La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016
Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».
Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.
Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.
L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).
Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.
«Nel 2015, secondo il rapporto di Global Witness dedicato a Berta Cacéres, morta in Honduras nel marzo del 2016, il numero delle vittime tra gli attivisti è cresciuto del 59% rispetto all'anno precedente». Altraeconomia, 22 giugno 2016 (p.d.)
“I ‘difensori’ sono assassinati a un ritmo di più di tre ogni settimana” scrive la ong. Le pagine di “On dangerous ground” si aprono con un elenco - nome per nome - di tutti coloro che hanno perso la vita nel corso del 2015, e con una foto di Berta Cacéres: Goldman Prize (nobel alternativo per l’ambiente) 2015 per l’America Latina, la leader indigena hondureña è stata uccisa nella propria casa a marzo 2016. Il suo nome figurerà nella lista il prossimo anno, ma intanto Global Witness l’ha voluta ricordare - dedicandole il report - perché nel 2015 il 40% delle vittime erano indigeni, che soffrono una “immensa vulnerabilità”, a causa anche dell’isolamento geografico “che espone questi popoli in modo particolare all’accaparramento di terre per lo sfruttamento delle risorse naturali”.
Tra le risorse, senz’altro è l’opposizione ad iniziative del settore estrattivo e minerario ad aver causato il maggior numero di vittime nel 2015: sono 42 i casi, in 10 Paesi. In questo ambito, l’aumento rispetto al 2014 è del 70%. Gli altri ambiti indicati come cause di un numero rilevante di omicidi sono il comparto agro-industriale (con 20), le dighe e i diritti sull’utilizzo delle acque (15) e lo sfruttamento delle risorse forestali (15).
Global Witness evidenzia con alcuni esempi il profilo-tipo del “difensore della terra” vittima di omicidio nel 2015.Rigoberto Lima Choc, del Guatemala, aveva denunciato l’inquinamento dell’acqua causato da un’industria di produzione di olio di palma. Saw Johnny faceva campagna con l’accaparramento delle terre dell’etnia Karen, in Birmania. Alfredo Ernesto Vracko Neuenschwander, silvicoltore peruviano, difendeva la biodiversità dei boschi. Sandeep Kothari era un giornalista indiano: aveva scritto articoli contro lo sfruttamento illegale di alcune cave, nel Maharashtra. Infine, Maria das Dores dos Santos Salvador, leader di una comunità rurale dell’Amazzonica brasiliana, che aveva denunciato la vendita illegale di terre comunitarie.
Il Brasile è il Paese che ha registro nel 2015 il più alto numero di vittime, 50. Seguono, secondo i dati di Global Witness, che riguardano 16 Paesi, le Filippine (con 33), la Colombia (26), Perù (12) e Nicaragua (12). Complessivamente, sono 7 i Paesi dell’America Latina coinvolti (anche Guatemala, Honduras e Messico, oltre ai 4 già elencati). Sette i Paesi dell’Asia. Due quelli africani.
Tra le raccomandazioni, Global Witness avanza ai governi la richiesta di ratificare la Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni e tribali, e agli investitori di non realizzare alcuna attività senza aver ricevuto il consenso “veramente libero, previo e informato” dei popoli interessati.
Il rapporto può essere scaricato qui (in inglese) e qui (in spagnolo).
«La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa». La Nuova Venezia, 23 giugno 2016 (m.p.r.)
Le parolacce non si contano, come pure gli insulti diretti ai comandanti e talvolta il rischio di passare dalle parole alle mani: di perdere il battello una, due volte, per far salire a bordo prima i “veneziani” non ne vogliono sapere quanti - tra turisti e visitatori occasionali - restano in attesa a bordo dei pontili dove si sta sperimentando l’accesso prioritario per i titolari di tessera unica. A calmare gli animi sopperisce Actv con un’iniezione di corse bis, ma se ne salta una, gli animi si accendono. A suonare la sveglia sono i piloti del Comitato lavoratori Actv, pronti a saltare la fermata di Rialto se seguiranno le intemperanze. «Accade spesso a Rialto nella seconda metà del pomeriggio, a piazzale Roma la mattina, al Lido la sera», racconta Nevio Oselladore, comandante Actv e presidente del Comitato.
I recenti incendi che dal 16 giugno hanno devastato vaste aree delle province di Messina e Palermo suggeriscono alcune riflessioni. Certamente l’impegno dei vigili del fuoco ha meritato il giusto riconoscimento da parte di tutti. Grazie all’encomiabile lavoro svolto non si sono verificati danni irreparabili alle persone.
Sarà comunque notevole il danno al patrimonio ambientale e saranno ingenti le risorse economiche impiegate per spegnere gli incendi e quelle che privati e collettività dovranno sostenere per riparare i guasti.
Sulle possibili cause si accerterà nel tempo se si sia trattato di episodi di autocombustione, ipotesi definita come suggestiva, o di episodi provocati da condotte dolose, ipotesi questa per la quale sono state prospettate reazioni durissime sia da parte del Presidente della Regione sia da parte del Ministro dell’Interno.
Le stesse autorità e più fonti giornalistiche hanno parlato di numerosi focolai indipendenti.
La sezione meteo di Tempostretto, giornale on line di Messina, lunedì 13 giugno segnalava ondate di calore e venti sciroccali previsti in una determinata zona della Sicilia ed ancora più esplicitamente il 15 giugno segnalava temperature oltre i 40 gradi, forti venti e il rischio di incendi nel versante tirrenico dell’area nebroidea-peloritana della costa tirrenica. Possiamo immaginare che non si sia trattato di segnalazioni isolate e possiamo immaginare che ci siano state anche informazioni non solamente giornalistiche per i circuiti istituzionali.
Legittimamente possiamo chiederci: si sarebbe potuto fare di più in via preventiva? Non sappiamo se la protezione civile abbia predisposto sistemi di prevenzione e se alla luce delle previsioni fosse utile o inutile disporli. Non sappiamo se le forze dell’ordine siano state allertate o meno per prevenire possibili attentati incendiari con servizi di vigilanza ed eventualmente arrestare i piromani colti in flagranza.
La risposta a queste domande potrebbe essere importante tanto quanto l’accertamento di possibili cause dolose degli incendi, soprattutto per costituire un bagaglio di esperienze che contribuiscano ad evitare il ripetersi dei fatti.
Ancora una volta siamo costretti a plaudire agli interventi della protezione civile a danni verificatisi e ad ascoltare rappresentanti delle istituzioni promettere reazioni durissime. Gli annunci delle reazioni non costano e di fatto le reazioni ci potranno essere se ed in quanto potranno essere identificati e processati in tempi utili eventuali responsabili, cosa tutt’altro che facile.
E comunque condanne dei colpevoli alla pena di dieci anni (la più grave edittale prevista) potranno forse consentire la punizione di responsabilità individuali, ma non potranno mai riparare i guasti ambientali.
Non possiamo escludere neppure coinvolgimenti di mafie, essendo stati colpiti territori oggetto di attenzioni mafiose.
Se su territori sui quali la mafia storicamente opera si verificano fatti dolosi dagli effetti devastanti, o si può immaginare la regia della mafia o si può configurare un consenso della mafia a fenomeni criminali che non sono considerati un ostacolo ai propri interessi. Ed è ormai un fatto di comune esperienza che interventi di soccorso, ripristini, riqualificazioni e ricostruzioni dopo calamità movimentano grandi quantità di denaro e favoriscono pratiche corruttive. Con riferimento a quest’ultima considerazione, è indubbio che le mafie possano trarre vantaggi anche da incendi riconducibili a singoli individui più o meno interessati, o addirittura a fatti non dolosi.
Ancora una volta siamo costretti a ragionare in termini di reazione dello Stato quando forse, alla luce delle previsioni meteo, sarebbe stata più opportuna se non doverosa un’azione di controllo del territorio per prevenire gesti dolosi ed assicurare interventi il più possibile tempestivi nel caso di incendi per autocombustione.
