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Ancora in ballo un disegno di legge più dannoso che utile per la riduzione del consumo di suolo e devastante per le aree gia edificate in attesa di "rigenerazione". Eppure soluzioni efficaci sono a portata di mano, se ci fossero lucidità culturale e volontà politica.
Nel maggio scorso la Camera dei deputati ha approvato e trasmesso al Senato il famigerato disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato ben noto ai lettori di eddyburg [vedi i riferimenti in calce]. La prima considerazione riguarda i dubbi circa la sua definitiva approvazione. L’avvicinarsi delle elezioni politiche (che devono svolgersi entro il 2018) e l’inevitabile impasse che sarà comunque determinata dall’esito del referendum sulla sopravvivenza del Senato (in ogni caso fino alle prossime elezioni le leggi saranno approvate in regime bicamerale), inducono a sperare che il disegno di legge finisca su un binario morto. E perciò, secondo me, dovremmo da subito mettere in campo altre ipotesi.

Un inattendibile meccanismo a cascata
Non senza aver prima ricordato perché siamo nettamente contrari al testo in discussione. Ha origine da una proposta del 2012 di Mario Catania, ministro delle politiche agricole del governo Monti che, dopo quattro anni di dibattito nelle commissioni di Montecitorio e tre governi (Monti, Letta, Renzi), è stato progressivamente peggiorato. Il dispositivo (che dovrebbe portare entro il 2050 al traguardo fissato dall’Unione europea di consumo di suolo = 0) è basato su un inattendibile meccanismo a cascata in quattro tempi:
1. lo Stato definisce la riduzione del consumo di suolo a scala nazionale
2. la quantità stabilita a livello nazionale è ripartita fra le Regioni
3. ciascuna Regione suddivide la sua quota fra i Comuni
4. i Comuni riformano gli strumenti urbanistici cancellando le espansioni in eccesso.

In sostanza, lo Stato propone ma a decidere sono Regioni e Comuni, e quindi la legge non sarà mai attuata proprio dove più necessaria e urgente. È vero che la norma transitoria blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge, ma sono fatti salvi opere, interventi, procedimenti e varianti che coprono abbondantemente la moratoria. Né si dica dei poteri sostitutivi, pratiche che nelle materie di cui stiamo trattando non hanno mai funzionato.

Due articolo per devastare di più


Ma c’è dell’altro. Due articoli riguardano il riuso e la rigenerazione. In uno, le Regioni incentivano i Comuni a promuovere la rigenerazione urbana attraverso complicate procedure più o meno rispettose della disciplina urbanistica. L’altro articolo prevede invece la delega al governo a emanare uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate”. Una delega in bianco, senza riferimenti alla disciplina urbanistica, Regioni e Comuni non sono nemmeno nominati. Una specie di estensione dell’inaccettabile intervento governativo per Bagnoli deciso con il decreto Sbloccaitalia del 2014.

Un’assoluta novità sono infine i compendi agricoli neorurali che consentono la trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Non male per una legge nata per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente”.

Mi permetto un’ultima osservazione sulla scrittura della proposta, pleonastica, fitta di definizioni accattivanti ma inutili, di precetti al tempo stesso ridondanti e inefficaci (le Regioni che “orientano” l’iniziativa dei comuni), di compiaciute complicazioni procedurali (art. 3).

Le alternative possibili
a un testo inemendabile

Basta e avanza per confermare che si tratta di un testo inemendabile, come sosteniamo da tempo. Vediamo allora quali possono essere le alternative praticabili, tenendo conto che il passare del tempo non ha rallentato ma accelerato una vertiginosa espansione edilizia a bassa densità, il che rende ormai indifferibile il passaggio dal contenimento al definitivo blocco del consumo del suolo. La prima proposta alternativa è ovviamente quella elaborata da eddyburg nel 2013 che obbliga i comuni a localizzare i nuovi interventi nell’ambito del territorio urbanizzato, non consentendo nuova edificazione nel territorio non urbanizzato. La cornice costituzionale è fornita dal ricorso alla materia tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali – lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione –, grazie alla quale si può formare e approvare una semplicissima ed efficacissima legge ordinaria come quella che proponiamo senza bisogno di meccanismi a cascata, Stato-Regione-Comuni. È la stessa filosofia che ha ispirato la legge urbanistica della Regione Toscana del 2014, l’unica legge vigente in Italia che realizza il blocco del consumo di suolo, nonostante il rosicchiamento cui è sottoposta da quando Anna Marson non è più assessore.

La strategia dello stop al consumo di suolo perseguita con legge può essere affiancata da un’intelligente azione di governo tramite il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio. A partire dall’art. 145 del Codice che affida al ministero per i Beni culturali il compito di individuare “le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”. Linee che devono essere rispettate dallo Stato e dalle Regioni nella formazioni dei piani paesaggistici. Ma di queste linee non c’è traccia e l’approvazione dei piani paesaggistici è sempre ferma a Toscana e Puglia e alla parte costiera della Sardegna. Per il resto un vuoto desolante, mentre ministero e Regioni fanno a gara di disimpegno.

Ci fosse la volontà, non sarebbe difficile formulare indirizzi di tutela che obbligano i piani paesaggistici (e quindi i Comuni) a concentrare – anche in questo caso – le trasformazioni all’interno di un’insormontabile linea rossa che racchiude lo spazio edificato, distinto e separato da quello rurale e aperto. Se si affrontasse questo compito, con determinazione – insieme a un coraggioso impegno verso le Regioni –, per il ministero per i Beni culturali, squassato dalle cosiddette riforme, sarebbe, tra l’altro, una straordinaria occasione per recuperare credibilità e prestigio. Ma serve un’altra stagione politica.

Riferimenti

Per una valutazione complessiva della vicenda si vedano l'eddytoriale 148. e l'articolo Eddyburg e le norme sul cosumo di suolo. Analisi critiche puntuali del ddl sono contenute nell'articolo di De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e quelli di Cristina Gibelli,5 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani) e di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).

«Esiste una scienza o una tecnica per gestire l’amministrazione della polis ed evitare la guerra civile? Un saggio sulla "politica" greca di Giuseppe Cambiano, "Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele" ». Il manifesto, 10 luglio 2016 (c.m.c.)

La città è una nave che, per affrontare le insidie del mare, ha bisogno di piloti esperti: è la metafora sottesa al titolo del bel libro di Giuseppe Cambiano sul governo della città in Platone e Aristotele Come nave in tempesta, (Laterza, Storia e Società, pp. 270, euro 24,00). Una metafora tradizionale nella cultura greca e ancora oggi silenziosamente depositata nei nostri termini «governo» e «governare» che, nel greco antico (kybernein), appartenevano al lessico marinaro.

Come accade alle buone metafore, è un’immagine che costruisce un quadro concettuale entro cui pensare e farsi domande: che qualità deve possedere il pilota/governante «esperto»? Esiste una «scienza» o una «tecnica» del pilotare/governare? Come gestire i conflitti, esterni e interni, alla nave/città?

Emergono intorno a queste domande questioni cruciali della riflessione politica antica e moderna, che Cambiano mette a fuoco attraverso l’analisi delle posizioni di Platone e Aristotele senza appiattirle sull’attualità ma sempre inserendole nel loro specifico contesto.

La questione centrale – tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni del dopo Brexit – riguarda il rapporto tra competenza ed esercizio del potere. Una questione difficile che Cambiano affronta a partire da un aspetto apparentemente secondario, quello della rotazione delle cariche, tipico della «democrazia» ateniese (nella quale, non va dimenticato, la partecipazione effettiva era riservata ai cittadini, liberi, maschi, adulti).

Il meccanismo della rotazione, intrecciato con quello del sorteggio, mirava a impedire la concentrazione del potere nelle mani di singoli o gruppi ostacolando così la riduzione della politica ad attività specializzata. Sia Platone sia Aristotele accettano nella sostanza questo principio declinandolo però in forme diverse, coerenti con la loro prospettiva generale.

Nella città ideale di Platone, la rotazione riguarderà soltanto la classe dei governanti/filosofi e servirà, più che a impedire concentrazioni di potere, a «mitigare la costrizione a governare» cui sono soggetti i filosofi, consentendo loro di tornare a svolgere l’attività di ricerca del sapere. La celebre tesi platonica dei filosofi al potere, infatti, non va intesa in senso tecnocratico: i filosofi non sono (e non devono essere) politici di professione e anzi saranno governanti migliori proprio perché non desiderano governare. È invece nel Politico che Platone delinea il concetto di scienza (episteme) specificamente politica il cui possesso (che nella linea socratico-platonica implica anche possesso di virtù) legittima un esercizio del potere anche indipendentemente dal consenso dei governati.

Proprio questo è il punto di massima divergenza tra Platone e Aristotele. La posizione platonica, secondo Aristotele, sarebbe accettabile solo a patto di annullare la differenza tra la sfera dell’oikos (casa) – dove resta ammissibile il dominio permanente di uno solo su figli, donne e schiavi (equiparati a possessi materiali) – e la sfera della polis composta invece da individui in linea di principio simili tra loro (homoioi) e liberi.

La rotazione delle cariche consente allora di mantenere l’equilibrio tra governare ed essere governati, ruoli che un buon cittadino deve sapere alternativamente ricoprire, perché entrambi necessari al buon funzionamento della polis. È anche vero, però, che Aristotele stesso prevede l’opportunità di correttivi (per lo più su base censitaria) che regolino il meccanismo della rotazione e limitino (o evitino del tutto) il ricorso al sorteggio. Riemerge così, anche nell’orizzonte di una comunità di simili, la questione del rapporto tra competenza, virtù ed esercizio del potere.

Per Aristotele, la qualità specifica del buon governante non è il possesso di una presunta scienza (episteme) politica ma la difficile virtù della phronesis, consistente essenzialmente nella capacità di valutare (e deliberare) caso per caso con una particolare sensibilità per le circostanze. Il discrimine tra Platone e Aristotele sta dunque – Cambiano non lo esplicita ma è utile farlo – nel fatto che per Aristotele il dominio delle scelte politiche rientra a pieno a titolo nell’ambito di ciò che può essere diversamente da com’è rispetto al quale non può darsi una scienza in senso stretto. È il dominio di ciò che è intrinsecamente discutibile nel quale divergenze e conflitti sono inevitabili e non risolvibili con il semplice ricorso alle «competenze».

A ben guardare, la vera posta in gioco è proprio la questione del conflitto o, meglio, il bisogno di evitare il conflitto interno alla città (la «guerra civile») che i greci chiamavano stasis, qualcosa di molto diverso dal polemos, che era invece la guerra contro i nemici «esterni», i «barbari» innanzitutto. Mentre la stasis era percepita come il pericolo peggiore per una polis (per Platone una vera e propria malattia che sovverte l’ordine naturale) da evitare a tutti i costi, il polemos, per quanto deprecabile, era invece in generale ritenuto come un male inevitabile e per certi aspetti addirittura «naturale», il che però non significa automaticamente «giusto».

Il compito principale del bravo pilota di questa nave in tempesta è dunque quello di impedire (o almeno ridurre al minimo) la stasis – questa terribile malattia della polis – garantendo homonoia (concordia) e philia (amicizia) tra i cittadini. Di nuovo su questo punto però le posizioni di Platone e Aristotele divergono: mentre per il primo l’unico antidoto ai conflitti interni è la piena condivisione delle emozioni e l’eliminazione della sfera del privato (fonte primaria del conflitto stesso), per Aristotele, invece, la comunanza di affetti e di beni rappresenta anzi un ostacolo alla realizzazione dei legami di amicizia. Ai suoi occhi, il Socrate della Repubblica commette l’errore di voler «trasformare una symphonia in una homophonia, un insieme coordinato e armonico di suoni in un solo identico suono».

Vera homonoia per Aristotele non è, infatti, l’identità delle opinioni ma una convergenza di interessi e desideri che può essere solo in parte raggiunta grazie all’educazione (paideia) ma mai pienamente realizzabile perché «infinita è la natura del desiderio».

In questo quadro, Cambiano affronta anche un altro aspetto spinoso del pensiero politico antico, quello della schiavitù, ricostruendo con equilibrio e acutezza argomentativa il dibattito tra Aristotele e gli «oppositori anonimi» della schiavitù, un dibattito che si intreccia con quello, non meno complesso, del rapporto tra nomos (legge), physis (natura) e giustizia. La principale difficoltà che Aristotele incontra nella sua giustificazione della schiavitù riguarda il corpo dello schiavo, in tutto e per tutto identico a quello del libero. Questa identità mette in crisi l’idea di una differenza naturale tra liberi e schiavi e fa venire alla luce tutta la difficoltà della stessa nozione di legge naturale.

Al di là delle singole interpretazioni (che riguardano anche altri temi, come il rapporto tra catastrofi naturali e storia umana o il ruolo dell’alimentazione) il libro è interessante innanzitutto perché non ci consegna una visione idilliaca o romantica del pensiero politico greco ma ne fa emergere difficoltà e contraddizioni, che non sono poi così lontane dalle nostre stesse difficoltà e contraddizioni.

A completare questo quadro avrebbe forse potuto contribuire anche una maggiore attenzione al ruolo della retorica nella conduzione di questa nave in tempesta, non fosse altro perché è proprio la retorica, agli occhi di un greco di quell’epoca, l’arte più vicina a quella del governare le navi.

«Il vincitore del premio Strega, compagno di scuola degli autori del massacro, parla del suo romanzo dominato dal tema della sopraffazione sessuale. "È importante non trincerarsi dietro lo sdegno preventivo perché siamo tutti contaminati dalla violenza"». La Repubblica, 10 luglio 2016 (c.m.c.)

Edoardo Albinati ha appena vinto il Premio Strega con un libro non solo importante per mole (quasi 1300 pagine), ma crudo nella tematica, un romanzo che gira intorno al buco nero della violenza contro le donne.

La scuola cattolica (Rizzoli) trae spunto da un episodio di cronaca nera, il delitto del Circeo, e da lì s’irradia per cerchi concentrici per cercare di capire quale possa essere la radice culturale dell’aggressività. Albinati è stato compagno di scuola, all’istituto San Leone Magno a Roma, dei tre protagonisti del massacro del 29 settembre del 1975, Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira.

Come mai ha voluto affrontare un argomento tanto scomodo?
«Perché la letteratura ha anche il compito del disvelamento. Non volevo ammantare il delitto di alcun aspetto seduttivo, ma raccontarlo nella sua crudezza. Il mio obiettivo non era informare, ma interrogarsi ».

Mostrare la violenza, esporla, renderla pubblica, far vedere un volto ferito o le fotografie di un’aggressione, può essere utile?
«Non lo so, penso che la cosa importante sia non trincerarsi nello sdegno preventivo. L’ho detto, lo ripeto: ho il 99% delle cose in comune con chi compie azioni violente ».

Potrebbe spiegarsi meglio?
«È importante accettare l’idea della contaminazione con la violenza. Forse può non entusiasmarci, ma siamo tutti coinvolti, tutti contaminati. Certo, è più facile allontanare da sé il male, pensare che non ci riguardi, che noi siamo diversi. La ferita del delitto del Circeo fu in qualche modo suturata additandone i responsabili come mostri. Così da una parte mettevamo i “perversi” e dall’altra c’eravamo noi. È ciò che in altri tempi si sarebbe definito “falsa coscienza”».

Nel suo libro imputa a una certa idea di mascolinità la responsabilità dell’aggressività. Addirittura scrive: «Nascere maschi è una malattia incurabile».
«Purtroppo – lo dicono tutti gli studi sulle teorie di genere – la mascolinità è una costruzione fatta di modelli da imitare che creano frustrazione, perché nessuno riesce a stare alla loro altezza. Insomma, il maschio è colui che manca il bersaglio di essere maschio».

