«Gli altoatesini bocciano il progetto di ampliamento della giunta provinciale a guida Svp. Il ministro Boschi aveva sostenuto il sì: "Pensarsi piccoli è miope" ». Il Fatto quotidiano online, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
Quasi un plebiscito a Bolzano contro il nuovo aeroporto. Alla fine hanno vinto le considerazioni ambientali su quelle economiche e anche il timore che l’ampliamento della struttura, sotto la mano pubblica della Provincia Autonoma, potesse diventare l’inizio di uno spreco senza fine. Dopo che negli ultimi anni lo scalo si è già ingoiato, secondo stime dei Verdi, qualcosa come 120 milioni di euro.
Al referendum popolare ha partecipato il 46,7 per cento degli aventi diritto, abbondantemente sopra il quorum del 40 per cento. Hanno detto “no” il 70,7% degli altoatesini, sulla scia della posizione espressa da ambientalisti, parte della Svp e partiti di minoranza. La linea a favore, che era stata sponsorizzata dal presidente della Provincia Autonoma, Arno Kompatscher, parte del Svp e soprattutto dalle catgorie economiche, a cominciare da Confindustria, ha raggiunto solo il 29,3 per cento. Un risultato che non lascia dubbi: l’Alto Adige, pur consapevole delle esigenze di sviluppo del turismo, preferisce la tutela dell’ambiente che un aumento del traffico aereo avrebbe sicuramente compromesso.
Mentre davanti al palazzo della Provincia i comitati del “no” facevano festa, il presidente Kompatscher ha preso atto del risultato: «Ora metteremo in pratica quanto i cittadini hanno deciso». Di conseguenza, la pista non sarà allungata, come una norma già in vigore consentirebbe. E la mano pubblica farà un passo indietro: la società di gestione Abd (che è al 100 per cento della Provincia) cesserà di avere il suo ruolo e la concessione sarà messa a gara.
Per i Verdi non è solo una questione ambientale. “L’Alto Adige ha parlato chiaro: il progetto per l’ampliamento dell’aeroporto di Bolzano non ha convinto. Vent’anni di investimenti fallimentari non possono essere compensati da un nuovo rilancio”. Poi snocciolano i numeri, ribaditi durante la campagna pre-referendum. “Finora già 120 milioni di euro sono stati gettati nello scalo e nei relativi servizi. Dal 2017 verranno aggiunti 2,5 milioni (e 2,5 milioni di contributo della Camera di Commercio) fino al 2022, per raggiungere l’obiettivo di 170mila passeggeri. Non è tutto: oltre ai contributi diretti occorrerà coprire le perdite previste, e a ciò direttamente o indirettamente dovrà pensare la mano pubblica nei prossimi 20 anni, visto che il pareggio è previsto solo al 2035 a patto che si superino i 500mila passeggeri”.
Sulla stessa linea l’ex senatore della Svp, Oskar Peterlini, che se la prende con i vertici del suo partito: «Una vittoria politica del popolo contro una giunta prepotente e una leadership Svp arrogante”. La delusione sull’altra barricata. “Restiamo tuttora convinti, che un aeroporto gestito dalla mano pubblica sarebbe importante per l’economia dell’Alto Adige» ha detto Manfred Pinzger, presidente dell’Unione Albergatori e Pubblici Esercenti.
Già un referendum si era tenuto nel 2009, quando presidente era Durnwalder, e ne aveva bloccato anche allora l’espansione. Il nuovo piano approvato nell’ottobre 2015 prevedeva il prolungamento della pista di atterraggio, l’utilizzo di aerei più grandi, dai 6 agli 8 voli all’ora, con una attività fra le 12 e le 14 ore al giorno, maggiori finanziamenti pubblici e finanziamenti provinciali per investimenti in aeroporto, negozi e parcheggi.
E pensare che una settimana fa, intervenendo all’assemblea di Assoimprenditori a Bolzano, il ministro Maria Elena Boschi, riferendosi a chi “si oppone al semplice ampliamento di una pista di aeroporto”, aveva detto che “immaginarsi più piccoli è miope”
Un 'articolo sulla situazione ingessata a due anni dall'inizio dell'evento e un'intervista a Salvatore Settis. Con la speranza che non venga riproposto il modello Expo e che la città non venga "valorizzata" in una nuova Disneyland. Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2016 con postilla (p.d.)
MATERA, LA "VERGOGNA D'ITALIA"
IN CERCA DI RISCATTO CULTURALE
di Silvia D'Onghia
Dicono che il 17 ottobre 2014 a Matera si sia registrato un forte movimento tellurico. Nessun terremoto, però, ha scosso la città: solo un boato, provocato da sessanta mila cuori che hanno sussultato, nell’attimo in cui nelle lontane terre del ministero della Cultura è nato il riscatto. Non più rassegnazione, non più “vergogna d’Italia”, ma speranza, futuro, scommessa. Città europea della Cultura per il 2019, avamposto (il primo) di un Mezzogiorno ostinato e contrario. Sempre solidale, a volte sorridente; diffidente e geloso della propria storia, ma anche del proprio orrore.
“
C’aim' a fà’”, che dobbiamo fare, questa è la nostra vita e ce la teniamo. E invece no, non più. L’Europa porta nuova linfa tra i vicoli che scompaiono dietro le case, che poi case non sono. Semmai grotte riconosciute dall’Unesco nel 1993 patrimonio dell’umanità. Un riscatto cominciato una quindicina di anni fa – quando architetti e artisti iniziarono a rendere “residenze”quei Sassi, imbuti al contrario – e sigillato, adesso, davanti agli occhi del mondo. La “vergogna” resta chiusa nelle cisterne che un tempo – neanche lontano – portavano l’acqua piovana ma anche la tubercolosi.
La vittoria europea
Non solo di memoria si vive. La scommessa è trasformare il riscatto in Cultura. L’hanno capito i cittadini (e dopo anche i politici) che hanno candidato la città al riconoscimento europeo. E infatti il dossier “Matera 2019” è ricco di progetti. Costosi, ambiziosi e, si spera, fattibili. Si spera perché, a due anni e mezzo dallo scoccare del gong, quasi tutto è ancora da fare. Colpa dei soldi che non arrivano da Roma, della burocrazia e dei ricorsi, della mancanza di personale e delle regole del Patto di Stabilità. “Colpa del fatto che, subito dopo la designazione, si celebrava e non si monetizzava”, afferma il sindaco Raffaello De Ruggieri, avvocato lamalfiano ottantunenne subentrato in corsa, un anno fa. “Abbiamo a disposizione 109 milioni di euro che servono per mobilità, accoglienza e servizi. Non è molto, ma è un punto di partenza. Come punto di partenza deve essere il 2019, un’opportunità per restituire qualità sociale e urbana”.
La memoria di Cristo
“Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie. [...] Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. [...] Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa. [...] Sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste”. Così Carlo Levi, nel 1945, nella radiografia a colori di “Cristo si è fermato a Eboli” stigmatizzò quella che Togliatti, tre anni dopo, avrebbe definito, appunto, la “vergogna”. Abitazioni scavate nella roccia – un’architettura in negativo, sfruttata dal Paleolitico ai giorni nostri – ambienti unici in cui si viveva tutti insieme: uomini, donne, “un’infinità di bambini”, muli, maiali, galline sotto il letto. Una sola finestra, il riscaldamento affidato a un braciere e allo sterco degli animali; una cassa del pane, in cui tenere anche il foraggio, e un telaio, affittato d’inverno per vestire di stracci quelle creature mandate da dio, messe a dormire con l’aiuto dell’oppio nei cassetti del comò. Tutto visibile, ancora oggi, nelle grotte divenute musei per non dimenticare.
I progetti del dossier
A gestire la partita è la Fondazione Matera-Basilicata 2019, nel cui Cda siedono il Comune, la Provincia, la Regione, l’Università e la Camera di Commercio, e il cui direttore, il torinese Paolo Verri, è già conteso tra il governatore Pittella e l’omologo pugliese Emiliano. Due i pilastri del dossier: l’I-DEA e l’
Open Design School. L’Istituto Demo-Etno-Antropologico servirà a mettere in Rete tutti gli archivi della Basilicata, pubblici e privati, per creare una sorta di “archivio degli archivi – racconta Rita Orlando, architetto materano prestato alla gestione, al monitoraggio e al follow up dei progetti – il più possibile in open source. L’
Open Design School è la scommessa più grande: partendo dalla Cava del Sole, un workshop internazionale di 15 persone che, da settembre, dovrà ripensare gli spazi, le strutture, gli accessi alla città”.
Nota dolente, questa: per evitare che la parte nuova di Matera si trasformi in un unico enorme parcheggio, si è pensata una metropolitana da 36 milioni di euro. Finora, però, non è partito nemmeno un cantiere. “Abbiamo poi un progetto di alta formazione degli operatori culturali – prosegue Orlando – per recuperare il senso di comunità che le polemiche politiche hanno sfilacciato”. Già, la politica. A Matera non ne vogliono sentir parlare: il mare è lontano, le trivelle pure, le passerelle aumentano. Bisogna essere amici di tutti, i soldi arrivano da Roma.
C’è un oggetto che si vende nelle piazze dei Sassi, il cucù: un fischietto a forma di uccellino che veniva regalato dal fidanzato alla fidanzata prima del matrimonio. Più era decorato, più erano i soldi che l’uomo avrebbe messo nella vita coniugale. Per far sì che Matera non diventi una nuova Expo, servirebbe un enorme cucù.
“E' UNA CIVILTA' DELL'ABITARE
NON LA FACCIAMO DIVENTARE
UNA NUOVA DSNEYLAND”
di Alessia Grossi
Si dice rallegrato del successo di Matera il professore Salvatore Settis, “per due ragioni: perché è una città unica al mondo, bella, che attende un riscatto da troppo tempo, e soprattutto perché quest’ultimo è venuto direttamente dai cittadini, coscienti finalmente di essere in possesso di un bene straordinario”, spiega.
Questo riconoscimento lo vede come un'opportunità?
Sì. C'è stato un momento, negli anni '50 in cui quei sassi erano ritenuti qualcosa di selvaggio, di primitivo, una vergogna nazionale, da dimenticare, anzi, da demolire. La proposta non è mai stata fatta, ma si sarebbero volentieri fatti saltare in aria con una bomba. Da allora i cittadini hanno capito gradualmente che quello di cui erano in possesso era una vera e propria “civiltà dell'abitare” con tutte le sue peculiarità e la sua storia. Quindi hanno cominciato ad apprezzare i sassi. Questo riconoscimento europeo è l'opportunità di recuperare quella storia. E finalmente la coscienza degli abitanti è in continuità con il parere di molti che la ritengono una meraviglia.
Conosce il dossier presentato da Matera?
No, non lo conosco nei dettagli
Sa che si farà una metropolitana?
Ecco, non ne ero a conoscenza. Diciamo che - pur non avendo visto tecnicamente di cosa si tratta - non è la prima cosa che mi sarebbe venuto in mente di fare per la rivalutazione della città. L’ultima volta, non molto tempo fa che ci sono stato, ho visto ancora tante case disabitate e chiese bellissime in disuso e abbandonate. Credo che vadano prima di tutto recuperate queste che sono il simbolo della città e poi si dovrebbe pensare al resto. Però dipende sempre da come si fanno le cose. Se la metropolitana verrà costruita nel rispetto del centro storico e non lo trasformerà in una specie di
Disneyland, potrebbe anche andare bene, anche se secondo me ci sono altri modi per portare i visitatori in città, facendo in modo che i pullman si fermino fuori.
Matera capitale europea della cultura da un lato e trivelle dall'altro, un ideale “scambio”?
Questo concetto non dovrebbe essere neanche pronunciabile. È come quando si dice che a Taranto c'è più lavoro anche se per lavorare si mette a repentaglio la vita dei cittadini. Io al Referendum sulle trivelle ho votato contro perché penso che siano dannose, mettano a rischio la salute dei cittadini e l'ambiente. Anche in questo caso sono stati i cittadini a fare una vera e propria battaglia per promuoverlo ottenendo ottimi risultati, nonostante poi non sia stato raggiunto il quorum. Lo “scambio” trivelle-sassi però purtroppo è vero che potrebbe esistere vista la mentalità corrente.
Tutto questo sforzo per la riqualificazione della città finirà nel 2019?
No. È impossibile, o meglio, non dovrebbe essere così. Non c'è solo Matera, c'è tutto un territorio che va riqualificato. Lì intorno ci sono zone devastate anche dal punto di vista ambientale. Girando per la campagna mi sono imbattuto nel famoso ponte a metà, sospeso nel vuoto. Quello sì che dovrebbe essere fatto saltare in aria con una bomba, a meno che non si decida di terminarlo. Anche in questo caso, come in molti altri, poi c’è da dire che i problemi di una città non si risolvono mai con un grande evento. Vale lo stesso principio che applichiamo con il nostro corpo: c'è bisogno di manutenzione continua.
postilla
È davvero sconcertante come ci si dimentichi la storia anche recente. È dalla metà del secolo scorso che si studia, si discute, si progetta, si fa e si disfa per riabilitare la struggente bellezza del patrimonio storico di questa incredibile città, e nessuno sembra ricordarlo. Per fortuna che c'è eddyburg e il suo archivio. Digitate Matera Sassi sul "cerca". o almeno leggete questi tre articoli: Matera schiaccia i Sassi, di Francesco Erbani, Il centrosinistra e il sacco di Matera, di Michele Fumagallo, e Se Matera diventa capitale della cultura lo deve a Olivetti, di Carlo Vulpio.
Esperimenti disastrosi nell'ambiente di cui si ignoravano e continuano a ignorarsi le conseguenze. Internazionale
, 12 giugno 2016 (c.m.c.)
L’isola di Bikini è ancora radioattiva, più di quanto previsto. È quindi difficile che gli sfollati possano tornare a casa. L’isola fa parte di un atollo delle Isole Marshall, nel Pacifico. Su questo atollo e su quello di Enewetak gli Stati Uniti hanno condotto tra il 1946 e il 1958 alcuni test nucleari. Dopo aver spostato la popolazione su altre isole, hanno fatto esplodere 67 bombe nucleari. A causa di questi test anche i vicini atolli Rongelap e Utirik, che erano abitati, sono stati contaminati. Gli sfollati hanno provato a tornare a Rongelap in 1957 e a Bikini nel 1968, ma la radioattività era troppo alta.
Un team della Columbia University di New York ha misurato l’effettiva radioattività su sei isole. Sono state studiate Enewetak, Medren e Runit, dell’atollo Enewetak, Bikini e Nam, dell’atollo Bikini, e Rongelap, dell’atollo omonimo. In precedenza ci si affidava a proiezioni basate su dati storici.
Emlyn Hughes e colleghi hanno scoperto che a Bikini la radioattività è superiore a quanto previsto dagli accordi tra Stati Uniti e la repubblica delle Isole Marshall. L’isola non può quindi essere abitata.
Su altre isole la radioattività è invece molto più bassa, sotto le soglie stabilite. In questo caso, secondo i ricercatori, andrebbe calcolata anche l’esposizione dovuta al consumo di alimenti prodotti localmente, come le noci di cocco, prima di autorizzare il ritorno degli sfollati. Due isole probabilmente non saranno più abitabili: quella di Nam, distrutta da un’esplosione nucleare, e quella di Runit, dove è stato costruito un deposito di scorie.
Lo studio, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, ha considerato la radioattività dovuta al cesio, ma in alcuni casi è presente anche il plutonio.
Ripubblicazione della "Lunga guerra per l’ambiente", l'opera di una donna che ha svolto un ruolo riulevante nells culturs italiana del secolo scorso. La Repubblica
, 12 giugno 2016 (c.m.c.)
«Salerno, che dall’alto gode ancora della linea armoniosa del suo golfo, e di una luce dolcissima che quasi non penetra nel nodo intricato e ingegnoso delle strette vie del suo centro storico, ha difensori accaniti ed esperti»: come riscriverebbe, oggi, questo brano Elena Croce (1915-1994)? Certo, ritroverebbe i difensori di Salerno (l’esemplare sezione di Italia Nostra), ma non più la linea del Golfo, sfregiata (per sempre?) dal Crescent pervicacemente voluto da Vincenzo De Luca.
La ripubblicazione della
Lunga guerra per l’ambiente (a cura di A. Caputi e A. Fava, con una introduzione di S. Settis, La scuola di Pitagora editrice) della primogenita di Benedetto Croce è un fortissimo richiamo «al dovere di impegnarsi nelle battaglie civili anche contro chi resta in disparte perché calcola che non si vince» (così Mario De Cunzo).
È amaro il disincanto con cui Elena Croce constata che «non sono mancati i casi in cui, pure reclamando la rimozione di gravi fonti di inquinamento come l’Italsider di Bagnoli, si doveva tremare al pensiero di ciò che l’avrebbe sostituita».
E non abbiamo smesso di tremare, anche se le pressioni di un’intera cittadinanza sembrano finalmente aver indotto il governo a rinunciare alla speculazione: saranno i prossimi mesi, e la qualità della bonifica, a dirci se stavolta riavremo Bagnoli.
Ambientalismo, per la Croce, non era sinonimo di immobilismo: «Una politica civile del territorio non significa del resto fare di ogni cosa museo, come sogghigna costantemente gran parte dei politici stimolando la protesta: “non vogliamo essere un museo, vogliamo vivere”.
È uno degli slogan più grotteschi che abbiano infestato il nostro paese in questi scorsi anni». La soluzione è, invece, la «formazione di quadri culturali adeguati alla tutela» dell’ambiente. Ripeterlo oggi sembra ingenuo. «Ma a chi da molti anni si occupa di difesa dell’ambiente, e conosce quindi abbastanza a fondo la gamma delle puerili, irresponsabili astuzie del potere, l’accusa di ingenuità non dà più alcun complesso». La lunga guerra per l’ambiente è appena cominciata.
«Negli ultimi giorni infuria il dibattito sull’Inceneritore di Firenze e fra i vari argomenti portati avanti dalle amministrazioni comunali interessate quello dell’impossibilità di tornare indietro nel percorso decisionale intrapreso. Ma è davvero così?». La città invisibile, 8 giugno 2016 (c.m.c.)
Quello dei rifiuti è uno dei servizi che fa emergere le contraddizioni del sistema Italia, dove, a fronte del mancato raggiungimento degli standard stabiliti dalle direttive europee – il 65% di R.D. – vengono confermate le strategie di raccolta che non portano a raggiungere l’obiettivo: “una sana gestione imprenditoriale, sottolinea il Presidente Merletti di Confartigianato, “vale anche per le amministrazioni pubbliche”, il che significa che le tariffe sostenute dai cittadini devono tradursi in qualità del servizio.
E’ un problema di organizzazione e quindi di management, le gestioni dei rifiuti alternative all’incenerimento, ossia porta a porta con tariffazione puntuale e impiantistica a freddo con recupero di materia, non solo sono concretamente realizzabili, ma portano a una diminuzione dei costi, con aumento dell’occupazione, come ci insegnano le esperienze già in atto.
Ma veniamo esplicitamente ai costi di realizzazione per impiantistica di trattamento e smaltimento di supporto alla discarica. Situazione con inceneritore di Firenze-Sesto Fiorentino: costo pari a circa 170 milioni di Euro, da PEF Piano Economico Finanziario di Qthermo, per smaltire 200.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui.
