Il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2016 (p.d.)
Le fiamme sono state appiccate nella valle tra Monastero e Sibà vicino a numerosi dammusi turistici e spinto dal forte vento di maestrale verso il versante meridionale dell’isola, tra Scauri e Salto della Vecchia. Alimentato da conigli, volpi e altri piccoli animali in fuga trasformati in torce viventi che andavano ad appiccare le fiamme oltre ogni sbarramento, il fuoco ha superato la perimetrale chiusa prudentemente al traffico minacciando una decina di case a Rekale, evacuate per l’aria resa irrespirabile dal fumo e arrivando quasi sugli scogli, davanti al mare. Dove, da tre giorni, i Canadair della Protezione civile attingono l’acqua per spegnere le fiamme (ne rimarranno due, da oggi, con dieci equipaggi, fino allo spegnimento totale) che hanno trasformato la “perla nera del Mediterraneo’’, nota per il suo ecosistema che ai turisti offre anche un bosco che degrada sul lago di Venere, in un mucchio di sterpaglie in cenere.
“Da casa mia, a Bukkuram – dice Pietro Bonomo, ex vigile del fuoco – vedo tre quarti della montagna bruciata. A mia memoria non ricordo un incendio di queste dimensioni’’. E in varie zone dell’isola si è dovuto fare ricorso ai gruppi elettrogeni messi a disposizione dall’Aereonautica militare. Il fuoco ha risparmiato la zona di riserva A ma i danni, denuncia Gabriele, “sono incalcolabili’’:“Siamo di fronte – dice – a un disastro ambientale e idrogeologico, è un attacco mirato e programmato di un gruppo di imbecilli e di criminali collegati a certe sacche di resistenza”, e cioè a chi si oppone all’istituzione di un Parco nazionale proprio nella zona colpita dalle fiamme. Un progetto, accusa il sindaco, che non piace a molti che vedono nel Parco un possibile concorrente nella gestione di risorse pubbliche. “Probabilmente – accusa il sindaco – la presenza di un altro ente che gestisce le risorse del territorio e ne controlla la destinazione ha suscitato fastidi e preoccupazioni. Ma noi siamo pronti, e lo stiamo facendo, a rispondere con denunce aperte e precise e non ci fermeremo. Anche il sostegno della popolazione è una buona ragione per andare avanti”.
Le associazioni ambientaliste e i comitati locali, ovviamente, hanno partecipato con entusiasmo ad entrambe le manifestazioni. In un momento storico in cui i corpi intermedi paiono dichiaratamente sotto attacco, una straordinaria prova di forza e una vera festa della partecipazione e della cittadinanza attiva! In ogni caso, da qualsiasi punto di vista si guardi a quella giornata, un memento fragoroso per una classe dirigente ormai troppo sensibile alle sirene della finanza e, ahinoi, sempre meno concentrata sui bisogni reali della comunità che pretenderebbe “rappresentare”.
Nel caso della Piana, un enorme surplus di carico. Una soglia di sostenibilità già ampiamente superata nello status quo, che s’intenderebbe “stiracchiare” all’infinito purché le grandi opere (aeroporto, nodo TAV, inceneritore d’area vasta) siano varate. Costi quel che costi, ci verrebbe da dire, con profonda amarezza. Nel caso delle Apuane, in modo del tutto speculare e non meno eclatante, un enorme caso a togliere. Un prelievo del carbonato di calcio che, col tempo e con l’affinarsi delle tecniche estrattive, è diventato una minaccia per la sopravvivenza stessa della “nostra montagna”.
Per questo, parlare oggi di Apuane, dei sintomi evidenti della loro incipiente distruzione è, a nostro avviso, tutt’uno col parlare del nostro martoriato Belpaese. Dotato di bellezze naturali e culturali uniche al mondo, eppure spesso incauto o maldestro nel porre in essere misure di tutela ad esse adeguate. Per questo, è nato il Coordinamento Apuano, grande contenitore politico che raccoglie tutte le maggiori associazioni ambientaliste italiane (Legambiente, Italia Nostra, WWF, FAI, CAI), la Rete dei Comitati a difesa del Territorio, la Società dei Territorialisti e i vivacissimi nodi social di Salviamo le Apuane e Salviamo le Alpi Apuane.
Sulla base della grande vertenza, che ha portato finalmente alla copianificazione Stato/Regione e alla definitiva approvazione del Piano Paesaggistico Regionale della Toscana (avvenuta il 27 marzo 2015), abbiamo infatti preso atto che “uniti si vince”. E che uniti avremmo potuto incassare altri importanti risultati, in termini di attuazione e messa in opera del Piano, sui territori. Perché di tutta evidenza ci paiono, in questa fase, due cose. La prima è che dal Piano Paesaggistico incontrovertibilmente si parte. La seconda è che il Manifesto per le Alpi Apuane (che qui alleghiamo come prodotto di questa imponente elaborazione collettiva) può rappresentare per tutti un’ottima bussola per una serena e condivisa navigazione.
« Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornati evidenti iniquità, privilegi, ingiustizie. Ma il giovane proletariato è disgregato e inconsapevole».Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)
Il cielo sopra Milano è azzurro questa mattina, terso come poche volte capita in pianura. Cammino per il quartiere Isola mentre lo sberluccicante grattacielo dell’Unicredit mi ricorda senza possibilità di dubbio quanto sia cambiata la mia città in questi anni. Milano è diventata più bella. La contemporaneità si è fatta materia, si respira un’atmosfera internazionale, i vuoti sono stati riempiti, ciò che era infranto è stato sostituito, hanno perfino piantato qualche albero, a magra consolazione di un’aria sempre irrespirabile. Apprezzo questi cambiamenti ma non sono un ingenuo.
Continuo a camminare lungo la strada che porta verso il centro del quartiere, i faccioni sorridenti dei candidati alle elezioni stonano con tutta questa innovazione, sono inopportuni, un retaggio quasi offensivo. Fra poco ci saranno le elezioni. I cinque anni di Giuliano Pisapia hanno fatto bene alla città, il sindaco ha governato con praticità e buon senso; certo poteva fare meglio, ci sono stati diversi contrasti interni, alcuni assessori sono stati poco coraggiosi, altri hanno avallato con le loro scelte il mancato ricambio generazionale ma la sua giunta è stata la prima che ho sentito un poco appartenermi.
Sono cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, a Milano il berlusconismo – come il craxismo prima di lui – è stata una cosa seria, ha permeato fino in fondo la struttura sociale e culturale della città, l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza: garrula, ottimista e tragicamente incompetente. Noi i fascisti non li abbiamo mai avuti, nelle nostre periferie non c’è mai stata una militanza di destra identitaria, la nostra destra aveva un volto persino peggiore: era fluida, senza appartenenze, ignorante, qualunquista, legata a doppio filo a quella idea illusoria di benessere alla portata di tutti che fu alla base della stagione politica berlusconiana.
E poi c’erano i leghisti ma in città non hanno mai contato nulla, bisogna andare nella Lombardia profonda per tastare con mano la loro influenza, per vedere quelle facce rubizze senza vergogna, orgogliose di non rappresentare niente se non il ben noto provincialismo reazionario. Poi ci sono i ciellini, e sebbene la loro presenza sul territorio sia impalpabile, l’innata prepotenza si sente fin troppo bene nei consigli di amministrazione degli ospedali e delle partecipate statali.
Sono stati fatti molti errori e credo che se ne faranno altri. La politica nazionale del partito democratico ha fatto sentire la sua influenza ed è mancata la forza di opporsi a una strategia di normalizzazione che ponesse fine all’esperimento Milano. Il risultato è che si fronteggiano due candidati molto simili: pallidi, intercambiabili, nel senso che entrambi potrebbero benissimo stare dall’altra parte, comunque deludenti, espressione di una borghesia in chiara crisi identitaria, costretta a campare di rendite e patrimoni novecenteschi.
Chiunque vinca noi abbiamo già perso, ed è evidente passeggiando in queste strade. Sono in piazza Minniti, alla mia sinistra comincia via della Pergola. Al posto della celebre casa occupata hanno costruito delle villette con i terrazzini stile finta vecchia Milano. Più avanti c’era Garigliano, lì francamente non so nemmeno cosa abbiano fatto, forse degli uffici. Come al vecchio Leoncavallo, a pochi chilometri da qua, del quale non rimane nemmeno una traccia estetica della sua esistenza. Ma non voglio essere nostalgico, non rimpiango la mia giovinezza e tantomeno la militanza perduta, non voglio ripetere gli errori della generazione precedente, i vecchi non sono mai meglio dei giovani, sono solo più stanchi.
L’avventura politica dei centri sociali è finita da più di quindici anni, quelle che dovevano essere le nuove parole d’ordine sono state copia incollate da formule ripetute a memoria, a loro volta già eredità faticosa e castrante. E non sarà l’ennesimo partitino all’1,5 % a colmare questo vuoto, impegnati come sono a difendere rendite di posizione personali.
Sono quarant’anni che in Italia manca un’elaborazione politica originale, perlomeno una traccia di avanguardia culturale che guardi al futuro eliminando anche solo per un momento la distinzione fra realtà e sogno. E noi abbiamo bisogno di sogni almeno quanto abbiamo bisogno di conflitto. Basta guardarsi intorno per capire quanto a Milano il conflitto sia stato espulso da ogni ambito sociale, da ogni ambiente di lavoro, da ogni confronto intellettuale. Eppure ci sarebbe spazio per nuove forme di lotta.
Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornate a essere molto evidenti le differenze sociali, le iniquità economiche, i privilegi spudorati, i torti e l’ingiustizia che stanno alla base di ogni esigenza di rivolta. Ma chi subisce è troppo abituato a farlo. Il nuovo giovane proletariato urbano è tramortito, disgregato e inconsapevole, basta lasciargli l’accesso a un livello minimo di consumo per disinnescare alla base ogni forma di ribellione.
E dall’altra parte – che per quanto mi riguarda è sempre la parte del nemico – in alcune frange residuali della media borghesia intellettuale, persiste una sorta di postura ideologica, innocua e spesso caricaturale, molto attenta a ciò che erano un tempo le battaglie del partito radicale – ovvero le questioni di genere, i diritti civili, un vago ambientalismo – ma fatalmente distratta su ogni questioni riguardante la contrapposizione di classe.
Questa contraddizione, che è tutta politica e non c’entra nulla con il costume, ha rappresentato il vero equivoco della sinistra italiana del secondo dopoguerra. Guardando per l’ennesima volta il disperare di questa gente, come faccio ad appassionarmi alla prossima tornata elettorale?
Ci vediamo fra vent’anni, quando non avremo la pensione. Allora si che tornerà il conflitto. Ma sarà devastante.
Per meglio comprendere come gira il mondo è assolutamente necessario cambiare il nostro punto di vista, così da traguardare nuovi orizzonti. Comune-info, 27 maggio 2016 (p.d.)
Ad un certo punto della storia, attorno al XVIII secolo, il mappamondo ha smesso di girare liberamente. Fissato l’asse di rotazione, il Nord è stato posto su e il Sud giù: in alto l’emisfero settentrionale e in basso quello meridionale. Da allora argentini, australiani, sudafricani… devono sempre chinare la testa per trovare le loro patrie nella parte “sotto” della Terra. Come se il globo terrestre non ruotasse intorno al Sole (oltre che vagare in giro per l’universo: “pianeta”, dal greco planao = vado errando).
Ma: “Hasta el mapa miente!” (“Questa mappa mente!”) – esclamò Edoardo Galeano nel suo scritto: 501 años cabeza abajo. “En el espacio no hay arriba ni abajo”. Quella del mappamondo, infatti, fornisce una visione di parte, arbitraria ed eurocentrica. È nato così nel Movimento di Cooperazione Educativa con la Sapienza di Roma, la Bicocca di Milano e la Plaza del cielo di Esquel in Argentina, un gruppo di docenti e insegnati che ha dato vita al “Movimento GloboLocal per la liberazione dei mappamondi dai loro supporti fissi universali, per diventare locali e democratici”.
Se vi salta in mente una qualche connessione di idee con il movimento per la liberazione dei nani da giardino siete fuori strada. Questo è un vero progetto scientifico e didattico che ha avuto riconoscimenti importanti e che permette di posizionare i mappamondi in modo omotetico (coerente e parallelo) rispetto a dove vi trovate sul pianeta. Le semplici istruzioni disponibili nel sito e una bussola sono sufficienti per auto-costruire un supporto al nostro mappamondo che rimette il piano d’orizzonte dove dovrebbe essere, esattamente sotto i nostri piedi, e orienta la Terra correttamente rispetto al sole di giorno e alle stelle di notte. Permette inoltre di comprendere facilmente l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei fusi orari.
Non sfugge il fatto che si tratta di un’operazione che restituisce non solo verità scientifica e storica a un oggetto molto comune nelle scuole e nelle case, ma anche giustizia ai popoli della Terra che abitano gli emisferi “inferiori”.
Incontriamo Nicoletta Lanciano, matematica, docente alla Sapienza, ad un laboratorio organizzato in un liceo. La professoressa pensa giustamente che vi sia una “pedagogia del cielo” capace di far comprendere “i diversi punti di vista locali e di valorizzare la connessioni tra cultura e democrazia, su scala globale”. GloboLocal ha organizzato eventi nel corso delle quattro giornate internazionali dedicate alla liberazione dei mappamondi che si svolgono nei giorni degli equinozi e nei solstizi. Ovviamente. I prossimi, quest’anno, sono: il 20 giugno, il 22 settembre il 21 dicembre. Per partecipare nelle scuole, nei parchi, nei musei… nei diversi posti del mondo si costruiscono “mappamondi paralleli”, li si fotografa e li si confronta. Avranno tutti inclinazioni diverse. Come gli esseri viventi che li popolano.
«L'allarme rosso fatto suonare dalla voragine su Lungarno Torreggiani dovrebbe condurre alla revisione di una politica infrastrutturale in sotterranea che mette palesemente a rischio un centro storico già ipersfruttato.» Il Tirreno, 26 maggio 2016 (m.p.g.)
Firenze crolla sul Lungarno, a pochi passi da Ponte Vecchio. Dicono che è tutta colpa di un grosso tubo dell'acquedotto: di ghisa e quindi vecchio, oppure di fabbricazione più recente? In ogni caso il risultato è impressionante. Ancor più impressionante però che appena due settimane fa un gruppo di intellettuali fiorentini - dall'architetto Giovanna Nicoletta Del Buono all'archeologa Lucia Lepore, allo storico Franco Cardini - abbiano sollecitato l'Unesco a inserire Firenze nell'elenco dei "siti in pericolo".
Del marzo del 2015 è un rapporto dettagliatissimo che costituisce un atto di accusa nei confronti delle ultime amministrazioni locali in specie della Giunta di Matteo Renzi. Responsabile a loro avviso di "opere infrastrutturali in atto e in progetto che interessavano tanto il sottosuolo che la superficie e snaturavano irreversibilmente interi quartieri": escavazione di 12 parcheggi sotterranei nel centro storico; metro-treno nel sottosuolo del cuore di Firenze (piazza Unità, Santa Croce, San Lorenzo,ecc.) e altre gallerie che sbarreranno la strada alle acque di falda e a torrenti dal corso poco conosciuto; infine lo stesso contestatissimo tunnel dell'Alta Velocità.
L'Unesco ha notificato al Comune di Firenze questi rischi. Risposta della Giunta Nardella: un Regolamento per la Tutela e il Decoro del Patrimonio Culturale del Centro Storico che però non si occupa di questioni strutturali bensì dei limiti (sempre benvenuti per carità) agli esercizi pubblici, alla mescita di bevande alcoliche, ecc. Nulla per la mappa dei rischi in una "città d'arte di una estrema fragilità. La sua fragilità è enorme perché interventi e manomissioni possono alterare straordinari e delicati equilibri". Come esordisce la relazione all'ultimo piano urbanistico.
Inascoltata evidentemente. I geologi sottolineano "l'incoerenza fisico-meccanica del sottosuolo fiorentino e la grande importanza del principale acquifero che si trova a 3-4-5 metri dal piano di campagna per quello che riguarda la stabilità delle fondazioni di tutti gli edifici di Firenze, ma anche dei grandi monumenti come la Cattedrale". Il vistoso crollo di ieri sul Lungarno più centrale è dunque soltanto un episodio - per fortuna senza vittime - che però denuncia una patologia idro-geologica ben più profonda ed estesa. Continuare a bucare, a scavare un sottosuolo complesso come quello fiorentino, in un luogo abitato da millenni, può creare ben altri guasti.
La politica delle ultime Giunte ha puntato molto sulla vendita a privati di grandi complessi storici - palazzi importanti ed ex conventi demaniali come Santa Maria degli Angeli comprendente la Rotonda brunelleschiana - trasformati in alberghi o residenze di lusso e per questo dotati di garage e parcheggi pertinenziali. Tutto il contrario della politica urbanistica più avanzata che tende a riportare residenti di ogni ceto sociale, coppie giovani, artigiani, offrendo a fitti economici alloggi e botteghe e pedonalizzando intere zone. Mentre vengono creati all'esterno parcheggi di scambio con le ferrovie locali e con le metropolitane di superficie. Secondo il Piano Vittorini adottato negli anni '90, la stessa Alta Velocità doveva passare da Firenze in superficie con Stazione a Campo di Marte (già ora utilizzata da talune Frecce), senza cioè toccare il centro storico.