È da qui che può nascere la voglia di rifarsi?
«Mi viene in mente una frase di Kafka: “C’è un punto di non ritorno, quel punto va toccato”. Il mio punto di non ritorno, ciò di cui volevo parlare, è la malattia incurabile dei maschi».

Perché incurabile?
«Mi sembra che il modello maschile sia oggi in crisi più che mai. Se è infatti vero che abbiamo superato il prototipo di virilità del passato, è anche vero che non è stato sostituito da nulla. Mentre il modello femminile si è aggiornato».

Quali sono gli stereotipi culturali da cui dovremmo cercare di liberarci?
«Gli uomini hanno un bisogno di tenerezza profondissimo, ma non possono esprimerlo liberamente. Hanno paura che venga scambiato per omosessualità. Ma proprio quel desiderio frustrato alla fine si rivolge in modo brutale contro le donne ».

Nel suo libro la violenza abita in un quartiere borghese, tra le cosiddette persone perbene. È anche questo un modo per dire che riguarda tutti, non solo chi vive nel degrado?
«Thomas Mann diceva che il borghese è l’individuo che ha più punti di contatto con l’intera umanità. All’interno del suo mondo osserviamo tutti gli atteggiamenti possibili. Nel caso del delitto del Circeo si pensò subito che non potesse avere per protagonisti ragazzi di buona famiglia. Ma pensare in questo modo è un’altra forma di difesa. Chiunque può fare qualsiasi cosa a chiunque».

Lei insegna nel carcere di Rebibbia. La scuola può cambiare la società?
«A patto che non diventi una routine. In galera la situazione è di emergenza, posso sperimentare subito se le mie parole hanno effetto».

Quanti anni ha lavorato al libro?
«Più di nove anni. Nove anni per chiedermi: come faccio a venire a capo di un male che mi appartiene?».

Corriere Fiorentino, 9 luglio 2016
Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una serie di modifiche alla LR 65/2014 sul Governo del territorio. Le modifiche sono state presentate come ‘tagliando di manutenzione’, recepimento di semplificazioni presenti nelle norme nazionali’, ‘rafforzamento della filiera istituzionale’, oltre che finalizzate a rendere l’‘agricoltura più facile’, dichiarando che esse non intaccano comunque i pilastri della legge, che rimane la più avanzata in Italia per quanto riguarda le misure di prevenzione del consumo di suolo.

Convengo su quest’ultima valutazione. Anche a valle delle modifiche intervenute, la legge 65/2014 rimane l’unica legge vigente, in Italia, ad affrontare seriamente il tema del blocco del consumo di suolo. Così seriamente che si è sentita l’esigenza di “alleggerirla”.

Dissento invece sulla comunicazione che si sia trattato di un intervento di sola “manutenzione”. La modifica era stata in effetti avviata con questa intenzione, per correggere alcune incongruenze prodotte da emendamenti approvati all’ultimo minuto, e per recepire nuove norme nazionali in materia di edilizia e appalti.

Strada facendo, tuttavia, le proposte di modifica si sono allargate, ed è passato il segnale, politico, che alcuni interessi potevano ottenere risposta. Mi sembra pertinente ricordare, in proposito, che la legge 65 è stata a suo tempo approvata dall’intera coalizione di centro-sinistra al governo, e con il contributo anche della sinistra esterna alla maggioranza, al termine di un apio processo di consultazione e partecipazione. Questa legislatura è radicalmente diversa, con il PD solo al comando grazie al consistente premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale regionale, che può decidere senza confronto quali interessi soddisfare. Il tutto con una curiosa desistenza del centro-destra, nel voto a queste modifiche, spiegabile soltanto con qualche accordo implicito al riguardo.

Nel merito delle modifiche intervenute: i ‘pilastri’ che reggono l’impianto della legge sono in effetti ancora in piedi, come dichiarato da più esponenti del PD, ma le rosicchiature di fattispecie di trasformazioni e di parti di territorio “liberate” dalla legge sono state numerose, con effetti che potremo concretamente verificare soltanto nel tempo a venire.

Le principali riguardano l’indebolimento della cosiddetta “filiera istituzionale” faticosamente ricostruita dalla LR 65, ovvero la verifica congiunta fra Comuni e Regione delle trasformazioni più rilevanti, con procedure capaci di garantire adeguata informazione ai cittadini, in tempo utile per poter intervenire nei procedimenti.

D’ora in poi (per le modifiche è stata richiesta l’entrata in vigore urgente) una serie di trasformazioni rilevanti saranno sottratte alla conferenza di copianificazione, o comunque approvate con procedure semplificate. Ad esempio, le grandi trasformazioni in territorio rurale presentate dalle aziende agricole, anche con perdita delle destinazioni d’uso rurali, saranno di esclusiva competenza comunale se insistono su un territorio classificato dai Comuni stessi come urbanizzato. Ancora in territorio urbanizzato, si potranno spostare con semplici varianti semplificate nuovi volumi da un quartiere all’altro, da una frazione a un’altra distante anche molti chilometri, senza consultazione preventiva né dei cittadini né della Regione.

Nel territorio rurale, dove la semplificazione degli atti necessari agli agricoltori per esercitare la propria attività era stata una delle innovazioni principali introdotte dalla legge 65, le modifiche ora intervenute consentono la trasformazione dei nuovi annessi agricoli in residenze per gli agricoltori, operazione puramente funzionale a ulteriori cambi di destinazione d’uso, avendo gli agricoltori già diritto per legge a un’abitazione rurale. Perché ora tradire il patto d’onore stretto a suo tempo a questo riguardo con le rappresentanze degli agricoltori?

E così via con altre modifiche che vanno in direzione analoga, come quella di ammettere il frazionamento dei sottotetti recuperati all’uso abitativo senza aumento degli standard urbanistici pubblici, gravando così sugli utenti dei servizi già esistenti.

Infine, le modifiche congiunte alle leggi sul governo del territorio e sulle opere strategiche attribuiscono alla sola regione il potere di decidere gli ampliamenti delle opere esistenti. Questo processo di centralizzazione delle decisioni, per produrre scelte più efficaci, dovrebbe obbligatoriamente essere accompagnato dall’attivazione di azioni partecipative con una approfondita discussione pubblica delle alternative. Purtroppo la non attuazione del dibattito pubblico previsto dalla legge regionale sulla partecipazione per le grandi opere e dallo stesso PIT per quanto riguarda l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze non fa sperare nulla di buono al riguardo.

La beffa, in questo caso, è data dal fatto che sia le misure di contrasto al consumo del suolo che l’introduzione del dibattito pubblico obbligatorio per le grandi opere sono attualmente due temi presenti anche sull’agenda del governo nazionale. Saprà la Toscana non perdere il proprio primato non solo teorico, ma anche d’azione, al riguardo?

«Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana.». Il manifesto, 9 luglio 2016

Era già successo lo scorso 24 giugno: la sindaca Virginia Raggi freschissima di insediamento era rientrata in Campidoglio alla fine di una giornata intensa, richiamata dall’impellenza di dover firmare dei documenti. Aveva colto l’occasione del ritorno in ufficio per incontrare le donne dei ventidue Centri antiviolenza romani la cui convenzione col Comune non era stata rinnovata dal commissario Tronca. La delegazione era salita dalla piazza del Campidoglio all’ufficio della sindaca. Le donne avevano raccolto la disponibilità a farsi carico del problema, raccontando tra l’altro di averla vista provata da quei primi giorni di lavoro e da quelle che abbiamo scoperto essere le difficoltà di composizione della giunta.

È successo di nuovo, e la circostanza fa pensare ad un atteggiamento non casuale ma ad una scelta che assomiglia ad un messaggio preciso ai protagonisti delle vertenze romane. I manifestanti della rete Decide Roma che si erano radunati sulla scalinata che conduce alla piazza del monumento equestre a Marco Aurelio e ai quali è stato impedito di arrivare davanti all’aula consiliare dalla questura, sono stati ricevuti da alcuni assessori freschi di nomina della appena nata giunta capitolina. C’erano l’assessore all’urbanistica e ai lavori pubblici Paolo Berdini, la responsabile dell’ambiente Paola Muraro e Laura Baldassarre, che nella squadra di Raggi si occupa di scuola e politiche sociali. «Sono state sottoposte loro le urgenze dei lavoratori dei canili comunali e dei servizi d’accoglienza: «Internalizzare è l’unica soluzione in grado di garantire livelli occupazionali, qualità del servizio, minori costi per l’amministrazione», hanno detto lavoratori e attivisti agli assessori. «La nostra lotta si basa sul controllo popolare e partecipato da parte di cittadini e lavoratori sui servizi e su tutti i beni comuni urbani – ribadiscono da Decide Roma all’indomani del colloquio con gli assessori -. Misureremo la nuova amministrazione alla prova dei fatti, senza sconto alcuno». Il prossimo appuntamento è per il 20 luglio in piazza dei Sanniti, nel quartiere di San Lorenzo, per una «assemblea di autogoverno» cui dovrebbe partecipare proprio l’assessore Berdini. Dal canto suo, Paola Muraro ha preso l’impegno di andare a trovare i lavoratori del canile della Muratella che autogestiscono il servizio in attesa che il Comune prenda le opportune decisioni.

Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana. La sfera decisionale dell’amministrazione pentastellata pare muoversi all’interno di cerchi concentrici. Le giornate, convulse e a porte chiuse, delle nomine e del confronto tra diverse anime, potrebbero avere una coda velenosa: Daniela Morgante, magistrata della Corte dei conti e già assessora al Bilancio nella giunta Marino, non avrebbe preso la frenata sulla sua nomina. Potrebbe mollare. Ieri intanto però Raggi è uscita dall’inner circle e ha riunito la maggioranza ancon i tavoli di lavoro e i cittadini che hanno partecipato assieme al M5S romano alla scrittura del programma e che già l’altro giorno, alla prima convocazione del consiglio, riempivano ostentando spillette pentastellate e gadget la piccola platea dell’aula. «Stiamo discutendo delle linee programmatiche, ci sono anche gli assessori – spiega Paolo Ferrara -. Si tratta del primo documento che rispecchia il programma, con le priorità trasporti, rifiuti e trasparenza». Tra le impellenze una in particolare, discussa ieri con l’assessore Marcello Minenna: l’assestamento di bilancio da approvare entro la fine di questo mese.

«Torino. Il centro piemontese fin dagli anni Novanta è la culla di una politica nuova e trasversale, contro le "grandi opere" e il consumo del territorio che tanto piacciono a Fi e Pd. Dalla giunta locale di Mauro Marinari la neosindaca M5S Chiara Appendino ha prelevato il suo vice, e ispirazione». Il manifesto, 9 luglio 2016

Relegato a fenomeno di costume prima, e di ordine pubblico poi, il movimento No Tav ha silenziosamente gemmato organizzazioni politiche che hanno preso piede in tutta Italia: un percorso ventennale, cominciato nei piccoli comuni della val Susa, conquistati uno ad uno.

La storia che raccontiamo è accaduta nell’unico posto d’Italia dove fosse possibile, perché sintesi tra un uomo duttile ma resistente e una comunità culturalmente egemonica, nata ben prima di lui: il tutto in un contesto specifico, il territorio che dovrebbe essere attraversato dalla Torino-Lione.

Ma facciamo un passo indietro. Nel dicembre 2005, dopo la «battaglia» di Venaus, su un palco montato in un periferico parco della città Alberto Perino, Beppe Grillo, Dario Fo, e Marco Travaglio arringavano sessantamila valsusini e qualche stranito torinese. La città vetrina che viveva l’apice della sua trasformazione allontanava dal centro patinato quello strano mondo incomprensibile che non voleva un’infrastruttura. Tra l’enorme folla che si accalcava sotto il palco c’era Mauro Marinari, dipendente del comune di Torino e politico in un importante centro satellite della metropoli, Rivalta, 20 mila abitanti, incastonati tra Beinasco e Rivoli. Nel 2005 si parlava ancora di appartenenze partitiche, anche se, sulle cose che compongono la vita dei territori, strane convergenze destra-sinistra risultavano evidenti: come nel caso della Torino – Lione, su cui tutti concordavano e concordano.

A Rivalta, in quel tempo, si concentravano tensioni sociali che non trovavano ascolto, e quasi tutte traevano origine da un utilizzo del territorio impattante. Ci sono due inceneritori di rifiuti speciali, la cementificazione dilagante che fagocita territorio agricolo e lascia scheletri di capannoni e centri commerciali, e soprattutto la prospettiva del Tav, la «grande opera» per eccellenza. Il progetto prevede, ancora oggi nonostante che dei primi schizzi rimanga solo più il tunnel di base, una trincea larga cento metri che sventrerebbe il territorio. Questo perché la nuova linea proveniente dalla Francia deve a tutti i costi raggiungere lo scalo merci di Orbassano, mega opera voluta negli anni Settanta e ormai abbandonata.

Solo poche settimane, fa l’esecuzione di alcuni carotaggi ha sconvolto la vita del paese, che ha visto arrivare truppe antisommossa incaricate di tenere a bada la cittadinanza ma soprattutto la giunta, dichiaratamente contraria all’opera. Ma questo accade oggi. Al contrario, nei primi anni del nuovo millennio, lo schema politico di Rivalta era uguale a quello presente in tutta Italia: centrosinistra al potere con consenso verso le grandi opere e sfruttamento economico del territorio grazie agli oneri di urbanizzazione.

Qui, Mauro Marinari faceva politica. È un uomo di sinistra, arriva dalla Rete, poi transita per due anni nel Pds, pacifista e ambientalista: si inventa la politica della sostenibilità, fumoso concetto accademico che aggettiva il sostantivo «sviluppo». Lo fa grazie alla presenza di una comunità locale già strutturata, che lotta da tempo, e ha creato il terreno fertile per una spinta progressista. Un uomo delle istituzioni nella sua Rivalta, dove nel tempo ha coperto diversi ruoli da assessore, ma soprattutto è un instancabile attivista che porta avanti battaglie, osservate con stupore e poca comprensione dai suoi compagni di partito, per la pace, contro il consumo di suolo, contro l’alta velocità, per il riciclo dei rifiuti.

Marinari, e chi lo circonda, per lungo tempo parla un linguaggio incomprensibile, mentre lui dialoga con chi lo compatisce o lo prende per pazzo, l’onda del movimento No Tav si ingrossa e si avvicina sempre più verso Torino e la sua periferia. Un mondo raccontato come afflitto dalla sindrome nimby, afflitto dai black bloc, dai centri sociali, ma che affronta le stesse tematiche di Mauro Marinari con la stessa metodologia: vasta partecipazione e una sola richiesta, le appartenenze, soprattutto i simboli, rimangono fuori dalla porta della stanza dove si discute.

Il «Comitato di cittadinanza attiva Rivalta Sostenibile» nasce nel 2001 nel mare magnum di Genova 2001: dentro ci sono i lillipuziani, i No Tav, cattolici, ex comunisti, un po’ tutto. Inizia come un’organizzazione tradizionale che chiede di essere ascoltata, e dato che un confronto serio non giunge mai si ingrossa mese dopo mese, anno dopo anno.

Rivalta Sostenibile è il simbolo di una parte di Italia che inizia in quegli anni a guardare con sospetto la propria casa di appartenenza, il centrosinistra, e dopo il sospetto giunge la convinzione che debba esserci la rottura definitiva costi quel che costi. Marinari e compagni però non si limitano a protestare ma iniziano ad organizzare conferenze su temi che ai più suonano stravaganti: la decrescita economica, la teoria del cemento zero, corsi di riciclo dei rifiuti. Sono contro le grandi opere, le privatizzazioni dei servizi; il gruppo analizza in serate pubbliche le politiche del Wto e affronta il problema degli Ogm. Si tratta di prospettive per una nuova sinistra, che però fatica a comprendere quei mondi e le giudica antimoderne, luddiste e, pure, «roba da casinisti».

