«Dietro un’espressione ricorrente si cela molta retorica che stride con la realtà delle città oggi. L’India annuncia la fondazione di nuovi agglomerati urbani ad altissimo utilizzo di tecnologie digitali, ma i quartieri sono recintati da sbarre, frutto di un’ossessione da sicurezza». La Repubblica, 24 luglio 2016 (c.m.c.)
Il governo indiano ha di recente comunicato la lista delle prime venti città destinate a fornire un «modello replicabile che funzioni come una casa illuminata» per le altre città che aspirano a entrare in un ambizioso piano di 100 smart cities: in prevalenza città satelliti collocate in vicinanza di grandi aree metropolitane.
Una pianificazione affascinante soprattutto per una civiltà come quella occidentale, ancora ammaccata dall’aver troppo creduto alle virtù taumaturgiche della mano invisibile del mercato. Una pianificazione che aiuta anche a far emergere gli usi retorici del sintagma smart cities in Europa e negli Stati Uniti (le città intelligenti, le città che fanno grande uso di tecnologie della comunicazione, le tecnologie digitali, affidando a queste la possibile soluzione di molti dei problemi che le affliggono). Ma da quali considerazioni nasce la Smart Cities Mission indiana e cosa prevede?
Nasce dal riconoscimento della crisi di un’urbanizzazione senza piani, che ha portato all’edificazione di aree metropolitane invivibili. È cioè la parola city, nel sintagma, a dettare il punto di partenza e a definire le aspirazioni del progetto. Leggendo i programmi, scorrendo i venti progetti selezionati, colpisce come siano la qualità della vita e l’inclusione sociale i due obbiettivi fondamentali. «Dare un’identità alle città», renderle più friendly, anche attraverso scelte urbanistiche che poco appartengono alle culture indiane, come la cura nella progettazione degli spazi pubblici o l’identificazione di Urban Local Body, una contaminazione tutta da verificare tra centro storico europeo e civic center statunitense.
D’altronde le città satelliti hanno una lunga storia anch’essa tutta occidentale: dalle ottocentesche città giardino inglesi, alle Sunnyside Gardens e Redburn statunitensi negli anni venti, sino alle villes nouvelles francesi la cui edificazione inizia a metà degli anni sessanta del Novecento.
E la prima contraddizione che traspare in questa nuova accelerazione della modernizzazione indiana è la permanenza del modello culturale occidentale nelle forme di contrasto alla città diffusa, la città che si disperde nel territorio. La smart city come veicolo di una nuova forma di colonizzazione? Sarebbe un bel paradosso.
Su cosa sia smart le linee guida del governo e le scelte delle prime venti città, vanno in realtà con i piedi di piombo. Non esiste un’unica definizione di smart. Non solo: viene ricercata una via indiana alla smart city e una via federale dentro la via indiana! Mettendo così in crisi uno dei pilastri delle retoriche della smart city: la sua possibile e quasi ovvia interconnessione globale.
E il confronto ad esempio tra i progetti selezionati di Ahmedabad, Jaipur e Delhi almeno in parte conferma differenze tutt’altro che marginali. Così quando si osserva da vicino in cosa si materializzerebbero le città smart indiane, si scorgono la mobilità urbana, l’efficienza e il risparmio energetico, la gestione dell’acqua e dei rifiuti, e soprattutto la digitalizzazione dei servizi. Anche in questo caso il modello è europeo, le politiche infrastrutturali del Great London Council degli anni cinquanta.
Tre indizi ulteriori emergono da questo ambizioso e, per certi versi, straordinario progetto. In primis la banalità delle soluzioni architettoniche. I rendering ci restituiscono un universo architettonico omologo e banale: ennesime e ripetitive downtown. La difficoltà di passare dal piano al progetto architettonico è ancor più evidente, proprio per la scala dell’intervento: un’ennesima e davvero non auspicata conferma che oggi la cultura architettonica soffre di coazione a ripetere. Il secondo è la pericolosa vicinanza di queste città satellite alle gated communi-ties, gli insediamenti recintati e protetti da sbarre che dalla California oggi si sono diffuse in Brasile, Argentina, Cina e persino nella stessa India!
Uno degli obbiettivi dichiarati di queste smart city è la sicurezza e la ricomparsa delle mura cui stiamo assistendo in tutto il mondo, qui potrebbe trovare una declinazione smart: mura che si oltrepasserebbero, si varcherebbero con badges, naturalmente!
Certo appaiono lontani Georg Simmel e una delle più belle definizioni dell’intelligenza nelle città: la serendipity, l’incontro inatteso e creativo tra diversi. Una sfida che forse si ritroverebbe ben più frequentemente nelle vicine metropoli indiane che si vogliono risanare.
Il terzo indizio è quanto la sempre invocata partecipazione dei cittadini al progetto — modello anche questo anglo-americano — trovi proprio nella risposta tecnica — le reti — resistenza in una società, come quella indiana, segnata da diseguaglianze sociali ancora fortissime. Può essere difficile non solo per Pericle importare la democrazia a Thuri, colonia della Magna Grecia, durante le guerre elleniche, ma anche disseminarla all’interno di un paese ancora così diseguale come l’India.
Certo questo progetto fa quasi impallidire discussioni e sforzi europei e dà la dimensione, se si vuole anche solo brutalmente quantitativa, della distanza che esiste oggi tra parole e cose nel vecchio continente e, in parte almeno, anche negli Usa. E la fa ancor più impallidire se si misura la produzione di parole, che anche solo l’evocazione della dimensione smart oggi genera.
Se si accede attraverso Google Scholar alle pubblicazioni dedicate alle smart city, si può misurare la fortuna editoriale e mediatica di questo sintagma: articoli, saggi, libri con centinaia di citazioni e di testi correlati disegnano una ragnatela quasi inestricabile, spesso autoreferenziale, che parla quasi una sola lingua: l’inglese.
In realtà basta andare un minimo in profondità e si scorgono fenomeni inquietanti. Il primo è una semplificazione assai diffusa: dei rapporti tra territori e società che li abitano, delle relazioni tra accesso all’informazione e conoscenza, di concetti essenziali come innovazione o comunità. La metafora forse più emblematica di questa semplificazione è internet of things, l’internet delle cose, l’internet che mette in relazione non solo informazioni, anche oggetti.
Ma forse ancor più inquietante è il processo che tocca la scala territoriale dei fenomeni.
Smart city nasce come espressione fisica della società globale, sincronica e interconnessa: e la sua metafora, ancor più abusata, è la piazza informatica. Oggi invece le esperienze più sostenute dello smart legato a un territorio sono quelle che, giocando su un’altra grande retorica, la sostenibilità, e su una concezione di democrazia del vicinato, stanno lavorando per passare dalle smart cities agli smart villages, da una dimensione metropolitana a una molto più ridotta.
In realtà smart city rappresenta un esempio fra i più convincenti di un processo di naming without necessity (il nominare qualcosa senza che vi sia una necessità, dare un nome a cose che non esistono). Forse, come insegna la prudenza e la ricerca di declinazioni diverse nell’esperienza indiana, la parola smart evoca, non definisce, promuove (anche, ma non solo marketing, ma imprese, professioni, tecnologie), soprattutto sostituisce la necessità di raccontare fatti e persone. E la narrazione è, come hanno insegnato in modi tanto suggestivi Paul Ricouer e Jason Bruner, la forma che la mente umana ha per rielaborare e appropriarsi anche di cambiamenti traumatici, come indubbiamente è fronteggiare una credenza tanto forte e condivisa che la memoria possa quasi essere lasciata a una nuvola, a un cloud, che incrementerebbe quasi automaticamente un’intelligenza a questo punto ovviamente collettiva.
Forse uno smart che richiama troppo da vicino le battute finali del colloquio di Monos e Una nel celebre racconto di Edgar Allan Poe, in cui Monos solo una volta calato nella tomba si sente davvero rinato, vicino alla sua adorata Una. Speriamo il nostro destino informatico non necessiti di un amore necrofilo!
«Deliberazione innovativa. Il nodo da sciogliere era lo strumento della cessione per assegnazione... Il meccanismo si può interrompere se i beni sono amministrati in forma diretta da comunità di riferimento, in assenza di lucro, per il soddisfacimento di diritti fondamentali».Il manifesto
, 23 luglio 2016 (c.m.c.)
«Comunità che discutono le forme di autonormazione civica degli spazi che quotidianamente fanno vivere, questo per noi è neomunicipalismo»: Giuseppe Micciarelli è avvocato, partecipa ai tavoli di Massa Critica e altre realtà di movimento di Napoli che studiano percorsi giuridici per la definizione e l’utilizzo dei beni comuni.
Un lavoro in parte condiviso con l’amministrazione che ha portato, il primo giugno, all’approvazione della delibera di giunta 446, con cui si riconoscono sette edifici in città come «spazi per loro stessa vocazione divenuti di uso civico e collettivo». Lunedì scorso Mara Carfagna, eletta in consiglio comunale con Forza Italia, ha contestato la delibera nel suo primo discorso tra gli scranni dell’opposizione. Stessa musica dal Pd con Valeria Valente, anche lei eletta in consiglio comunale, che ha dichiarato: «Ancora una mossa maldestra. Non sarebbe giunta l’ora di avviare la vendita e messa a reddito del patrimonio immobiliare comunale annunciato dal sindaco già cinque anni fa?».
Nel 2011 la prima amministrazione de Magistris (nella foto) ereditò un comune con i conti disastrati con conseguente adesione al predissesto. La ricetta proposta da tutti i governi per risanare le casse dei comuni è la vendita del patrimonio pubblico.
A Napoli si sta provando a restituirne una parte alle comunità. I sette edifici a cui fa riferimento la delibera 446 sono pezzi di storia: a Bagnoli ci sono Villa Medusa, frequentatissima dagli anziani del quartiere, e lo storico Lido Pola; a Materdei l’ex Convento delle Teresiane convertito dagli occupanti in Giardino Liberato e l’ex Monastero di Sant’Eframo trasformato a fine Ottocento in un Opg e adesso restituito al quartiere con la sigla Je so’ pazzo; tra Materdei e il Vomero c’è l’ex scuola media Schipa occupata da precari e famiglie in emergenza abitativa; al centro storico l’ex Conservatorio di Santa Maria della Fede tornato alle attività artistiche come Santa Fede Liberata e l’ex Convento delle Cappuccinelle trasformato poi nel carcere Filangieri (uno dei due minorili, insieme a Nisida, per cui si battè Eduardo De Filippo quando divenne senatore a vita) abbandonato per anni e trasformato adesso in Scugnizzo liberato.
