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La visione fallocratica della città, conveniente per gli affari, trova facili sponde nel governo della gronda lagunare di Venezia. La Nuova Venezia, 27 giugno 2016

Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione».

Riparte il dibattito. Un tema, quello della cittàche cresce in altezza, che affascina anche se non è nuovo: già nel 2008 con lademolizione dell’ex ospedale di Mestre l’aveva lanciato l’allora sindacoCacciari. In gioco è la città che vogliamo.

Le aree indicate. Brugnaro, laureato in architettura,nel suo piano indica un futuro di densificazione e incremento volumetrico peril centro di Mestre. Dove? Si fa generico riferimento al centro (piazzaFerretto verso via Piave, via Cappuccina e la stazione ferroviaria), poil’ambito di via Torino e via Ca’ Marcello e la prima zona industriale di PortoMarghera, quella più vicina a Mestre alla Città Giardino.

Il Quadrante cambia confini? Rientra nellosviluppo in altezza anche il Quadrante di Tessera, l’area per il divertimento ei nuovi impianti sportivi (leggi stadio). Pare di intuire che la giuntaBrugnaro andrà a modificarne confini e previsioni visto che nel piano si leggeche «le previsioni localizzate del precedente accordo di programma potrannoessere riviste, interessando anche le aree poste in adiacenza o alternative alperimetro iniziale». Vedremo se il piano si rivelerà decisivo per rilanciare lacittà o rimarrà un libro dei sogni: intanto in Consiglio comunale è scontropolitico sui "terreni d'oro".

Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione.

Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness.

L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco nonc ambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre quattro di Metroter (Aev Terraglio).

Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. La Confesercenti si è già pronunciata contro.

postilla
Chissà quando hanno smarrito la capacità di ragionare le persone che propongono, discutono e raccontano i demenziali progetti che questo articolo diligentemente allinea. Chissà come mai a tutti sfugge che, per ogni metro quadrato di superficie calpestabile che si aggiunge a quelli esistenti, bisognerebbe averne una quantità considerevole (almeno doppia) di spazi liberi a terra. Ma la vivibilità è qualcosa che serve solo alla retorica che si adopera per imbellettare gli affari immobiliati.
«Raggi spinge l’urbanista a precisare: “Nessun pregiudizio, valuteremo l'ipotesi di variante al Piano regolatore». Se le scelte urbanistiche diventano questue misurate col termometro dei tifosi stiamo proprio mal messi. Repubblica, ed. Roma, 26 giugno 2016

PIÙ che una retromarcia sembra una frenata tattica. Sul progetto del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle interviene nuovamente il futuro assessore all’Urbanistica Paolo Berdini. Per dire che le parole utilizzate l’altro ieri («Userò ogni mezzo consentito per impedire questo scempio e per tutelare gli interessi della città», aveva detto durante un intervento su Radio Radicale) sarebbero state «travisate». Lo fa dopo una sollecitazione da parte dell’entourage del sindaco Virginia Raggi che ha provato così a contenere quella che viene definita «una verve comunicativa troppo esplicita» del futuro assessore a 5 Stelle.
E così Berdini si è trovato costretto a rettificare: «Scempio è pensare di poter edificare su Roma senza alcuna logica urbanistica, dopo che la Capitale è stata martoriata dalla mala politica negli ultimi vent’anni. Non c’è nessun pregiudizio nei confronti dello stadio della Roma, ma sarà mio dovere, nel rispetto della città e dei romani, approfondire ogni singolo aspetto del progetto insieme al sindaco».
Prima, erano stati gli stessi 5 Stelle a far filtrare la linea: «Lo stadio della Roma può essere invece una grande opportunità di crescita per la città, a patto che rispetti i principi di legge di fronte ai quali il M5S non transige». Secondo l’entourage della Raggi, «il piano della progettistica va affiancato alla considerazione del prestigio europeo e internazionale che un impianto sportivo per la Roma, ma anche per la Lazio, può conferire alla città. In ogni caso è prematuro esprimere ora una valutazione, avremo tutto il tempo per studiare da vicino il progetto».

Lo Stadio di Tor di Valle, dunque, non rappresenta per il nuovo sindaco una priorità. La frenata sulle dichiarazioni di Berdini, insomma, appare più che altro tattica. Quello che emerge al momento è che, come già confermato una decina di giorni fa dall’assessore all’Urbanistica della Regione Lazio, Michele Civita, per realizzare il progetto disegnato da architetti del calibro di Daniel Libeskind, Dan Meis e Andreas Kipar sarà necessaria una variante al piano regolatore da approvare in Consiglio comunale.

Ma era stata proprio la Raggi, in campagna elettorale, a precisare che «lo stadio si può fare se rispetta la legge e il Piano regolatore ». Bisognerà aspettare ancora, dunque, per capire se e come il progetto farà passi in avanti. La Regione attende che dal Campidoglio l’atto formale attraverso il quale aprire la conferenza dei servizi e dare il via all’iter.

Su tutto pende l’avvertimento del dg della Roma Mauro Baldissoni di due settimane fa: «Se il futuro sindaco vorrà assumersi la responsabilità di opporsi al progetto dovrà assumersi anche i costi, visto che è stato autorizzato e molti investimenti sono stati già fatti».

«Nel 2015, secondo il rapporto di Global Witness dedicato a Berta Cacéres, morta in Honduras nel marzo del 2016, il numero delle vittime tra gli attivisti è cresciuto del 59% rispetto all'anno precedente». Altraeconomia, 22 giugno 2016 (p.d.)

Nel 2015 sono stati assassinati 185 difensori del territorio e dell’ambiente. Secondo Global Witness, che ha pubblicato il 20 giugno il proprio rapporto, si è trattato dell’anno “più mortifero della storia”. Il numero delle vittime rappresenta un aumento del 59% rispetto all’anno precedente.

“I ‘difensori’ sono assassinati a un ritmo di più di tre ogni settimana” scrive la ong. Le pagine di “On dangerous ground” si aprono con un elenco - nome per nome - di tutti coloro che hanno perso la vita nel corso del 2015, e con una foto di Berta Cacéres: Goldman Prize (nobel alternativo per l’ambiente) 2015 per l’America Latina, la leader indigena hondureña è stata uccisa nella propria casa a marzo 2016. Il suo nome figurerà nella lista il prossimo anno, ma intanto Global Witness l’ha voluta ricordare - dedicandole il report - perché nel 2015 il 40% delle vittime erano indigeni, che soffrono una “immensa vulnerabilità”, a causa anche dell’isolamento geografico “che espone questi popoli in modo particolare all’accaparramento di terre per lo sfruttamento delle risorse naturali”.

Tra le risorse, senz’altro è l’opposizione ad iniziative del settore estrattivo e minerario ad aver causato il maggior numero di vittime nel 2015: sono 42 i casi, in 10 Paesi. In questo ambito, l’aumento rispetto al 2014 è del 70%. Gli altri ambiti indicati come cause di un numero rilevante di omicidi sono il comparto agro-industriale (con 20), le dighe e i diritti sull’utilizzo delle acque (15) e lo sfruttamento delle risorse forestali (15).

Global Witness evidenzia con alcuni esempi il profilo-tipo del “difensore della terra” vittima di omicidio nel 2015.Rigoberto Lima Choc, del Guatemala, aveva denunciato l’inquinamento dell’acqua causato da un’industria di produzione di olio di palma. Saw Johnny faceva campagna con l’accaparramento delle terre dell’etnia Karen, in Birmania. Alfredo Ernesto Vracko Neuenschwander, silvicoltore peruviano, difendeva la biodiversità dei boschi. Sandeep Kothari era un giornalista indiano: aveva scritto articoli contro lo sfruttamento illegale di alcune cave, nel Maharashtra. Infine, Maria das Dores dos Santos Salvador, leader di una comunità rurale dell’Amazzonica brasiliana, che aveva denunciato la vendita illegale di terre comunitarie.

Il Brasile è il Paese che ha registro nel 2015 il più alto numero di vittime, 50. Seguono, secondo i dati di Global Witness, che riguardano 16 Paesi, le Filippine (con 33), la Colombia (26), Perù (12) e Nicaragua (12). Complessivamente, sono 7 i Paesi dell’America Latina coinvolti (anche Guatemala, Honduras e Messico, oltre ai 4 già elencati). Sette i Paesi dell’Asia. Due quelli africani.

Tra le raccomandazioni, Global Witness avanza ai governi la richiesta di ratificare la Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni e tribali, e agli investitori di non realizzare alcuna attività senza aver ricevuto il consenso “veramente libero, previo e informato” dei popoli interessati.

Il rapporto può essere scaricato qui (in inglese) e qui (in spagnolo).

«La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa». La Nuova Venezia, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Le parolacce non si contano, come pure gli insulti diretti ai comandanti e talvolta il rischio di passare dalle parole alle mani: di perdere il battello una, due volte, per far salire a bordo prima i “veneziani” non ne vogliono sapere quanti - tra turisti e visitatori occasionali - restano in attesa a bordo dei pontili dove si sta sperimentando l’accesso prioritario per i titolari di tessera unica. A calmare gli animi sopperisce Actv con un’iniezione di corse bis, ma se ne salta una, gli animi si accendono. A suonare la sveglia sono i piloti del Comitato lavoratori Actv, pronti a saltare la fermata di Rialto se seguiranno le intemperanze. «Accade spesso a Rialto nella seconda metà del pomeriggio, a piazzale Roma la mattina, al Lido la sera», racconta Nevio Oselladore, comandante Actv e presidente del Comitato.

«Le telefonate dei colleghi alla centrate operativa sono continue e c’è chi ha già annunciato che per motivi di sicurezza non ormeggerà più al pontile della Linea 2 di Rialto se si ripeteranno queste intemperanze, sempre più accese e, per altro, del tutto prevedibili: questo sistema di priorità non funziona». «Mi spiace dover contraddire chi pensa il contrario», prosegue Oselladore, «ma a piazzale Roma, Rialto, Lido i lavoratori in prima linea rischiano di essere oggetto di aggressioni. Le offese rivolte al personale Actv nei pontili ed a bordo dei battelli non si contano più. I preposti al comando continuano a manifestare estreme situazioni di pericolo e chiedono alla stazione radio di inviare nei pontili gli agenti della forza pubblica e nel contempo di tamponare la situazione con unità in corse bis. Alcuni piloti hanno anche avvisato che in caso di pericolo, non approderanno più a Rialto linea 2, ma effettueranno fermata straordinaria a Rialto linea 1. Tutto questo accade nelle ore di maggior afflusso nelle rispettive direttrici». Actv-Avm hanno aumentato il numero del personale ai pontili, ma non basta a placare gli animi, come non basta l’aver inserito corse bis tra Rialto e Piazzale Roma.
«C’è un grande, caotico dispendio di uomini e mezzi», conclude Oselladore, «perché non iniziare rimettendo i battelli ogni 10 minuti, su linea 1 e 2, invece dei 12 che si sono mangiati una corsa l’ora? Quanto costa alla collettività quest’operazione? Eppoi già viene mal sopportato la differenza del prezzo dei biglietti tra veneziani e turisti, se aggiungiamo anche la forte discriminazione per accedere ai mezzi pubblici, non potremmo nasconderci di fronte alle critiche che ci pioveranno addosso». La proposta del personale? Prima i mezzi pubblici, poi tutti gli altri. «Stabilire la centralità di tutto è quella di considerare il servizio pubblico di trasporto essenziale e prioritario. Come è previsto in tutte le città in Europa».
Libertà e giustizia, 23 giugno 2016 (p.d.)

I recenti incendi che dal 16 giugno hanno devastato vaste aree delle province di Messina e Palermo suggeriscono alcune riflessioni. Certamente l’impegno dei vigili del fuoco ha meritato il giusto riconoscimento da parte di tutti. Grazie all’encomiabile lavoro svolto non si sono verificati danni irreparabili alle persone.