Insomma l'allarme rosso fatto suonare dalla voragine su Lungarno Torreggiani dovrebbe condurre alla revisione di una politica infrastrutturale in sotterranea che mette palesemente a rischio un centro storico già ipersfruttato. Revisione basata su una indagine accuratissima del sottosuolo e delle acque che vi corrono. Quelle del "paleo-Mugnone" che ancora potenzia la falda nella città antica, o le "antiche falde del San Gervaso e di tutto il versante di Settignano (...) che continuano a dirigersi secondo le millenarie direzioni verso il centro". Senza contare che Firenze non ha tuttora fognature per le acque "nere". Ci vogliamo pensare seriamente?
Firenze è un corpo fragile. Nel gennaio del 2012 venne giù un enorme blocco dalla storica Colonna della Dovizia, nella centralissima piazza della Repubblica: solo per miracolo non fu una strage.
La patina dorata della città-vetrina coprì presto quelle macerie: e tutto fu dimenticato. Oggi lo spettacolare sfaldamento di un Lungarno, a un passo da Ponte Vecchio e di fronte agli Uffizi, innesca un ben più potente campanello d’allarme: basterà?
La prima cura di cui le città storiche hanno bisogno è assicurare che al loro corpo fragile non manchi il sangue vivo: che sono i cittadini, i residenti stabili. Firenze, da questo cruciale punto di vista, è in caduta libera: mentre gli abitanti scendono vertiginosamente (dal record di 500mila siamo ora a 370mila), la monocultura del turismo scommette di portare la quota annuale dei visitatori fino al tetto fatidico dei venti milioni. In questo quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale.
Qualche settimana fa, su un Lungarno non lontano dal crollo, è comparsa una grande scritta: «No gentrification». Fa una certa impressione che una difficile parola della sociologia urbana (che indica appunto la disneyficazione delle città, con relativa espulsione dei residenti) diventi una bandiera della comunicazione dal basso. È la città dei fiorentini a parlare: quella che teme di finire come Venezia, che è ormai una meravigliosa quinta disabitata.
Come nella Venezia del Mose, anche a Firenze ci si illude di supplire alla mancanza di manutenzione ordinaria attraverso le Grandi Opere: aggiungendo così danno a danno, pericolo a pericolo. Torna in questi giorni attuale la dissennata idea di scavare l’ennesimo, inutile parcheggio sotterraneo in piazza Brunelleschi: cioè a due passi dalla fragile Cupola del Duomo. Ma c’è di peggio: incombe il progetto di sventrare il centro storico per interrare la rete della tranvia, e non si è ancora abbandonato il dispendiosissimo, antiquato e potenzialmente fatale sottoattraversamento Tav della città ottocentesca e delle sue falde acquifere.
Non basta: è prossimo l’ampliamento di un aeroporto che rimarrà comunque da operetta (l’unica scelta sensata era raddoppiare quello di Pisa, e creare una navetta veloce come in una qualunque metropoli occidentale), ma sconvolgerà l’equilibrio idrogeologico della piana fiorentina. Le immagini del Lungarno Torrigiani sventrato sono un monito contro tutto ciò: nessuno potrà più dire che non sapeva quanto il corpo di Firenze sia fragile, delicato, esposto.
Più in generale, invece di continuare a massacrare il tessuto dei nostri centri storici, dobbiamo ricominciare a prendercene cura. Amiamo le nostre città perché la loro bellezza è stata plasmata da una lunga storia: ma quella stessa storia ha prodotto cicatrici, debolezze, pericoli che non possiamo ignorare.
È difficile tenerlo a mente in un’epoca che rimuove i segni del passaggio del tempo dai corpi vivi delle donne e degli uomini, e anche dai corpi (non meno vivi) delle opere d’arte più celebri, condannate ad un continuo, terribile lifting che ambisce a cancellare la storia e troppo spesso ci restituisce una bellezza astratta, disumana, inutile. È difficile perfino saperlo, in un Paese dove invece di muoverci noi alla scoperta delle nostre mille città storiche, preferiamo “movimentare” ogni anno 25.000 tra reperti archeologici e opere antiche e moderne per alimentare un’insensata industria delle mostre. È difficile riconoscerlo di fronte a una politica che rottama le soprintendenze, sradica i grandi musei dal territorio e usa i centri storici come location.
Siamo pronti a usare il Colosseo come un palasport, a far suonare Elton John nel teatro di Pompei, a coprire l’Arena di Verona come un auditorium: consumare, valorizzare, sfruttare sembrano le uniche parole d’ordine. Ci sentiamo gli utilizzatori finali di un patrimonio millenario. Sia chiaro: le città sono fatte per essere vissute, e non dobbiamo scegliere tra passato e futuro. Il punto, però, è costruire un futuro sostenibile, riprendendo ad investire sulla manutenzione ordinaria e sul governo del territorio.
Già nel 1955 Leo Longanesi scriveva che «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione», e uno storico dell’arte come Giovanni Urbani - il quale concepiva invece il restauro come una conservazione generale dell’ecosistema di ambiente e arte, fondata su una manutenzione programmata - dovette dimettersi dalla direzione dell’Istituto Centrale del Restauro per la completa sordità della politica. Gli amministratori sanno che la gestione ordinaria non dà visibilità, gloria mediatica, ritorno di consenso: e dunque spingono sul pedale degli eventi, delle grandi opere o dei restauri ad effetto.
Dobbiamo guarire da questa cecità. Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città: in fondo è proprio così che è nata, lentamente, la loro bellezza. Una bellezza di cui siamo custodi, non padroni.
Nella lista di discussione "Officina dei saperi", aperta da Piero Bevilacqua si è aperta una interessante discussione sull'atteggiamento da tenere sulla questione degli OGM (organismi geneticamente modificati). Ci è sembrato utile offrire ai nostri frequentatori il documento che qui, col consenso dell'autore, pubblichiamo
«Allora, fanno male o non fanno male gli ogm?» andava chiedendo ai suoi ospiti il conduttore Massimo Giannini, con il tono penosamente banale di chi non ha letto neppure un rigo sull'argomento. Vediamo di seguito le questioni.
1° problema. Fanno Male? Marcello ha mostrato da par suo in che senso possono far male e non c'è molto da aggiungere. Io vorrei richiamare l'attenzione sulla banalizzazione del linguaggio giornalistico. Che senso ha dire fa male o non fa male? Gli ogm non sono certo prodotti tossici, non fanno venire il mal di pancia se ingeriti, altrimenti neppure circolerebbero. Ma questa mancanza di tossicità è sufficiente a dire che non fanno male? Se io respiro un pugno di polvere di amianto non farò neppure uno starnuto. Per questo aspetto rinvio al documento di Dario, che mostra i casi di fallimento della scienza in campo alimentare ( dagli oli idrogenati, al glifosato, alla diffusione della BSE tra gli uomini, ecc).Ma fra 10-15 anni ho una probabilità elevatissima di sviluppare un tumore mortale alla pleura o ai polmoni. Questo del “fa male non fa male” rivela una modalità di pensiero di devastante superficialità. Come se noi possedessimo davvero gli strumenti tecnologici per stabilire scientificamente se il mais bt ci fa male. E' evidente che, sotto tale profilo, il principio attivo del bacillo può, ad es., interagire con i batteri del mio intestino o di quello degli animali di allevamento che se ne nutrono, ma - a meno di disturbi acuti – come facciamo a sapere quel che succede nel nostro organismo, vista la grande varietà di cibi che mettiamo nel nostro stomaco ogni giorno? Come si fanno a vedere i risultati nel corso degli anni? Tale riflessione riguarda il rapporto tra il cibo e il cancro. Ci sono studi sui cancerogeni, certo, che dicono qualcosa sui singoli alimenti pericolosi. Ma il fatto è che nessun laboratorio scientifico è in grado di riprodurre il cocktail chimico che si crea nel nostro organismo, dove confluiscono non solo residui di pesticidi, di diserbanti, conservanti, coloranti, sostanze chimiche varie, ecc, ma anche le molecole dei gas di scarico delle nostre saluberrime città. Anche qui rinvio al testo di Dario. Solo la diffusa presunzione tecnologica ci fa supporre che la scienza sia in grado di stabilire la sicurezza di lungo periodo dei cibi industriali. Nessuno screening è in grado di stabilirlo. E' un fatto che tutte le popolazioni dei paesi in via di sviluppo appena assumono il modello alimentare dei paesi avanzati, nel giro di una generazione, acquisiscono la stessa predisposizione ad ammalarsi di cancro dei paesi avanzati. Esistono indagini epidemiologiche schiaccianti in proposito. Perciò i tumori aumentano in maniera esponenziale, ma nessuno è in grado di avventurarsi sulle piste delle loro cause. Il principio di precauzione ricordato da Dario è una soglia giuridica irrinunciabile se non si vuol capitolare del tutto alle ragioni del profitto.
2° problema. Gli ogm vanno accolti, perché la scienza deve andare avanti. Opporvisi è considerato un atteggiamento antiscientifico e irrazionale. Il medico Umberto Veronesi è un campione di questa campagna di discredito. Una ragione, apparentemente di buon senso , a supporto di tale posizione è: gli agricoltori hanno sempre modificato le piante, solo che oggi adoperiamo una tecnica diversa, modificando i geni. Una tale tesi, è stata sostenuta da autorevoli filosofi della scienza, come Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello. Ma è davvero così? Sono uno storico dell'agricoltura e so bene che i contadini hanno continuamente manipolato semi e piante per migliorarli. Ma in 10 mila anni di storia, mai avevano inserito materiate genetico del mondo animale in una pianta. Gli ogm non sono la continuità di una vecchia storia, ma una rottura genetica senza precedenti del mondo botanico.
3° problema. Altra superstizione camuffata da progressismo scientifico: la scienza comunque deve andare avanti, com'è sempre stato nella secolare storia umana. Essa, infatti, ha portato sempre benefici. Attenzione: qui incontriamo un travisamento concettuale ricorrente, soprattutto fra gli scienziati. Si confondono come sinonimi sapere e tecnologia. L'avanzamento del sapere è infatti sempre e universalmente utile all'umanità. Anche quando crea disincanto e dolore ( Leopardi non sarebbe d'accordo). La tecnologia non sempre lo è. La conoscenza dell'atomo è una conquista rilevante nell'esplorazione della materia. La bomba atomica, suo frutto tecnologico, è un'arma pensata per il genocidio. Le assegneremo comunque un'utilità sociale? La perorazione astratta dell'avanzamento della scienza non è altro che un pregiudizio fideistico. Pura superstizione, come credere nell'esistenza del Diavolo. Dunque non sempre la ricerca è utile e necessaria, ci sono strade diverse e non tutte conducono a un fine universalmente utile. Pensate se la fisica moderna non avesse preso la strada della ricerca atomica nella seconda metà del '900, impegnando le migliori menti del secolo e facendo investire ingenti risorse statali per fabbricare ordigni di morte. E pensate se invece avesse studiato le energie alternative, il solare, il vento.... Oggi forse avremmo scongiurato il riscaldamento climatico che incombe sul nostro immediato futuro. Questo punto, dunque, vale a dire quale tipo di strada prende la ricerca, è rilevantissimo per il nostro atteggiamento di fronte alla scienza contemporanea, che è in genere priva di una visione complessa del reale. Ancora oggi quanta ricerca si fa, in gran segreto, per rendere più devastanti bombe, armi e vari dispositivi bellici?
4 problema. Qual'è la ricerca tecnologicamente più avanzata di cui media e politici si riempiono la bocca nel più totale e superficiale conformismo. Qui tocco un punto essenziale, legato agli ogm, ma di valore più generale e che implica una scelta etico-politica. La senatrice Elena Cattaneo, ostinata fautrice di questi nuovi prodotti, li sostiene come il risultato della ricerca scientifica più avanzata. E' una posizione che rivela in maniera cristallina come la scienza possa farsi fautrice di cattive cause. Che cosa c'é di più avanzato negli ogm, rispetto all'agricoltura convenzionale, se non la capacità tecnica di manipolare i geni delle piante come mai era accaduto in passato? Che cosa non la creazione di nuovi prodotti economicamente ( a quanto pare) più competitivi? Ma la Cattaneo e tutti gli altri sostenitori degli ogm non si accorgono di essere attestati su un fronte scientifico arretrato, di combattere non per una agricoltura più innovativa, ma più vecchia. Vecchia nel modo di produrre, anche se getta sul mercato prodotti tecnicamente nuovi. Il mais bt, la soia round up, ecc sono infatti prodotti pensati per diminuire i costi di coltivazione di queste piante ( e per far incassare ingenti profitti di royalties alle multinazionali produttrici, come ricorda Marcello), ma non cambiano in nulla la struttura produttiva dell'agricoltura industriale, anzi la marcano ulteriormente in senso antinaturale. Concimi chimici e diserbanti continuano a inquinare l'aria, la terra, l'acqua di falda, nelle grandi distese argentine, brasiliane, statunitensi in cui sono coltivate. E questa è la novità, il grande portato di tanta ricerca? Nuovi prodotti per il mercato secondo una vecchia logica che non guarda ad altro fine che al profitto? E' questa la frontiera più avanzata della scienza? Produrre di più e a meno costi (?) lasciando invariato il paradigma scientifico su cui si regge da un secolo l'agricoltura industriale?
No, non è questa. Per noi la frontiera più avanzata è' quella che affronta una grande sfida, una sfida che nasce da una visione complessa e olistica della realtà, in cui non ci sono solo i beni agricoli e il mercato, ma anche il mondo dei viventi, uomini e animali e la loro salute. La sfida scientifica vera è quella di produrre cibo in quantità, per una popolazione crescente, come in passato ha fatto l'agricoltura industriale, ma senza avvelenare gli habitat agricoli, rigenerando la fertilità del suolo oggi annichilito da un secolo di concimazioni chimiche, conservando la vita degli animali, producendo beni agricoli sani e di qualità. Ecco la nuova frontiera che tanti scienziati non sanno intravedere, prigionieri di un progressismo scientistico ingenuo e fallimentare. Alla base di tale indirizzo c'è un mutamento generale di paradigma: il suolo non è considerato un supporto neutro su cui far crescere le piante pompandole con concimi chimici, ma è un organismo vivente, un ecosistema che va rigenerato continuamente, come hanno fatto gli agricoltori per circa 10 mila anni nei vari angoli della Terra. L'agricoltura non è una qualsiasi macchina che produce merci, non è una fabbrica di manifatture. Si svolge entro habitat dotati di propri equilibri vitali – il suolo, l'acqua, l'aria, clima, l'umidità, gli insetti, gli uccelli, ecc - con cui fare i conti, da riprodurre e da valorizzare. L'agricoltura convenzionale ha trasformato l'agricoltura elaborata in millenni di storia in una pratica industriale come le altre.
5° problema. C'è un lato della discussione sugli ogm che ci mostra come gli scienziati abbiano un approccio unilaterale, risultando molto sguarniti sul piano del sapere economico e del sapere storico. La senatrice Cattaneo e altri come lei, lamentano di non poter costruire in Italia il mais bt per poter competere con l'analogo organismo g.m. prodotto nelle Americhe. Sotto il profilo economico, diciamo benevolmente, che si tratta di una ingenuità. In Argentina, Brasile, in Usa, ecc si coltivano piante ogm su immense superfici, con pochissimi coltivatori, ecc, ecc. Già ne ha parlato Marcello. Come facciamo a competere con queste realtà produttive a costi bassissimi? E dobbiamo poi competere? Dobbiamo riempire le nostre limitate pianure di concimi chimici e diserbanti, affidando tutto alle macchine?
E infine...un aspetto incredibilmente trascurato. L'immensa biodiversità agricola rielaborata per secoli sulle nostre terre, non si è svolta nel vuoto, ma sui territori, in habitat particolari, e ha dato vita a un patrimonio impareggiabile, che solo la stolta ignoranza di tanti scienziati può sottovalutare: il paesaggio. Agricoltura, modellamento del territorio naturale, creazione di forme estetiche originali, sono state un processo unico. Non solo beni agricoli, ma eleganza delle forme di plasmazione della natura. Come si fa a parlare di agricoltura italiana ignorando la ricchezza di questa storia millenaria fatta di biodiversità, qualità e bellezza, che nessun miracolo tecnologico è in grado di riprodurre? E noi dovremmo inseguire il modello dell'agricoltura ogm? Ma, almeno una volta tanto, ricordiamo che il Modello siamo noi.
«Comunali. Al candidato Fassina Roma offre una forte base di militanza sociale e la più grande università d’Europa. Il volano per un lavoro di aggregazione utile alla costruzione di un modello di intervento per il nuovo soggetto politico»Il manifesto, 25 maggio 2016
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze – dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi – che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con l’immediata partecipazione a una campagna elettorale.