«Nel 2012 una comunità di artisti e tecnici occupò l’Asilo Filangieri – spiega Micciarelli -, a Roma c’era un percorso simile al Teatro Valle. Noi però rifiutammo di imboccare la strada della fondazione. Giuristi, filosofi, tecnici e attivisti hanno lavorato sul concetto di autogoverno attraverso un regolamento d’uso».
A maggio 2012 ci fu la prima delibera di giunta che riconosceva l’esperienza dell’Asilo mentre la proprietà, con i relativi oneri ordinari e straordinari, rimaneva al comune. Da allora si sono susseguite altre delibere sull’Asilo e sulla regolamentazione dei beni comuni nel 2013, 2014 e 2015 in un percorso di continuo sviluppo della giurisprudenza in materia.
«Il nodo da sciogliere era lo strumento della cessione per assegnazione – continua Micciarelli -. Il pubblico cede un pezzo di patrimonio, l’assegnatario per sostenerne i costi finisce per metterlo a reddito sottraendolo così alla collettività per un interesse privato. Il meccanismo si interrompe se i beni sono amministrati in forma diretta da comunità di riferimento, in assenza di lucro, per il soddisfacimento di diritti fondamentali. L’uso civico e collettivo urbano non è uso esclusivo, è aperto a chi ne condivide il regolamento». Al pubblico restano la proprietà e gli oneri di gestione ma le comunità si impegnano con il loro lavoro a tenere gli spazi vivi e aperti, li attrezzano e svolgono attività documentate (artistiche ma anche per i minori, sportelli per precari e lavoratori, ambulatori popolari…).
«Il primo provvedimento in materia è del 2011 e modifica lo statuto comunale con l’introduzione della categoria di bene comune – spiega l’assessore alle Politiche urbane, Carmine Piscopo -. Con la delibera di giugno i beni del patrimonio storico artistico, che hanno conservato il carattere monumentale, vengono preservati perché costituiscono reddito sociale per le prossime generazioni. Attiveremo un processo di ascolto e monitoraggio del territorio per sviluppare gli usi collettivi in forma aperta».
Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)
E' noto che il cosiddetto project financing è una delle tecniche più efficaci per rapinare le casse dello Stato. In genere la politica – quando non è mandante o complice – se ne accorge sempre dopo. Il caso della Pedemontana Veneta è dunque inedito. Il governo ha scoperto (forse) in tempo che la nuova arteria da 95 chilometri che dovrebbe collegare le province di Vicenza e Treviso “senza oneri per lo Stato” potrebbe costare ai contribuenti 20 miliardi. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti ha attivato nei giorni scorsi una girandola di frenetiche riunioni per salvare il salvabile. Palazzo Chigi è dovuto intervenire a seguito del totale imbambolamento del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e di quello dell’Economia Pier Carlo Padoan, per tacere del governatore del Veneto Luca Zaia.
La storia della Pedemontana Veneta sembra un copione per cabarettisti. L’operazione parte nel 2003 con i consueti ingredienti dell’epoca: Legge Obiettivo e project financing. La prima garantisce – secondo l’ideatore Ercole Incalza, il dottor Stranamore dell’appalto – l’esecuzione delle opere con tempi e costi certi. Il secondo è apparentemente geniale: il costruttore finanzia e costruisce l’autostrada e se la ripaga con i proventi del traffico, così lo Stato non ci mette una lira. Storie note.
Ma con la Pedemontana Veneta si batte ogni record. Nel 2009 Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso decidono che tra Treviso e Vicenza c’è una vera e propria emergenza traffico, tale da imporre un decreto che svincola la Pedemontana dalle già lasche procedure della Legge Obiettivo. Non solo: viene istituito un commissario onnipotente nella persona di Silvano Vernizzi – braccio destro dell’allora governatore Giancarlo Galan per i cantieri – che diventa nientemeno che “autorità concedente” (nota per i comuni mortali: normalmente l’autorità concedente è il ministero Infrastrutture o l’Anas, minimo una Regione). Vernizzi firma di tutto e di più con il consorzio Sis, vincitore della gara del 2003, formato dal costruttore piemontese Matterino Dogliani e dal gruppo spagnolo Sacyr. I governatori veneti – Galan prima, Luca Zaia poi – approvano tutto. Forse senza rendersi conto di alcuni dettagli. Il primo è quasi normale, cioè il costo dell’opera che dagli 895 milioni iniziali triplica a 2,7 miliardi. Il secondo è la bomba: Vernizzi impegna la Regione Veneto a risarcire il concessionario se per caso il traffico, e quindi i pedaggi, risultassero inferiori alle previsioni. Naturalmente, come tradizione del project financing, le previsioni di traffico alla base dell’operazione sono stellari, per dimostrare la bontà dell’affare: 44 mila veicoli al giorno nel 2023.
Due giorni fa, a Palazzo Chigi, De Vincenti è sbiancato quando due dirigenti di Bei (Banca Europea per gli investimenti) e Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) gli hanno detto che, secondo un loro studio, le previsioni di traffico messe nel piano sono tre volte la realtà. Calcolatrice alla mano, la Regione Veneto dovrebbe rimborsare al consorzio Sis 366 milioni ogni anno per la durata della concessione, 39 anni: 14 miliardi in tutto che diventano 20 calcolando interessi e quisquilie varie.
Perché De Vincenti ha dovuto aprire questo teso tavolo di consultazione? Perché all’inizio di luglio il commissario Vernizzi, il concedente, ha scritto una perentoria lettera al premier Matteo Renzi per battere cassa. Il ragionamento di Vernizzi è semplice. Il consorzio Sis ha iniziato i lavori in un modo curioso, anziché costruire la strada un po’alla volta ha sbancato tutto il percorso, scavando una profonda trincea di 95 chilometri lungo la campagna veneta, ma non ha più soldi. Ha speso finora poco meno di 400 milioni di contributo statale senza metterci un euro di suo. Il contributo pubblico in conto capitale era all’inizio di 150 milioni, poi è diventato di 614 grazie a un miracoloso “atto aggiuntivo” firmato nel 2013 da Vernizzi e assentito da Zaia. Ora il commissario chiede a Renzi gli ultimi 200 e passa milioni per non chiudere i cantieri: pare che il concessionario che doveva fare “tutto con soldi privati” abbia titolo giuridico per pretendere di incassare tutto il contributo anche se non ha messo giù un euro suo.
E qui inizia il capitolo più grottesco. Ovviamente il privato per costruire l’opera deve finanziarsi sul mercato, in questo caso per circa 1,5 miliardi. Ma nessuna banca finora si è arrischiata a prestare soldi al costruttore Matterino Dogliani. La garanzia sottostante è, in sostanza, della regione Veneto che però, se dovesse fare fronte ai 366 milioni all’anno andrebbe in default. In pratica per una banca comprare le obbligazioni Sis sarebbe come investire in titoli di Stato italiani nel novembre del 2011.
Spunta a questo punto l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, oggi capo dell’investment banking europeo di Jp Morgan. La banca americana ha pronto il piano per l’emissione delle obbligazioni con cedola dell’8 per cento, un lauto interesse che alla fine sarebbe pagato da Zaia. Grilli tiene molto all’affare che porterebbe nelle casse di Jp Morgan una cifra stimata tra i 40 e gli 80 milioni di euro per la prestazione di arranger. Siccome nessuna banca vuole comprare il Pedemontana Bond, Grilli sta facendo pressioni sulla Bei e sulla Cdp perché si mettano una mano sulla coscienza e partecipino all’operazione: sarebbe un segnale forte per il mercato e garantirebbe il successo dell’operazione.
Per questa ragione i tecnici di Bei e Cdp hanno messo a punto lo studio sulle previsioni di traffico che giovedì hanno illustrato a De Vincenti. E le conclusioni sono infauste: solo un pazzo investirebbe su un’operazione così strampalata, ed essendo Bei e Cdp banche pubbliche i loro manager non possono fare follie. A complicare il quadro c’è però un manifesto interesse del presidente di Cdp, Claudio Costamagna, per l’operazione. Da mesi Grilli sta premendo su di lui in modo insistente facendo leva sull’ottimo rapporto tra i due banchieri, cementato dalla mossa realizzata da Grilli nello scorso gennaio: ha assunto in Jp Morgan la moglie di Costamagna, Alberica Brivio Sforza, assegnandole il ruolo di “senior private banker per la clientela Ultra High Net Worth”. A occhio dev’essere un mestiere molto difficile.
Adesso tocca a De Vincenti trovare una soluzione. Non sarà facile. Il complesso sistema di clausole firmate da Vernizzi rende quasi impossibile risolvere il pasticcio senza pagare sontuose penali al consorzio Sis. Purtroppo il Codice Appalti appena riformato dal governo non contiene l’unica norma che avrebbe salvato il Paese da flagelli del genere: vietare per legge il project financing.
«“C” come Capitale. Il sottosuolo di Roma è pieno di resti romani e corsi d’acqua. Perché allora non ripristinare soltanto la linea tranviaria?». Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)
La Roma dei Papi e purtroppo anche la Terza Roma sono state costruite sopra la Roma dei Cesari e con Augusto è arrivata a superare ampiamente il milione di abitanti. Logico che – come ha ben documentato ieri l’inchiesta del
Fatto sulla stazione della Metro C a San Giovanni in Laterano – scava che ti scava, te la ritrovi ovunque. In questo caso coi Castra Nova di dimensioni imponenti, sempre più difficili da superare in sotterranea. Da qualche parte devi pur entrare e uscire alla luce. Per limitare lo sbrego, si erano progettate le stazioni sotterranee in una sorta di tunnel allargato, limitando il “buco” alle scale mobili. Ma l’attuale progetto – peraltro privo al momento di fondi – non prevede questa soluzione un po’più soft.