Sarà comunque notevole il danno al patrimonio ambientale e saranno ingenti le risorse economiche impiegate per spegnere gli incendi e quelle che privati e collettività dovranno sostenere per riparare i guasti.

Sulle possibili cause si accerterà nel tempo se si sia trattato di episodi di autocombustione, ipotesi definita come suggestiva, o di episodi provocati da condotte dolose, ipotesi questa per la quale sono state prospettate reazioni durissime sia da parte del Presidente della Regione sia da parte del Ministro dell’Interno.

Le stesse autorità e più fonti giornalistiche hanno parlato di numerosi focolai indipendenti.

La sezione meteo di Tempostretto, giornale on line di Messina, lunedì 13 giugno segnalava ondate di calore e venti sciroccali previsti in una determinata zona della Sicilia ed ancora più esplicitamente il 15 giugno segnalava temperature oltre i 40 gradi, forti venti e il rischio di incendi nel versante tirrenico dell’area nebroidea-peloritana della costa tirrenica. Possiamo immaginare che non si sia trattato di segnalazioni isolate e possiamo immaginare che ci siano state anche informazioni non solamente giornalistiche per i circuiti istituzionali.

Legittimamente possiamo chiederci: si sarebbe potuto fare di più in via preventiva? Non sappiamo se la protezione civile abbia predisposto sistemi di prevenzione e se alla luce delle previsioni fosse utile o inutile disporli. Non sappiamo se le forze dell’ordine siano state allertate o meno per prevenire possibili attentati incendiari con servizi di vigilanza ed eventualmente arrestare i piromani colti in flagranza.

La risposta a queste domande potrebbe essere importante tanto quanto l’accertamento di possibili cause dolose degli incendi, soprattutto per costituire un bagaglio di esperienze che contribuiscano ad evitare il ripetersi dei fatti.

Ancora una volta siamo costretti a plaudire agli interventi della protezione civile a danni verificatisi e ad ascoltare rappresentanti delle istituzioni promettere reazioni durissime. Gli annunci delle reazioni non costano e di fatto le reazioni ci potranno essere se ed in quanto potranno essere identificati e processati in tempi utili eventuali responsabili, cosa tutt’altro che facile.

E comunque condanne dei colpevoli alla pena di dieci anni (la più grave edittale prevista) potranno forse consentire la punizione di responsabilità individuali, ma non potranno mai riparare i guasti ambientali.

Non possiamo escludere neppure coinvolgimenti di mafie, essendo stati colpiti territori oggetto di attenzioni mafiose.

Se su territori sui quali la mafia storicamente opera si verificano fatti dolosi dagli effetti devastanti, o si può immaginare la regia della mafia o si può configurare un consenso della mafia a fenomeni criminali che non sono considerati un ostacolo ai propri interessi. Ed è ormai un fatto di comune esperienza che interventi di soccorso, ripristini, riqualificazioni e ricostruzioni dopo calamità movimentano grandi quantità di denaro e favoriscono pratiche corruttive. Con riferimento a quest’ultima considerazione, è indubbio che le mafie possano trarre vantaggi anche da incendi riconducibili a singoli individui più o meno interessati, o addirittura a fatti non dolosi.

Ancora una volta siamo costretti a ragionare in termini di reazione dello Stato quando forse, alla luce delle previsioni meteo, sarebbe stata più opportuna se non doverosa un’azione di controllo del territorio per prevenire gesti dolosi ed assicurare interventi il più possibile tempestivi nel caso di incendi per autocombustione.

Intervista di Giuliano Santoro ad Ascanio Celestini. «Difficile distinguere il Pd di governo dalla destra. Nelle periferie non esistono quasi più spazi di incontro e discussione. Nell’illegalità fioriscono spesso iniziative culturali straordinarie». Il manifesto, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali. Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola Viva la Sposa.

Lo abbiamo incontrato per chiedergli come osserva, dal suo punto di vista, il tracollo della sinistra, l’abbandono delle periferie da parte delle forze eredi del Partito comunista, le mutazioni in corso a Roma.

«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».

E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?
È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.

La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?
Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.

Il tuo nuovo spettacolo va in scena proprio a Roma (oggi all’Auditorium, ndr). Parla di un «povero cristo» metropolitano. Che genere di miracoli occorrerebbero per la Roma dispersa, abusiva, clandestina?
Il settimo municipio, quello nel quale vivo, ha più di trecentomila abitanti. Firenze ce ne ha pochi di più, ma già Ferrara ne ha meno della metà. E ancora di meno Pisa. Allora mi chiedo: com’è possibile gestire Roma lasciando a municipi grandi come città solo una piccola parte di autonomia? E poi i territori dovrebbero avere una serie di spazi pubblici nei quali si fanno continuamente attività, che siano frequentati dagli abitanti e ciò dovrebbe accadere soprattutto in periferia. Uno spazio che conosco bene, il teatro biblioteca del Quarticciolo, è chiuso da mesi, ma la sua riapertura è vitale: quello potrebbe essere uno dei tanti spazi pubblici sempre attivi.

Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?
Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.

C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?
Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.

«“Serve un monitoraggio sugli effetti dei lavori alle bocche”. Un no deciso allo scavo di nuovi canali come il Tresse per le grandi navi». La Nuova Venezia, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

I lavori del Mose hanno trasformato la laguna e cambiato le correnti. Aumentando la velocità dell’acqua e l’erosione, a volte modificando la direzione della marea. Uno stravolgimento che da tempo pescatori ed esperti segnalano inascoltati. Ora reso ufficiale da una delle maggiori autorità idrauliche del mondo scientifico. Luigi D’Alpaos, professore emerito di Idraulica dell’Università di Padova, ha illustrato ieri sera a San Leonardo il risultato dei suoi studi. Lanciando l’allarme alle autorità che i occupano di acque e laguna con una rivelazione clamorosa.

«Siamo in possesso di dati», ha detto alla platea riunita per il convegno della Municipalità sullo scavo dei canali in laguna, «che dimostrano le modifiche apportate dai lavori del Mose alle bocche di porto. Ritardi di fase, ampiezza di marea, fenomeni eccezionali come le acque alte di questi giorni. L’elaborazione di questi dati ci fornisce una spiegazione scientifica a fenomeni segnalati da pescatori e frequentatori della laguna. Purtroppo non controllati e mai monitorati. Almeno si sarebbero potuti prendere provvedimenti per provare a rimediare». Tra i fenomeni osservati e adesso scientificamente testati, ha detto D’Alpaos, «il cambio di direzione della corrente in alcuni rii interni della città; l’aumento della velocità dell’acqua in entrata e in uscita; le correnti sotto il ponte translagunare, da sempre zona di spartiacque e dunque di acque ferme».
«Non si è fatto il monitoraggio, e gli unici studi portati a termine dal concessionario dello Stato», ha accusato D’Alpaos, sono quelli che riguardano la biologia. Ma è un errore, perché prima viene l’idraulica e l’idrodinamica. Così si possono spiegare i nuovi fenomeni biologici».
Pubblico numeroso e attento, quello riunito ieri sera a San Leonardo. Il presidente della Municipalità Andrea Martini ha deciso di convocare gli esperti per dare una risposta scientifica a chi – come il presidente di Confindustria Zoppas – chiede di accelerare lo scavo del canale Tresse in nome del rilancio della crocieristica. «La portualità e i canali navigabili non sempre sono compatibili con la salvaguardia della laguna», ha detto D’Alpaos. Che ha ribadito il suo «no» allo scavo di nuovi grandi canali. «Gli effetti locali vanno monitorati e fermati», ha detto l’ingegnere, «altrimenti faremo una replica esatta del canale dei Petroli. Nel 1979 con il professor Ghetti avevamo lanciato l’allarme sugli effetti di quell’autostrada in laguna. Nessuno ci ha ascoltato, e gli effetti li abbiamo visti, soprattutto sul fronte dell’erosione. Adesso siamo daccapo. Scavando un nuovo canale si distrugge la laguna. Meglio sarebbe stato fare arrivare in fondo le navi, scavare un bacino di evoluzione e poi far passare le navi per il già esistente canale Vittorio Emanuele».
Il Porto sostiene che D’Alpaos, qualche anno fa, aveva dato il via libera al Contorta. «Non è vero», in uno studio avevo detto che non ci sarebbero stati effetti generali sulle maree. Ma a livello locale sì, l’erosione aumenta». Per rendere concreto il concetto, il professore ha proiettato simulazioni su cosa succede in laguna al passaggio di una grande nave da 100 mila tonnellate. Spostamenti d’acqua, erosione, sedimenti che se ne vanno dalla laguna al mare. E difese che diminuiscono. «Bisogna fare scelte che non compromettano ancora di più l’equilibrio della laguna», ha concluso D’Alpaos. «Offriamo questo contributo scientifico», ha detto il presidente Martini, «alle autorità che devono decidere sui futuri scenari. Occorre aprire un dibattito sulle conseguenze che gli interventi in laguna possono avere sull’ecosistema»

«Il Porto dà in concessione il Fabbricato 280, è arrivata l’offerta per un hotel per giovani e crocieristi». Si aspetta ora l'assenso del comune al cambio di destinazione d'uso e all'aumento volumetrico. L'utilità pubblica? un museo del mare al Tronchetto. La Nuova Venezia, 22 giugno 2016 (m.p.r)

Venezia. In arrivo un nuovo albergo da 200 stanze con due piscine - il secondo caso in un hotel del centro storico dopo quella all’ultimo piano dell’Hilton Stucky - riservato ai giovani e ai crocieristi che sbarcano o si imbarcano dalla Marittima. L’Autorità portuale di Venezia ha infatti offerto pubblicamente in concessione il Fabbricato demaniale 280, fra il Tronchetto e la Marittima, un tempo sede della Capitaneria di Porto ma da tempo vuoto e ora un po’ fatiscente.

Un edificio in cemento un po’ spoglio, nello stile dell’edilizia anni Cinquanta che però il Porto vuole recuperare. Ed è già arrivata un’offerta precisa da parte del gruppo fiorentino Élite Vacanze Gestioni srl, che prevede appunto di ristrutturare e ampliare l’edificio - con un cambio di destinazione d’uso da direzionale a ricettivo a commerciale - per realizzare appunto un albergo con piscina scoperta, sauna e spazio polifunzionale espositivo, aperto al Porto e anche alla città, che dovrebbe ospitare una sorta di “Museo del mare”.

Necessario il via libera del Comune che dovrà appunto concedere il cambio di destinazione d’uso. L’investimento previsto da parte del gruppo toscano per la ristrutturazione totale dell’edificio, il suo ampliamento e la modifica ai fini alberghieri è importante:15 milioni e 700 mila euro. C’è comunque tempo fino alla fine di agosto per presentare altre offerte eventualmente migliorative all’Autorità portuale.

Il nuovo hotel però non sarà un cinque stelle, pur senza rinunciare ai confort, ma guarderà oltre che ai crocieristi, a una clientela soprattutto giovanile di turisti che arrivano a Venezia. EC Vacanze Group è infatti oggi il più grande gruppo in Italia per campeggi, villaggi e ostelli, con otto campeggi e tre Ostelli di alta categoria, più altre strutture. Nell’area veneziana il gruppo possiede già ad esempio il Campeggio Jolly, a Mestre, da 450 posti letto. Il progetto prevede al piano terra la realizzazione della hall di accesso all’albergo e di una piscina coperta di 85 metri quadrati con sauna e spogliatoi e 51 camere con bagno. Sempre al piano terra è prevista, in un’area di 300 metri quadrati, la realizzazione dello spazio polifunzionale espositivo dedicato al mare, con annessa sale conferenze, che sarà a disposizione dell’Autorità portuale, oltre che della città.

Al primo, secondo e terzo piano dell’edificio saranno distribuite altre 130 camere, con uffici di accoglienza e una hall di ingresso di 200 metri quadrati. Il quarto piano prevede la realizzazione di un bar-ristorante di 350 metri quadri, con verde attrezzato e un’altra piscina, questa volta scoperta, oltre ad altre 14 camere con bagno. Bisognerà attendere la fine di agosto, per vedere se non arriveranno altre offerte, prima del via libera del Porto al nuovo hotel in Marittima, in attesa poi del placet urbanistico del Comune.