Passa il tempo, si giunge al 2007. Il Movimento 5 Stelle, ancora in forma di MeetUp e senza l’acronimo attuale, sta muovendo i primo passi, Mauro Marinari e Rivalta Sostenibile si inventano le primarie. Arrivano alle elezioni ed entrano in consiglio comunale, dove iniziano a fare opposizione pesante. Aumentano la frequenza di approfondimenti culturali sul territorio, continua la spinta sul grande contenitore della «sostenibilità».

La vicenda Tav passa dal locale al nazionale, Rivalta con il nuovo tracciato voluto dall’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione presieduto da Mario Virano è sempre più coinvolta nel progetto. Buona parte della sinistra tradizionale continua a far spallucce, a giudicare un fenomeno di costume quel mondo strano, non comprensibile, che si oppone alla costruzione dei capannoni e invita a parlare Serge Latouche e don Andrea Gallo.

Arriva la rottura totale con le origini, «il rifiuto di considerarsi di sinistra perché la sinistra è ormai ultra liberista». Marinari, ben prima di Grillo, parla di fine delle appartenenze, e professa l’analisi delle idee sulle cose al di là delle simbologie nominali.

A Torino, poco distante, la commistione banca-partito-Fiat è l’orizzonte culturale del centrosinistra a guida Pd. Si sta aprendo una forbice percettiva enorme. Nel 2011 il M5S prende il 3,5% sotto la Mole, l’anno successivo, nelle elezioni comunali, Rivalta Sostenibile vince contro ogni previsione: il M5S non si presenta all’appuntamento elettorale nella cittadina e da Grillo giunge il sostegno pubblico.

Lo schema è semplice: al primo turno riescono a raggiungere il ballottaggio, al secondo dilagano. La sinistra tradizionale non comprende la batosta, parla di pericolo imminente.

Marinari nomina assessore all’urbanistica Guido Montanari, docente del politecnico di Torino, che blocca il piano regolatore facendo infuriare i costruttori. Il nuovo sindaco riduce gli sprechi e dirotta i fondi sui servizi, denuncia il taglio delle risorse da parte dei governi centrali agli enti locali, esce dall’Osservatorio di Virano, vuole la trasformazione dell’azienda dell’acqua, la Smat, da ente di diritto privato a pubblico, facendo così infuriare Piero Fassino.

La fu appartenenza politica è superata completamente, destra e sinistra per Mauro Marinari, ex componente della segreteria provinciale del Pds, non esistono più, sono «categorie del pensiero fuori tempo che bloccano la collaborazione delle persone comuni sulle cose.»

Passa ancora il tempo, si giunge alle elezioni comunali di Torino di poche settimane fa.

La candidata del M5S nomina assessore in pectore all’urbanistica, posto strategico per eccellenza, Guido Montanari, prelevandolo da Rivalta. Il quale non si tira indietro e annuncia una politica cemento zero, il conteggio delle case vuote in città, contrarietà al Tav, valutazione analitica di tutte le grandi opere previste per Torino.

Parte il cannoneggiamento a palle incatenate verso l’assessore in pectore, con gli stessi argomenti utilizzati per Marinari nel 2012: antimoderno, stravagante, vuole bloccare il progresso.

Chiara Appendino dunque vince le elezioni nel 2016 con lo stesso schema utilizzato da Mauro Marinari quattro anni prima, e come risposta alle accuse di antimodernismo e luddismo nomina, anche come vicesindaco, Guido Montanari, che si dimette da assessore a Rivalta. Insomma, a posteriori, si può dire che nella piccola Rivalta, un tempo conosciuta solo per lo stabilimento Fiat, c’erano le basi per una nuova sinistra che in molti non hanno voluto vedere.

«Il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino. Non interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti». Il Fatto Quotidiano online, 7 luglio 2016 (c.m.c.)
Da molti anni cerco di spiegare quali metodi possano modificare il concetto di bene comune inteso come volontà di far applicare un sistema di controllo sull’operato dei medici più vicino al paziente in modo da avere maggior salute e minore spesa sanitaria, in parte dovuta alla medicina difensiva, che si combini con la gestione soggettiva dei dati sanitari, che diventa a sua volta un controllo indiretto.

La politica resta sorda e non ha accettato alcun mio suggerimento e, tanto meno, vuole coinvolgere una persona che possa chiarire o far risparmiare: se non interessa la salute alla politica non interessa la vita delle persone. Questo solo perché il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino.

Robert Kennedy nel suo storico discorso all’Università del Kansas del 18 marzo 1968 diceva:

«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo.

«Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

«Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».

A nessuno interessa produrre salute, a tutti interessa produrre tutto quello che gravita intorno alla malattia, consumandolo appena prodotto. In questa ottica entra la produzione di strumentario diagnostico e chirurgico che cambia come per i cellulari, piccole modifiche per far diventare immediatamente obsoleto il precedente.

In questa ottica gravita la produzione di farmaci spesso inutili o controversi come i vaccini antinfluenzali; superflui, come le lacrime artificiali che in Italia sono arrivate a circa duecento tipi differenti; costosi, come Lucentis inutilmente costoso rispetto al sovrapponibile Avastin.

A nessuno interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti. A nessuno interessa andare a trovare nuovi sistemi di riduzione di spreco diagnostico, clinico, chirurgico o farmaceutico.

Forse è venuto il momento di cambiare l’indicatore che misura lo stato di salute di un Paese partendo proprio da una radicale riforma dei sistemi e del concetto di salute e di benessere.

Individuazione di criticità da superare per evitare il degrado di una delle città più rappresentative dell'Italia e tutelata ancora dall'Unesco. La città invisibile, newsletter #45, 6 luglio 2016

Arriveranno a Firenze gli ispettori dell’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella promozione della pace e della comprensione tra i popoli attraverso l’istruzione, la scienza e la cultura. Non si sa quando, ma arriveranno. Firenze è uno dei nodi più importanti al mondo in questa strategia, considerate la cultura che ha saputo esprimere e la sua capacità, nel passato, di aggregare intelligenze e pratiche straordinariamente innovative in tanti settori. Sono ben due infatti i “nostri” siti Unesco: il Centro storico, unico al mondo, e le meravigliose Ville e Giardini medicei che costellano Firenze.

L’ispezione avrà l’obiettivo di comprendere, visto il degrado in cui è precipitata la città a causa di politiche troppo spesso inadeguate e soprattutto dannose, se Firenze è ancora all’altezza dell’importante doppio riconoscimento.

Con questi punti vorremmo quindi definire meglio alcune delle criticità che mettono a rischio il premio dell’Onu; ne sono responsabili le amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni, ma non solo, sono altri e più pressanti i poteri che pregiudicano il futuro della nostra città.

Criticità che possono rappresentare naturalmente anche una traccia per il lavoro degli stessi ispettori. Che sono tenuti a pretendere, dai decisori e responsabili politici, l’eccellenza di quei siti che hanno il compito di tutelare.

Ecco i 12 punti più critici:

1) L’alienazione del patrimonio edilizio storico monumentale pubblico/privato: alle vendite viene garantito il cambio di destinazione per usi alberghieri o residenze di lusso e si garantisce la realizzazione di garages sotterranei, situati nella falda freatica.

2) L’escavazione di 21 parcheggi sotterranei in area urbana, di cui ben 6 in zona Unesco, tra cui il parcheggio sotterraneo di Piazza Brunelleschi. L’ulteriore escavazione di parcheggi sotterranei nell’area di Via Tornabuoni, in particolare sotto il giardino di Palazzo Antinori, a ridosso della Prima e della Seconda cinta muraria di Firenze.

3) La realizzazione del nuovo aeroporto intercontinentale di Peretola, con la buffer zone e traiettorie degli aerei sulla verticale di ambedue i siti Unesco: Centro storico e Ville Medicee. Previsto il raddoppio dei passeggeri in transito di circa 4,5 milioni/anno (vedi punto 6).

4) La realizzazione di una linea tramviaria nel sottosuolo del Centro storico, che metterebbe a rischio la stabilità degli edifici del Sito Unesco e l’integrità dei reperti archeologici sotterranei.

5) Gli scavi dei tunnel nell’area Fortezza da Basso/Santa Maria Novella: per l’Alta Velocità, sotto la Fortezza da Basso e Piazza della Libertà; per la nuova stazione ferroviaria AV, sotterranea e a ridosso del torrente Mugnone; per le varie gallerie veicolari utili al transito in superficie della tramvia.

6) L’insostenibilità acclarata della pressione del turismo sul Sito Unesco: oltre 9 milioni/anno le presenze, occasione di sviluppo di bassa qualità e causa di forte degrado strutturale e di allontanamento dei fiorentini dal Centro storico della loro città (vedi punto 10).

7) L’utilizzo improprio delle Piazze del centro storico in occasione di manifestazioni varie e mercatini con allestimento di strutture temporanee fortemente invasive, fuori scala rispetto all’equilibrio architettonico degli spazi, costruite con materiali incompatibili esteticamente con l’ambiente (in particolare Santa Croce e S.S. Annunziata) e penalizzanti per la vita degli ultimi residenti del Centro storico (vedi punto 10).

8) La privatizzazione degli spazi pubblici della città per organizzazione di eventi riservati: Ponte Vecchio, Forte Belvedere, Accademia ecc. e soprattutto Palazzo Vecchio che ospita un numero esorbitante di iniziative con ingresso ad invito per cene servite nel Salone dei Cinquecento o in altri ambienti del percorso museale per centinaia di persone con allestimenti incongrui alla rilevanza del bene culturale.

9) La perdita dei significati storici e identitari del Sito Unesco. Evidenti i fenomeni di gentrification urbana e trasformazione della città in una Disneyland del Rinascimento: sostituzione delle botteghe artigianali e del piccolo commercio di prossimità con catene commerciali internazionali che omologano il Centro storico a una qualunque altra città. Ristorazione selvaggia e finta locale.

10) La progressiva ed inesorabile espulsione delle famiglie residenti nel centro storico a favore di turisti mediante trasformazione degli immobili in residenze temporanee (spesso al nero) con conseguente desertificazione del tessuto urbano centrale per quanto riguarda i servizi rivolti ai cittadini in favore del commercio per i non residenti (vedi punto 9).

11) Lo storno di risorse economiche dal pubblico al privato che pregiudica la sicurezza del Centro storico: il caso più eclatante è quello della voragine di Lungarno Torrigiani, crollo dovuto alla mancata manutenzione dell’acquedotto. Gli utili netti di Publiacqua spa non sono state destinate alla manutenzione ma suddivise come dividendi degli azionisti.

12) La realizzazione di mostre in luoghi chiave del Centro storico in cui può esporre chi paga, senza nessuna Commissione di valutazione sul valore delle opere. Un modo semplice, per chi ha i denari (collezionista/produttore) per alterare le quotazioni del mercato dell’arte utilizzando uno scenario unico al mondo.

Senza trasparenza, non si può decidere sulle Olimpiadi a Roma. Alcune associazioni chiedono di rendere nota la convenzione stipulata nel 1987, tuttora vigente, per la realizzazione dell'università di Tor Vergata. Carteinregola online, 5 luglio 2016 (m.b.)

Le associazioni CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio, scrivono al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito istituzionale la Convenzione stipulata nel 1987 con l’associazione temporanea di 19 imprese, capitanata dalla Vianini spa, vincitrice di una gara europea. Alla Sindaca Virginia Raggi chiedono di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica”.

Il gruppo Caltagirone ha annunciato querele per un servizio televisivo andato in onda su La 7 in cui l’ex assessore all’urbanistica Giovanni Caudo e l’assessore all’urbanistica in pectore Paolo Berdini commentavano la scelta del Comitato Promotore di Roma 2024 di realizzare il Villaggio olimpico a Tor Vergata, un terreno di proprietà dell’Università, quindi pubblico, parlando di una convenzione stipulata con il gruppo Caltagirone per l’esecuzione dei lavori ivi previsti. Dal comunicato, pubblicato su Il Messaggero il 14 giugno, apprendiamo che “La società Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, insieme ad altre 9 imprese di costruzioni (e quindi senza alcuna esclusiva), è concessionaria dei lavori per l’Università. Ciò a seguito di gara europea vinta nel lontano 1987. La quota di Vianini Lavori nel Raggruppamento Temporaneo di Imprese è di circa il 33%.” E’ una informazione rilevante, dato che il testo della convenzione per la concessione non è reperibile sul sito dell’Università, e che quindi i cittadini non ne conoscono i contenuti.

La vicenda, ricostruita con i pochi elementi a nostra disposizione, e quindi con molte lacune e possibili imprecisioni, è così sintetizzabile: nel 1979 viene approvata la legge per l’istituzione di alcune nuove università, che prevede che la progettazione e l’esecuzione unitaria delle opere possa essere affidata in concessione mediante apposita convenzione anche a consorzi di imprese, sulla base di uno schema di convenzione tipo, che comprende l’indicazione delle modalità di gara e di contabilizzazione per le opere e per le forniture da appaltare specificando che “l’affidamento in concessione dovrà avvenire con provvedimento motivato dell’Università sulla base di un confronto tecnico ed economico delle offerte a tal fine presentate a seguito di bando”. Nel 1986 viene indetta la gara, nel 1987 il Consiglio d’Amministrazione dell’Università delibera l’aggiudicazione della gara a un’associazione temporanea di imprese formata, oltre che dalla capogruppo Vianini spa, da altre 19 imprese (5), ognuna specializzata nel settore di competenza. Il 23 ottobre 1987 viene stipulata la convenzione “concernente la progettazione e la realizzazione dell’intero comprensorio universitario. “Le opere dovranno essere realizzate complete delle loro parti accessorie, degli impianti, dei servizi, delle attrezzature fisse e delle eventuali opere di urbanizzazione necessarie”. La Convenzione riserva all’Università medesima di definire i lotti funzionali da realizzare secondo la tempistica correlata all’approvazione dei progetti da parte delle autorità competenti, alle disponibilità finanziarie ed alle esigenze scientifiche, didattiche, culturali ed organizzative. Varie disposizioni della Convenzione prevedono un’esecuzione differita nel tempo degli interventi e rinviano la definizione di essi ad atti successivi”.

In pratica un’esclusiva concessa a un gruppo di imprese, senza limiti temporali – dato che la concessione è ancora vigente oggi, quasi trent’anni dopo – senza un budget prefissato, e, si dedurrebbe, senza neanche una quantificazione precisa delle opere da realizzare. Negli anni successivi, oltre alla messa in opera di strutture provvisorie, restauri di edifici esistenti e realizzazione di nuove edificazioni al servizio dell’università, l’area diventa anche uno spazio a disposizione dei progetti della città. Dopo un primo progetto dell’amministrazione Rutelli di realizzarvi un villaggio olimpico nel caso dell’assegnazione a Roma dei Giochi olimpici del 2004 (poi tenutisi ad Atene), la successiva amministrazione Veltroni vi colloca il progetto del complesso sportivo polifunzionale dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava che avrebbe dovuto ospitare i Campionati mondiali di nuoto 2009. Del progetto sarà realizzata solo la struttura dello stadio del nuoto, con l’intelaiatura della copertura a “vela a pinna di squalo” e la struttura di base dell’altro palazzetto per il basket e la pallavolo, a oggi entrambe incompiute. E ancora nel settembre 2015 è riproposta la localizzazione a Tor Vergata del villaggio olimpico per Roma 2024, ipotesi sostenuta dal comitato promotore guidato da Montezemolo e Malagò, in alternativa a quella del Sindaco e del suo assessore Giovanni Caudo, che già nel luglio precedente avevano presentato al CIO a Losanna un progetto che prevedeva invece di inserire il villaggio in un’operazione di rigenerazione urbana dell’area dell’ex areoporto dell’Urbe tra la Flaminia e la Salaria.