Da qualche parte si fa notare che le informazioni storiche sulla zona di San Giovanni erano sino a ieri scarse. Per la verità le indagini di metà '800, integrate da altre recenti col georadar, hanno consentito di individuare importanti strutture a poche decine di metri dai Castra Novadi via Amba Aradam, precisamente sotto la Basilica di San Giovanni in Laterano. E sono – come scrivono gli archeologi Paolo Liverani, Ian Haynes, Iwan Peverett, Salvatore Piro e Giandomenico Spinola nella pubblicazione uscita due anni fa dalla Tipografia Vaticana – “un complesso di strutture relative al quartier generale della caserma” e non soltanto un praetorium, un macellum e, sotto il Battistero, proprio verso via Amba Aradam, un impianto termale.
Si tratta di una rete di caserme di cavalleria dell’epoca di Settimio Severo estese anche su via Merulana per gli Equites, un corpo sciolto da Costantino dopo la vittoria di Ponte Milvio. Così una parte di quell’amplissima area militarizzata venne utilizzata “per la Basilica Salvatoris”, la più antica. Se poi si procede a scavare – precisò l’archeologa Rossella Rea direttrice a lungo del Colosseo, allorché si scoprì a San Giovanni la famosa villa con grande piscina – si ritroveranno “la storia dell’uomo attivo nell’area dalla fine del VII secolo a.C. quando inizia a occupare le sponde di un corso d’acqua a fondovalle, e percorre coi carri un primo tracciato viario in terra battuta”. Ancora nel Medio Evo era zona di corsi d’acqua,mulini e“marane”. La stessa archeologa notò che “oltre le pareti del cantiere per la Linea C, la vasca si estende verso le Mura (Aureliane) dove probabilmente si conserva, e in direzione di piazzale Appio, nell’area interessata dalla Linea A ove, invece, è stata sicuramente intercettata e distrutta”. Operazione oggi, per fortuna, non ripetibile. Ma che pone varie questioni.
Spostiamoci in direzione Colosseo-piazza Venezia-Argentina: più si procede e più si fa pesante il problema delle acque sotterranee da affrontare e smaltire al di sotto dello strato archeologico per potervi realizzare stazioni e uscite. A costi sempre più elevati. Non in Largo Argentina dove sorge ancora il Foro Repubblicano. Forse davanti alla Biblioteca Vallicelliana col rischio di minarne la stabilità? Sotto Corso Vittorio scorre infatti un vero e proprio fiume, l’Euripus dei Romani, che, arrivando da Campo Marzio, sotto la imponente Cancelleria sommerge il sepolcro di Aulo Irzio, luogotenente di Cesare, caduto col console Vibio Pansa nella battaglia di Modena nel 43 a.C. Al corso di Euripus e di altre vene d’acqua i muraglioni di fine ’800 hanno sbarrato la confluenza nel Tevere alzando la falda. Secondo Paolo Marconi, anche di 4-5 metri. Insomma, non sarebbe più saggio far finire a San Giovanni la Linea C e ridare in superficie a Roma quella splendida rete tranviaria che Benito Mussolini fece svellere a partire dal 1925 perché “stoltamente contamina il carattere imperiale di Roma”? Con 430 Km, pensate, di rotaie (oggi sono meno di 40) e 50 linee regolari di tram.
La Repubblica, ed. Firenze
.DUE scultoree, eccentriche porte ‘d’oro’ – apparentemente in ottone, comunque ricoperte da una vistosissima patina dorata – sono apparse nella testata meridionale della facciata dello Spedale degli Innocenti, in piazza Santissima Annunziata. La prima, quella che si apre nel corpo pieno del fronte brunelleschiano, ha un telaio che esce dalla parete e si protende prepotentemente verso la piazza. La seconda – lì accanto, dalla parte di Via dei Fibbiai – si apre come la saracinesca di un garage da film di fantascienza o di spionaggio.
È difficile esagerare l’importanza del portico degli Innocenti, ideato da Filippo Brunelleschi nel 1418-19: non è improprio definirlo la prima architettura del Rinascimento. Anzi, il primo spazio urbano rinascimentale: l’incunabolo inestimabile di un nuovo modo di leggere il mondo, e di riscriverlo. L’incipit della città moderna. Qui, per la prima volta, il vocabolario classico (colonne, paraste, archi, capitelli, trabeazioni…) risorge ad una vita nuova: diversa da quella antica, ma non meno alta e non meno gravida di futuro. Qui per la prima volta l’architettura è pensata in termini geometrici e aritmetici: il corpo umano è la misura, gli occhi sono lo strumento, la mente è il primo cantiere. Generazioni di architetti, e di semplici cittadini, hanno idealmente salito in ginocchio la scalinata (aggiunta da Rossellino) che sale verso quella sublime, pausatissima danza di archi e colonne: la semplicità fatta perfezione.
Rompere l’equilibrio formale di uno simile monumento ha lo stesso significato che dipingere i baffi alla Gioconda. Come se qualcuno colorasse di blu elettrico la palla dorata sulla lanterna dorata della Cupola, collocasse una vetrata rosa fucsia nell’oculo della facciata di Santa Maria Novella. Sia chiaro, in arte tutto è lecito: e chiunque è libero di intendere il rapporto tra presente e passato in termini di provocazione puerile. Ma se qualcuno, al Louvre, prova a fare i baffi sull’originale della Gioconda viene fermato: perché esiste anche la libertà di tutti coloro che preferiscono continuare a guardarla come la lasciò Leonardo. È per questo che, in Italia, esistono i vincoli: e la prima architettura del Rinascimento è intoccabile. Dunque, come è stato possibile alterarla così pesantemente? La risposta va cercata nell’ abdicazione della Soprintendenza fiorentina, che con Alessandra Marino ha scelto la strada dell’autosoppressione. Un modo perfetto per adeguarsi al pensiero dominante: se il principe dice che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia », ecco che i soprintendenti fanno finta di non esistere. Risultato: i cittadini, che mantengono sia il principe che le soprintendenze con le loro tasse, hanno il danno e la beffa. In attesa che un sussulto di decenza ci liberi da queste porte – non del Paradiso, ma dell’inferno del gusto – fermiamoci un attimo sul loro significato simbolico. Se proprio l’orafo Brunelleschi liberò i fiorentini del Quattrocento dall’ostentazione dell’oro tardogotico, inaugurando la mirabile sobrietà delle facciate fiorentine del Rinascimento, oggi una Firenze à la Jeff Koons torna a luccicare, come una moneta falsa. Rinnegando secoli di misura e understatment, la parola ‘arte’ è diventata sinonimo di ‘lusso’. La Galleria Palatina è al servizio dei marchi della moda, il Salone dei Cinquecento è una vip lounge a pagamento, sull’Arno si banchetta sui ponti veri, mentre ne fioriscono di effimeri per ospitare cene milionarie di marchi blasonati: la bellezza celebra la disuguaglianza, attraverso l’ostentazione più volgare. Piazza della Signoria si riempie di statue placcate oro, e il povero David di Michelangelo diventa il feticcio di una retorica imbarazzante. Siamo ignoranti, ma benestanti. Ingiusti, ma griffatissimi e sfacciati. Una Firenze kitsch che si specchia in un lusso da bordello orientale: e che al simbolo, solidale e austero, della Ruota degli Innocenti che accoglieva gli orfani sostituisce quello della Porta d’Oro che accoglie i ricchi investitori. Una triste porta d’uscita.
Ampia e documentata illustrazione del processo di distruzione di un popolo, una nazione, una città e un immenso patrimonio storico che sta avvenendo in quello stato tiranno e omicida cui l'Europa, gli Usa e la Nato hanno affidato il ruolo di "bastione della civiltà occidentale." Insieme, una richiesta di sostegno a chi tenacemente resiste
URBICIDIO A SUR- DIYARBAKIR
di Mireille Senn
Qui è scaricabile il testo integrale
Dall'inizio del 2015, la Turchia conosce una recrudescenza della violenza in tutto il paese. Atti di terrorismo e repressione poliziesca e militare si sono moltiplicati e hanno interrotto le fragili trattative di pace con i rappresentanti curdi. Queste erano state avviate nell’ autunno 2012 dal governo islamo-conservatore turco per tentare di porre fine ad una ribellione persistente nel sud-est del paese.
La guerra in Siria e la fuga dei rifugiati, i successi dei combattenti curdi in Iraq e nel Rojava alla frontiera siriana con la Turchia, l'accordo sul programma nucleare iraniano e l'autoritarismo del presidente Recep Tayyip Erdoğan fanno parte delle spiegazione alla crescita delle tensioni fino ad oggi.
Il clima delle elezioni legislative di giugno e di quelle anticipate di novembre 2015 è stato segnato da attacchi alla stampa dell'opposizione da parte del governo AKP[1], e alle sede del partito filocurdo HDP[2] da partigiani del presidente o dai nazionalisti del MHP[3] di estrema destra.
Nell'estate 2015, attentati commessi in Turchia dal gruppo Stato islamico, e altri commessi dal PKK[4] contro poliziotti e militari in ritorsione all'attitude al meno tollerante del governo turco verso i jihadisti islamici di Daech e dell'ISIS si sono susseguiti. In risposta, alla fine di luglio, l'aviazione militare turca ha iniziato dei bombardamenti sulle basi dei jihadisti in Siria, ma anche su quelle del PKK nel nord dell'Irak, rompendo la tregua che durava dal 2013.
"L'aumento delle misure di sicurezze al confine siriano" - come dichiarato dall'allora Primo Ministro Ahmet Davutoğl - ha incluso anche l'imposizione di coprifuochi in diverse città curde: Cizre, Silopi, e nel quartiere di Sur a Diyarbakır già dall'inizio di settembre 2015.
L'attentato di Ankara del 10 ottobre 2015, che ha colpito i partecipanti a una marcia per la pace organizzata dai sindacati di sinistra e dal HDP ha cristalizzato ancora di più le posizioni degli oppositori al governo. Da allora, veri e propri atti di guerra fra le forze di sicurezza turche e i gruppi armati che operano nella regione si sono svolti a porte chiuse : nell’ambito delle cosidette operazioni di sicurezza, sono stati officialmente confermati 65 coprifuochi "24 ore su 24" per una durata senza scadenza che ha variato da alcuni giorni a diverse settimane e persino a vari mesi.