«Dal cardinale de Merode a oggi Roma ha dovuto fare i conti con il potere immobiliare. Neanche l’amministrazione M5S farà eccezione». La Repubblica, 22 giugno 2016 (m.p.r.)

Bufalotta, Tor Pagnotta, Malafede, Casal Boccone, Castellaccio, Murate, un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’impero palazzinaro della capitale, che dalle rare e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può avere riscatto. L’impero ormai è lì nella ripugnanza di favelas postmoderniste, nell’incolpevole degrado sottoproletario. «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo», diceva Francesco Saverio Nitti già ai primi del Novecento. E adesso? E gli imperatori del cemento (absit iniuria verbis) che si sono perpetrati per più di mezzo secolo di generazione in generazione? Chissà se davvero basterà una giovane signora di 37 anni, determinata ma alquanto innocente, a scalfire il fortilizio invitto della speculazione, che è la cifra quasi bicentenaria della capitale fin dai tempi del cardinal Francesco Saverio De Merode, il quale lanciò negli affari immobiliari i gesuiti, poi gli agostiniani, i certosini e via via gli altri ordini proprietari terrieri, fino a gettare le basi di una città undici volte più estesa di Parigi.

Occorre distinguere bene tra imperatori e re delle favelas (ex?), da domani alle prese con la risoluta Virginia Raggi. C’è chi nella notte di lunedì scorso piangeva sui suoi bilanci, rimpiangendo Rutelli, Veltroni, Alemanno e persino Marino, oltre agli omini in Campidoglio in vendita per un pezzo di pane, e teme di dover cambiare mestiere. E chi, con aplomb principesco, si è già preparato alla fatalità Cinque Stelle.
Lacrima, per dire, Luca Parnasi. Carico di invenduto, Parnasi, erede di Sandro, ha puntato tutto sulla costruzione dello stadio della Roma con Pizzarotti. Ma lo stadio M5S si farà mai ? Erasmo Cinque, ex costruttore di riferimento di Alemanno, è impaniato, insieme all’ex ministro Altero Matteoli nel processo del Mose. Gli altri non gongolano. Lamaro e Toti sono in guerra con Franco Caltagirone e per di più considerati vicini al centrosinistra (quale?). Un giorno i fratelli Toti vendono un terreno a Caltagirone alla Bufalotta e poi si mettono a trafficare per farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree, vicine a quelle già vendute al re delle favelas, che non perdona. Più o meno in una zona che Veltroni volle dedicata, alla cultura.
Traversi una favela e ti ritrovi un po’ stordito in via Riccardo Bacchelli, in via Ezra Pound o in via Cesare Zavattini, che, poveretto, viveva in un eremo verde ai Castelli romani. Qualcuno, in un’ultima resipiscenza, scelse per la sede del III Municipio Via Olindo Guerrini, poeta scapigliato che verseggiava: ”Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne o Roma”. Da fare affari ce ne era per tutti: i Toti, i Todini, i Pulcini, i Parnasi, gli Scarpellini, i Bonifaci. E adesso con l’audace Raggi, algida e intrattabile? S’interroga ancora incredulo chi sperava in pezzetti o pezzoni della Metro C, nelle opere delle Olimpiadi del 2024, se mai Giovanni Malagò e Luca Montezemolo riusciranno ad aggiudicarsele, la Fiera di Roma, le voragini stradali, i restauri.
Ma c’è uno che figurarsi se fa piagnisteo. Lui a Roma (e in Italia) è abituato a dare ordini di qualunque parte siano i sindaci. E nessuno ha il coraggio di snobbarlo di fronte alla potenza di fuoco di carta di cui dispone: a Roma Il Messaggero, il giornale cittadino che con il gratuito Leggo finisce in ogni bar e che è assai ben disposto a seguire gli affari dell’editore. Poi, tanto per gradire, Il Mattino a Napoli e Il Gazzettino a Venezia. Ma non solo è per questo che Franco Caltagirone ha il diritto di scrollarsi il titolo di imperatore delle favelas. Ormai è un finanziere di prima fila. Collezionista di sculture, quadri, monete antiche ma soprattutto moderne, “liquido” per molti miliardi è capo di una dinastia di origine siciliana, di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il Parco Leonardo, vicino all’autostrada per Fiumicino e Edoardo. Altro ramo i Caltagirone Bellavista, che avevano in tasca Andreotti e l’intera Democrazia cristiana.
Il capostipite Franco non può più neanche dirsi immobiliarista, visto che, oltre che di Acea, è azionista di Generali, Mediobanca, Unicredit, una delle “banche di sistema” del mondo. Oggi è abituato a dire la sua non solo sulla presidenza della Rai o sulle più importanti nomine pubbliche, ma è nel cuore del cuore del capitalismo italiano. Fu anche lui a silurare il Ceo delle Generali Mario Greco e, in questi giorni, sta creando un po’ di rogne al presidente della banca Giuseppe Vita, il quale parla un giorno sì e un giorno no con Angela Merkel, chiedendo che il nuovo capo di Unicredit sia un italiano e non uno straniero fra quelli che compaiono nella lista di Egon Zehnder.
Ecco la vera partita del nuovo sindaco di Roma, il potere vero con il quale dovrà confrontarsi. Resisterà dura e pura? O il governo è un’altra cosa, come ha dimostrato il sindaco Pizzarotti a Parma?
Paolo Berdini, probabile assessore, ha già detto che «le Olimpiadi non sono un male a prescindere». E davvero vogliamo fare tram come nell’Ottocento?
Che la partita abbia inizio, perché «Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente, come ai tempi del primo impero di Augusto» (Benito Mussolini).

«Questi tre aspetti rappresenteranno la “cifra” dell’azione di Raggi al Campidoglio». Articolo di Ernesto Menicucci e intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini, Corriere della Sera e il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)



Corriere della Sera
LA «SIGNORA NO» APRE AL DIALOGO: OLIMPIADIE METRO VANNO RIPENSATE
di Ernesto Menicucci

Roma. Le Olimpiadi, lo stadio della Roma, la Metro C. In campagna elettorale, Virginia Raggi è stata accusata dal «rivale» Roberto Giachetti, dal Pd e da certi ambienti imprenditoriali della Capitale di essere una «signora no». No ai Giochi, no al progetto di Tor di Valle della società giallorossa, no al prolungamento della terza linea della metropolitana.

E lei, su questi tre argomenti, è sempre stata vaga. Le Olimpiadi «non sono una priorità: i romani mi chiedono altro». Lo stadio «va fatto nel rispetto delle regole: vale per la Roma e varrebbe anche per un eventuale impianto della Lazio». Sulla Metro C «va fatta una riflessione». In realtà, di questi tre aspetti - che insieme alla gestione dell’ordinario (buche, trasporti, rifiuti) rappresenteranno la «cifra» dell’azione di Raggi al Campidoglio - la neosindaca ha parlato spesso, nelle riunioni col suo staff e in particolare con l’assessore «in pectore» all’Urbanistica, Paolo Berdini, docente a Tor Vergata, grande oppositore del Piano Regolatore firmato da Walter Veltroni («il peggior sindaco dal punto di vista urbanistico», lo bolla) nel 2008.

Cosa pensa, davvero, la Raggi sui tre progetti? Sulla Metro C va «aperta una discussione». Obiettivo numero uno, naturalmente, è arrivare a San Giovanni. E da lì? «È impensabile avere una linea che attraversa il centro storico, passa al Colosseo, e per due chilometri non fa uno stop». L’idea, allora, visti i recenti ritrovamenti archeologici (una caserma romana a nove metri di profondità), potrebbe essere quello di cambiare percorso. Per andare dove? «Ci sono tanti quadranti...», dice Berdini. Verso ovest, ad esempio.

Sulle Olimpiadi, il nodo è il Villaggio per gli atleti a Tor Vergata. Berdini non è convinto: «E non per chi costruirebbe: i terreni sono del Demanio, il Comune non mette bocca». E perché, allora? Quell’area, secondo Raggi e il futuro assessore, serve allo sviluppo futuro dell’Università e del Policlinico, per dare a Roma una vocazione da «Città degli Studi», quella che sognava l’urbanista Italo Insolera, che a sua volta riprendeva un’idea di Quintino Sella. Eppure, spostare il villaggio olimpico (17 mila appartamenti, che poi dovrebbero diventare 6 mila alloggi per studenti e per i familiari dei pazienti dell’ospedale) non è così semplice. Ma il piano della Raggi è cercare una soluzione alternativa. Per cambiare il progetto olimpico, in effetti, c’è anche qualche margine: il secondo step del dossier sulla candidatura, va inviato al Cio ad ottobre. Per questo, finora, Raggi ha sempre detto che le Olimpiadi «non sono una priorità»: in questi mesi vuole prima dare risposte sulle emergenze cittadine.

Ultimo, ma non ultimo, lo stadio della Roma. Che vuol dire «farlo dentro le regole», se c’è la legge sugli stadi? Che, secondo la sindaca, il progetto (dei privati) deborda dai parametri. E approvarlo così com’è rappresenterebbe un precedente pericoloso. Anche per lo stadio (ipotetico) della Lazio.

La Repubblica
PAOLO BERDINI: "STOP AI PALAZZINAI E SU OLIMPIADI E STADIO È MEGLIO RIPENSARCI"
intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini

Il futuro assessore all’urbanistica: "Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro"

ROMA - Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all'Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi.

Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un "uomo contro", ha collaborato con Italo Insolera all'ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell'urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un'urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
"Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all'insegnamento di studiosi come Insolera, che l'urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l'amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c'è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali".

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato "no" in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?

"Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità".

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l'inceneritore?
"Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un'alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell'edilizia".

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?

"Ha visto la luce nel 2008, l'anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l'Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l'economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un'articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui".

Come lo cambierà?

"Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c'è più bisogno di costruire".

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
"Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso".

Ancora metropolitane. C'è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c'è odore di carte bollate.
"Non conosco nel merito l'accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?".

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.

"A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un'area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto".

Quale sarà la sua parola d'ordine per l'urbanistica romana?

"Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate".

Che farà nei primi cento giorni?
"Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ".

Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2016 (p.d.)

Le fabbriche chiudono ma l’inquinamento resta. E in alcuni casi aumenta, come le malattie. A Portoscuso (nel Sulcis) il terreno è talmente avvelenato che è impossibile stabilire dove costruire e dove no. Lo ha stabilito un documento, la Vas (Valutazione ambientale strategica) allegata al Puc. “Lo sappiamo da trent'anni”, ha risposto il vicesindaco Ignazio Atzori. E il consiglio comunale ha appena approvato lo stesso il Puc.

Il piccolo centro del Sulcis, costa sud ovest della Sardegna, è la culla di tutte le proteste operaie più clamorose: Portovesme Srl, Alcoa (ferma dal 2012), Eurallumina (ferma dal 2009). I caschi, scesi in piazza per cercare di scongiurare la chiusura degli impianti, hanno finora ottenuto solo promesse. Nel cuore della provincia più povera d’Italia, la speranza però si è riaccesa per le tute verdi dell’Eurallumina, da anni in cassa integrazione: i padroni russi della Rusal ora puntano su una nuova centrale a carbone per far ripartire l’impianto. Sulla struttura, che dovrebbe sorgere in zona industriale ma a due passi dalle case, ha chiesto di saperne di più la Asl di Carbonia, cittadina non lontana, dove è appena stata eletta a sindaco Paola Massidda del Movimento 5 Stelle, che spesso va forte dove è molto forte il malcontento.

L’azienda sanitaria, chiamata a esprimere un parere sulla centrale, ha scritto: quella è una “zona ad alto rischio ambientale, che presenta un aumento di patologie a carico del polmone come l’asma bronchiale nei bambini, bronco pneumopatie in genere e tumori polmonari negli adulti maschi”.

