di convivenza?
«È essenziale. Anche per ridurre le disuguaglianze. Bisogna stare però attenti ai camuffamenti: certo capitalismo finanziario ci tiene a far bella figura ».
Ridurre le disuguaglianze. Quali altri dispositivi possono realizzare l’architettura e l’urbanistica a questo scopo?
«L’architetto può fornire gli strumenti tecnici. Ma questo compito spetta alla politica. Negli Stati Uniti e in Europa non accade. Spesso è dominante un’architettura tendente all’oggetto vistoso. Osservando questi fenomeni matura il mio pessimismo».
Non ci sono eccezioni?
«Le esperienze da molti anni maturate in alcuni paesi del Sud America sono un’eccezione. È un’eccezione il caso di Curitiba, in Brasile, dove ha operato il sindaco-architetto Jaime Lerner, il quale ha progettato un sistema di trasporti che ha avvantaggiato le classi popolari. Lo stesso è accaduto in diverse città della Colombia. Ancora un’eccezione è il sindaco di San Paolo, che ha proibito di tappezzare con la pubblicità le facciate dei palazzi».
Sono esperienze di rilievo.
«Se si apre una breccia nel mio pessimismo è perché rivolgo l’attenzione ai tanti architetti, soprattutto giovani, che s’impegnano nelle periferie del mondo».
Mi fa qualche esempio?
«Si tratta di esperienze anche modeste, che però fronteggiano problemi elementari, il disagio abitativo, le drammatiche forme di disuguaglianza. In diverso modo si risponde a quei bisogni che erano al centro delle riflessioni già negli anni Venti del Novecento o, andando indietro nel tempo, erano presenti nel pensiero utopico».
Volge al declino la stagione delle archistar?
«Mi chiede un vaticinio. Il fatto è che la gran parte delle archistar non realizza architetture di qualità, ma oggetti per lo spettacolo visivo e per l’intrattenimento. E soprattutto non fa pezzi di città».
Oggi alle 17.30 all’Università di Bologna si terrà la cerimonia di conferimento della laurea ad honorem in pedagogia per Joseph Rykwert. La Laudatio sarà tenuta da Raffaele Milani Rykwert è nato a Varsavia nel 1926. Tra i suoi saggi sull’architettura e l’urbanistica: L’idea di città ( Adelphi) e La seduzione del luogo ( Einaudi)
Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016 (p.d.)
Il sito del museo non funziona? Pazienza, è più cool avere Sentiment su Trip Advisor. I visitatori sono pochi? Attiriamoli con Batman di fianco all’Ercole Farnese. Gli incassi sono risibili? Affittiamo la località per matrimoni vista templi. E via così: questo stanno facendo i 20 direttori dei principali musei statali, nominati ad agosto da Franceschini, con un costo per lo Stato di 2-2,5milioni di euro all’anno. I loro stipendi variano da 145 a 78 mila euro (+ 40 o 15 mila di bonus), contro i 30-35miladei predecessori.
A quasi 9 mesi dalla nomina, e a quasi un anno dei quattro della carica, tutti i manager sono indaffarati nel rilancio dei rispettivi musei: alcuni con operazioni felici, come il rientro di una pala del Perugino per Brera, o l’adeguamento della Galleria di Urbino per i disabili, o la riapertura dell’Archeologico calabrese. Altri, invece, si stanno sbizzarrendo con il maquillage più che con interventi strutturali: c’è chi vuole sfrattare un asilo per aprire un ristorante, chi fa strisciare Jan Fabre in Piazza della Signoria,chi invita Federica Pellegrinia tuffarsi nelle “piscine” della Reggia di Caserta...
La valorizzazione è garrula, anche per questo il 7 maggio a Roma è stata indetta la manifestazione “Emergenza cultura”.Una delle tante, benché minori, conseguenze della riforma del Mibact è il caos online: alcuni siti museali non funzionano, o sono in allestimento perenne, o “attivi, ma in forma ridotta”, come quello del Polo Museale Fiorentino, che comprende i frequentatissimi Uffizi e Accademia, gli stessi che poi si lamentano dell’acquisto dei biglietti sui portali non ufficiali o dai bagarini in strada. In compenso, il Mibact “ha voluto fornire ai musei uno strumento che permette di monitorare la propria immagine digitale”: servizio appaltato a Travel Appeal, startup fiorentina del renziano Mirko Lalli.