Ipotesi poi tramontata dopo la caduta dell’amministrazione Marino, lasciando quindi il campo al progetto di Tor Vergata, che, a causa della convenzione citata, potrebbe essere ancora vincolato all’esecuzione dei lavori da parte dell’associazione temporanea di imprese guidata dalla Vianini. Come del resto il completamento – previsto da entrambi i progetti – del palazzetto dello Sport di cui è stata edificata finora solo la base.

Ora sulla candidatura Olimpica, sull’eredità che i Giochi potrebbero lasciare alla città e sulla eventuale collocazione del villaggio deciderà la nuova Sindaca. In ogni caso, anche in considerazione dell’attuale dibattito rilanciato per Roma2024, riteniamo che i documenti relativi a una convenzione ancora vigente oggi – dal bando del 1987, alla convenzione e alle successive integrazioni – debbano essere pubblici e pubblicati sul sito dell’Università, trattandosi di un ente pubblico che conferisce soldi pubblici a privati che hanno vinto una gara pubblica.

Per questo alcune associazioni – CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio – hanno scritto al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito la Convenzione del 23.01.1987, Rep. 121 e tutti i documenti collegati, compresi quelli della Città dello Sport. Alla Sindaca Virginia Raggi hanno chiesto di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica“.

Il testo della lettera e tutti i riferimenti ai fatti e ai documenti citati nell'articolo sono consultabili sul sito carteinregola.it

Hanno inventato un nuovo animale: un mostro che si potrebbe definire: Vampiravvoltoio. Succhia il sangue ai pendolari delle ferrovie ex italiane e si getta a picco, rapace, per divorare quelle ancora greche. Il giornale degli ex industriali italiani plaude. Il Sole 24Ore, 5 luglio 2016

Pronta l’offerta di Fs per TrainOSE, la compagnia ferroviaria greca che il governo di Atene ha inserito tra gli asset da privatizzare. Ieri si è riunito in via straordinaria il consiglio di amministrazione del gruppo guidato da Renato Mazzoncini per affinare gli ultimi aspetti della proposta che dovrà giungere entro domani - quando scadrà la deadline per l’invio delle offerte vincolanti -, sul tavolo degli advisor finanziari cooptati per l’operazione (Investment Bank of Greece e Kantor Management Consultants). Già martedì scorso, a valle dell’inaugurazione della nuova terrazza Termini dello scalo ferroviario capitolino con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, il board di Fs aveva esaminato la documentazione per partecipare alla gara che vede in corsa anche il colosso russo Rzd (Rossijskie železnye dorogi) e ieri c’è stato un ulteriore passaggio tra i consiglieri per sciogliere anche gli ultimi nodi.

Ma quanto vale il deal? Sui numeri dell’offerta vige il massimo riserbo, ma era stato lo stesso ad Mazzoncini, intervenendo a fine marzo in audizione davanti alla commissione Trasporti della Camera, a fornire qualche indicazione in più sulla gara. «È una realtà piccolissima perché non riguarda i binari - aveva spiegato l’ingegnere bresciano - è un’operazione che potrà valere meno di 100 milioni di euro». TrainOSE, stando agli ultimi dati disponibili, ha un fatturato annuo di 130 milioni di euro e un Ebitda di 2 milioni, con un patrimonio netto di circa 40 milioni di euro. La società è stata fondata nel 2005, inizialmente come filiale della compagnia statale OSE Sa, per fornire servizi trasporto passeggeri e merci, e nel 2013 è stata trasferita sotto le insegne dell’agenzia governativa greca per le privatizzazioni (Hellenic Republic Asset Development Fund, Hradf) con l’obiettivo di essere ceduta sul mercato.

Un primo tentativo di vendita, attuato proprio in quell’anno, finì però nel vuoto per la mancata presentazione di offerte vincolanti dopo che la francese Sncf, la rumena Grup Feroviar Roman e gli stessi russi di Rzd avevano depositato una manifestazione d’interesse. Ora, pressato dalla necessità di rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, il governo di Atene ha ripreso in mano l’operazione e sta provando a privatizzare anche la società di manutenzione Rosco, anch’essa nata dopo la scissione delle ex ferrovie greche. Così, a gennaio, il cda di Hradf ha deciso di riavviare la procedura di vendita di TrainOSE con scadenza fissata per domani per raccogliere le offerte vincolanti dopo i numerosi rinvii delle ultime settimane.

Ferrovie è quindi decisa a tentare l’affondo per assicurarsi un varco oltreconfine a fronte di un impegno finanziario che, stando ai numeri diffusi dallo stesso ceo Mazzoncini, non dovrebbe essere enorme. Peraltro la Grecia non è l’unico dossier internazionale su cui il gruppo si sta misurando. A febbraio, come si ricorderà, l’ad era volato a Teheran per firmare con il viceministro dei Trasporti e presidente di Rai (Ferrovie iraniane), Mohsen Pour Seyed Aghaie, un memorandum of understanding che, di fatto, avviava la cooperazione tra i due gruppi per la realizzazione delle linee dell’Alta velocità Teheran-Hamadam e Arak-Qom e apriva altresì la strada alle controllate Italcertifer (certificazione) e Italferr (ingegneria). La prima è stata chiamata a lavorare alla progettazione preliminare del test center delle ferrovie iraniane, un centro di prova per testare con apparecchiature all’avanguardia sia l’infrastruttura sia il materiale rotabile, mentre la società di ingegneria del gruppo dovrà prestare assistenza tecnica per il progetto della linea alta velocità Teheran-Qom-Isfahan (circa 400 chilometri). Un fronte di sviluppo, insomma, dal potenziale enorme, come l’Inghilterra, dove il gruppo, forte dell’ottenimento del cosiddetto “passport”, l’abilitazione alla gara - unica azienda non inglese ad averlo conseguito - sta partecipando come gestore alla partita per l’alta velocità sulla linea Londra-Edimburgo.

Sempre, ieri, poi, si sono riuniti i cda delle tre società nate dopo la scissione di Grandi Stazioni, propedeutica alla vendita degli asset retail. Sono stati quindi nominati i i board di Gs Rail (100% Fs), Gs Immobiliare (60% Fs e 40% Eurostazioni) e Gs Retail (55% Fs e 45% Eurostazioni), al centro del processo di cessione che, come noto, ha registrato l’aggiudicazione della società al raggruppamento formato da Antin, Icamap e Borletti Group. Per quest’ultimo, su cui evidentemente ci sarà una discontinuità nel momento in cui avverrà il closing dell’operazione, atteso per metà luglio, sono stati individuati come presidente

GRANDI STAZIONI A valle della scissione sono stati nominati ieri
i board dei tre veicoli Gs Rail: Silvio Gizzi è il nuovo ad
e Vera Fiorani alla presidenza

1 of 2 05/07/2016 12:11

Il Sole 24 Ore http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/vetrina/edicola24web/edicola...

Riccardo Maria Monti e come ad Paolo Gallo, in uscita dall’azienda e destinato a guidare la nuova holding di Italgas che nascerà a valle dello spin off annunciato da Snam nei giorni scorsi. Per Grandi Stazioni Immobiliare, invece, sono stati designati alla presidenza Carlo De Vito e Gallo come ceo. Mentre il cda di Grandi Stazioni Rail sarà composto da Silvio Gizzi (ad), Vera Fiorani (presidente) e Umberto Lobruto (consigliere).

© RIPRODUZIONE RISERVATA Celestina Dominelli

«Ridurre il Colosseo a location: "caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne"». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 5 luglio 2016 (c.m.c.)

Meno di un anno fa, nel settembre del 2015, Renzi e Franceschini montarono una violentissima polemica, di dimensioni planetarie, contro i sindacati che avevano fatto chiudere il Colosseo per due ore a causa di una assemblea perfettamente legale e debitamente annunciata. Il governo, riunito d’urgenza, emanò a favore di telecamere un decreto che dichiarava la cultura «servizio pubblico essenziale»: non per costringere se stesso a tenere aperti archivi e biblioteche, o a finanziare teatri e musei, ma per impedire ai lavoratori della cultura di esercitare i loro diritti costituzionali.

Ebbene, venerdì scorso il Colosseo è stato chiuso per ben più di due ore, e nell'orario di apertura è stato per due terzi inaccessibile anche a chi aveva prenotato, per organizzare la festa privata vip dello sponsor della pulitura: e nessuno osa nemmeno dirlo. Semplicemente se lo chiude Della Valle non è nemmeno una notizia, se lo chiudono i sindacati è uno scandalo da prima pagina.

Ma non tutti gli italiani sono ciechi. Pubblico qua di seguito, in forma anonima, la lettera inviatami da un testimone oculare, un archeologo precario che ‘lavora’ all’Anfiteatro:

«Le rubo qualche minuto poiché sento la necessità di raccontarle ciò che di incredibile è accaduto oggi al Colosseo. Per me, per noi, perché raccontare e denunciare possa far cambiare qualcosa in questo paese. Piccola premessa: sono un dottore di ricerca in archeologia, guida turistica abilitata, vincitore di un concorso ai servizi culturali al comune di Roma e mai assunto».

«Ebbene, oggi si è parlato molto della conferenza stampa, ma nessuno ha parlato dello spettacolo che si son trovati davanti turisti e cittadini presenti dell'anfiteatro. Interi gruppi, provenienti da ogni dove, che avevano da mesi prenotato e acquistato il biglietto di accesso all'arena, ai sotterranei e al terzo ordine, si sono visti senza preavviso vietare l'accesso sia all'arena sia al terzo ordine. E tutto mentre gran parte del secondo livello, normalmente aperto al pubblico, era anch'esso chiuso. Caos totale, migliaia di turisti compressi in spazi ridottissimi. Tutto mentre sfilavano hostess, personalità, guardie del corpo tra sedie dorate impilate, tavoli, piatti, bicchieri, lampade e lanterne. Musica ad alto volume e chi più ne ha più ne metta. Due giorni di preparativi, per la conferenza e la cena di stasera che ha impedito anche l'accesso serale dei visitatori all'anfiteatro. Difficilmente dimenticherò le facce basite degli stranieri dei miei gruppi e il terribile effetto che mi ha fatto vedere dall'alto i corridoi del Colosseo pacchianamente addobbati a festa, una festa per pochi, pochissimi eletti. Franceschini scrive "pubblico e privato insieme per il patrimonio culturale". Io parlerei piuttosto di un "pubblico oggi privato del patrimonio culturale"».

Ecco che cosa vuol dire, in pratica, ridurre il Colosseo a location: una strada imboccata anche dall'altro grande anfiteatro, l'Arena di Verona, il cui "marchio" sarà ora gestito da una "società commerciale".

È la strada del ministro Franceschini, che quando non trama per sopravvivere a Renzi (come era sopravvissuto a Letta, e a una quantità difficilmente credibile di altri sodalizi), lavora per privatizzare ancora di più il nostro patrimonio culturale. La bandiera simbolica di questa politica riguarda ancora il Colosseo, con la ricostruzione dell'arena che ridurrà definitivamente il monumento a location di eventi per cittadini abbienti.

Una politica culturale che a Roma sembra, almeno a giudicare dai risultati elettorali, aver conquistato solo i cittadini dei quartieri più ricchi. Meglio così, d'altra parte: ai tavoli del Colosseo non ci sarebbe posto per tutti.

«Il ridimensionamento della grande opera era previsto da anni. Non è un improvviso "Nì Tav" ma la prima ammissione ufficiale della grande truffa perpetrata nei tunnel sotto le Alpi». Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)

Commentando una dichiarazione del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il manifesto di domenica titola con qualche ottimismo e buona evidenza: «Torino-Lione, il governo diventa Nì Tav».

È proprio così o si tratta dell’ennesima bufala di un governo che privilegia, ancora una volta, la narrazione sulla realtà? Purtroppo la risposta è univocamente la seconda. Eppure anche le bufale, a volte, aprono nuovi spazi in cui è bene inserirsi. Partiamo, dunque, dai fatti.

Cosa ha detto il ministro? Ha detto – secondo le agenzie – che il progetto della tratta nazionale della Torino-Lione, che da Bussoleno scende verso il capoluogo e raggiunge Settimo, è stato "revisionato" rispetto a quello preliminare del 2011, prevedendo, almeno in una prima fase, l’utilizzo di una parte consistente dell’attuale linea storica (23 chilometri e mezzo tra Bussoleno e Buttigliera) e l’accantonamento, nella parte di nuova realizzazione, di alcuni tunnel originariamente previsti (in particolare la cosiddetta "gronda merci", cioè la galleria di venti chilometri da scavare tra Torino e Settimo).

Di qui un risparmio di oltre due miliardi, un minor impatto ambientale e una maggior "rapidità" di costruzione della tratta (destinata a essere completata entro il 2030). Naturalmente – si è affrettato a precisare il ministro – "non sono arretramenti ma adeguamenti, e sono un’intelligente rivisitazione dei progetti per fare le opere nei tempi giusti, con i costi minori e che siano davvero utili".

L’affermazione ministeriale, oltre che reticente in alcuni passaggi, è un capolavoro di narrazione tesa a trasformare il flop dell’originario progetto (e le conseguenti necessarie marce indietro) in una scelta strategica dei proponenti effettuata per responsabilità economica ed ecologica (magari accogliendo, magnanimamente, alcune proposte degli odiati No Tav).

In realtà, peraltro, non c’è nulla di nuovo, se non la traduzione in progetto (a quanto pare…) di una sorta di concordato fallimentare predisposto, non senza imbarazzo, cinque anni fa.

Meglio lasciar le parole a una fonte non sospetta (Il Sole24ore del 3 marzo 2012):

«Il miglior alleato dei No Tav è la difficoltà dei governi nel reperire le risorse per la realizzazione dell’intera linea Torino-Lione. Per questo, per uscire da un’impasse che rischiava di chiudere definitivamente in un cassetto il progetto, Italia e Francia sono state costrette, la scorsa estate, a prendere in mano le forbici e a dar vita a un progetto in versione “ridotta”, rispetto a quello da 20 miliardi, ipotizzato dall’Osservatorio di Mario Virano alla fine di un lungo lavoro di concertazione durato 182 riunioni.

«Il risultato è che, ad oggi, l’unica tratta garantita della Torino-Lione è la costruzione dei 57 chilometri del tunnel di base. Solo su questa prima porzione della Torino-Lione si è deciso di procedere con la progettazione definitiva. Sarà invece rimandata a data da destinarsi la realizzazione della parte comune in territorio italiano. Ancora agli albori resta la tratta italiana della Torino-Lione, ferma alla conferenza di servizi. Si lavora a un progetto a basso impatto, che utilizzi la linea storica da Bussoleno alle porte di Torino: costo di 2,2 miliardi rispetto al progetto tutto in variante da 4,4 miliardi».

Nessuna scelta innovativa, dunque, ma la presa d’atto della necessità di una via di fuga per evitare il disastro.

Va bene – si potrebbe dire – ma evitiamo posizioni di principio e rallegriamoci del fatto che qualche frammento di un’opera inutile e dannosa è stato rinviato sine die o abbandonato, qualunque ne siano le motivazioni. Giusto. Purché si prenda atto che ciò rivela una volta di più l’irrazionalità dell’opera complessiva e non lo si utilizzi per rafforzarla con una asserita sopravvenuta "ragionevolezza" del governo.

Se ragionevolezza e coerenza ci fossero, infatti, la "decisione" odierna porterebbe con sé l’abbandono dell’opera nella sua interezza.