La situazione invece prospettabile con impianto di Trattamento Meccanico Biologico (TMB) finalizzato a recupero materiali è questa: circa 40 milioni di Euro per trattare una analoga quantità di rifiuti indifferenziati in ingresso (200.000 tonnellate). Una quantità sovradimensionata rispetto al fabbisogno, infatti, con una gestione di raccolta PAYT (porta a porta con tariffazione puntuale), l’esperienza mostra che sia arriva non solo a percentuali intorno all’85% di differenziata, ma anche a una riduzione significativa del rifiuti.
Sarebbe dunque più che sufficiente andare a ristrutturare (revamping) l’impianto TMB (trattamento meccanico biologico) di Case Passerini, autorizzato per 130.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui; in tal caso il costo di revamping è stimato sui 5 milioni di Euro, come da costo previsionale di analogo impianto a Pioppogatto-Massarosa (Lucca).
Il rifiuto solido, da inviare a discarica, prodotto in uscita dai 2 sistemi a confronto (raccolta integrata+inceneritore e raccolta porta a porta PAYT+fabbrica recupero materiali) è comparabile; è però diversa la natura e la classificazione di tale rifiuto solido, tossico e pericoloso nel primo caso, non tossico e non pericoloso nel secondo caso. Non tenendo conto delle sostanze emesse al camino dall’eventuale inceneritore, veicolati all’interno di una massa di fumi pari a 170.000 m3/h per 8.000 ore/anno.
Evidenziamo inoltre che i dati italiani riportati dall’Ansa il 28 maggio scorso rilevano un calo di produzione di rifiuti (negli ultimi 5 anni sono diminuiti del 10,1%) rispetto a tariffe di raccolta che continuano a galoppare, lievitate del 22,7% dal 2011, spesso a fronte di strade e quartieri invasi da sporcizia.
Confartigianato riferisce che soltanto un terzo (34%) degli italiani è soddisfatto della pulizia della propria città, un valore inferiore di ben 29 punti percentuali rispetto al 62% della media europea e che ci colloca all’ultimo posto in Europa per il livello di soddisfazione dei servizi di igiene urbana.
In Toscana si pagano mediamente 210, 3 euro ad abitante, ma cosa accadrebbe se il nuovo impianto di incenerimento venisse realizzato? Qthermo sostiene che non ci saranno rincari, ma facciamo delle stime e mettiamo a confronto le due diverse modalità di smaltimento dei rifiuti, nello schema allegato.
Proprio questa settimana è intervenuto sulla stampa, contestualmente al Dottor Giannotti, AD di Quadrifoglio, il Professor Themelis , della Columbia University, uno dei maggiori sostenitori dei termovalorizzatori in ambito americano come si legge nelle sue note biografiche, Presidente e fondatore di WTERT (Waste to energy Research and Technology Council).
Quando interviene un tecnico ci si deve sempre chiedere se c’è un conflitto di interessi, si nota ad esempio che tra nella lista di sponsors di WTERT si trova COVANTA, che gestisce 42 inceneritori negli Stati Uniti. Non dimentichiamo che le interpretazioni dei dati possono essere molto diverse.
Ad esempio Themelis cita la Danimarca come ottimo esempio per quanto riguarda la raccolta differenziata e in generale per la gestione dei rifiuti. Ma i dati dimostrano invece che inceneritori ed economia circolare non possono andare a braccetto. La percentuale di raccolta differenziata in Danimarca è inferiore al 50%, come a Brescia e a Parigi, quando le direttive europee stabiliscono un minimo del 65%, dal 2012, che se non raggiunto viene sanzionato.
Inoltre la Danimarca è uno dei maggiori produttori di rifiuti in Europa. Sappiamo bene come nelle realtà, come Empoli e la provincia trevigiana, dove si attua una gestione virtuosa, non solo si hanno percentuali di raccolta differenziata attorno all’85%, ma vi è una diminuzione molto significativa dei rifiuti. Per finire il governo danese ha adottato un programma “Recycle more, Incinerate less” proprio per cambiare direzione.
Esce inoltre oggi un articolo sui monitoraggi ambientali entro 5 km dal futuro impianto. Se aveva lo scopo di tranquillizzare i cittadini li mette ancor più di fronte alla certezza del rischio incombente, come noi ben sappiamo. Monitoraggio previsto su animali e prodotti agricoli, tempestivo e coordinato fra più centri, ma la domanda resta sempre la stessa: in presenza di danno ambientale che facciamo?
Sappiamo che l’impianto non verrà spento, come succede a Montale e come successo per l’inceneritore di San Donnino, chiuso di urgenza nel 1986 per disastro ambientale accertato dall’Istituto Superiore di Sanità e che ha regalato un’impennata di morti per tumore negli abitanti dell’area, e non solo. Morti su cui non si è mai avuta alcuna indagine istituzionale. Uno degli slogan della grande manifestazione del 14 maggio era: nessun rischio evitabile è accettabile. A maggior ragione se esistono delle alternative praticabili.
Il 14 maggio un corteo di quasi 20.000 persone ha invaso Firenze affinché anche a Firenze si cambi direzione, verso la modernità. Ignorare questa volontà di partecipazione, ignorare la richiesta forte di voler decidere del proprio territorio e della tutela della propria salute è una grande responsabilità politica. Le amministrazioni devono scegliere se vogliono lavorare contro la cittadinanza, aprendo una stagione di conflittualità sociale, o se vogliono lavorare insieme alla cittadinanza, fermando il progetto e aprendo un vero confronto partecipato sulle alternative alla costruzione dell’impianto.
«Esiste il diritto alla resistenza in molte costituzioni, anche nella nostra, resistenza contro atti percepiti come ingiusti e per ribadire un diritto, quello della libertà di riunione pacifica, quello di avere un ambiente non inquinato». La Nuova Venezia, 11 giugno 2016 (m.p.r.)
Venezia. I 49 manifestanti contro le grandi navi sono stati assolti. Ieri, alle 16, il giudice monocratico di Venezia Stefano Manduzio ha letto la sentenza. Fatto non sussiste e fatto non costituisce reato: queste le formule scelte per i reati di inosservanza dei provvedimenti delle autorità, inosservanza delle prescrizioni del questore e accensioni pericolose, così come avevano chiesto i difensori, gli avvocati Aurora D’Agostino, Giuseppe Romano, Michele Maturi e Mario D’Elia. Il pm Elisabetta Spigarelli aveva chiesto la condanna di 12 dei 49 imputati, tra cui Michele Boato, Tommaso Cacciari e Michele Valentini, ma anche loro sono stati assolti per aver organizzato e partecipato alla manifestazione sulle barche alla Punta della Dogana il 12 settembre 2012.
«In questo caso si è voluto trasformare la dissidenza in delinquenza», ha affermato l’avvocato Romano, chiedendo l’assoluzione per tutti. «L’obiettivo della protesta», ha proseguito, «ottenere che le grandi navi da crociera non passino più per il bacino San Marco è ormai condiviso da tutti, per risolvere il problema c’è chi come il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini propone di farle attraccare a Trieste mentre il sindaco Brugnaro vuole scavare un canale per farle arrivare comunque in Marittima. Ora ammettiamo che durante quella manifestazione tutti conoscessero le prescrizioni del questore, ma abbiano deciso di disobbedire per non essere rinchiusi con le loro barche in uno spazio ristretto, ritenendo ingiusta l’ordinanza della Polizia. Esiste il diritto alla resistenza in molte costituzioni, anche nella nostra, resistenza contro atti percepiti come ingiusti e per ribadire un diritto, quello della libertà di riunione pacifica, quello di avere un ambiente non inquinato».
Per il legale dei manifestanti, la polizia in teoria difendeva l’ordine pubblico, ma nessuno l’aveva messo in discussione e in realtà l’unico interesse colpito in quel momento era quello dei crocieristi. L’avvocato D’Agostino ha sostenuto che quelli accesi in una barca erano semplici e innocui fumogeni colorati, mentre gli avvocati Maturi e D’Elia hanno puntato a dimostrare che non c’era alcuna delimitazione tracciata dai poliziotti. «Si dovrebbe punire chi non attua il decreto Clini-Passera del 2 marzo 2013, il quale prevede il blocco del passaggio delle grandi navi a San Marco e i manifestanti volevano ovviare a questa gravissima omissione» ha sostenuto Maturi. Il pm aveva chiesto l’assoluzione per tutti i passeggeri delle barche e la condanna per quelli che ne avrebbero condotte sei oltre il limite indicato dalla Polizia, oltre per coloro che avevano acceso i fumogeni. «Il vero disturbo durante quella manifestazione», ha dichiarato Tommaso Cacciari dopo la sentenza di assoluzione, «lo hanno creato le forze dell’ordine con l’elicottero che volava basso sopra le nostre barche e le moto d’ acqua che provocavano moto ondoso, sono state l’unico elemento di confusione».
«Ormai nessuno difende il passaggio delle grandi navi in bacino San Marco», ha concluso Cacciari, «eppure non capiamo come mai continuino a passare. Basta a questo scempio e noi saremo ancora a manifestare domenica 12 giugno alle Zattere, nel pomeriggio quando partiranno dalla Marittima le navi da crociera».
«Berdini a Roma, Montanari a Torino: chi sono e cosa pensano gli assessori in pectore. Stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale». La Stampa, 9 giugno 2016 (m.p.r.)
È l’urbanistica il terreno su cui già si misura la sfida al Pd di Virginia Raggi e Chiara Appendino nei ballottaggi a Roma e Torino. Come assessori hanno indicato due «urbanisti gemelli»: Paolo Berdini e Guido Montanari. Nomi pesanti con radici accademiche, noti nelle città per le numerose battaglie civili, stessi maestri e una comune radice culturale, «prima che la sinistra buttasse alle ortiche l’urbanistica». Le loro idee: stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale. Proclamano «la fine dell’urbanistica neoliberista» e una soluzione di continuità con le giunte di centrosinistra.
Berdini e Montanari si riconoscono negli insegnamenti di Edoardo Salzano, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia. Negli ultimi anni si sono ritrovati sia su temi nazionali che su battaglie locali. L’ultima è quella sulla Cavallerizza di Torino, il complesso tutelato dall’Unesco su cui il Comune ha lanciato un’operazione finanziaria (con Cassa Depositi e Prestiti) di ristrutturazione. Montanari è nel comitato «Cavallerizza Bene Comune», che ha occupato gli spazi e riaperto lo splendido giardino per opporsi alla privatizzazione.
Prima si era battuto contro i grattacieli e la trasformazione in centro commerciale del Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi, che nel ’61 ospitò la celebrazione del centenario dell’Unità d’Italia. Tutte operazioni targate Pd. Tutte battaglie su cui ha incrociato i militanti del Movimento 5 Stelle. A una manifestazione Chiara Appendino, dopo averlo ascoltato, si avvicinò per conoscerlo. La frequentazione si è consolidata in vista delle elezioni, quando gli ha chiesto di collaborare al programma. Poi l’ha scelto come assessore.
Si sono trovati subito su alcuni capisaldi. Primo: il patrimonio comunale di valore storico e architettonico deve restare pubblico, sia per la proprietà che per la gestione. Spiega Montanari: «I gioielli di famiglia non si toccano. Le esigenze finanziarie? Non si può chiedere a un povero di vendersi cornee e reni».
Secondo: «Il territorio non deve essere un bancomat per un Comune assetato di oneri di urbanizzazione». Montanari vuole una revisione «dalla A alla Z» del piano regolatore del 1995. «Erano previsti 10 milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Ne sono stati realizzati poco più della metà. Il residuo va ripensato, quartiere per quartiere, secondo le esigenze reali di un mercato cambiato, con 50 mila alloggi vuoti. I piani che comportano consumo di suolo si bloccano, le trasformazioni di aree già edificate, come quelle ex industriali, si orientano diversamente: no residenze e centri commerciali, ma piccole attività artigianali e commerciali e servizi collettivi». E poi sconti fiscali per interventi di riqualificazione ed efficienza energetica, investimenti nelle periferie («Le Spine, i quartieri nati negli ultimi vent’anni, sono disastrosi»), difesa delle destinazioni produttive («Meglio una fabbrica abbandonata che un centro commerciale: prima o poi qualcuno torna a produrre»).
Idee che Montanari ha sperimentato negli ultimi anni come assessore a Rivalta, comune dell’hinterland torinese, e illustrato qualche settimana fa all’associazione costruttori. «Ci dicono che noi siamo per l’opzione edilizia zero, per la decrescita? Ma la decrescita c’è già, lo dicono i costruttori. L’edilizia è già a zero. In Comune arrivavano 30 pratiche a settimana, ora 3. Questa è urbanistica del no, la nostra è urbanistica della felicità». È vero che anche le associazioni di categoria negli ultimi anni hanno cambiato rotta su questi temi, ma restano nodi non sciolti. Dove trovare le risorse per fare tutto questo, se si riducono gli incassi degli oneri di urbanizzazione? Resta un margine di vaghezza, oltre l’impegno a racimolare 5 milioni di euro dal taglio di sprechi e consulenze del Comune.
Berdini è sulla stessa lunghezza d’onda. Spiega che «lo stop all’espansione sull’agro romano (15 mila ettari decisi dal Piano di Veltroni nel 2008) non è ideologica, ma pragmatica. Roma è una città fallita perché dal 1993 ha inseguito gli interessi immobiliari privati». Non vuole bloccare tutti i progetti edilizi, ma solo quelli che «provocano un aggravio di spesa pubblica per portare i servizi e gestirli. Sulle aree già urbanizzate si può andare avanti». Altri capisaldi: più trasporto pubblico e stop a grandi opere (tipo centro congressi Eur o stadio del nuoto a Tor Vergata, esempi di spreco e abbandono). «Vogliamo dirottare gli investimenti su interventi nelle periferie della devastazione sociale».
Berdini non si nasconde «i rischi» di un approccio così radicale. Le questioni finanziarie che si possono aprire, i rapporti con le categorie interessate. «Ma qui è in gioco la tenuta patrimoniale delle famiglie. Nelle periferie il valore delle case è calato già del 30-35%. Vogliamo aumentare ancora l’offerta, nonostante la crisi di domanda?». E i palazzinari? «La filiera della casa non funziona, lo sanno anche loro. Sarà dura, ma non ne temo l’ostilità. Ne conosco alcuni, ci capiranno».
Effetti collaterali della decadenza programmata del pubblico rispetto al privato, dell'individuale rispetto al collettivo, e delle altre vittorie del finanzcapitalismo. Ma se scendessimo a Sud sarebbe ancora peggio. Corriere della Sera, ed. Roma, 10 giugno 2016
Fino a pochi anni fa Roma era il Comune più agricolo d'Italia. Ora è il terzo, superato da Andria e Cerignola. Il consumo di suolo, nonostante la pesante stasi edilizia, procede, in tutta Italia, e anche l'Agro Romano superstite si riduce. Ma, in questo quadro, c'è un settore in crisi ancor più grave, in crisi epocale. Ed è il verde pubblico, non la sua quantità (che è aumentata), ma il suo stato di manutenzione, il suo degrado che sembra inarrestabile. Siamo al disastro. Negli ultimi decenni l'attenzione delle Amministrazioni è stata sempre più ridotta. Lo testimonia la cifra datami da un esperto: il Comune di Roma, dopo decenni di tagli, investe mezzo centesimo di euro per ogni metro quadrato di verde.
Del resto i giardinieri in forza al Comune sono precipitati dai 1300 del 1995 (dati ufficiali del Comune, pubblicati nel Rapporto 2013) ai 250 odierni, una parte dei quali nemmeno in grado di svolgere lavori pesanti. Quindi un calo spaventoso, superiore all'80 % (80,7). Da anni non ci sono più concorsi, da anni non vi sono più assunzioni. L'ultima ventina di giardinieri reclutati sono arrivati, senza particolare preparazione specifica, dalle liste dell'Ufficio di collocamento.
C'è stata quindi a Roma come e più che in altri Comuni italiani una disastrosa sottovalutazione del problema della cura, della manutenzione, ordinaria e straordinaria, del verde pubblico, dei viali, dei parchi, dei giardini, delle ville storiche. Per anni si è tagliato ad ogni nuovo bilancio un 10 % circa della spesa destinata a questo servizio essenziale per ragioni ambientali, estetiche e igienico-sanitarie.
Praticamente oggi ci sono 20 sparuti giardinieri per ogni Circoscrizione. A fronte di questo contingente ridottissimo a Roma si calcola che vi siano 330.000 alberi circa dei quali 130.000 lungo le strade e altri 200.000 nei parchi e nelle ville storiche alcune delle quali sono vaste dai 150 ai 180 ettari. I mq di verde pubblico - a differenza di quelli di verde agricolo - sono aumentati fra 1995 e 2010 salendo da 30,5 a 39,3 milioni.
La caduta di rami o di interi alberi (di pini in specie che schiantano all'improvviso) è diventata sempre più frequente con morti e feriti gravi di continuo. Meno fondi per il personale qualificato, affidamento di servizi specializzati a cooperative di ex detenuti, principio socialmente valido, ma con risultati disastrosi se non si fanno prima corsi adeguati di formazione.
Meno fondi ovviamente anche per nuove falciatrici meccaniche, nuove gru, meno decespugliatori, ecc. Con una crescente demotivazione fra i giardinieri superstiti.
I prati non vengono sfalciati, neppure nel fossato di Castel Sant'Angelo, gli alberi caduti o segati non vengono sostituiti per mancanza di mezzi e di macchine. Alcune Ville come Villa Sciarra o la stessa ampia Villa Doria Pamphilj sono in grande sofferenza.
Dopo Mafia Capitale non ci sono stati in pratica nuovi investimenti, nuovi affidamenti, se non per la somma modesta di 200.000 euro. Sempre il Rapporto ufficiale del Comune ci dice che il Servizio Giardini gestisce soltanto il 41 % del verde urbano, mentre il 59 % è affidato a soggetti per lo più esterni: 30 % ditte, 10 % Ama, 10 % cooperative, quote minori ad altri Dipartimenti o Municipi. Per risalire da questo baratro e riavere un Servizio Giardini sufficientemente efficiente ci vorranno anni e anni di duro lavoro, di investimenti mirati, di riqualificazione del personale, di cultura insomma del verde urbano degna di una capitale storica quale è Roma.
Un'analisi critica del progetto che i poteri forti propongono per privatizzare il prestigioso complesso e sottrarlo all'uso pubblico. Testi di Riccardo Bedrone, Paolo Berdini, Paola Somma, Elisabetta Forni ed Emanuele Negro
premessa
Da tempo il complesso della Cavallerizza Reale di Torino è oggetto di minacce di privatizzazione della proprietà e nell'uso e di degradazione delle sue caratteristiche qualitative. E da tempo sono in atto iniziative popolari per la tutela del complesso, delle sue caratteristiche formali e del suo uso sociale. Il processo di liquidazione messo in atto dai poteri forti della città è giunto a un punto di svolta: è stato reso pubblico il mastereplan, affidato dal Comune ad attori privati. Un gruppo di esperti, che da anni si batte per la difesa della Cavallerizza, lo ha analizzato ed espone le ragioni della sua pesante posizione critica. Qui il link per scaricare il testo in formato .pdf
COME TENTARE DI FAR CASSA
CON UN BENE CULTURALE
di Riccardo Bedrone
Si comincia a parlare di recupero della Cavallerizza Reale nel 1995, quando la Città di Torino propone di avviare un processo di riqualificazione dei quartieri storici centrali.