Intervista di Giuliano Santoro ad Ascanio Celestini. «Difficile distinguere il Pd di governo dalla destra. Nelle periferie non esistono quasi più spazi di incontro e discussione. Nell’illegalità fioriscono spesso iniziative culturali straordinarie». Il manifesto, 23 giugno 2016 (m.p.r.)
Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali. Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola Viva la Sposa.
«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».
E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?
È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.
La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?
Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.
Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?
Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.
C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?
Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.
«“Serve un monitoraggio sugli effetti dei lavori alle bocche”. Un no deciso allo scavo di nuovi canali come il Tresse per le grandi navi». La Nuova Venezia, 21 giugno 2016 (m.p.r.)
I lavori del Mose hanno trasformato la laguna e cambiato le correnti. Aumentando la velocità dell’acqua e l’erosione, a volte modificando la direzione della marea. Uno stravolgimento che da tempo pescatori ed esperti segnalano inascoltati. Ora reso ufficiale da una delle maggiori autorità idrauliche del mondo scientifico. Luigi D’Alpaos, professore emerito di Idraulica dell’Università di Padova, ha illustrato ieri sera a San Leonardo il risultato dei suoi studi. Lanciando l’allarme alle autorità che i occupano di acque e laguna con una rivelazione clamorosa.
«Il Porto dà in concessione il Fabbricato 280, è arrivata l’offerta per un hotel per giovani e crocieristi». Si aspetta ora l'assenso del comune al cambio di destinazione d'uso e all'aumento volumetrico. L'utilità pubblica? un museo del mare al Tronchetto. La Nuova Venezia, 22 giugno 2016 (m.p.r)
Venezia. In arrivo un nuovo albergo da 200 stanze con due piscine - il secondo caso in un hotel del centro storico dopo quella all’ultimo piano dell’Hilton Stucky - riservato ai giovani e ai crocieristi che sbarcano o si imbarcano dalla Marittima. L’Autorità portuale di Venezia ha infatti offerto pubblicamente in concessione il Fabbricato demaniale 280, fra il Tronchetto e la Marittima, un tempo sede della Capitaneria di Porto ma da tempo vuoto e ora un po’ fatiscente.
Un edificio in cemento un po’ spoglio, nello stile dell’edilizia anni Cinquanta che però il Porto vuole recuperare. Ed è già arrivata un’offerta precisa da parte del gruppo fiorentino Élite Vacanze Gestioni srl, che prevede appunto di ristrutturare e ampliare l’edificio - con un cambio di destinazione d’uso da direzionale a ricettivo a commerciale - per realizzare appunto un albergo con piscina scoperta, sauna e spazio polifunzionale espositivo, aperto al Porto e anche alla città, che dovrebbe ospitare una sorta di “Museo del mare”.
Necessario il via libera del Comune che dovrà appunto concedere il cambio di destinazione d’uso. L’investimento previsto da parte del gruppo toscano per la ristrutturazione totale dell’edificio, il suo ampliamento e la modifica ai fini alberghieri è importante:15 milioni e 700 mila euro. C’è comunque tempo fino alla fine di agosto per presentare altre offerte eventualmente migliorative all’Autorità portuale.
Il nuovo hotel però non sarà un cinque stelle, pur senza rinunciare ai confort, ma guarderà oltre che ai crocieristi, a una clientela soprattutto giovanile di turisti che arrivano a Venezia. EC Vacanze Group è infatti oggi il più grande gruppo in Italia per campeggi, villaggi e ostelli, con otto campeggi e tre Ostelli di alta categoria, più altre strutture. Nell’area veneziana il gruppo possiede già ad esempio il Campeggio Jolly, a Mestre, da 450 posti letto. Il progetto prevede al piano terra la realizzazione della hall di accesso all’albergo e di una piscina coperta di 85 metri quadrati con sauna e spogliatoi e 51 camere con bagno. Sempre al piano terra è prevista, in un’area di 300 metri quadrati, la realizzazione dello spazio polifunzionale espositivo dedicato al mare, con annessa sale conferenze, che sarà a disposizione dell’Autorità portuale, oltre che della città.
Al primo, secondo e terzo piano dell’edificio saranno distribuite altre 130 camere, con uffici di accoglienza e una hall di ingresso di 200 metri quadrati. Il quarto piano prevede la realizzazione di un bar-ristorante di 350 metri quadri, con verde attrezzato e un’altra piscina, questa volta scoperta, oltre ad altre 14 camere con bagno. Bisognerà attendere la fine di agosto, per vedere se non arriveranno altre offerte, prima del via libera del Porto al nuovo hotel in Marittima, in attesa poi del placet urbanistico del Comune.
«Dal cardinale de Merode a oggi Roma ha dovuto fare i conti con il potere immobiliare. Neanche l’amministrazione M5S farà eccezione». La Repubblica, 22 giugno 2016 (m.p.r.)
Bufalotta, Tor Pagnotta, Malafede, Casal Boccone, Castellaccio, Murate, un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’impero palazzinaro della capitale, che dalle rare e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può avere riscatto. L’impero ormai è lì nella ripugnanza di favelas postmoderniste, nell’incolpevole degrado sottoproletario. «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo», diceva Francesco Saverio Nitti già ai primi del Novecento. E adesso? E gli imperatori del cemento (absit iniuria verbis) che si sono perpetrati per più di mezzo secolo di generazione in generazione? Chissà se davvero basterà una giovane signora di 37 anni, determinata ma alquanto innocente, a scalfire il fortilizio invitto della speculazione, che è la cifra quasi bicentenaria della capitale fin dai tempi del cardinal Francesco Saverio De Merode, il quale lanciò negli affari immobiliari i gesuiti, poi gli agostiniani, i certosini e via via gli altri ordini proprietari terrieri, fino a gettare le basi di una città undici volte più estesa di Parigi.
«Questi tre aspetti rappresenteranno la “cifra” dell’azione di Raggi al Campidoglio». Articolo di Ernesto Menicucci e intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini, Corriere della Sera e il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)
Corriere della Sera
LA «SIGNORA NO» APRE AL DIALOGO: OLIMPIADIE METRO VANNO RIPENSATE
di Ernesto Menicucci
Roma. Le Olimpiadi, lo stadio della Roma, la Metro C. In campagna elettorale, Virginia Raggi è stata accusata dal «rivale» Roberto Giachetti, dal Pd e da certi ambienti imprenditoriali della Capitale di essere una «signora no». No ai Giochi, no al progetto di Tor di Valle della società giallorossa, no al prolungamento della terza linea della metropolitana.
E lei, su questi tre argomenti, è sempre stata vaga. Le Olimpiadi «non sono una priorità: i romani mi chiedono altro». Lo stadio «va fatto nel rispetto delle regole: vale per la Roma e varrebbe anche per un eventuale impianto della Lazio». Sulla Metro C «va fatta una riflessione». In realtà, di questi tre aspetti - che insieme alla gestione dell’ordinario (buche, trasporti, rifiuti) rappresenteranno la «cifra» dell’azione di Raggi al Campidoglio - la neosindaca ha parlato spesso, nelle riunioni col suo staff e in particolare con l’assessore «in pectore» all’Urbanistica, Paolo Berdini, docente a Tor Vergata, grande oppositore del Piano Regolatore firmato da Walter Veltroni («il peggior sindaco dal punto di vista urbanistico», lo bolla) nel 2008.
Cosa pensa, davvero, la Raggi sui tre progetti? Sulla Metro C va «aperta una discussione». Obiettivo numero uno, naturalmente, è arrivare a San Giovanni. E da lì? «È impensabile avere una linea che attraversa il centro storico, passa al Colosseo, e per due chilometri non fa uno stop». L’idea, allora, visti i recenti ritrovamenti archeologici (una caserma romana a nove metri di profondità), potrebbe essere quello di cambiare percorso. Per andare dove? «Ci sono tanti quadranti...», dice Berdini. Verso ovest, ad esempio.