Le conseguenze sulle popolazioni locali sono state particolarmente pesanti : secondo i dati raccolti dalla Fondazione per i Diritti Umani di Turchia, da gennaio alla metà di aprile 2016, sono stati uccisi dalle forze dello stato turco nella regione curda 353 civili e feriti 246 (senza contare le centinaie di militanti armati e di soldati caduti nei combattimenti). Attacate con armi pesanti, numerose città del Kurdistan sono state severamente danneggiate. L’ampiezza delle destruzione delle città si sono rivelate quando i coprifuochi sono stati revocati.
Ma la fine degli scontri armati non significa il ritorno alla pace per gli abitanti dei quartieri danneggiati : è cominciata oramai la lotta contro la gentrificazione e l'urbicidio voluti dal governo del onnipotente Erdoğan.
Diyarbakır, città millenaria
sulla lista del Patrimonio mondiale dell'Unesco
Diyarbakır (chiamata anche Amed dai curdi) è una città del sud-est della Turchia con una populazione di più di un millione e mezzo di abitanti. È considerata dai Curdi la capitale del Kurdistan turco. Il distretto di Sur, situato su un altopiano basaltico al di sopra il fiume Tigri, è la parte di città storica intra-muros di Diyarbakır. Alcuni storici fanno risalire la prima colonia sul Monte Amida a 5000 anni avanti Cristo, e attribuiscono la prima struttura di fortezza agli Hurriti circa 3000 a.C. Chiamata Amida nell'Antichità, fu capitale del regno arameo di Bet-Zamani nel XIII secolo a.C. Data la sua posizione geostrategica all'intersezione de l'Ovest e dell'Est, era già la principale piazzaforte della Mesopotamia nel IV secolo a.C. Dal II secolo a.C. al II secolo dopo Cristo fu una delle città maggiore del Regno d'Armenia. La regione diventò in seguito una provincia dell'Impero Romano e nel IV secolo fu una fortezza frontaliera nella valle superiore del Tigri, posta sotto assedio e presa della forze dell'Impero persiano dei Sassanidi. Dal XI al XII secolo fu sottomessa alla dinastia curda dei Marwanidi per poi passare sotto l'autorità dei Turchi Oghuz. Diyarbakır fu integrata all'Impero Ottomano nel 1534 e dopo un'annessione temporanea dall'Impero persiano Safavide, torno sotto la Sublime Porta e diventò capoluogo del vilayet di Diyabakir nel 1864.
La storia di Amida è anche un susseguirsi di influenze religiose: centro religioso legato al patriarcato siriaco-ortodosso di Antiochia, fu in seguito sede del partriacato della Chiesa cattolica caldea dalla fine del XVII secolo all'inizio del XIX secolo, e fino ai massacri che iniziarono alla fine del XIX secolo e che culminarono nel 1915, la regione era densamente popolata da Armeni e da diverse altre minoranze cristiane.
Se l'antica Amida prese la forma di una cittadella, dopo la Prima Guerra Mondiale e l'avvenimento della giovane Repubblica turca, la combinazione fra il bisogno di spazi dove costruire i nuovi edifici pubblici, la creazione della rete ferroviaria (che portava in se la speranza di uno sviluppo economica per la città), e l'edificazione di case e di caserme per l'esercito e il personale dell'amministrazione spinsero l'insediamento degli abitanti al di fuori della mura. In 1930, il Governatore Nizamettin Efendi mandò giù pezzi di muraglie nelle parte nord e sud della fortezza per dare aria alla città storica : nuove strade furono create che prolungarono l'asse di scambio tradizionale interno. Il quartiere interno alle mura fu chiamato Suriçi (sur = mura e iç = dentro), detto anche Sur. Con l'apertura e l'espansione della città, i proprietari delle case della parte storica cambiarono : i nuovi migranti delle zone rurali sostituirono gli abitanti più abbienti che andarono ad abitare nei nuovi quartieri. Un'altra parte della popolazione rurale si installò in baraccopoli con piccoli giardini nell'area compresa tra le case tradizionali e le mura della città. Dagli anni 1960, lo sviluppo urbano proseguò e si estendò al nord-est della città, sulla pianura. La città si costruì sur la trama di un piano orthogonale, ritmato da viale che prolongarono le breccie della città intramuros; strade secondarie servono di limiti a grandi isolotti dove grande torri sorgessero.
Negli anni 1980-90, la città conobbe una vera e propria esplosione urbana. Il conflitto armato, opponendo lo Stato turco al PKK nelle montagne dell'est e del sud-ovest della Turchia, diventò molto forte, constringendo la popolazione rurale ad un esodo verso le grandi città del paese. Diyarbakır tornò ad essere città di rifugio e i quartieri di Bağlar (all'ovest di Yenişehir), di Fiskaya e di Ben-U-Sen emergessero ai confini del tessuto urbano. La forma urbana rimase la stessa di quella iniziata negli anni 1960 e la forma architettonica declinò all'infinito degli ettari di torri alte dagli 8 ai 15 piani, interrotti da isolotti di gated communities per le classi sociali più ricche.
Sur si ritrovò a dover accogliere una parte di questi arrivi massicci e venne densificato al massimo: le case tradizionali di basalto furono consolidate e sopraelevate, nuove case aggiunte al tessuto già denso.
Dall'inizio degli anni 2000, la maggior parte delle famiglie solvibili o abbienti lasciarono Sur e andarono ad abitare nei condomini e nelle residenze chiuse degli quartieri più in vista della città in continua espensione.
Queste traiettorie residenziali hanno reso Sur un distretto uniformemente povero. Diyarbakır continua ad estendersi al di fuori delle muraglie antiche, spinta verso nord-ovest dalla valle del Tigri e dall'aeroporto militare che chiudono ogni possibilità di estensione altrove.
La straordinaria storia di questa città multiconfessionale ha lasciato un patrimonio architettonico molto ricco - muro di cinta quasi intero, chiese e moschee, caravanserragli, antiche case - che venne riconosciuto di interesse mondiale col l'iscrizione sulla Lista del Patrimonio Mondiale dell'Unesco il 4 luglio 2015 come Paesaggio culturale della fortezza di Diyarbakır e dei Giardini dell'Hevsel. Le muraglie e le sue torre storiche vengono ormai protette in quanto classificate "sito urbano", l'Içkale (la fortezza) di Amida in quanto "sito archeologico di prima classe" e due zone tampone vengono delineate, una esterna alle mura, l'altra essendo costituita dal distretto di Sur.
Il contesto politico
L'HDP è alla testa della municipalità metropolitana di Diyarbakır dal 2009. Da allora, è riuscita a menare un'azione politica volontaristica con l'apertura di centri sociali o culturali per gli abitanti, insistando sul passato multiconfessionale e multiculturale, ma anche sul carattere profondamente curdo della città. Pezzi del patrimonio non-musulmano (come la chiesa di San Ciriaco) sono stati rinnovati, anche se le communità contano ormai solo alcune famiglie. Una nuova generazione di uomini politici e di responsabili di associazioni e organizzazioni non-statali, che non hanno vissuto la lotta armata, ha vivacizzato una società civile diventata intraprendente. L'iscrizione della città al patrimonio dell'Unesco in 2015 è stata una tappa importante di questo percorso.
All'inizio del 2014, i tre cantoni di Rojava (Afrine, Kobane e Jazire, nel Kurdistan siriano) annunciarono la creazione di una regione federale nelle zone sotto il loro controllo nel nord della Siria. La federazione in comuni autonomi e l'adozione di un contratto sociale che stabilì una democrazia diretta e una gestione egalitaria delle risorse sulla base di assemblee popolari costituì una speranza per i Curdi della Turchia che seguono con attenzione la situazione dall'altra parte della frontiera. Il progetto politico del PYD[5] è quello di un confederalismo democratico con strutture federative e auto-organizativi per permettere l'organizzarsi di una società plurale in maniera più equa a tutti i livelli. Cioè l'antitesi dei principì fondatori della Stato turco nazionalista e patriarcale incarnato oggi dal l'AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Anzi, il governo turco è stato accusato a diverse riprese di sostenere i jihadisti contro i combattenti curdi del YPG[6] - il braccio armato del PYD - al fine di indebollire l’autonomia curda in Siria: anche quando l'esercito turco ebbe in linea di mira diretta i combattenti dello Stato islamico, non fece nulla per respingerli.
Durante l'occupazione di Kobane da parte dell'ISIS, il presidente Erdoğan aveva posto le condizioni per il suo sostegno ai resistenti curdi: creare una zona cuscinetto nel nord della Siria (sostanzialmente un’occupazione turca); l'unione dei curdi con l’opposizione araba siriana, e la presa di distanza del PYD dal PKK. Termini che sono stati respinti dai curdi del Rojava in quanto inaccettabili.
Nell’ ottobre 2014, manifestazioni di sostegno a Kobane e di protesta contro l'inazione turca si sono tenute in tutto il paese e hanno dovuto far fronte agli interventi violenti delle forze dell'ordine turche. A mettere olio sul fuoco, le dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato che presentarono l'YPG come un'organizzazione più pericolosa che l'ISIS. Le ripresaglie contro la polizia e i militari da parte di militanti pro-curdi si molteplicarono, a cui le forze di sicurezza turche risposero a loro volta. L'ingranaggio della violenza era di nuovo in atto, ma la speranza di trovare delle soluzioni pacifiche non era ancora svanita.
Il 26 gennaio 2015, arrivò l'annuncio della liberazione di Kobane. Le forze curde, con l'aiuto della coalizione sotto commando americano, hanno ripreso la città sotto assedio da più da 4 mesi dai jihadisti dello Stato islamico. Lo stesso giorno, la Turchia ha aperto il più grande campo per i profughi siriani a Suruç, a pochi chilometri di Kobane da dove sono arrivati circa 200 mila rifugiati. Come in altre città curde, migliaia di persone si sono radunate nella città di frontiera per festeggiare la vittoria su Daech ma anche per tentare di raggiungere la città siriana ormai liberata. Vengono fermate dalle forze di sicurezza turche che disperdono la folla.