Quanto agli ultimi stanziamenti Cipe, ne beneficeranno 12 musei su 20 per un totale di 252 milioni di euro su quasi un miliardo.
Galleria Borghese (Roma). Anna Coliva, unica riconfermata, a dicembre si lamentava del “numero contingentato di visite e della prenotazione obbligatoria”.A maggio nulla è cambiato,perché ora il problema è sfrattare un asilo per farci un punto di ristoro.
Uffizi (Firenze). Le zecche sono state debellate, ma non le code e i bagarini. Eike Schmidt promette di completare i Nuovi Uffizi entro 4anni, portare a 50 la lista delle opere incedibili e svuotare il Corridoio Vasariano. Chiedeva 35 milioni di euro e il Cipe gliene ha dati 40.
Gnam (Roma). Lavori incorso forever nel museo di Cristiana Collu: non per riesumare opere d’arte o ampliare le sale, ma per spostare bookshop e caffetteria. Il nuovo ingresso “trionfale” costa 2 milioni di euro e sacrificherà parte della collezione.
Accademia (Venezia). Paola Marini ha aperto 7 nuove sale e inaugurato una importante mostra su Manuzio, ma c’è chi denuncia infiltrazioni e degrado “tali da compromettere l’incolumità delle opere, come quelle di Vittore Carpaccio”.
Capodimonte (Napoli). È partito il servizio di navetta da Napoli a Capodimonte. Intanto Sylvain Bellenger ha deciso di prestare molte opere del Caravaggio, per cui il museo è famoso, alla Germania per una mostra sul barocco a Napoli.
Brera (Milano). James Bradburne sembra il più spigliato e operativo: pregevole l’allestimento di “Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine”, per il quale è rientrata in Italia una pala. Come sponsor si è fatto avanti Ovs.
Reggia di Caserta. Mauro Felicori è famoso per il suo stacanovismo, però deve vedersela coll’ingombrante scandalo affittopoli e la transumanza di parcheggiatori e ambulanti abusivi. Atteso per il 1° giugno il riallestimento dell’eccezionale collezione “Terrae Motus”.
Accademia (Firenze). Cecilie Hollberg si è lamentata con il sindaco Nardella del “caos abusivi e mendicanti” e ha ammesso: “Io più di così non posso fare. Nemmeno aperture straordinarie perché il personale non è sufficiente”.A lei niente soldi Cipe.
Galleria Estense (Modena). Diretta da Martina Bagnoli , qualche giorno fa “la Galleria è entrata nel terzo millennio e sbarcata sui social network”. Dopo i concerti e gli aperitivi, forse si vedrà qualche spicciolo dal Cipe dei 70 milioni per il Ducato Estense.
Gallerie di arte antica (Roma). “A causa della carenza di personale potrebbe verificarsi la necessità della chiusura di alcune sale”: ora che Flaminia Gennari Santori riceverà 9 milioni dal Cipe cambierà qualcosa?
Galleria delle Marche (Urbino). Peter Aufreiter ha adeguato gli spazi per i disabili, ma online il museo è inagibile. Sgarbi plaude il direttore per “aver migliorato l’allestimento e aver negato il prestito di un’opera di Pierodella Francesca”.
Galleria dell’Umbria (Perugia). Appena nominato,Marco Pierini disse: “Bisogna lavorare subito alla comunicazione, fare un sito degno di questo nome. Serve l’abbicci”. Infatti il sito è ancora in allestimento. Il museo ospiterà invece Umbria Jazz.
Bargello (Firenze). Orari e giorni di apertura sono esilaranti, se non incomprensibili: in sostanza, però, il museo diretto da Paola D’Agostino è aperto solo al mattino, con una proroga recente fino alle 17 e fino al 31 luglio. Poi chissà.