Sulle Olimpiadi, il nodo è il Villaggio per gli atleti a Tor Vergata. Berdini non è convinto: «E non per chi costruirebbe: i terreni sono del Demanio, il Comune non mette bocca». E perché, allora? Quell’area, secondo Raggi e il futuro assessore, serve allo sviluppo futuro dell’Università e del Policlinico, per dare a Roma una vocazione da «Città degli Studi», quella che sognava l’urbanista Italo Insolera, che a sua volta riprendeva un’idea di Quintino Sella. Eppure, spostare il villaggio olimpico (17 mila appartamenti, che poi dovrebbero diventare 6 mila alloggi per studenti e per i familiari dei pazienti dell’ospedale) non è così semplice. Ma il piano della Raggi è cercare una soluzione alternativa. Per cambiare il progetto olimpico, in effetti, c’è anche qualche margine: il secondo step del dossier sulla candidatura, va inviato al Cio ad ottobre. Per questo, finora, Raggi ha sempre detto che le Olimpiadi «non sono una priorità»: in questi mesi vuole prima dare risposte sulle emergenze cittadine.
Ultimo, ma non ultimo, lo stadio della Roma. Che vuol dire «farlo dentro le regole», se c’è la legge sugli stadi? Che, secondo la sindaca, il progetto (dei privati) deborda dai parametri. E approvarlo così com’è rappresenterebbe un precedente pericoloso. Anche per lo stadio (ipotetico) della Lazio.
La Repubblica
PAOLO BERDINI: "STOP AI PALAZZINAI E SU OLIMPIADI E STADIO È MEGLIO RIPENSARCI"
intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini
ROMA - Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all'Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi.
Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un "uomo contro", ha collaborato con Italo Insolera all'ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell'urbanistica.
Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un'urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
"Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all'insegnamento di studiosi come Insolera, che l'urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l'amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c'è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali".
Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato "no" in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?
"Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità".
Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l'inceneritore?
"Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un'alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell'edilizia".
Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?
"Ha visto la luce nel 2008, l'anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l'Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l'economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un'articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui".
Come lo cambierà?
"Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c'è più bisogno di costruire".
Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
"Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso".
Ancora metropolitane. C'è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c'è odore di carte bollate.
"Non conosco nel merito l'accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?".
Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.
"A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un'area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto".
Quale sarà la sua parola d'ordine per l'urbanistica romana?
"Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate".
Che farà nei primi cento giorni?
"Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ".
Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2016 (p.d.)
Il piccolo centro del Sulcis, costa sud ovest della Sardegna, è la culla di tutte le proteste operaie più clamorose: Portovesme Srl, Alcoa (ferma dal 2012), Eurallumina (ferma dal 2009). I caschi, scesi in piazza per cercare di scongiurare la chiusura degli impianti, hanno finora ottenuto solo promesse. Nel cuore della provincia più povera d’Italia, la speranza però si è riaccesa per le tute verdi dell’Eurallumina, da anni in cassa integrazione: i padroni russi della Rusal ora puntano su una nuova centrale a carbone per far ripartire l’impianto. Sulla struttura, che dovrebbe sorgere in zona industriale ma a due passi dalle case, ha chiesto di saperne di più la Asl di Carbonia, cittadina non lontana, dove è appena stata eletta a sindaco Paola Massidda del Movimento 5 Stelle, che spesso va forte dove è molto forte il malcontento.
L’azienda sanitaria, chiamata a esprimere un parere sulla centrale, ha scritto: quella è una “zona ad alto rischio ambientale, che presenta un aumento di patologie a carico del polmone come l’asma bronchiale nei bambini, bronco pneumopatie in genere e tumori polmonari negli adulti maschi”.
E nelle carte ufficiali, i tecnici dell’azienda sanitaria hanno chiesto quali sono le misure pensate per prevenire l’e missione in atmosfera di sostanze come “acido cloridrico e fluoridrico, diossine, composti organici volatili, mercurio, altri metalli pesanti e radioisotopi”. Dubbi sono stati sollevati anche sulla gestione delle polveri degli scarti di bauxite stoccati nei bacini dei fanghi rossi: gigantesche discariche a cielo aperto sequestrate dalla magistratura nel 2009 e ancora sotto sigilli.
Il processo per disastro ambientale e traffico di rifiuti speciali contro due dirigenti dell’azienda è stato aperto il mese scorso, mentre negli anni sono state rigettate le diverse richieste di dissequestro presentate dai rappresentanti della società. Considerati indispensabili per la ripresa, sui bacini tossici - che per un perito della Procura hanno creato un inquinamento di arsenico smaltibile in almeno 300 anni - si è espressa anche la Asl. “È auspicabile che venga approfondito il problema delle polveri di bauxite e di quelle provenienti dal bacino, con riferimento all’influenza che potrebbero avere non solo sulla salute umana, ma anche sulle attività agricole, alimentari e zootecniche”.
L’Asl così ha cristallizzato, in un documento ufficiale, una convinzione diffusa. Perché di inquinamento in questo angolo di Sardegna, si parla da sempre. Da molto prima che venissero emanate le prime ordinanze per vietare la vinificazione delle uve: niente vino a Portoscuso, c’è troppo piombo sugli acini. E nemmeno frutta e verdura ai bambini: quella coltivata in zona venne sconsigliata dalla Asl nel 2012.
Un quadro poco rassicurante, peggiorato dagli elementi depositati la scorsa settimana dall’Art Studio di Torino, incaricato dal Comune di partecipare all’adeguamento del Piano urbanistico comunale al Piano paesistico regionale. Che nella Vas snocciola dati pesanti: terra e aria sono avvelenati. E anche se sotto la soglia di legge, i contaminanti pericolosi che si respirano in paese fanno registrare un “trend crescente”, e “per quanto concerne arsenico, cadmio, e piombo, i valori riscontrati raggiungono soglie nettamente superiori a tutte le altre località monitorate sul territorio regionale”. Con l’arsenico che supera di volte i valori massimi registrati sull’isola, il cadmio è stato trovato 30 volte superiore alla media così come il piombo. Nelle 280 pagine di relazione, i tecnici hanno analizzato dati, esposto tabelle e riepilogato studi precedenti per poi sostenere che all’ombra delle ciminiere non sarebbe possibile stabilire dove e se costruire.
Perché ci sono porzioni così contaminate sulle quali non si dovrebbero realizzare neppure industrie. Esplicite le conclusioni: “Il quadro emerso evidenzia una situazione di criticità generalizzata, almeno per quanto attiene la contaminazione da cadmio, piombo e zinco”. Problemi così diffusi su tutto il territorio comunale che non consentono “una puntuale zonizzazione del territorio nell’ambito del processo di pianificazione (redazione del Puc), finalizzata a limitare gli usi in funzione delle criticità riscontrate”.
Intervista di Marco Vittone al sociologo Giovanni Semi. «Dalle periferie trascurate dal Pd fino ai no Tav, la giunta Appennino unica nel panorama del movimento grillino». Il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)
Il voto di domenica ha spaccato in due la città: il nucleo che si estende dal centro alla collina solidale con il sindaco uscente Piero Fassino, abbracciato da un mantello di diverso colore, in questo caso a Cinque Stelle. Giovanni Semi insegna Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale all’Università di Torino, tra i suoi testi più noti Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino, 2015) su come riqualificazioni artificiose di quartieri, attraverso il risanamento di aree popolari, il più delle volte con interventi di speculazione immobiliare, provochino l’espulsione degli abitanti originari, a favore di classi più agiate.
Professor Semi, si aspettava questo ribaltone clamoroso?