Il 28 febbraio 2015, la stampa nazionale e internazionale annunciò la rilancia dei negoziati con i ribelli curdi del PKK. "La Turchia è più vicina che mai dalla pace" - rilasciarono, ottimisti, i deputati del partito HDP all'uscita dell'incontro col vice-Primo ministro, Yalçın Akdoğan, al palazzo di Dolmabahçe. La riunione diede luogo ad una dichiarazione congiunta storica e alla lettura di un messaggio del capo del PKK, Abdullah Öcalan, che lancia alle sue truppe, dalla sua prigione, un appello a deporre le armi. Se, in un primo tempo, il presidente Erdoğan qualificò l'appello di "molto importante", appena alcuni giorni dopo prese le sue distanze da l'iniziativa. L'avvicinamento delle elezioni di giugno non fu estraneo a questo fatto : per non perdere voti, Erdoğan non vuole mettere la questione curda al centro del dibattito politico. Al contrario, il presidente turco si lanciò nella campagna elettorale - malgrado la neutralità richiesta dalla sua funzione - enfantizzando una polarizzazione della società sul modo del bene contro il male: laici contro religiosi, alevi contro sunniti, Curdi contre Turchi. Violenza di discorso che finì per tradursi sul terreno. Gli attacchi agli candidati e alle sede del partito filo-curdo HDP si ripeterono. Malgrado le intimidazioni, i risultati delle elezioni vedono l'entrata storica in parlamento del'HDP che oltrepassa la soglia dei 10% imposta ai partiti per entrare in camera, e la fine della maggioranza assoluta per l'AKP. Il 22 agosto, passato il termine di 45 giorni previsto dalla legge, l'AKP non avendo trovato nessuna coalizione con gli altri partiti, Erdoğan convocò elezioni anticipate per l'inizio di novembre 2015.
Nel frattempo, la violenza era esplosa sopratutto nel sud et nel sud-est del paese. Il 20 luglio 2015, 32 volontari della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti venuti a Suruç per partecipare alla ricostruzione di Kobane sono uccisi in un attentato attribuito all'ISIS. Il giorno dopo, in tutte le città del paese, manifestazioni furono organizzate dalle organizzazioni di sinistra. Ovunque si sentirono le grida di accusa al governo turco per complicità con i combattenti islamici radicali. Il 22 luglio, il PKK rivendicò la morte a Ceylanpinar di due poliziotti in rappresaglia alla morte dei giovani di Suruç. Il 24 luglio, la polizia turca lanciò una vasta operazione antiterrorista in 13 provincie, e l'aviazione militare turca colpì le posizioni dell'ISIS nel nord della Siria, approfitando dell'occasione per effettuare anche dei raid contro il Kurdistan irakeno e i campi del PKK. Quest'ultimo dichiarò allora la fine del cessate il fuoco in vigore da due anni. Così, nel momento in cui l'HDP guadagnava legitimità col suo risultato alle elezioni di giugno, la ribellione curda cadeva nella trappola tesa dall'AKP, quella del ricorso alla violenza. La retorica usata da Erdoğan e dal suo Primo ministro che presentò l'HDP come succursale del PKK fece strada.
L'AKP vinse le elezioni di novembre 2015 col 49,3% dei voti: abbastanza per governare da solo ma non per modificare la Costituzione. Dichiarando "la guerra fino in fondo" contro i ribelli curdi e bombardando le loro posizioni in Turchia e nel nord dell'Irak, Erdoğan aveva trovato la simpatia della destra nazionalista, fortemente opposta a ogni concessione verso la minorità curda. Fra il 7 giugno e il 1 novembre 2015, l'HDP perse un milione di voti ma riuscì comunque a mantenersi al Parlamento con il 10,4% dei voti e 56 deputati.
Tra l'autunno e l'inverno 2015, la ripresa della repressione da parte delle truppe turche incitò gruppi di giovani curdi alla guerigla urbana. Le vittorie dei combattenti curdi nel Rojava in Siria hanno ispirato questa generazione che vive nel mito della guerilla e del sacrificio dei suoi genitori e hanno aumentato le loro aspirazioni all'autonomia e all'autogestione del Kurdistan. Aggiunta la mancanza di prospettive di futuro, si capisce che sono stati spinti ha vivere il "loro" Kobane, fosse lanciandosi in combattimenti nelle città con discutibile pertinenza strategica, a meno che sia stata sacrificiale. Un centinaio di giovani guerriglieri curdi scavarono trincee e proclamarono l'indipendenza del quartiere, ma non ottennero il sostegno della popolazione. Se gli abitanti di Sur avevano votato in modo massiccio per l'HDP (più del 70%) la loro aspirazione a vivere in pace non li resero pronti alla rivolta popolare sperata dai giovani guerriglieri, anche dopo il succedersi dei coprifuochi dettate dalle forze di sicurezza turche nelle zone all'Est del distretto. Le forze armate di Stato che avevano di fronte a loro piccoli gruppi di combattenti per la maggior parte dilettanti che avrebberò pottuto vincere in poco tempo. Ma sembra che abbiano fatto durare gli interventi a bella posta: si può ipotizzare che a Sur, il bersaglio dello Stato turco era la città storica in se stessa.
L'impatto dei combattimenti su Sur
Dopo la sua visita di alcuni giorni in Turchia in aprile 2016, Nils Muižnieks, Commissario ai Diritti Umani del Consiglio dell'Europa, dichiarò che la caratteristica la più saliente delle operazioni antiterroriste - riprendendo la denominazione ufficiale del governo turco - in atto da agosto 2015, fu l'instaurazione di coprifuochi sempre più lunghi, 24 ore su 24, e illimitati nel tempo, in quartieri o città intere del sud-est della Turchia Il Commissario si pose anche la questione della proporzionalità delle operazioni delle forze di sicurezza : "Durante la mia visita sul sito dell'assassinio di Tahir Elçi a Sur, ho potuto avere un quadro della proporzione molto sconvolgente della distruzione in certe zone. Il governo mi ha informato che 50 terroristi sono stati uccisi durante le operazioni a Sur; tuttavia, almeno 20 mila persone sono state spostate, inumerevoli edifici sono stati distrutti, e numerosi civili hanno indubbiamente molto sofferto a causa dei terroristi e dei danni collaterali."
Un rapporto di fine marzo 2016 della Municipalità Metropolitana di Diyarbak fa un breve elenco dei guasti e delle distruzioni causati dai combattimenti: la moschea di Kurşunlu di Fatih Paşa, la moschea Sheikh Muhattar e il suo famoso minareto a quatro pilastri, i negozi storici classificati situati nella strada Yeni Kapı vicino alla chiesa di San Ciriaco (la più grande chiesa armena della regione) e della chiesa caldea Sant'Antonio, l'Hamam Paşa, ma anche esempi di architetture civili tradizionali come la Casa e Museo Mehmed Uzun o la strada coperta Kabaltı, un raro esempio del tessuto urbano tradizionale.
Nello stesso periodo, poco dopo la revoca del coprifuoco, un decreto del Consiglio dei ministri firmato dal presidente Erdoğan prevette l'esproprio urgente del 82% delle particelle di Sur. Il decreto porta la data del 21 marzo 2016, il giorno di Newroz, la festa del nuovo anno curdo. Tuttavia, diversi giuristi e associazioni civili constestano la sua legalità, sollevando il fatto che il governo può emettere espropriazioni urgenti solo in caso di catastrofe naturale o di guerra, termine che si rifiuta di usare nel caso delle operazioni nel sud-est del paese (che qualifica invece di "antiterrorismo"). A seguito di questa decisione, la Camera degli Architetti di Turchia, instituzione riconosciuta d'interesse pubblico dalla Costituzione turca (Art. 135) e interlocutore degli esperti del patrimonio mondiale, ma anche numerosi cittadini hanno avviato una procedura contro le espropriazioni.
Si può dire che il governo islamista dell'AKP sta approffitando delle distruzioni per smantellare la parte storica e popolare della città di Diyarbakır, favorevole al movimento di liberazione curdo. Il proggetto di trasformazione urbana, negoziata da una decina di anni e suscitando forte divergenze tra le autorità municipali e quello dello Stato turco sembra ormai definitivamente piegare a favore di quest'ultimo. E allora, la nozione di urbanicidio - se si intende come destruzione intenzionale di quello che fonda l'urbanità di una città - sembra appropriata a quello che sta accadendo a Sur. I combattimenti hanno provocato lo spostamento di almeno 30 mila abitanti. E vista l'ampiezza delle distruzioni (70% degli edifici nell'Est della città storica) è chiaro che tutti non potranno tornare ad abitare nelle loro case. In aggiunta, oltre ai danni sulle strutture architetturali, le violenze hanno anche provocato la rottura della vita sociale nel quartiere : interruzione delle attività artigianale e chiusura dei commerci di prossimità, spaccatura delle rete tradizionali di aiuto reciproco e di mutualizzazione delle rissorse (com'era il caso per i tandır - forni comuni per il pane).
In una dichiarazione ripresa dal New York Times del 23 aprile 2016, l'ufficio del governatore locale difende la decisione di espropriazione dicendo che il bersaglio principale è quello di portare il potenziale di Sur come quartiere storico alla luce, restaurando gli edifici e sostituendo le strutture irregolari con delle nuove, che corrisponderanno al tessuto storico della città, aggiungendo che le proprietà verrebbero restituite una volta retaurate. Ma l'esperienza dei quartieri di Sulukule, Tarlabaşı e Okmeydani a Istanbul, che hanno vissuto un brutale stravolgimento della loro popolazione residente e una gentrificazione sotto una pressione economia forte, non lascia grande speranza agli abitanti di Sur.