Archeologico di Napoli. Paolo Giulierini si è inventato due mostre sui supereroi e sui fumetti: oltre a Batman c’è pure Yoda vicino al busto dell’imperatore Claudio. Ma“la Collezione Egizia è chiusa sino a data da destinarsi e le Collezioni della Magna Grecia” pure.
Archeologico di Reggio Calabria. Il museo è stato riaperto sabato dopo 10 anni di cantiere, 34 milioni di euro pubblici e un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia. Ora il compito di Carmelo Malacrino sarà attrarre visitatori.
Archeologico di Taranto. Eva Degl’Innocenti annuncia: “Più 30% di visitatori rispetto al 2015”, ovviamente tacendo il numero esatto.Anche se il trend venisse confermato, si arriverebbe a 70mila ingressi annuali: cifra ridicola, meno di un terzo del 30° museo italiano.
Archeologico di Paestum. Gabriel Zuchtriegel ha aperto il sito ai matrimoni, con tanto di regolamento e tariffario: da 200 euro in su per le foto e da 2 mila euro per il rito civile. Per quello religioso,“rivolgersi alla parrocchia”(sic).
Palazzo Ducale di Mantova. Pochi giorni fa Peter Assmann diceva che “l’ingresso non è ben individuato” e reclamava “parcheggi, organizzazione delle file, un punto d’informazione, bagni puliti...”. Ma che ha fatto finora a parte invitare il “Chamber Music Festival”?
Palazzo Reale (Genova). Serena Bertolucci si è adoperata per creare una App del museo e un percorso di visita per i bambini. Però Palazzo Reale è ancora poco conosciuto o scambiato per il Ducale, persino da Google. Niente nemmeno dal Cipe.
Polo Reale di Torino. Gli annunci sono fuorvianti; davano la riapertura dei Giardini a Pasqua, ma poi sul sito si legge: “Da aprile sarà avviato il cantiere di restauro”, confermato ora dal Cipe. La cappella della Sindone invece sarà riaperta nel 2017, così dice Enrica Pagella.
Lo sviluppo della cultura che la Repubblica è chiamata a promuovere, secondo l’articolo 9 della Costituzione, non può essere inteso come mero sfruttamento economico del patrimonio. Invece, pare questa la logica del governo Renzi che sacrifica la tutela del paesaggio e del patrimonio, subordinandola alla filosofia dei beni culturali come pozzi petroliferi ». Spiega così lo storico dell’arte Tomaso Montanari le ragioni che lo hanno spinto a lanciare la manifestazione.
Da cosa è nata l’idea?
«Subito dopo l’insediamento, incontrai il ministro Franceschini e mi disse che Renzi voleva eliminare le soprintendenze. Ma disse anche che si sarebbe opposto, che avrebbe fatto di tutto per riformarle senza depotenziarle. Invece è quello che è successo con la legge Madia, che le subordina ai prefetti, e con la riforma Franceschini, che ne cancella le specificità – accorpando le archeologiche a quelle storico- artistiche e architettoniche – e separa tutela e valorizzazione. Come ha scritto Salvatore Settis, la linea di pensiero che emerge considera le soprintendenze e la tutela come una “bad company”, distinta dalla “good company” che sarebbero i musei».
L’intento è rendere autonomi i grandi musei perché siano valorizzati al meglio.
«Sì, ma il problema della riforma è che misura il loro successo solo in base a quanto incassano. Mentre non ci può essere valorizzazione senza tutela. Il Louvre è straordinario perché punta sulla ricerca, che in Italia è mortificata: basti pensare alle soprintendenze lasciate senza risorse e personale ».
Ci sarà però l’assunzione di 500 funzionari.
«Numeri risibili, non sostituiranno neppure chi andrà in pensione. Per completare l’organico del Mibact servirebbero almeno 1.400 professionisti, ma il reale fabbisogno secondo noi è di 7mila ».
E il miliardo stanziato dal Cipe per la cultura?