Un battesimo irrimediabilmente sbagliato: una nuova formazione che si pretendeva alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società, inaugurava il suo corso bussando alle porte del potere.
Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso. In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana.
Intanto, c’è da osservare che, col tempo, l’ “imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un’altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all’altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile – poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d’Italia – il suo è l’unico nome, nella rosa dei candidati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città. Ma in questi ultimi tempi il candidato Fassina ha mostrato altri tratti che la sinistra sbaglierebbe a non incoraggiare come meritano, anche al di la della vicenda romana.
Non mi riferisco soltanto allo stile della sua campagna elettorale, territorialmente insediata nella periferia di Tor Pignattara, alla sua disponibilità all’ascolto delle voci e delle competenze varie che circolano nella città, alla frequentazione quotidiana dei cittadini alle prese coi loro problemi quotidiani. Egli ha mostrato un elemento di intransigenza politica che io considero strategica per l’avvenire di una formazione politica autonoma della sinistra italiana. Il suo netto rifiuto di ipotesi di alleanze con il Pd costituisce un aspetto non negoziabile di tutta la partita politica che la sinistra si gioca in Italia in questi giorni e nei prossimi mesi. Su questo punto della discussione non possono esserci incertezze. Esponenti di Sel criticano la rottura netta con il Pd per il pericolo del minoritarismo, ma l’intransigenza nei confronti del Pd non è una ripicca, non è rubricabile come una semplice mossa tattica. Essa nasce da una valutazione strategica, è l’esito di una considerazione storica ormai pienamente decantata. E non è limitata all’Italia.
I partiti che un tempo rappresentarono in Europa la classe operaia e i ceti popolari, gli ex comunisti italiani, i socialisti francesi, spagnoli, greci, i laburisti inglesi (Corbyn a parte) sono i resti di un fronte che ha capitolato, hanno esaurito la loro funzione storica. Essi competono nei rispettivi paesi con i partiti della destra su un identico obiettivo: la capacità di rappresentare gli interessi del capitalismo industriale-finanziario con maggiore capacità di controllo dei ceti popolari.
Chi realizza la riforma del lavoro che rende più flessibile la forza lavoro, facendola meglio accettare alla rispettiva comunità nazionale e lucrando consenso e conferma del proprio potere? Chi, in Italia, Berlusconi o Renzi? Chi in Francia, il governo socialista di Valls o quello di Sarkozy? Chi non comprende quel che è avvenuto di definitivo nel campo della sinistra storica non può avere idee chiare sull’avvenire. Quegli organismi politici sono morti e occorre seppellirli, altrimenti la loro putrefazione trascinerà anche noi.
A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un’avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni.
Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell’Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.
E’ impressionante infatti la moltitudine di comitati e associazioni che operano in città, per difendere i diritti di chi non ha una casa (pur in presenza di migliaia di edifici vuoti), di chi organizza orti urbani, di chi difende beni pubblici e beni comuni dalla privatizzazione, di chi rivendica spazi di libertà associativa in mezzo al furore della mercificazione di ogni brandello di territorio. Questa immensa base di militanza e di volontariato va raccordata, fatta diventare una forza politica se non unitaria almeno aggregata, in grado di esprimere rapporti di forza rilevanti nei confronti dei poteri dominanti locali e centrali.
Ma Roma possiede una potenza politica, culturale, intellettuale immensa a cui nessuno presta attenzione. Mi riferisco alle sue tre Università pubbliche. La Sapienza conta oggi circa 115 mila studenti e diverse migliaia di docenti ed è la più grande Università d’Europa. Anche Roma Tre, cresciuta rapidamente, è diventata una grande Università, con 35 mila studenti, mentre Tor Vergata supera le 30 mila.
Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.
Ho sempre pensato che costituire una istituzione simile alle Maison des Sciences de l’Homme, che operano in Francia – istituti dove operano docenti universitari di varie discipline e realizzano ricerche e interventi a favore dei rispettivi territori regionali – faccia al caso di Roma. Occorrerebbe creare un centro dove un largo ventaglio di saperi è al servizio della città e dei suoi problemi, attivando un canale di comunicazione costante con le tre Università. Ma intervenire oggi nel mondo degli atenei, incontrare gli studenti che pagano rette elevatissime, che non hanno borse di studio, privi di servizi, di case dello studente, di mense, di biblioteche adeguate, ecc. significa entrare in contatto con un pezzo di futura classe dirigente, che oggi nutre solo rabbia e rancore nei confronti dei partiti e del ceto politico di governo.
Nell’Università di Roma, ovviamente si intrecciano problemi cittadini e problemi nazionali: l’Università italiana e soprattutto la Sapienza ha subito colpi micidiali negli ultimi anni. E al suo interno, come nel resto d’Italia, la trasformazione degli studi in una gigantesca pratica aziendale, sottoposta continuamente a valutazioni di efficienza produttiva, crea frustrazione e sfiducia nella vasta platea dei docenti. E’ un’occasione da non perdere per chi si presenta come avanguardia della nuova sinistra: salvare l’Università italiana e ridarle più alte funzioni formative e di ricerca fa parte della battaglia per cambiare Roma ma anche per un nuovo progetto di società.
«Storica vittoria ambientalista nella cittadina dell'Oregon grazie a un referendum contro la costruzione di uno stabilimento industriale pronto a sfruttare le fonti di acqua locali. Un esempio per altri Stati dove la battaglia contro la vendita dell'acqua ai privati è solo agli inizi». La Repubblica online, 24 maggio 2016
E' LA PRIMA contea americana ad aver vietato a una multinazionale di imbottigliare l'acqua delle proprie fonti. Se il caso della cittadina dell'Oregon schieratasi contro il gigante Nestlé dovesse fare scuola, potrebbe aprirsi una fase difficile per l'industria dell'acqua. La piccola comunità rurale di Cascade Locks, 1200 abitanti a 70 km da Portland, nella contea di Hood River, il 17 maggio scorso ha bocciato con una votazione popolare l'apertura di una centrale della company svizzera che avrebbe dovuto imbottigliare 450 milioni di litri d'acqua l'anno, pari al 10% dei consumi totali della cittadina. Una battaglia senza esclusione di colpi, iniziata otto anni fa con la Nestlé alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, e che ha visto fronteggiarsi da un lato i sostenitori del "Provvedimento 14-55", decisi a vietare la vendita dell'acqua ai privati, dall'altro la multinazionale, che prometteva di rimpinguare le casse del municipio (135mila dollari l'anno in tasse) e dare lavoro a 50 persone, "in un paese con una disoccupazione al 18,8%", ha detto più volte il sindaco Gordon Zimmerman.
A prevalere, alla fine, è stato il no allo stabilimento con lo stop al progetto. Tra le argomentazioni degli ambientalisti, il pericolo di una drastica diminuzione di acqua disponibile alla fonte se i piani della multinazionale fossero andati in porto. Hood River County, denunciano gli attivisti di "Local Water Alliance" è un'area a rischio siccità e l'acqua un bene comune troppo importante "per permettere ai privati di sottrarlo alla comunità". "Se oggi l'acqua è una risorsa critica, ancor di più lo sarà negli anni a venire, quando aumenterà la popolazione e diminuiranno le risorse disponibili", scrivono sul proprio sito i difensori dell'acqua pubblica. "Venderla significa consegnare il nostro futuro nelle mani di altri".
La Nestlé, intanto, prende atto della decisione. "Rispettiamo il processo democratico, pur nella convinzione che la decisione presa non vada nell'interesse di Cascade Locks", ha commentato Dave Palais, manager delle risorse naturali per la company. Se il voto del 17 maggio frena l'espansione della multinazionale in Oregon, si teme ora l'effetto contagio. Incoraggiate dalla vittoria di Hood River, altre città che ospitano i giganti dell'acqua sul proprio territorio potrebbero decidere di "ribellarsi". I primi segnali, in effetti, non mancano: a Flathead County, in Montana, gli abitanti hanno manifestato contro l'apertura di un possibile impianto di imbottigliamento, mentre lo scorso marzo, sulle montagne di San Bernardino, le autorità ambientali californiane hanno proposto un'analisi dell'impatto della fabbrica di imbottigliamento di Nestlé Waters North America. Recentemente, nel Maine, sempre alla multinazionale svizzera è stata revocata la concessione per usare la fonte di Fryeburg in seguito alle proteste degli attivisti.
"L'acqua non dovrebbe essere una commodity", sostiene Julia De Graw di Food and Water Watch, associazione ambientalista con sede a Washington che coordina l'opposizione ai piani industriali di privatizzazione dell'acqua in Usa. Sebbene il mercato sia in crescita, con la vendita di bottiglie d'acqua che l'anno scorso ha sfiorato i 14,2 miliardi di dollari (+8,4% rispetto al 2014), lo stop arrivato dal piccolo paese dell'Oregon potrebbe non essere privo di conseguenze. "Utilizziamo l'acqua non più di quanto facciano altre industrie, come l'agroalimentare o il beverage", si è difesa Jane Lazgin, portavoce di Nestlé Waters North America, interpellata dal Washington Post. "Il caso di Hood River County pone un precedente. In futuro si potrà vietare l'utilizzo dell'acqua anche per l'agricoltura e l'industria".
«L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde». Il Fatto Quotidiano online, 22 maggio 2016 (c.m.c.)
Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è il più grande accordo di libero scambio della storia, che riguarda quasi un miliardo di persone e metà del Prodotto interno lordo mondiale. Le trattative sono andate avanti per tre anni (dal 2013) e tredici round tra esperti del Ministero del Commercio estero degli Usa ed esperti della Commissione europea, senza che se ne sapesse niente di preciso, a parte la promessa che l’accordo avrebbe creato più ricchezza, più reddito, più consumi e più posti di lavoro – la stessa promessa di tutti gli accordi di globalizzazione degli ultimi trent’anni, puntualmente smentita dai fatti.
Uno squarcio di luce si è aperto agli inizi di questo mese di maggio, quando Greenpeace ha reso nota una parte consistente dei testi negoziali trafugati (248 pagine, due terzi circa), confermando le peggiori previsioni della società civile europea.
Le ragioni del No sono molte: primo, la segretezza orwelliana con cui l’accordo è stato concepito come se i diretti interessati non avessero il diritto di dire la loro prima della sua stesura definitiva. E questo è tanto più grave perché – come risulta dalle carte rese note da Greenpeace – all’industria invece questo diritto è stato ampiamente riconosciuto.
Secondo, l’azzeramento e/o l’ammorbidimento degli standard sanitari e ambientali europei, più elevati di quegli esistenti negli Usa, che su questo terreno sono meno esigenti dei paesi europei.
Terzo, la violazione del principio di precauzione riconosciuto dall’Unione europea, sostituito dalla richiesta statunitense di un approccio “basato sui rischi”, per gestire le sostanze pericolose piuttosto che di eliminarle.
Quarto, l’istituzione di comitati arbitrali per la soluzione delle controversie, che sono tribunali privati, privi di qualsiasi legittimità democratica. Quinto, le pesanti ricadute che tutto questo avrebbe sui diritti dei lavoratori. “Avevamo ragione noi e la società civile – dice Greenpeace – a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica”.
E’ forse maturo il tempo per chiedersi se è ancora vero che la “legge” della specializzazione produttiva di un paese – sottostante la logica del commercio internazionale – accresce la produttività di quel paese, o se provoca invece la devastazione di intere aree e la miseria delle popolazioni che le abitano. E se è ancora vero che lo sviluppo del commercio estero è un fattore di crescita per tutti i partner dello scambio: l’esperienza degli ultimi decenni dimostra invece che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde.
Le trattative sull’accordo sono ancora aperte ma in uno stadio avanzato, ed è dunque urgente mobilitarsi per bloccarne la conclusione, o introdurvi modifiche sostanziali come chiede la società civile in tutti i paesi europei.
Negli stessi giorni a Venezia si svolgeranno due eventi: ai Giardini si aprirà la Biennale architettura, a Rialto l'antico centro della città si potrà vedere il più clamoroso degli scempi di Benettown: la distruzione del Fòntego dei Tedeschi. La Nuova Venezia, 21 maggio 2016, con postilla
Dal XVI secolo al futuro, dai tedeschi ai francesi, dai legnami ai tacchi assassini, in un'evoluzione di tempi, modi e opportunità. Il commercio, quello delle merci in arrivo dal nord Europa, e poi quelle comunicazioni, nel lungo periodo in cui fu sede delle Poste; il commercio, questa volta del lusso, soprattutto italiano, rimane il cardine del Fontego dei Tedeschi che sta perfezionando la sua muta in attesa di mostrarsi a Venezia e al mondo tra quattro mesi.
Il resto è il risultato dell'incontro, quasi mai facile, tra le vestigia del passato e la tecnologia, tra la storia e la sua proiezione, tra la scala mobile rosso color sangue di bue e i merli di pietra della facciata a guardia del ponte di Rialto. Ecco il Fontego che diventa Fondaco, anzi “T Fondaco dei Tedeschi”, secondo la ristrutturazione voluta da Edizione - la società del Gruppo Benetton proprietaria dell'edificio –, affidata allo Studio Oma dell'architetto Rem Koolhaas e alla Sacaim, e ora, a lavori praticamente conclusi, salda nelle mani del marchio Dfs (Duty Free Shop), controllato dal Gruppo Lvmh, che ha avuto in affitto l'edificio cinquecentesco.
postilla
Lo scempio è compiuto e, dal 29 giugno, visibile. Occorrerebbe affiggere, a memoria dei posteri, una lapide con l'elenco dei protagonisti e dei complici del delitto. La città e i suoi cittadini e abitanti hanno perduto uno spazio pubblico vitale per decenni, l'umanità un elemento di rilievo del patrimonio storico e artistico della città. In cima alla lista dei carnefici e dei loro complici non ci sarebbe solo quel signore, padrone di Benettown, che un sindaco filosofo definì "un mecenate", ma anche un paio di sindaci della città, la dirigente della sovraintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Venezia, gli architetti che hanno concepito e implementato il progetto, e via enumerando. Chi volesse contribuire a comporre l'elenco dei nomi da inserire in una lapide siffatta può cominciare a sfogliare eddyburg, scrivendo sull'apposito "cerca le parole" "Fontego dei Tedeschi".
La Repubblica, 20 maggio 2016 (m.p.g.)
Nel passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura assume un ruolo centrale – lo ha ricordato su queste pagine Stefano Rodotà – il rapporto diretto tra il capo e la folla. Questo rapporto tende a delegittimare, e quindi a far saltare, i corpi intermedi: specie quelli che non poggiano sul consenso, ma sul sapere tecnico o scientifico. Da questo punto di vista, ciò che sta accadendo nel governo del patrimonio culturale italiano appare particolarmente significativo.
Fin da quando era sindaco di Firenze, l’attuale presidente del Consiglio ha eletto il discorso sull’arte come terreno privilegiato del suo dialogo diretto con il popolo. La ricerca (ovviamente infruttuosa, perché affrontata fuori da ogni protocollo scientifico) della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio permise di costruire una campagna di comunicazione contro la comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte: il sindaco li definì «presunti scienziati», accusati di non essere «stupiti dal mistero» a causa di un «pregiudizio ideologico».
Allo stesso periodo risale il duro giudizio sul sistema di tutela del patrimonio basato sull’autonomia tecnico-scientifica: «Sovrintendente – scrisse Renzi in un suo libro – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?»Oggi che tutto questo è divenuto programma di governo (concretizzatosi nel silenzio-assenso e nella confluenza delle soprintendenze, accorpate e avviate verso l’irrilevanza, nelle prefetture), il leader torna a parlare di arte direttamente alla folla.
Renzi ha annunciato che «ci sono, pronti, 150 milioni di euro che vanno assegnati entro il 10 agosto. Le segnalazioni dovranno arrivare entro il 31 maggio. Pompei e gli Uffizi aiutano l'Italia a tornare orgogliosa di se stessa, bene! Ma abbiamo bisogno anche del piccolo borgo dimenticato o del museo abbandonato o della chiesetta da ristrutturare. E meglio ancora se un gruppo di cittadini, una associazione, una proloco, una cooperativa, una impresa innovativa si offre di gestire questi beni come luoghi dell'anima per la comunità. Dunque, scrivete a bellezza@governo.it». La semantica è esplicitamente commerciale: i monumenti devono «ripartire», come se fossero aziende; le chiese non si restaurano, ma si «ristrutturano»; i siti restaurati con denaro pubblico possono venire affidati in «gestione» indifferentemente a gruppi di cittadini o a «imprese». Alla tutela pubblica sistematica del patrimonio diffuso (prescritta dall’articolo 9 della Costituzione) subentra una sorta di lotteria in cui i cittadini sono invitati a rivolgersi direttamente al capo, ormai libero dal corpo intermedio dei professionisti della tutela e unico difensore della «bellezza». È come se si accorpassero e si depotenziassero gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, e poi il presidente del consiglio chiedesse di segnalare alcuni malati all’indirizzo guarigione@governo.it, dicendo che i «più votati» saranno risanati.