La politica eseguita dalla TOKI (l'Amministrazione Pubblica dell'Alloggio Collettivo) in partenariato con appaltatori e imprenditori privati è chiaramente dettata dal profitto che si può trarre dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Sotto il governo dell'AKP, i dirigenti della TOKI si sono felicitati della promolgazione della rivitalizzazione urbana come tecnica di emancipazione per i poveri, e per le communità e le popolazioni marginalizate. A questo scopo la TOKI offre ipoteche fino a 25 anni che permettono (o che così fa sembrare) a una popolazione con redditti bassi di diventare proprietari. Ma di fatto, il partenariato privato-pubblico ha generato più ineguaglianza : sotto la volontà di risolvere la crisi dell'alloggio nei centri delle città turche, il governo a distrutto i gecekondu e altre forme di abitazioni informali, gettando per strada molti ormai senza tetto e trasformando le zone liberate in siti prospizi alla speculazione e alla rendita immobiliare. Inoltre, le ipoteche a lungo termine operano come una tecnologia governativa: gli agenti della TOKI possono esercitare un vero potere sugli ipotecati, attraverso i tassi di interesse, mettendoli sotto il controllo della benevolenza della regia di Stato che può esercitare in questo modo una pressione sulla loro vita quotidiana e sulle loro decisioni politiche in periodo di elezioni.
In un'intervista rilasciata al giornale The Guardian a febbraio 2016, il direttore del Dipartimento del Patrimonio Culturale e del Turismo della Municipalità di Diyarbakır, Nevin Soyukaya anticipava :
- È ridicolo dire a queste persone "Possiamo portarvi una nuovo economia e più commerci con questi proggetti"; questa è una città che rissale a 7.000 anni, un centro di cultura e di commercio. La gente qui ha la memoria di questo. Se gli forzate a lasciare la zona, o di cambiare il loro stile di vita e la loro ambiente, distruggete la loro memoria storica, la loro cultura e il loro modo di vivere. Questo non è più una questione solo di Curdi e della popolazione di Diyarbakır. Sur è una parte della Mesopotamia, la culla della civilizzazione, così è un problema di livello mondiale; è importante per la storia dell'umanità e la sua destruzione sarebbe un crimine internazionale."
Dal 10 al 20 luglio 2016 è in corso a Istanbul la quarantesima sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco durante la quale è esaminato se i beni iscritti sono - o no - sotto protezione, e se strategie di salvaguardia debbono essere definite per i beni in situazione di pericolo. Nel caso di Diyarbakır, il rapporto specifica che lo Stato contraente ha creato un gruppo di lavoro per valutare i danni, il quale ha concluso che non esiste nessun deterioramento maggiore del bene nelle zone tra cui la fortezza di Diyarbakır, l'Içkale e i giardini dell'Hevsel. Misure di conservazione temporanee hanno dovuto essere prese per proteggere il bene per ragioni di sicurezza a causa di incidenti terroristici. Delle situazioni di degrado sono state segnalate nella zona tampone in particolare nel quartiere di Suriçi. Il Primo ministro turco si è ingaggiato ad applicare un piano di riabilitazione per Suriçi, compresa la sua conservazione. La racomandazione di decisione si limita a chiedere allo Stato contraente di fare una valutazione dello stato di conservazione del bene "non appena le condizione di sicurezza lo permettano" e di produrre un rapporto per il 1 febbraio 2017.
L'urbicidio di Sur, nel frattempo, è proseguito a colpi di bulldozer che hanno raso al suolo tanti edifici nelle zone colpite dai combattimenti e portato in discarica decine di tonnelate di detriti mescolati. Le operazioni di sgombero dei materiali si svolgono su un sito urbano protetto e dovrebbero rispettare misure specifiche di protezione, che non sono state prese. La perdita di alcuni materiali è ormai definitiva. Ormai, anche se lo Stato turco rinunciasse alle sue velleità di trasformazione della città storica, la ricostruzione di Sur non potrà più essere fedele a quello che era prima dell'estate 2015. Numerose abitazioni non saranno mai più ricostruite e anche se lo fossero, le famiglie che hanno dovuto trovare una sistemazione altrove non è sicuro che tornino.
Il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016 e le misure di ritorsione del governo di Erdoğan rendono il futuro ancora più incerto, ma non devono far dimenticare che l'epurazione è cominciata da anni e non fa che proseguire. Oggi, le priorità sono moltiple. Fra queste, la possibilità per la società civile di presentare un piano urbanistico alternativo di ricostruzione di Sur, un progetto che tenga conto della realtà sociale che fù prima dell'estate 2015, cercando di ridarle vita. A questo scopo, l'aiuto e la solidarietà di professionisti - urbanisti e architetti - da l'Italia e d'altrove non sarà certo un peso, ma al contrario un sollievo e un segno di speranza in questo periodo buio per la Turchia.
NOTE
Riportiamo solo le note che chiariscono le sigle delle formazioni politiche ripetutamente citate nel testo. Tutte le note e le illustrazioni sono nel testo integrale, scaricabile qui nel formato .pdf
[1] AKP : Adalet ve Kalkınma Partisi - Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, al potere dal 2002.
[2] HDP : Halkların Demokratik Partisi - Partito democratico dei Popoli, sinistra progressista, emerso dai movimenti di indipendenza curda.
[3] MHP : Milliyetçi Hareket Partisi - Partito del Movimento Nazionalista.
[4] PKK : Partîya Karkerén Kurdîstan - Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Öcalan, detto Apo, in prigione dal 1999.
[5] PYD : Partiya Yekîtiya Demokrat - Partito dell'Unione Democratica
[6] YPG : Yekîneyên Parastina Gel - Forze di Difesa del Popolo
«Diario di viaggio"Il sentiero luminoso"di Wu Ming 2, per Ediciclo. Da Bologna a Milano, un percorso zaino in spalla per conoscere i territori del Tav, fra libri, aneddoti e senso critico dei luoghi». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)
Qualche giorno fa, Mike Carter ha raccontato sul Guardian il contesto sociale che ha condotto alla Brexit a partire dal viaggio a piedi che per 340 miglia lo ha condotto da Liverpool a Londra, sulle tracce del cammino segnato da suo padre.
Si chiamava Pete e 35 anni prima si era unito alla marcia di 300 disoccupati contro Margaret Thatcher. Dopo aver viaggiato a piedi per giorni e toccato con mano il crollo del valore delle case e il campo libero alla speculazione edilizia, il deserto lasciato dalla fine dell’industria e il sentimento xenofobo diffuso, Mike Carter scrive: «Il voto contro l’Unione europea non mi ha stupito affatto».
Si è messo in cammino anche Wu Ming 2, da Bologna a Milano, lungo la linea del Tav fino alla città di Expo. Da Piazza Maggiore a piazza Duomo. Anche lui ha tastato il polso del paese della sua geografia sociale.
Il racconto del viaggio è Il Sentiero Luminoso (Ediciclo, pp. 288, euro 18,50), «oggetto narrativo non identificato», ibrido letterario che osserva la realtà da punti di vista insoliti. Il libro disegna una mappa che rimescola le carte, è un invito a costruirsi il proprio cammino più che a seguire quello tracciato.
Se uno degli elementi ricorrenti nella poetica dei Wu Ming è che non esiste un unico modo di raccontare una storia, in questo caso non c’è solo una strada che collega un luogo ad un altro. Il viaggio a piedi che viene raccontato mescolando i tempi e gli spazi. C’è un prima, che è il tempo della preparazione al cammino.
C’è un durante diviso in otto tappe e una prima tappa ricorrente. E c’è un dopo, fatto di approfondimenti ed elaborazioni di quello che si è visto lungo il tragitto.
La prima tappa è ricorrente e spalmata lungo tutto il volume. Da Bologna conduce fino a Riolo di Castelfranco, a 33 chilometri di distanza dalle Due Torri.
È un itinerario che dalla città incrocia la periferia e poi riporta indietro alla campagna. Così, a Wu Ming 2 ci ricorda di quando Luciano Bianciardi elogiava il cemento che si mangiava il mondo rurale i suoi rapporti gretti e familistici, per notare come la cementificazione e l’estensione della città infinita non abbiano costituito un fattore di emancipazione.
L’Italia vista da qui è una specie di terra di mezzo tra città e campagna, tra modernizzazione selvaggia (la centrale di Caorso, la stazione ferroviaria di Reggio Emilia disegnata da Calatrava) e memoria (i cippi dei partigiani e le storie del cosiddetto Triangolo rosso).
In un altro «sentiero luminoso», quello delle luci al quarzo che traccia Mike Davis in Città di Quarzo che racconta l’immaginario distopico delle metropoli contemporanea di Los Angeles partendo dalla storia antica della comune di Llano del Rio, fondata da anarchici e socialisti alle porte della futura città. Quell’esperimento venne strangolato dall’assedio dei suoi nemici.
Anche la cartografia di Wu Ming 2 passa dall’utopia alla distopia. A Massenzatico, in provincia di Reggio Emilia, Camillo Prampolini cedette un suo terreno ad una cooperativa operaia che pietra su pietra, mattone su mattone costruì se non la prima una delle prime case del popolo. Oggi quell’edificio ospita un esperimento utopico che riguarda la gastronomia, proprio in un territorio segnato dalla retorica delle eccellenze gastronomiche, dal parmigiano reggiano e dal prosciutto di Parma.
Nella stessa tappa, nello stesso giorno di cammino, il viandante incontra la sede Coopservice, gigante cooperativo trasformatosi in controparte padronale. Si arriva fino alla Milano di Expo, lungo un percorso che è anche un ipertesto, un’indagine alla radice delle parole, della perversione di concetti come «partecipazione» e «bene comune».
Come ha notato anche l’Economisti, con la mangiatoia globale dell’Esposizione universale, il supermercato italiano mette in vendita i gioielli di famiglia, raschia il fondo del barile in nome della distopica utopia che si nasconde nel luogo comune «potremmo campare di turismo». Ecco perché il bene comune, il paesaggi, la retorica del territorio, le ricette delle nonne e le spiagge nascoste, vengono oramai tirate in ballo a destra e a manca.
O perché si confonde l’ecologia con la paranoia del decoro. Annota Wu Ming 2 lungo il cammino: «Le battaglie per il paesaggio, per rendere migliore il luogo dove si vive, rischiano di colpire il popolo dei margini, se alla lista degli inquinanti da combattere non si aggiungono l’oppressione e il pregiudizio. Rivendicare un diritto impone l’interrogarsi su quanti ne sono esclusi. Altrimenti le prossime ruspe arriveranno in difesa dei beni comuni».
«L’apporto dei migranti può essere significativo proprio rispetto a quella cura del territorio e a quella preservazione del paesaggio culturale, che appaiono i requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile in zone soggette a rischio idrogeologico». Informazione sostenibile, 19 luglio 2016 (p.d.)