Di questa entità in realtà no, avevo scommesso con un amico che avrebbe vinto di poco il Pd. La cartina geografica del voto è chiara, segnala due parti di città che, da tempo, non si parlano. E tutto ciò non può essere semplicisticamente letto come un voto di destra o “contro”, ma con una parte maggioritaria della città che non si rispecchia più nelle cene in bianco e nelle feste del jazz ma chiede discontinuità. E lo fa in modo anche consapevole, non si possono ridurre decine di migliaia di preferenze a voto di protesta contro il governo in carica. È come se si dicesse che non abbiano legittimità politica: emerge una richiesta di rappresentanza e di un modello di sviluppo locale diverso.
È un passaggio storico, Torino è stata governata per 23 anni dal centrosinistra.
E lo ha fatto con successo, se nelle ultime settimane quel consenso è crollato è un fatto inedito. Il centrosinistra torinese ha preso dagli anni Novanta in poi una direzione chiara e netta. Il potere, però, logora; il mandato di Fassino è stato stanco e i suoi assessori non hanno brillato per capacità creativa. Il deficit di bilancio ha determinato un impoverimento nella gestione delle risorse, una situazione che ha fatto implodere dall’interno la coalizione. Al contempo, la città veniva da otto anni di crisi, con tassi di disoccupazione elevati.
Torino era la città fabbrica, da vent’anni si discute la sua riconversione, sembrava che la nuova via fossero la cultura e i servizi. L’amministrazione di sinistra hanno provato a pensarla come una Disneyland?
Sì, la via intrapresa è stata quella. Il governo ha scommesso su cultura ed eventi, in parte a effetti “Disneyland”: le piazze del centro destinate a manifestazioni di esclusivo consumo. L’opera di cambiamento ha allontanato le fasce più deboli. Il blocco sociale dei quartieri benestanti in queste elezioni ha fatto una scelta di “conservazione”. Il centro di Torino è, per gli affitti, più avvicinabile di quello di altre città italiane, ma per esempio nel caso del risanamento del Quadrilatero c’è stata una politica selettiva dei nuovi abitanti.
Qual è il grado di fattibilità del programma dei Cinque Stelle?
Al momento sono più orientati a mettere in discussione le linee guida dei governi precedenti, non è facile essendoci pratiche e relazioni consolidate da vent’anni. Non è chiaro se in questa fase la nuova giunta riuscirà a incidere su tematiche rilevanti come i posti di lavoro e il welfare. Prerogativa che non è solo dell’amministrazione comunale. Impostare nuovi rapporti industriali con questa Fiat sarà difficile. Anche la rinegoziazione del debito richiede una posizione di forza, che ora i 5s non hanno. Sono scettico sulla capacità nell’immediato di cambiare la rotta. Dipenderà dalla reazione della città, in particolare rispetto alle sue associazioni di categoria o a chi ha quote di potere.
Il primo gesto è l’aut aut all’ex ministro Francesco Profumo dalla Compagnia SanPaolo.
Un gesto per rassicurare il proprio elettorato. Comunque coraggioso, denunciando il recente aumento di stipendio.
Una delle critiche al Movimento 5 Stelle è che raccoglierebbe il voto di destra e populista. Cosa pensa?
Ci sono due Cinque Stelle, uno a livello nazionale molto opaco nelle dinamiche interne e problematico rispetto alle categorie classiche destra-sinistra, e c’è un livello locale più autonomo, a Torino hanno un registro più di sinistra che non hanno altrove, probabilmente per la saldatura con il movimento No Tav.
«Il futuro assessore all’urbanistica "Sono convinto che una amministrazione debba delineare il futuro: questa convinzione nel programma della Raggi, c’è la convergenza è nei fatti. Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro”». La Repubblica, 21 giugno 2016 (c.m.c.)
Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all’Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi. Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un “uomo contro”, ha collaborato con Italo Insolera all’ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell’urbanistica.
Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un’urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
«Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all’insegnamento di studiosi come Insolera, che l’urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l’amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c’è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali».
Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato “no” in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?
«Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità».
Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l’inceneritore?
«Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un’alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell’edilizia».
Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?
«Ha visto la luce nel 2008, l’anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l’Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l’economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un’articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui».
Come lo cambierà?
«Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c’è più bisogno di costruire».
Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
«Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso».
Ancora metropolitane. C’è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c’è odore di carte bollate.
«Non conosco nel merito l’accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?».
Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.
«A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un’area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto».
Quale sarà la sua parola d’ordine per l’urbanistica romana?
«Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate».
Che farà nei primi cento giorni?
«Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ».
Uno sfogo, un'invettiva e una speranza da un'attivista per un'altra Roma e portavoce di "carteinregola". Rivolta al PD, (#fateveneunaragione) ma non solo. massimocomunemultiplo blog online, 20 giugno 2016
Elezioni Roma
#fateveneunaragione
Come la fiaba di quel tale che parte per vendere la mucca al mercato e a forza di scambi al ribasso si ritrova con un uovo, il Partito Democratico a Roma ha dissipato in poco tempo il suo consenso, passando dai 664.490 voti raccolti dal suo candidato Ignazio Marino al ballottaggio del 2013, ai 376.935 del suo successore Roberto Giachetti del 2016*. Tra le due date è successo di tutto, ma il Partito Democratico deve finalmente guardare in faccia la realtà.
Basterebbe guardare alcune immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale per capire la profonda frattura tra il Partito Democratico e la città. Una piazza strapiena a Ostia ad acclamare la candidata M5S Virginia Raggi, un gruppo di sostenitori di Roberto Giachetti che non riempiva neanche metà dello stretto Ponte della Musica. [vedi icona in alto]
Adesso nel Partito cominceranno le rese dei conti, si spargeranno veleni, voleranno stracci e coltelli, mentre si moltiplicano le versioni consolatorie sui social: un voto contro Renzi, contro il PD, la gente si è fatta abbindolare dal populismo etc etc etc. Ma è un esercizio inutile cercare colpevoli, o ventilare complotti e ripicche. Forse qualcuno effettivamente avrà votato Raggi per farla pagare a Renzi, o per punire il PD, ma la stragrande maggioranza ha scelto il Movimento 5 Stelle perché è stato l’unico a presentarsi come partito del cambiamento, perché da sempre promette onestà e legalità, e perché lavora da tempo su quei territori di cui il Partito Democratico si ricorda solo all’avvicinarsi delle elezioni. Già nel 2008, la vittoria di Alemanno aveva dimostrato il fallimento del Modello Roma del quindicennio Rutelli/Veltroni e il grave malessere delle periferie. Anziché fermarsi allora a fare autocritica, si è sprofondati in uno dei periodi più oscuri della città, non solo per l’amministrazione di uno dei peggiori centrodestra, ma per il consociativismo di un’opposizione che si opponeva ben poco, a quel centrodestra. Mafia capitale ha poi svelato un po’ di fuoriscena, nelle risultanze giudiziarie, ma soprattutto in quelle migliaia di pagine di intercettazioni, da cui emerge l’immagine di un Partito Democratico deteriorato, preoccupato di voti, correnti e consensi, e ben poco del bene della città e delle persone.
Fatevene una ragione, non sono i radical chic con la puzza sotto il naso che hanno girato le spalle al vostro partito, ma la gente normale, che si è sentita sempre più povera, senza dignità e senza speranza. Abbandonata da una classe politica che anche a sinistra non difendeva più diritti per elargire favori, ben più remunerativi. Classe politica rimasta la stessa anche durante il breve mandato di Ignazio Marino, e che a Marino ha fatto la guerra fin dall’inizio, soprattutto a quelli della sua squadra che non volevano continuare il tran tran precedente. Con una conclusione cruenta - quelle firme dal notaio dei consiglieri PD - che forse ha segnato anche la vera fine del Partito. Ma il suicidio collettivo del PD romano va avanti da tanto, anche se “al ralenti”, con una inesorabile selezione alla rovescia che ha allontanato i militanti più volenterosi e intraprendenti, lasciando il campo ai comitati elettorali.