«Concentrarlo su 33 progetti, mentre intorno si lascia il patrimonio in abbandono perché non si finanzia l’ordinaria amministrazione, è come rivestire un uomo nel deserto con uno smoking, senza però dargli da bere. Si danno 100 milioni a Firenze per l’Auditorium e i Grandi Uffizi, ma intanto a Pisa la chiesa di San Francesco, con la tomba del Conte Ugolino, è in parte crollata e non si fa nulla. Bisogna far vivere quel patrimonio diffuso che è la vera ricchezza, forse non economica ma culturale, del Paese».
"Beni comuni 2.0" a cura di Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis. Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. Il manifesto, 5 maggio 2016 (c.m.c.)
Non è sbagliato presentare Beni comuni 2.0 come un «libro generazionale» come fa Ugo Mattei nella postfazione a un denso volume collettaneo, curato da Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis (pp.220, euro 20). Il libro contiene quindici saggi della generazione «under 35» di giuristi e costituzionalisti che conosce la precarietà lavorativa, non solo quella accademica. Cosmopoliti e nomadi, giovani donne e uomini hanno coniugato un attivismo politico-culturale con la pratica di un diritto non statuale all’insegna della teoria dei beni comuni.
Una teoria che, dalla omonima commissione parlamentare diretta da Stefano Rodotà nel 2007 a oggi, ha esteso un dibattito giuridico internazionale già fiorente sui commons alle esperienze politiche significative come il referendum sull’acqua pubblica del 13 giugno 2011 o l’occupazione del teatro Valle a Roma, avvenuta il giorno dopo. La splendida fotografia di Valeria Tomasulo messa in copertina del volume rappresenta uno dei momenti più intensi sia per la generazione degli autori che per i movimenti italiani, degli ultimi anni.
«Com’è triste la prudenza» recitava lo striscione simbolo di un’occupazione oggi rimossa. Dannazione della memoria e atto di vendetta contro un esperimento politico e giuridico che ha provato a coniugare l’auto-governo della Comune di Parigi con il comunismo dei consigli operai e l’idea di nuove istituzioni aperte alla partecipazione dei cittadini e al «costituzionalismo civico» o «dal basso».
Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. La centralità dei «beni comuni» è abbastanza nota nel dibattito giornalistico e accademico, meno nota in quello politico che sconta un impressionante concentrato di arretratezza culturale e di vera e propria malafede ai danni degli esclusi e dei lavoratori poveri, giovani e anziani. Il progetto di revisione costituzionale voluto da Renzi e dal Pd, così come le loro politiche sulla povertà, escludono programmaticamente ciò che invece costituisce la tensione comune degli autori del volume.
Ciò dimostra che, sia pure da una prospettiva oggi minoritaria, queste analisi sono politicamente situate e prodotto di un conflitto. In questa chiave va valutato il concetto proposto dai curatori del volume di «contro-egemonia». Citazione gramsciana, la «contro-egemonia è l’operazione attraverso la quale una forma di vita usa, piegandola, la forma per fare diversa la vita – nel mezzo delle cose, col mezzo giuridico. Il medio di questa impresa mondanissima è il diritto e con esso i suoi istituti: piegati, sabotati, rifunzionalizzati».
La sfida è quella dell’immanenza: a destra e a sinistra considerata come l’effetto del postmoderno. Per gli autori, che conoscono bene la filosofia, è invece una chance materialistica, un conflitto dentro il diritto e per il suo uso «contro-egemonico». I beni comuni ne hanno offerto più di un esempio. Il libro non va dunque letto solo come «generazionale», ma come un esempio di cosa può fare, oggi, un’intelligenza segnata da una stagione di cui oggi conosciamo i limiti.
Da un’analisi più ravvicinata emerge che la politica non può essere limitata al diritto, né il diritto riassume la pluralità irrappresentabile dell’azione sociale. Il diritto è conservatore, mette in ordine la vita, raramente la potenzia. Un suo uso contro-egemonico può avere valore esemplare, ma non cancella questa differenza, anzi la complica ancora di più. Se la prudenza nella politica è triste, come suggerisce la copertina del libro, non è prudente ignorarne le sconfitte. Anche queste sono utili per la prossima occasione.