Il complesso, edificato su progetto del Castellamonte (e poi di Alfieri, Mosca, Melano ...), per ospitare anche Zecca, scuderie, Accademia, ecc., costituisce la parte orientale della cosiddetta “zona di comando” sabauda, così definita fin dal 1945 da Mario Passanti, autorevole storico e docente, vera e propria “città nella città”, cresciuta nei secoli a partire dal Palazzo Reale per rispondere alle funzioni amministrative, culturali e militari dello stato assoluto, struttura di potere eccezionale a livello europeo.
Dopo l’incendio dell’adiacente Teatro Regio nel 1936 e i bombardamenti bellici, per gran parte del novecento sembra smarrirsi la consapevolezza di cosa stia dentro al recinto di via Verdi, tanto da diventare luogo estraneo alla città, occupato da depositi, archivi, parcheggi di vari Ministeri ed alloggi per i loro dipendenti.
La considerazione di una dimensione patrimoniale e pubblica per la Cavallerizza è quindi recente. Eppure, già nel 1945 Passanti ne parlava come di un tessuto che proprio nella continuità e nella forma urbana trovava il suo valore, a costituire un insieme le cui componenti dovevano essere intese come un tutto unitario.
Nel 2003 viene stipulato un protocollo di intesa fra Città di Torino e Demanio dello Stato (proprietario) per la futura cessione della proprietà in vista della sua completa riqualificazione a fini culturali, ma solo nel 2007 la città acquista un primo lotto, mentre viene rinviato al 2014 l’acquisto dal Ministero della Difesa della parte restante.
Sopraggiunta la crisi, poco a poco il Comune si ritrova a non poter più valorizzare secondo i proponimenti originari quanto acquistato e decide di cartolarizzarlo. E per rendere più allettante per il potenziale acquirente l'intervento privato sostitutivo, allenta i vincoli di destinazione d'uso del PRGC ed introduce quote crescenti di uso residenziale privato, riservando alla fruizione pubblica soltanto una piccola parte dell'insieme.
A fine dicembre 2014, avendo il Comune di Torino rinunciato al progetto unitario, il Demanio cede la proprietà del secondo lotto alla Cassa Depositi e Prestiti. Dunque, un'operazione nata vent'anni prima con intenti più che lodevoli, si chiude col complesso diviso tra due proprietà, rendendo ancora più problematico un progetto culturale integrato e innovativo.
Nel 2015 il Comune ratifica un Protocollo d'intesa con alcuni Enti (fra i quali Università, Regione, Ente Diritto allo Studio, Teatro Regio, Teatro Stabile, Compagnia di San Paolo) che conferma l'obbiettivo dell'alienazione e della prevalente destinazione privata degli spazi. La Compagnia si fa carico della stesura di un Masterplan che definisca usi, funzioni, assetto proprietario, fattibilità economica e redditività degli investimenti, come termini di riferimento per la successiva cessione.
Il Masterplan, presentato il 19 aprile 2016 in una stringata e poco leggibile versione, sviluppa una analisi interessante ma capziosa su natura e potenzialità del complesso, lasciando molte zone d’ombra.
A parole, si punta all’integrazione di diverse funzioni (culturali, ricettive, terziarie e commerciali) complementari e diversificate, attraverso l’intervento di attori diversi: istituzioni, società civile, soggetti pubblici e privati. Ma la lettura dei dati quantitativi rivela altri intendimenti: la trasformazione residenziale, sottaciuta, emerge come il vero obiettivo.
Affermando che il complesso “… è un oggetto sfaccettato e ambiguo … non è un tessuto continuo ma un dedalo di cantieri e corpi di fabbrica differenti”, giustifica un intervento per parti, con funzioni, usi e categorie di intervento diverse a seconda delle esigenze degli acquirenti, con buona pace del concetto di complesso stratificato ma unitario.
L'uso pubblico viene limitato ad una porzione del piano terra del compendio, senza peraltro che sia identificabile uno specifico progetto culturale. La frammentazione in 10 Unità minime di intervento (UMI) e la genericità di potenzialità ed usi specifici per ciascuna rende preminente l’intervento singolo degli operatori privati, piuttosto che la loro coerente integrazione. Perfino le quattro corti, i porticati e i camminamenti subiscono limitazioni al pubblico accesso.
Quanto alla cospicua domanda di spazi di sosta privati derivante dagli interventi residenziali, si suggerisce di sperimentare sulla Cavallerizza una “politica innovativa” di riduzione e riallocazione delle dotazioni di parcheggio pertinenziale, riducendola ai minimi funzionalmente necessari per ogni specifica attività.
La Compagnia di San Paolo, Ente di diritto privato, non è peraltro vincolata a procedure ad evidenza pubblica ed ha pertanto potuto affidare ad una società di suo gradimento l’elaborazione del Masterplan . È interessante notare però che il titolare della società è un professore ordinario a tempo pieno, coordinatore del Collegio di architettura del Politecnico di Torino, che in ragione del suo status non potrebbe svolgere attività professionale come progettista e, in ogni caso, si sarebbe dovuto assoggettare ad una gara per ottenere l’incarico.
Opacità di processi decisionali e mancanza di garanzia di indipendenza (come invece vorrebbero le regole concorsuali pubbliche) sembrano il corollario di una molto opinabile scelta, forse ancora non definitiva, di alienazione di un pezzo importante della storia della Torino sabauda.
LO SPEZZATINO
DELLA CAVALLERIZZA REALE
di Paolo Berdini
Come si provoca il debito
Ci sono due date nella più recente storia della Cavallerizza Reale che fanno comprendere le motivazioni profonde del progetto presentato dalle società Homers ed Equiter per “valorizzare” il compendio della Cavallerizza reale. Nel 2007 viene siglato il passaggio della proprietà dallo Stato al comune di Torino, conclusione coerente del lungo percorso di riconversione verso il settore culturale della città iniziato nel 1995. Tre anni dopo, nel 2010 prende invece il via il processo di cartolarizzazione di quegli immobili, il comune accende cioè un credito per evitare la crisi di bilancio.
Il biennio 2007 – 2008 ha rappresentato come noto la svolta per il sistema economico mondiale. Nel primo dei due inizia a manifestarsi la crisi del settore del credito immobiliare negli Stati Uniti. Nel secondo si iniziano a misurare le conseguenze devastanti della crisi mondiale. Tra queste conseguenze, la prima e la più immediata è l’ulteriore taglio alle finanze locali: Torino si trova dunque a dover adempiere al contratto d’acquisto della Cavallerizza stipulato con lo Stato in una fase in cui la spesa pubblica viene ulteriormente penalizzata.
Stiamo parlando di cifre tutto sommato modeste per una città importante (22,7 milioni entro il 2014), ma il comune, questo il punto decisivo, deve fare i conti con la fallimentare avventura della Olimpiadi invernali 2006. Come si ricorderà, la candidatura era stata imposta dal gruppo dirigente della città nella vana speranza che avrebbe rappresentato l’occasione di agganciare una nuova fase di investimenti e sviluppo. Viene insomma programmato l’ennesimo evento straordinario caricandolo della consueta retorica ideologica: le Olimpiadi porteranno ricchezza e occupazione alla città. Il bilancio è senza appello: circa tre miliardi di deficit, un fallimento enorme di cui non si parla diffusamente. Tutte gli investimenti comunali devono dunque contribuire a chiudere il buco ed ecco spiegati i motivi della repentina inversione di rotta: non ci sono i soldi per acquistare la Cavallerizza e per di più si utilizzano i fallimentari ingredienti della finanza creativa dominante: il compendio immobiliare viene cartolarizzato e si mettono a bilancio attivo quelli che sono soltanto dilazioni a lungo termine temporale del debito. Il trionfo della cultura creativa iniziata con il ministro dell’economia Tremonti.
Grattacieli e norme di legge per l’intera nazione: il ruolo di Intesa San Paolo
Ma la città sabauda aggiunge un ulteriore elemento aggravante. L’istituto che garantisce la cartolarizzazione è Intesa San Paolo, che, come noto, aveva già beneficiato della generosità comunale ottenendo un enorme aumento di volumetrie dell’edificio in costruzione per la sua nuova sede. E’ la Biis, società deputata agli investimenti fondiari di Intesa San Paolo che diventa attore dell’operazione: a capo di questa società siede il braccio destro di Corrado Passera, Mario Ciaccia. Grazie al comune di Torino e al caso Cavallerizza il duo finanziario sperimenta concretamente pacchetti di intervento e ne ricava più generali articoli legislativi validi per tutto il Paese. Nel 2011, Passera diventa infatti ministro per le infrastrutture del governo Monti e Ciaccia viene chiamato nel ruolo di vice ministro. Dal 2011 con i provvedimenti di Monti fino al 2014 con lo Sblocca Italia del governo Renzi, si assiste ad una organica serie di articoli legislativi che aprono le porte all’intervento finanziario nelle operazioni di trasformazione urbanistica, dall’istituzione delle società di investimento quotate (Siiq) al ruolo preminente di Cassa depositi e prestiti. E’ opportuno sottolineare che proprio CDP diventa il principale operatore della trasformazione degli immobili poiché il comune ha rinunciato scandalosamente ad acquisire la restante parte della proprietà della Cavallerizza dallo Stato.
In buona sostanza, Torino si caratterizza come luogo di sperimentazione di legami sempre più stretti tra finanza e governo locale privo di risorse adeguate a garantire l’attuazione dei progetti pubblici e dunque obbligato a subire le strategie finanziarie.
Le corti della Cavallerizza reale privatizzate
E’ in questo quadro generale che dobbiamo collocare la fase attuale dell’attuazione del progetto della Cavallerizza reale. Nel 2015 la Compagnia San Paolo affida senza gara di evidenza pubblica la redazione del masterplan di trasformazione e –inevitabilmente- l’elemento principale dell’operazione ruota intorno “alla valorizzazione” del compendio immobiliare, un concetto bizzarro nel caso specifico perché per quanto bisognoso di energici interventi di restauro, è la straordinaria qualità dei luoghi a garantire la valorizzazione. E’ la concatenazione degli spazi e degli interventi architettonici a rappresentare un luogo unico di recente inserito nel patrimonio culturale dell’umanità dell’Unesco. Non c’è nulla da valorizzare, dunque.
Dettagli trascurabili per la pseudo cultura che ancora sopravvive al fallimento dell’urbanistica neoliberista: l’importante è privatizzare, spezzettare, disarticolare nella fruizione un luogo costruito in tanti decenni su una visione unitaria. Le osservazioni redatte dal gruppo di lavoro che ha analizzato in dettaglio il progetto (vedi tabella in calce) sono così puntuali ed efficaci da permettermi di non scendere nel piano del merito. Un elemento deve però essere sottolineato perché a mio giudizio rappresenta una inaccettabile regressione culturale.
Nel progetto di valorizzazione dalle società Homers ed Equiter si prevede addirittura che anche le corti aperte in cui è articolato il complesso monumentale vengano “privatizzate”: esse saranno pienamente aperte alla pubblica fruizione solo in determinate ore. Ecco dunque il concetto di “valorizzazione”: si vuotano di funzioni le città privando i cittadini della possibilità di usufruire dei più straordinari luoghi dell’identità culturale di proprietà pubblica. Un’aberrazione davvero inaccettabile.
Riprendere la lezione storica dell’urbanistica torinese
In conclusione è opportuno richiamare la breve ma importante lezione di storia urbana di Torino redatta negli anni ’60 da Italo Insolera sulla rivista di Olivetti, Comunità. Insolera nel descrivere i passaggi storici con cui fu realizzata a partire dal seicento la splendida città di Torino afferma che per fare città belle e vivibili occorrono tre indispensabili elementi. L’esistenza di una classe dirigente che abbia chiaro l’orizzonte sociale ed economico su cui collocare lo sviluppo urbano. Il coinvolgimento di intellettuali architetti e urbanisti di primaria autorità culturale e bravura non delegando questa importante funzione a società di comodo o strumentali. Come noto, i grandi architetti che disegnano Torino sono anche gli autori di quei progetti architettonici che oggi si vorrebbero “valorizzare”. Infine la questione centrale. Le città diventano meravigliose se la classe dirigente investe nella bellezza attraverso adeguate risorse economiche. Negli oltre venti anni del dominio culturale neoliberista ci hanno raccontato invece che è solo l’iniziativa privata a rappresentare il motore delle trasformazioni urbane.
Il fallimento di questa ricetta antistorica è sotto gli occhi di tutti. Invece di continuare a seguire, migliorandola laddove possibile, la storia urbanistica di Torino si sta tentando l’ennesima volgare occasione speculativa. Se vogliamo salvare la Cavallerizza Reale, Torino e le città italiane dobbiamo tornare a quella preziosa lezione.
IL LINGUAGGIO INGANNEVOLE
DEI VENDITORI DI CITTÀ.
di Paola Somma
Durante la campagna per le elezioni amministrative di Torino è stato presentato il masterplan per la “riqualificazione, valorizzazione e conservazione ad uso pubblico del complesso della Cavallerizza Reale”. Il masterplan è stato predisposto, su commissione della Compagnia di San Paolo, da Homers e da Equiter. Homers srl Impresa Sociale, è una società, presieduta da un docente del Politecnico di Torino, per “lo sviluppo di progetti immobiliari senza costruzione”. Equiter è una società del gruppo Intesa San Paolo che investe capitali di rischio per “sviluppare le infrastrutture, valorizzare il territorio e promuovere il partenariato pubblico privato in Italia e all’estero”. Il lavoro è stato svolto “in concertazione” con il comune di Torino.
Le vicende precedenti, nonché i contenuti del masterplan, che gli autori dichiarano essere il “frutto dell’ascolto di attori diversi”, sono stati accuratamente analizzati (vedi interventi di Paolo Berdini e Riccardo Bedrone e tabella in calce di Elisabetta Forni ed Emanuele Negro).
Poco, quindi, resta da dire se non che gli obiettivi e le indicazioni del masterplan sono in perfetta sintonia con la strategia perseguita dalla Cassa Deposita e Prestiti, trasformata dal governo in agenzia di promozione di investimenti immobiliari, e con le prescrizioni del decreto Sblocca Italia, in particolare l’art. 26 dove recita: “per contribuire alla stabilità finanziaria nazionale e promuovere iniziative di rivalutazione del patrimonio volte allo sviluppo economico e sociale… si riconosce all’accordo di programma che si occuperà del recupero di immobili pubblici non utilizzati il valore di variante urbanistica”.
Quello che non è stato riaffermato a sufficienza, invece, è il diritto dei cittadini a non subire, oltre alla espropriazione di un bene comune a vantaggio di privati investitori, la beffa di sentirsi raccontare che ci troviamo di fronte alla “restituzione” di un pezzo di città, come, ad esempio, fa
Repubblica (20 aprile 2016), quando titola l’elogio del masterplan: “Il sospirato piano che mira a restituire ai torinesi la Cavallerizza Reale trasformata nel distretto culturale della città”.
Dei vari termini con i quali si esalta la rapina dello spazio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa - amministratori, tecnici, mezzi di informazione - perché alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. Che si tratti di grandi complessi edilizi, il cui accesso era limitato o temporaneamente impedito, perché utilizzati per ospitare attività di interesse pubblico, o di pezzi di città che vengono ridisegnati in funzione della loro assegnazione ai privati, la loro cessione comporta che, sebbene talvolta tali beni diventino accessibili al pubblico, le modalità di fruizione sono lasciate alla totale discrezione dei privati che possono imporre un ingresso a pagamento e, soprattutto, arbitrariamente selezionare il pubblico desiderabile e accettabile, restringere la lista delle persone idonee a far parte del “pubblico”, ed escludere così singoli individui o gruppi di cittadini.
La presunta equivalenza tra la privatizzazione dello spazio pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con vari artifici retorici. Il più usato è l’affermazione che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico”. E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone”. Homers aderisce esplicitamente a questo approccio e dichiara di privilegiare la regolazione del diritto d’uso rispetto alla regolazione del diritto di proprietà. Di conseguenza, distingue il grado di apertura al pubblico degli spazi al piano terreno della Cavallerizza con tre “sfumature di rosso”: rosso intenso, accesso compatibilmente con attività commerciali ivi esistenti; rosso medio, accesso alle corti in ore diurne con possibilità di deroghe; rosso chiaro, accesso in ore diurne senza possibilità di deroga.
Qualsiasi altra proposta, per essere realmente alternativa al masterplan di Homers, dovrebbe innanzitutto distinguere tra una visione dello spazio pubblico come spazio aperto a tutti, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi tipo di coercizione, e quella riduttiva di spazio “aperto”, disponibile per attività di svago, tempo libero, divertimento, “aperto” ad un pubblico “appropriato” al quale i proprietari consentono l’ingresso. Il che rende necessario ristabilire il principio che nessuno può essere escluso dallo spazio pubblico.
In secondo luogo, dovrebbe ribadire che lo spazio pubblico non è la somma degli interessi privati e ripristinare i confini tra i due ambiti, riconoscendo ai privati la capacità di fornire spazi per l’incontro sociale, ma non spazi pubblici.
Infine, ma non meno importante, dovrebbe tener conto che, oltre ad impoverire la collettività, l’uso dello spazio pubblico a fini di profitti privati e/o la sua privatizzazione contribuiscono a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano.
Il linguaggio con cui si racconta la “restituzione” dello spazio pubblico, quindi, ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perché consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Se è così, non stupisce che fra i dieci membri del team di Homers, figurino due professionisti esperti “nell’ascolto attivo e processi partecipativi”, un esperto di “social media e sentiment analysis” e un esperto in comunicazione e stampa.
ELEMENTI ESSENZIALI
DEL MASTERPLAN HOMERS – EQUITER
di Elisabetta Forni ed Emanuele Negro
Obiettivi generali
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“Alienazione, valorizzazione, riqualificazione e tutela” di tutto o in parte per uso misto residenziale privato, servizi e funzioni a uso pubblico (come da Progetto Unitario di Riqualificazione del 20.11.2012 Delibera 06298 e succ. Delib. 2466 del 4.6.2013), per mezzo di “alienazione del Compendio ad asta pubblica per Lotti distinti” (come da Delibera del Consiglio Comunale 2015 07072/131)
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Conservazione ottimale del bene tramite alienazione
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Obiettivi specifici del progetto
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Collocare diverse funzioni (culturali, ricettive, terziarie e commerciali) in spazi ad uso parzialmente pubblico, grazie all'intervento di attori diversi (istituzioni pubbliche e operatori privati); l'uso pubblico è limitato al piano terra del Compendio, pur essendo prevista la proprietà privata anche di questi spazi.