Quante tessere - vere - sono state perse in questi anni? L’indagine di Barca è stata acqua fresca. Che ha indicato il partito cattivo dei valvassini dei circoli e non quello dei vassalli e dei principi e delle relative correnti - tutte ben vive e vegete - in Campidoglio, in Regione, in Parlamento. E se non sappiamo quale dibattito si sia svolto nel partito dopo Mafia Capitale, di certo i candidati del PD hanno parlato ben poco, in campagna elettorale, di mafia e corruzione. Sembrava che le elezioni si tenessero a Oslo, non nella Roma dei “mondi di mezzo”. Mobilità sostenibile. Piste ciclabili. Programmi fotocopiati dal passato, candidati anche. Invito quelli che pontificano sulle presunte incompetenze dei futuri consiglieri Cinque Stelle, a scorrere i curricula dei candidati PD, e approfondire meriti e competenze di quelli in cima alla graduatoria delle preferenze che finiranno in Assemblea o in lista di attesa (naturalmente quelli prestigiosi delle liste civiche hanno preso un pugno di voti perché non sorretti dall’organizzazione del partito, che in questo è ancora efficiente).
Fatevene una ragione, non bastano più i richiami alla grandeur di RomatornaRoma, gli echi di Festival del Cinema e Notti bianche, per far credere che Roma sia una capitale europea. La gente vive nel terzo mondo ogni giorno, il centrosinistra raccoglie ancora il voto delle enclave dei municipi dove vivono i privilegiati, ma sempre meno, perché anche lì l’abbandono e il degrado proliferano come una malattia contagiosa.
Fa impressione che un partito che per tanto tempo ha messo al centro del suo progetto per un mondo migliore le persone, e valori come l’uguaglianza, la solidarietà, la difesa del bene comune, si sia ridotto a usare come principale argomento elettorale l’ennesima candidatura Olimpica, in una città stremata dai grandi eventi precedenti, giocando sulla retorica sportiva e su quella degli eventi-che-creano-posti-di-lavoro. Oltretutto con un paradossale scambio di ruoli che vede il candidato PD Sindaco della Capitale dare per scontata la sua subalternità a un comitato sportivo, anche per quelle decisioni che riguardano i progetti urbanistici e l’eredità che dovrebbero lasciare le Olimpiadi alla città.
E altrettanto tristi sono i messaggi scelti dalla campagna elettorale del PD e del suo candidato per parlare alla città, evidentemente frutto di una comunicazione maldestra e povera di idee - anche perché costretta ad attingere a un repertorio povero di contenuti orignali e convincenti - che ha ripiegato su temi segnalati dai sondaggi come le buche - non per niente in comune con gli altri contendenti - messe in pole position insieme alla riduzione delle tasse, o su formule stantie come il tormentone romanesco (con tanto di “Società dei magnaccioni”), come se la strizzata d’occhio pseudo popolaresca potesse cancellare il profondo fossato che divide da tempo la politica dai cittadini.
E soprattutto nel Partito Democratico, nato dalle ceneri del Partito Democratico della Sinistra, manca appunto la sinistra. Mancano i valori di sinistra. Molti sostenitori del Partito Democratico rinfacciano ai Cinque Stelle di non avere un sistema di valori condivisi, cioè quei fondamenti indiscutibili, come la tutela dei deboli e la giustizia sociale. E agitano il rischio - reale - di derive demagogiche che oscillano tra mondi di destra e di sinistra in base alla pancia e agli umori dei sostenitori o degli attivisti in rete. Però dovrebbero a questo punto interrogarsi su cosa è rimasto oggi dei valori che hanno condiviso e difeso quando il PD si chiamava PCI, poi PDS, poi DS. Valori che non basta scrivere nei codici etici, nella carta dei valori o nei programmi elettorali, devono essere messi in pratica ogni giorno, da tutti.
Ed è devastante sapere che quei valori per cui si sono battuti e sacrificati i nostri padri e nonni oggi non hanno più significato per la maggior parte della gente, che sostiene”che destra e sinistra sono uguali”. Se sono tanti a pensarla così, è perchè molto spesso sono uguali i partiti, i comportamenti, gli interessi. I valori sono ancora diversi, anche se bisogna trovare nuove forme, linguaggi e canali per farli vivere di nuovo.
Mafia Capitale ha segnato una ferita e un solco, tra chi continua a perseguire le vecchie logiche politiche spartitorie e chi invece si batte per l’interesse pubblico e la partecipazione dei cittadini. Il monocolore M5S non può funzionare da solo, ha bisogno di sostegno, competenze e anche confronti critici con le realtà più diverse, anche della politica. Penso che un percorso possibile sia quello che sta cercando di costruire il nostro Laboratorio per una Politica trasparente e democratica, che vuole tenere aperto uno spazio di confronto tra realtà della società civile e quei pezzi di partiti e movimenti – compresi i simpatizzanti di quei partiti che oggi sembrano antagonisti inconciliabili come PD e M5S – che vogliono davvero costruire il cambiamento. Questa campagna elettorale è stata devastante, ha portando il conflitto tra le due principali forze politiche fino a livelli inaccettabili**, spaccando la città e esasperando pregiudizi e sospetti anche tra persone che potrebbero avere molto in comune. Bisogna ricucire il dialogo e il confronto.
Coraggiosi, M5S e non, cercasi.
*al primo turno: Marino 512.720 voti, Giachetti 320.170 voti
** La campagna contro Virginia Raggi per i due incarichi alla ASL di Civitavecchia da 13000 euro segnalati tardivamente al Comune, al di là del giudizio sul fatto in sé, è stata davvero indegna. L’invio di SMS anonimi agli elettori che definivano la candidata Raggi una bugiarda è un episodio inaccettabile, su cui spero che il Partito Democratico vorrà fare chiarezza prendendo le distanze dai suoi autori. E voglio ricordare che una simile e virulenta campagna denigratoria - sostenuta sfacciatamente da testate giornalistiche un tempo autorevoli - non ricorda neanche lontanamente quella condotta verso avversari del centro destra come Alemanno. Questi sistemi non sono accettabili da nessun sincero democratico.
E invece, come sanno i lettori di eddyburg (in Città e territorio, sezione "Consumo di suolo"), il fenomeno del consumo di suolo in Italia ha ormai assunto un carattere di tale ampiezza e continuità (dall'inizio degli anni 80 abbiamo ricoperto di cemento e asfalto un quinto della superficie agricola) da essere ormai equiparabile, per pericolosità, al rischio sismico e idrogeologico, a quest'ultimo in particolare, strettamente collegato. Proprio per questo necessita di una divulgazione articolata ed adeguata che superi, ad esempio, le ambiguità e i fraintendimenti presenti in una percentuale ancora troppo alta dei materiali attualmente in circolazione: si confonde ancora fra suolo agricolo e suolo non edificato e i vari monitoraggi sul consumo di suolo prodotti in questi anni sono caratterizzati da metodologie differenti che rendono acrobatici i confronti e difficilissime le sintesi.
Fra i tanti meriti del volume di Paola Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, vi è quello di definire con chiarezza i termini della questione e le aporie che lo caratterizzano in ambito italiano (compresa l'ambiguità, non solo lessicale, che sovrappone e confonde paesaggio - ambiente - natura).
Ma l'analisi dell'autrice si spinge ben oltre l'illustrazione del fenomeno e della sua gravità, peraltro inserita in un ampio quadro storico (dal secondo dopoguerra, e soprattutto dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi) e geografico (non solo l'Italia, ma l'Europa, contesto imprescindibile e quasi sempre impietoso rispetto al Bel Paese e l'intero globo, in quanto globalizzate sono le caratteristiche dell'urbanizzazione odierna). Le cause del consumo di suolo sono identificate - in estrema sintesi - fin dal sottotitolo: speculazione, incuria e degrado.