Infatti, delle due l’una. O i lavori originariamente previsti sono semplicemente rinviati, e allora la narrazione odierna è pura ipocrisia (anche in termini di risparmio di risorse) e lascia intatte le controindicazioni di sempre. Oppure – com’è probabile, nonostante le rassicurazioni ministeriali che tutto sarà rivisto dopo il 2030 (sic!) – l’abbandono è definitivo e allora ci sarebbe un’ulteriore decisiva controindicazione persino ponendosi nell’ottica dei promotori.

La ragione di fondo a sostegno della nuova linea (esposta con sussiego dai soliti sedicenti "esperti") è, infatti, che la linea storica sarebbe inadeguata in radice, per ragioni tecniche e trasportistiche, alle nuove necessità. Non è così ma, se mai lo fosse, che senso avrebbe costruire un tunnel di 57 chilometri tra Italia e Francia quando, a monte e a valle (ché altrettanto si sta facendo in Francia) resta in gran parte la linea storica?

Non sarebbe come costruire un ponte con dieci corsie quando le strade che vi conducono ne hanno solo due? E quale senso strategico ha la decisione odierna? Nessuno, ovviamente. A meno che tutto fosse, fin dall’inizio, una gigantesca truffa che, finalmente, la crisi economica sta cominciando a svelare. Ad essere seri, la "revisione" annunciata dal ministro dovrebbe portare, quantomeno, alla sospensione dei lavori e a una nuova discussione globale sull’opera, prima che vengano sprecati altri miliardi di euro (poco importa se italiani o europei). Non farlo realizza l’ennesimo inganno.

Nessun "Nì Tav" governativo all’orizzonte, dunque. Ma, certo, una "scelta" e una narrazione che dimostrano una debolezza di fondo su cui occorre inserirsi politicamente.

«Gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale». Il Fatto Quotidiano online, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Le magagne progettuali vengono sempre più frequentemente alla luce, anche perché stiamo toccando il fondo. Ma i piani, le infrastrutture e le opere che interagiscono con rivi e versanti, fiumi e laghi, litorali e lagune hanno orizzonti assai lunghi. Così come gli asservimenti della natura, dai ponti alle strade, che formano il telaio su cui poggia lo sviluppo di un Paese. Essi traguardano tempi assai più estesi delle fluttuazioni di Borsa; e non sempre ci si accorge subito di errori e omissioni.

Le lacune di oggi si possono tramutare in gravi disastri nel futuro. La bassa qualità – culturale, scientifica e tecnica – è una mina a scoppio ritardato, un virus latente con cui il corpo del Paese si alimenta senza percepirne la pericolosità.

Ci sono ragioni interne, ben note, legate alla nostra attitudine collettiva a trascurare la competenza e il talento a favore di altre “virtù”. Questioni come la gestione dei fiumi Bisagno a Genova e Seveso a Milano, casi eclatanti come il lungolago di Como o il medio Tagliamento sono diventati archetipi a livello mondiale.

La consolidata sottomissione di consulenti e tecnici produce un’acritica dipendenza dal committente, spesso pubblico, del tutto incomprensibile agli stranieri e, sperabilmente, ai posteri. Ha scritto Andrea Rinaldo: «Grande è l’incredulità dei colleghi stranieri per l’assunto tutto italiano consulenza = dipendenza che anima il dibattito tecnico. Sembra loro incredibile, in particolare, l’irrilevanza delle qualificazioni scientifiche per la credibilità delle tesi tecniche».Ma ci sono anche cause esterne, come il predominate fattore finanziario che dirige qualunque progetto, soprattutto se di grandi dimensioni.

Nel contesto nazionale, la corruzione ha fatto nascere istituzioni specifiche di controllo. E questa verifica di onestà, in apparenza semplice ma ostica in pratica, è già compito da far rabbrividire, viste le clientele che dominano il Paese. Insomma, gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale.

A livello internazionale, anche organismi con una buona tradizione scientifica e tecnica come la Banca Mondiale o la Banca Interamericana di Sviluppo hanno difficoltà a valutare interventi complessi in realtà sfaccettate e contesti soggetti a rapida evoluzione. Anche se le multinazionali della consulenza si stanno attrezzando da tempo per fornire servizi adeguati, compare talvolta il convitato di pietra del conflitto di interesse. Altre volte rimane nell’ombra, perché invisibile o implicito; o magari declinato al motto di ‘cane non mangia cane’ (Canis canem non est).

Il consolidamento del sistema Europa in senso neo-liberista e l’adorazione militante per la ‘concorrenza’, che fu santificata dall’allora commissario Monti, avrebbero potuto comunque scalfire la consuetudine italica a considerare la qualità come un fattore accessorio. Invece non è accaduto. La furia competitiva ha infatti classificato consulenti e i tecnici tra i ‘fornitori di servizi’, il cui contributo va perciò valutato alla stregua dell’affidamento delle pulizie o del servizio postale.

E nel caso dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria è disciplinato dall’art. 91 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Non sono esattamente i criteri con cui Ludovico il Moro chiamò a Milano Leonardo da Vinci, presentatosi con un’accattivante lettera di auto-raccomandazione a base di drenaggi, ponti e bombarde, ma che si chiudeva con un frase rassicurante: «Se le cose che ho promesso di fare sembrino a qualcuno impossibili e irrealizzabili, mi offro di farne una sperimentazione in qualunque luogo vorrà Vostra Eccellenza, a cui mi raccomando con la massima umiltà».

Non ultima, la crisi economica porta anche i più attenti e onesti gestori della cosa pubblica a ‘ottimizzare’ le modeste risorse disponibili mettendo in secondo piano la qualità. Accade così che spesso si esageri in quantità nei propri racconti del ‘fare’. E che la ‘bulimia del fare’ porti a dimenticare la qualità di ogni singolo racconto.

«TAV Firenze. Il presidente onorario della rete dei comitati Alberto Asor Rosa chiede di di riaprire un confronto con i cittadini». La Repubblica, ed. Firenze, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Ho seguito con attenzione e, da un certo momento in poi, con appassionata partecipazione le vicende più recenti del sottoattraversamento ferroviario di Firenze. Per sintetizzare al massimo: titolo dell’articolo apparso su La Repubblica del 1 luglio: “Retromarcia sulla Tav. Foster e tunnel addio”. Ne ho ricavato pretesto per queste tre buone notizie.

1) La prima è che il sindaco Nardella ha parlato chiaro e forte per giudicare il progetto Tav inutile e dannoso. Ci vuole un buono e gran coraggio per confessare apertis verbis un così colossale fallimento! Qualche premonizione ce n’era stata già in passato (incontro Renzi-Nardella a Firenze di qualche mese fa). E però oggi, dopo le coraggiose dichiarazioni del sindaco, mi pare non ci sia più spazio per ripensamenti. L’idea che si debba fare il calcolo delle penali, e poi su questo decidere, non sta né in cielo né in terra. Se l’opera è gravemente inutile e dannosa, si paghino le penali e il discorso è chiuso.

2) La seconda buona notizia riguarda tutti i cittadini italiani, fiorentini e no, che in questi lunghi anni si sono fieramente battuti contro la Tav di Firenze. Facciamo finta di dimenticare che a Firenze opera fin dall’inizio, e cioè dalla fase di progettazione dell’impresa (quando non ci sarebbero state penali da pagare), un Comitato No Tav, parte integrante della Rete dei Comitati per la difesa del territorio, il quale ha condotto una lotta dura, tenace, seria, molto responsabile, e per converso vilipesa, contrastata e qualche volta minacciata, per affermare l’inutilità e la dannosità dell’impresa? Questo Comitato, e i suoi qualificatissimi esperti, pronunciarono giudizi che ritroviamo oggi tali e quali sulla bocca del sindaco Nardella. Non era più semplice fermarsi ad ascoltare allora?

3) Infine... No, infine non è corretto. Più corretto è pensare, e scrivere, “per continuare”. E cioè: se la Tav fiorentina è risultata alla fine una così colossale bufala, non diventa legittimo pensare la medesima cosa per altre grandi imprese della stessa ispirazione e natura?

Intendo, quasi ovviamente, il progetto di ampliamento e potenziamento dell’aeroporto di Peretola. Anche qui: una miriade di comitati avversi, molti Comuni della Piana risolutamente contrari, il Parco della Piana in pericolo, la sostanziale inutilità dell’impresa (Bologna e Pisa ad un passo), ecc. ecc. Non sarebbe il caso di fermarsi e ripensare la cosa in un rapporto di confronto e reciproco scambio con i cittadini e le istituzioni interessati, prima di accumulare le ingenti penali da pagare domani?

Se poi c’è chi pensa di barattare l’abbandono dell’impresa Tav con la pacifica e indiscussa realizzazione dell’impresa aeroporto, si sbaglia. Le due cose se mai si connettono, stanno dentro la stessa logica, vanno giudicate e decise con i medesimi rigorosi criteri.

Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2016 (p.d.)

La lunghissima chiusura della Biblioteca Universitaria di Pisa è uno scandalo intollerabile, che deturpa l’immagine della città, umilia e depotenzia la ricerca, offende chiunque a Pisa abbia a cuore la cultura”. Salvatore Settis, strenuo difensore del paesaggio e della Costituzione, dal 1999 al 2010 direttore della Scuola Normale Superiore, non usa mezzi termini. C’è anche la sua firma all’appello lanciato da La Nazione per riaprire la Biblioteca universitaria “chiusa a tempo indeterminato”da un'ordinanza del 29 maggio 2012, come si legge nell'avviso esposto al pubblico.

Il motivo? Problemi di stabilità dell'edificio aggravatisi a seguito delle scosse di terremoto che hanno colpito l'Emilia. Peccato che la perizia del Dipartimento di Ingegneria civile e industriale della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Pisa abbia contraddetto il provvedimento.

Oltre quattro anni non sono stati sufficienti per rendere fruibile un patrimonio librario straordinario. Unico. 600000 volumi, 4357 periodici, ma anche 1389 manoscritti, 161 incunaboli e 702 Cinquecentine. Numeri più che importanti che però non restituiscono a pieno il valore di quel luogo, il ruolo di quella biblioteca, ospitata dal 1823 nel Palazzo della Sapienza. A leggere nei cataloghi si fa fatica a selezionare le opere più significative. Bisogna averla provata la fortuna di camminarci nelle diverse sale di quel tempio della cultura. Il privilegio di trascorrerci del tempo, perdendosi nella lettura.

Certo, fra i fondi storici ci sono incunaboli di grande valore. Come alcune edizioni dell'Opera Omnia di Aristotele di epoca rinascimentale, oppure il Dante di Niccolò della Magna stampato a Firenze nel 1481 con le incisioni di Baccio Baldini su disegni del Botticelli. C'e anche il fondo storico delle Tesi di Laurea. Circa 20000 tesi manoscritte e dattiloscritte, datate dal 1868 fino alla prima metà del Novecento, tra le quali quelle di personalità politiche ed intellettuali come Enrico Fermi, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Ludovico Raggianti, Carlo Rubbia, oltre alle tesi di licenza di Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi.

Ma a fare la differenza è quel che a lungo ha rappresentato. Non solo luogo di studio. Spazio, vitale, nel quale hanno esercitato spirito critico e senso civico tante generazioni. Una biblioteca moderna nella sua rispettabile antichità.

Finora a nulla sono serviti appelli, petizioni, lettere, assemblee e cortei. Perfino interrogazioni parlamentari. Nonostante sia nata anche un'Associazione, gli Amici della Bup, per “contribuire alla tutela del patrimonio documentario e librario” della struttura. La fruizione del tutto impossibile dopo l'esperimento del prestito e consultazione attivato presso la Residenza Universitaria “Nettuno”, dal giugno 2013 al marzo 2014. Ma anche nessun controllo, dal momento che l'accesso non è consentito neppure al personale. Al punto che una perdita d'acqua, prima della metà di giugno, ha provocato danni ad almeno un centinaio di libri. Non è neppure la prima volta. Si era già verificato alla fine dell'agosto 2015, a seguito del nubifragio che aveva investito la città. Insomma, una chiusura totale, senza manutenzione. Tanto più grave perchè non è possibile fare previsioni.

A settembre riaprirà la parte del Palazzo occupata dal dipartimento di Giurisprudenza, dopo un investimento, da parte di Regione, Fondazione Pisa, Ministero dei Beni culturali, Ministero dell'Istruzione e Università, di 13 milioni e 660mila euro. Si prepara l'inaugurazione. In compenso per la biblioteca nulla. Manca ancora l'approvazione al progetto di restauro. Che la prolungata impasse sia imputare al fatto che il Palazzo è di proprietà dell'Ateneo e quindi sotto il controllo del Miur, mentre la Biblioteca universitaria è gestita dal Mibact? E' probabile. Anche se la locale amministrazione, guidata dal sindaco Pd Marco Filippeschi, non sembra immune da colpe. Così come l'Ateneo presieduto dal Rettore Massimo Augello.

Ma aldilà delle reponsabilità, vere o presunte, rimane la chiusura scellerata alla quale si aggiunge una scriteriata delocalizzazione. Già, perchè dal 2014 gran parte delle riviste, oltre “una considerevole parte degli importanti seriali novecenteschi e contemporanei italiani e internazionali”, sono state trasportate presso il Complesso monumentale del Museo di San Matteo. In sintesi, un patrimonio sostanzialmente dilapidato. Già perché tra le tante implicazioni la chiusura della Biblioteca si porta dietro anche questa. La mancata possibilità di usufruire di libri e manoscritti. La privazione di un Bene comune. Tanto più colpevole perché perpetrata ai danni di giovani studiosi.

Così i libri continuano ad essere paradossalmente prigionieri. Paradossalmente, o forse no. Finchè “le istituzioni reagiranno con una sorta di blanda semi-indifferenza, rinviando la soluzione di mese in mese, di anno in anno”. Sembra non esserci futuro per la storia, a Pisa.

«Grandi Opere. Ora lo ammettono, il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione sotterranea di Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela». Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)

Tanto tuonò che piovve. Trent’anni di discussioni – e di periodici voti pro tunnel Tav da parte di tutti eccetto Rifondazione e Perunaltracittà – con 700 milioni di euro già spesi, per poi ammettere che il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione anch’essa sotterranea progettata da Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela.

«Stanno dicendo ora quello che abbiamo segnalato e denunciato fin dall’inizio – osserva ai microfoni di Controradio l’ex ferroviere Tiziano Cardosi – il problema è che hanno già speso una montagna di soldi, che potevano benissimo essere investiti per potenziare subito le linee dei pendolari».

Quelli che «lo stanno dicendo ora» sono il sindaco Dario Nardella, anche a nome del suo predecessore Matteo Renzi, e il ministro delle infrastrutture e trasporti Graziano Delrio, ospite d’onore alla due giorni della Regione “Infrastrutture e mobilità, dal dire al fare”.

«Abbiamo lo stesso approccio a tutte le latitudini – ha spiegato Delrio – e stiamo procedendo ad una revisione complessiva dei progetti. Stiamo revisionando la Torino-Lione, abbiamo revisionato la Venezia-Trieste, portandola da un costo di più di 7 miliardi ad un costo più che dimezzato, proprio perché la tecnologia sta facendo passi da gigante: adesso possiamo avere un treno ogni 7-8 minuti in condizioni di sicurezza, presto potremo averne uno ogni 3 minuti. Abbiamo lo stesso atteggiamento qui a Firenze. L’obiettivo è fare le opere in tempi giusti e con costi minori».