1. Introduzione
Sviluppo del turismo e immigrazione straniera sono due fenomeni tra di loro in relazione da tempo in molte località delle Alpi italiane: in quelle più rinomate la presenza dei “migranti economici” è ormai consolidata, dal settore alberghiero alla ristorazione, dalle pulizie ai servizi alla persona, fino alla costruzione e manutenzione degli impianti di risalita. In anni più recenti, poi, i migranti hanno raggiunto anche le località montane meno note, ma connotate comunque da qualche forma di turismo, spesso caratterizzato per numeri contenuti di ospiti e dimensione slow dell’accoglienza: in questi luoghi gli stranieri trovano impiego in misura più ridotta nel comparto turistico, mentre perlopiù lavorano nel settore primario (agricoltura, taglio del bosco…), nell’edilizia, nel commercio (Dislivelli.eu, n.64/2016).
A questo fenomeno, ormai consolidato, si aggiunge da qualche tempo una novità di rilievo, che viene di fatto ad interfacciarsi con la dimensione turistica alpina: una seconda categoria di stranieri, i rifugiati, comincia infatti a popolare alcune di queste località montane “minori”, in conseguenza di politiche nazionali di smistamento e ricollocazione dei richiedenti asilo su tutto il territorio italiano.
Era dunque facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuato nel fenomeno dei rifugiati una minaccia per il turismo alpino, in un periodo già connotato da perdurante crisi economica e calo delle presenze nelle strutture ricettive: sebbene ancora limitate, già da un paio d’anni si segnalano proteste in diversi comuni montani (di solito organizzate da forze politiche xenofobe) contro la collocazione degli immigrati sul territorio, anche laddove si tratti di piccoli gruppi, alloggiati in strutture dismesse o sotto-utilizzate.
L’arrivo dei rifugiati nell’arco alpino pone dunque nuovi interrogativi rispetto al nesso – già in atto e potenziale – tra immigrazione straniera e turismo: questa nuova popolazione di immigrati, che appartiene più che mai alla categoria dei “montanari per forza” (essendo normativamente costretti a vivere temporaneamente in montagna), viene infatti ad insediarsi in zone in cui spesso si vanno investendo risorse e aspettative per il mantenimento (o la costruzione) di identità montane “per scelta”, funzionali (almeno in parte) alla preservazione o invenzione di determinate immagini turistiche, nell’ambito di economie locali decisamente dipendenti dal mondo urbano. La dialettica tra costrizione e scelta rischia allora di assumere le forme della contrapposizione tra economia turistica (basata sull’offerta ai cittadini di beni culturali, come il paesaggio, e di servizi ad alto contenuto simbolico, come quelli ricettivi di tipo “sostenibile”) ed economia dell’accoglienza (legata invece alla sopravvivenza materiale in loco degli stranieri ospitati, con una caratterizzazione materiale e simbolica di segno ben diverso).
Come discuterò in questo articolo, non sono pochi i casi in cui questa contrapposizione potenziale si va risolvendo tuttavia in qualche tipo di relazione positiva, laddove l’inserimento sociale dei rifugiati diventa occasione per il rilancio innovativo, così come per la gestione ordinaria, di alcuni aspetti del turismo montano nelle località in cui gli stranieri sono stati accolti.
Nel suo complesso, la presenza straniera nelle Alpi italiane è cresciuta significativamente negli ultimi 10-15 anni: si tratta essenzialmente di soggetti che provengono dai Paesi extra UE a forte pressione migratoria o da quelli neo comunitari dell’Europa orientale. E’ questo un fenomeno da lungo tempo connesso alla cosiddetta “migrazione economica” (quella di chi è mosso dalla ricerca di migliori condizioni di vita, in senso lato, a partire dalla dimensione lavorativa) ma, in anni recenti, va assumendo un peso significativo anche la componente migratoria costituita dai richiedenti asilo e protezione umanitaria, in fuga da guerre e da condizioni di miseria intollerabili: migranti economici e rifugiati sono oggi ampiamente presenti, dunque, nell’arco alpino italiano, anche se con connotazioni assai diverse tra loro. Questa presenza variegata investe un territorio che si caratterizza storicamente per la sua vocazione turistica, rispetto non solo alle località più note e di grande afflusso, ma anche, in diversi casi, a quelle “minori”, interessate oggi in modo crescente da forme di turismo sostenibile, promosso e praticato da popolazioni urbane di amenity migrants e di rural users.
Nelle località turistiche principali da tempo i migranti economici sono arrivati per la disponibilità di offerte di lavoro a cui molto spesso gli italiani non rispondono, dando luogo spesso alla creazione di “nicchie etniche” rispetto a determinate professioni. Ma i migranti economici si vanno diffondendo sul territorio alpino anche, e oggi soprattutto, al di fuori dei poli turistici più attrattivi, nell’ambito di un più generale movimento di persone (non solo straniere, perché non sono pochi gli italiani tra i “nuovi montanari”) innanzitutto verso la bassa e media montagna, verso le zone meno lontane dai poli urbani di pianura e maggiormente accessibili; un movimento che, in lenta progressione, va raggiungendo anche alcune “aree interne” e località a quote più elevate, laddove siano presenti occasioni di lavoro, disponibilità di immobili a basso costo, e una certa rarefazione sociale, favorevole all’inserimento dei nuovi abitanti (Membretti, 2015). E’ il caso, per esempio, della comunità rumena di Pragelato, comune posto a 1.500 metri di altitudine, nelle “Valli Olimpiche” torinesi: qui, in una località turistica non di primo piano e da tempo in crisi demografica – riscoperta temporaneamente grazie ai Giochi Olimpici Invernali del 2006 – il 25% circa dei residenti sono oggi stranieri (quasi tutti della Romania). Inizialmente richiamati per le realizzazione delle infrastrutture sciistiche, gli immigrati hanno continuato a lavorare nel territorio anche dopo che l’evento sportivo si era concluso, trovando collocazione in diversi settori lasciati scoperti dalla manodopera locale (edilizia, servizi, ma anche commercio) e procedendo quindi ai ricongiungimenti familiari, con un impatto positivo sulla demografia e sull’economia locali.
Se dunque i migranti economici sono da tempo presenti in svariate località turistiche alpine, negli ultimi 2-3 anni una seconda categoria di stranieri, i rifugiati, comincia a popolare, almeno temporaneamente, alcuni di questi territori montani o le zone ad essi limitrofe. In relazione alle politiche del governo nazionale, finalizzate a distribuire sul territorio italiano questi soggetti (cercando di evitare la loro concentrazione al Sud e nelle aree urbano-metropolitane), un certo numero di richiedenti asilo va trovando collocazione (per periodi di tempo solitamente di 6 mesi/1 anno, in attesa di compiere l’iter legato al riconoscimento o meno dello status di rifugiato) nelle aree montane del Nord Italia: questi cittadini stranieri sono ospitati in grandi centri di accoglienza (CAS e CARA), in certi casi situati nelle città pedemontane, oppure in strutture più piccole e diffuse, nell’ambito del modello di accoglienza dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
La presenza dei rifugiati nelle Alpi italiane, al di là dell’effettiva consistenza numerica del fenomeno (amplificata dai media e da alcuni soggetti politici di matrice xenofoba), è dunque oggi un dato di fatto: considerata la caratterizzazione turistica di questi territori (reale o anche solo a livello di immaginario collettivo, laddove le Alpi sono spesso rappresentate tout court come un grande parco naturale ad uso urbano), era facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuato in questo fenomeno una minaccia per il turismo alpino. In questo articolo, tuttavia, non mi occuperò delle proteste o delle campagne mass-mediatiche contro la presenza dei rifugiati in zone montane (una tra tante, nel 2014, la manifestazione, ribattezzata “lago nostrum”, sulle sponde del lago d’Iseo, che ha visto un gruppo di attivisti dell’organizzazione neofascista Casa Pound gettare in acqua dei manichini neri da una barca). Non mi occuperò neppure della collocazione forzosa dei migranti presso strutture alpine in alta quota (ex caserme, ostelli in disuso, in qualche caso anche bunker della seconda guerra mondiale), lontane da qualsiasi località abitata (turistica o meno), nell’intento evidente di isolare la presenza straniera dal resto del territorio.
Il focus di questo articolo è piuttosto sulla relazione positiva – già in essere o potenziale – tra l’arrivo dei rifugiati e la dimensione turistica montana: il tema sarà inquadrato a livello più generale, partendo dal fenomeno dell’immigrazione straniera nell’arco alpino italiano, per poi essere trattato con riferimento ad alcune buone pratiche di inclusione sociale dei migranti, sviluppatesi in località delle Alpi in cui sono presenti forme di turismo slow e non di massa, correlate alla promozione del territorio nel suo insieme e alla cura e preservazione dei paesaggi culturali delle terre alte.
Considererò dunque dapprima il nesso tra immigrazione e possibile inversione dei trend di spopolamento e di abbandono che da decenni caratterizzano vaste aree montane. Analizzerò quindi più nel dettaglio l’apporto che i rifugiati, in particolare, possono dare rispetto a questi territori, non solo in termini di cura degli stessi (funzionale alla preservazione dei paesaggi culturali verso cui si indirizza un certo tipo di turismo sostenibile) ma, almeno in prospettiva e per una parte di questi soggetti, anche rispetto al ruolo che potrebbero avere nel favorire il ripopolamento delle terre alte, fermandosi a vivere nei luoghi in cui hanno trovato accoglienza. In questa analisi muoverò pertanto da domanda di fondo, che tornerà anche nelle conclusioni, ovvero: da “montanari per forza” è possibile che, perlomeno alcuni degli stranieri accolti nelle Alpi, diventino infine “montanari per scelta”, contribuendo così alla rinascita di quelle località alpine oggi in crisi?