Un interessante, approfondimento delle valutazioni strategiche, molto diverse tra loro, sul destino degli ex scali ferroviari milanesi: per completare l trasformazione della città in una macchina per arricchire gli straricchi o per renderla più bella, più equa e più sana? arcipelagomilano.org, 3 maggio 2016
I numerosi articoli sul destino degli ex scali ferroviari milanesi pubblicati sul numero della scorsa settimana di ArcipelagoMilano se, per un verso, testimoniano del largo interesse per tale vicenda, per altro verso meritano un approfondimento delle valutazioni strategiche assai diverse tra loro che vi si sono espresse.
Bruscamente interrottasi nel dicembre scorso con la mancata ratifica da parte del Consiglio comunale dell’Accordo di Programma predisposto dall’assessora De Cesaris e sottoscritto dal Sindaco con Regione Lombardia e FS la vicenda è al centro di divergenti valutazioni tra i candidati sindaci Sala e Parisi, da una parte – che vorrebbero riportarlo in approvazione tal quale il prima possibile – e, dall’altra Basilio Rizzo, che ne propone un sostanziale ridimensionamento del carico edificatorio se vi saranno realizzati anche i grandi parchi urbani o, a parità di carico edificatorio, la sua “perequazione” con la proprietà delle aree dove più utilmente quei parchi urbani erano già previsti negli strumenti pianificatori (Parco Sud, Parco Martesana, ecc.), lasciando sugli ex scali ferroviari solo il verde e i servizi di quartiere e alcuni grandi servizi urbani in corrispondenza dei punti di più alta accessibilità. Non è nota al momento la posizione del candidato sindaco del M5S, Corrado.
L’attuale assessore all’urbanistica Alessandro Balducci, pur ammettendo di averlo ricevuto completamente preconfezionato dalla precedente assessora Ada Lucia De Cesaris, comprensibilmente nel complesso lo difende dichiarandosi disponibile a ridiscuterne solo, da un lato, l’insufficiente quota di edilizia sociale e la sua localizzazione troppo “ghettizzata” in ambiti periferici, e, dall’altro, la necessità di una discussione approfondita sullo scenario complessivo dell’insieme degli scali in una visione di sistema nella città piuttosto che come singole occasioni di sviluppo, di cui tuttavia non specifica obiettivi concreti e definiti.
Giorgio Goggi, già assessore al traffico dal 1996 al 2000 nella Giunta Albertini, infatti, fa acutamente rilevare come«tutta la superficie degli scali è stata lasciata alla libera edificazione privata, con quel po’ di verde e di edilizia sociale che non si nega a nessuno» e che «peraltro, la densità prevista dall’accordo di programma sugli scali non è poi tanto moderata», mentre manca una visione di «una città in cui i grandi servizi (ospedali, università, uffici pubblici) sono collocati sulle linee ferroviarie passanti e sulle metropolitane, più centrali ma accessibili in tempi urbani anche da tutta la Città Metropolitana (e da buona parte della Regione)».
Anche Michele Monte rileva come «la negoziazione dell’accordo sul riuso degli scali, nelle sue diverse versioni, è stato fortemente condizionato dalla pressione svolta dalle società del gruppo RFI per la massima valorizzazione immobiliare di quelle stesse aree» senza considerare adeguatamente che «che queste aree, oltre a portare in dote straordinari valori di rendita urbana, se opportunamente pianificate con funzioni qualificate (in particolari di livello sovracomunale) potrebbero essere in grado di spostare quote importanti di mobilità sul trasporto pubblico, con effetti positivi sull’intero sistema facilmente immaginabili».