Non è identificabile uno specifico progetto culturale
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Compartimentazione del compendio
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La frammentazione del Compendio in 10 Unità Minime di Intervento (UMI) e l'identificazione di potenzialità ed usi specifici di ciascuna unità, al fine di facilitare il processo di alienazione, privilegia la libertà di scegliere, a discrezione degli operatori privati (secondo convenienze anche estranee agli obiettivi culturali), piuttosto che la loro coerente integrazione
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Regime proprietario
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Privato per il 96,3% dell'intero Compendio e frammentato in lotti distinti a conclusione del processo di cartolarizzazione gestito dalla C.C.T. salvo 1.600 mq circa, attualmente di proprietà Comunale in seguito alle recenti de-cartolarizzazioni del Maneggio Alfieriano e della Sala delle Guardie (cfr. anche Delibera di Giunta 2016 01582/131 per delucidazioni sulle ragioni di queste de-cartolarizzazioni)
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Consistenza degli usi principali
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Residenziale
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Almeno 21.000 mq (da aumentare di parte di una superificie di 9.700 mq, ripartita fra residenze, commerci, uffici) per residenze collettive, temporanee o abitazioni tradizionali
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Didattica
(aule, formazione,
seminari, riunioni)
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Al massimo 5.300 mq (400 mq Sala delle Guardie, 1.300 mq aule indicate nella Tavola Fruizione pubblica piano terra, 3.600 mq Pagliere, da diminuire della parte imprecisata destinata a laboratori/artigianato come indicato nella suddetta Tavola)
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Spazi espositivi
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1.330 mq
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Uffici
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9.700 mq per uso pubblico e privato (da diminuire di una parte imprecisata destinata a residenze, commerci e altro)
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Spazi performativi
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1.265 mq (Cavallerizza Alfieriana)
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Laboratori/atelier
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Parte imprecisata del piano terra delle Pagliere per incubatore università, da dividere con laboratori e artigianato (come indicato nelle Tavole Fruizione pubblica piano terra e Progressivo recupero della Cavallerizza per uso comune)
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Spazi a tariffa sociale
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Superficie lorda totale
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37.152 mq (Ex Zecca esclusa dal perimetro degli usi).
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Destinazione Ex Zecca
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Indeterminata, nonostante la prossima liberazione dei locali (2 anni circa) sia compatibile con l'orizzonte temporale del Masterplan
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Usi comuni degli spazi aperti
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Il suolo antistante i Maneggi Chiablese ed Alfieriano, e che si estende fino a via Rossini e via Verdi, è il solo a restare di proprietà pubblica e con accesso libero perenne.
I cortili delle quattro corti, la Rotonda, i porticati e il camminamento fra le Pagliere divengono invece privati e con limitazioni di accesso più o meno rigide (accesso consentito da 4 a 12 ore quotidiane diurne massime, con possibilità di deroga con divieto d'accesso)
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Modello di gestione
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La frammentazione del Compendio in sub-unità private (ed appartenenti, in generale, a soggetti distinti) comporta una molteplicità di linee gestionali indipendenti. E' prevista la creazione di un soggetto coordinatore denominato Agenzia Cavallerizza la cui attività si limita a: amministrazione degli spazi aperti comuni (piano terreno), azioni di marketing e di “promozione del brand Cavallerizza al fine di rafforzare l'acquisita vocazione culturale del distretto” e, più in generale, di promozione immobiliare e finanziaria
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Costi di trasformazione
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100 mln € circa, dei quali: 60 per spese di ristrutturazione, 10 per oneri urbanistici e 30 per l'acquisto degli immobili
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« Ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.»Qualcosa, là fuori" di Bruno Arpaia. La Repubblica, 8 giugno 2016 (c.m.c.)
L’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore è forse l’unico uomo al mondo al quale è riuscita una difficile impresa: vincere il premio Oscar e il premio Nobel, e per uno stesso motivo. Cioè, il suo lungometraggio “Una scomoda verità”, che è stato premiato a Hollywood come miglior documentario nel 2006, e a Oslo per la pace nel 2007.
Quel film registra una delle innumerevoli lezioni che Gore ha tenuto in giro per il mondo, per diffondere l’allarme sull’emergenza ecologica che deriva al pianeta dall’uso indiscriminato del petrolio, dai trasporti al riscaldamento, e dal suo impatto sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale.
Il premio Nobel per la pace Gore l’ha condiviso con Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, “Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico”), un’istituzione delle Nazioni Unite che monitorizza appunto i cambiamenti climatici. In particolare, come Pachauri ha ricordato nel suo discorso a Oslo, quelli dovuti all’antiecologico consumo di carne, che richiede di tagliare foreste, creare pascoli, allevare animali, spedire il macellato in posti lontani, e refrigerarlo nelle navi, sui camion, nei supermercati e in casa.
Come se non bastasse, anche l’emissione di metano prodotta dalla digestione delle mucche e la decomposizione dei rifiuti solidi urbani contribuiscono all’effetto serra.Più in generale, gli interventi che la nostra specie sta sistematicamente effettuando sul pianeta comportano la distruzione delle foreste e degli ecosistemi a esse collegati, l’estinzione delle specie animali cacciate o pescate selvaggiamente, la cementificazione sistematica della superficie terrestre, l’aumento della temperatura atmosferica dovuta all’effetto serra, la diminuzione della fascia di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti, l’emissione di sostanze che provocano piogge acide, l’inquinamento generalizzato delle risorse acquifere, il depauperamento della produttività del suolo e delle riserve di combustibile, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento del livello degli oceani, la desertificazione.
In base ai dati della Convenzione Internazionale per le Biodiversità, il ritmo di estinzione delle specie negli ultimi quattrocento anni sembra essere cento volte superiore a quello delle epoche storiche passate. Il che potrebbe portare, come nelle precedenti grandi estinzioni, alla sparizione di una gran parte delle forme di vita attuali, e alla loro sostituzione con altre nuove. E ai mammiferi, uomini compresi, potrebbe toccare la triste fine dei dinosauri e della maggior parte delle specie viventi comparse finora sulla Terra: il che, viste le prove che l’umanità e i suoi leader stanno dando, non è detto che non sia un buon affare per il pianeta.
Tutti questi bei (anzi, brutti) discorsi rischiano però di rimanere astrattamente relegati in rapporti e dibatti per specialisti. Solo i film e i romanzi riescono a toccare concretamente la sensibilità dell’uomo comune, anche se il rischio è che essi tendano a seguire le linee di minima resistenza del racconto apocalittico condito di scienziaggini, alla maniera di produzioni hollywoodiane quali The day after tomorrow. L’alba del giorno dopo(2004) o Snowpiercer (2013).
Per divulgare letterariamente la problematica del riscaldamento globale ci vuole infatti, oltre a una capacità affabulatoria, anche una sensibilità scientifica: cosa improbabile e rara tra gli scrittori in generale, e tra quelli italiani in particolare. Ma non impossibile, né introvabile, come prova il caso di Bruno Arpaia, che già con L’energia del vuoto (Guanda, 2011) aveva dimostrato di sapersi muovere con destrezza nel mondo della scienza: in quel caso, coniugando la fisica delle particelle al thriller politico.
Il suo nuovo romanzo Qualcosa, là fuori (Guanda, 2016) affronta appunto il problema del riscaldamento globale, immaginando come sarà (o, speriamo, sarebbe) il mondo tra una settantina d’anni, quando ormai i tanti segnali d’allarme che continuano a suonare minacciosi attorno a noi si saranno rivelati essere altrettante inascoltate profezie di Cassandra sulla caduta non di Troia, ma della Terra stessa.
A seconda del luogo di provenienza del lettore, la descrizione del mondo surriscaldato che Arpaia propone gli apparirà angosciante o allettante. L’effetto dell’innalzamento della temperatura sarebbe infatti una ridefinizione delle zone geografiche del pianeta: quelle costiere verrebbero sommerse, quelle desertiche diventerebbero impossibili da abitare, quelle temperate si desertificherebbero e quelle fredde si tempererebbero. Così le spiagge del Mediterraneo verrebbero inghiottite dai flutti insieme ai loro stabilimenti balneari e l’Europa continentale sarebbe ridotta a un Sahara, ma la Scandinavia e la Russia verrebbero liberate dai loro inverni glaciali e conoscerebbero la piacevolezza delle primavere e degli autunni.
Quanto ai flussi migratori, non sarebbero più costituiti da africani e messicani che invadono l’Europa e gli Stati Uniti, ma da europei e americani che scappano verso un Nord ormai senza ghiacci, in una palingenesi di giustizia cosmica e di rimescolamento delle carte geopolitiche. Inutile dire che nel romanzo, prima che questo avvenga, gli Stati Uniti avevano cercato inutilmente di reagire, eleggendo più o meno nei nostri anni un presidente che assomiglia come una goccia d’acqua a Trump, anche se il romanzo è stato scritto prima dell’inizio dell’attuale campagna elettorale americana: a dimostrazioni che certe politiche e certi candidati sono ampiamente prevedibili, semplicemente sulla base della stupidità e dell’ignoranza umane.
Arpaia, che da studente di scienze politiche si era specializzato in Storia Americana, ambienta parte del suo romanzo proprio negli Stati Uniti, alternando ai capitoli sull’Europa ormai surriscaldata di fine secolo i capitoli sul Nuovo Mondo che balla sul Titanic, ignaro di essere in procinto di affondare nella miseria e nella disperazione. Il suo protagonista è uno scienziato italiano che da giovane emigra in California nell’odierno periodo della fuga dei cervelli, testimonia l’avvento di un regime fascio-leghista che potrebbe essere inaugurato nella realtà a novembre di quest’anno, è costretto a rientrare dalle disposizioni anti-immigrati, e dopo qualche anno si unisce a un gruppo di profughi del Sud Europa che cercano di raggiungere la neoschiavista Svezia.
I tempi delle due storie intrecciate confluiscono al termine del romanzo, dove la fine della prima voce si unisce idealmente all’inizio della seconda, in una sorta di polifonia contrappuntistica. Quanto al messaggio del libro, lo stesso Arpaia ha dichiarato in un’intervista che ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.
*( Guanda, pagg. 220, euro 16)
«Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune
». La Repubblica
, 6 giugno 2016 (c.m.c.)
In un momento in cui la produzione di cibo per nutrire un’umanità affamata ha un impatto fortissimo sugli ecosistemi naturali e in generale sul sistema planetario, è necessario non dimenticarci che la Terra può essere sia madre generosa che, sotto la pressione di un uso sconsiderato delle sue risorse, matrigna insidiosa.
Ecco allora che il titolo, apparentemente insensato e ovviamente provocatoriodell’incontro di oggi a Repubblica delle idee “Riusciremo a non mangiarci la Terra?” apre importanti riflessioni. La principale ci pone di fronte a una domanda: come stiamo abitando la nostra casa comune e che cosa resterà dopo il nostro passaggio?
Sembra una domanda velleitaria, eppure oggi la sopravvivenza della specie umana non può più essere data per scontata. Il modello di produzione con cui stiamo rispondendo ai nostri bisogni primari mette a rischio, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di soddisfare quegli stessi bisogni in futuro. Il tutto mentre ci stiamo avvicinando a un’umanità che, nel 2050, raggiungerà i nove miliardi di viventi.
Gli sviluppi tecnologici e produttivi degli ultimi due secoli ci hanno liberato da una grande quantità di urgenze, specialmente quelle primarie. Accanto a questo, però, un modello turbocapitalista basato su un utilizzo massiccio di input esterni (si pensi che dal 1985 al 2005 abbiamo immesso nella Terra la stessa quantità di chimica che prima era stata prodotta e impiegata in un secolo) ha generato uno sfruttamento sconsiderato di risorse quali acqua, suoli fertili ed energia da fonti non rinnovabili che ha messo in crisi l’intero sistema.
Oggi siamo al dunque: se non cambiamo paradigma il nostro futuro è a rischio. Il cambiamento climatico è una realtà incontrovertibile e ufficialmente riconosciuta da tutta la comunità scientifica internazionale, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari sta impoverendo i suoli, le falde acquifere accumulano metalli pesanti diventando pericolose esse stesse e sempre più scarse, il patrimonio di biodiversità genetica della Terra si assottiglia pericolosamente.
Una situazione che ha spinto una delle più grandi autorità morali e politiche del nostro tempo, Papa Francesco, a esprimersi con forza su questi temi con un’enciclica che rappresenta un documento dirompente. Il Pontefice non ha usato mezzi termini parlando di un’economia che uccide e che penalizza in ogni parte del mondo le comunità locali, le produzioni di piccola scala e i mercati di territorio.
È evidente allora che occorre un deciso cambio di marcia e con esso nuovi modi di produrre, di distribuire, di commercializzare e di consumare il cibo, così come nuovi modi di convivere su un pianeta sempre più sotto la pressione di eventi drammatici come crisi ambientali, conflitti e migrazioni che ci obbligano a ripensare un futuro differente. E tuttavia siamo ancora in tempo. Bisogna raccogliere le migliori energie, i giovani, le donne, gli anziani, per disegnare un mondo nuovo, basato su valori che sostituiscano termini come competitività, mercato, efficienza e crescita con altri come reciprocità, cooperazione, comunità, condivisione.
Mi sento di dire che i cittadini sono pronti, che le nuove generazioni hanno già pienamente fatto propri questi valori e che in ogni parte del mondo si vedono segnali convincenti che questa sensibilità è già a tutti gli effetti una realtà viva e tangibile. Nascono reti, crescono movimenti di tutela ambientale, fioriscono comitati auto organizzati per prendersi cura dei beni comuni. Esiste un ritorno alla terra, un’attenzione crescente alle produzioni locali, un sistema di solidarietà e accoglienza che si batte per i diritti e l’accoglienza delle persone che scappano da guerre e calamità naturali.
Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune. Possiamo solo guardarci in volto e unire gli sforzi, il futuro nostro e dei nostri figli si gioca oggi, nelle nostre case, nelle nostre città. Non possiamo, e non vogliamo, mangiarci la Terra.
"Da questa parte del mare" di Gianmaria Testa per Einaudi. Prefazione di Erri De Luca. Un viaggio struggente, per storie e canzoni, sulle migrazioniumane. Il manifesto, 6 giugno 2016 (c.m.c.)
Sembra un luogo comune: il dono inaspettato. Non lo è, non lo sarà in futuro. Soprattutto quando un amico se ne va e la notizia circola improvvisa e secca, inappellabile. Eppure è come se funzionasse una sorta di trasmittente nascosta nelle pieghe delle cose, nei viluppi del tempo che svanisce attimo dopo attimo, e quell’amico ha lasciato un regalo prezioso, appena dopo aver fatto un segno di saluto con una mano che oscillava, piano, piano, a dire «ci rivediamo, prima o poi».
Gianmaria Testa è stato amico di molte persone. Di una prima ristretta schiera, quelli che avevano a che far quotidianamente o quasi con i suoi occhi curiosi e indagatori, con le sue spalle larghe che sembravano caricare un peso contadino sul dorso sinuoso della chitarra, incombendo sul calice di vino bianco posato sul tavolo accanto. Di una cerchia più allargata, ma forse non meno intima. Quelli che avevano imparato a fidarsi di un uomo, prima che di un autore di canzoni, di uno vero che quando scriveva qualcosa lo faceva perché aveva da dire qualcosa, non una pendenza col mercato.
Gianmaria Testa se n’è andato in punta di piedi (il 30 marzo scorso, ndr) e ha lasciato una cosa che non ci aspettavamo, e della quale parleremo. Un libro. Prima ha lasciato qualche disco che ci conserverà per sempre l’impronta, il calco sonoro di una voce che tra pieghe aspre e vibrati impercettibili continuerà a parlarci all’infinito. Racconta Pietro Leveratto, contrabbassista del più nobile jazz italiano contemporaneo, uno che ha accompagnato i più grandi, e dunque anche Testa: «Gianmaria scriveva cose semplici di una difficoltà estrema. Faceva sembrare leggere cose pesantissime, volava dove altri avrebbero arrancato col fiato corto. Io ho sempre avuto rispetto per chi ha quel dono».
Quel dono di arrivare alla sintesi non per chissà quale dono innato di facilità di scrittura, ma per aver semplicemente ragionato sulle cose scegliendo la via meno ovvia, la meno gratificante, quando urgono invece ragioni della pancia e delle viscere che aprono la strada all’affermazione roboante e beota.
Gianmaria Testa aveva pensiero affilato e radente, a scoperchiare e rimuovere in un trancio di lama l’epitelio duro del luogo comune. L’aveva fatto in un disco che si intitola Da questa parte del mare, diversi anni fa. Bellissimo e struggente, ma di una durezza commisurabile a quella della vita vera. Affrontato come un lavoro da fare: spiegare (a se stesso, in prima battuta: poi a chi avrebbe ascoltato in seconda) cosa voleva dire trovarsi all’alba livida del terzo millennio, e dove, ancora una volta, scappare, forzare confini, buttarsi in una terra incognita per scampare a una terra matrigna di sentimenti, e madre invece di fame e torture, umiliazioni e assenza di fortuna.
All’epoca, era il 2007, nei telegiornali li definivano «clandestini», oggi il politically correct li chiama «migranti» o «rifugiati», ma la sostanza davvero non cambia. Oggi sono, perlopiù, i respinti e gli annegati. Sempre di più, e con le mani sempre più scorticate dai fili spinati della fortezza Schengen.
Gianmaria lo sapeva che non era cambiato nulla, da quando fece uscire quelle canzoni, che la scorza dura delle pance piene non avrebbe trovato pietà per quelle vuote.
E Da questa parte del mare è diventato, pensiero dopo pensiero, un libro. Con la prefazione dell’amico di sempre Erri De Luca. Pubblicato da Einaudi. Bello, duro e struggente come le canzoni che ne rappresentarono l’epitome. Come se Gianmaria avesse preso i testi delle sue undici canzoni, avesse scrollato i fogli che contenevano le righe, e dalla carta si fosse liberato per aria il molto di pensiero e di fatti che c’era nascosto dietro ogni singola storia di migrante immaginata, ascoltata, ricostruita.
Poi quel «molto» è diventato, ancora una volta, parola scabra, asciugata: perché Gianmaria Testa è narratore semplice e petroso, di disarmante e asciutta chiarezza, non fumisteria di polvere estetizzante. Diceva «ho l’impressione che nei confronti delle migrazioni abbiamo avuto un sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti».
Il regalo nel regalo di questo libro piccolo e ad altissimo peso specifico è in coda, poesie di Testa ritrovate e raccolte, spesso brevi e delicatamente tese come un haiku: «Quanto meno/ un’ombra/ racconta/ di una luce».
«Nella Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è lo stato di salute della giustizia ambientale nel mondo. Ecco la mappa delle tante guerre silenziate che veicolano anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere». Il manifesto, 5 giugno 2016
È difficile dire quanti conflitti ambientali ci siano nel mondo; eppure mentre si proclama la Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è il suo stato di salute partendo dalle frontiere dell’estrazione dei materiali e energia che alimentano l’attuale economia industriale. Tante guerre silenziate ma da cui nascono anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere.
Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto EJAtlas, l’Atlante Globale di Giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale – Università Autonoma di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitto relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti, e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciute.
Qui sotto presentiamo dieci conflitti emblematici di ingiustizia socioambientale per i meccanismi che li scatenano: distribuzione diseguale dei benefici e degli impatti, mancata partecipazione da parte della comunità locale, violazione delle leggi, accesso alla giustizia, impunità delle imprese, inquinamento, corruzione. Casi in cui l’incremento dell’uso e abuso di risorse dell’economia industriale si unisce in uno spietato cocktail al crescente divario fra arricchiti e impoveriti, alla violazione di diritti umani ed ambientali e alla sistematica impunità delle grandi imprese e apparati statali complici. Essi toccano differenti aree geografiche e tematiche, dal petrolio alle energie rinnovabili.