La decisione definitiva arriverà a settembre, quando Ferrovie dello Stato presenterà ufficialmente il nuovo piano industriale sul quale sta lavorando da tempo. Certo però l’amministratore delegato Renato Mazzoncini, successore di Mauro Moretti ed ex ad dell’azienda fiorentina di trasporto pubblico locale Ataf, aveva già fatto capire che il gruppo Fs ci stava ripensando.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il parere del Cnr sulle terre da scavo. «Rifiuti da smaltire con accortezza, o inerti da stoccare subito nell’ex cava di Santa Barbara a Cavriglia?». Alla domanda dei ministeri interessati, il Consiglio nazionale delle ricerche ha risposto che le terre dovranno essere esaminate lotto dopo lotto, metro dopo metro di scavo. Troppo complicato, anche per i pasdaran del sottoattraversamento.

Nel gioco del cerino che è già partito, gli enti locali aspettano che siano le Ferrovie a decidere. Perché interrompere un contratto firmato, autorizzato, e condiviso politicamente per venti anni, vuol dire mettere in discussione un altro miliardo di euro di lavori. Con le penali del caso.

Intanto il comitato No tunnel Tav mette il gomito nella piaga: «Anche Renzi, da sindaco, contrattò compensazioni dalle Ferrovie di 80 milioni e accettò l’opera. Fuggire dalle proprie responsabilità non aiuterà la politica locale a ritrovare la credibilità in caduta libera. Se c’è davvero un ripensamento su questo progetto folle, il Comitato si chiede come mai i lavori nel cantiere ai Macelli, dove si sta costruendo la nuova stazione sotterranea, non vengono fermati subito, e si continua a buttare una mole enorme di risorse in quella voragine. Le stime che si possono fare sui costi sostenuti finora sono di circa 700 milioni; una cifra vergognosa di cui molte persone dovrebbero rispondere, ma temiamo che a pagare saranno i soliti cittadini che contemporaneamente si vedono distruggere il sistema di welfare».

«Il rapporto di Legambiente parla di una colata costante che negli ultimi decenni è avanzata al ritmo di 8 chilometri all'anno ». Il Fatto Quotidiano online, 2 luglio 2016 (c.m.c.)

Ottomila chilometri di costa, sì, ma la metà è cemento. Una colata costante e neanche tanto lenta, andata avanti negli ultimi decenni al ritmo di 8 chilometri all’anno. Case, palazzi, alberghi, porti turistici. Ai quali si aggiunge l’erosione, che colpisce un terzo del litorale ed è causata dalla trasformazione per porti e infrastrutture, ma anche dal mancato apporto di sedimenti attraverso i fiumi per via di dighe, sbarramenti, cave.

Meno del 20 per cento della costa è sottoposta a vincoli di tutela, mentre un quarto degli scarichi cittadini in mare continuano a non essere depurati e più di mille insediamenti sono sottoposti a procedura di infrazione dell’Ue. Il quadro – sconfortante – è tracciato da Legambiente nel rapporto “Ambiente Italia“, dedicato quest’anno ai paesaggi costieri sempre più martoriati.

«Crescono del 27 per cento i reati ai danni del mare nostrum che le forze dell’ordine e le Capitanerie di porto hanno intercettato nel corso del 2015. Le infrazioni sono infatti 18.471, rispetto alle 14.542 dell’anno precedente: ben 2,5 per ogni chilometro di costa del Belpaese. Sale anche il numero delle persone denunciate, che passano da 18.109 a 19.614, mentre flette, seppur di poco il dato dei sequestri, sono 4.680 a fronte dei 4.777 del 2014». Una specie di bollettino di guerra.

Il cemento si mangia le coste

Il male più diffuso è proprio il consumo di suolo, che ha colpito già il 51 per cento dei litorali: secondo l’Istat, tra il 2001 e il 2011 sulle coste sono sorti quasi 18mila nuovi edifici. «Per molti italiani, la casa al mare, sia essa sontuosa o piccola e arrangiata con i vecchi mobili della nonna, è un diritto inviolabile. Se non ha le carte in regola, se è stata costruita senza licenza o si trova in un posto dove è vietato posare anche un solo mattone, poco importa. Così i nostri litorali sono puntellati da distese di villini sorti ‘spontaneamente’, in barba alle regole edilizie, al paesaggio e alla qualità dei manufatti», denuncia Legambiente nel dossier Mare Monstrum pubblicato all’inizio della stagione estiva, dedicato proprio alla ferite inferte al litorale italiano.

Ma non si tratta solo di seconde case. Su 6.477 chilometri di costa, escluse le numerose isole minori, quelli cementificati sono 3.291: 720 chilometri sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 920 da centri urbani, mentre in altri 1.650 circa ci sono insediamenti a bassa densità, con ville e villette. A volte alla cementificazione si accompagna l’abusivismo, ma anche dove non si può parlare di infrazioni dei vincoli edilizi e di costruzioni senza permessi, non mancano i casi di progetti controversi. Che non risparmiano nemmeno i parchi e le zone vicine a aree protette.

Comacchio: 190 ettari per nuove strutture ricettive

È il caso di Comacchio, cittadina della costa adriatica dove si continua a costruire, nonostante ci siano già 30mila seconde case a fronte di soli 23mila abitanti. Non solo, denuncia Legambiente, «il piano regolatore del Comune prevede circa un milione di metri quadri di superficie utile ancora da edificare», ma «l’ente gestore del Parco naturale del Delta del Po, modificando uno dei suoi piani territoriali, con il placet dell’Amministrazione, della Provincia di Ferrara e della Regione Emilia Romagna, nel 2014 ha prefigurato la destinazione di circa 190 ettari di terreno, sui lidi di Comacchio, a nuove strutture ricettive», invece di riqualificare le strutture esistenti e le aree degradate.

Nello stesso anno Legambiente ha presentato anche due ricorsi al Tar di Bologna di cui si attende l’esito, ma intanto le lobby dell’edilizia non si fermano: «Il Comune ha continuato a sfornare provvedimenti urbanistici, come quello che intende equiparare le previsioni edificatorie di un campeggio a quelle di un villaggio turistico», con il risultato che, anche grazie a una norma contenuta nel collegato ambientale del governo, «le case ‘mobili’ di Comacchio potranno essere realizzate senza titoli edificatori e poi restare ‘fisse’ tutto l’anno, potranno superare i limiti degli indici edilizi, potranno non essere accatastate e quindi non pagheranno nemmeno l’Imu».

Abusivismo nel Parco del Cilento

Dall’Emilia Romagna alla Campania, dove tra aprile e agosto 2015 il Corpo forestale ha smascherato diverse opere abusive realizzate nell’area protetta del Parco naturale del Cilento. «Decine di persone sono state denunciate a vario titolo per violazione delle norme urbanistiche, occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, deturpamento e alterazione di bellezze naturali in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, inosservanza dei provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria. Ville dai 100 ai mille metri quadri, muretti, piscine, pedane, pontili, parcheggi, manufatti in ferro, legno e calcestruzzo; locali ricavati dalla roccia e adibiti a deposito di materiale vario:questi, nell’insieme, i corpi dei reati».

Il nuovo porto turistico che minaccia l’Elba

Il cemento non risparmia neanche le isole minori. All’Elba, nell’Arcipelago Toscano, Legambiente è in allarme per il progetto di ampliamento del porto turistico a Marciana Marina, per 80 nuovi posti barca. Alla base di tutto, denuncia il dossier, c’è un «piano regolatore portuale approvato dal consiglio comunale con i soli voti di maggioranza e respingendo tutte le osservazioni prodotte, incluse quelle della Regione Toscana».

Il Comune – guidato da Anna Bulgaresi, lista civica di centrodestra – ha definito il progetto “ottimale”, mentre per Legambiente «avrebbe un devastante effetto paesaggistico su uno dei lungomare più belli del Mediterraneo, cambiandone completamente la prospettiva, andando a occuparne una parte attraverso la regolarizzazione di imbonimenti e ampliamenti precedenti e snaturando ancora di più un ambiente che ha già subito fin troppe pesanti e caotiche modifiche».

L’associazione, che ha scritto anche alla Regione per manifestare i propri dubbi, chiede una revisione del progetto anche per scongiurare che al cemento si accompagni l’aumento dell’erosione delle spiagge. Spesso succede, perché l’erosione, che si sta mangiando un terzo degli arenili, è legata anche alle trasformazioni provocate da porti e interventi sul litorale: alla fine, dopo la grande abbuffata, delle coste non rimangono neppure le briciole.

The New York Times, 1 luglio 2016



Per onorare i suoi impegni con gli organizzatori delle Olimpiadi, lo stato di Rio de Janeiro taglia le spese per servizi e salari e ha dichiarato lo stato di "pubblica calamità", come avviene in caso di terremoto o inondazioni. Ma l'articolista bene spiega che le Olimpiadi sono un disastro NON naturale, una catastrofe prevedibile ed evitabile. I cittadini sono stati esclusi dalle decisioni ed il governo ha usato il grande evento per promuovere "grandi progetti" a vantaggio degli speculatori. Se ne consiglia la lettura ai cittadini di Roma. (p.s.)

BRAZIL’SOLYMPIC CATASTROPHE

Can Rio pull off the Games with only weeks to go? It's official: The Olympic Games in Rio are an unnatural disaster.

On June 17, fewer than 50 days before the start of the Games, the state of Rio de Janeiro declared a “state of public calamity.” A financial crisis is preventing the state from honoring its commitments to the Olympic and Paralympic Games, the governor said. That crisis is so severe, he said, it could eventually bring about “a total collapse in public security, health, education, mobility and environmental management.” The authorities are now authorized to ration essential public services and the state is eligible for emergency funds from the federal government.

Measures like these are usually taken for an earthquake or a flood. But the Olympics are a man-made, foreseeable, preventable catastrophe.

I went to Rio recently to see how preparations for the Games are going. Spoiler: not well. The city is a huge construction site. Bricks and pipes are piled everywhere; a few workers lazily push wheelbarrows as if the Games were scheduled for 2017. Nobody knows what the construction sites will become, not even the people working on them: “It’s for the Olympics” was the unanimous reply, followed by speculation about “tents for the judging panels of volleyball or soccer, I guess.”

I asked the Rio 2016 press office for a tour, but it olympically ignored me. Almost all venues are still under construction. I managed to see part of the Barra Olympic Park, which will host many of the events, after buying a last-minute ticket to a Volleyball World League match. Although construction for the Games is progressing, it appears far from “97 percent complete,” as the organizers claimed recently.

I also saw most of the Deodoro Olympic Park, which is apparently open to anyone who wants to see it. I walked straight in and found half-built grandstands abandoned in the middle of a Friday afternoon.

The few projects that have been completed don’t inspire much confidence. In April, a newly built bike path along Rio’s seashore collapsed, killing two people.

Work on the beach volleyball arena at Copacabana stalled because the organizers failed to get the proper environmental licenses. Then the structure was damaged by waves. Workers erected a six-foot-high sand barrier to protect the site. It also protects thugs; tourists are being mugged behind it. A construction worker told me he’d seen a man stabbed there, and warned me to stay away. The robbers were so comfortable that they had left their backpacks and a beach chair nearby on the sand.

Safety is of great concern to athletes and tourists. They are right to worry. According to local news reports, drug traffickers are involved in territorial disputes in at least 20 Rio neighborhoods.

Eight years ago, the government established the Pacifying Police Units, a heavily armed force that tries to reclaim favelas from the gangs. But these units seem to have worsened the drug war rather than ended it. This year, 43 police officers have been killed in the state, and at least 238 civilians have been killed by the police. The United Nations has said it’s concerned about violence by the military police and the officers in the favelas, notably against children living on the streets. Everybody fears an increase in police violence during the Games. The country will deploy 85,000 soldiers and police officers, about twice the number used in the London 2012 Olympics.

Frequent shootouts near the Olympic arenas and on routes to them are also a concern: 76 people have been hit by stray bullets in Rio so far this year; 21 of them have died. On June 19, more than 20 men carrying assault rifles and hand grenades stormed the city’s largest public hospital to free an alleged drug kingpin in police custody, leaving one person dead and two hurt.

And the 500,000 people expected to visit for the Games should be worried about how easily they could wander into dangerous areas: There’s a dearth of signs and tourist information on the streets and on public transportation. A native Brazilian, I spent half an hour at the central train station just trying to figure out where to catch a bus to the Olympic Park — and I’d looked it up beforehand. The information booth inside the station was empty. Outside, few of the bus stops displayed information about which lines went where. I resorted to asking popcorn vendors and passers-by for directions. I’m glad I speak Portuguese.

HOW did everything get so messed up? Money is one problem. “The state is bankrupt,” Francisco Dornelles, the interim Rio governor,admitted in an interview with a magazine two weeks ago.

The incumbent governor, who has lymphoma, is on sick leave. Just before Christmas, he declared a “health system emergency” as hospitals closed units and money ran out for equipment, supplies and salaries. Months later, the state started delaying civil servants’ salaries and pension checks. Teachers have gone on strike and students have occupied dozens of schools in protest. The state already owes $21 billion to Brazil’s federal government and $10 billion to public banks and international lenders. A budget shortfall of $5.5 billion is projected for this year. An $860 million loan has already been granted to help cover the cost of security at the Games.

The fiscal disaster could be attributed to many factors, including a national economic crisis — but the huge expansion of the government payroll and reckless spending for the Olympics are likely causes.

However, the mayor of the capital, Eduardo Paes, claimed that City Hall is in good financial shape and that the fiscal situation would not affect Olympic preparations.

So if it’s not only money, maybe the problem is also politics. Brazil is, of course, having a major political crisis. The president, Dilma Rousseff, was forced to step aside on May 12 because of allegations that she manipulated the state budget. The political turmoil has paralyzed the country and frozen the economy. Decisions on important reforms and infrastructure projects are being delayed, and the uncertainty has discouraged investment. But Leonardo Picciani, who took over as sports minister after Ms. Rousseff’s suspension, asserts that the Games will be “fantastic.” Almost everything was ready by the time he took up his post, he claims.

Mr. Picciani has also tried to minimize concerns over the mosquito-borne Zika virus, declaring that all the proper preventive measures are in place. That hasn’t stopped athletes like Jason Day, the world’s No. 1 ranked golfer, from announcing that they’re skipping the Olympics because of Zika. In an open letter last month, 150 prominent doctors, bioethicists and scientists from around the world asked for the Olympics to be moved or postponed because of the Zika epidemic.

In Brazil, these concerns are generally greeted with scorn. First, August is the middle of winter here, so the weather will be drier and cooler, meaning fewer mosquitoes. Second — and more important — the virus seems like a relatively minor problem: According to one calculation, in Rio a woman is more than 10 times more likely to be raped than catch Zika. (Men are more likely to be shot to death.)

This is certainly not the first time a host country’s handling of the Games has looked disastrous. The 2014 Winter Olympics in Sochi, Russia, was plagued by reports of faulty plumbing in shoddily built hotels. Fears of swine flu stalked the 2010 Games in Vancouver, Canada. Greece barely finished construction before the opening ceremony in 2004.

Perhaps, as sometimes happens in Brazil, everything will turn out fine and the Olympics will be a success. The Games will cap 10 years of mega-events in Rio, starting with the Pan-American Games in 2007, followed by the 2011 Military World Games, the 2013 FIFA Confederations Cup and the 2014 World Cup. Remarkably, they all went off without any notable catastrophes. (The same could be said about the Carnival and New Year’s Eve, both of which attract about a million tourists every year.)All these projects had one thing in common: Regular citizens were excluded from the decision-making. The government has used the coming Games to speed up certain development projects — not all of them the public’s priorities. The mayor joked about it in a 2012 TV interview: “The Olympics pretext is awesome; I need to use it as an excuse for everything,” he said. “Now all that I need to do, I will do for the Olympics. Some things could be really related to the Games, others have nothing to do with them.”