Infine Emilio Battisti osserva che «le aree liberate dal sedime ferroviario non possono ridursi a delle opportunità immobiliari oltretutto tra loro slegate, ma devono rappresentare l’occasione unica per avviare una nuova fase della trasformazione del territorio, dove i diversi sistemi (trasporto, ambiente, attività economiche) siano integrati un’unica strategia.Ciò potrà avvenire innanzi tutto attraverso la concentrazione dei nuovi insediamenti nei luoghi a elevata accessibilità, grazie all’offerta di trasporto pubblico alle diverse scale, quale modalità privilegiata e sostenibile per supportare lo sviluppo delle attività di una metropoli moderna in rapida trasformazione» e – pur senza mettere in discussione il dimensionamento complessivo di edificabilità e spazi pubblici – propone che «l’insediamento delle funzioni che richiamano elevata mobilità in prossimità delle nuove stazioni, in modo tale che la questione della maggiore o minore volumetria da insediare nelle aree degli ex scali non sia affrontata solo quantitativamente ma considerata caso per caso in relazione alla condizione dei contesti urbani di appartenenza».
A queste considerazioni manifestatesi su ArcipelagoMilano, per lo più critiche sulla mancanza di visione strategica, affianco quelle di Stefano Boeri che, a margine delle iniziative del Fuorisalone del mobile, ha illustrato la sua proposta “Fiume Verde” che sulle aree degli ex scali ferroviari di Milano propone l’obiettivo della realizzazione di grandi Central Park, analogamente a quanto fatto nell’800 a Manhattan e in altre città americane in occasione di dismissioni di aree infrastrutturali.
Concludo ora con alcune mie valutazioni al riguardo. Condivido, innanzitutto le critiche alla mancanza di visione strategica di quella bozza di Accordo con FS e la necessità, invece, di introdurvi opportune concentrazioni di grandi servizi pubblici e edificazioni in corrispondenza dei punti di più elevata accessibilità ferroviaria, ma non che ciò possa essere fatto indipendentemente dalle densità edificatorie complessive previste, che – come giustamente rileva Goggi – “non è poi tanto moderata”, anche se è circa la metà di quella dei PII e del PGT di Lupi e Masseroli, ma che non può considerarsi un termine di paragone ragionevole.
I nuovi investimenti in infrastrutture ferroviarie quali Circle Line (che serve al riequilibrio dei flussi di traffico in ambito urbano) e Secondo Passante (soprattutto se auspicabilmente con poche fermate urbane, mirando al decentramento e riequilibrio tra Milano/area metropolitana e poli regionali) sono auspicabili e necessari. Ciò che non è accettabile è sovraccaricare di edificazione il riuso degli ex scali ferroviari milanesi (come faceva la bozza di AdP della assessora De Cesaris bocciata in Consiglio lo scorso dicembre) in cambio di investimenti da parte di FS in queste infrastrutture.
Quanto alla suadente proposta di “Fiume Verde” Stefano Boeri, come ha già fatto per il suo Bosco Verticale a Porta Nuova, si dimentica di rilevare che con gli indici edificatori contrattati dall’ex assessora De Cesaris con FS gli edifici attorno ai suoi Central Park avrebbero densità persino superiori a quelle di Citylife e Porta Nuova. Con gli indici edificatori e gli spazi pubblici previsti dall’Accordo non ratificato dal Consiglio comunale, la densità fondiaria media arriverebbe al folle valore di 40 mc/mq, proprio come a Manhattan. Inoltre, in quell’Accordo ai 23 mq/abitante di parchi urbani corrispondono solo 6 mq/abitante di verde e servizi di quartiere (meno della metà dei 18 mq/abitante minimi inderogabili per legge e molto meno persino dei 16 mq/abitante realizzati a Citylife e Porta Nuova).
Vi sembra accettabile che gli abitanti di quei quartieri dovessero andare« “in gita ai grandi parchi territoriali” anche solo per portare i bambini a scuola o al parco giochi? Se, invece, si realizzassero come auspicabile 26,5 mq/abitante di servizi di quartiere, al verde territoriale resterebbero solo 3,5 mq/abitante, con buona pace dei Central Park auspicati da Boeri. Se sugli ex scali si vuol fare anche Central Park l’edificabilità di quelle aree deve scendere da 0,65 mq/mq a 0,45 mq/mq (altrimenti gli edifici finirebbero accatastati più che a Citylife e Porta Nuova); se, invece, si mantiene lo 0,65 mq/mq, cioè realizzando solo il verde e i servizi di quartiere, FS può pretenderne solo lo 0,45 e il rimanente 0,20 va “perequato” con le proprietà dove si realizzeranno i parchi urbani territoriali (Goccia/ex AEM, Parco Sud, ecc.).