Da un punto di vista della tutela, questa svolta significa un arretramento secolare: la rinuncia a salvare tutto il patrimonio, la scelta di concentrarsi sui grandi siti redditizi (che hanno ricevuto 850 milioni sul miliardo stanziato il primo maggio) e di destinare una quota residuale (il restante 15%) a qualche monumento ‘minore’, in una sorta di ribaltamento per cui è ora lo Stato ad adottare il format dei «luoghi del cuore» del Fai. Da un punto di vista politico questa svolta sancisce l’irrilevanza del Ministero per i Beni culturali, dimostrata dal sempre più frequente oscuramento di Franceschini da parte del premier.
Da un punto di vista culturale, infine, questa antologizzazione del patrimonio attraverso il televoto significa l’abbandono della dimensione storica: Renzi aveva scritto, in quello stesso libro, che la bellezza «se è morta non è bellezza, al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». È questo il progetto del governo anche per quanto riguarda la formazione: la ministra Giannini ha spiegato che «quello che serve oggi nella vita non sono contenuti di una materia o di un'altra: per questo non abbiamo messo più ore di storia dell'arte». E nell’illustrazione ufficiale della Buona Scuola si legge che gli studenti non dovranno studiare la storia dell’arte, ma «valorizzare le nostre meraviglie artistiche all'interno dell'offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali».
Che la direzione sia decisamente mercatista lo ha spiegato senza filtri la stessa Giannini, dichiarando, il 4 maggio scorso, che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».
Forse è arrivato il momento di chiederci quale sia il ruolo del sapere in una democrazia d’investitura dominata dalle richieste del mercato.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016
“7 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.074 Comuni (il 77% del totale) sono presenti abitazioni in aree a rischio. Nel 31% sono presenti addirittura interi quartieri e nel 51% dei casi sorgono impianti industriali. Nel 18% dei Comuni intervistati, nelle aree golenali o a rischio frana sono presenti strutture sensibili come scuole o ospedali e nel 25% strutture commerciali. … nel 10% dei Comuni intervistati sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio”.
Nella premessa a “Ecosistema a rischio 2015″ di Legambiente i risultati riportati, inequivocabili. Dopo il recente Rapporto di Ispra “Dissesto idrogeologico: pericolosità e indicatori di rischio”, arriva la presentazione dei dati sull’esposizione a rischio frane e al rischio idraulico nei Comuni italiani e sulle attività volte alla mitigazione del rischio da parte delle amministrazioni comunali. Il trend ancora negativo. Come confermano i risultati dell’indagine. A partire da quelli relativi ad “Interi quartieri in aree a rischio”. Non singole abitazioni, ma parti di agglomerati urbani. Insomma spazi estesi nelle quali si concentrano grandissime quantità di persone. Si va dai 68 del Piemonte e i 51 della Lombardia, ai 33 dellaToscana, i 30 della Sicilia, i 29 delle Marche e della Calabria, i 27 di Campania e Emilia Romagna, i 23 del Veneto e i 20 della Liguria, passando ai 16 del Lazio, i 13 della Puglia, i 12 dell’Abruzzo, gli 11 della Sardegna, i 9 della Valle d’Aosta, i 7 del Friuli Venezia Giulia e dell’Umbria, fino ai 5 dellaBasilicata.
Molti altri gli elementi che contribuiscono a definire l’estrema precarietà nella quale si trova una gran parte dei territori italiani. I pericoli che insidiano parti considerevoli delle diverse regioni. Tuttavia ad aggravare il quadro un elemento nodale. La parzialità dell’indagine. Già perché, come è sottolineato nel Rapporto di Legambiente, i dati presentati costituiscono il risultato del questionario inviato a 6.174 amministrazioni comunali “in cui sono state perimetrate aree a rischio idrogeologico“. Questionario al quale hanno risposto in 1.444, dei quali 45 in maniera incompleta e “quindi non assimilabili agli altri”.
Il dettaglio, per regione, più che un semplice elemento statistitico, sembra un illuminante indicatore delle politiche, certamente comunali ma anche regionali, in tema di urbanistica e di controllo del territorio, oltre che di trasparenza dei dati. Così in Abruzzo 40 quelli che hanno fornito risposte su 253 interpellati. InBasilicata 26 su 123. In Calabria 60 su 408. In Campania 64 su 474. In Emilia Romagna 70 su 265. In Friuli Venezia Giulia 39 su 146. Nel Lazio 55 su 364. In Liguria 35 su 187. In Lombardia241 su 889. Nelle Marche 82 su 235. In Molise 11 su 119. InPiemonte 306 su 1.045.
In Puglia 52 su 181. In Sardegna 29 su 243. In Sicilia 63 su 271. In Toscana 74 su 275. In Umbria 27 su 92. In Valle d’Aosta 33 su 74. In Veneto 84 su 278. Numeri che, a prescindere dalle percentuali differenti riscontrabili nelle diverse regioni, sanciscono l’assoluta volontà di una cospicua quantità di amministrazioni comunali di non voler dare conto delle proprie decisioni. Di non aprirsi al giudizio dei cittadini. Proprio come è accaduto con il “Censimento del cemento” lanciato nel 2012 dal Forum nazionale “Salviamo il paesaggio-Difendiamo i Territori” con l’intento di analizzare capillarmente il numero e lo stato degli edifici costruiti, agibili e in buone condizioni ma abbandonati e inutilizzati.
“Delle circa 1000 risposte che in quattro anni sono arrivate al forum, la metà sono risultate negative. In altri casi invece (circa 250) le risposte erano incomplete o incongruenti rispetto ai dati ufficiali. Gli unici questionari compilati in maniera rigorosa, completa e con un buon indice di affidabilità, si sono dunque limitati ad una manciata di decine” ha scritto la Redazione nel febbraio 2016. Le difficoltà incontrate da Salviamo il Paesaggio le medesime di Legambiente. Le amministrazioni continuano, ancora troppo spesso, a cannibalizzare i propri territori e a disinterissarsi della loro sicurezza. Scelleratamente continuano a non essere “trasparenti”. Ad impedire che sia possibile usufruire di dati completi. Così quanto le due questioni siano tra loro in relazione diventa sempre più chiaro. Più macroscopico il legame tra un utilizzo disinvolto del suolo e l’ostracismo a fornire informazioni sulle politiche adottate.
Il 16 maggio è diventato legge il Freedom information act, il decreto previsto dalla Riforma Madia sulla Pa per liberalizzare l’accesso agli atti della Pubblica amministrazione da parte dei cittadini. La situazione che ha impedito la completa realizzazione delle operazioni del Forum e di Legambiente dovrebbe mutare. Ma non è detto che sarà davvero così.
Il manifesto, 19 maggio 2016
«So chi mi vuole morto». Giuseppe Antoci è provato. In ospedale, sotto shock, abbraccia la moglie, i figli. Con lui c’è Rosario Crocetta che tre anni fa lo ha voluto alla guida del Parco dei NebNebrodiordi per fare pulizia della mafia tortoriciana, alleata con i clan dei Santapaola, che lucra sui terreni pubblici grazie a connivenze. Antoci è scosso. Davanti a sé ha immagini confuse, caotiche. Nelle orecchie l’eco degli spari. «Sono vivo per miracolo, mi hanno salvato gli agenti di scorta», ripete. È il racconto di un sopravvissuto.
È l’una di notte, tra martedì e mercoledì. Antoci sta rientrando a casa, a Santo Stefano di Camastra, due ore di strada da Palermo e due da Messina, dopo una cena per l’apertura di un albergo, a Cesarò. È stanco. Si accomoda sul sedile posteriore della blindata, una Lancia Thema, e si addormenta mentre l’auto è in viaggio. Alla guida c’è uno dei due agenti di scorta. Due anni fa Antoci aveva ricevuto il primo avvertimento. «Finirai scannatu tu e Crocetta», c’è scritto in quella lettera spedita da Sant’Agata di Militello, nel messinese. L’anno successivo il secondo avvertimento. Il centro di smistamento delle Poste di Palermo intercetta una busta con due proiettili diretti ad Antoci e al dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro. Il comitato per l’ordine e la sicurezza gli assegna la tutela.
Sulla provinciale è buio pesto, tra i comuni di Cesarò e San Fratello. Dietro la blindata a bordo di un’altra auto c’è il vicequestore Manganaro, commissario a Sant’Agata, che sta rientrando con un collega. Anche loro sono reduci dalla cena, trascorsa assieme ad Antoci e ad altri.
All’improvviso la blindata del dirigente rallenta: in mezzo alla strada ci sono dei massi. E soprattutto c’è una vettura messa di traverso. L’agente alla guida, frena. Antoci si sveglia. È un attimo. Poi il caos. Dall’auto di traverso vengono esplosi diversi colpi d’arma da fuoco: tre vanno a segno, forando lo sportello posteriore sinistro della blindata, proprio dove è seduto il presidente del Parco. Il vice questore Manganaro risponde subito al fuoco, anche i due agenti di scorta sparano. Gli attentatori, «quattro o sei» persone racconterà poi Antoci agli investigatori, fuggono in auto. Gli agenti continuano a sparare nell’oscurità, seguendo le luci posteriori della vettura in fuga. Sull’asfalto ci sono tracce di sangue, probabilmente uno dei componenti della banda è rimasto ferito. Non solo. Gli investigatori, giunti nel luogo dell’agguato, scoprono un altro elemento ancora più inquietante: vengono rinvenute due molotov. Il commando, secondo gli investigatori, non avrebbe avuto il tempo di lanciarle per la prontezza di reazione dei poliziotti. «È probabile che volessero incendiare l’auto obbligandoci a scendere, per essere bersagli più facili da colpire e uccidere», è convinto Antoci.
Laurea in Economia e commercio, capo area in Sicilia della Banca Sviluppo, azienda di credito sorta nel 2000 e con sede in otto regioni, Antoci, 48 anni, alle politiche del febbraio 2013 si candidò al Senato con Il Megafono, movimento fondato da Crocetta; ma non venne eletto. Poi la nomina alla guida del Parco, per otto anni gestita da commissari, che nell’area dei Nebrodi rompe quella sorta di “patto sociale” che andava avanti da decenni e che consentiva l’utilizzo per pascolo, a canoni irrisori, dei terreni demaniali. Alla rottura contribuisce anche il sindaco di Troina (Enna), Fabio Venezia, anche lui sotto scorta per le numerose minacce ricevute. Quando Troina si aggiunge agli originari comuni del Parco porta in dote 4.200 ettari di terreni a pascolo che il sindaco rifiuta di concedere alle solite condizioni. Antoci trova un alleato e comincia la serrata verifica dei contratti, su impulso del governatore Crocetta che lo affianca nella battaglia di legalità.
L’allargamento dei controlli (il Parco ha un’estensione di 86 mila ettari e comprende 24 comuni) e la richiesta di certificazione antimafia e dei carichi pendenti avviene anche per chi intende stipulare o rinnovare contratti di piccolo importo, e comunque ben al di sotto della soglia prevista per legge. Alcuni beneficiari si rivolgono al Tar, perdono. Alcune concessioni di terreni vengono revocate e dai tribunali arrivano sentenze che inchiodano gli affittuari, che insieme ai privilegi concessori perdono anche i lauti finanziamenti dell’Unione europea, calcolati sugli ettari a disposizione. Un affare milionario osteggiato dal presidente del Parco dei Nebrodi anche attraverso un protocollo di legalità firmato con la Prefettura di Messina, nel marzo del 2015.
Il tentato omicidio del presidente del Parco regionale dei Nebrodi non è un fatto isolato, anche se finora in nessun parco naturale si era giunti a tanto. Quest’inverno una testa di capretto mozzata è stata appoggiata sul cofano dell’auto del presidente del Parco d’Aspromonte, che aveva già subito negli anni scorsi diverse minacce (con relativi proiettili in buste consegnate dal postino). Ed in passato anche i presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio, che faceva abbattere le case abusive, avevano subito minacce. Ma, l’assalto più pesante, anche se poco conosciuto, è quello che le aree protette subiscono in tutto il mondo a causa di questo modello di sviluppo.
Secondo la Iucn, l’International Union for the Conservation Nature, la superficie delle aree protette nel mondo è pari oggi a circa il 13 per cento delle terre emerse. Ne fanno parte tanto le riserve naturali a conservazione integrale, quanto i parchi naturali, che si distinguono in nazionali e regionali ed hanno un livello di protezione ambientale articolato in base al grado di antropizzazione dell’area. In Italia l’estensione delle aree protette è cresciuta esponenzialmente pochi anni dopo che è stata varata la legge 394/91, fortemente voluta dai Verdi e dal primo ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo.
Si è passati così da 5 parchi naturali nazionali esistenti al 1991 ai 23 di oggi, più un centinaio di parchi naturali regionali e riserve di natura integrali. Purtroppo, a questa crescita quantitativa si è accompagnata, in tutto il pianeta, una perdita di qualità e valore d’uso dei parchi naturali, soggetti agli attacchi di interessi economici grandi e piccoli, a quella «guerra al vivente» ben descritta e documentata da Jean Paul Berlan (Bollati-Boringhieri, 2001).
Dall’Alaska alla Colombia, dall’Equador alla Nigeria, dall’Australia ai grandi laghi della Federazione Russa, la guerra economica ai parchi naturali viene condotta in nome del progresso e dello sviluppo. Le leggi nazionali vengono fatte a pezzi, gli Stati concedono deroghe e contraddicono se stessi, premettendo alle imprese multinazionali di sfruttare risorse naturali, far passare oleodotti, scavare nuove miniere, sfruttare le rocce bituminose ( shale gas), come nei parchi delle Rocky Mountains. Un caso emblematico, che è stato raccontato su questo giornale da Giuseppe Di Marzo e dalla indimenticabile Giuseppina Ciuffreda, è quello degli indios U’wa nel Nord della Colombia.
La multinazionale nordamericana Oxy aveva ottenuto dal governo colombiano la possibilità di sfruttare il petrolio presente nelle montagne dove vivono da sempre gli U’wa. Era sempre andata bene alla Oxy (Occidental) come alle altre multinazionali presenti nel paese dei narcotraficantes. Bastava pagare qualche tangente, al governo e/o alla guerriglia o, più spesso, a tutti e due, e le cose si mettevano a posto. Non avevano considerato che in quelle montagne viveva un popolo che aveva ancora una cultura, un’identità e un credo. Non sapevano che per gli U’wa «il petrolio è il sangue della terra , le sue vene, che gli danno la vita» . Se togli il petrolio a quelle montagne è come se togliessi il sangue ad un uomo. Non pensavano che un piccolo popolo potesse arrivare a far causa ad una potente impresa multinazionale, che arrivasse a vincere la causa di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti. E’ una storia che ha un grande significato: quando un luogo ha una forte valenza simbolica per un popolo non è in vendita, non c’è denaro, né tangenti che possano renderlo merce. Come ci ha mostrato Karl Polanyi in La sussistenza dell’uomo, la conquista economica di un territorio è preceduta dalla sua disintegrazione culturale.
Da una parte, il mito del Progresso e dello Sviluppo, che sottende i grandi interessi economici, dall’altra popolazione locali ed associazioni ambientaliste con pochi mezzi, che lottano per la sopravvivenza di siti naturali, di parchi e riserve di biosfera. E’ una lotta che nell’era del neoliberismo trionfante diventa sempre più dura, anche nel nostro paese.
E’ da quando Altiero Matteoli è diventato ministro dell’Ambiente nel 2001 che è iniziato in Italia un lento ed inesorabile piano di emarginazione, sterilizzazione delle velleità di autonomia e tutela ambientale dei Parchi nazionali e regionali.
Dopo la fortunata parentesi di Edo Ronchi, il ministero dell’Ambiente è stato gestito, non solo dal centro destra, sempre più come stampella per i disegni di grandi investimenti e grandi opere nel nostro paese: dalla Tav al Ponte sullo Stretto, la V.i.a. (Valutazione di impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente è stata sempre positiva. Da Portofino, dove il parco regionale è stato fortemente ridimensionato, al Parco regionale di Bracciano oggetto di un grande progetto speculativo, al terzo traforo del Gran Sasso, nel cuore del Parco nazionale, che mette a repentaglio le risorse idriche di 800mila abitanti, all’aeroporto di Malpensa che impatto fortemente sul prezioso Parco del Ticino, polmone verde della metropoli, fino all’abuso di parchi eolici ed elettrodotti che attraversano parchi ed aree protette.
E questi sono alcuni casi fra i tanti, parte di un attacco quotidiano all’ambiente ed agli ecosistemi in cui ‘ndrangheta, camorra e mafia possono all’occasione costituire il braccio armato di interessi locali e/o internazionali, ma i mandanti sono altrove.