The favela Providência is a good example of what’s wrong with the mayor’s approach. The residents there asked for water and basic sanitation. Instead, they got a $22 million gondola, primarily for tourists. Similarly, six stations were built on a subway line that connects wealthy beachside neighborhoods to Jardim Oceânico, a station (sort of) near the Olympic Park. But most of Rio’s residents would have preferred to see the construction of a different line that connects the city center to the less-ritzy municipalities of Niterói and São Gonçalo, where many working people live, a project that would have cost half the price.

The Olympics are predicted to cost $12 billion. More than 40 percent of that will come from public funds, the rest from private lenders. But critics say that the official budget doesn’t include tax exemptions for the companies involved in organizing and hosting the event, the cost of temporary grandstands and compensation for families evicted to make way for Olympic construction.

According to a report released in November by an advocacy group that is monitoring the preparations for the Olympics, at least 4,120 families have been kicked out of their homes because of the Games. (The government disputes this number, saying that most of the displaced were moved because they lived in areas prone to flooding and landslides.) “In all cases, evictions occurred without residents’ access to information and without public discussion of the urbanization projects,” the report says. These families were often offered compensation well below their homes’ market value or, if they were lucky, new apartments in neighborhoods as far as 35 miles away.

Homeless people in Rio told me that police officers are forcing them off sidewalks and dragging them to filthy shelters to start “cleaning up” the streets before the influx of visitors. The evictions often take place at 3 a.m. with the help of police dogs and pepper spray, and sometimes horses. There are also reports that street children have been arbitrarily placed in juvenile detention centers.

L’Emilia-Romagna, ex regione modello, aumenta la patologiadi un’economia basata sulla rendita con inammissibili “dimenticanze” sull’aggiornamentodegli oneri di urbanizzazione. A scapito dei servizi per la collettività, IlMulino, la rivista on-line, luglio 2016 (m.p.g.).

La rendita è una patologia letale del sistema economico italiano che fagocita le risorse e le confina a ruolo passivo a scapito delle attività produttive, come la crisi sta mostrando. Un’anomalia che la mentalità italiana, alimentata da una popolazione di piccoli proprietari
molto conservatori su questo aspetto, non vuole affrontare.
Foriera della divaricazione delle condizioni economiche edella concentrazione della ricchezza.
Perseverare in questo scompenso producendo ulterioriimmobili è pericoloso, significa aumentare l’offerta che, già sovradimensionata,ha portato al deprezzamento dei valori di un terzo da quelli pre-crisi, una perdita patrimoniale ingenteper i cittadini italiani, tanto più per quelli indebitati con mutui.

Un eccesso produttivo che è oltretutto avvenuto in un regimefiscale che prevede oneri concessori bassissimi, un privilegio accordato ai costruttori ai danni della città pubblica. Con la bolla mentre i prezzi degli immobili aumentavano del 60%e i ricavi d’impresa schizzavano di quasi l’82% (incremento tra 1997 e 2007, Bancad’Italia, 2015), gli oneri rimanevano al confronto irrisori e così le capacità di spesa delle amministrazioni locali già prosciugate dai tagli.
Anche in Emilia-Romagna è da più di un ventennio che assistiamo a una produzione edilizia
sovrabbondante. Un eccesso che si è scontrato con l’esaurimento della domanda di investimento e della propensione al miglioramento della condizione abitativa dei ceti medio-alti che avevano sostenuto il mercato. E ha procurato lo sperperodi risorse non riproducibili (suolo e materiali) per la realizzazione di fabbricati inutilizzati che sarà difficile e oneroso riciclare, mentre sull’altro versante socialestride l’emergenza abitativa.

Le attività edilizie sono soggette dal 1977 a un contributo di costruzione (composto dalla
quota costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione) che i comuni devono
utilizzare per realizzare le opere di urbanizzazione, che entrano così nel patrimonio pubblico. Dal 2005 le leggi finanziarie hanno reso possibile impiegarne unaquota nelle spese correnti sottraendole agli investimenti.
A livello nazionale, scrive Roberto Camagni (2016), tra 2004 e 2012 gli investimenti della totalità delle amministrazioni locali sono calati in media del 34% e nei comunimaggiori (oltre 60mila abitanti) sono diminuite addirittura del 63%. Si spiegain questo modo il disastroso stato funzionale e manutentivo delle nostre città. In Emilia-Romagna benché le entrate generate dal contributodi costruzione siano costantemente aumentate (del 30% tra 2002 e 2008, gli anniimmediatamente pre-crisi), l’incremento era dovuto esclusivamente alla crescitadei volumi edificati, la quota contributiva infatti era ed è rimasta sino adoggi sostanzialmente ferma a quella stabilita dalla regione nel 1998.
L’ Emilia-Romagna impone oneri di urbanizzazione che sono tra i più bassid’Italia. Camagni, ragionando di grandi comuni e di costo al mq, stima a livellonazionale un ammontare medio variabile tra 100 e 150 euro/mq, con Bologna sotto la media (98 euro/mq), Milano a quasi il doppio (244 euro/mq), Firenze a quasi il quadruplo (480 euro/mq).
Tornando al caso emiliano, dal 2008al 2011 il 40% circa del contributo di costruzione è stato spostato dagli investimentialle spese correnti. Tuttavia negli anni più recenti i comuni
emiliani, con decisione autonoma, hanno scelto diridimensionare in maniera molto forte tale
travaso, abbassandolo fino all’8% di media regionale (2013).

Un dato interessante che mostra una nuova attenzione dei comuni, dettata per certo dall’urgenza, per lespese in conto capitale, che vanno cioè a conformare i beni collettivi su cuipoggia la città pubblica. La regione ha operato a questo riguardo una scelta fiscale di difficile comprensione, non ha provveduto alla attualizzazione deglioneri di urbanizzazione come invece, a rigor di norma, avrebbe dovuto accadere.
L'assemblea legislativa, che nel 1998 ha varato norme che ne prevedono l'aggiornamento ogni cinque anni, non ha mai proceduto alla rivalutazione prescritta. Il contributo oggi applicato è ancora calcolato sul medesimo indice revisionaledi quasi vent’anni fa, derivato dai prezzi delle “opere edilizie” rilevati dalministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che tuttavia nel frattempo, seguendo l'andamentodel mercato, è quasi raddoppiato (DCR 4/3/1998, n. 849 e n. 850).

Una decisione di cui è difficile capire la motivazione. Il decennio 1998-2008, che avrebbe dovuto coincidere con due occasioni di aggiornamento degli oneri concessori, èstato il periodo d’oro della crescita immobiliare, con transazioni aumentatedel 63% e costi per l’acquirente finale aumentati del 60%, ma chi ne ha trattovantaggio sono stati i soli costruttori, che in quelperiodo non avevano certo bisogno di incentivi, mentre le entrate pubbliche continuavano acalare. Si è insomma prodotta in parallelo una progressiva e sostanziosadiminuzione di risorse per la realizzazione delle opere di pubblica utilità. Una scelta che in Emilia-Romagna ha comportato una perdita di entrate comunali pari a più di 500 milioni di euro.

Una cifra che, benché spalmata in 15 anni, è tutt’altro cheirrisoria. Per avere dei metri di paragone basti pensare che nel bilancio regionale di previsione 2016 sono accantonati ad esempio
20 milioni per progetti di riqualificazione urbanadei comuni della costa; 17 milioni per le reti infrastrutturali, lamanutenzione delle strade e reti ferroviarie; oppure che mancano 600 milioni per completare la ricostruzione post-sisma come la regione di recente ha dichiarato.
La cifra negata ai comuni è ingente, in una fase in cui faticano a garantire servizi e manutenzioni. E dunque perché il sacrificio di 500 milioni? Se queste risorse fossero arrivate
ai comuni anziché donate ai costruttori, l’attivitàedilizia si sarebbe più armonicamente divisa tra
produzione privata e opere pubbliche, evitando le storture oggievidenti.

Il calabraghe delle associazioni ambientaliste: La corazzata Malagò-Montezemolo ha affondato le barchette Italia nostra, Legambiente, WWF, Lipu, Greenpace. Viva viva i Grandi Eventi, il passato non insegna niente. La Repubblica, 2 luglio 2016

Gli ambientalisti appoggiano Roma 2024. Le principali associazioni italiane che si occupano di ecologia e sostenibilità, condividono i progetti sul territorio legati alla candidatura della capitale ai Giochi. Una posizione aperta, che non viene pregiudicata dalle perplessità su alcuni punti per i quali i “verdi” suggeriscono alternative. In un documento che Repubblica possiede in esclusiva, le indicazioni al Coni, il comitato olimpico nazionale, e al comitato organizzatore di Roma 2024 sul “gradimento” e l’opportunità degli interventi previsti dal dossier presentato nel febbraio scorso anche al Cio, il comitato olimpico internazionale. A sorpresa, i verdi dicono sì. Un atteggiamento inedito, collaborativo e persino ottimistico, di cui anche la neo sindaca Virginia Raggi non potrà non tenere conto.

Una svolta, anche rispetto al recente passato quando con la giunta Marino fu bocciato un punto cardine del programma, il villaggio a Tor di Quinto poi dirottato a Tor Vergata. Anche prima che il governo Monti ritirasse il suo appoggio per Roma 2020, le sigle ecologiste avevano manifestato più di qualche avversità. E due delle città concorrenti per l’edizione 2024 (Parigi, Los Angeles) incassano il no dei green. E allora, cos’è cambiato?

L’obiettivo e l’idea di base: riutilizzare, piuttosto che cementificare. Il presidente di Italia Nostra Marco Parini: «Se ben pensate, le Olimpiadi possono essere un’opportunità in termini di recupero di aree e manufatti abbandonati, di convivenza e valorizzazione della città piuttosto che di sfruttamento. Non abbiamo ancora parlato del nuovo stadio, sul quale le associazioni hanno espresso dubbi». Per il resto, la linea è condivisa scrivono gli ambientalisti: «Priorità al recupero di impianti esistenti, l’accessibilità a tutte le strutture attraverso il trasporto pubblico su ferro e percorsi ciclabili, la valorizzazione del fiume Tevere e dei beni culturali del territorio romano» scrivono Greenpeace, Italia Nostra, Legambiente, Lipu e Wwf nel loro resoconto. Nessuna pregiudiziale. Semmai, aggiustamenti di tiro: «In particolare per il progetto di bacino remiero nell’area compresa tra l’autostrada Roma-Fiumicino, il fiume Tevere e la fiera di Roma: riteniamo che vi siano criticità ambientali rilevanti. La tutela del Tevere è infatti per noi una condizione irrinunciabile che ci ha portato, in passato, a condividere con il comitato l’opposizione al progetto di Villaggio Olimpico in un area a Roma nord, nella piana alluvionale del fiume. L’area prevista per il bacino remiero è all’interno della Riserva Statale del Litorale Romano e rappresenta uno degli ultimi ambiti ancora liberi dall’edificazione di una certa consistenza. Vi chiediamo pertanto di percorrere altre ipotesi, sia a Roma - ad esempio nella zona a Roma Nord, presso Passo Corese di proprietà del demanio militare - che in altri ambiti, come a Milano, dove si potrebbe recuperare l’idroscalo». Gli altri punti chiave del dossier: «Per il progetto di media-center a Saxa Rubra, condividiamo la scelta per la presenza della RAI e l’accessibilità su ferro, attraverso la linea Roma-Viterbo da potenziare. Invece, vediamo con preoccupazione la realizzazione di una parte degli interventi nell’area oggi libera prossima al fiume, che oltretutto il Piano Regolatore prevede a verde e dove anche il piano paesistico vigente interdice ogni edificazione. Piuttosto crediamo che sia da percorrere la strada di una riqualificazione delle aree limitrofe alla RAI, dove si potrebbero realizzare interventi coerenti con le previsioni del Piano Regolatore nell’ambito dell’operazione olimpica con minori costi e impatti ambientali».

Sull’area di Tor Vergata, appoggio totale: «Condividiamo la scelta di localizzazione del Villaggio Olimpico, perché consente di recuperare le vele di Calatrava oggi in abbandono, di portare la metropolitana in un’area di Roma che ne ha un gran bisogno e per l’impegno a riutilizzare gli edifici che ospiteranno gli atleti per alloggi universitari e legati all’ospedale. Siamo infine convinti che la candidatura debba connotarsi per l’eredità che lascerebbe ai cittadini in termini ambientali». Olimpiadi ecologiche e con memoria, da consegnare come nutrimento ai figli.

Pasticci romani. «Roma. La risposta del governatore: "Non ci è arrivato nulla". Polemico GiachettiıIl manifesto, 2 luglio 2016

Nonostante le polemiche sul consigliere-capo di gabinetto Daniele Frongia e sul suo vice Raffaele Marra, ex militare della Guardia di Finanza proveniente dal sottogoverno di Gianni Alemanno e dall’Unire di Franco Panzironi, per la neo-sindaca Virginia Raggi doveva essere un mercoledì festivo relativamente tranquillo. Ma nel giorno dedicato ai patroni di Roma San Pietro e Paolo è arrivata ad un nodo fondamentale la vicenda controversa legata alla costruzione dello stadio della Roma. Il Sole 24 Ore ha rivelato che l’iter procedurale per dare il via ai lavori dell’impianto a Tor di Valle ha ricevuto il via libera dagli uffici comunali. « I dirigenti mi hanno comunicato che giuridicamente e tecnicamente è tutto in ordine – ha dichiarato Paolo Berdini, assessore in pectore all’urbanistica – Quindi il dossier è stato formalmente trasmesso alla Regione Lazio per l’avvio della conferenza dei servizi».
Era stato proprio mentre lavorava attorno all’opposizione al progetto, con lo stadio considerato soltanto un escamotage per l’ennesima cementificazione sul territorio romano, che il gruppo di minoranza del M5S aveva apprezzato la competenza di Berdini. In campagna elettorale, Virginia Raggi si era detta dapprima «favorevole» allo stadio a patto che «non ci siano speculazioni edilizie». Poi aveva corretto il tiro: «Se vinciamo ritiriamo la delibera sulla pubblica utilità. Lo stadio della Roma si farà da un’altra parte, a Tor di Valle c’è una speculazione edilizia e non ci sono le condizioni». Quindi in un’intervista al Tempo aveva definito meglio la sua linea: «Sullo stadio non devo cambiare idea. Voglio farlo (anche uno per la Lazio) ma il progetto deve seguire le norme».
Nei giorni scorsi, c’è stato prima l’incontro di Berdini col suo predecessore Giovanni Caudo negli studi di Radio Radicale: qui era emersa la posizione critica dell’assessore in attesa di nomina. Poche ore dopo, una strana «rettifica» fatta trapelare dai pentastellati: «Sullo stadio non abbiamo pregiudizi».

Il progetto viene licenziato prima del 7 luglio, quando la giunta verrà presentata al consiglio comunale? Non è chiaro. Dalla Regione arriva una polemica smentita: «La Regione Lazio è ancora in attesa dal Comune della trasmissione del progetto sullo stadio della Roma». L’ente amministrato da Nicola Zingaretti manda anche una stoccata circa la procedura: «Nella trasmissione del progetto il Campidoglio dovrà dichiarare la conformità del progetto stesso alla delibera sull’interesse pubblico votato dal Consiglio comunale di Roma».

«Fra le possibili risposte alla disaggregazione del tessuto urbano passa attraverso il recupero collettivo del senso del luogo». Il Fatto Quotidiano online, 30 giugno 2016 (c.m.c.)

Prima dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, le città erano il mondo; ora, il mondo è una città. Dentro ai flussi di connessione e interdipendenza, le città continuano ad avere evidenti buchi neri. Nell’ultima campagna elettorale uno dei temi più ricorrenti ha riguardato la condizione delle periferie, luoghi nei quali i candidati-sindaco si presentano in campagna elettorale, salvo scomparire durante i mandati di governo.