E nelle carte ufficiali, i tecnici dell’azienda sanitaria hanno chiesto quali sono le misure pensate per prevenire l’e missione in atmosfera di sostanze come “acido cloridrico e fluoridrico, diossine, composti organici volatili, mercurio, altri metalli pesanti e radioisotopi”. Dubbi sono stati sollevati anche sulla gestione delle polveri degli scarti di bauxite stoccati nei bacini dei fanghi rossi: gigantesche discariche a cielo aperto sequestrate dalla magistratura nel 2009 e ancora sotto sigilli.

Il processo per disastro ambientale e traffico di rifiuti speciali contro due dirigenti dell’azienda è stato aperto il mese scorso, mentre negli anni sono state rigettate le diverse richieste di dissequestro presentate dai rappresentanti della società. Considerati indispensabili per la ripresa, sui bacini tossici - che per un perito della Procura hanno creato un inquinamento di arsenico smaltibile in almeno 300 anni - si è espressa anche la Asl. “È auspicabile che venga approfondito il problema delle polveri di bauxite e di quelle provenienti dal bacino, con riferimento all’influenza che potrebbero avere non solo sulla salute umana, ma anche sulle attività agricole, alimentari e zootecniche”.

L’Asl così ha cristallizzato, in un documento ufficiale, una convinzione diffusa. Perché di inquinamento in questo angolo di Sardegna, si parla da sempre. Da molto prima che venissero emanate le prime ordinanze per vietare la vinificazione delle uve: niente vino a Portoscuso, c’è troppo piombo sugli acini. E nemmeno frutta e verdura ai bambini: quella coltivata in zona venne sconsigliata dalla Asl nel 2012.

Un quadro poco rassicurante, peggiorato dagli elementi depositati la scorsa settimana dall’Art Studio di Torino, incaricato dal Comune di partecipare all’adeguamento del Piano urbanistico comunale al Piano paesistico regionale. Che nella Vas snocciola dati pesanti: terra e aria sono avvelenati. E anche se sotto la soglia di legge, i contaminanti pericolosi che si respirano in paese fanno registrare un “trend crescente”, e “per quanto concerne arsenico, cadmio, e piombo, i valori riscontrati raggiungono soglie nettamente superiori a tutte le altre località monitorate sul territorio regionale”. Con l’arsenico che supera di volte i valori massimi registrati sull’isola, il cadmio è stato trovato 30 volte superiore alla media così come il piombo. Nelle 280 pagine di relazione, i tecnici hanno analizzato dati, esposto tabelle e riepilogato studi precedenti per poi sostenere che all’ombra delle ciminiere non sarebbe possibile stabilire dove e se costruire.

Perché ci sono porzioni così contaminate sulle quali non si dovrebbero realizzare neppure industrie. Esplicite le conclusioni: “Il quadro emerso evidenzia una situazione di criticità generalizzata, almeno per quanto attiene la contaminazione da cadmio, piombo e zinco”. Problemi così diffusi su tutto il territorio comunale che non consentono “una puntuale zonizzazione del territorio nell’ambito del processo di pianificazione (redazione del Puc), finalizzata a limitare gli usi in funzione delle criticità riscontrate”.

Intervista di Marco Vittone al sociologo Giovanni Semi. «Dalle periferie trascurate dal Pd fino ai no Tav, la giunta Appennino unica nel panorama del movimento grillino». Il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

Il voto di domenica ha spaccato in due la città: il nucleo che si estende dal centro alla collina solidale con il sindaco uscente Piero Fassino, abbracciato da un mantello di diverso colore, in questo caso a Cinque Stelle. Giovanni Semi insegna Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale all’Università di Torino, tra i suoi testi più noti Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino, 2015) su come riqualificazioni artificiose di quartieri, attraverso il risanamento di aree popolari, il più delle volte con interventi di speculazione immobiliare, provochino l’espulsione degli abitanti originari, a favore di classi più agiate.

Professor Semi, si aspettava questo ribaltone clamoroso?

Di questa entità in realtà no, avevo scommesso con un amico che avrebbe vinto di poco il Pd. La cartina geografica del voto è chiara, segnala due parti di città che, da tempo, non si parlano. E tutto ciò non può essere semplicisticamente letto come un voto di destra o “contro”, ma con una parte maggioritaria della città che non si rispecchia più nelle cene in bianco e nelle feste del jazz ma chiede discontinuità. E lo fa in modo anche consapevole, non si possono ridurre decine di migliaia di preferenze a voto di protesta contro il governo in carica. È come se si dicesse che non abbiano legittimità politica: emerge una richiesta di rappresentanza e di un modello di sviluppo locale diverso.

È un passaggio storico, Torino è stata governata per 23 anni dal centrosinistra.

E lo ha fatto con successo, se nelle ultime settimane quel consenso è crollato è un fatto inedito. Il centrosinistra torinese ha preso dagli anni Novanta in poi una direzione chiara e netta. Il potere, però, logora; il mandato di Fassino è stato stanco e i suoi assessori non hanno brillato per capacità creativa. Il deficit di bilancio ha determinato un impoverimento nella gestione delle risorse, una situazione che ha fatto implodere dall’interno la coalizione. Al contempo, la città veniva da otto anni di crisi, con tassi di disoccupazione elevati.

Torino era la città fabbrica, da vent’anni si discute la sua riconversione, sembrava che la nuova via fossero la cultura e i servizi. L’amministrazione di sinistra hanno provato a pensarla come una Disneyland?
Sì, la via intrapresa è stata quella. Il governo ha scommesso su cultura ed eventi, in parte a effetti “Disneyland”: le piazze del centro destinate a manifestazioni di esclusivo consumo. L’opera di cambiamento ha allontanato le fasce più deboli. Il blocco sociale dei quartieri benestanti in queste elezioni ha fatto una scelta di “conservazione”. Il centro di Torino è, per gli affitti, più avvicinabile di quello di altre città italiane, ma per esempio nel caso del risanamento del Quadrilatero c’è stata una politica selettiva dei nuovi abitanti.

Qual è il grado di fattibilità del programma dei Cinque Stelle?
Al momento sono più orientati a mettere in discussione le linee guida dei governi precedenti, non è facile essendoci pratiche e relazioni consolidate da vent’anni. Non è chiaro se in questa fase la nuova giunta riuscirà a incidere su tematiche rilevanti come i posti di lavoro e il welfare. Prerogativa che non è solo dell’amministrazione comunale. Impostare nuovi rapporti industriali con questa Fiat sarà difficile. Anche la rinegoziazione del debito richiede una posizione di forza, che ora i 5s non hanno. Sono scettico sulla capacità nell’immediato di cambiare la rotta. Dipenderà dalla reazione della città, in particolare rispetto alle sue associazioni di categoria o a chi ha quote di potere.

Il primo gesto è l’aut aut all’ex ministro Francesco Profumo dalla Compagnia SanPaolo.
Un gesto per rassicurare il proprio elettorato. Comunque coraggioso, denunciando il recente aumento di stipendio.

Una delle critiche al Movimento 5 Stelle è che raccoglierebbe il voto di destra e populista. Cosa pensa?
Ci sono due Cinque Stelle, uno a livello nazionale molto opaco nelle dinamiche interne e problematico rispetto alle categorie classiche destra-sinistra, e c’è un livello locale più autonomo, a Torino hanno un registro più di sinistra che non hanno altrove, probabilmente per la saldatura con il movimento No Tav.

«Il futuro assessore all’urbanistica "Sono convinto che una amministrazione debba delineare il futuro: questa convinzione nel programma della Raggi, c’è la convergenza è nei fatti. Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro”». La Repubblica, 21 giugno 2016 (c.m.c.)

Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all’Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi. Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un “uomo contro”, ha collaborato con Italo Insolera all’ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell’urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un’urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
«Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all’insegnamento di studiosi come Insolera, che l’urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l’amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c’è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali».

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato “no” in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?
«Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità».

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l’inceneritore?
«Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un’alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell’edilizia».

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?
«Ha visto la luce nel 2008, l’anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l’Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l’economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un’articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui».

Come lo cambierà?
«Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c’è più bisogno di costruire».

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
«Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso».

Ancora metropolitane. C’è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c’è odore di carte bollate.
«Non conosco nel merito l’accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?».

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.
«A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un’area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto».

Quale sarà la sua parola d’ordine per l’urbanistica romana?

«Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate».

Che farà nei primi cento giorni?

«Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ».

Uno sfogo, un'invettiva e una speranza da un'attivista per un'altra Roma e portavoce di "carteinregola". Rivolta al PD, (#fateveneunaragione) ma non solo. massimocomunemultiplo blog online, 20 giugno 2016


Elezioni Roma
#fateveneunaragione

(e rimbocchiamoci le maniche per la città)

Come la fiaba di quel tale che parte per vendere la mucca al mercato e a forza di scambi al ribasso si ritrova con un uovo, il Partito Democratico a Roma ha dissipato in poco tempo il suo consenso, passando dai 664.490 voti raccolti dal suo candidato Ignazio Marino al ballottaggio del 2013, ai 376.935 del suo successore Roberto Giachetti del 2016*. Tra le due date è successo di tutto, ma il Partito Democratico deve finalmente guardare in faccia la realtà.

Basterebbe guardare alcune immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale per capire la profonda frattura tra il Partito Democratico e la città. Una piazza strapiena a Ostia ad acclamare la candidata M5S Virginia Raggi, un gruppo di sostenitori di Roberto Giachetti che non riempiva neanche metà dello stretto Ponte della Musica. [vedi icona in alto]

Adesso nel Partito cominceranno le rese dei conti, si spargeranno veleni, voleranno stracci e coltelli, mentre si moltiplicano le versioni consolatorie sui social: un voto contro Renzi, contro il PD, la gente si è fatta abbindolare dal populismo etc etc etc. Ma è un esercizio inutile cercare colpevoli, o ventilare complotti e ripicche. Forse qualcuno effettivamente avrà votato Raggi per farla pagare a Renzi, o per punire il PD, ma la stragrande maggioranza ha scelto il Movimento 5 Stelle perché è stato l’unico a presentarsi come partito del cambiamento, perché da sempre promette onestà e legalità, e perché lavora da tempo su quei territori di cui il Partito Democratico si ricorda solo all’avvicinarsi delle elezioni. Già nel 2008, la vittoria di Alemanno aveva dimostrato il fallimento del Modello Roma del quindicennio Rutelli/Veltroni e il grave malessere delle periferie. Anziché fermarsi allora a fare autocritica, si è sprofondati in uno dei periodi più oscuri della città, non solo per l’amministrazione di uno dei peggiori centrodestra, ma per il consociativismo di un’opposizione che si opponeva ben poco, a quel centrodestra. Mafia capitale ha poi svelato un po’ di fuoriscena, nelle risultanze giudiziarie, ma soprattutto in quelle migliaia di pagine di intercettazioni, da cui emerge l’immagine di un Partito Democratico deteriorato, preoccupato di voti, correnti e consensi, e ben poco del bene della città e delle persone.

Fatevene una ragione, non sono i radical chic con la puzza sotto il naso che hanno girato le spalle al vostro partito, ma la gente normale, che si è sentita sempre più povera, senza dignità e senza speranza. Abbandonata da una classe politica che anche a sinistra non difendeva più diritti per elargire favori, ben più remunerativi. Classe politica rimasta la stessa anche durante il breve mandato di Ignazio Marino, e che a Marino ha fatto la guerra fin dall’inizio, soprattutto a quelli della sua squadra che non volevano continuare il tran tran precedente. Con una conclusione cruenta - quelle firme dal notaio dei consiglieri PD - che forse ha segnato anche la vera fine del Partito. Ma il suicidio collettivo del PD romano va avanti da tanto, anche se “al ralenti”, con una inesorabile selezione alla rovescia che ha allontanato i militanti più volenterosi e intraprendenti, lasciando il campo ai comitati elettorali.