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore ... (continua la lettura)
Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze della sinistra radicale - quelle, per intenderci, che vanno dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi - che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con la sua immediata partecipazione a una campagna elettorale. Un battesimo irrimediabilmente sbagliato, perché una nuova formazione che pretendeva di essere alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società civile, inaugurava il suo corso bussando immediatamente alle porte del potere, per avere un posto nelle istituzioni della rappresentanza. Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso.
In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana. Intanto, c'è da osservare che, col tempo, l' ”imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un'altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all'altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile - poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d'Italia - il suo è l'unico nome, nella rosa dei canditati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città.
A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un'avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni. Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell'Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.
Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.
Italia Nostra sezione di Modena, 16 maggio 2016 (p.d.)
Si deve riconoscere al ministro Franceschini una speciale capacità di iniziativa, uno straordinario impegno politico. Risparmiato dal radicale ricambio, nella compagine governativa del giovane presidente del consiglio è l’unico esponente della classe politica del partito di cui era stato segretario (sia pure in una fase di transizione). Il ministero che gli è assegnato, nella considerazione comparativa dei ruoli, occupa una posizione non primaria, anzi tradizionalmente residuale. Ma il nuovo titolare si sente “alla guida del più importante ministero economico italiano”.
Il ministero voluto da Spadolini nel 1974 (istituito come si ricorderà per decreto legge) che Veltroni, il vicepresidente di Prodi, aveva voluto rifondare nel 1998 come nuovo ministero per i beni e le attività culturali, era stato da appena un anno caricato dal precedente governo Letta – legge n.71 del 2013 – delle attribuzioni nella materia del turismo trasferite dalla presidenza del consiglio. Un connubio imbarazzante (perché non al ministero dello sviluppo economico?) voluto nell’implicito ma certo presupposto che la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio debba fare i conti con il turismo se non proprio ne sia l’ancella. La nuova attribuzione è recente e ancora non ci si è misurati nel compito della non facile armonizzazione, oltre alla messa in coda alla denominazione del ministero di quel compito aggiunto, la T finale dell’acronimo MIBACT con qualche difficoltà di pronuncia.
Ebbene il governo Renzi è operante dalla fine del febbraio 2014 e già nel maggio il ministro Franceschini propone al consiglio dei ministri, che glielo approva il 31 di quel mese, il d. l. (n. 83) con le “disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”. Sarà convertito in legge (28 luglio 2014, n. 106) e registrato dalla stampa e dalla distratta opinione dei non addetti come il provvedimento dell’art-bonus, dal suo primo articolo che riconosce il credito di imposta nella misura del 65 per cento – ma poi del 50 per cento – alle erogazioni liberali in denaro a favore di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, a istituti e luoghi di cultura di appartenenza pubblica e alle fondazioni lirico-sinfoniche. Sono sedici misure disparate, sette delle quali a sostegno del turismo, dalle quali non è dato di risalire a un disegno organico (se non l’inseguimento delle proclamate urgenze, ma è difficile cogliere i casi straordinari di necessità che legittimerebbero il decreto legge). Mi limito a dar conto di due disposizioni che riflettono una attitudine di insofferenza verso l’esercizio ordinario della tutela: l’ulteriore semplificazione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica e la costituzione delle commissioni così dette di garanzia per il riesame dei provvedimenti dati dai soprintendenti nell’esercizio della tutela, fino a convertire in sì il diniego dato in sede di conferenza di servizi: una misura questa, introdotta con la legge di conversione, gravemente lesiva della autonomia tecnico-scientifica dei soprintendenti. Nessuna preoccupazione di armonizzare tra loro le discipline di tutela e turismo, essendo le misure di “rilancio del turismo” (articoli 9, 10 11, 11-bis 13, 13-bis) del tutto indifferenti rispetto ai provvedimenti di promozione del patrimonio culturale.
Ma è nell’articolo 14 di questo decreto legge convertito che sta il germe della più ambiziosa riorganizzazione del ministero, essendo appunto qui date le misure urgenti per quell’obbiettivo e “per il rilancio dei musei”, con modifiche all’art. 54 del d.lgs. 300 del 1999 di organizzazione del governo, per consentire al ministro l’adozione di misure di riordino al dichiarato fine di conseguire ulteriori riduzioni di spesa (oltre a quello, francamente pretestuoso, di migliore gestione degli interventi a seguito di eventi calamitosi), introdotto innanzitutto (a smentire quel fine) un vistoso rafforzamento della struttura burocratica centrale dove il numero degli uffici dirigenziali generali “non può essere superiore a 24”, contro le dieci direzioni generali coordinate da un segretario del vigente ordinamento secondo il decreto legislativo del 1999, così modificato. Al ministro è data la facoltà di riorganizzare con propri decreti e in via temporanea gli uffici del ministero esistenti nelle aree colpite da eventi calamitosi; e di trasformare in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa i poli museali e gli istituti e i luoghi della cultura statali e gli uffici competenti su complessi di beni di eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico. Decisiva la modificazione introdotta nell’art. 14 in sede di conversione dove con enfasi francamente di maniera, al dichiarato fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione della cultura, anche sotto il profilo della innovazione tecnologica e digitale, si rimette al regolamento di organizzazione del ministero “ai sensi della normativa vigente” di individuare i poli museali e gli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici dirigenziali. Con questo lessico burocratico è avviato, come sarà reso evidente dal consecutivo (non rimane che attendere giusto un mese) regolamento di riorganizzazione del 29 agosto, il processo di scorporo dalle soprintendenze dei musei che delle soprintendenze, fucine territoriali della tutela, sono storicamente essenziali elementi costitutivi. L’adeguamento agli standard internazionali si deve intendere perseguito dall’innovativo criterio di conferimento degli incarichi direttivi dei supermusei attraverso la selezione aperta alla partecipazione esterna al personale tecnico scientifico, perché qui c’è bisogno “di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi di cultura”. Per legge dunque una patente di incompetenza agli attuali direttori, la mortificazione del personale tecnico scientifico che ha maturato specifiche conoscenze e competenze nella prassi operosa della cura delle raccolte museali statali. Il ministro, lo ha detto e ripetuto, vuole un reclutamento dalle esperienze museali straniere che ben poco hanno in comune con le originalissime istituzioni del nostro paese.
Al ministro è bastato un mese (già si è detto) per proporre e far approvare dal consiglio dei ministri il regolamento di riorganizzazione del ministero, con vantati contenuti di radicale innovazione e con estensione alla materia del turismo recentemente trasferita dalla presidenza del consiglio (è lo stesso Franceschini a presentarlo alla stampa come “la rivoluzione dei beni culturali”), adottato con decreto del presidente del consiglio dei ministri in deviazione dalla disciplina dell’attività di governo e ordinamento della presidenza del consiglio (art.17 della legge 23 agosto 1984, n. 400) che vuole approvati con decreto del presidente della repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri, e sentito il parere del consiglio di stato e delle competenti commissioni di camera e senato, i regolamenti di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Nel rispetto di questo vincolante modello erano stati approvati tutti i precedenti regolamenti di organizzazione del ministero beni culturali che si sono succeduti con irragionevole frequenza, rendendo persistentemente instabile l’assetto funzionale del ministero specie per i modi operativi degli uffici centrali. Ben quattro dall’inizio del secolo i provvedimenti regolamentari al riguardo (dpr 441/2000; dpr 173/2004; dpr 233/2007, infine dpr 91/2009). Ma ogni nuova scelta regolamentare è il risultato di una vasta partecipazione consultiva, aperta anche a contributi non istituzionali.
A questo modello (richiamato dal comma 3 dell’art.14 con la espressione: “ai sensi della normativa vigente”) si sarebbe dovuto attenere il regolamento di organizzazione del ministero beni attività culturali e turismo al quale il convertito decreto legge art-bonus rimette la individuazione di poli museali, istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale, uffici competenti su complessi di beni distinti da eccezionale valore archeologico, storico, artistico o architettonico, trasformati in soprintendenze dotate di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e amministrativa.
E invece lo stesso titolo del regolamento approvato con il decreto del presidente del consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n.171 indica la propria fonte primaria nell’art.16, comma 4, del d.l. 2 aprile 2014 n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 (“misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”) che consente di adottare i regolamenti di organizzazione dei ministeri in quella forma semplificata “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”. Non sembra contestabile che il nuovo rivoluzionario, parola di Franceschini, regolamento di organizzazione del ministero cui il decreto legge art-bonus affida ben più impegnativi compiti con la sola avvertenza di non introdurre “nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica” (non di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”) non trovi in quella specialissima fonte la sua legittimazione e non sarebbe potuto sfuggire alla prescritta partecipazione consultiva istituzionale, per essere infine sottoposto alla firma del presidente della repubblica. Non si tratta di un mero vizio di forma, irrilevante nel merito dei contenuti, come ben si intende. Alla determinazione dei modi dichiaratamente innovativi di amministrare la funzione dell’articolo 9 della costituzione sono stati negati i contributi di parlamento e consiglio di stato.
Il preambolo dello stesso decreto “rileva[ta] la necessità di provvedere al riordino delle strutture organizzative del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, dando esecuzione alle misure previste dall’art. 2, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012”. Si tratta del provvedimento, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che detta innanzitutto “disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica”, ricevuto generalmente come il tormento della spending review. Ebbene la disposizione di quel comma 10 dell’art. 2 consentiva di adottare, entro un breve termine (consecutivo comma 10-ter, ma poi due proroghe, la seconda al 28 febbraio 2014), i regolamenti di riordino e organizzazione dei ministeri interessati nella forma del decreto del presidente del consiglio dei ministri “al fine di semplificare ed accelerare il riordino previsto” appunto dalla spending review. E nel rispetto di quel termine aveva infatti provveduto il presidente del consiglio dei ministri adottando il regolamento di riorganizzazione del ministero per i beni e le attività culturali e il turismo con proprio decreto 28 febbraio 2014, salvato così in extremis il termine dell’ultima proroga. Ma questo decreto – regolamento fu “ritirato” il 30 giugno successivo, come dà conto il preambolo del decreto 171/2014 che qui discutiamo, “per consentire l’adeguamento dell’organizzazione del ministero a quanto disposto dal citato decreto-legge n. 83 del 2014”, dall’art.14 appunto di questo decreto art-bonus. Scaduto il termine del 28 febbraio 2014, alla attuazione delle misure previste dalla spending review non era più data la facoltà di provvedere con regolamento di organizzazione nelle forme semplificate e si sarebbe dovuto perciò adottare il modello ordinario con procedimento concluso da decreto del presidente della repubblica. Per altro il regolamento che sanziona la radicale riforma nei modi operativi di questo ramo della amministrazione dello stato, deputato ad attuare il primario compito assegnato alla repubblica dall’articolo 9 della costituzione, non corrisponde funzionalmente al modello dato al fine di semplificare ed accelerare il riordino della spending review. Neppure – a maggior ragione – può essere fatto rientrare a forza nella previsione di una norma speciale (l’art.16, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014) che disciplina il regolamento adottato “al solo fine di realizzare interventi di riordino diretti ad assicurare ulteriori riduzioni di spesa”, come già abbiamo constatato, e che non può certo valere a conseguire il recupero del termine per l’attuazione tardiva delle misure dell’art. 2 del d.l. n. 95 del 2012, irrimediabilmente scaduto. Insomma, il preambolo del d.p.c.m. 171/2014 richiama congiuntamente, come la duplice fonte della potestà regolamentare che si intende esercitare, il d.l. 95/2012 (con le “misure urgenti della spending review”) e il d.l. 66/2014 (con le “misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”), ma la prima fonte, se pur fosse stata idonea, è esaurita e la seconda non abilita, per certo, alla radicale riforma dell’assetto funzionale della amministrazione così al livello centrale come a quello periferico (ben oltre la esigenza di revisione della spesa e anzi in contrasto con l’esclusivo fine di “assicurare ulteriori riduzioni di spesa”). Riforma perseguibile necessariamente nel modo ordinario del partecipato procedimento, sanzionato infine dal decreto del presidente della repubblica (“ai sensi della normativa vigente”, come vuole l’art.14, comma 3, della legge 106/2014).
Dunque un regolamento di organizzazione illegittimo per l’indebito procedimento seguito, adottato sotto lo stimolo di una irragionevole urgenza (attivata la sola consulenza istituzionale-domestica del consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici), con instabili esiti, per altro, che ne hanno imposto come subito vedremo una correzione attraverso il conclusivo decreto ministeriale del gennaio scorso.
Rivoluzionario sì nel merito, l’illegittimo regolamento dell’agosto 2014. Italia Nostra vi ha colto la disarticolazione delle istituzioni di tutela, con la rottura del nesso organico tra soprintendenze e musei. E’ così portata al parossismo l’assurda scomposizione di tutela e valorizzazione, endiadi inscindibile, perché la valorizzazione è essenziale funzione della tutela. Una riforma che ignora la storia e la cultura della tutela nel nostro paese. Le soprintendenze sono nate come soprintendenze alle gallerie e le pubbliche raccolte dello stato unitario sono state le attive fucine della tutela del contestuale patrimonio diffuso nel territorio. Contro la storia e la natura stessa del patrimonio unitariamente concepito nel principio fondamentale dell’articolo 9 costituzione, è il rozzo artificio di questo assetto binario, ai musei l’esercizio della funzione di valorizzazione, alle soprintendenze, liberate dal peso dei musei, l’esercizio della funzione di tutela. L’esigenza di autonomia riconoscibile nei musei di speciali dimensioni ben può essere soddisfatta nell’ambito della organizzazione funzionale delle soprintendenze. Il regolamento dell’agosto 2014, dichiaratamente per esaltare le attrattive turistiche, opera una arbitraria selezione di qualità dei musei espulsi dalle soprintendenze (secondo due ordini di importanza, di prima e seconda categoria) riconosciuti degni di autonoma gestione, con reclutamento dei direttori in un concorso internazionale che ha poi privilegiato, attraverso un affrettato scrutinio dei titoli, le doti manageriali, non certo le specifiche competenze di studio e conoscenza delle singole raccolte, maturate negli anni all’interno degli stessi istituti. Con mortificazione del personale tecnico scientifico addetto e con esiti di qualità che ben sarebbe stata assicurata, per fare due soli esempi, da Natali agli Uffizi e da Casciu alla Galleria Estense. Tutti gli altri musei, ritenuti minori (come la pinacoteca nazionale di Bologna!) secondo una assurda gerarchia, sono stati assemblati in una struttura burocratica, il polo museale, modellata non certo per riconosciute aree culturali, ma secondo il ritaglio del territorio regionale, mentre tutti super musei e poli fanno capo ad una apposita direzione generale secondo una astratta geometria piramidale, concettualmente e funzionalmente ingiustificabile, caricata del compito scolastico di presiedere allo sfuggente sistema museale nazionale, come se si trattasse di creare dal nulla la costellazione di moderni istituti espositivi. Un sistema, sì, in radicale contrasto con la originale storia delle nostre istituzioni di tutela, mantenuto saldamente nelle mani del ministro che non solo nomina i direttori dei supermusei, ma si è pure riservato di scegliere fiduciariamente chi ne andrà a costituire i consigli di amministrazione, in quel disegno di singolare complessità che vuole pure i comitati scientifici (aperti alla rappresentanza di regione e comune di sede, funzionalmente incompatibile, si direbbe, con lo speciale ruolo dell’organo), dentro la griglia di un apposito statuto, irrinunciabile espressione, si deve intendere, della riconosciuta autonomia.
All’artificioso accorpamento dei musei “minori” nei poli museali fa riscontro l’assemblaggio di tutte le soprintendenze di merito, attuato in due consecutive fasi, dapprima con il regolamento dell’agosto 2014 tra quelle ai beni storico artistici e ai beni architettonici (così costituita la soprintendenza alle belle arti e al paesaggio: la civetteria della riesumazione del lessico desueto) e infine con il decreto ministeriale del gennaio scorso anche di quelle all’archeologia. Ne sono risultati sconvolti consolidati assetti funzionali e di servizi specie per le soprintendenze all’archeologia organizzate unitariamente per vaste aree culturali, strutturate sedi di studio, ricerca, scavi, con dotazione di archivi, cataloghi biblioteche, forzatamente oggi frantumate nelle più numerose sedi di destinazione, private infine della diretta responsabilità di gestione di siti e musei archeologici, costituiti alcuni in istituti di riconosciuta autonomia, gli altri, i “minori”, attratti nell’insieme indistinto dei poli museali. Alla unificazione delle soprintendenze di merito, giustificata da una astratta esigenza di semplificazione nei rapporti con i privati interessati, e di indimostrata economia di spesa (un assetto periferico più agevolmente convertibile – certo – alla attesa subordinazione organica al prefetto), corrisponde al livello centrale la concentrazione in un’unica direzione generale dei compiti di tutela di patrimonio e paesaggio. Un impegno insostenibile, come con preoccupazione constatava alcuni giorni or sono Settis in una sua “opinione” su Repubblica, titolata “L’uomo solo al comando dei beni culturali”.