Si incontrano frequentemente nei paesi del Sud del mondo ma stanno strettamente relazionati con l’alto “metabolismo sociale”, l’uso di materiali e energia che l’economia industriale consuma. Paesi di limitata industrializzazione, come molti andini o centroamericani, soffrono per fenomeni di land grabbing per piantagioni di olio di palma e altri prodotti agricoli per l’esportazione, paesi di attuale industrializzazione come Cina, India, Brasile registrano conflitti sia in centri urbani e produttivi per l’elevato inquinamento ma anche per un “colonialismo interno”. Zone come l’Amazzonia viene sacrificata per l’oligarchia brasiliana, le comunità Adivasi della cintura mineraria dell’Orissa, Chattisgarh e Jharkhand subiscono una violenta militarizzazione per garantire l’accesso alla bauxite e al carbone dell’India, i fiumi della regione himalayana sono deviati nei tunnel delle centrali idroelettriche per fornire elettricità e profitto alle imprese indiane.
Ma conflitti si registrano anche nei Paesi industrializzati, dove particolarmente critici sono i processi di privatizzazione di servizi pubblici, l’apertura di nuove “frontiere estrattive” come le miniere in Grecia o Romania, il fracking in Spagna o Polonia, e i grandi progetti infrastrutturali di trasporto o energia. L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca- A Sud per la produzione di una mappatura nazionale, con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro Paese.
Ma ogni conflitto registrato nell’EJAtlas ha qualcuno che lo denuncia. Spesso sono membri di organizzazioni di base o reti internazionali, che raccolgono testimonianze delle comunità locali e di ricercatori accademici per creare nuovi contro-argomenti. Reclamando una giustizia ambientale, lottano anche per un’economia diversa e per un vivere comune sano. Nonostante repressioni e criminalizzazioni, difendono anche un altro sapere, nato dalle radici profonde della memoria e dal rispetto della sacralità dei territori. Esperienze come l’epidemiologia popolare in Brasile su siti inquinati hanno contribuito a identificare malattie e disturbi non riconosciuti da parte delle autorità. La rilevazione di tracce di petrolio nel bestiame nell’Amazzonia peruviana da parte di abitanti della selva, affiancati da scienziati, ha dimostrato impatti dell’estrazione altrimenti nascosti e ignorati.
Dal conflitto spesso nasce una nuova consapevolezza, si mette in discussione lo status quo e si riconosce che “giustizia” non è solo una compensazione monetaria ma richiede una ridefinizione di relazioni di potere e processi decisionali. Movimenti come i No Tav in Italia, Zad in Francia, gli abitanti di Rosia Montana in Romania, non chiedono solo di fermare un progetto; rappresentano la ricerca e la costruzione quotidiana di una nuova sovranità popolare. Nella resistenza nascono concetti nuovi per denunciare ingiustizie, come la biopirateria o il colonialismo tossico, ma anche un vocabolario che rivendica un futuro con dignità e allegria, come «decrescita», «transition towns», «sumak kawsay» (buen vivir), «sovranità alimentaria» e «energetica».
DIECI CONFLITTI
CONTRO NATURA
Guatemala, Olio di palma e zucchero di canna
violenze nella Valle del Polochic
Dopo la firma degli accordi di pace nel 1996, due famiglie di origine tedesca presero il controllo di piantagioni avviando il business di palma da olio nel 1998 e zucchero di canna nel 2005, occupando un terzo della terra di Polochic. Il Polochic è una valle di territorio fertile, situata nel nordest del Guatemala, ma che ha vissuto un processo di accaparramento di terre sotto il controllo di pochi proprietari terrieri dal 1888, mentre la maggior parte della popolazione indigena Q’eqchi’ non ne ha avuto accesso. La popolazione locale denuncia la contaminazione del suolo e la deviazione dei fiumi, la deforestazione per entrambe le coltivazioni, intossicazioni e malattie dovute agli antiparassitari per la canna da zucchero.
Questo caso fu conosciuto internazionalmente quando furono evacuate 800 famiglie di 13 comunità Q’eqchi’ che occupavano parte delle terre del Polochic che erano state coltivate a canna da zucchero, e sarebbero tornati ad essere seminati da una famiglia del Nicaragua. Nel 2010 alcune famiglie occupano 13 tenute messe all’asta per il fallimento economico del zuccherificio e ne reclamano allo Stato l’acquisto. Le negoziazioni si interruppero con violenti sfratti, durante i quali si bruciarono le coltivazioni e le case degli abitanti locali ed un contadino fu assassinato. Mesi dopo vennero uccisi altri due contadini e la sicurezza privata dell’impresa ferì con proiettili donne e bambini. Questo è uno dei 450 casi di conflitti di accaparramento di terre identificati nell’EJAtlas e sta dentro il 12% dei casi dove si sono registrati omicidi.
Rischi no border:
la centrale nucleare di Almaraz in Spagna
In Spagna si prolunga la vita utile delle centrali nucleari, il che genera allarmanti effetti ambientali e sociali che per loro natura non conoscono confini tra stati e apparati normativi. Uno dei casi più emblematici si trova nella provincia di Càceres, dove l’attività della vecchia centrale di Almaraz costituisce un importante rischio per la regione transfrontaliera con il Portogallo.
Questa centrale è stata costruita nel Campo Arañuelo all’inizio degli anni ’80, nonostante l’opposizione del movimento antinucleare sorto nella decade anteriore, che si opponeva anche a un progetto in Valdecaballeros (anche questo in Extremadura). Almaraz è dotata di due reattori da 1.000 Mw ciascuno che per il raffreddamento utilizzano l’acqua della diga di Arrocampo, sul fiume transfrontaliero Tajo. Secondo l’ong spagnola Ecologistas en Acciòn, tra il 2007 e il 2010, si sono registrati almeno 75 incidenti nella centrale. Anche l’opposizione locale ha confermato incidenti, errori da parte dell’impresa manutentrice, interruzioni non programmate che hanno violato protocolli di sicurezza.
A oggi si è formata una rete di gruppi sociali transfrontalieri, uniti nel Movimiento ibèrico antinuclear, che non solo esige la chiusura della centrale, ma lancia l’allarme di potenziali conflitti tra i due Stati – Spagna e Portogallo – per l’acqua. La centrale infatti pone a rischio la salubrità delle acque del fiume Tajo e un incidente potrebbe diventare fonte di contaminazione radioattiva lungo tutto il bacino, come già è successo nel 1970. Il prossimo 11 giugno è convocata una protesta transfrontaliera nelle strade di Càceres sotto lo slogan: «Fechar Almaraz. Descanse em paz» (Chiudere Almaraz. Riposa in Pace)
La violenza del petrolio
nel Delta del Niger in Nigeria
Il delta del fiume Niger è uno dei luoghi sul pianeta che più ha subito le conseguenze dell’estrazione di greggio. L’attività estrattiva iniziata negli anni ’50 con la anglo-olandese Shell ha causato impatti ambientali e sociali irreparabili, e un altissimo livello di violenza, anche armata, esecuzioni sommarie, torture e detenzioni illegali. Le comunità locali denunciano pratiche illegali come la combustione del gas residuo che si produce nel processo di estrazione e lavorazione del petrolio, per i suoi grandi impatti sull’ambiente e la salute. La vegetazione e i raccolti soffrono degli effetti della pioggia acida, responsabile anche dell’aumento degli aborti, deformazioni congenite, malattie respiratorie e cancro. Il caso del Delta del Niger raggiunse un punto critico nel 1995 quando il poeta e leader comunitario, Ken Saro Wiva, fu assassinato. Nonostante il conflitto abbia raggiunto il pubblico internazionale, l’accesso alla giustizia per le comunità danneggiate richiede uno grande sforzo che, frequentemente, cade nella deprecabile impunità.
Attualmente ci sono processi aperti in differenti paesi come Olanda, Ecuador e Ue per indagare sulla responsabilità delle imprese che operano nel Delta; incluse la anglo-olandese Shell, la statunitense Chevron e l’italiana Eni. L’organizzazione locale Era (Environmental Rights Action/Amici della Terra Nigeria), partner del progetto, ha denunciato un gran numero di perdite di greggio provenienti da tubature carenti di manutenzione, e la grave mancanza di bonifica e riparazione dei danni da parte delle imprese responsabili.
Oltre agli indennizzi, Era e molte comunità locali chiedono anche misure più radicali, fino a quella di lasciare nel sottosuolo le riserve rimanenti («Leave Oil in the Soil»). L’appello dalla Nigeria si unisce ad altre campagne, come in Ecuador con l’iniziativa cittadina per il parco Yasunì, e rapidamente trova nuove alleanze come in occasione della ultima Cop di Parigi, con leader indigeni della Turtle Island (America del Nord).
Brasile, il disastro della diga
dove lo Stato si accorda con i responsabili
Il 5 novembre 2015, la rottura della diga di Fundão nella città di Mariana (miniera Gerais) lanciò 34 millioni di metri cubi di fanghi sul paese Bento Rodriguez, uccidendo 19 persone e lasciando più di 600 famiglie senza tetto. Si tratta probabilmente del maggior disastro ambientale accaduto in Brasile, per una grave negligenza dell’impresa miniera. La diga conteneva infatti i residui dell’attività mineraria e della produzione di ferro dell’impresa Samarco, gestita dal gigante minerario brasiliano Vale e di uno dei più grandi colossi mondiali, la Bhp Billiton. La miniera di Samarco era una delle più grandi miniere di ferro nel mondo fino a che l’incidente bloccò le sue attività. Dopo il disastro di Bento Rodriguez, il fango di Samarco arrivò al fiume Doce, dove viaggiò circa 700 km passando per più di 40 città, fino all’oceano.
In tutto questo cammino i fanghi inquinanti hanno contaminato le acque, sterminando fauna e flora. La attività e le fonti di vita di piccoli agricoltori, pescatori e comunità indigene hanno subito impatti irreversibili. Quest’anno l’impresa ha ricevuto una multa da parte dello Stato, la cui entità appare ridicola a fronte dei danni causati: appena 70 milioni di dollari. Nonostante questo, l’impresa ha avuto il coraggio di negoziare con i governi federale e statale un fondo di 5.500 milioni di dollari per recuperare il bacino del rio Doce in 15 anni. Lo scandalo di tale accordo ha portato più di 100 istituzioni e movimenti sociali di tutto il Brasile, come il movimento delle vittime a causa delle dighe nel paese Mab, a opporsi alla sua firma. La società civile esige una vera azione, partecipativa e trasparente, per ripulire l’area e accollare alle imprese responsabili i danni causati.
Villaggi-cancro,
i veri costi del «made in China»
Un tempo il villaggio di Yongxing era una piccola comunità rurale, vicino alla città di Guangzhou. Vent’anni fa i campi erano irrigati con acqua limpida che scendeva dalle montagne per le piantagioni di riso, verdura e frutta. Nel 1991 la riserva naturale venne soppiantata da una discarica di rifiuti di 34.5 ettari, in cui venivano interrati ogni giorno circa 100 tonnellate di immondizia. Più tardi la stessa zona fu scelta per la costruzione di due inceneritori e uno stabilimento per lo stoccaggio dei rifiuti. La popolazione locale protestò contro la gravissima contaminazione; l’acqua dei loro pozzi risaliva densa, con un colore giallognolo e pellicole superficiali rosse.
Le proteste per le strade si conclusero con incarcerazioni di massa che durarono anni. Da allora gli abitanti di Yongxing sono costretti a comprare l’acqua potabile e ad abbandonare le attività agricole di sussistenza. I campi vengono affittati a prezzi irrisori a lavoratori migranti che non hanno altra scelta che coltivare terreno insalubre ma economico per vendere il raccolto alla città. Oltre all’ambiente seriamente contaminato, la maggiore preoccupazione è il repentino aumento dei casi di cancro nel paese, ma le autorità sanitarie locali fanno finta di non vedere.
L’Oms ha avvertito che lo smaltimento non a norma dei rifiuti negli inceneritipuò comportare l’emissione di diossine e furano, con impatti negativi sulla salute umana. Il villaggio di Yongxing è uno dei tanti casi conosciuti come i «villaggi-cancro» in Cina, dove le attività industriali e le enormi discariche operano con standard di sicurezza ridicoli nonostante i comprovati effetti nocivi per la popolazione umana e l’ecosistema.
Honduras, violenza e repressione
in nome dell’energia verde
Col colpo di Stato del 2009 si è intensificata la violenza in Honduras. Fra il 2009-2013, il Congresso nazionale ha approvato una serie di leggi a favore dello sfruttamento delle risorse naturali. Nel 2010 fu approvato il progetto idroelettrico «Acqua Azzurra» sul fiume Gualcarque, sacro per la popolazione indigena dei Lenca. La concessione fu data all’azienda honduregna Desarollos Energèticos (Desa) e finanziata dalla Banca di Sviluppo olandese (Fmo), dal fondo di cooperazione Finnfund (Finlandia) e dalla Banca centroamericana di integrazione economica.
La popolazione Lenca ha denunciato la violazione dell’accordo 169 della Oit per la mancanza di una consultazione preventiva, libera ed informata, della popolazione locale oltre alla presenza dell’esercito a sorvegliare le opere e le minacce ai leader Lenca. Per la popolazione locale non è il primo progetto estrattivo che percepisce come minaccia; i Lenca si sono già espressi contro progetti minerari, iniziative finanziate col meccanismo Redd+ e contro la costruzione delle cosiddette «città modello». Il caso del progetto «Acqua azzurra» ha raggiunto visibilità internazionale dopo l’assassinio, lo scorso 3 marzo, dell’attivista del Copinh, Berta Càceres, vincitrice del premio Goldman nel 2015, da parte di sicari di Desa. L’assassinio avvenne proprio durante un periodo in cui nei villaggi Lenca si prendeva in esame un nuovo modello energetico e comunitario.
Attualmente, organizzazioni e movimenti fanno pressioni affinché siano svolte indagini sull’omicidio e si proceda alla sospensione definitiva del finanziamento al progetto. Dopo l’assassinio dell’attivista e in seguito alla visita di una delegazione internazionale con membri del Parlamento europeo, è stata riconosciuta la violazione dei diritti umani che la centrale idroelettrica ha comportato.
Agua Zarca, assieme ad altri progetti come Barro Blanco a Panama, Barillas in Guatemala, Belo Monte in Brasile o La Parota in Messico delineano la violenza del modello energetico e la connivenza tra stato e imprese in America Latina.
Sudafrica, la scommessa popolare
per la fine del carbone
L’impresa di prospezione mineraria Ibhuto-Coal ha proposto di sviluppare una miniera di carbone a cielo aperto nella regione sudafricana KwaZulu-Natal. Il progetto Fuleni si trova al confine con il Hluhluwe-iMfolozi, il parco naturale più antico dell’Africa, patria del rinoceronte bianco. Due miniere già circondano il parco: Zululand Anthracite Colliery (proprietà dell’impresa Rìo Tinto) e Somkhele (proprietà di Petmin). Attualmente entrambe le miniere sono operative e stanno generando pesanti impatti sulle comunità locali: distruzione dei siti sacri e cimiteri, perdita di case, contaminazione dell’acqua, danni alle coltivazioni e alla biodiversità della regione.
Le comunità locali si oppongono al progetto Fuleni. Il 22 aprile 2016 un migliaio di abitanti hanno fatto pressione sul comitato dello Sviluppo minerario e ambientale (Rmdec) per annullare la supervisione nella zona del progetto e togliere così legittimità alla proposta. Gli attivisti si sollevano con lo slogan «Leave coal in the hole» (Lasciamo il carbone nel sottosuolo) con l’obiettivo di fermare la vorace economia estrattiva. In alternativa propongono soluzioni strutturali per fermare il riscaldamento globale. L’idea di mettere fine allo sfruttamento del carbone e sviluppare alternative energetiche a livello locale si incontra anche nel villaggio di Sompeta in Andhra Pradesh, India, e si somma alle molte richieste di lasciare i combustibili fossili sotto terra (casi conosciuti anche come unburnable fuels).
India, l’energia eolica industriale
a scapito delle iniziative comunitarie
L’energia eolica viene ampiamente promossa come sostenibile e socialmente accettabile. Tuttavia, grandi progetti eolici nel mondo stanno portando con sé un crescente numero di conflitti, e mostrano così che gli impatti di questa industria vanno ben oltre il tema paesaggistico. In questi casi, emerge l’appropiazione dei benefit «verdi» da parte delle grandi imprese, mentre i sistemi sociali ed ecologici locali soffrono una profonda transformazione.
Un caso recente e di grande rilevanza si registra nello Stato dell’Andhra Pradesh, in India, dove un’interessante iniziativa comunitaria volta alla riforestazione e alla promozione di attività di sussistenza è stata cancellata dal progetto Nallakonda. Di proprietà della India Tadas Wind Energy, appare persino tra i progetti finanziati attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito contro i cambiamenti climatici fortemente voluto dal governo centrale. L’installazione di più di 60 torri e turbine Enercon ha portato alla deforestazione dell’area, alla degradazione di aree produttive come pascoli e campi e di fonti d’acqua. Nel 2013 comunità locali e organizzazioni sociali hanno portato il caso al Tribunale verde nazionale, a cui spetta il parere.
Nell’EJAtlas, l’atlante internazionale dei conflitti ambientali, troviamo casi simili e di scala maggiore come i corridoi eolici: oltre 15 progetti in Oaxaca, Messico, o la privatizzazione di oltre 16.000 ettari di terreno nel Nord-est del Kenya. In questi casi, l’appropiazione della terra per l’energia rinnovabile di grande scala rappresenta una nuova frontiera per la giustizia ambientale.
Tav Italia-Francia,
l’Europa delle grandi opere militarizzate
La linea ferroviaria ad alta velocità che connetterebbe Torino e Lione lunga 220 km/h è divenuta uno dei simboli di conflitto ambientale più importanti in Europa. I lettori del manifesto conoscono bene questo caso. Aggiungiamo solo che il prossimo appuntamento internazionale della rete contro i mega progetti inutili e imposti, nata dall’incontro tra la comunità della Val Susa e altre comunità resistenti d’Europa, sarà a Bayonne, a metà luglio.
Somalia: scarichi illegali di residui, una lunga storia di colonialismo tossicoL’ 80% dei rifiuti urbani sono industriali, alle volte tossici come quelli elettronici. E nei Paesi Ue sono costosi da smaltire, soprattutto per via della legislazione che si è fatta più esigente negli ultimi decenni. Questo ha dato luogo a esportazioni, spesso illegali, di rifiuti, un fenomeno di «colonialismo tossico». Tonnellate di rifiuti tossici sono stati scaricati sulle coste della Somalia in barba alla convenzione di Basilea (1989). Nel 2004, uno tsunami fece apparire sulle spiagge somale recipienti che contenevano rifiuti pericolosi, anche nucleari. L’ong Common Community Care (2006) trovò rifiuti radioattivi e tossici in differenti luoghi della Somalia.