Nella nostra cultura urbana esiste un errore di fondo: concepire le periferie, sia in fase di progettazione che in fase di gestione, come corpi separati. Siamo incapaci di elaborare l’ambiente urbano come un unico insieme dotato di più centri, un territorio nel quale, omogeneamente, le amministrazioni irradiano i loro servizi.

Persino nelle strategie di comunicazione ciò che accade in centro riguarda tutta la città, mentre ciò che accade in periferia appartiene solo a quella porzione di territorio. Nel recente convegno della Media ecology association presso l’Università di Bologna, tenutasi dal 23 al 25 giugno, (un’associazione mondiale di professionisti le cui competenze diverse si incrociano con la comunicazione) è emersa l’ambizione delle più grandi città del mondo (per l’Italia il caso più evidente è Milano) di esercitare un ruolo internazionale, nelle comunicazioni, nella finanza, nel commercio, quasi nel tentativo di scavalcare lo stato nazionale. Un gigantismo che stride con territori periferici poveri di relazioni.

A Roma, con il tema Olimpiadi, è andata in scena la sproporzione tra ambizioni di crescita, disagio e impossibilità. Tema sul quale esistono visioni contrastanti, tra chi ha avanzato l’idea di ridisegnare la città “sfruttando” l’evento sportivo internazionale (Giachetti) e chi ha continuato a ricordare che la voragine del bilancio comunale, peraltro non ancora esattamente quantificata, non consente avventurosi titanismi (Raggi).

Nella recente tornata elettorale, i temi legati all’ambiente sono rimasti in parte oscurati, sovrastati dai richiami alla sicurezza, all’emergenza immigrati e alla corruzione. Eppure la città resta un ambiente dove è altrettanto importante l’aria che respiriamo, la qualità dell’acqua (come e dove si smaltiscono i rifiuti), la tutela degli spazi verdi, aspetti connessi alla salvaguardia della salute dei cittadini.

Sulla più bassa qualità della vita in area urbana incide anche la difficoltà a creare un tessuto associativo al di fuori delle organizzazioni di natura economica. La nuova divisione internazionale del lavoro ha portato alla deindustrializzazione e allo smembramento di reti associative che offrivano occasioni per creare varie comunità. I flussi migratori hanno acuito le sacche di isolamento e di disadattamento sociale.

Una tra le principali preoccupazioni di un sindaco dovrebbe essere quella di stimolare, su più livelli, il coagulo associativo. Il web crea straordinarie comunità virtuali, ma non genera coesione sociale e non ha sempre un ancoraggio sulle attività locali dei territori. Quanto emerge dai contributi della Media Ecology Association, in tema di politiche urbane, guarda alla possibilità di creare occasioni di incontro ludiche nelle città, sostenendo che anche il gioco (non virtuale) è un elemento di coesione sociale per fare partecipare e integrare pubblici diversi.

Esiste un movimento mondiale (Playable City Movement) che punta a creare momenti ludici negli spazi urbani, con interessanti iniziative avviate nel recente passato a Stoccolma e a Bristol. Momenti legati al tempo libero ci sono anche in Italia, con la proliferazione di fiere locali e feste di strada, ma quello che ci manca è la messa in sistema delle varie iniziative, al fine di ritessere trame comunitarie. Il gioco è un ponte che accorcia le distanze sociali e le politiche del gioco godono di facile attuabilità poiché, generalmente, sono a basso costo.

La tutela della sicurezza pubblica passa anche attraverso la possibilità di creare coesione sociale, senza dimenticare che una comunità coesa è anche una comunità più solidale. Un’accorta politica mediatica deve partire dall’idea che la città è un mezzo di comunicazione per diffondere ciò che intende realizzare: rendere ciascuno parte di un tutto. In definitiva, una fra le possibili risposte alla disaggregazione del tessuto urbano passa attraverso il recupero collettivo del senso del luogo: di quello che può offrire nel presente, di ciò che ha raccontato nel passato.

L'impianto verrà chiuso in quanto la società che lo gestisce afferma di essere in grado di offrire "la stessa quantità di energia, a prezzi inferiori agli attuali, utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, eolico e solare" . The New York Times, 27 giugno 2016 (p.s.)

Double Canyon è l'ultimo impianto nucleare ancora in funzione in California. La sua costruzione fu fortemente contestata, 1900 attivisti vennero arrestati nel 1981 durante una manifestazione di protesta, ma solo dopo Fukushima il fronte dei contrari si è allargato. Ora la Pacific Gas & Electric ha comunicato che allo scadere delle licenze, nel 2024, chiuderà la centrale essendo in grado di offrire "la stessa quantità di energia, a prezzi inferiori agli attuali, utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, eolico e solare". Da un lato la conferma che si possono fare profitti anche senza distruggere il pianeta, dall'altro un precedente per altri stati che stanno valutando l'abbandono del nucleare.

GOOD NEWS FROM
DIABLO CANYON

Few nuclear power plants have been as contentious as Diablo Canyon. The plant, which went online in 1985 after years of ferocious opposition, sits on a gorgeous stretch of California coastline, surrounded by several earthquake faults and reliably producing enormous quantities of power - almost a tenth of California’s in-state generation. It also reliably kills enormous quantities of marine life with a cooling system that depends on huge intakes and discharges of seawater. David Brower, the executive director of the Sierra Club, got so angry with the organization when it refused to oppose the plant that he left to establish Friends of the Earth.

Mr. Brower, who died in 2000, would have been pleased with last week’s news. After long negotiations that involved, among others, Friends of the Earth and the Natural Resources Defense Council, the plant’s owner, Pacific Gas and Electric, announced that it would shut down Diablo Canyon when licenses for its two reactors expire in 2024 and 2025 and that it would replace the power with lower-cost, zero-carbon energy sources.

Approvals will be needed from two state agencies, the California State Lands Commission and the state’s Public Utilities Commission. Both should say yes; this is an event of potentially great significance for the future of energy generation in this country and for the health of the earth itself- and not just because a bunch of sometimes quarrelsome forces (unions, environmental groups, the power company) came together to make it happen.

First, the agreement is a recognition by PG&E, which generates a big chunk of its electrical output (and revenues) from Diablo Canyon, that it can provide the same amount of energy at lower costs by investing in wind and solar power and in energy efficiency improvements throughout the system, including its customers. As one negotiator put it, the deal is further evidence that “the age of renewables has arrived” - at least in California, which has long led the nation in energy innovation and last year passed a law requiring state-regulated utilities to get half their electricity from renewable sources by 2030.

Equally important, the agreement could serve as a positive example for other states and nations that may in time need to replace aging nuclear plants without increasing carbon emissions. However old and creaky some of them may be, America’s 99 nuclear reactors produce nearly a fifth of the nation’s power and two-thirds of its low-carbon energy; at a time of mounting fears about climate change, the country would be foolish to shut them down prematurely. When the time comes to retire them, it would be no less foolish to replace their power with anything other than zero-carbon sources like wind, or solar or energy efficiency.

One governor who understands this is New York’s Andrew Cuomo. Mr. Cuomo has proposed an ambitious clean-energy agenda that includes not only substantial investments in wind and solar power, but also subsidies to keep open several upstate nuclear plants that are at risk of closing because of low electricity prices driven by cheap natural gas.

Mr. Cuomo would be happy to close down the Indian Point plant, north of New York City. Indian Point has a terrible track record and last week was forced to shut down one reactor. But losing the upstate plants, he argues, would mean increased reliance on fossil fuels and the greenhouse gas emissions they generate until the day when renewables kick in. A similar drama is playing out in Illinois, where Exelon, a big power producer, has threatened to close down two money-losing nuclear plants unless it gets help from the Illinois legislature.

From a climate perspective, the smart strategy in such cases would be to hold on to the nuclear plants until a California-like transition to greenhouse-gas-free electricity is feasible. Not every state has California’s natural blessings, or its aggressive renewable energy mandates. But its commitment and imagination are worth emulating.

Comune-info, 26 giugno 2016 (p.d.)

Song-do, due ore e passa in metro da Seul, Corea del Sud, è una città costruita dal nulla, su 6,5 chilometri quadrati rubati al mare dalla mano dell’uomo che altera confini e morfologie. L’intenzione è di ospitare almeno 250mila persone in questo insediamento che sta diventando “trendy” al punto da convincere varie star di soap opera di andarci a vivere neanche fosse una Beverly Hills d’Oriente. Ad oggi però ci sono solo costruzioni avveniristiche ultimate semivuote, qualche sparuto ciclista e cantieri che lavorano 24 ore su 24. Sullo sfondo canali pieni di navi mercantili.

Camminando tra questi grattacieli di acciaio e cristalli, strade semivuote in attesa di essere riempite di auto, sembra di vivere in un Truman show del liberismo più sfrenato. Non a caso Song-do è stata costruita all’interno di una delle quattro zone economiche libere della Corea, la Incheon-Free-Economic-Zone (IFEZ), per le quali il governo coreano ha investito qualcosa come 41 miliardi di dollari, su una superficie di 290 chilometri quadrati, la maggior parte conquistata al mare.

Quasi una città-stato nel quale chi investe gode di esenzioni fiscali e non solo. Una raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo, quello della reificazione del quotidiano, della natura trasformata in merce di consumo, dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita, pietre finte e alberi trapiantati sulla sabbia piatta, sferzata dal vento, gelido di inverno, caldo e umido d’estate. Song-do ci racconta uno stato alterato di sovranità, o forse d’eccezione così ben descritto da Giorgio Agamben. Il “G-building” ospita il governo della IFEZ – c’è addirittura un ambasciatore per le relazioni internazionali – ed anche gli uffici del Fondo Verde per il Clima, entità istituita per finanziare l’attuazione degli accordi sul clima di Parigi.

Al piano terra entri e vieni accolto da uno schermo luminoso che proietta gli indici di borsa, negli ascensori un altro video ti spara un grafico per poi chiederti se hai fatto la tua dose di passi giornalieri per tenerti in forma. I marciapiedi sono quasi tutti in tartan, per biciclette e “runner”, ma ce ne sono assai pochi, in questa città che vuole essere una eco-città modello. Salta agli occhi la vera contraddizione, quella che vorrebbe applicare al liberismo una patina di verde e di tecnologie appropriate. Oggi Song-do è considerata, non a caso, un modello di “green economy” costruito sostituendo un ecosistema dove vivevano 11 specie di uccelli migratori definiti di grande importanza dalla Convenzione di Ramsar, tra cui la “Platalea Minor”.

Mentre le verdissime centrali “a zero emissioni di carbonio” sfruttano le energie delle maree distruggendo habitat costieri delicatissimi. Il paradosso è che uno di questi impianti, il più grande al mondo, il Siwha Tidal Power Plant è stato anche registrato come progetto del Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio. “A conflict of greens: Green Development versus Habitat Preservation-the case of Incheon, South Korea” titolava un saggio a sottolineare la contraddizione tra capitalismo verde ed ecologia. Quale conversione ecologica potrà essere possibile in un luogo artificiale, dove i diritti sono sottomessi alle leggi del mercato e della finanza? Un luogo che pretende di essere laboratorio di un Green New Deal asettico e senz’anima? Fa riflettere quella teoria, non corroborata da prove scientifiche, secondo la quale una città acquisisce una propria “anima” nello spazio di due generazioni o per essere precisi intorno a settanta anni o giù di lì. Allora, la Song-do di oggi sarà soppiantata da progetti ancor più avveniristici, già illustrati nel museo-mostra permanente dell’IFEZ. E ci vorranno altri settanta anni per la nuova “anima” della città.

A pochi chilometri dall’aeroporto, in pratica uno “shopping mall” con piste di decollo e atterraggio, sta nascendo un casinò enorme, dal costo, si dice, di un miliardo di dollari, per ricchi cinesi in cerca di azzardo e facile fortuna. Ero già stato in una situazione simile, a Doha, Qatar, lì erano il gas e il petrolio a fare da motore della trasformazione radicale dello spazio urbano, con braccia e mani di centinaia di migliaia di migranti che lavorano in condizioni di semi schiavitù. Anche lì una penisola rubata al mare, una vetrina dei migliori architetti in circolazione da Jean Nouvel a Norman Foster, anche lì una realtà artificiale, una Venezia in plastica al centro di un megacentro commerciale. E poi cantieri e cantieri, per far giocare gli opulenti ed annoiatissimi autoctoni al borsino della speculazione immobiliare, e trasformare il Qatar in un polo della conoscenza e della ricerca scientifica per tutta la regione e attrarre ragazzi e ragazze nei nuovi campus e centri di ricerca.

Pare che il presidente ecuadoriano Rafael Correa si fosse innamorato del Qatar, non a caso gli sceicchi si stanno comprando mezza Quito, dopo avere conquistato Londra e la Milano da “bere”. Si innamorò di quella società che si vuole dire “post-petrolifera”, e che investe nella conoscenza, e dopo Doha si innamorò anche di Incheon. Così anche tra le Ande ecuadoriane, nacque Yachay, una sorta di Silicon Valley della conoscenza e delle biotech, disegnata dalla cura attenta di esperti coreani.

Anche qua, come a Doha ed a Song-do si cerca di attrarre cervelli e docenti delle migliori università. Saranno spazi extraterritoriali urbani come l’IFEZ, plasmati a tavolino, sospesi nello spazio e nel tempo, buchi neri dove vige l’esenzione dalle regole e dalle tasse, dai diritti dei lavoratori, a costituire la nuova frontiera del liberismo selvaggio che si nutre di risorse saccheggiate altrove. Fatto sta che Song-do oggi è uno di quei tanti luoghi di “extraterritorialità”, che fanno il pari con le Zone di Libero Scambio (Export Processing Zones) dedicate esclusivamente all’esportazione – ricordo quella di Manaus – o Hong Kong – che assieme ai paradisi fiscali disegnano un’altra geografia del potere, un sistema reticolare di governo parallelo, impermeabile allo scrutinio pubblico, che non prevede anomalie o alternative.

Un esempio tra i tanti di “zone” (assai bene descritte in un saggio di Keller Easterly del 2014, “Extrastatecraft: the power of infrastructure space” ) dove vengono ridisegnati poteri e sovranità, tra assetti statuali e di mercato. Il modello “coreano” viene esportato ovunque nel mondo, non solo in Ecuador, ma anche ad esempio in Honduras, dove capitali coreani sostengono la creazione di “charter cities”, vere città stato autonome e indipendenti, regolate solo dalla legge del mercato e del profitto. Viene da pensare alla City di Londra oggi all’indomani della Brexit, ed a chi pensa che la Brexit possa contrastare il disegno del capitalismo liberista e finanziarizzato. Non si facciano illusioni, esistono già altri luoghi non-luoghi pronti a prendere il posto di Londra o di Francoforte sparsi lungo la densa rete di “città stato”, “città mercato” globali come disse a suo tempo Saskia Sassen, aree di libero scambio, zone economiche libere che stanno nascendo in ogni parte del mondo.

Così Song-Do, disegnata di sana pianta da una compagnia di progettazione, la Kohn Pedersen Fox, è una città “chiavi in mano” da riprodurre altrove nel mondo, con il suo Central Park, il suo World Trade Center e i suoi canali di tipo Venezia del futuro, e anche altre zone di libero scambio, un technopark e un biocomplex. I cessi elettronici degli hotel ti offrono varie opzioni, tra clistere automatizzato e massaggi del fondo schiena a temperatura regolabile. Intanto i supermercati vendono cosmetici tratti dalla manipolazione genetica di cellule staminali, per schiarire la pelle e regalare l’illusione dell’eterna giovinezza.

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