La fretta precipitosa del ministro nel dare attuazione tra luglio e agosto 2014 alla previsione di un regolamento di organizzazione del ministero ha prodotto questo procedere a singhiozzo in due fasi, con il decreto correttivo dello stesso ministro di questo gennaio che ha costituito la soprintendenza unica (assorbita anche quella all’archeologia) e ha allungato l’elenco dei musei e luoghi di cultura degni di autonoma gestione. Doppio lo stress operativo del conferimento degli incarichi direzionali, riaperto nuovamente il concorso per le soprintendenze ora unificate e per la corrispondente direzione generale. Per dare al ministro questa facoltà si è dovuta scomodare la legge di stabilità 2016, con il comma 327 del suo primo articolo (secondo il furbesco e pessimo modo di scrivere le leggi che governo e maggioranza vogliono approvare in fretta)). Di questo decreto ministeriale Italia Nostra ha segnalato una disposizione allarmante (l’art. 7, comma 2), quella che in pratica abilita al libero trasferimento dei beni da un museo all’altro del polo museale o tra i distinti istituti dello stesso supermuseo, così definitivamente smarrite le specifiche identità.
Per finire mi limiterei a leggere la conclusione del documento che il consiglio direttivo nazionale di Italia Nostra (“Completata la disarticolazione delle istituzioni di tutela. Un esito che investe la responsabilità del parlamento”) ha dedicato a questa inconsulta riforma.
“Di fronte allo sconvolgimento del consolidato sistema di diffusa presenza territoriale nel nesso solidale tra istituti museali e cura dei contesti di necessario riferimento, che costituisce la originale caratterizzazione della istituzione della tutela nel nostro paese (indicata come esemplare anche nel panorama europeo), sembra ad Italia Nostra che ne sia investita la responsabilità del Parlamento. Perché necessariamente verifichi se l’esito dei distinti e disorganici provvedimenti legislativi che pur hanno legittimato la recente riforma nella organizzazione del ministero della tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico abbia corrisposto alla esigenza di piena attuazione del precetto costituzionale o non abbia invece gravemente indebolito l’esercizio di una funzione della Repubblica cui è riconosciuto il ruolo di assoluta primarietà rispetto ad ogni altro interesse sia pure di rilevanza pubblica. E sappia quindi adottare le doverose misure, anche nella prospettiva della delegata riforma della pubblica amministrazione (escluse innanzitutto ogni presunzione di silenzio-assenso e la dipendenza delle soprintendenze dalle prefetture), idonee a ripristinare quel ruolo”.
«Consumo del suolo. Presentato nella sede dell'Anci il rapporto "Ecosistema rischio 2016"». Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)
In realtà i numeri assoluti sono inevitabilmente sottostimati, perché l’indagine condotta da Legambiente per il rapporto «Ecosistema rischio 2016» presentato ieri nella sede dell’Anci è stata realizzata sulla base delle risposte fornite da solo 1.444 Comuni a un questionario inviato invece a tutti le amministrazioni comunali di città o paesi con aree a rischio idrogeologico (che solo la maggior parte degli 8 mila Comuni italiani).
Tuttavia da tale monitoraggio sulle attività nelle amministrazioni comunali per la mitigazione del pericolo idrogeologico si rileva che «l’urbanizzazione delle aree a rischio non è solo un fenomeno del passato: nel 10% dei Comuni sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio». Nel 31% dei casi, ci sono interi quartieri in pericolo, nel 51% dei Comuni invece nelle aree golenali o franose sorgono impianti industriali o (nel 25%) commerciali, e perfino (nel 18% dei Comuni) scuole o ospedali. Inoltre «solo il 4% delle amministrazioni ha intrapreso interventi di delocalizzazione di edifici abitativi e l’1% di insediamenti industriali».
E non si tratta solo di piccoli paesi o cittadine: a sottovalutare il rischio idrogeologico ci sono anche le amministrazioni delle città capoluogo o metropolitane. Non a caso infatti «solo 12 capoluoghi hanno risposto al questionario di “Ecosistema rischio”: Roma, Ancona, Cagliari, Napoli, Aosta, Bologna, Perugia, Potenza, Palermo, Genova, Catanzaro e Trento». Secondo il report di Legambiente, «a Roma e Napoli sono oltre 100.000 i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio, poco meno di 100.000 anche le persone in aree a rischio nella città di Genova. E, nonostante i pericoli ormai evidenti, nelle città di Roma, Trento, Genova e Perugia anche nell’ultimo decennio sono state realizzate nuove edificazioni in aree a rischio».
Prendiamo il Lazio, per esempio: l’85% dei Comuni della regione è a rischio. Il 33% perché contiene interi quartieri costruiti in aree che dovrebbero essere off limits, e il 15% ha continuato a edificare in tali aree negli ultimi 10 anni.
«È evidente l’urgenza di dire concretamente Stop al consumo di suolo, di bloccare per sempre il diluvio di cemento e fermare l’espansione infinita delle città – afferma il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti – a partire da Roma, dove in ogni settore continua ad avanzare il cemento e contemporaneamente si rischia la paralisi della città e si trema ad ogni bomba d’acqua». Una situazione, questa, ha aggiunto il delegato Anci, Bruno Valentini, «già ben a conoscenza dei Sindaci, che da anni chiedono rafforzamento delle risorse, semplificazione normativa e competenze adeguate per intervenire in modo sempre più efficace».
In questa pagina del sito di Legambiente è scaricabile il rapporto.
Emergenza Cultura, 17 maggio 2016 (p.d.)
Al Consiglio Superiore della Magistratura il vice (fidato di Renzi) Giovanni Legnini vuol zittire da Palazzo dei Marescialli tutti i magistrati e parlare soltanto lui, portavoce unico. Al Collegio Romano, sede del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, non spira un’aria granché migliore. Intanto vige un “codice etico” in base al quale “il dipendente (di qualunque grado sia, ndr) – fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini – si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell’immagine e del prestigio dell’Amministrazione”. Lesive a giudizio delli Superiori. Ciò vuol dire bavaglio, di fatto totale – proprio in questi mesi di sconvolgimento delle strutture del MiBACT – mentre le Soprintendenze vengono assurdamente accorpate annegando ogni specificità e predestinate (legge Madia) a finire gerarchicamente sotto prefetti e prefetture. Il funzionario che parla o scrive senza permesso delle gerarchie ministeriali rischia di brutto. Tanto più che è momento di nomine non per concorso bensì per decisione tutta “politica”.
Non si vuole infatti che si sappia dalla viva voce dei funzionari quanti di loro rinunciano a dirigere musei raggruppati soltanto sulla carta e quindi insensatamente distanti chilometri e chilometri l’uno dall’altro o sapere della paralisi che ha investito anche grandi musei i cui consigli di amministrazione, spaventati dalla mancanza di risorse e dalla responsabilità davanti alla Corte dei conti, non decidono nulla. O ancora del caos imperante ovunque in forza di decisioni prese dall’alto senza alcuna consultazione dei tecnici.
A Roma poi, dal 1° febbraio scorso, vige una circolare firmata dal l’allora Soprintendente archeologico, architetto Francesco Prosperetti, in base alla quale “le modalità di comunicazione agli organi di informazione (giornali, radio, tv) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al Dirigente per il tramite dell’addetto stampa e/o delle strutture istituzionali”. In caso urgente rivolgersi “direttamente al Dirigente” (tutto maiuscolo). Attenzione perché “ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art. 3 comma 8 del Codice di Comportamento” (quello sopracitato). Se le Signorie Loro ci rifanno come “apparso in più occasioni sulla stampa”, l’azione disciplinare è inevitabile. automatica. Subito ha protestato la Fp Cgil, il suo segretario nazionale Salvatore Chiaramonte richiamandosi all’articolo 21 della Costituzione sulla “libertà di espressione” e definendola “una disposizione vergognosa e pericolosa che squalifica chi l’ha emanata e chi l’ha ispirata e che la dice lunga sulla coscienza democratica di chi ci governa”. Ma il clima non è molto cambiato. Anche perché tranne poche voci di stampa, anzitutto “Il Fatto Quotidiano”, e ancor meno emittenti tv (essenzialmente La7, la Rai in proposito è quasi muta pur essendo “servizio pubblico” finanziato al 66 % da noi abbonati), il silenzio stampa è sceso sulla denuncia dei cento e cento attentati alla tutela dei beni culturali e paesaggistici in nome della “valorizzazione” di alcuni di loro, cioè del “far soldi” e poco più.
Domenica 8 maggio c’è stato un festoso “Appia Day”. Forse per sottolineare, sia pure tardivamente, quanto ha fatto con pochi soldi e molti sudori la Soprintendenza Archeologica alla Villa dei Quintili, a Santa Maria Nova o a Capo di Bove sotto la direzione di Rita Paris? No, al contrario per chiedere genericamente una ludica “pedonalizzazione dell’Appia”. Che peraltro è al 95% privata. Non era meglio riversare lì i 18 milioni di euro (presunti, saranno di più) che Franceschini si ostina invece a voler spendere per riportare gli spettacoli circensi all’Arena Colosseo? Mi par di sentire il Grande Fratello che dal Collegio Romano impone: “Ditelo ancora e vi sospendo subito dal servizio”. Sino a quando?
Quel festoso corteo lungo tre chilometri, popolato da attivisti ed ecologisti ma anche da famiglie e studenti, nonni genitori e nipotini stretti nel loro «no» al maxi inceneritore di Case Passerini, è stato un brutto colpo per l’egemone Pd fiorentino. Costretto ancora, dopo quindici anni di ok amministrativi – fra le polemiche degli amministrati – a difendere l’impianto progettato nel comune di Sesto Fiorentino, dove ha sede operativa la municipalizzata dei rifiuti Quadrifoglio. Anche all’ingresso della città per chi arriva dalla Firenze-Mare, cioè da Prato, Pistoia, Montecatini, Lucca e Versilia. Un anacronistico e discutibile biglietto da visita per una delle capitali italiane dell’arte e della cultura.
«Abbiamo deciso di decidere». Enfatico già all’epoca, così rispondeva al manifesto, nell’ormai lontano 2006, l’allora pingue e inciuffettato neo presidente provinciale Matteo Renzi, nelle pieghe del via libera del consiglio all’impianto di incenerimento. Non ha cambiato idea, almeno a giudicare dallo Sblocca Italia che ha messo in cantiere sette nuovi inceneritori nella penisola. Fra cui Case Passerini.
Eppure c’è stato un momento in cui Renzi, già diventato sindaco di Firenze, ha pensato che il gioco non valesse la candela. Ma solo perché il grande impianto di incenerimento, con la sua torre alta poco meno di cento metri e un bosco artificiale per lenire le emissioni, finirebbe nel cono del nuovo aeroporto intercontinentale, anch’esso progettato nella già martoriata Piana fiorentina. Il piano alternativo, studiato da Palazzo Vecchio, prevedeva di sbolognare i rifiuti urbani a Livorno, al suo inceneritore dell’Aamps al Picchianti. Ma la contrarietà della municipalizzata, già in accordi con il colosso Hera per una gestione congiunta dell’affare, si tradusse in una soffiata alla stampa e nella levata di scudi della città labronica, che pure all’epoca era ancora del Pd.
Da allora si è andati avanti nelle procedure amministrative, nonostante che la contrarietà di parte della popolazione si fosse tradotta in almeno mezza dozzina di manifestazioni di protesta, dal 2006 ad oggi. Con Rossano Ercolini e Paul Connett, pionieri della strategia «rifiuti zero», invitati di volta in volta dai combattivi Comitati della Piana e da Rifondazione, Verdi e Perunaltracittà. E con Gian Luca Garetti dei Medici per l’Ambiente a denunciare, dati scientifici alla mano, l’intrinseca pericolosità di simili impianti. Fino all’ultimo sintetico dossier, appena pubblicato sul periodico La città invisibile, esaustivo per chi volesse conoscere le zone d’ombra nascoste dietro i cosiddetti «termovalorizzatori».
Agli occhi dei fan dell’incenerimento, e soprattutto della potente Cispel Confervizi che raggruppa le aziende legate alle public utilities, è arrivata per giunta la tegola dell’inceneritore pistoiese di Montale, fermato la scorsa estate a furor di popolo dopo la scoperta di ripetute, pesanti emissioni di diossine &c. L’apertura di un’inchiesta penale a Pistoia ha costretto i sindaci dell’area a promettere solennemente ai concittadini che l’inceneritore di Montale sarà chiuso. Ma solo quando sarà in funzione Case Passerini. Di più: in parallelo si sono addensate altre nubi sugli impianti toscani, dopo che un recentissimo studio sull’inceneritore di San Zeno ad Arezzo ha dimostrato scientificamente la sua pericolosità. Di qui l’ulteriore necessità, per gli inceneritoristi, di realizzare Case Passerini.
Il piano dei rifiuti urbani, approvato dalla Regione Toscana nel novembre 2014, prevedeva comunque che ai cinque impianti in funzione – Ospedaletto a Pisa, Picchianti a Livorno, Poggibonsi nel senese, San Zeno ad Arezzo e Montale a Pistoia – si aggiungesse appunto Case Passerini. L’assessora all’ambiente dell’epoca, Anna Rita Bramerini ricordava nell’occasione che l’obiettivo era addirittura il 70% di raccolta differenziata nel 2020, con solo il 20% da destinare alla «termovalorizzazione».
Ma in una regione come la Toscana, i cui abitanti (3 milioni e 700mila) sono pari a quelli dell’area vasta milanese, una simile dotazione “inceneritorista” è apparsa incongrua ai più, non solo all’opposizione di Toscana a Sinistra e M5S.
Al riguardo, Monica Sgherri di Rifondazione segnalava: «Sulla produzione dei rifiuti, in Toscana si parte da dati di gran lunga superiori a quelli che già oggi registrano regioni come la Lombardia, il Veneto e altre ancora. Ma quel che balza all’occhio è che le previsioni al 2020 contenute nel piano sono di circa 100, 150 chili annui per abitante superiori ai dati del 2012, forniti dall’Ispra, di queste regioni. In altre parole il piano si pone formalmente obiettivi anche ambizioni, quelli del 70% di differenziata e del solo 10% da destinare alla discarica. Poi però li svuota, in primis a causa del sovradimensionamento della produzione dei rifiuti indicata. Tutto quanto è naturalmente funzionale alla realizzazione, e all’attività, degli impianti di incenerimento».
L’iter autorizzativo per Case Passerini è concluso da mesi. Risale al 23 novembre scorso l’atto della Città metropolitana che ha rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale per la realizzazione e gestione dell’inceneritore, come richiesto da Q.Thermo (Quadrifoglio al 60% e gruppo Hera al 40%). Ma le proteste sono andate avanti, fino alla manifestazione di sabato organizzata dalle «Mamme no inceneritore» e dell’Assemblea per la Piana contro le nocività, insieme all’associazione Zero Waste Italia e ai Medici per l’Ambiente. E con l’adesione di più di 200 realtà politiche e sociali, non solo toscane.
Di fronte a circa 15mila persone in corteo iperpacifico fino al centro storico, con Bobo Rondelli, Bandabardò e Malasuerte Fi-Sud per il concerto finale in piazza della Repubblica, il Pd si è innervosito. Dal Giappone, il ministro dell’ambiente Galletti, al G7 ambientale dove c’è anche il sindaco Nardella, ha dettato la linea governativa: «Utilizzare l’ambiente contro le grandi opere, o contro lo sviluppo economico in generale, fa male al paese e anche alla protezione ambientale». A seguire Galletti ha difeso il progetto di aeroporto intercontinentale di Peretola, il sottoattraversamento Tav e, appunto, l’inceneritore di Case Passerini.
Dal canto suo l’ad di Quadrifoglio, Livio Giannotti ha anticipato: «Contiamo di aprire il cantiere entro l’estate, per poi concludere l’opera in 700 giorni. Entro tre anni l’impianto sarà a regime, con emissioni nell’atmosfera che saranno, per ogni parametro, inferiori del 50-80% ai limiti di legge». Quanto a un possibile, teorico stop, Giannotti ha testualmente aggiunto: «È una decisione della Regione. Che dovrebbe però contraddire il ministero, e pagare i costi di tutti gli investimenti già fatti, circa 10 milioni di euro».
Oltre a lasciare il cerino in mano ad altri (Enrico Rossi), sono parole che sembrano nascondere un ulteriore problema: il ricorso al Tar di Campi Bisenzio, comune confinante con Sesto Fiorentino, che ai giudici amministrativi denuncia: «Per il termovalorizzatore, su cui eravamo d’accordo, dovevano però essere realizzate le opere di mitigazione e compensazione previste nel protocollo d’intesa del 2005. Queste opere non sono state realizzate». Per forza: sono quelle che farebbero cadere una pietra tombale sull’aeroporto intercontinentale di Carrai & Renzi.
«Segnaliamo la risposta di Antonio Fiorentino di perUnaltracittà a un chimico amico degli inceneritori che interviene sul Corriere fiorentino del 15 maggio. “L’inceneritore è l’unico destino che ci può essere”… “l’inceneritore è un altro passo verso la modernità». perUnaltracittà, 15 maggio 2016 (c.m.c.)