La stessa ong indicò che un numero non confermato di pescatori erano morti a causa delle contaminazioni. Investigazioni degli anni ’90 collegarono lo scarico dei rifiuti tossici con imprese di facciata europee associate alla mafia italiana. Nel ’94 la giornalista Ilaria Alpi fu assassinata con il suo collaboratore Miran Hrovatin mentre investigava sul commercio di rifiuti tossici in cambio di armi. L’investigazione sembrava aver portato alla luce che tanto l’esercito italiano come i servizi segreti erano coinvolti nel caso. Un anno prima era stato ucciso anche Vincenzo Li Causi, agente dei Servizi italiani e informatore della Alpi. Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici, unito alla pesca illegale delle imbarcazioni straniere, ha compromesso gravemente i mezzi di sussistenza dei pescatori somali e favorito la loro trasformazione in pirati. Nel 2009 un’inchiesta di Wardheer News individuò che il 70% delle comunità costiere locali «sostengono la pirateria come forma di difesa delle acque territoriali».
Testi di Daniela Del Bene (coordinatrice dell’EJAtlas), Federico Demaria, Sara Mingorría, Sofia Avila, Beatriz Saes y Grettel Navas. Traduzione di Myriam Bertolucci e Daniela Del Bene.
L’atlas globale è consultabile su www.ejatlas.org; la piattaforma italiana su http://atlanteitaliano.cdca.it/
«Coniò la parola “biodiversità”, ed ha in tasca la ricetta per salvare il nostro pianeta. "L’unico modo che abbiamo perfar sì che la biosfera non venga distrutta: è la nostra casa vivente, distruggerla vuol dire condannare la nostra stessa specie all’estinzione”». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)
A ottantasette anni Edward O. Wilson , il decano dei biologi americani, ha ancora voglia di combattere per difendere il Pianeta. E di avanzare teorie controcorrente. Lo fece nel 1975, con Sociobiologia: la nuova sintesi, libro in cui proponeva che ogni comportamento sociale umano può avere basi biologiche.
Torna a farlo ora con Metà della Terra (Codice edizioni-Le Scienze, traduzione di Simonetta Frediani, dal 9 nelle librerie): per salvare la vita, sostiene Wilson, dobbiamo trasformare metà della Terra in una riserva naturale. Anche i due Pulitzer vinti raccontano di uno scienziato che ha sempre fatto la spola tra biologia animale e società: nel 1979 fu premiato per il saggio Sulla natura umana, nel 1991, insieme a Bert Hölldobler, per Formiche: storia di un’esplorazione scientifica.
Nato in Alabama, Wilson ha passato la maggior parte della sua vita a studiare quei piccoli insetti. «Sono creature meravigliose, da cui ho imparato tantissimo. All’inizio ho lavorato per decifrare il codice “chimico” con cui comunicano all’interno delle colonie. Come molti insetti e altri piccoli organismi, lo fanno con segnali a base di feromone. Dimostrai che era possibile programmare una colonia per creare caste con diverse specializzazioni, per esempio l’accudimento dei piccoli, l’assistenza alla regina o la costruzione del nido».
Professor Wilson, lei ha avuto una carriera rapida e brillante: a ventinove anni era già professore ad Harvard, per oltre mezzo secolo ha girato il mondo studiando animali ed ecosistemi. Quando ha capito che l’essere umano rappresentava ormai una minaccia per la biodiversità?
«Bastò la mia prima settimana nelle foreste tropicali del Messico e dell’America centrale: mi resi subito conto dei danni arrecati dall’uomo. All’epoca, però, avevo pochissime informazioni su come tali danni possano innescare estinzioni delle specie e favorire la diminuzione di biodiversità. Nel 1963, con Robert MacArthur dell’Università di Princeton, descrivemmo per la prima volta in modo chiaro la relazione tra la perdita di habitat e il tasso di estinzione delle specie. Solo a cominciare dal 1986, quando con altri scienziati introducemmo il termine biodiversità, si iniziò a valutare più esattamente i danni».
E perché ha scritto “Metà della Terra” soltanto ora?
«Studi recenti hanno mostrato che un quinto dei vertebrati, gli animali meglio studiati (uccelli, mammiferi, pesci, anfibi, rettili), è ormai a rischio estinzione, anche se con sfumature diverse (da “vulnerabile” a “minacciato” a “seriamente minacciato”). Tutti i nostri sforzi di conservazione hanno avuto come risultato un rallentamento del tasso di estinzione, ma solo per un quinto di questo gruppo a rischio. La causa principale dell’estinzione delle specie è la distruzione degli habitat. Se un habitat si riduce, il numero di specie che quell’habitat può sostenere diminuisce approssimativamente con la radice quarta dell’area: se si vuole salvare l’80 per cento delle specie si deve preservare il 50 per cento dell’area originale».
Questo dunque spiega la tesi del suo ultimo libro: traformare metà della Terra in una riserva naturale totale.
«Sì, è l’unico modo che abbiamo per salvare la maggior parte delle dieci milioni di specie che costituiscono la biosfera, la nostra casa vivente».
Davvero pensa che sia praticabile? E quale metà della Terra andrebbe protetta? Le aree più selvagge o il 50 per cento di ogni Paese?
«Non solo è possibile, ma anche più facile di quanto si immagini. In tutto il mondo oggi sono protetti il 15% delle terre emerse e il 3 per cento dei mari. Ma rimangono molti altri territori ricchi dal punto di vista biologico che se trasformati in riserve ci permetterebbero di raggiungere il 50 per cento. Per il mare è più facile: molti studi dimostrano che si vietasse la pesca in mare aperto, la produttività delle acque costiere finirebbe per aumentare».
Alla fine del secolo la popolazione umana potrebbe raggiungere quota dieci miliardi. Le persone dovranno concentrarsi nel restante 50 per cento della Terra?
«Gli esseri umani possono rimanere dove sono. L’esperienza ha dimostrato che quando le aree più ricche di biodiversità sono preservate dall’urbanizzazione e dall’aumento di popolazione, uomini e natura sanno coesistere. Inoltre, è sempre più forte in tutto il mondo l’abbandono di territori poco popolati a favore delle città».
Lei è ottimista sul futuro demografico del pianeta.
«Sì, e dovrebbero esserlo anche gli altri. Ovunque nel mondo, dove le donne hanno ottenuto un qualche grado di indipendenza economica, il numero di figli per donna scende a picco. Se la tendenza attuale continuerà, la popolazione umana mondiale raggiungerà probabilmente un picco di undici miliardi per poi iniziare a diminuire».
Ma i consumi procapite continuano a crescere. Come faremo a preservare il 50 per cento del pianeta se la nostra impronta ecologica diverrà sempre più grande?
«In realtà, anche il consumo pro capite è destinato a diminuire. L’impronta ecologica (e cioé l’ammontare di territorio richiesto per soddisfare le esigenze di ogni individuo) ora vale in media circa due ettari, ma probabilmetne nei prossimi anni si restringerà anziché ampliarsi. Grazie ai progressi di biologia, robotica, nanotecnologie e alla rivoluzione digitale le persone vorranno prodotti più piccoli, che consumano meno energia, che richiedono meno riparazioni e che hanno un impatto meno distruttivo sulla natura».
I governi hanno hanno fatto molta fatica a trovare un accordo sul taglio delle emissioni di CO2. Come pensa che possano decidere in tempi brevi di “chiudere” metà della Terra?
«Ci credo perché i benefici saranno enormi: per la qualità della vita, per la sopravvivenza delle generazioni future e anche per il controllo del cambiamento climatico».
Ma politici e opinione pubblica ne sono consapevoli?
«Ora il cambiamento climatico è visto come un problema di vita o di morte per gli esseri umani. Presto anche il salvataggio del resto delle specie viventi sarà percepito allo stesso modo. La mia esperienza è che ovunque nel mondo, se ci sono educazione e opportunità, le persone percepiscono la natura come importante per la propria vita quotidiana, ma addirittura cruciale per l’esistenza umana a lungo termine».
Narratore di storie, creatore di miti, e distruttore del mondo vivente: così lei definisce l’Uomo. In “Metà della Terra” scrive che se continueremo a eliminare specie viventi al tasso attuale, presto la nostra era, che qualcuno chiama Antropocene visto l’impatto sul pianeta, sarà seguita dall’Eremocene, l’era della solitudine, in cui l’essere umano sarà circondato solo da specie allevate o coltivate per la propria sopravvivenza. Ma se invece dovessimo ruscire a fermare la distruzione, come potremmo chiamare il futuro?
«Continueremo a chiamarlo Olocene, così come si definisce il periodo alla fine delle ere glaciali, quando la nostra specie si diffuse su un pianeta pieno di promesse e di bellezza».
Il Wwf scelse il panda. Molti indicano il gorilla di montagna. Se lei, professor Wilson, dovesse suggerire un animale simbolo della perdita di biodiversità, quale indicherebbe?
«Homo sapiens. Alla fine saremo noi a soffrire e a tramontare come specie per l’incosciente distruzione della biosfera: ha impiegato tre miliardi e mezzo di anni per evolvere, è da lei che dipende la nostra sopravvivenza».
«Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza.». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)
I piedi , gli occhi,il cuore di Paolo Rumiz e dei suoi compagni di viaggio: cosa avrebbe potuto chiedere di più la vecchia Via Appia, regina delle strade? Sembrerà strano, ma era da un tempo infinito che nessuno prendeva l’Appia per il suo verso: che è quello di essere una strada. Una strada da percorrere tutta, senza badare ai confini tra le regioni o i comuni, tra lo spazio pubblico e l’aggressione dei privati (abusivi o no), tra il bello e il brutto, tra la storia e la sua negazione, tra il monumentale e il demenziale.
Come tutti i pellegrinaggi religiosi, il Cammino di Santiago promette, a chi lo percorre con fede, indulgenze e remissione dei peccati. Agli italiani che la percorreranno con incrollabile fede nella propria umanità l’Appia promette, invece — oltre ai piaceri della carne e dello spirito irresistibilmente cantati da Rumiz — la conversione alla saggezza più alta, e meno diffusa: quella dell’uso sostenibile del nostro territorio, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, del primato dell’interesse pubblico su quello privato.
Oltre sessant’anni fa è stato Antonio Cederna a fare dell’Appia uno specchio del Paese: uno specchio capace di svelare la struggente bellezza dell’Italia lontana dai feticci del turismo globale, ma anche l’abisso di stoltezza con cui abbiamo distrutto quella bellezza. Intervenendo all’assemblea di Confindustria, dieci giorni fa, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ha detto che «siamo un Paese che ha investito tantissimo in tutela. Abbiamo fatto bene: abbiamo vinto quella battaglia, abbiamo punte di eccellenza. Ma non abbiamo investito altrettanto in valorizzazione».
Ecco, percorrere l’Appia significa sbattere contro l’evidenza del contrario: non abbiamo affatto vinto la battaglia della tutela. E rischia di fare enormi danni una retorica che fondi su questo abbaglio la stagione di una valorizzazione pigliatutto. Questo è il punto: l’idea (fortissima, popolare, vincente) dell’Appia come del nostro Cammino di Santiago non deve ridursi a un brand, a un Grande Progetto, a un format fatto di segnaletica e app per l’iPhone, magari con la partecipazione decisiva delle società che hanno sventrato il Paese con Grandi Opere inutili. E che il concorso appena bandito per altri dieci supermusei preveda che l’Appia venga sottratta alla soprintendenza e sia invece affidata a un superdirettore (che potrebbe essere benissimo un esperto di marketing, come è accaduto per la Reggia di Caserta) cui dovrebbe spettare anche la tutela paesaggistica e archeologica è passo decisivo in quella pessima direzione.
Chissà se un giorno potrà tradursi in realtà un altro modo di pensare: chissà se avremo mai una soprintendenza unica per tutta l’Appia, da Roma a Brindisi. Una soprintendenza popolata di diecine di giovani archeologi capaci di scavare, sistemare, tutelare e raccontare ai cittadini la nostra storia straordinaria. Una struttura capace di produrre insieme difesa del territorio, ricerca, conoscenza e piacere diffuso: capace di farci attraversare questa strada unica al mondo non come clienti o consumatori, ma come pellegrini della conoscenza gratuita. Non come numeri da esibire nelle statistiche ministeriali, ma come persone: alla ricerca di quel «pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3 della Costituzione) che è il vero scopo di ciò che chiamiamo patrimonio culturale.
Un progetto carico di futuro: e che magari sarà realizzato da un ministro per i beni culturali che da bambino avrà percorso tutta l’Appia con gli occhi spalancati, il cuore aperto e il cervello acceso. E con in tasca il libro di Paolo Rumiz.
«E adesso riprendiamoci l’Appia antica . Dal libro “Appia
” di Paolo Rumiz la mostra “L’Appia Ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)
Scenderete dai colli Albani calpestando terra negra punteggiata di borragine, poi sarete nella piana delle acque vive ai piedi dei Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, quindi verranno i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e, subito dopo, i cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Vi perderete nei labirinti di Gomorra che un tempo fu Campania Felix, poi la vista spazierà sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, avanti nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi, fino al finis terrae di Brindisi e all’Apulia della grande sete.
Volevo che il mio ultimo viaggio per Repubblica, quello sui selciati e i sentieri dell’Appia antica, avesse un sigillo speciale. Qualcosa che, anziché chiudere una storia, ne aprisse una nuova, meglio se raccontata da altri. L’avevo promesso ai lettori. Ed ora eccolo qui, il libro sulla Gran Via restituita agli italiani dopo la traversata a piedi del 2015. Sentivo di doverlo fare, più per senso civico che per letteratura. Per qualcosa che va oltre il diritto individuale allo spazio e diventa dovere verso la propria Terra.
È per questo che nel racconto, in uscita il 9 giugno, c’è la descrizione e la mappatura (anche in versione online) dell’itinerario offerta ai camminatori. Ed è per questo che lo stesso giorno succederanno altre due cose: l’apertura al Parco della Musica di Roma, nell’ambito della “Repubblica delle idee”, di una mostra sulla Regina Viarum, costruita in gran parte con nostri materiali, e l’uscita di un nuovo dvd con sottotitoli in inglese, utile anche ai viandanti stranieri. Sarà il regalo finale dei quattro dell’Appia antica: Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani, Irene Zambon e chi scrive.
Ora davvero l’Appia potrà essere il nostro Cammino di Santiago. Ma con importanti differenze. Il tracciato italico non si apparta per valli solitarie. Non è costellato di ostelli e di confortevoli punti di sosta. Non ha alle spalle una letteratura recente. È una strada ancora tutta da attrezzare. Una strada che chiede la riconquista di uno spazio selvaggio o dilapidato dall’incuria degli Italiani e ci ordina di resistere all’oblio, a costo di combattere con l’asfalto, i guard-rail e le recinzioni abusive. Sì, per accedere alle meraviglie nascoste dell’Italia si deve fare talvolta del lavoro sporco, perché l’ambiente non è solo bosco e idillio di brughiere, ma anche città, periferia, fabbrica, banlieue.
Il cammino vero si fa nel mondo, non fuori dal mondo. Non è arroccamento in riserve indiane. E così come sopporta vesciche, graffi e punture di tafani, il vero esploratore accetta anche zaffate di tubi di scarico, insulti e diffidenza. La viandanza è immersione, non decollo verso altezze rarefatte; è contaminazione, metamorfosi. Può essere paracarro, campo di frumento, cava di pietra, metanodotto, muretto a secco, greto, tratturo, passaggio a livello, uliveto, pelle di serpente.
E poi, non è vero niente che “tutte le strade portano a Roma”. Semmai “tutte le strade partono da Roma”, perché è Roma lo straordinario punto zero di un conteggio delle miglia che innerva come una ragnatela l’Europa e lo spazio mediterraneo. Chi taglia a piedi un territorio come l’Italia del centro-sud vede molte cose che altri non vedono, specialmente i politici di scarpa lustra. Credere che siano le periferie a dover accorgersi del centro è qualcosa che con l’antica Roma aveva poco o nulla a che fare.
Ma forse tutto questo nostro Paese, nato troppo in fretta, andrebbe riletto a rovescia. A noi è bastato poco per capire che la Linea Magica che aveva portato a sudest il segno di Roma nel cuore del Mare Nostrum ora portava verso l’Urbe il segno della camorra. In pochi mesi, dopo il nostro passaggio, Roma e Brindisi perdevano i loro sindaci, decapitate dalla politica o dalla magistratura, e la terra dei Casalesi era investita da inchieste pesanti. A tutt’oggi tra Roma e il Casertano, undici su trentanove Comuni attraversati dalla Gran Via sono commissariati, con la provincia di Latina che — con una concentrazione anomala di appalti sospetti — si fa anello di congiunzione fra Gomorra e la Capitale.
Tutto questo non lo capisci con i droni e gli smartphone, ma usando i piedi. Sono loro il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. I piedi non sono arti, ma organi di senso che mandano alla testa una strepitosa quantità di segnali.
Nello stesso tempo la strada ribalta schemi e pregiudizi. Proprio nelle terre più malfamate è facile trovare i segni di un’ospitalità da Grecia antica. Quanto più, verso il magnifico capolinea, i segni dell’archeologia si rarefanno, tanto più la temperatura umana aumenta. E poi, quanta varietà e bellezza in più rispetto a Santiago. La via italiana non è solo campagna, pietre miliari e basolato. È donne ai balconi, pasta alle melanzane, rospi schiacciati, vento nei canneti, la mamma e Padre Pio. Pane cafone, fiori su un guard-rail, caffè alla nocciola e cani perduti. È argine, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, cantoniera abbandonata, cancello con la scritta ATTENTI AL CANE.
L’Appia è fatamorgana, fantasma meridiano che galoppa nei campi di colza inondati di sole. Proprio dove ti schianta con le sue devastazioni, l’Italia del Sud si fa perdonare con una fritturina di paranza o col pane cotto con patate, aglio, peperoncino ed erbe di campo. Se passerete a piedi in questo mondo appartato, sismico e fertile, dai sapori ancora pieni, sappiatelo: sopporterete tentazioni peggio di Sant’Antonio. Tutto cospirerà per farvi desistere. Ma almeno inghiottirete il Paese a forchettate. Ruminerete insieme cibo, storia, flora, fauna e paesaggio. Melanzane fritte e Federico di Svevia, Aglianico e canti ebraici di Oria, carciofi alla giudia e Satire di Orazio Flacco.
L’Appia non è solo i suoi celeberrimi chilometri iniziali. È molto di più. Per cominciare, essa è il solo cammino europeo leggibile nei due sensi. Mentre Santiago ha un significato one- way, la via romana racconta due grandiose storie parallele.
La strada verso Brindisi appartiene alle legioni, quella verso Roma agli apostoli Pietro e Paolo, al Cristianesimo che sbarca in Occidente. Essa è continuità di storia, un asse che riassume la storia d’Italia ben oltre l’epoca romana, parla dei popoli del mare, dei Greci, dei Saraceni e degli Ebrei. Narra di Svevi e Longobardi. Evoca la Resistenza e le repressioni borboniche, l’epopea garibaldina e la devastazione degli anni Sessanta. C’è molto di più che sul Camino spagnolo.