Quante tessere - vere - sono state perse in questi anni? L’indagine di Barca è stata acqua fresca. Che ha indicato il partito cattivo dei valvassini dei circoli e non quello dei vassalli e dei principi e delle relative correnti - tutte ben vive e vegete - in Campidoglio, in Regione, in Parlamento. E se non sappiamo quale dibattito si sia svolto nel partito dopo Mafia Capitale, di certo i candidati del PD hanno parlato ben poco, in campagna elettorale, di mafia e corruzione. Sembrava che le elezioni si tenessero a Oslo, non nella Roma dei “mondi di mezzo”. Mobilità sostenibile. Piste ciclabili. Programmi fotocopiati dal passato, candidati anche. Invito quelli che pontificano sulle presunte incompetenze dei futuri consiglieri Cinque Stelle, a scorrere i curricula dei candidati PD, e approfondire meriti e competenze di quelli in cima alla graduatoria delle preferenze che finiranno in Assemblea o in lista di attesa (naturalmente quelli prestigiosi delle liste civiche hanno preso un pugno di voti perché non sorretti dall’organizzazione del partito, che in questo è ancora efficiente).

Fatevene una ragione, non bastano più i richiami alla grandeur di RomatornaRoma, gli echi di Festival del Cinema e Notti bianche, per far credere che Roma sia una capitale europea. La gente vive nel terzo mondo ogni giorno, il centrosinistra raccoglie ancora il voto delle enclave dei municipi dove vivono i privilegiati, ma sempre meno, perché anche lì l’abbandono e il degrado proliferano come una malattia contagiosa.

Fa impressione che un partito che per tanto tempo ha messo al centro del suo progetto per un mondo migliore le persone, e valori come l’uguaglianza, la solidarietà, la difesa del bene comune, si sia ridotto a usare come principale argomento elettorale l’ennesima candidatura Olimpica, in una città stremata dai grandi eventi precedenti, giocando sulla retorica sportiva e su quella degli eventi-che-creano-posti-di-lavoro. Oltretutto con un paradossale scambio di ruoli che vede il candidato PD Sindaco della Capitale dare per scontata la sua subalternità a un comitato sportivo, anche per quelle decisioni che riguardano i progetti urbanistici e l’eredità che dovrebbero lasciare le Olimpiadi alla città.

E altrettanto tristi sono i messaggi scelti dalla campagna elettorale del PD e del suo candidato per parlare alla città, evidentemente frutto di una comunicazione maldestra e povera di idee - anche perché costretta ad attingere a un repertorio povero di contenuti orignali e convincenti - che ha ripiegato su temi segnalati dai sondaggi come le buche - non per niente in comune con gli altri contendenti - messe in pole position insieme alla riduzione delle tasse, o su formule stantie come il tormentone romanesco (con tanto di “Società dei magnaccioni”), come se la strizzata d’occhio pseudo popolaresca potesse cancellare il profondo fossato che divide da tempo la politica dai cittadini.

E soprattutto nel Partito Democratico, nato dalle ceneri del Partito Democratico della Sinistra, manca appunto la sinistra. Mancano i valori di sinistra. Molti sostenitori del Partito Democratico rinfacciano ai Cinque Stelle di non avere un sistema di valori condivisi, cioè quei fondamenti indiscutibili, come la tutela dei deboli e la giustizia sociale. E agitano il rischio - reale - di derive demagogiche che oscillano tra mondi di destra e di sinistra in base alla pancia e agli umori dei sostenitori o degli attivisti in rete. Però dovrebbero a questo punto interrogarsi su cosa è rimasto oggi dei valori che hanno condiviso e difeso quando il PD si chiamava PCI, poi PDS, poi DS. Valori che non basta scrivere nei codici etici, nella carta dei valori o nei programmi elettorali, devono essere messi in pratica ogni giorno, da tutti.

Ed è devastante sapere che quei valori per cui si sono battuti e sacrificati i nostri padri e nonni oggi non hanno più significato per la maggior parte della gente, che sostiene”che destra e sinistra sono uguali”. Se sono tanti a pensarla così, è perchè molto spesso sono uguali i partiti, i comportamenti, gli interessi. I valori sono ancora diversi, anche se bisogna trovare nuove forme, linguaggi e canali per farli vivere di nuovo.

Mafia Capitale ha segnato una ferita e un solco, tra chi continua a perseguire le vecchie logiche politiche spartitorie e chi invece si batte per l’interesse pubblico e la partecipazione dei cittadini. Il monocolore M5S non può funzionare da solo, ha bisogno di sostegno, competenze e anche confronti critici con le realtà più diverse, anche della politica. Penso che un percorso possibile sia quello che sta cercando di costruire il nostro Laboratorio per una Politica trasparente e democratica, che vuole tenere aperto uno spazio di confronto tra realtà della società civile e quei pezzi di partiti e movimenti – compresi i simpatizzanti di quei partiti che oggi sembrano antagonisti inconciliabili come PD e M5S – che vogliono davvero costruire il cambiamento. Questa campagna elettorale è stata devastante, ha portando il conflitto tra le due principali forze politiche fino a livelli inaccettabili**, spaccando la città e esasperando pregiudizi e sospetti anche tra persone che potrebbero avere molto in comune. Bisogna ricucire il dialogo e il confronto.

Coraggiosi, M5S e non, cercasi.

*al primo turno: Marino 512.720 voti, Giachetti 320.170 voti

** La campagna contro Virginia Raggi per i due incarichi alla ASL di Civitavecchia da 13000 euro segnalati tardivamente al Comune, al di là del giudizio sul fatto in sé, è stata davvero indegna. L’invio di SMS anonimi agli elettori che definivano la candidata Raggi una bugiarda è un episodio inaccettabile, su cui spero che il Partito Democratico vorrà fare chiarezza prendendo le distanze dai suoi autori. E voglio ricordare che una simile e virulenta campagna denigratoria - sostenuta sfacciatamente da testate giornalistiche un tempo autorevoli - non ricorda neanche lontanamente quella condotta verso avversari del centro destra come Alemanno. Questi sistemi non sono accettabili da nessun sincero democratico.

Il volume di Paola Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, Il Mulino, 2015, costituisce una delle più articolate e aggiornate analisi di un fenomeno cruciale non solo per il nostro territorio, ma per il nostro futuro.
Fra i vari rituali che cadenzano la cronaca delle vicende del nostro territorio, ormai da alcuni anni si sono inseriti i report di ISPRA, con la collaborazione dell'ISTAT, sul consumo di suolo in Italia. Titoli a piena pagina di tutti i principali quotidiani sul disastro incombente denunciato da cifre terrificanti (8mq del suolo patrio consumati ogni secondo), mappe da incubo ed articoli allarmistici. Pronti ad essere riproposti, quasi anastaticamente, al successivo rapporto.
Del resto, come ci aveva insegnato Cederna, anticipatore di questi temi, quarant'anni fa, ai giornali piace solo "la notizia, maledetta notizia".

E invece, come sanno i lettori di eddyburg (in Città e territorio, sezione "Consumo di suolo"), il fenomeno del consumo di suolo in Italia ha ormai assunto un carattere di tale ampiezza e continuità (dall'inizio degli anni 80 abbiamo ricoperto di cemento e asfalto un quinto della superficie agricola) da essere ormai equiparabile, per pericolosità, al rischio sismico e idrogeologico, a quest'ultimo in particolare, strettamente collegato. Proprio per questo necessita di una divulgazione articolata ed adeguata che superi, ad esempio, le ambiguità e i fraintendimenti presenti in una percentuale ancora troppo alta dei materiali attualmente in circolazione: si confonde ancora fra suolo agricolo e suolo non edificato e i vari monitoraggi sul consumo di suolo prodotti in questi anni sono caratterizzati da metodologie differenti che rendono acrobatici i confronti e difficilissime le sintesi.

Fra i tanti meriti del volume di Paola Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, vi è quello di definire con chiarezza i termini della questione e le aporie che lo caratterizzano in ambito italiano (compresa l'ambiguità, non solo lessicale, che sovrappone e confonde paesaggio - ambiente - natura).
Ma l'analisi dell'autrice si spinge ben oltre l'illustrazione del fenomeno e della sua gravità, peraltro inserita in un ampio quadro storico (dal secondo dopoguerra, e soprattutto dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi) e geografico (non solo l'Italia, ma l'Europa, contesto imprescindibile e quasi sempre impietoso rispetto al Bel Paese e l'intero globo, in quanto globalizzate sono le caratteristiche dell'urbanizzazione odierna). Le cause del consumo di suolo sono identificate - in estrema sintesi - fin dal sottotitolo: speculazione, incuria e degrado.

Ma è soprattutto nei capitoli I e VII che l'autrice affonda il bisturi al cuore del problema: sprawl e sperpero di suolo sono conseguenza diretta del neoliberismo immobiliare che ha caratterizzato l'ultimo trentennio di vita delle nostre città, non solo in Italia, ma nel nostro paese favorito dalla storica agevolazione della politica nei confronti della rendita fondiaria. La delegittimazione progressiva della pianificazione pubblica con l'avvento dell' "urbanistica contrattata" prima e la "finanziarizzazione" della città, poi, hanno provocato una deregolazione progressiva dell'uso del territorio: degrado del paesaggio e perdita degli spazi pubblici sono fra le conseguenze più evidenti. Come, ovviamente, il sempre più incontrollabile aumento del consumo di suolo.

Chiarissima, nell'analisi di Paola Bonora, la connessione fra l'evoluzione delle politiche economico -sociali - dal welfare state al neoliberismo - e quella del governo del territorio, ma anche fra queste e la mutazione, che verrebbe la tentazione di definire antropologica, che caratterizza in questi ultimi decenni le pratiche di vita collettiva e di uso degli spazi urbani. L'atomizzazione sociale si riverbera sul territorio e la città, dove è rappresentata dai fenomeni dello sprawl e della perdita degli spazi pubblici. La crisi economica, infine, ha intaccato in fasce sempre più ampie di popolazione, il diritto all'abitare.

L'autrice denuncia amaramente da un lato, il paradosso della compresenza di un'emergenza abitativa, sempre più drammatica in questi ultimi anni, e di una sovrapproduzione immobiliare (11 milioni di abitazioni vuote in Europa secondo il Guardian, p. 102) e dall'altro la mancanza di una coerente proposta politica a livello di governo del territorio. In questa latitanza non solo politica, ma anche culturale, appare ormai inattingibile l’obiettivo del consumo di suolo zero nell’anno 2050, fissato a livello europeo nella Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse (COM (2011) 571).

Pubblicato nel 2015, il volume di Paola Bonora rappresenta uno strumento di conoscenza ancor più importante e attuale oggi. Da circa un mese la Camera ha approvato in prima lettura il ddl sul consumo di suolo: si tratta del l'esito a dir poco deludente del testo di legge presentato dal ministro Catania dell'allora governo Monti, salutato all'epoca, con molte aspettative, come il tentativo di riallineare il nostro paese alle più aggiornate legislazioni europee in tema di controllo del consumo di suolo. Dopo alcuni anni e molte modifiche, il testo evaso dalla Camera appare del tutto insufficiente per tale obiettivo: privo di chiari meccanismi regalatorî, quasi mai prescrittivi, contorto nella suddivisione dei compiti istituzionali, improntato ad una logica derogatoria e addirittura pericoloso in taluni articoli, che potrebbero addirittura favorire il consumo di suolo agricolo e la costruzione di nuove infrastrutturazioni.
In buona sostanza, un esempio clamoroso di quella "discrasia fra il dire e il fare" di cui si parla nel nostro testo (p. 105).

Insomma, il cammino verso un'efficace regolamentazione del consumo di suolo nel nostro paese appare ancora accidentato e addirittura contraddetto, negli obiettivi, da provvedimenti invece già operativi quali lo "sbloccaItalia" o le semplificazioni delle autorizzazioni paesaggistiche (decreto del presidente della Repubblica del 25/05/2016 o la radicale riforma della conferenza dei servizi (decreto attuativo della così detta "legge Madia"). Strumenti come Fermiamo il consumo di suolo diventano pertanto preziosi per illustrare, con chiarezza e finezza di analisi, ad una platea ancora troppo poco consapevole dell'importanza della posta in gioco, temi cruciali: come ci ricordava Lucio Gambi, occorre "conoscere per agire politicamente".