Queste sono alcune delle amenità apparse sul Corriere Fiorentino (15 maggio) dopo la grande manifestazione del 14 maggio ad opera un docente di chimica dell’università di Firenze. Dispiace constatare come in queste affermazioni ci sia tanta ideologia e scarsa rispondenza alla realtà delle cose.
Vorrei ricordare al professore che la pratica dell’incenerimento dei rifiuti è una pratica barbara, propria di una società che non è in grado di affrontare in maniera moderna ed equilibrata la gestione del ciclo dei rifiuti. Gli inceneritori sono una contraddizione in termini rispetto alla raccolta differenziata e al riciclaggio dei rifiuti. Hanno bisogno dei rifiuti, sono un limite oggettivo al loro riutilizzo.
Non è un caso che l’etimologia della parola “letame” derivi dal latino “laetare”, allietare, perché rendeva lieti coloro che utilizzavano la parte terminale di un ciclo biologico e, contemporaneamente, potevano utilizzare le stesse sostanze, i rifiuti, per impostarne un altro, e così via. Il compito di noi “moderni” non è quello di distruggere tanta ricchezza ma di renderla nuovamente disponibile. I tanto vituperati premoderni lo avevano capito! Chi ragiona in termini ideologici non ancora.
In secondo luogo con gli inceneritori le discariche non sono eliminate perché il 30% circa dei rifiuti da bruciare viene trasformato in ceneri, la cui concentrazione di inquinanti è molto elevata e fortemente tossica. Queste devono essere poi smaltite in una discarica, ergo: le discariche ci saranno ancora con il loro spaventoso carico di veleni. Come dire che delle 180.000 tonnellate di rifiuti che l’inceneritore di Case Passerini potrà trattare, ben 60.000 tonnellate di ceneri dovranno essere mandate in discarica. Scusate se è poco!
In terzo luogo, e non per ordine di importanza, il professore di chimica conoscerà bene il Principio di conservazione della massa di Lavoisier, in base al quale, lo dice anche il normale buon senso, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ossia, se non dovesse essere chiaro, che le 180.000 tonnellate dell’inceneritore fiorentino si trasformeranno in 60.000 tonnellate di ceneri e in 120.000 tonnellate, se non di più, di gas che attraverso il camino galleggeranno sulle nostre teste, si diffonderanno sulla Piana Fiorentina.
E’ questa modernità? E’ questo il senso di responsabilità che anima politici, investitori e dotti accademici?La manifestazione di ieri 14 maggio 2016 resterà nella storia della Piana e di Firenze.Più di 15.000 persone hanno ribadito che “senza la gente non si fa niente!”.
«Gli invisibili inghiottiti dal nulla nella città diventata “da bere”. Da Mirafiori ai capannoni dove nascono (e muoiono) le start up. Dove è finita quella classe operaia che con i suoi saperi dava l’identità a Torino? Ora la disoccupazione giovanile è al 44,9% e l’imprenditoria sembra occuparsi d’altro. E al sindaco manca un progetto adeguato». Il manifesto 2016 (m.p.r.)
Torino. Porta numero 2, carrozzerie Mirafiori, ore 14, uscita del turno mattutino. Sono qui con una reliquia del manifesto delle origini: Gianni Montani. Lo reclutai sul campo nel ’71 e da operaio-sindacalista diventò giornalista, e però per noi fu molto di più.
Ricordo un Comitato centrale del Manifesto-organizzazione dedicato a capire natura e modalità delle nuove lotte operaie, introdotto da una sua dettagliata relazione in cui ci spiegò come funzionava, reparto per reparto, l’immensa Fiat. Allora la politica era così, di questo si discuteva, non delle primarie. Pochi giorni fa mentre assistevo al congresso nazionale della Rete della Conoscenza, l’associazione degli studenti medi e universitari, mi è tornata alla mente proprio quella nostra riunione.
Per via della difficoltà di chi, pur con tutta la buona volontà come questi studenti, cerca oggi di rapportarsi al lavoro: allora c’era una grande bella omogenea classe operaia, oggi una mucillaggine di semifigure lavorative precarie e frantumate che neppure mille Gianni Montani potrebbero riuscire a descrivere.
Sono voluta tornare qui dopo tanti anni di assenza per cominciare a dire di Torino in piena campagna elettorale.
E’ passato quasi mezzo secolo e ho il nodo alla gola. Allora dai cancelli che ora ho davanti agli occhi usciva a fine turno una fiumana di decine di migliaia di operai, lo spiazzo davanti alla porta un suq allegro e arrabbiato - carretti di arance, bibite, di tutto. Ma non era solo un mercatino, era anche l’agorà, il luogo principe della politica, fitta di capannelli volantini giornali bisticci fra nuova e vecchia sinistra accenti meridionali ancora freschissimi.
Qui alla 2 come alle altre porte, il focus di una politica misurata su cose concretissime: le conquiste proletarie.
Dal lato opposto di viale Agnelli c’erano bar e negozi, ora a chiudere l’orizzonte un cimelio delle Olimpiadi, l’enorme edificio color ruggine di un pattinatoio. Rende lo spiazzo ancora più deserto e silenzioso, solo qualche lavoratore in cassa integrazione che per abitudine viene a farci passeggiare il cane.
Gli operai - pochissimi (nemmeno 13.000, ma ciascuno lavora solo tre giorni a settimana) - escono alla spicciolata dopo esser passati attraverso l’”imparziale”, che adesso è elettronico (il controllo che deve scoprire se qualcuno ha rubato un pezzo di fabbrica, così chiamato perché i controllati vengono scelti a casaccio): quasi tutti hanno i capelli bianchi, la media d’età, alle carrozzerie, è di 51 anni.
Sembrano diversi da allora anche perché Marchionne ha voluto che la tuta non fosse più blu ma grigia chiara, uguale per tutti, operai tecnici e ingegneri, solo una minuscola etichetta che definisce la rispettiva categoria (e naturalmente il livello salariale, ma quello non è in vista. Quello della terza, di chi un tempo stava alla catena di montaggio e che ricordo bene perché il nostro stipendio al manifesto era a quello equiparato, più o meno come allora in lire: 1200/300 euro al mese).
Marchionne, si sa, è democratico, fa testo il suo maglione. Ma le donne - sono molte di più di un tempo - contro quella tuta protestano: il grigio si sporca, per questo si usava il blu. Me lo spiega Giovanna Leone, nella vecchia palazzina poco distante dove tutt’ora ha sede la V Lega Mirafiori della Fiom, corso Unione Sovietica 351, che tutti però chiamavano familiarmente «URSS». Non c’è più, invece, la storica sezione Pci Mirafiori, qualche isolato più in là, a via Passo Buole. Nel locale c’è ora la “Mescita di vini piemontesi sfusi e imbottigliati”.
E naturalmente non ci sono più nemmeno nei dintorni gli ex segretari: Giuliano Ferrara, a fine ’70 (e infatti si vede nei documentari che filmarono la visita di Enrico Berlinguer quando andò a dire agli operai in lotta nell’80 che il partito era con loro). Né Fassino, che anche lui ne fu responsabile negli ’80 e ora fa invece il sindaco.
Con Gianni percorriamo tutto il perimetro Fiat,10 km di viali attorno agli stabilimenti, quasi tutti oramai adibiti a funzioni diverse dal passato, non solo perché è cambiata la tecnologia, ma perché la produzione si è enormemente ridotta, un po’ spostata a Melfi, molto in Polonia e in Serbia, qui - ma ancora per poco - la Mito, prossimamente dovrebbe partire il nuovo Suv Levante.
Molti i padiglioni già ceduti ad altre imprese: sul frontone si legge “Fiera dei vini”, “Equilibra”, Centro stile”. Sulla larga pista sopraelevata dove si svolgevano le prove (e si tenevano le assemblee del Consiglio di Fabbrica) ora si fanno le sfilate della concessionaria Fiat Village.
Nel punto nodale, la palazzina direzionale: cosa diavolo si dirige da qui? La Fca ha ormai casa a Amsterdam e a Londra lo scandalo delle evasioni non è Panama, ma le dislocazioni consentite dal fatto che dopo aver liberalizzato i movimenti di capitali l’Ue non ha provveduto ad una unificazione fiscale).
L’impressione, da Torino, è comunque che non sia la Fiat ad aver comprato la Chrysler, ma il contrario. Anche se con grande chiasso a palazzo Chigi è stata presentata una nuova edizione di Alfa Romeo italiana. Perché i modelli dell’avvenire, quelli tecnologicamente più avanzati, qui non si fanno.
No, non mi lamento per sussulti sovranisti, né sono venuta qui per perdermi nell’Amarcord. Mica vorrei che la tecnologia non avesse cambiato la fabbrica e che tutti fossero ancora alle terribili catene di montaggio. Sono venuta per cercare di capire dove sono finiti i circa 100.000 operai della Fiat (60.000 a Mirafiori,12.000 a Rivalta, 7.800 alla Lancia di Chivasso e 4.500 a quella di Torino senza tener conto della Pinin Farina o della Bertone solo per citare le principali aziende dell’indotto), tutti quelli, insomma, che ruotavano attorno all’auto (nell’indotto si calcola 3 per ogni dipendente Fiat) e che sono esseri non digitali ma in carne ed ossa.
Non è solo una domanda strettamente economica - se lavorano o meno e dunque hanno o non hanno un salario. Quella classe operaia con i suoi saperi meccanici e politici dava da più di un secolo l’identità a Torino, disegnata sul suo ruolo di punta di diamante della modernità industriale.
Ritmavano i tempi della città. Che oggi è certo più bella, i musei sono più attraenti delle ciminiere e così le aiuole fiorite, i ristoranti, i turisti, la movida. E’ diventata una “Torino da bere”, per usare l’espressione che si usò per la Milano scintillante dell’epoca craxiana. E Fassino l’amministra benissimo. Ma quei centomila operai sono diventati invisibili, inghiottiti dal nulla, la città non li prevede: né i loro corpi né le loro teste , né quelle dei loro figli, un tempo allievi della prestigiosa Scuola Fiat, oggi per lo più titolari dei 4 milioni di voucher che si sono contati in città nel 2015 (e già aumentati del 65% nel 2016), precari sguatteri dei fast food cresciuti come una giungla.
Anche ad Ivrea è così: la storica palazzina direzionale di via Jervis, dove fu lanciata una delle più avanzate produzioni informatiche, quella della Olivetti, oggi è occupata da un gigantesco call center.
Alla Cgil il compagno Passarino mi dà i dati dell’occupazione, complicatissimi da interpretare per via di come vengono compilati dagli Uffici statistici, e perché molti non sono ufficialmente disoccupati ma in Cassa integrazione, o in Cassa in deroga, o in Cassa straordinaria, o con contratti di solidarietà, tutti ammortizzatori a fine corsa (il traguardo molto prima che si abbia diritto alla pensione) e cui comunque non si ricorre più perché le regole per ottenerli sono cambiate e non conviene più all’azienda usufruirne, le conviene licenziare.
Per riassumere basti dire che a Torino il livello della disoccupazione raggiunge la media nazionale (era del 6,2% nel 2004, ora è dell’11,9) e che quella giovanile, al 44,9, è addirittura al disopra. Il rapporto più recente, coordinato dal Centro Einaudi, parla di «marcata sofferenza» e di una quota di abbandoni scolastici simile a quella delle metropoli del Mezzogiorno. Lasciano anche perché precari - anche in questo caso più della media - sono pure i ricercatori e docenti universitari: il fenomeno colpisce tutti, quale che sia il livello di qualificazione. Con una diminuzione del volume di lavoro degli under 30 che in sei anni è stata pari al 59%, l’esilarante obiettivo dell’Unione Europea per il 2020 - «una crescita inclusiva e sostenibile» - sembra fantascienza.
Torino sta diventando una città povera. «Al sud ci sono abituati - mi dice un vecchio compagno quasi si confessasse - noi no».
Il patrimonio che questa mano d’opera rappresenta è coinvolto in un progetto innovativo o è stato semplicemente mandato al cimitero degli elefanti? Vado in giro per la città a cercare una risposta.
Le due università - la Statale e il Politecnico - si ingegnano: la prima impegna molte energie nel covare gruppi inventivi di nuove possibili funzioni consentite dall’uso delle nuove tecnologie e passo un intero pomeriggio ad ascoltare le loro proposte e a capire le loro ricerche.
Sono in contatto col 31mo piano del nuovo altissimo grattacielo di Intesa San Paolo (da cui a Torino tutto dipende, tanto varrebbe votare anziché per un consiglio municipale per il suo Consiglio di amministrazione) dove 100 funzionari aspettano di capire le novità dei futuri clienti. Al Poli, c’è una incubatrice, che svolge un ruolo analogo. E dentro è restato il solo figlio sano del fallito matrimonio General Motors-Fiat. Dopo il precoce divorzio è diventato solo americano, se l’è tenuto la Gm.
E’ il Power Train, il pezzo più prezioso della città. Anche la Cgil ha contribuito a metter su, a Moncalieri, un contenitore simile, ricercando la collaborazione con università e enti locali. Benissimo.
Il fatto è che se non ci sono poi gli investimenti per realizzare le invenzioni, le idee restano sulla carta. La orgogliosa imprenditoria torinese, come del resto gran parte di quella italiana, sembra invece occuparsi d’altro.
Gli Agnelli, per esempio, il grosso dei loro capitali familiari li hanno collocati nella Exor, uno dei più grossi gruppi di assicurazione americani. Un investimento anticiclico, più sicuro del fluttuante settore dell’auto. Quanto al governo, nessun piano industriale, né qui né altrove.
E invece servirebbe un piano, un’idea nuova per Torino, un progetto coordinato con altri paesi europei. Invece non c’è: le aziende di punta sono state scorporate e via via acquisite da gruppi stranieri che ne hanno portato via i pezzi più prestigiosi.
Non è, qui a Torino, l’innovazione che ha ridotto il numero degli operai, è il contrario: è il lavoro che si è impoverito. E quanto cresce - il terziario soprattutto - comunque non basta a compensare. Non dico qualitativamente, che è ovvio, ma anche quantitativamente.
L’orizzonte di Torino è tutt’ora disegnato dai tetti a sega degli antichi capannoni industriali. Non è come a Milano, dove la deindustrializzazione è avvenuta ormai da decenni e in un’epoca in cui l’economia ancora tirava.
Qui le fabbriche dismesse occupano ancora il terreno, sono tantissime. Ora si cercano nuove destinazioni e in alcune hanno trovato casa le start up e i centri di co-working. Al Tool Box la ristrutturazione di un padiglione è magnifica, alta architettura, colori e, persino, una cucina con mobili costruiti in 3D, con la stampante. Ad un’area con lunghi tavoloni si accede grazie a 100 euro al mese col proprio computer, si tratta di postazioni provvisorie in cui si gode della connessione. Con 250 mensili si accede invece ai tavoli dove la postazione è fissa; poi ci sono molti gabbiotti a cielo aperto, veri e propri ufficietti. Dentro un popolo silenziosissimo di individui impegnati a costruire la propria start up: tutti aspiranti “uomo (o donna)-impresa”. Il regno di Uber, si direbbe.
Difficile capire cosa facciano, si sa solo che la moria delle start up è altissima. Ad una parete una sorta di denso giornale murale, avvisi di friendly advises: professionisti che offrono consigli legali, panel su «Mettersi al riparo: malattia e pensioni», dalle 12 alle 13; «Freelance care», dalle 18 alle 19, eccetera.
Accanto, gli aspiranti imprenditori presentano le loro proposte, corredate di foto. Leggo: M.P.: Ascolto, informo e mi informo, sorrido accolgo e saluto. E realizzo oggetti imperfetti; «G.B.: Rassicuro osservo saluto calorosamente»; «T.M.: Mi occupo di politica e strategia di comunicazione, ma giuro che sono un bravo ragazzo».
Apprezzo l’autoironia, ma mi torna alla mente il vecchio film di Nanni Moretti, Ecce Bombo (ricordate? quello in cui lei dovendo spiegare come campa risponde «faccio cose, vedo gente…»).
Ecco: come si fa a proporsi come sindaco senza proporre un progetto adeguato ad una città come Torino?
Il grande errore di Fassino (oltre a quello di aver imbarcato metà della destra cittadina e di non avere nemmeno uno degli “invisibili” nelle sue liste) è di essersi fatto ammaliare da Marchionne, di aver creduto alle magnifiche e progressive sorti del capitalismo, di non aver preparato una trasformazione autonoma della città.
Il pensiero lungo, una consapevolezza alternativa, serve anche nelle elezioni amministrative. E naturalmente anche non sottomettersi alla deriva della politica nazionale.
In tasca - l’ho preso a casa fra i miei vecchi libri e me lo sono portato dietro in questo viaggio attraverso Torino 2016 – ho un libriccino edito nel 1969 dalla Feltrinelli: si chiama La Fiat è la nostra Università. Inchiesta fra i giovani lavoratori. Era stata condotta dai “gruppi fabbrica” di alcuni licei e facoltà torinesi, quasi 100 pagine fitte di notizie.