L’Appia è il portale d’accesso a un arcipelago unico al mondo di mausolei, anfiteatri, ville, opere di difesa, stazioni di sosta, locande. Camminandoci sopra, potrete sentire il passo delle legioni e il flusso delle mercanzie, il raglio degli asini e le grida dei traghettatori, e questo vi aiuterà a scrivere una rapsodia italiana persino più autentica del rinomato Grand Tour. Essa sarà per voi un modello insuperato di brevitas rispetto alla viabilità contemporanea tormentata da svincoli, rotonde e sottopassi. Un esempio unico di lavori pubblici ben fatti e buona manutenzione. L’Appia è unica. Un marchio di formidabile richiamo internazionale.
Ai camminatori dico: ora tocca a voi scrivere la storia. Basteranno i vostri piedi, un buon tagliaerba e qualche cartello. L’Appia non è il Colosseo. È una scommessa leggera, a fronte di un investimento pesante. Ve ne accorgerete: ci vuole poco per riprendersi l’Italia.
Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2016
E così, con circa un mese di ritardo rispetto allo strombazzatissimo annuncio, è dunque arrivato il concorsone da 500 posti per funzionario tecnico nel Ministero dei Beni Culturali. In tempi di delegittimazione costante della pubblica amministrazione 500 posti fissi per laureati in materie umanistiche sono decisamente in controtendenza. Senonchè, se si va oltre la superficie governativa del #cambioverso, l'iniziativa è destinata ad un drastico ridimensionamento quanto a impatto sul sistema della tutela.
I posti messi a concorso copriranno a stento la metà di buchi d'organico provocati dai pensionamenti di qui all'ingresso effettivo dei futuri vincitori. Nonostante il suddetto organico avesse subito, ad opera di questo Ministro, una robustissima potatura, da 25.000 a 19.050 posti complessivi.
Tagli operati sulla sola base di esigenze di risparmio e in pieno clima di ridimensionamento della macchina statale, senza un'analisi dei bisogni del territorio e pur a fronte di una riorganizzazione ministeriale - la così detta "riforma" Franceschini - destinata a scardinare il ministero creando dal nulla decine di nuove strutture (i musei autonomi e i poli museali).
Che uno dei punti deboli della riforma Mibact fosse proprio quello del personale, insufficiente in numero e per di più con età media avanzatissima, lo si era già capito nei mesi scorsi, a fronte di situazioni paradossali che si erano create in seguito alla suddivisione dei funzionari fra musei, poli e Soprintendenze, operata con modalità estemporanee e opache, all'insegna dell'autogestione: tanto per fare un solo esempio, la Galleria Borghese, Museo promosso fra quelli di serie "A", annovera nel suo staff un solo storico d'arte.
Con il gusto del surreale proprio dell'alta burocrazia ministeriale, il concorso ignora, nella ripartizione fra le varie specializzazioni (architetti, archeologi, bibliotecari, antropologi, archivisti, ecc.) non solo le esigenze specifiche dei territori, ma anche la stessa riforma. Pur di fronte alla moltiplicazione degli istituti autonomi e dei centri di spesa, non è previsto neppure un posto per funzionari amministrativi.
Quanto ai tecnici, la ridicola quota prevista per i bibliotecari (25 posti), a fronte di istituzioni che - anche a livello di biblioteche nazionali, come quella di Firenze - stentano ad assicurare i più elementari servizi, nonchè orari di apertura decorosi, ha provocato, in pochi giorni, le dimissioni dell'intero Comitato tecnico scientifico ministeriale per le biblioteche e dello studioso di biblioteconomia, Giovanni Solimine, nominato in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
Era noto da tempo che 500 posti non fossero sufficienti ad invertire il processo di declino della struttura Mibact, ma servivano a stento a mantenerla all'attuale livello di galleggiamento.
A maggior ragione, ne andava pianificata una ripartizione oculatissima, mentre invece gli squilibri sono evidenti non solo fra le varie specialità disciplinari, ma soprattutto per quanto riguarda le aree geografiche: fortemente penalizzato, in tutte le discipline messe a concorso, è il meridione (alla faccia della propaganda renziana sulla cultura come motore di un nuovo sviluppo del mezzogiorno), mentre troviamo una concentrazione di "offerta" nel Lazio, cioè a Roma, cioè nella sede centrale del Ministero.
Il Collegio Romano continuerà così ad essere un Moloch che drena risorse di ogni tipo a danno dei territori.
Fin dalla partenza il concorsone rivela la sua natura di rimedio una tantum, inutile nel medio-lungo termine. Già da molti anni il nostro sistema di tutela si regge non solo grazie ad un personale invecchiato e sempre più demotivato, ma, in percentuale sempre maggiore, sulle spalle di migliaia di precari laureati e spesso specializzati e dottorati che, con contratti al limite della dignità professionale, garantiscono servizi essenziali, dalla catalogazione di biblioteche e archivi, all'apertura di musei e luoghi della cultura, alla gestione di tutti gli scavi di archeologia preventiva.
È una situazione da risolvere attraverso una nuova e diversa politica occupazionale che garantisca regole certe, trattamenti continuativi - non necessariamente il solo "posto fisso" - ma incentivando con ogni mezzo l'imprenditoria culturale giovanile: questa sarebbe la vera riforma, l'unica utile a "cambiare verso".
«Smog alle stelle. Per il Tribunale di Genova le crociere sono “trasporti di linea” e quindi devono usare carburanti meno tossici. Gli operatori contrari». Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016 (p.d.)
Multe alle navi da crociera che inquinano. Il rischio, per le grandi compagnie, di non poter più attraccare nei porti italiani in caso di recidiva (che si è già verificata). E una clamorosa sentenza del Tribunale di Genova che vieta ai colossi da 3mila passeggeri di utilizzare carburanti sporchi. Mentre gli armatori, denunciano i deputati M5S, fanno pressing sul ministero dell’Ambiente perché siano innalzati i limiti delle emissioni. “In queste ore si sta combattendo una battaglia decisiva per la pulizia dell’aria nelle città portuali. Quelle dove ogni anno attraccano 4.556 navi da crociera che trasportano 10,9 milioni di passeggeri. Colossi che stanno a pochi metri dalle case”, racconta Arianna Spessotto (M5S) della Commissione Trasporti della Camera. Basti pensare che ogni anno a Civitavecchia si contano 806 “toccate nave”, a Venezia 498, a Napoli 430. Mentre a Savona, dove attraccano letteralmente in pieno centro storico, siamo a 231 e a Genova si arriva a 190. “Senza contare la salute di chi è a bordo. Le navi inquinano infinitamente più delle auto”, spiega Spessotto.
Tutto nasce dalle ultime contravvenzioni che le capitanerie di porto – Venezia e Genova, in particolare – hanno inflitto ad alcune delle maggiori compagnie. L’accusa: violazione dell’obbligo di utilizzare un carburante a basso contenuto di zolfo (1,5% della massa). Ed ecco scattare le sanzioni da 30mila euro. Ma in una partita da molti miliardi, la vera posta è che,in caso di recidiva,il comandante o le navi rischiano di non poter più attraccare nei porti italiani. Così ecco il ricorso presentato da Msc (ma il discorso vale anche per altri grandi operatori) al tribunale di Genova: i transatlantici da crociera, scrivono gli avvocati, non possono essere considerati navi di linea. Questione di orari, di tragitti: “Nessuno li utilizza per spostarsi da un porto all’altro”, scrivono i legali nel ricorso.Ma il giudice PietroSpera del Tribunale di Genova lo ha respinto. Una sentenza che potrebbe rivoluzionare il trasporto marittimo italiano. Scrive il magistrato: “Una serie di traversate a scopo turistico deve essere considerata come un collegamento”.
Ancora: “Dato che le direttive europee hanno lo scopo di tutelare la salute e l’ambiente riducendo le emissioni di anidride solforosa, incluse quelle prodotte durante i trasporti marittimi, detta conclusione non può essere inficiata dalla circostanza chei passeggeri di una nave da crociera beneficino di servizi supplementari, quali l’alloggio, la ristorazione e le attività ricreative”. Infine, rileva il Tribunale, gli orari delle navi da crociera si possono reperire sui siti delle compagnie di navigazione.
Ma che cosa è in gioco davvero? “Cambiare la classificazione di una nave significa risparmiare decine di milioni di euro. Perché le navi non di linea possono utilizzare carburante con una percentuale di zolfo del 3,5 per cento.E una nave da crociera arrivare a consumare 15 tonnellate l’ora ”, racconta un ufficiale della Costa Crociere che non vuole essere citato. Non è soltanto una questione di denaro, assicura un ufficiale Msc, ma anche di disponibilità: “Il carburante più pulito costa molto di più. Ma è anche più difficile da trovare”. Forse anche perché c’è poca domanda. E c’è infine, sostengono le compagnie, la questione della concorrenza: “Servono norme uniformi, perché se in Italia si chiede carburante pulito e in Spagna no, bé… andiamo fuori mercato”. Un business immenso, anche per i porti di accoglienza. “Ma c’è soprattutto la salute”, ricorda Spessotto.
E non c'è soltanto lo zolfo, ma anche le polveri ultrasottili. Come ricorda Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia: “Secondo i rilevamenti dell’associazione ambientalista tedesca Nabu, in Laguna la situazione per il pm 2,5 talvolta è peggio che a Pechino. Il livello registrato è 150 volte superiore a quello dell’aria pulita (mille particelle per centimetro cubo)”. Prosegue Mazzolin: “Al ponte degli Scalzi sono stati registrati picchi di particelle ultrasottili di 62.400 unità per centimetro cubo. All’Arsenale, punto di passaggio delle grandi navi, siamo a 133mila unità”. Spessotto aggiunge: “Chiediamo al ministero di sapere se è vero, come ci risulta da fonti attendibili, che in queste ore le compagnie stanno cercando di ottenere un innalzamento dei limiti”. Interpellato dal cronista, il ministero ha smentito incontri. Alla successiva domanda se sia in atto un tentativo di pressing sul ministero non c’è stata risposta.
E non si parla delle navi merci. Secondo l’indagine della trasmissione Petrolio, i 20 cargo più grandi del mondo emettono più diossido di zolfo di tutte le auto in circolazione. Ma la flotta, che trasporta il 90% delle merci mondiali, è composta di 60mila navi. Un terzo transita per il Mediterraneo.
«Il cemento usato come gomma per cancellare il passato, l'alta percentuale di migranti, le arance che un tempo davano ricchezza, i dintorni desolati. Un luogo intenso come pochi altri che almeno una volta nella vita bisogna visitare». Il manifesto, 3 giugno 2016 (p.d.)
Rosarno è un vassoio di cemento in mezzo alle arance. Non importa che adesso al posto delle arance hanno messo i kiwi, la piana è famosa per le arance.
Non sapevo nulla di questo paese, non sapevo che fosse leggermente rialzato dal piano come una torta nuziale. Ci sono stato poco. Non conoscevo questo paese e non credo di averlo incontrato. Ho visto qualcosa, qualche scena. Una sensazione di un film un po’ mesto, vagamente polveroso. C’era un cielo grigio che attenuava l’urlo delle cose. Ho visto un paese che si muove in macchina anche per spostamenti millimetrici. Hanno pensato a consumare il suolo, ma hanno cura di non consumare le suola.
C’è una piazza dove i vecchi stanno in mezzo e guardano la strada che gira intorno. Mi hanno detto che è la piazza centrale del paese. A me quando ci sono arrivato è sembrata una piazza di periferia.
Sono stato due giorni in un senso di grigiore e la cosa è strana nella luminosa Calabria. Il grigio delle nuvole e il grigio delle case non dipinte. La differenza è tra quelle che hanno solo l’intonaco grigio e quelle che hanno solo i mattoni. Qualcuno prova ad aggiungere qualche fregio, ma il tentativo di bellezza qui è riservato all’interno. È davvero singolare la differenza tra le facciate spoglie e gli interni sospesi tra il barocco e il kitsch. Comunque non ha molto senso parlare di bellezza e di bruttezza. Qui c’è un’intensità, sia dentro che fuori. Rosarno è uno dei posti da conoscere assolutamente. Si può dire che ha una sua unicità. È anche il luogo d’Italia con la più alta percentuale di stranieri. Gli africani li vedi subito. Ed è abbastanza facile riconoscere anche le badanti polacche. Più difficile accorgersi che esiste una foltissima comunità di bulgari. Ci fanno perfino un mercato con la merce che viene dalla Bulgaria.
Non so dare un ordine a questo testo, mi piace procedere alla rinfusa. Penso alla cena a casa di Pasquale Reitano. Mi ha raccontato la sua vita. L’emigrazione in Germania, i lavori nei campi. In questo paese si è sempre lavorato tanto. Non è una comunità di accidiosi. I pilastri del non finito calabrese prima che di cemento sono composti di lacrime e sudore.
La voglia di parlare delle persone. La signora che al museo mi aspetta sulle scale, sorpresa della brevità della mia visita. Il museo è bellissimo. Non ci sono insegne per dire dove si trova. Se uno arriva a Rosarno non lo capisce che il paese di adesso viene da un luogo molto antico. Il cemento usato come gomma per cancellare il passato.
Quando si ha tanta bellissima natura intorno viene quasi voglia di intaccarla. E poi qui c’è l’azione congiunta dei cittadini e dello Stato. Verso il mare si vedono le gru del porto di Gioia Tauro. La visita al porto è stato il punto più basso del mio passaggio calabro. Mi sono disteso sulla spiaggia. Mi è piovuta addosso una grande tristezza. Gioia Tauro è uno dei più grandi fallimenti della politica italiana. Il pescatore davanti a me dice che non sta pescando niente. Io ho dato un poco del mio panino a un cane. Le case davanti alla spiaggia mi commuovono per la loro bruttezza. Ecco il pericolo di questa zona: la sindrome di Stendhal alla rovescia.
Ho parlato con poche persone. La conversazione più lunga l’ho avuta con un calzolaio. Una brava persona. Ho avuto l’impressione che le persone parlano volentieri con i forestieri. Vogliono raccontare dei bei tempi passati, i tempi in cui le arance davano ricchezza. Sono le arance ad aver partorito tutto questo cemento. Ora il paese se ti metti in ascolto non può che raccontarti il suo disagio.
Non so cosa mi avrebbero detto se avessi parlato con gli stranieri. Prendono venti euro al giorno, cinque se li prendono i caporali. Notizie attinte a cena. Non ho svolto ulteriori indagini. Non sono un giornalista e credo che il paese sia stato raccontato fin troppo dai giornalisti ai tempi dello scontro tra gli africani e le persone del posto.
Girare per il paese e invece di prendere appunti entrare in un negozio che vende prodotti per l’igiene. Comprato un dentifricio per denti sensibili, due confezioni di bagno doccia al profumo di mirra. Prima avevo comprato la bomba calabrese anche se so che a casa già ne abbiamo molta.
Non ho preso nessun appunto, ho visto molte donne in macchina. Ho visto alcuni africani in bicicletta alle cinque del mattino. Ho visto poco.
Uno dei ragazzi che mi ha invitato a Rosarno è marchigiano. Architetti giovani con buone idee, ma i progetti li fanno gli altri. Questi ragazzi arrivano quando tutta l’edilizia che si poteva fare è stata fatta. Ora si parla di cuciture, rigenerazione. Sono architetti di questo tipo che mi invitano alle loro iniziative, non quelli che fanno girare le betoniere, quelli che sanno come convincere i sindaci.
Per capire Rosarno mi sono mosso anche nei dintorni. Sono arrivato fino a Vibo Valentia. Ho cercato paesi desolati e li ho trovati. Non mi sono segnato il nome di questi paesi, non ho denunce da svolgere. E poi a chi dovrei indirizzarle? In uno di questi paesi c’era un signore non anziano fermo sul ciglio della strada. Seduto su una sedia a rotelle. Era solo, e l’ho ritrovato allo stesso posto anche un’ora dopo, fermo a guardare se passava qualcuno. I paesi ci sono, vedi qualche macchina parcheggiata, ma qui in Calabria il senso di vuoto si mischia col senso di disordine, desolazione e incuria.
Cerco consiglio a un ragazzo per il mio telefonino. Armeggia senza molta convinzione, alla fine ci riesco da solo a risolvere il problema. Lui è qui, ma ogni tanto parte, va a fare il cameriere al Nord. Non mi ricordo il suo nome. Paesologo svogliato.
Volevo andare al Comune e non ci sono andato. Quando la giovane giornalista mi ha accompagnato il primo giorno in giro per il paese io ero un poco perso nelle mie ansie. Più che ascoltare in certi giorni preferisco guardare le scene della vita. Ecco una donna che stira, il signore che telefona, due persone che parlano di malattia su una panchina, un piccolo branco di adolescenti. I gesti della vita quotidiani sono abbastanza simili in qualsiasi posto. Io devo parlare di questo paese, chi mi ha invitato immagina che io posso scrivere qualcosa di interessante. E invece mi pare di zampettare nell’ovvio, forse l’unica soluzione è che l’ovvio sia almeno lucente, non abbia aloni e offuscamenti.
A cena i figli di Pasquale mi sono sembrate brave persone e anche la madre, e anche il cibo. La sera prima avevamo cenato in uno di quei ristoranti in cui ci puoi passeggiare dentro. E ci hanno dato del vino in una bottiglia così brutta che ci è sembrato brutto anche il vino: potenza della confezione.
Non ho nulla da dire sulla criminalità. Girando per strada non si vede né quella piccola né quella grande. Io ho guardato i muri, i balconi, ho guardato gli angoli delle strade, le carte per terra, non riesco a costruire discorsi su come potrebbe essere questo luogo. Ho provato una sincera simpatia per i ragazzi che mi hanno invitato. Abbiamo avuto anche una bella conversazione appena sono arrivato, peccato che è durata poco.
Se fossi uno del posto proporrei di chiamare Rosarno col suo nome antico: Medma. Ripartire dai primi abitanti del luogo, arrivare di un soffio ai giorni nostri, ribaltare l’idea di essere un problema, Rosarno deve immaginare di essere una soluzione.
La cosa che mi ha colpito è stata scoprire che Salvatore Settis è di Rosarno. Non so che rapporto abbia col paese. Immagino non sia un rapporto facile. I suoi concittadini hanno fatto tutto il contrario di quanto lui vorrebbe. E comunque ho la sensazione che qui il problema non è economico. Se l’economia riparte è facile immaginare che riparte anche il cemento. Allora la faccenda è sistemare la Calabria, decementizzarla. Bisogna portare qui non tanto i soldi ma un gusto estetico più semplice e asciutto. Molta gente si dissangua per riempire le proprie case di oggetti orrendi.
Il paese non ha bisogno che siano nuovamente pavimentate le sue piazze. Bisogna togliere le buche dall’asfalto.
Non seguo un filo. Ora mi viene in mente che mi hanno accompagnato da un’anziana donna che vede se hai il malocchio. Rimanenze dell’arcaico. Ci sarebbe un lungo discorso da fare su come l’arcaico oggi è l’unico futuro che ci resta, ma ora ho un po’ paura di imbarcarmi in teorie e congetture. Ci sono dei luoghi che muovono la lingua e altri che la paralizzano. Posso dire che sono contento di aver visto Rosarno e ci tornerò volentieri. È sicuro che è uno dei posti che non si dimenticano. Consiglio a tutti di andare almeno una volta nella vita a Rosarno. In Italia ci sono pochi posti che hanno la stessa intensità.