La proposta: «la candidatura deve prevedere obbligatoriamente un equilibrio tra costi e ricavi (diretti e indiretti). Se alla fine le previsioni si riveleranno sbagliate, la differenza la metteranno coloro i quali saranno chiamati a votare». La Repubblica, 19 giugno 2016 (m.p.r.)

L’importante non è vincere, ma partecipare: chi non conosce il bellissimo motto reso noto (ma non coniato) dal barone De Coubertin che tutt’oggi ispira i Giochi olimpici? Meno nota è un’altra considerazione dello stesso barone che nel 1911 fece riferimento «ai costi spesso esagerati incorsi nelle più recenti Olimpiadi». Poiché il tema delle Olimpiadi a Roma sta tenendo banco e non solo per via della campagna elettorale, forse è bene capire cosa l’organizzazione di un evento di questo genere comporti. Chiarito subito che non è possibile, come auspicato dalla senatrice Taverna del M5S, «rimandarlo», sarebbe opportuno cercare di farsi un’idea dei pro e dei contro di un’eventuale aggiudicazione sulla base dell’esperienza passata e di chi coinvolgere nel processo decisionale. La letteratura relativa all’analisi economica dei Giochi olimpici è variegata: alcuni rapporti vengono considerati non attendibili perché effettuati “su commissione”; in altri casi si sono riscontrate difficoltà a reperire i dati necessari.

Uno dei lavori più accurati è quello della Said Business School dell’Università di Oxford che affronta un tema particolare ma significativo, lo sforamento dei costi previsti. Prendendo in analisi le spese direttamente legate all’evento sportivo (trasporti, costo del lavoro, sicurezza, amministrazione, cerimonie e così via) e quelli indiretti (villaggio olimpico, media center, ecc) per le Olimpiadi sia estive che invernali dal 1960 al 2010, viene fuori un quadro sconfortante: rispetto al budget preparato dal comitato organizzatore le uscite in media sono schizzate in termini reali del 179%. Le Olimpiadi invernali di Torino sono state un po’ migliori con un aumento solo dell’82 % sulle stime, ma in peggioramento rispetto alla media delle Olimpiadi più recenti dal 1998 in poi. D’altronde, i Giochi di Pechino, che si sono discostati solo del 4% da quanto previsto, secondo i ricercatori di Oxford nascondono i cosiddetti costi indiretti accessori, quelli per aeroporti, strade, ferrovie o ristrutturazione di alberghi che in Cina sono stati enormi (si stimano esborsi complessivi di addirittura 43-45 miliardi di dollari).

Si dirà che tutti i progetti di grandi infrastrutture sforano le previsioni: sì, ma non di così tanto, in genere, tra il 20 e il 45% e la ricerca conclude che ospitare i Giochi dovrebbe essere considerato con grande cautela specialmente dalle economie “problematiche che avrebbero difficoltà ad assorbire costi in aumento e i relativi debiti”. Al lettore giudicare se l’Italia sia o meno in questa categoria.
Riguardo agli effetti macroeconomici delle Olimpiadi, guardando a quelle di Londra, le più recenti e considerate di successo, non c’è alcun accordo tra gli analisti. Alcuni (Pwc e Moody’s) stimano un beneficio per il Pil di + 0,1% l’anno, altri fanno risalire il buon andamento del terzo trimestre del 2012 (data dei Giochi) al giorno di vacanza supplementare goduto dai britannici nel primo trimestre. Le vendite al dettaglio sono calate perché la gente stava davanti alla tv e le visite a musei, teatri e luoghi di attrazione sono calate del 30%. Il villaggio olimpico è costato 1,1 miliardi di sterline ed è stato rivenduto a 825 milioni, lo stadio olimpico 484 milioni ed è stato affittato per 99 anni a poco più di 200. Solo per la sicurezza si sono volatilizzate 5,7 miliardi di sterline.
I soli Giochi in attivo sono stati quelli di Los Angeles del 1984, gestiti con logica privatistica, senza fondi pubblici, evitando di costruire cattedrali nel deserto e costringendo il Comitato Internazionale Olimpico ad abbassare ogni pretesa in quanto mancavano altre città candidate. Per il resto Barcellona ha lasciato 6,1 miliardi di euro di debito, Atene 2004 ha praticamente rovinato la Grecia. Anche Torino 2006, che pure è stata organizzata bene, ha lasciato opere inutili (il solo trampolino per il salto con gli sci è costato 34 milioni, è inutilizzato e succhia un milione di manutenzione l’anno), perdite (coperte dai fondi pubblici) e debiti. D’altronde basta leggere l’eccellente libro dell’economista Andrew Zimbalist sugli aspetti economici delle Olimpiadi dall’eloquente titolo Circus Maximus per convincersi che, con l’eccezione di Los Angeles, l’organizzazione dei Giochi è stata un cattivo affare.
Se poi volgiamo lo sguardo ad altri mega-eventi organizzati nel nostro Paese, la memoria va ad Italia 90 (costata ai prezzi di oggi 7 miliardi di euro con gli appalti assegnati senza gare) e ai Mondiali di nuoto del 2009, le cui storie di sprechi, corruzione, mancato utilizzo degli impianti sono leggendarie,rappresentate plasticamente dallo scheletro del palazzetto con le vele a pinne di squalo di Tor Vergata, costato 250 milioni.
Ciò detto, si pone il problema di chi dovrebbe deliberare la candidatura di una città a divenire sede olimpica. In Italia il decisore ultimo è il governo. Tuttavia, ci sarebbe un modo più semplice di assicurare un processo accurato ed equo ed esso passa attraverso il referendum. In realtà, come suggerisce l’Istituto Bruno Leoni, questo dovrebbe coinvolgere l’intero Paese, perché le eventuali perdite sarebbero ripianate anche con la casse statali. Purtroppo questa sembra una soluzione complessa mentre assai più praticabile è la consultazione cittadina. Pure qui c’è un problema: i romani potrebbero essere ben felici di votare sì ad un evento che porterebbe a loro i maggiori benefici e al resto d’Italia il conto da pagare. Ecco quindi che si potrebbe prospettare una soluzione simile a quella che il governo canadese negoziò con Montreal e la provincia del Québec: la candidatura deve prevedere obbligatoriamente un equilibrio tra costi e ricavi (diretti e indiretti). Se alla fine le previsioni si riveleranno sbagliate, la differenza la metteranno coloro i quali saranno chiamati a votare, i cittadini romani (o laziali), che potranno quindi scegliere tra rischio di nuove tasse e orgoglio cittadino. No taxation without representation: vale anche il contrario però.
Ricostruire il profilo della legalità, mettere in soffitta la cultura delle deroghe, e privilegiare il diritto sociale alla città e ai beni comuni. I propositi del possibile assessore all'urbanistica di Roma, spiegati su il manifesto, 19 giugno 2016.

Roma è una città fallita. Ai 13,5 miliardi certificati dal Commissario governativo ne vanno aggiunti due degli anni del sindaco Marino e un numero finora imprecisato che proviene dall'accensione di tìtoli derivati. Roma supera dunque i parametri di legge che regolano l'indebitamento degli enti locali e se il Governo volesse - e non è detto che non giocherà questa carta - potrebbe sciogliere il governo municipale. Dei candidati sindaci che si sono presentati al primo tumo solo Raggi e Fassina hanno posto con chiarezza la questione proponendo l'apertura della rinegoziazione del debito. Silenzio da tutti gli altri, compreso quello di Giachctti.
La causa strutturale del debito sta nell'anarchia urbanistica. Negli ultimi 20 anni si è costruito dappertutto al di fuori di ogni regola sicuri che la mano pubblica avrebbe portato i servizi indispensabili. L'ultimo scandalo riguarda ad esempio un intero quartiere nato in aperta campagna a tre chilometri dall'ultima periferia, Pian Saccoccia, a cui il comune deve garantire trasporti e raccolta dei rifiuti. A fronte di pochissimi che hanno intascato una rendita immobiliare enorme, la collettività accumula debito mentre Atac e Ama sono sull'orlo del fallimento. Il manifesto ha denunciato sistematicamente in questi anni gli effetti dell'urbanistica derogatoria e il risultato di questo prezioso lavoro sta nel volume di recente pubblicazione Viaggio in Italia che raccoglie i ragionamenti collettivi provocati da una intuizione di Piero Bevilacqua e curato con Ilaria Agostini. Il quadro che emerge è la crisi irreversibile delle città, come noto amministrate in larga parte dal «centro sinistra».
È dunque evidente che sussiste ancora una difficoltà culturale nella sinistra a fare i conti con gli errori del recente passato, quando sono stati sacrificati gli interessi dei cittadini per privilegiare quelli economici e finanziari dominanti. L'effetto di questa scelta di campo è resa evidente dal voto del 5 giugno scorso: in tutte le periferie urbane la sinistra non intercetta più il malessere delle famiglie impoverite da una crisi senza fine e dalla cancellazione del welfare. Questa parte di società ha invece scelto di premiare a Torino e Roma il movimento 5stelle e dobbiamo chiederci i motivi di fondo di questo orientamento. I gruppi parlamentari 5stelle hanno contrastato con forza lo «Sbocca Italia» imposto per decreto dal governo Renzi che ripropone l'ennesima e sempre più accentuata stagione derogatoria cosi come si sono battuti contro quella che viene vergognosamente chiamata la legge contro il consumo di suolo e che contiene invece altri meccanismi che lo incentivano.
In buona sostanza, quella complessa galassia piena di contraddizioni lucidamente sollevate da Alberto Asor Rosa su queste pagine, si è però saldamente impadronita della cultura urbana che era il vanto della sinistra. Da questa maturazione politica e culturale sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. Virginia Raggi con me e Chiara Appendino con un'altra figura di rilievo dell'urbanistica democratica, Guido Montanari, hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando invece il diritto sociale alla città e ai beni comuni. È lo stesso percorso scelto, come notava ieri Norma Rangeri, a Napoli da Luigi De Magistris sia nella sfida per l'acqua pubblica sia nel rispetto del piano urbanistico di Vezio De Lucia. È per questo motivo che ho ritenuto di accettare la proposta offertami da Virginia Raggi di guidare l'urbanistica di una città fallita a causa della mala urbanistica.

«D'Alema ha telefonato allo storico dell'arte per convincerlo ad accettare l'assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma: "Mi ha chiamato come hanno fatto in molti - conferma lui - mi ha detto che sarei stato un ottimo assessore"». Il Fatto quotidiano online, 16 giugno 2016 (c.m.c.)

«Forse ci sarebbero cose più serie di cui parlare. Lo dico da vicepresidente di Libertà e Giustizia: se si discutesse delle ragioni del ‘no’ al referendum un decimo di quanto si parla delle telefonate di Massimo D’Alema, sarebbe un Paese migliore».

Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna alla Federico II di Napoli, torna sulla querelle tra l’ex premier e La Repubblica, secondo cui in diverse occasioni pubbliche il “Lìder Maximo” si sarebbe detto pronto a votare Virginia Raggi “pur di mandare via Renzi”. Il quotidiano romano racconta anche che D’Alema ha telefonato allo storico dell’arte per convincerlo ad accettare l’assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma.

«Quando è uscita la notizia che Virginia Raggi mi aveva chiesto se fossi disponibile a diventare assessore alla cultura a Roma, ho ricevuto moltissime telefonate da amici, conoscenti, persone appassionate di politica, ho sentito Civati e Fassina, Salvatore Settis e Goffredo Fofi, Gian Antonio Stella e Massimo Bray… Tra costoro c’era anche D’Alema, e mi ha fatto piacere sentirlo. Non ci sentiamo spesso, ma abbiamo fatto entrambi la Scuola Normale di Pisa, tra noi ci sono argomenti e ragionamenti in comune. Voleva sapere se era vero e mi ha detto che secondo lui sarei stato un ottimo assessore alla cultura di Roma e che quindi avrei potuto pensare ad accettare. Ma non c’è stata alcuna pressione, non è che D’Alema stia facendo la giunta dei 5 stelle, queste sono sciocchezze. Anche perché non so in base a che cosa avrebbe potuto fare pressione su di me, io con il Pd non c’entro nulla».