Alla risposta n.82 che dà l’operaio di terza categoria si legge «Io penso che al 1969 l’operaio dovrebbe lavorare molto più poco, tanto più perché con l’automazione che ci va solo a favore dei padroni e non degli operai, ma per questo bisogna cambiare la società». Sarà antiquato, ma oggi il progetto appare anche più attuale.
Non lo può accantonare neppure una campagna elettorale amministrativa, anche se non si potrà realizzarlo nei prossimi cinque anni. Ma se si perde l’orizzonte, anziché moderni si resta chiusi nella gabbia del medioevo.
E’ questo - anche questa cosa oltre all’immediato - che fa la differenza di Torino in comune. E il suo candidato sindaco, Giorgio Airaudo, è il solo che sembra occuparsene. Non solo perché è più bravo, ma perché si è posto il problema di rappresentare quel pezzo grandissimo di società cui non basta essere fruitori di musei.
La “buona politica” è, prima di tutto, rappresentanza. Da chi si rappresenta dipende l’aggettivo “di sinistra”.
Il manifesto, 15 maggio 2016 (m.p.r.)
Il 15 maggio è Global Debout, la prima «notte in piedi» globale. In centinaia di città si scende in piazza per riappropriarsi della parola e dello spazio pubblico rispondendo «alla competizione e all’egoismo con la solidarietà, la riflessione e l’azione collettiva».
Nuit Debout lancia una giornata di mobilitazione globale nel quinto anniversario del movimento spagnolo 15-M, invitando a occupare simultaneamente le piazze di paesi, città e metropoli. Londra, Berlino, Vienna, Madrid, Barcellona, Lisbona, Atene e diverse città italiane tra cui Roma, Napoli e Milano hanno aderito all’iniziativa. La manifestazione prevede lo svolgimento di assemblee di cittadini, dirette live tra le diverse località internazionali e alcune azioni comuni, come il lancio di una campagna di boicottaggio.
«Le battaglie ambientali, per il lavoro e la scuola hanno una causa comune: l’oligarchia finanziaria. E fintanto che saremo divisi perderemo». Così scriveva il giornale francese Fakir a febbraio, poco prima che attorno alle proteste contro la Loi Travail e alla convergenza delle lotte si coagulasse il movimento Nuit Debout.
Da allora sono passati tre mesi e oggi la piazza parigina guarda oltre i confini nazionali: «La riforma del codice del Lavoro francese fa eco a numerose altre leggi adottate all’estero - scrivono gli organizzatori- che hanno diffuso precarietà e miseria. Al crescere delle disuguaglianze su scala globale, la nostra risposta deve essere globale.»
E la risposta è la coesione sociale e la partecipazione alla vita civile. Nelle piazze che hanno risposto all’appello di #globaldebout, come è stato rilanciato sui social media, si svolgeranno assemblee di cittadini con presa di parola libera. Collegamenti telefonici e tramite Periscope, applicazione di Twitter per la trasmissione di riprese in diretta, faciliteranno il dialogo tra le diverse piazze internazionali. Alle 20 (ora locale parigina), un minuto di silenzio, al termine del quale gli attivisti scatteranno in piedi con un urlo di gioia (debout significa «in piedi»). Il 15 maggio è anche un’occasione per lanciare un’azione di protesta comune: una campagna di boicottaggio internazionale. Il primo obiettivo è Coca Cola. Ma l’idea è creare una piattaforma globale su cui i cittadini possano confrontarsi e indicare ogni mese nuove multinazionali da ostacolare.
Poche linee guida e tanto spazio alle proposte locali: «L’obiettivo di Global Debout - spiegano i promotori- non è esportare il movimento di place de la République, ma creare mobilitazioni autonome che rilancino la partecipazione politica e il dibattito cittadino su questioni di comune interesse come il lavoro, le frontiere, l’austerità, il libero mercato». Le ambizioni di Global Debout vanno infatti ben oltre l’impatto mediatico ed estemporaneo di un’azione dimostrativa internazionale. L’intento è creare una rete permanente di movimenti che declini nei diversi contesti locali le medesime battaglie globali e proponga un nuovo modello sociale.
L’appello lanciato da Nuit Debout ha dunque destato l’interesse di chi da anni si muove negli spazi interstiziali della politica istituzionale, sperimentando nuove forme di democrazia dal basso. Il 7 e 8 maggio duecento attivisti internazionali, tra cui collettivi italiani di Venezia, Padova, Milano, Parma, Bologna, Pisa, Roma, Napoli, si sono ritrovati a place de la République «per condividere le pratiche di resistenza alle politiche neoliberiste, imparare dalle diverse esperienze di attivismo e trovare un terreno di lotta comune». Tra loro, c’è chi si batte per la riappropriazione dello spazio pubblico, chi per i beni comuni. Chi si oppone al precariato e alle frontiere.
E chi cerca di concertare le diverse lotte. Come l’atelier Esc di Roma, dove gli sportelli Clap (Camere del lavoro autonomo e precario) assistono i lavoratori tirocinanti, intermittenti e disoccupati, e dove il progetto «Decide Roma» ha portato alla stesura collettiva della Carta dei beni comuni, contro lo smantellamento del patrimonio pubblico: «Come Nuit Debout, cerchiamo di ricostruire uno spazio fisico di partecipazione politica secondo i principi di autonomia, autogestione e autogoverno», spiega Giansandro, arrivato a Parigi per condividere i progetti dello spazio romano. Isabella e Simone di Connessioni Precarie di Bologna raccontano l’esperienza dello sciopero sociale italiano contro il Jobs Act nel novembre 2014, e il tentativo di estenderlo oltre le frontiere nazionali attraverso la piattaforma Transnational Social Strike «per toccare tutte le forme di precariato, anche quelle che colpiscono i lavoratori migranti».
I temi della riappropriazione dello spazio pubblico, del rapporto tra precarietà, frontiere e libero mercato rimbalzano da un intervento all’altro. Martin, di Nuit Debout Londra, racconta che il movimento inglese, in mancanza di spazi pubblici, ha stabilito il proprio quartier generale sul marciapiede di Downing Street, di fronte alla residenza di David Cameron.
Dietro di lui, lo striscione appeso al monumento alla Repubblica recita: «Lo spazio pubblico non è in vendita». Alcuni francesi intervengono per denunciare «l’ipocrisia istituzionale sul tema dei rifugiati» e condividere le lotte a fianco dei migranti messi sul lastrico dagli sgomberi. Secondo Alex, di Bruxelles, «la convergenza europea deve avvenire sul lavoro e le frontiere, due temi caposaldo della società che, se rimessi in discussione, fanno crollare il modello attuale di Europa». Il dibattito è proseguito all’interno di gruppi di lavoro, in cui si è discusso di progetti a lungo termine, come il rigetto del Ttip, dei modi di produzione e consumo a danno dell’ambiente e delle persone, dell’Europa fortezza; e altri a breve termine, come l’organizzazione di scioperi sociali, occupazioni di siti emblematici, proteste simultanee, cortei silenziosi. «Il 15 maggio sarà un’opportunità per discuterne in tutte le piazze interessate.»
Lo slogan è stato adottato per accompagnare Global Debout, a ricordare la contrapposizione tra il 99% e l’1% che detiene il potere. Ma la convergenza è un processo complesso e tra gli attivisti internazionali c’è anche chi si dice scettico riguardo alla presa del movimento al di fuori della Francia: «Il 15 sarà un atto simbolico e importante, ma dubito che in Italia possa trasformarsi in qualcosa di continuativo ed efficace», sostiene un attivista di Pisa. Héctor, del movimento Barcelona en Comù e membro della Commissione Internazionale di Nuit Debout la pensa diversamente: «Far salire chi sta in basso e scendere chi sta in alto è un’utopia. Ma sapete una cosa? I have a dream».
Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni ... (continua la lettura)
Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni fa dalla riforma dei poteri (enormi quelli per sindaco e giunta) voluta da sinistra e da destra, consisterà nell’appropriarsi dell’urbanistica. Non una ennesima discussione, magari approdo a un acronimo nuovissimo ma ugualmente insensato come tanti altri nati e presto morti, ma un concreto daffare personale nel campo della rendita fondiaria dominante e del continuo roteare del ciclo (e riciclo…) edilizio. Sarebbe la logica conseguenza delle dichiarazioni programmatiche pre-elettorali. Al primo punto, il cambiamento del Piano di governo del territorio (Pgt), in ogni caso: a) contrasto politico radicale fra nuova e precedente amministrazione, b) continuità integrale o sostanziale, compresa la conferma del primo cittadino, c) continuità politica vaga e cambio del sindaco, d) difficile definizione dello stato dell’arte comunale se, prima, le differenze fra gli aspiranti teoricamente antagonisti paressero ambigue o addirittura mancassero. I casi c) e d) si fondono se riguardiamo l’odierna vicenda milanese[i].
Queste ipotesi valgono per tutti i contesti locali, municipi grandi, medi e piccoli. Nei comuni maggiori, messe da parte le nuove conformazioni territoriali e burocratizzazioni gestionali tipo città metropolitana, è pur sempre la città esistente negli storici confini comunali il luogo dell’accumulazione capitalistica benché non più attraverso la produzione industriale[ii]. Comunque non è da Roma ma è da Milano, ritenuta dal premier nazionale futura punta di diamante degli assetti politici contrassegnati da centrismo tendente a destrismo neoliberista, che proverrà l’indirizzo per il ribaltamento di democrazia versus massima personalizzazione del potere e decisionismo extra-costituzionale.
Vedremo i risultati del referendum sulle modifiche della Costituzione e di altri in fase di raccolta delle firme.
Dunque, Milano. Il candidato sindaco Giuseppe Sala, che ha rimpiazzato il rinunciatario Giuliano Pisapia in una tormentosa guida di un presunto centrosinistra privo di un’ala sinistra, si prenderà l’urbanistica, per quale scopo? In primo luogo un’attenuazione di supposti indirizzi «troppo» riformatori del Piano di governo del territorio, mentre noi osservatori ormai distaccati dalle iniziali speranze riposte nella nuova amministrazione del 2011 sappiamo che niente di progressista esso contiene. Se il nostro guardasse al modesto abbassamento dell’indice medio di edificazione, dovrebbe accorgersi che svolgere il compito di mediatore nel ristretto spazio fra due numerini, Pgt ante e post centrosinistra «arancione» (il colore dell’entusiasmo per la vittoria di Pisapia), sarebbe avvilente.
La pianificazione effettiva della giunta a guida Ada Lucia De Cesaris per l’urbanistica e l’edilizia si è differenziata poco da quella ventennale di un centrodestra che fece meritare alla gestione dell’urbanistica e dell’edificazione privata il marchio di «rito ambrosiano» (Vezio De Lucia), una speciale condizione di smaccato favore agli speculatori e agli impresari edili. Ora come allora, in forma meno volgare e direi violenta, il Comune è stato (è) come uno spettatore dell’attività degli imprenditori d’affari urbani, degli impresari edili, delle grandi aziende (non più industriali, ma finanziarie, bancarie, editoriali, comunicazionali); si mette in coda al movimentismo degli attori investitori e accetta, magari agendo con la finzione di un dialogo vacuo, la proposta del prodotto completo. Vuoti urbani da riempire, demolizioni e ricostruzioni, false ristrutturazioni moltiplicatrici, aree enormi messe a disposizione del disegno privato: la realizzazione di vaste cubature totalmente svincolate da ragionevoli indici di edificazione fondiari e territoriali rappresenta l’urbanistica senza piano, la costruzione della città senza scelta pubblica, il quando, il dove, il come lasciati alle intemperie di un mercato illogico per i riguardi sociali dei cittadini e anche per i loro interessi economici.
Allora, di che Pgt parliamo? Chi, dei candidati a sindaco, ricorda che i piani regolatori, se si vuol controllare la conservazione e il divenire della città, devono impegnare il Comune in piani particolareggiati («di esecuzione», dice la legge urbanistica del 1942[iii]) man mano dimostrati come necessari?
Ugualmente, il concorrente Stefano Parise capintesta del centrodestra (non «presunto», attributo da noi assegnato al centrosinistra giacché i due personaggi, con la loro biografia da manager liberisti, ci sembrano assai somiglianti) da sindaco si muoverebbe contro il Pgt attuale promuovendo il ritorno a quello dell’amministrazione guidata da Letizia Brichetto Moratti. Lui si immagina di rivoluzionare in senso liberista un sistema urbanistico-edilizio che non avrebbe bisogno di aggiunte alla condizione sopra descritta. Dal punto di vista dei vecchi architetti di sinistra attori di urbanistiche sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, l’uno vale l’altro, se così si può dire.
Il ritorno all’intellighenzia morattiana e, addirittura, albertiniana (Gabriele Albertini, sindaco predecessore di Letizia Moratti è ora capolista per Parise), il legame con Claudio De Albertis, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), presidente della Triennale, immobiliarista di grido attraverso l’azienda di famiglia Borio Mangiarotti significano qualche punto in più di pericolo, limitato a una sgradevole vanteria di essere i migliori. Ne è figura simbolica proprio Albertini, sindaco il cui compito, ripeteva spesso, non sarebbe diverso da quello di un amministratore di condominio. Intanto concertava con le grandi aziende e i potenti costruttori rivolgimenti urbani come il pezzo di città nuova sui terreni della Pirelli o l’intervento sull’area dell’ex Fiera noto per i tre grattacieli (il terzo non ancora eretto) firmati da Libeskind, Hadid e Isozaky: «in un enorme processo di riqualificazione ci siamo avvalsi del lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», anche per questo sarebbe [giustamente] elevato il costo delle abitazioni[iv].
Conclusione elettorale. Al ballottaggio fra i due maggiorenti non saremo costretti comunque a scegliere. Per ragioni storiche di appartenenza, per ragioni culturali, per non spegnere per sempre la fiammella di una piccola sinistra sincera: che si presenta coraggiosa al primo turno e che rappresenterà nel Consiglio comunale la parte di cittadini attenti al retaggio del valori sociali di un’altra Milano, non ancora arresa al Moloch degli affari e al suo fratello Moloch della bruttezza[v].
[i] Cfr. L. Meneghetti, La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 20.04.2016.
[ii] Ibidem.
[iii] L’art. 13 stabilisce che devono essere indicati, oltre a altri dati planimetrici e altimetrici, le masse e le altezze delle costruzioni lungo le strade e le piazze. Non è difficile, senza forzare l’interpretazione, avvicinare questa norma all’opportunità di disegnare precise plani-volumetrie sulle aree in causa. Quando si dette, nel nostro paese, la rara possibilità di progettare in questo senso i quartieri dei Piani di edilizia economica e popolare (Peep) secondo la legge 167/1962, i migliori piani illustrarono soluzioni chiaramente preludenti a specifiche tipologie abitative. Ved. “Urbanistica”, n. 41, agosto 1964.
[iv] Gabriele Albertini, in «Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006 (Redazionale).
[v] Rileggiamo la pagina 67 di: James Hillman, Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 1999.
«Sono loro le persone che riempiono i social network con espressioni di ammirazione, di amore per la bellezza e spesso di grande dolore per gli oltraggi del turismo di massa». Articoli di Italianostra.org e la Nuova Venezia, 14 maggio 2016 (m.p.r.)
Italianostravenezia.org
VOGALONGA, BENVENUTI OTTOMILA VOGATORI
Di fronte alla media di ottantanovemila turisti al giorno che vengono a Venezia (dei quali ben trentamila solo in alberghi e appartamenti), gli ottomila iscritti alla Vogalonga di domani 15 maggio sono come una goccia nel mare. Eppure rappresentano una grande consolazione per tutti noi veneziani e una luce di speranza nel futuro della nostra città. Sono loro le persone che riempiono i social network con espressioni di ammirazione, di amore per la bellezza e spesso di grande dolore per gli oltraggi del turismo di massa. Li abbiamo visti in questi ultimi giorni percorrere spesso i canali minori con le loro canoe e dragon boat, scivolando silenziosi e incantati, così diversi dai gruppi di crocieristi stipati sui taxi in corsa folle verso gli aeroporti o verso le loro navi gigantesche. Domani, partendo dal bacino di San Marco, passeranno davanti alle Vignole, a Burano e a San Francesco del Deserto, a Mazzorbo e a San Giacomo in Paludo. Il fascino della laguna resiste ancora, grazie anche a quel gruppetto di intrepidi che nel 1975 ebbero l’idea di lanciare una vogata che sembrava molto lunga e molto difficile.
Invece si tramutò nell’evento dell’anno per migliaia di residenti e di visitatori. La viviamo con un po’ di malinconia perché a volte ci sembra l’ultimo respiro di un mondo che sta per scomparire, ma in altri momenti possiamo ancora rallegrarci alla vista di tante persone che hanno capito Venezia e la rispettano e amano, e allora ci diciamo che forse non tutto è ancora perduto.
La Nuova Venezia
OTTOMILA VOGATORI ALLA MARATONA DEI RECORD