«"La democrazia del merito", l'ultimo libro di Giuseppe Tognon, contrappone al mito della libertà meritocratica, il mito della libertà democratica incarnato nella figura di don Milani». Il manifesto, 3 giugno 2016 (c.m.c.)
Beatificata dalla stragrande maggioranza e respinta dai nostalgici egalitari, la meritocrazia subisce un rimprovero pedagogico nell’ultima fatica di Giuseppe Tognon, La democrazia del merito (Salerno Editrice, pp. 112, euro 8,90). Qui si prendono le distanze dal mercato e dalla retorica delle «pari opportunità» in nome di una nuova antropologia del merito fondata sull’ideale democratico. L’obiettivo è denunciare quella «tentazione meritocratica» che cancella le fragilità e perde di vista i segni specifici di ogni essere umano.
Non tutto può diventare merce. La ricerca di senso sfugge alle «curve sul profitto» e secondo l’autore riattiva quei luoghi della condivisione illuminati dal dono e dal ruolo trascendentale dell’incontro.
Il merito, nel suo autentico significato, rinnega l’utilitarismo spregiudicato e difende i talenti dell’umanità. La meritocrazia liberale si occupa al contrario di alcuni talenti e introduce una gara senza sosta dove invidiosi protagonisti rinforzano il carattere poco nobile dell’apartheid. Si tratta di uno schiaffo agli ultimi, ai «falliti», a chi consegue nella vita di tutti i giorni il «premio» della sobrietà.
Rinunziare a questa ideologia, continua il pedagogista, significherebbe non soltanto annullare la triste equazione merito/successo, ma più in generale ricostruire le fondamenta dell’umanità a scapito del vuoto, di un estrinseco sempre più legato ai processi di mercificazione.
Le «fabbriche di eccellenza» ospitano rigidi criteri di valutazione che si rivolgono ad un automa assuefatto alle mode consumistiche. Egli non sa più quel che vuole e rincorre l’eccesso. Vive l’istante come unico orizzonte temporale e si dimentica della speranza, del futuro, dei fini di lungo periodo. Il cittadino sui iuris si traduce in imprenditore o in cliente, uomo-massa o manager. Ironizza sull’emotività, sui gesti creativi dell’arte e adopera ad oltranza il linguaggio operativo dell’informatica. L’università di Harvard e le scuole economiche trionfano sul sapere umanistico e feriscono le molteplici attese rifiutate da un sistema non immune dal pericolo totalitario.
In questo libro si ammonisce quel riformismo di sinistra, rilanciato dalla Third Way di Tony Blair, che non si discosta dal terreno delle discriminazioni e garantisce il primato dell’efficienza attraverso regole quasi identiche al modello reazionario delle destre.
Al mito della libertà meritocratica, lo studioso contrappone giustamente il mito della libertà democratica incarnato nella figura di don Milani: Lettera a una professoressa è il simbolo di una verità sofferta. La «sufficienza» al disagio, voluta dal sacerdote fiorentino e offesa dai fanatici della competizione, non preannuncia un gretto livellamento, ma la riscoperta di un’alternativa, di un sentimento profondo che suggerisce la vittoria di chi adesso non può, di chi balbetta la sua vocazione e rivendica a pieno titolo uno spazio.
Il merito deve attingere al registro democratico e riflettere con un nuovo approccio relazionale le sfumature di chiunque. La scuola della vita espelle così i toni arroganti dell’arrivismo e promuove le vie infinite che alimentano la giustizia.
Comune.info, 3 giugno 2016 (p.d.)
L’aumento previsto di proprietà della terra da parte straniera sarà una manna per le industrie del legno, soia e zucchero – e un incubo per i contadini. Il governo del Brasile ha intenzione di alzare i limiti vigenti in materia di proprietà straniera di terreni agricoli, lo ha annunciato Mercoledì il Segretario degli Investimenti Moreira Franco, la persona incaricata delle privatizzazioni per la nuova amministrazione.
“Questa proposta rappresenta gli interessi di un’alleanza tra multinazionali dell’agrobusiness, fondi pensione esteri e l’oligarchia rurale brasiliana,” ha detto a Telesur Maria Luisa Mendonça, direttrice del Network del Brasile per la giustizia sociale e i diritti umani. “Sarà aumentata la concentrazione di terra enormi nel paese e la sua dipendenza da materie prime agricole basate su mono-colture per l’esportazione.”
Franco ha chiamato un “nonsenso” la restrizione sulla vendita di terreni agricoli a livello di individui e alle aziende straniere e ha detto che il Senatore Michel Temer, imposto come presidente ad interim, riconsidererà la questione. “Il governo discuterà la questione, per vedere come si può risolvere questo problema. Si tratta di qualcosa di completamente irragionevole”, ha aggiunto Franco. L’annuncio segue la promessa del Movimento dei Senza Terra, MST, di lanciare una nuova ondata di occupazioni di terra.
La proprietà della terra in Brasile è già una delle più disuguali al mondo, con appena l’1 per cento della popolazione che possiede il 45 per cento della terra. Questa nuova politica rischia di aggravare questo problema. “Sarà devastante per i piccoli agricoltori e per la produzione alimentare nei mercati locali. E aumenterà la distruzione ambientale e l’inquinamento delle fonti d’acqua”, ha detto Mendonça.
La restrizione sulla proprietà straniera è stata adottata nel 2010 dall’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Il MST è stato a lungo alleato di Lula e del presidente deposto Dilma Rousseff del Partito dei Lavoratori. L’amministrazione di Lula aveva considerato in quel momento che paesi come la Cina avrebbero potuto prendere il controllo di ampie fasce di terra coltivabile in Brasile. Erano state modificate le regole che sorvegliavano le offerte per limitare la quantità di terra che avrebbero potuto comprare gli investitori stranieri. Erano state aumentate le formalità di documentazione sono stati aumentati, rendendo le offerte molto più complessa. Le aziende del settore delle materie prime del Brasile hanno a lungo fatto pressioni per una revisione delle norme, per consentire l’arrivo di maggiori investimenti nel paese, in particolare nel settore del legno. Le industrie di cellulosa, zucchero e soia sono tra coloro che difendono la fine delle restrizioni.
“Attualmente l’interesse principale del commercio nel settore agricolo non è la produzione di un particolare prodotto agricolo, ma il controllo sulla terra e le risorse naturali per la speculazione“, ha aggiunto Mendonça, professoressa del Dipartimento relazioni internazionali presso l’Università di Rio De Janeiro. “La proprietà della Terra può servire come base ‘materiale’ per aumentare la circolazione del capitale finanziario.”
(traduzione di Antonio Lupo)
http://www.farmlandgrab.org/post/view/26159
I maggiori esperti di subsidenza marina gettano l'allarme sulla sempre più ridotta differenza tra il livello delle terre emerse rispetto a quello del mare. Pesante incidenza negativa hanno avuto il MoSE per il bacino lagunare veneziano e la centrale di Porto Tolle per il delta del Po. La Nuova Venezia, 2 giugno 2016 (m.p.r.)
L’Istituto di scienze marine del Cnr, in uno studio presentato a Venezia con i maggiori esperti al mondo di subsidenza costiera, evidenzia una significativa eterogeneità nella perdita di altimetria del suolo rispetto al livello del mare nei vulnerabili ecosistemi della laguna e del delta del Po. Se la laguna e la città sono stabili, il fenomeno aumenta nel sistema deltizio fino a 20 millimetri l’anno. Le bocche di porto della laguna, relative al progetto Mose sperimentano cedimenti di oltre 30 millimetri l’anno, la centrale elettrica di Porto Tolle di oltre 15.
Venezia è la città più nota nel mondo riguardo alla problematica della subsidenza relativa, cioè la perdita di altimetria del suolo rispetto al livello del mare dovuta alla combinazione di abbassamento del terreno e innalzamento del mare. Laguna e delta rappresentano quindi ecosistemi molto vulnerabili: la pianura costiera che li circonda è generalmente soggiacente il livello marino, anche di oltre 4 metri e il rischio idrogeologico e ambientale associato è particolarmente elevato, con rischi di inondazione e desertificazione.
La ricerca è finanziata dal Progetto Bandiera “Ritmare - La ricerca italiana per il mare” e i risultati del monitoraggio sono stati ottenuti processando le immagini acquisite dal satellite Cosmo-SkyMed (banda X) dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) e dal satellite Alos-Palsar (banda L) dell’Agenzia spaziale giapponese Jaxa. L’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Ismar-Cnr) di Venezia e l’Università di Padova sono impegnati nello studio e nel monitoraggio della subsidenza di quest’area da oltre 40 anni.
«Lo studio evidenzia, ancora più che negli anni passati, la significativa eterogeneità delle velocità di subsidenza a scala regionale e locale», spiega Luigi Tosi dell’Ismar-Cnr. «Dal settore centrale della laguna, stabile, il fenomeno aumenta in direzione nord e sud, con valori massimi nel delta del Po. I valori possono raggiungere 8 millimetri l’anno nel bacino lagunare e 20 nel delta; le aree agricole prossime alla costa sono soggette a valori tra 2 e 10 millimetri». La città ha una relativa stabilità. «La subsidenza media è di 1,2 millimetri, con valori fino a 2-4. L’altimetria del suolo rispetto al livello del mare, ormai molto ridotta, la rende estremamente vulnerabile ad ulteriori abbassamenti, anche minimi», avverte il ricercatore.
«Dfs ha acquisito un’area accoglienza dove arriveranno i bus dei turisti che poi saranno accompagnati anche allo store. Sarà interessate scoprire come i turisti del Fontego sbarcati al Tronchetto arriveranno via acqua nel grande magazzino, visto che il Canal Grande è vietato ai lancioni turistici». La Nuova Venezia, 1° giugno 2016 con postilla
I turisti-clienti del nuovo Fontego dei Tedeschi «targato» Dfs, in particolare orientali, sbarcheranno in bus al Tronchetto, smistati in un’area di accoglienza a loro riservata. Saranno poi “caricati” in barca e portati in tour per qualche ora a San Marco e naturalmente nel grande magazzino del lusso che aprirà dal 30 settembre di fronte a Rialto. Poi, riportati indietro al Tronchetto, riprenderanno il loro bus turistico per la prossima meta. Dovrebbe essere questo il core-business di «T (che sta non a caso per traveller, viaggiatore) Fondaco», il grande magazzino del gruppo francese per assicurare un congruo flusso di visitatori-clienti, in grado di giustificare i costi importanti dell’operazione.
Come aveva già anticipato il vicepresidente di Dfs Italia Roberto Meneghesso, infatti, la società si è dotata di una lounge - un’area di accoglienza – al Tronchetto, al momento ancora vuota ma che sarà allestita nei prossimi mesi. Come documentiamo con le foto pubblicate in questa pagina, l’area di accoglienza per i turisti del Fontego si trova alle spalle del garage del Tronchetto e vicino al parcheggio dei bus turistici, in uno stabile al piano terra che ospita ai piani superiori la sede di Alilaguna e in quello sottostante i magazzini delle Poste Italiane. Un’area di circa 350 metri quadrati perfettamente funzionale alla necessità di Dfs, perché i turisti-clienti potranno arrivare in bus proprio di fronte ad essa, entrare e sostare nell’area di accoglienza - dove saranno probabilmente proiettati anche video o filmati che riguardano Venezia per un’infarinatura di base sulla città - e poi uscire lunga la riva del Tronchetto per imbarcarsi per l’inizio del tour commercial-turistico. Al ritorno faranno il percorso inverso. Il grosso della clientela del nuovo grande magazzino del lusso sembra destinato dunque a fermarsi solo poche ore a Venezia, aumentando il flusso dei turisti “mordi-e-fuggi”.
La loro sosta naturale al Fontego - per la breve durata della visita veneziana - sarà probabilmente soprattutto il piano terra del grande magazzino, dove non a caso sono previste le boutique di souvenir, con la vendita di vetri, maschere, prodotti gastronomici e la caffetteria. La chiave di riuscita dell’operazione dal punto di vista di Dfs sono gli accordi con i grandi tour operators internazionali, puntando appunto a far inserire la «tappa» del Fontego nei giri turistici veneziani dei “giornalieri” organizzati. Dfs punta soprattutto sul rapporto con l’Oriente, perché su quella di Venezia sarà la prima “Galleria” europea del gruppo, in Asia i punti -vendita del gruppo sono numerosi, in collegamento con gli aeroporti e nelle grandi città come Hong Kong, Singapore, Okinawa tra le molte.
Sarà interessate scoprire come i turisti del Fontego sbarcati al Tronchetto arriveranno via acqua nel grande magazzino, visto che il Canal Grande è vietato ai lancioni turistici. Lo stesso vicepresidente di Dfs ha anticipato che una delle quattro entrate al grande magazzino sarà appunto quella d’acqua, usata come pontile per i lavori, per i clienti vip che vorranno arrivare in taxi sino allo store del lusso. Ma qui non stiamo parlando di qualche coppia di facoltosi turisti orientali, ma di gruppi che arriveranno in massa per visitare con l’area marciana, anche l’area commerciale. Non resta che aspettare per sapere.
postilla
In estrema sintesi: il furto continua. Prima hanno tolto alla collettività uno spazio pubblico, centrale quanto altri mai nella vita quotidiana della città, per dedicarlo alle attività commerciali al top della globalizzazione; hanno trasformato l'antico Fòntego dei Tedeschi, privandolo anche del suo plurisecolare nome, in un "non luogo" della "infrastruttura globale" descritta da Saskia Sassen. Poi lo estraggono dall'aera urbana e dai suo flussi pedonali e lo collegano direttamente con un hotpoint localizzato in connessione con la rete autostradale. Fra qualche mese proporranno al sindaco di costruire un poeple mover, o un pezzetto di tunnel sublagunare, per facilitare l'accesso, magari con un percorso che comprenda piazza San Marco.
«Costerà oltre mezzo miliardo di euro costruire una "bretella" di 15 chilometri tra l'A22, l'A1 e la città delle piastrelle». Altraeconomia, 1° giugno 2016 (p.d.)
Il progetto di un’autostrada tra Campogalliano e Sassuolo, nel modenese, è vecchio di almeno quindici anni: era il 2001, infatti, quando il collegamento tra l’A1, l’A22 e la “capitale delle piastrelle” venne inserito per la prima volta in una delibera governativa del CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con una costo stimato di 175,6 milioni di euro.
Nel 2016, il 1° maggio, il CIPE è tornato a parlare di Campogalliano-Sassuolo, e in particolare -riportiamo il comunicato diffuso dal governo- “sull’applicazione delle misure di defiscalizzazione, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 183/2011”.
Nel frattempo, l’autostrada è arrivata a costare oltre mezzo miliardo di euro.
Chi realizzerà l’opera, cioè la Società di progetto AutoCS, una associazione di imprese cui partecipanoAutostrada del Brennero S.p.A., Impresa Pizzarotti & C. S.p.A., Coopsette Soc. Coop e alcune aziende e consorzi del modenese, potrà quindi usufruire di uno sconto sull’IVA, sull’IRAP e sulle imposte sul reddito, secondo quanto disposto dalla Legge di Stabilità del 2012 (la l. 183/2011), quella varata dal governo Monti, quando Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex Intesa Sanpaolo, occupavano come ministro e viceministro il dicastero delle Infrastrutture.
Dall’ufficio stampa del ministero ci hanno spiegato -con una e-mail del 2 maggio scorso- che “il contributo della defiscalizzazione attualizzato ammonta a 38,98 milioni di euro”. Se abbiamo atteso quasi un mese prima di pubblicare questo articolo, è perché abbiamo atteso fino ad oggi (1° giugno) che il ministero delle Infrastrutture chiarisse quanto riportato nella risposta a una delle nostre domande. Questa: “Il comma 2 dell’articolo 18 della l. 183/2011 spiega come ‘l’importo del contributo pubblico a fondo perduto nonché le modalità e i termini delle misure previste al comma 1 (la defiscalizzazione), utilizzabili anche cumulativamente, sono posti a base di gara per l'individuazione del concessionario, e successivamente riportate nel contratto di concessione’. Questo significa che la decisione della defiscalizzazione debba essere precedente alla gara per l'individuazione del concessionario?”.
“La misura della defiscalizzazione è stata prevista nella procedura di gara” hanno replicato dal ministero. Ciò, però, non era possibile: il bando di gara, infatti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 3 dicembre 2010, quando la misura in questione non era nemmeno presente nell’ordinamento nazionale. “È stata introdotto in un secondo momento? Se sì, quando?”, abbiamo chiesto. E, finalmente, dopo quasi un mese d’attesa, dal ministero delle Infrastrutture hanno risposto che “essa è stata prevista nella lettera di invito trasmessa a tutti i partecipanti alla procedura di gara”.
Alla mail non era però allegata la relativa documentazione, da noi richiesta.
A livello locale, la realizzazione dell’opera (che gode di un ulteriore contributo pubblico a fondo perduto, di oltre 200 milioni di euro) è osteggiata, in particolare da associazioni ambientaliste come Legambiente: “L’autostrada correrà per circa 16 chilometri sopra la conoide del Secchia, a una distanza media di 200 metri dal fiume, in un contesto che, nonostante sia stato provato da anni di attività estrattive, mantiene comunque un importantissimo valore paesaggistico ed ambientale. La bretella infatti andrà ad intercettare i corsi d’acqua del reticolo idrografico secondario e vanificherà diversi interventi di riqualificazione ambientale (Oasi del Colombarone, percorso Natura, reti Ecologiche, il potenziale Parco Regionale del Secchia, percorsi ciclabili e pedonali) -spiega Alessandra Filippi, presidente di Legambiente Modena-. Il Secchia, come tutti i fiumi, è un patrimonio ambientale delicatissimo e di primaria importanza, da tutelare, da valorizzare e da riqualificare. Sarebbe un grave errore alterarlo irreversibilmente con una inutile autostrada”. Aggiunge Filippi che “l’infrastruttura attraverserà le zone di rispetto dei campi pozzi di Marzaglia, di Magreta, del campo Tomaselli e Campo San Gaetano interessando circa una ventina di pozzi a servizio di 420mila abitanti”.
Vale la pena leggere la risposta alle critiche di Emilio Sabattini (PD), per dieci anni presidente della Provincia di Modena (dal 2004 al 2014), e oggi membro del Cda di Autostrada del Brennero Spa: “Giro sempre in mountain bikee il territorio dove andrà la nuova Campogalliano-Sassuolo è già rovinato dalle escavazioni”.
C’è un altro elemento che vale la pena sottolineare: la progettazione è stata eseguita all'esterno e ceduta ad ANAS dall'Associazione industriali del comparto modenese. In circa quindici chilometri di tracciato trovano posto 2 gallerie artificiali, 8 viadotti e 5 svincoli. Prima dell’avvio dei cantieri, manca solo il visto buono della Corte dei Conti in merito alla “defiscalizzazione”: una delibera che dovrà chiarire, insomma, se il ministero delle Infrastrutture ha agito in maniera legittima applicando a una gara bandita nel dicembre 2010 (e chiusa, per quanto riguarda la possibilità di partecipare, a gennaio 2011) una misura introdotta nell’ordinamento solo dodici mesi più tardi.