D’Alema dice che lei gli ha chiesto un consiglio.
«L’ho chiesto a molte persone che mi hanno chiamato, gli ho domandato cosa avrebbe fatto lui al posto mio. Il fatto che il M5S stia per conquistare Roma e che in questo momento ragioni non come il Pd o come la destra con una logica di appartenenza, ma si apra a persone molto diverse dalla sua storia come me, e in particolare che si apra a persone e a idee della sinistra, ha incuriosito molti e ha creato un dibattito. Credo che ascoltare le opinioni delle persone sia importante: D’Alema è una persona a particolarmente intelligente e di esperienza. Ma non ho chiesto consiglio solo a lui. L’ho chiesta anche al mio ortolano, ai miei colleghi di università, per capire come reagisce il mondo della sinistra di fronte a queste aperture».

All’assessorato ci ha pensato davvero.
«Certo che ci ho pensato. Io studio storia dell’arte romana da una vita. E poi fermare il Pd a Roma e tentare un esperimento diverso sia una grande occasione. Da un punto di vista professionale e da un punto di vista politico ero molto tentato. Ma poi ho pensato che, specie nell’ambito della cultura, non si può governare una città in cui non si vive tutti i giorni, in cui non si ha una famiglia, della cui comunità non si fa parte. Quelli che fanno gli assessori o i superconsulenti esterni alla cultura e sono sempre in viaggio da un posto all’altro alla fine non fanno un gran lavoro. Una delle cose che mi è piaciuta dei discorsi della Raggi è che parla di comunità. Per governare una comunità bisogna esserne membri».

Che giudizio ha dei programmi di Giachetti e della Raggi?
«Il programma del Pd non riserva nessuna sorpresa: continuerà tutto come prima, spero non la corruzione. Giachetti mi sembra una persona pulita, quello che che c’è dietro di lui mi piace di meno e mi dà minori garanzie, è il motivo per cui voterei la Raggi se fossi residente a Roma. Su tanti punti condivido il suo programma. In generale mi pare che i 5 stelle abbiano un’idea della cultura molto simile alla mia: cultura non come mercato, che è l’idea di Renzi e del Pd, ma come strumento per ridare sovranità ai cittadini e renderli partecipi della vita politica».

Cosa pensa di questa storia? D’Alema sta veramente tramando contro Renzi?
«Renzi non c’entra nulla con la storia della sinistra. E’ un gigantesco equivoco che Renzi oggi, invece di guidare Forza Italia, sia il leader del Pd. Sarebbe il leader ideale di Forza Italia per le idee che ha e le leggi che sta facendo. Lo Sblocca Italia, la riforma della Costituzione, la riforma della scuola sono tutte cose che hanno un minimo comune denominatore: il primato assoluto del mercato. Nel momento in cui in un modo assurdo, con delle primarie aperte anche a chi non era iscritto al partito Renzi diventa segretario del Pd, chi è di sinistra in quel partito si pone il problema: o riuscire a recuperare il partito o uscirne. A un certo punto D’Alema e molti altri dovranno decidersi».

Come esce da questa storia il Pd?
«Il Pd è un partito che ha subito un’opa ostile da parte di uno che con la sua storia non c’entra nulla. D’altra parte però in questa vicenda vengono al pettine molti nodi. Io sono fiorentino, ero al liceo di Renzi che ai miei tempi era vicino a Comunione e Liberazione, poi è stato presidente della Provincia di Firenze da democristiano qual è. Poi solo la creazione a freddo del Pd ha permesso che queste due storie, quella di Renzi e quella della sinistra, si incontrassero. Ora un’anima ha prevalso sull’altra. Ma quando da sindaco di Firenze Renzi diceva che per lui le bandiere rosse erano quelle della Ferrari diceva la verità».

Un incontro tra due storie che è il prologo della mutazione genetica del Pd.
«Il problema è questo: esiste ancora la sinistra in questo Paese? Se esiste, che scelte fa? Cambiare il Pd? Non ce la fanno e allora creano Possibile e Sinistra Italiana. Io sono nel consiglio scientifico di Possibile, ho grande stima per Civati e Fassina, hanno creato un laboratorio di idee importantissimo, ma non riescono ad avere un consenso maggioritario. In questo quadro i 5 stelle sono una creatura molto strana in cui ci sono cose molto inquietanti – l’aspetto proprietario e privatistico dei Casaleggio lo trovo terribile, il ruolo di Beppe Grillo che va superato, tanti altri punti a partire dalla loro posizione sui migranti non mi convince affatto – però vedo che su molti altri temi c’è una convergenza con la sinistra come la intendo io».

Quali?
«Sul campo, io che mi occupo di ambiente, paesaggi e territorio mi trovo dall’altra parte il sindaco con la betoniera cementificatrice e non riesco a distinguere se è del Pd o di Forza Italia, mentre dalla mia parte ci sono i militanti 5 stelle. Allora mi domando se non esista la possibilità che i 5 stelle non assomiglino nel tempo a quello che è Podemos. Un dato di fatto: se al governo della città di Roma arriva l’urbanista più di sinistra che in questo momento è attivo in Italia, Paolo Berdini, non si deve a un partito di sinistra ma al M5S. Se la sinistra delle idee va al governo in alcune città grazie ai grillini è un dato di fatto su cui occorre ragionare».

«In attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio». Il manifesto, 16 giugno 2016 (m.p.r.)

Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato Signori della guerra, signori del petrolio, gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. E’ comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni ’70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un po’. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti.

Uno sguardo più attento sul conflitto multiplo in Siria ci dice che proprio petrolio e gas creano e disfanno schieramenti, generando sempre più entropia geopolitica e conflitti nella regione. Sin dal 2011, diversi studi hanno esplicitato il potenziale di idrocarburi di tre giacimenti al largo delle coste siriane. Nel 2014 l’esercito Usa ha affermato che tali risorse sono parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale, che rappresenta un’opportunità per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e rafforzare l’autonomia energetica di Israele. «Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte», a scriverlo è Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (ARAG) del ministero della difesa britannico.
Ma il progetto occidentale va in rotta di collisione con l’obiettivo di Assad e dei suoi due principali sostenitori, Russia ed Iran, secondo cui la Siria dovrebbe divenire «un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro» - nelle parole di Nafeez Ahmed, Direttore esecutivo dello Institute for Policy Research and Development. Da cui la proposta del gasdotto «sciita», Islamic Gas Pipeline, che collegherebbe Iran, Iraq e Siria per poi essere esportato in Europa escludendo la Turchia, da cui transita invece il gas azero e del Caspio. La Russia ha quindi ottenuto licenze esplorative offshore al largo della Siria per la Soyuz Nefte Gas nel 2013 e poi recentemente sospeso l’idea del Turkish Stream che avrebbe portato il gas russo in Europa - dopo che i governi europei avevano boicottato il progetto South Stream dalla Russia alla Bulgaria, come rappresaglia contro l’occupazione della Crimea. Come se non bastasse un terzo progetto “sunnita” di gasdotto è stato avanzato dal Qatar, passando per Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia - con il beneplacito di Washington.
Dentro uno scenario così intricato si definiscono gli schieramenti: gli sciiti con il gasdotto dall’Iran, i sunniti con il gasdotto dal Qatar, gli occidentali e la Russia alla ricerca di spazi per i giacimenti già individuati. In un quadro del genere, tutt’altro che stabile e duraturo, si capisce bene perché a un certo punto l’Occidente ha appoggiato i ribelli, senza mai però premere l’acceleratore fino in fondo, ha attaccato l’Isis solo per contenerne l’espansione e lo stesso sul fronte opposto ha fatto la Russia, come se ci fosse un disegno che punta alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte.
E fin qui, qualcuno dirà che il grande gioco del petrolio continua come in passato, seppur con un maggior numero di pretendenti. Ma se poi si guarda a come l’Isis si è inserito con astuzia in questo gioco tramite un sistematico contrabbando di petrolio permesso dalla Turchia in una logica di controllo sunnita delle vie del petrolio e dei giacimenti, allora emerge con chiarezza imbarazzante che nessuno ha davvero interesse a distruggere l’Isis fino in fondo. In fin dei conti gli Usa ed i suoi alleati lo vogliono contenere - anche Obama ha usato in passato queste parole - e la stessa Russia lo vede utile per impedire alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad. E poi vi sono i paesi arabi che lo finanziano, da cui la guerra sul prezzo del petrolio tra l’Opec dominato da questi paesi per «affamare» la Russia e contenere, invano però fino ad oggi, la nuova autonomia energetica statunitense basata sullo shale gas e oil.
In attesa di una rivoluzione energetica - che si spera non riproduca una simile geopolitica anche nel settore delle energie rinnovabili - il Mediterraneo rimane ancora il centro della grande guerra per il petrolio, quasi inesorabilmente fino all’ultimo barile.

«Studio Cnr: mezzo milione di tonnellate di cemento pesano sui fondali. «Nel resto della laguna trend in linea con gli ultimi decenni». Il progetto Mose prevedeva l’abbassamento di 8 centimetri in un secolo». La Nuova Venezia, 15 giugno 2016 (m.p.r.)

Venezia. Mezzo milione di tonnellate di cemento sott’acqua per i cassoni del Mose. E la laguna sprofonda. Lo hanno scoperto i ricercatori del Cnr Luigi Tosi e Cristina Da Lio, che hanno consegnato l’ultimo studio sulla subsidenza dell’Alto Adriatico realizzato con i professori Tazio Strozzi e Pietro Teatini. Secondo gli ultimi rilevamenti affidati a sofisticati sistemi di Gps da satellite, la velocità di sprofondamento è aumentata. «Mentre in quasi tutta la laguna e nelle isole di Burano e Sant’Erasmo il terreno si è abbassato di pochi millimetri, confermando il trend degli ultimi due decenni», scrivono, «nelle tre bocche di porto interessate dai lavori del Mose l’abbassamento registrato è nell’ordine di molti centimetri». Addirittura 7-8 secondo altri rilievi geologici in possesso del Consorzio Venezia Nuova.
Un dato che preoccupa, perché nel progetto originario del Mose, il sistema di dighe mobili contro le acque alte, l’eventualità di uno sprofondamento era prevista, ma limitata a 8 centimetri nel prossimo secolo. Studiosi e ricercatori non amano le polemiche. «Siamo certi che i progettisti hanno previsto la modifica dei fondali», si limitano a dire gli studiosi che hanno firmato l’ultimo rapporto. Ma i numeri parlano chiaro. E indicano la certezza che l’enorme peso delle strutture in calcestruzzo destinate a sostenere le 78 paratoie ha già prodotto degli effetti sull’equilibrio dei fondali lagunari. Fenomeno previsto, assicurano gli ingegneri. Che proprio per sostenere il peso del cemento avevano conficcato centinaia di pali lunghi 35 metri sui fondali sabbiosi delle bocche di Lido, Malamocco e Chioggia.
Un assestamento è senz’altro previsto, ma per adesso gli 8 centimetri che si dovevano perdere in un secolo sono già stati persi in poco più di due anni. Aggiunti alla subsidenza naturale (circa 2 millimetri nell’area regionale) e all’eustatismo, cioè l’aumento del livello dei mari già evidente, potrebbe rappresentare un problema. Ma soprattutto, fanno notare i critici del progetto Mose, impone un controllo serrato sull’efficacia del progetto.
Due anni fa la storia del Mose aveva subito una brusca virata. 35 arresti per l’inchiesta della Procura di Venezia, partita da un accertamento fiscale delle Finanza. Una rete di corruzione e di malaffare venuta alla luce, che aveva rivelato connessioni tra singoli e apparati dello Stato. Pochi mesi dopo il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone aveva chiesto e ottenuto dal prefetto di Roma il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova, pool di imprese istituito con la seconda Legge Speciale del 1984 che ha in regime di monopolio la salvaguardia della laguna e la realizzazione del Mose.
Il commissario Luigi Magistro ha avviato una grande inchiesta interna, scoprendo molte irregolarità e ottenendo, un anno dopo, anche il commissariamento della Comar srl, società per la gestione degli appalti di proprietà degli stessi azionisti del Consorzio, la padovana Mantovani e le romane Condotte e Grandi Lavori Fincosit. Verifiche sono state avviate anche dal punto di vista tecnico dal commissario Francesco Ossola, dopo la serie di incidenti che aveva funestato l’avvio della fase operativa del Mose: lo scoppio di un cassone sul fondale a Chioggia, il crollo della diga foranea al Lido e l’allagamento di un altro cassone a San Nicolò, il danneggiamento della conca di navigazione a Malamocco. Adesso altre verifiche dovranno essere fatte - e in parte sono già in corso - sulla struttura del sistema Mose e sulla sua tenuta, la manutenzione, la gestione e il rischio della subsidenza. Adesso diventato una certezza.