Sono due strategie entrambe accettabili e da valutare confrontandone pro e contro caso per caso. Invece, dare tutto lo 0,65 ad FS (come voleva l’accordo non ratificato) con anche Central Park sarebbe un disastro! È il gioco delle tre tavolette e il Consiglio comunale ha fatto bene a bocciarlo e i cittadini farebbero bene a non votare Sala e Parisi che vogliono riproporlo tal quale.
Sono passati quarant'anni dal terribile terremoto che scosse il Friuli. Gli abitanti con fermezza vollero ricostruire prima le fabbriche, poi le case"Tutto com’era o saremo stranieri"E fu il miracolo della ricostruzione. Corriere della Sera, 4 maggio 2016 (c.m.c.)
«Dopo il terremoto siamo rimasti con poche galline perché il pollaio è stato completamente distrutto. (...) Una si chiama Sammanta, una Odet e l’altra Aquila perché assomiglia a una aquila. Le galline hanno la cresta. E la faccia rossa. La mamma dice che si saranno date al bere per lo spavento del terremoto".
Sono passati quarant’anni da quella sera del 6 maggio 1976 in cui l’«Orcolàt», l’orco malvagio dei friulani che dorme sottoterra e già aveva seminato morte nel Medio Evo e giù giù per i secoli, diede uno scossone di 6,4 gradi della scala Richter al Friuli radendo al suolo 45 paesi tra cui Gemona, Buja e Osoppo, devastandone altri 40 e ammazzando 989 persone. Fu una mazzata tremenda. Seguita tre mesi dopo, l’11 settembre, da una nuova scossa…
Quella doppia carognata dell’Orcolàt non si limitò a uccidere uomini, donne e bambini e a fare danni per molti miliardi di euro d’oggi e a sconvolgere le galline descritte da Francesca, III elementare, in un pensierino ora esposto nello struggente museo «Tiere Motus» di Venzone. Scosse, come avrebbe scritto il nostro Alfredo Todisco, la fede stessa di tanti valligiani: «Se c’è un Dio che muove l’universo, come può permettere che un così immenso castigo colpisca e annienti genti tra le più remote e timorate per antica tradizione: proprio l’opposto di Sodoma e Gomorra?».
Dopo lo scoramento, però, subentrò la forza morale di gente che, emigrando in cerca di fortuna (una foto di friulani che costruivano la Transiberiana e reggono un cartello: «evviva la Siberia») si era guadagnata una tale fama che, come ricordò Gianfranco Piazzesi, i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri».
Dice tutto la petizione dell’agosto ‘77 sottoscritta da tutti gli abitanti del borgo medievale di Venzone, distrutto dal sisma: «Respingiamo con fermezza la tentazione di una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe stranieri nella nostra stessa Patria e che, come dimostra il Belice, non riuscirebbe neppure a garantire tempi di esecuzione più brevi». Spiegherà Luciano Di Sopra, l’architetto che col commissario Giuseppe Zamberletti e il governatore Antonio Comelli («Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case») e tanti sindaci fu tra i protagonisti del «Modello Friuli» cui ha dedicato un libro con Rodolfo Cozzi: «C’era chi teorizzava, tra gli urbanisti, l’abbandono delle zone danneggiate per trasferire la popolazione in una “new town” tra Udine e Pordenone, con l’impiego integrale dei prefabbricati». Un orrore. Già commesso a Gibellina, evacuata per dar sfogo alle strampalate fantasie metafisiche di Gibellina Nuova. E destinato a ripetersi a Monteruscello, il quartiere dormitorio tirato su per gli sfollati di Pozzuoli. E poi, ovviamente, nei villaggi satellite dell’Aquila con lo spumante in frigo ma i materiali marciti in tre anni.