Ma è soprattutto nei capitoli I e VII che l'autrice affonda il bisturi al cuore del problema: sprawl e sperpero di suolo sono conseguenza diretta del neoliberismo immobiliare che ha caratterizzato l'ultimo trentennio di vita delle nostre città, non solo in Italia, ma nel nostro paese favorito dalla storica agevolazione della politica nei confronti della rendita fondiaria. La delegittimazione progressiva della pianificazione pubblica con l'avvento dell' "urbanistica contrattata" prima e la "finanziarizzazione" della città, poi, hanno provocato una deregolazione progressiva dell'uso del territorio: degrado del paesaggio e perdita degli spazi pubblici sono fra le conseguenze più evidenti. Come, ovviamente, il sempre più incontrollabile aumento del consumo di suolo.
Chiarissima, nell'analisi di Paola Bonora, la connessione fra l'evoluzione delle politiche economico -sociali - dal welfare state al neoliberismo - e quella del governo del territorio, ma anche fra queste e la mutazione, che verrebbe la tentazione di definire antropologica, che caratterizza in questi ultimi decenni le pratiche di vita collettiva e di uso degli spazi urbani. L'atomizzazione sociale si riverbera sul territorio e la città, dove è rappresentata dai fenomeni dello sprawl e della perdita degli spazi pubblici. La crisi economica, infine, ha intaccato in fasce sempre più ampie di popolazione, il diritto all'abitare.
L'autrice denuncia amaramente da un lato, il paradosso della compresenza di un'emergenza abitativa, sempre più drammatica in questi ultimi anni, e di una sovrapproduzione immobiliare (11 milioni di abitazioni vuote in Europa secondo il Guardian, p. 102) e dall'altro la mancanza di una coerente proposta politica a livello di governo del territorio. In questa latitanza non solo politica, ma anche culturale, appare ormai inattingibile l’obiettivo del consumo di suolo zero nell’anno 2050, fissato a livello europeo nella Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse (COM (2011) 571).
Pubblicato nel 2015, il volume di Paola Bonora rappresenta uno strumento di conoscenza ancor più importante e attuale oggi. Da circa un mese la Camera ha approvato in prima lettura il ddl sul consumo di suolo: si tratta del l'esito a dir poco deludente del testo di legge presentato dal ministro Catania dell'allora governo Monti, salutato all'epoca, con molte aspettative, come il tentativo di riallineare il nostro paese alle più aggiornate legislazioni europee in tema di controllo del consumo di suolo. Dopo alcuni anni e molte modifiche, il testo evaso dalla Camera appare del tutto insufficiente per tale obiettivo: privo di chiari meccanismi regalatorî, quasi mai prescrittivi, contorto nella suddivisione dei compiti istituzionali, improntato ad una logica derogatoria e addirittura pericoloso in taluni articoli, che potrebbero addirittura favorire il consumo di suolo agricolo e la costruzione di nuove infrastrutturazioni.
In buona sostanza, un esempio clamoroso di quella "discrasia fra il dire e il fare" di cui si parla nel nostro testo (p. 105).
Insomma, il cammino verso un'efficace regolamentazione del consumo di suolo nel nostro paese appare ancora accidentato e addirittura contraddetto, negli obiettivi, da provvedimenti invece già operativi quali lo "sbloccaItalia" o le semplificazioni delle autorizzazioni paesaggistiche (decreto del presidente della Repubblica del 25/05/2016 o la radicale riforma della conferenza dei servizi (decreto attuativo della così detta "legge Madia"). Strumenti come Fermiamo il consumo di suolo diventano pertanto preziosi per illustrare, con chiarezza e finezza di analisi, ad una platea ancora troppo poco consapevole dell'importanza della posta in gioco, temi cruciali: come ci ricordava Lucio Gambi, occorre "conoscere per agire politicamente".
La proposta: «la candidatura deve prevedere obbligatoriamente un equilibrio tra costi e ricavi (diretti e indiretti). Se alla fine le previsioni si riveleranno sbagliate, la differenza la metteranno coloro i quali saranno chiamati a votare». La Repubblica, 19 giugno 2016 (m.p.r.)
L’importante non è vincere, ma partecipare: chi non conosce il bellissimo motto reso noto (ma non coniato) dal barone De Coubertin che tutt’oggi ispira i Giochi olimpici? Meno nota è un’altra considerazione dello stesso barone che nel 1911 fece riferimento «ai costi spesso esagerati incorsi nelle più recenti Olimpiadi». Poiché il tema delle Olimpiadi a Roma sta tenendo banco e non solo per via della campagna elettorale, forse è bene capire cosa l’organizzazione di un evento di questo genere comporti. Chiarito subito che non è possibile, come auspicato dalla senatrice Taverna del M5S, «rimandarlo», sarebbe opportuno cercare di farsi un’idea dei pro e dei contro di un’eventuale aggiudicazione sulla base dell’esperienza passata e di chi coinvolgere nel processo decisionale. La letteratura relativa all’analisi economica dei Giochi olimpici è variegata: alcuni rapporti vengono considerati non attendibili perché effettuati “su commissione”; in altri casi si sono riscontrate difficoltà a reperire i dati necessari.
«D'Alema ha telefonato allo storico dell'arte per convincerlo ad accettare l'assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma: "Mi ha chiamato come hanno fatto in molti - conferma lui - mi ha detto che sarei stato un ottimo assessore"». Il Fatto quotidiano online, 16 giugno 2016 (c.m.c.)
«Forse ci sarebbero cose più serie di cui parlare. Lo dico da vicepresidente di Libertà e Giustizia: se si discutesse delle ragioni del ‘no’ al referendum un decimo di quanto si parla delle telefonate di Massimo D’Alema, sarebbe un Paese migliore».
Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna alla Federico II di Napoli, torna sulla querelle tra l’ex premier e La Repubblica, secondo cui in diverse occasioni pubbliche il “Lìder Maximo” si sarebbe detto pronto a votare Virginia Raggi “pur di mandare via Renzi”. Il quotidiano romano racconta anche che D’Alema ha telefonato allo storico dell’arte per convincerlo ad accettare l’assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma.
«Quando è uscita la notizia che Virginia Raggi mi aveva chiesto se fossi disponibile a diventare assessore alla cultura a Roma, ho ricevuto moltissime telefonate da amici, conoscenti, persone appassionate di politica, ho sentito Civati e Fassina, Salvatore Settis e Goffredo Fofi, Gian Antonio Stella e Massimo Bray… Tra costoro c’era anche D’Alema, e mi ha fatto piacere sentirlo. Non ci sentiamo spesso, ma abbiamo fatto entrambi la Scuola Normale di Pisa, tra noi ci sono argomenti e ragionamenti in comune. Voleva sapere se era vero e mi ha detto che secondo lui sarei stato un ottimo assessore alla cultura di Roma e che quindi avrei potuto pensare ad accettare. Ma non c’è stata alcuna pressione, non è che D’Alema stia facendo la giunta dei 5 stelle, queste sono sciocchezze. Anche perché non so in base a che cosa avrebbe potuto fare pressione su di me, io con il Pd non c’entro nulla».
D’Alema dice che lei gli ha chiesto un consiglio.
«L’ho chiesto a molte persone che mi hanno chiamato, gli ho domandato cosa avrebbe fatto lui al posto mio. Il fatto che il M5S stia per conquistare Roma e che in questo momento ragioni non come il Pd o come la destra con una logica di appartenenza, ma si apra a persone molto diverse dalla sua storia come me, e in particolare che si apra a persone e a idee della sinistra, ha incuriosito molti e ha creato un dibattito. Credo che ascoltare le opinioni delle persone sia importante: D’Alema è una persona a particolarmente intelligente e di esperienza. Ma non ho chiesto consiglio solo a lui. L’ho chiesta anche al mio ortolano, ai miei colleghi di università, per capire come reagisce il mondo della sinistra di fronte a queste aperture».