Corriere della Sera, 15 giugno 2016 (m.p.r.)

Ma davvero solo il turismo ricchissimo può salvare l’ambiente riservando le riserve naturali, scusate il pasticcio, a pochi privilegiati in grado di riservare una camera deluxe? La domanda, vecchia come il cucco, si ripresenta all’Asinara. Dove, tra le sollevazioni degli ambientalisti, si discute di un progetto del circolo Pd di Porto Torres per costruire un «albergo diffuso» con «286 camere, 709 posti letto, tre ristoranti, un centro benessere, un centro commerciale, due piscine, impianti sportivi, tre bar, impianti ludici, un porto turistico su 17 ettari» a Cala d’Oliva. «Se sotto il profilo ambientale si può decretare il successo del Parco a 18 anni dalla sua nascita», ha spiegato a La Nuova Sardegna il coordinatore del progetto, il geometra Giuseppe Marceddu, «non altrettanto si può dire che lo stesso sia avvenuto sotto il profilo economico». Insomma, rispetto al fascino del posto ci va ancora poca gente.

Non sarà perché gli investimenti per risistemare l’isola dopo un secolo di isolamento penitenziario e per farne un vero parco europeo sono stati scarsi? Forse. Ma la soluzione è un hotel a 5 stelle. Con un investimento «stimato in circa 56 milioni di euro», una «superficie coperta complessiva di circa 12 mila metri quadri», un «polo d’attrazione turistico» capace di dare lavoro, in modo diretto o indiretto, a «circa 560 unità». «Evviva!», esultano alcuni. «Ma quando mai!», contesta Stefano Deliperi che col Grig, il Gruppo di Intervento Giuridico, si è messo di traverso, «Sarebbe solo una folle privatizzazione speculativa di un gioiello naturalistico del Mediterraneo». E insieme con gli altri ambientalisti contesta tutto: 1) la stima dei posti di lavoro («Solo un miraggio»); 2) la scelta strategica di consegnare a un privato («che poi di questi tempi potrebbe essere solo uno sceicco arabo») un pezzo dell’isola solo da pochi anni restituita alla collettività dopo oltre un secolo centrato sul carcere di massima sicurezza; 3) la costruzione di un porto turistico là dove c’è la tutela integrale dell’area marina; 4) il rischio mortale che, persa la purezza originale, l’isola faccia poi gola ad altri. In fondo, perché non crearne due, di alberghi? O tre, quattro, cinque…

C’è un dettaglio che, dopo gli assalti sventati di chi voleva costruire una centrale eolica off-shore, fare ricerche petrolifere o riesumare il penitenziario, sfugge evidentemente a qualcuno: la legge parla, per l’Asinara, di tutela «integrale». E integrale vuol dire integrale.

La macchina del fango lavora sempre a pieno regime. Paolo Berdini risponde alle accuse mosse dal Messaggero nei suoi confronti. Il manifesto, 15 giugno 2016

Dietro la vicenda Olimpiadi 2024 si sta conducendo un’offensiva tanto strumentale quanto priva di dati oggettivi e sarà bene recuperare un minimo di dignità di discussione. Speravo che fossero finiti per sempre i tempi della santa inquisizione. Vedo purtroppo che non è vero.

Leggo infatti sul Messaggero di Roma che sarei stato denunciato per diffamazione da Francesco Gaetano Caltagirone per una intervista che riguardava il tema di Tor Vergata, luogo in cui si vorrebbe costruire il villaggio degli atleti.

Nella mia vita ho rilasciato decine di interviste sul comprensorio di Tor Vergata e ho scritto molti articoli e libri che la riguardano. Non mi era mai accaduto di essere denunciato perché ho sempre riportato l’esattezza della vicenda.

Il comprensorio è di proprietà dello Stato e non mi sogno di affermare – come sostiene il quotidiano – che sia di un consorzio guidato da un importante gruppo imprenditoriale. Affermo soltanto che quel gruppo, la Vianini, ha la regia delle realizzazioni all’interno del comprensorio. Dunque nel caso venissero costruite le abitazioni per gli atleti sarebbe quel consorzio a realizzarle. Una verità incontrovertibile.

Ma il Messaggero non si ferma e mi accusa di aver messo sul banco degli imputati le imprese ed aver taciuto sui veri responsabili dell’ennesima incompiuta.

Purtroppo per loro ho denunciato troppe volte la folle disinvoltura con cui la politica ha deciso di costruire opere senza avere le coperture economiche. Nei miei scritti ho anche denunciato con forza che questo irresponsabile modo di procedere è il male che sta divorando l’Italia e con essa le imprese che ancora svolgono la propria funzione con serietà e rigore. Le centinaia di opere non finite presenti in tutto il paese sono figlie del fallimento della programmazione sbagliata della mala politica e non dei soggetti economici.

Ripeto, il fatto che venga accusato dell’esatto contrario di quanto sostengo da troppi anni la dice lunga sul clima che si va preparando.

Ma, per concludere, vorrei cercare ancora di discutere sul futuro della capitale e spiegare i motivi della mia contrarietà al progetto di Tor Vergata come casa per gli atleti.

I seicento ettari di Tor Vergata furono espropriati dallo Stato negli anni ’70 per realizzare un’università, il luogo della formazione d’eccellenza dei nostri giovani. Consentiranno i redattori del Messaggero che costruirci case non è il massimo di quel futuro di eccellenza che tutti ci auguriamo per l’Italia.

Sarebbe allora meglio ad esempio che su quelle aree venissero costruite cliniche specializzate per la cura delle nuove malattie che colpiscono gli anziani o alcune fasce dell’infanzia.

Tor Vergata è la più grande carta che Roma ha per tentare di diventare una città in grado di attirare risorse e valorizzare i tanti giovani che studiano pensando di poter trovare un ruolo nel nostro paese.

Tutto qui, e in questo senso l’ennesimo villaggio olimpico non serve a nulla e, soprattutto, potrebbe essere comodamente costruito altrove senza sprecare una grande occasione.

Se il renzismo è il pericolo maggiore, se una sinistra che voglia colpire le radici del disastro non c'è, ben vengano i M5S come la candidata per Roma. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 15 giugno 2016

Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.

Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.

Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.

Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.

Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.

Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.

Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.

Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.

Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.

Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.

Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.

Se si vuole votare alle elezioni comunali nella capitale d'Italia senza turarsi il naso la scelta è chiara: M5S non è il demonio, e ha buone carte. Il manifesto, 14 giugno 2016

Sul voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma è bene raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario che appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.

Avendo votato per Stefano Fassina al primo turno, sapevo per certo che avrei dovuto affrontare al ballottaggio una scelta che lo escludeva. E confesso che, se mi fossi trovato di fronte a un alternativa tra Roberto Giachetti e un candidato del centro-destra, non avrei avuto dubbi: mi sarei “turato il naso”, per dirla alla Montanelli, e avrei scelto il candidato Pd. Lo avrei scelto per senso di responsabilità, pensando alle sorti della mia città, che non può tornare in mano al peggior centro destra d’Italia. Ma lo avrei fatto con disagio, prima di tutto per ragioni di politica nazionale.

Considero il Pd di Matteo Renzi un grave danno per la sinistra e per l’Italia. Per la sinistra, perché la sua politica di apertura alla destra berlusconiana – come alcuni di noi avevano previsto – non avrebbe allargato il consenso di quel partito , mentre avrebbe definitivamente spezzato i legami con il suo insediamento popolare, esponendolo alla sconfitta. I risultati elettorali recenti sono le prime prove della validità di tali previsioni. Ma il danno è anche per l’Italia.

Questa non è la sede per valutazioni generali, ma un aspetto che non bisogna dimenticare, nel dare un giudizio sull’operato di questo governo, è di considerare anche quel che non si è fatto e invece si poteva fare. Il tempo nel frattempo sprecato con i problemi che si aggravano.

Son passati due anni e mezzo e Renzi ha perduto l’occasione di impostare un sistema fiscale progressivo: vera chiave di volta per attenuare le diseguaglianze crescenti che lacerano tutte le società “neoliberiste”.

Ha premiato la rendita, abolendo la tassa sulla prima casa e non ha impostato una vera politica di investimento nella formazione e nella ricerca, per il rafforzamento strategico del sistema-paese: borse di studio per migliaia di giovani che non possono proseguire la carriera scolastica o iscriversi all ‘Università, fondi per la ricerca, ingresso di nuovi docenti nell’Università e soprattutto risorse per ridare slancio a un settore da cui dipende l’avvenire dell’Italia. Nulla di tutto questo, com’è noto.

Ma che c’entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del Pd, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso.

Considero simili scelte il distilllato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E’ il processo di disneyzzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d’insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.

Ispirato da tali scelte, – che lo portano anche a strumentalizzazioni pacchiane, come l’uso elettorale di Totti – Giachetti è dunque un perfetto avversario da sconfiggere. Tanto più che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, ha cominciato a fare scelte interessanti per la sua eventuale squadra di governo cittadino.

Ed è di dominio pubblico che ella ha chiesto, per l’assessorato all’urbanistica, la disponibilità di Paolo Berdini. Ebbene, considero questa una scelta di grande valore, una vera bandiera politica.

L’Assessorato all’ urbanistica (o comunque si chiamerà) è un posto di potere-chiave dei governi municipali. Da li si governa l’uso del territorio e la possibilità di cavare profitti dal suolo. E da li, nei decenni passati, sono passate le scelte che hanno devastato Roma, cementificando l’Agro romano, costruendo interi quartieri senza trasporto su ferro, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico da ogni dove.

Paolo Berdini è uno dei più competenti e intransigenti avversari di questa politica dissennata, che ha premiato la rendita dei grandi costruttori e creato danni all’universalità dei cittadini romani.

Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti.

Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma – una volta nell’agone elettorale – ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l’auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale.

C’era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d’origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie. Il lavoro quotidiano tra i cittadini non può dare frutti elettorali nel giro di pochi mesi.

Si tratta di un’opera di lunga lena, che sarebbe dovuta iniziare molto prima dell’apertura della campagna elettorale. Lo si voglia o no, la fiera elettorale copre di una patina di strumentalità qualunque impegno e dialogo “col popolo”.

E infine, di passata, ma è forse il problema fondamentale, tanto Airaudo che Fassina e altri candidati meno noti, sono apparsi troppo isolati: avanguardie solitarie di una sinistra che non c’è, per giunta esponenti dissenzienti di una tradizione che oggi si chiude nel fallimento.

L’idea di Sinistra Italiana di aspettare il congresso di dicembre per “partire” non ha certo aiutato questi candidati. Ma ha anche gettato un ombra pesante di fragilità su tutto il campo. Persino il mio «giovanile entusiasmo» (come benevolmente ironizza Asor Rosa) è stato messo a dura prova.

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