In Friuli no, non accettarono quel modello. «Dov’era e com’era», dissero i friulani. Il motto dei veneziani che nel 1902 avevano voluto rifare il Campanile di San Marco uguale a quello crollato. A costo di passare più inverni nei container. Nel fango. Al freddo. E di pensare alle fabbriche, come dicevamo, prima ancora che alle case. Racconterà Marco Fantoni, che aveva visto crollare i capannoni dove produceva mobili: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lamentarsi. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina la produzione ripartì».
A Venzone gli abitanti impedirono alle ruspe di entrare nel borgo distrutto. Buttarono fuori gli «artisti» che vagheggiavano di coprire il Duomo in macerie con una cupola trasparente: omaggio alla pietra che fu. «Lei stia sul suo altare a dire messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi», strillò il sovrintendente al prete, don Giovan Battista Della Bianca. E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti».
«Una scelta di disubbidienza civile», scrive Marisa Dalai Emiliani nel saggio su «Il tesoro italiano eroso dai disastri» nel libro collettivo L’Italia dei disastri curato da Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «mentre si prepara febbrilmente un piano di recupero controllato delle macerie e si inizia, con metodo stratigrafico da scavo archeologico, la catalogazione scientifica del materiale lapideo crollato e recuperato a terra — bifore, stemmi, mensole sagomate, modanature, scalini — isolato per isolato, casa per casa, muro per muro». Un lavoro immenso e certosino.
Durerà dieci anni, la ricostruzione del borgo, prima che l’ultimo degli abitanti possa lasciare le baracche e tornare nella sua casa. E ancor più impegnativa sarà la ricostruzione del Duomo. Ma resterà l’esempio più clamoroso di cosa sia stato il «modello Friuli»: ripartizione dei compiti, efficienza, Stato presente ma non invadente, grande autonomia alla Regione e da questa massima fiducia ai comuni. Senza un «Uomo dei Miracoli» che osasse dire «ghe pensi mi».
Eppure li fecero davvero i miracoli, i friulani. E su tutti gli uomini e le donne di Venzone… «Tutta la cultura accademica», ricorda Dalai Emiliani, chiedeva per quell’antico Duomo in macerie, «la conservazione allo stato di rudere, facendo appello ai principi da poco sanciti nella Carta del restauro». Vincere le ostilità al «dov’era, com’era» da parte della Soprintendenza triestina («prigioniera di stereotipi culturali, alimentati dal terrore e dal rifiuto del possibile “falso storico”») fu dura, per la «Fabbriceria», che riuniva gli esponenti della comunità. Molto dura.
La spuntarono quei testardi abitanti del paese, però. E con l’aiuto di volontari e studenti di archeologia della Cattolica e sotto la guida dell’architetto Francesco Doglioni, «ogni pietra fu numerata e schedata in base alla sua traiettoria di caduta, quindi identificata nella sua collocazione originaria sulla scorta dello sviluppo grafico dei rilievi fotogrammetrici e dotata di una vera e propria carta di identità, con l’indicazione delle misure, della quota, dello stato di conservazione e usura di ogni faccia e un corredo completo di documentazione grafica e fotografica».
Per recuperare i materiali necessari «fu riattivata una antica cava» e per le malte e gli intonaci le sabbie di due corsi d’acqua locali. «Agli scalpellini, eredi dei tagliapietre medievali, si insegnò a lavorare le pietre delle reintegrazioni» ma anche a trattare i 7.650 conci superstiti sdraiati in un grande campo sotto l’occhio del «corpo docente», i mastri muratori del posto e i professori di Architettura di Venezia.
Diciannove anni, ci misero. Ma nel ‘95 il Duomo poteva infine essere riconsacrato. E oggi è lì, bellissimo, a fare coraggio a chi, davanti a certi rovesci della sorte, si sente mancare il fiato. E a ricordare ai turisti e più ancora ai «puristi» sconfitti, di cosa è capace una comunità unita e fiera di se stessa.