All’assessorato ci ha pensato davvero.
«Certo che ci ho pensato. Io studio storia dell’arte romana da una vita. E poi fermare il Pd a Roma e tentare un esperimento diverso sia una grande occasione. Da un punto di vista professionale e da un punto di vista politico ero molto tentato. Ma poi ho pensato che, specie nell’ambito della cultura, non si può governare una città in cui non si vive tutti i giorni, in cui non si ha una famiglia, della cui comunità non si fa parte. Quelli che fanno gli assessori o i superconsulenti esterni alla cultura e sono sempre in viaggio da un posto all’altro alla fine non fanno un gran lavoro. Una delle cose che mi è piaciuta dei discorsi della Raggi è che parla di comunità. Per governare una comunità bisogna esserne membri».
Che giudizio ha dei programmi di Giachetti e della Raggi?
«Il programma del Pd non riserva nessuna sorpresa: continuerà tutto come prima, spero non la corruzione. Giachetti mi sembra una persona pulita, quello che che c’è dietro di lui mi piace di meno e mi dà minori garanzie, è il motivo per cui voterei la Raggi se fossi residente a Roma. Su tanti punti condivido il suo programma. In generale mi pare che i 5 stelle abbiano un’idea della cultura molto simile alla mia: cultura non come mercato, che è l’idea di Renzi e del Pd, ma come strumento per ridare sovranità ai cittadini e renderli partecipi della vita politica».
Cosa pensa di questa storia? D’Alema sta veramente tramando contro Renzi?
«Renzi non c’entra nulla con la storia della sinistra. E’ un gigantesco equivoco che Renzi oggi, invece di guidare Forza Italia, sia il leader del Pd. Sarebbe il leader ideale di Forza Italia per le idee che ha e le leggi che sta facendo. Lo Sblocca Italia, la riforma della Costituzione, la riforma della scuola sono tutte cose che hanno un minimo comune denominatore: il primato assoluto del mercato. Nel momento in cui in un modo assurdo, con delle primarie aperte anche a chi non era iscritto al partito Renzi diventa segretario del Pd, chi è di sinistra in quel partito si pone il problema: o riuscire a recuperare il partito o uscirne. A un certo punto D’Alema e molti altri dovranno decidersi».
Come esce da questa storia il Pd?
«Il Pd è un partito che ha subito un’opa ostile da parte di uno che con la sua storia non c’entra nulla. D’altra parte però in questa vicenda vengono al pettine molti nodi. Io sono fiorentino, ero al liceo di Renzi che ai miei tempi era vicino a Comunione e Liberazione, poi è stato presidente della Provincia di Firenze da democristiano qual è. Poi solo la creazione a freddo del Pd ha permesso che queste due storie, quella di Renzi e quella della sinistra, si incontrassero. Ora un’anima ha prevalso sull’altra. Ma quando da sindaco di Firenze Renzi diceva che per lui le bandiere rosse erano quelle della Ferrari diceva la verità».
Un incontro tra due storie che è il prologo della mutazione genetica del Pd.
«Il problema è questo: esiste ancora la sinistra in questo Paese? Se esiste, che scelte fa? Cambiare il Pd? Non ce la fanno e allora creano Possibile e Sinistra Italiana. Io sono nel consiglio scientifico di Possibile, ho grande stima per Civati e Fassina, hanno creato un laboratorio di idee importantissimo, ma non riescono ad avere un consenso maggioritario. In questo quadro i 5 stelle sono una creatura molto strana in cui ci sono cose molto inquietanti – l’aspetto proprietario e privatistico dei Casaleggio lo trovo terribile, il ruolo di Beppe Grillo che va superato, tanti altri punti a partire dalla loro posizione sui migranti non mi convince affatto – però vedo che su molti altri temi c’è una convergenza con la sinistra come la intendo io».
Quali?
«Sul campo, io che mi occupo di ambiente, paesaggi e territorio mi trovo dall’altra parte il sindaco con la betoniera cementificatrice e non riesco a distinguere se è del Pd o di Forza Italia, mentre dalla mia parte ci sono i militanti 5 stelle. Allora mi domando se non esista la possibilità che i 5 stelle non assomiglino nel tempo a quello che è Podemos. Un dato di fatto: se al governo della città di Roma arriva l’urbanista più di sinistra che in questo momento è attivo in Italia, Paolo Berdini, non si deve a un partito di sinistra ma al M5S. Se la sinistra delle idee va al governo in alcune città grazie ai grillini è un dato di fatto su cui occorre ragionare».
«In attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio». Il manifesto, 16 giugno 2016 (m.p.r.)
Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato Signori della guerra, signori del petrolio, gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. E’ comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni ’70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un po’. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti.
«Studio Cnr: mezzo milione di tonnellate di cemento pesano sui fondali. «Nel resto della laguna trend in linea con gli ultimi decenni». Il progetto Mose prevedeva l’abbassamento di 8 centimetri in un secolo». La Nuova Venezia, 15 giugno 2016 (m.p.r.)
Corriere della Sera, 15 giugno 2016 (m.p.r.)
Ma davvero solo il turismo ricchissimo può salvare l’ambiente riservando le riserve naturali, scusate il pasticcio, a pochi privilegiati in grado di riservare una camera deluxe? La domanda, vecchia come il cucco, si ripresenta all’Asinara. Dove, tra le sollevazioni degli ambientalisti, si discute di un progetto del circolo Pd di Porto Torres per costruire un «albergo diffuso» con «286 camere, 709 posti letto, tre ristoranti, un centro benessere, un centro commerciale, due piscine, impianti sportivi, tre bar, impianti ludici, un porto turistico su 17 ettari» a Cala d’Oliva. «Se sotto il profilo ambientale si può decretare il successo del Parco a 18 anni dalla sua nascita», ha spiegato a La Nuova Sardegna il coordinatore del progetto, il geometra Giuseppe Marceddu, «non altrettanto si può dire che lo stesso sia avvenuto sotto il profilo economico». Insomma, rispetto al fascino del posto ci va ancora poca gente.
Non sarà perché gli investimenti per risistemare l’isola dopo un secolo di isolamento penitenziario e per farne un vero parco europeo sono stati scarsi? Forse. Ma la soluzione è un hotel a 5 stelle. Con un investimento «stimato in circa 56 milioni di euro», una «superficie coperta complessiva di circa 12 mila metri quadri», un «polo d’attrazione turistico» capace di dare lavoro, in modo diretto o indiretto, a «circa 560 unità». «Evviva!», esultano alcuni. «Ma quando mai!», contesta Stefano Deliperi che col Grig, il Gruppo di Intervento Giuridico, si è messo di traverso, «Sarebbe solo una folle privatizzazione speculativa di un gioiello naturalistico del Mediterraneo». E insieme con gli altri ambientalisti contesta tutto: 1) la stima dei posti di lavoro («Solo un miraggio»); 2) la scelta strategica di consegnare a un privato («che poi di questi tempi potrebbe essere solo uno sceicco arabo») un pezzo dell’isola solo da pochi anni restituita alla collettività dopo oltre un secolo centrato sul carcere di massima sicurezza; 3) la costruzione di un porto turistico là dove c’è la tutela integrale dell’area marina; 4) il rischio mortale che, persa la purezza originale, l’isola faccia poi gola ad altri. In fondo, perché non crearne due, di alberghi? O tre, quattro, cinque…
C’è un dettaglio che, dopo gli assalti sventati di chi voleva costruire una centrale eolica off-shore, fare ricerche petrolifere o riesumare il penitenziario, sfugge evidentemente a qualcuno: la legge parla, per l’Asinara, di tutela «integrale». E integrale vuol dire integrale.
La macchina del fango lavora sempre a pieno regime. Paolo Berdini risponde alle accuse mosse dal Messaggero nei suoi confronti. Il manifesto, 15 giugno 2016
Leggo infatti sul Messaggero di Roma che sarei stato denunciato per diffamazione da Francesco Gaetano Caltagirone per una intervista che riguardava il tema di Tor Vergata, luogo in cui si vorrebbe costruire il villaggio degli atleti.
Nella mia vita ho rilasciato decine di interviste sul comprensorio di Tor Vergata e ho scritto molti articoli e libri che la riguardano. Non mi era mai accaduto di essere denunciato perché ho sempre riportato l’esattezza della vicenda.
Il comprensorio è di proprietà dello Stato e non mi sogno di affermare – come sostiene il quotidiano – che sia di un consorzio guidato da un importante gruppo imprenditoriale. Affermo soltanto che quel gruppo, la Vianini, ha la regia delle realizzazioni all’interno del comprensorio. Dunque nel caso venissero costruite le abitazioni per gli atleti sarebbe quel consorzio a realizzarle. Una verità incontrovertibile.
Ma il Messaggero non si ferma e mi accusa di aver messo sul banco degli imputati le imprese ed aver taciuto sui veri responsabili dell’ennesima incompiuta.
Purtroppo per loro ho denunciato troppe volte la folle disinvoltura con cui la politica ha deciso di costruire opere senza avere le coperture economiche. Nei miei scritti ho anche denunciato con forza che questo irresponsabile modo di procedere è il male che sta divorando l’Italia e con essa le imprese che ancora svolgono la propria funzione con serietà e rigore. Le centinaia di opere non finite presenti in tutto il paese sono figlie del fallimento della programmazione sbagliata della mala politica e non dei soggetti economici.
Ripeto, il fatto che venga accusato dell’esatto contrario di quanto sostengo da troppi anni la dice lunga sul clima che si va preparando.
Ma, per concludere, vorrei cercare ancora di discutere sul futuro della capitale e spiegare i motivi della mia contrarietà al progetto di Tor Vergata come casa per gli atleti.
I seicento ettari di Tor Vergata furono espropriati dallo Stato negli anni ’70 per realizzare un’università, il luogo della formazione d’eccellenza dei nostri giovani. Consentiranno i redattori del Messaggero che costruirci case non è il massimo di quel futuro di eccellenza che tutti ci auguriamo per l’Italia.
Sarebbe allora meglio ad esempio che su quelle aree venissero costruite cliniche specializzate per la cura delle nuove malattie che colpiscono gli anziani o alcune fasce dell’infanzia.
Tor Vergata è la più grande carta che Roma ha per tentare di diventare una città in grado di attirare risorse e valorizzare i tanti giovani che studiano pensando di poter trovare un ruolo nel nostro paese.
Tutto qui, e in questo senso l’ennesimo villaggio olimpico non serve a nulla e, soprattutto, potrebbe essere comodamente costruito altrove senza sprecare una grande occasione.
Se il renzismo è il pericolo maggiore, se una sinistra che voglia colpire le radici del disastro non c'è, ben vengano i M5S come la candidata per Roma. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 15 giugno 2016
Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.
Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.
Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.
Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.
Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.
Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.
Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.
Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.
Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.
Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.
Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.
Se si vuole votare alle elezioni comunali nella capitale d'Italia senza turarsi il naso la scelta è chiara: M5S non è il demonio, e ha buone carte. Il manifesto, 14 giugno 2016
Sul voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma è bene raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario che appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.
Avendo votato per Stefano Fassina al primo turno, sapevo per certo che avrei dovuto affrontare al ballottaggio una scelta che lo escludeva. E confesso che, se mi fossi trovato di fronte a un alternativa tra Roberto Giachetti e un candidato del centro-destra, non avrei avuto dubbi: mi sarei “turato il naso”, per dirla alla Montanelli, e avrei scelto il candidato Pd. Lo avrei scelto per senso di responsabilità, pensando alle sorti della mia città, che non può tornare in mano al peggior centro destra d’Italia. Ma lo avrei fatto con disagio, prima di tutto per ragioni di politica nazionale.
Considero il Pd di Matteo Renzi un grave danno per la sinistra e per l’Italia. Per la sinistra, perché la sua politica di apertura alla destra berlusconiana – come alcuni di noi avevano previsto – non avrebbe allargato il consenso di quel partito , mentre avrebbe definitivamente spezzato i legami con il suo insediamento popolare, esponendolo alla sconfitta. I risultati elettorali recenti sono le prime prove della validità di tali previsioni. Ma il danno è anche per l’Italia.
Questa non è la sede per valutazioni generali, ma un aspetto che non bisogna dimenticare, nel dare un giudizio sull’operato di questo governo, è di considerare anche quel che non si è fatto e invece si poteva fare. Il tempo nel frattempo sprecato con i problemi che si aggravano.
Son passati due anni e mezzo e Renzi ha perduto l’occasione di impostare un sistema fiscale progressivo: vera chiave di volta per attenuare le diseguaglianze crescenti che lacerano tutte le società “neoliberiste”.
Ha premiato la rendita, abolendo la tassa sulla prima casa e non ha impostato una vera politica di investimento nella formazione e nella ricerca, per il rafforzamento strategico del sistema-paese: borse di studio per migliaia di giovani che non possono proseguire la carriera scolastica o iscriversi all ‘Università, fondi per la ricerca, ingresso di nuovi docenti nell’Università e soprattutto risorse per ridare slancio a un settore da cui dipende l’avvenire dell’Italia. Nulla di tutto questo, com’è noto.
Ma che c’entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del Pd, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso.
Considero simili scelte il distilllato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E’ il processo di disneyzzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d’insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.
Ispirato da tali scelte, – che lo portano anche a strumentalizzazioni pacchiane, come l’uso elettorale di Totti – Giachetti è dunque un perfetto avversario da sconfiggere. Tanto più che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, ha cominciato a fare scelte interessanti per la sua eventuale squadra di governo cittadino.
Ed è di dominio pubblico che ella ha chiesto, per l’assessorato all’urbanistica, la disponibilità di Paolo Berdini. Ebbene, considero questa una scelta di grande valore, una vera bandiera politica.
L’Assessorato all’ urbanistica (o comunque si chiamerà) è un posto di potere-chiave dei governi municipali. Da li si governa l’uso del territorio e la possibilità di cavare profitti dal suolo. E da li, nei decenni passati, sono passate le scelte che hanno devastato Roma, cementificando l’Agro romano, costruendo interi quartieri senza trasporto su ferro, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico da ogni dove.
Paolo Berdini è uno dei più competenti e intransigenti avversari di questa politica dissennata, che ha premiato la rendita dei grandi costruttori e creato danni all’universalità dei cittadini romani.
Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti.
Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma – una volta nell’agone elettorale – ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l’auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale.
C’era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d’origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie. Il lavoro quotidiano tra i cittadini non può dare frutti elettorali nel giro di pochi mesi.
Si tratta di un’opera di lunga lena, che sarebbe dovuta iniziare molto prima dell’apertura della campagna elettorale. Lo si voglia o no, la fiera elettorale copre di una patina di strumentalità qualunque impegno e dialogo “col popolo”.
E infine, di passata, ma è forse il problema fondamentale, tanto Airaudo che Fassina e altri candidati meno noti, sono apparsi troppo isolati: avanguardie solitarie di una sinistra che non c’è, per giunta esponenti dissenzienti di una tradizione che oggi si chiude nel fallimento.
L’idea di Sinistra Italiana di aspettare il congresso di dicembre per “partire” non ha certo aiutato questi candidati. Ma ha anche gettato un ombra pesante di fragilità su tutto il campo. Persino il mio «giovanile entusiasmo» (come benevolmente ironizza Asor Rosa) è stato messo a dura prova.