2. Il ruolo dei migranti economici nel neo-popolamento alpino
Dopo decenni di fortissima crisi, in cui la capacità di resilienza dei popoli alpini è sembrata venire meno, schiacciata tra l’emorragia da spopolamento e la colonizzazione (simbolica oltre che socio-economica) operata dai popoli di pianura, oggi sappiamo, da diversi studi e ricerche, che le Alpi sono (di nuovo) in trasformazione (Demochange, 2012). Il mutamento è in atto, e sicuramente uno dei suoi aspetti più rilevanti è proprio quello demografico: la popolazione è tornata a crescere in molte aree (i dati per l’Italia indicano innanzitutto gli assi di Val d’Aosta e Val d’Adige, i comuni periurbani e più prossimi alla pianura, i principali centri sciistici, ma anche alcune “aree interne”), cambiando gli equilibri al ribasso che lo spopolamento e lo “scivolamento a valle” avevano creato. Il tasso medio annuo di incremento della popolazione alpina tra il 2003 e il 2013 è stato pari infatti a +0,49%: sebbene non si tratti di un valore elevato, esso rappresenta comunque un indicatore rilevante rispetto alle dinamiche in corso, la cui caratteristica è quella di manifestarsi tuttavia a “macchia di leopardo” sul territorio; a livello disaggregato, infatti, la situazione è molto variegata ed emergono aree in cui lo spopolamento rappresenta tuttora un grave problema, laddove il 42,1% dei comuni dell’arco alpino italiano presentano tassi di crescita della popolazione nulli o negativi.
Dove presente, l’incremento registrato non è comunque di tipo endogeno – la maggior parte dei comuni alpini mostra un tasso di crescita naturale stabile o negativo – quanto piuttosto di tipo esogeno, ovvero dovuto a quel fenomeno migratorio che riguarda quella categoria che è stata chiamata dei “nuovi montanari”. All’interno di questa ampia e variegata popolazione di nuovi abitanti alpini, è interessante allora indagare il peso numerico e il ruolo che stanno avendo, o potranno avere, nei processi di trasformazione in corso, coloro i quali provengono da ambiti etno-culturali molto distanti, geograficamente ed antropologicamente, dalle terre alte italiane.
Quasi 350.000 stranieri, provenienti in gran parte da Paesi extra-UE (dell’Europa Orientale, del Nord Africa e dell’America Latina, principalmente), risultano residenti, a gennaio del 2014, nei 1.749 comuni italiani il cui territorio è ricompreso nella Convenzione delle Alpi. L’incidenza della popolazione straniera su quella totale appare addirittura superiore, nelle Alpi italiane, rispetto al valore medio nazionale: al 1° gennaio 2013 essa era pari al 78,6 contro il 73,5 per mille, mentre solo in 31 comuni alpini non risultava a tale data risiedere neppure un cittadino straniero (ISTAT e Convenzione delle Alpi, 2014). Secondo le elaborazioni effettuate dalla Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), nei comuni montani del Nord Italia gli stranieri residenti (esclusi dunque i richiedenti asilo e i rifugiati, così come, ovviamente, quelli irregolarmente presenti) arrivano, nel 2013, a quasi 400.000 unità.
Saldi migratori positivi con l’estero si sono rilevati nello scorso decennio nella gran parte dell’area alpina italiana, laddove, con riferimento alla cittadinanza, si osservano concentrazioni di alcune nazionalità in particolari porzioni di territorio, spesso in relazione a determinate attività produttive, di servizio o di trasformazione, in cui gli immigrati trovano occupazione, all’interno di economie che si fondano innanzitutto sul lavoro straniero.
Soggetti portatori di culture, progetti di vita, valori e pratiche che risultano frequentemente agli antipodi di quell’etichetta di staticità residuale, che viene spesso applicata alla montagna, gli immigrati (non solo stranieri, naturalmente, ma anche italiani) sono probabilmente il principale fattore di innovazione presente oggi nell’arco alpino, con il portato di potenzialità e di rischio che ciò comporta per territori fragili, da lungo tempo in crisi e oggi interessati da ambiziose macro-strategie europee di rilancio, quali EUSALP.
Da una recente ricerca, promossa da Dislivelli (Corrado et al., 2014), si evince come tra i “nuovi montanari” siano numerose le provenienze direttamente dall’estero (Romania, Albania, Marocco, tra i primi), le quali risultano più consistenti nei comuni montani più urbanizzati, in quelli più turistici o con particolari specializzazioni produttive (ad es. settore estrattivo, edilizia, artigianato industriale) e nelle fasce periurbane; tra i fattori di attrazione per gli stranieri, si rilevano innanzitutto la disponibilità di alloggi a prezzi contenuti, il minor costo della vita, la possibilità di fuggire il caos delle metropoli (spesso si tratta di persone che provengono in origine da contesti rurali e che ricercano ambienti simili per far crescere i propri figli.
Per quanto concerne il nostro Paese nel suo complesso, al 1° gennaio 2015, in base ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, erano regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari (vale la pena di ricordare che la Romania, tra i primi paesi di provenienza degli immigrati stranieri, è da tempo parte dell’Unione Europea: i suoi cittadini quindi non rientrano in questo computo). A livello nazionale, l’incidenza dei soggiornanti non comunitari sul totale della popolazione residente è pari dunque al 6,5% (mentre gli stranieri in totale sono intorno all’8%), ma con una distribuzione territoriale tutt’altro che omogenea: secondo ISTAT, la presenza straniera tocca infatti il suo massimo in Emilia-Romagna (10,6%) e in Lombardia (10,3%), mentre è decisamente più ridotta nelle regioni meridionali. Più in generale, per 13 province, tutte nell’area del Centro-Nord, i soggetti non comunitari sono oltre il 10%. Il Centro-Nord si conferma quindi area privilegiata di presenza di questi cittadini: in particolare, quasi il 36,5% dei soggetti regolarmente presenti ha un permesso di soggiorno che è stato rilasciato o rinnovato nel Nord-Ovest, ovvero in una delle aree del Paese in cui ricade il territorio alpino.
Sempre secondo ISTAT, tra il 2014 e il 2015 il numero di cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia (è aumentato di circa 55mila unità (+1,4%): i paesi più rappresentati sono: Marocco (518.357), Albania (498.419), Cina (332.189), Ucraina (236.682) e Filippine (169.046). I minori stranieri rappresentano ben il 24% dei cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti: il dato è particolarmente rilevante, specie considerando l’elevato invecchiamento della popolazione italiana, che colpisce in particolare proprio le aree montane. L’Italia senza gli immigrati sarebbe infatti un Paese con 2,6 milioni di giovani under 34 in meno e sull’orlo del crack demografico: gli immigrati, come è noto, sono mediamente più giovani degli italiani e mostrano una maggiore propensione a fare figli. Le nascite da almeno un genitore straniero in Italia fanno registrare un costante aumento: +4% dal 2008 al 2015, a fronte di una riduzione del 15,4% delle nascite da entrambi i genitori italiani (CENSIS, 2016).
Infine è utile evidenziare come, anche se si manifesta un forte turn over degli immigrati (acutizzato da un lato dalla crisi economica che ha investito il nostro Paese e, dall’altro, dal peso numerico che sta avendo in tempi recenti il fenomeno dei rifugiati), la quota di soggiornanti di lungo periodo sia cospicua e continui a crescere: si passa infatti da 2.179.607 nel 2014 (il 56,3% sul totale) a 2.248.747 nel 2015 (57,2%).
A fronte di questi dati sul fenomeno migratorio verso il nostro Paese, è utile parallelamente ricordare come il numero degli emigrati italiani all’estero, pari nel 2015 ad oltre 4.600.000, stia raggiungendo quello degli immigrati stranieri in Italia, stimati nel complesso in circa 5 milioni: se l’Italia non si sta spopolando (nelle terre alte come in pianura e nelle città), è ormai dunque solo e unicamente in virtù dell’apporto di popolazione connesso all’immigrazione dall’estero (Dossier IDOS, 2015).
3. Rifugiati e richiedenti asilo nelle Alpi: l’accoglienza nei piccoli comuni di montagna
Se ormai si è consolidato il fenomeno dell’immigrazione cosiddetta “economica”, l’Italia negli ultimi anni è sempre più terra di arrivo di una nuova ondata migratoria, composta innanzitutto da soggetti in fuga da guerre, catastrofi naturali e condizioni socio-politiche intollerabili. Secondo UNHCR, nel corso del 2015, sono sbarcati sulle nostre coste più di 150.000 migranti e sono state ricevute quasi 90.000 richieste d’asilo. Tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016, al fenomeno degli sbarchi si è poi aggiunto quello dei nuovi arrivi via terra, in particolare dai valichi montani al confine con la Slovenia, in virtù dell’apertura del cosiddetto “corridoio balcanico” dalla Grecia. Tra questi nuovi arrivi, si registra un’impennata nelle richieste d’accoglienza indirizzate ad ottenere lo status di rifugiato: al 1° gennaio del 2015, secondo dati ISTAT, gli immigrati presenti in Italia, con regolare permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, d’asilo o protezione, erano 100.138 maschi e 17.682 femmine (sono esclusi dal conto i soggetti con permessi di lungo periodo, carte di soggiorno e i minori non accompagnati).
A fronte di questi dati, si rileva già dal 2014 una forte contrazione nel numero dei nuovi permessi di soggiorno per motivi di lavoro (-27.500), che scendono da oltre il 33% del totale nel 2013 al 23% del 2014; parallelamente, come era prevedibile, sono risultati in calo anche i flussi per ricongiungimento familiare (-3.844). Per contro, si è appunto verificata una rilevante crescita dei permessi per asilo e protezione umanitaria (+28.727), che sono più che raddoppiati dal 2013 al 2014, arrivando al 19,3% dei nuovi ingressi.
E’ noto agli operatori del settore come – con l’intenzione governativa di diminuire le concentrazioni presenti nel Sud e nelle grandi aree urbane in genere – una quota non indifferente di questi richiedenti asilo sia stata indirizzata negli ultimi 12-24 mesi verso le aree montane e pedemontane del Paese, e in una certa misura verso i territori alpini e subalpini delle regioni del Nord: qui i migranti sono stati accolti in parte nell’ambito di progetti che fanno riferimento al sistema reticolare dello SPRAR e, in misura maggiore, nei grandi centri definiti con le sigle di CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Appare difficile però fare una fotografia realistica dell’attuale distribuzione di questi soggetti nei territori in questione: infatti i dati ISTAT sugli stranieri regolarmente presenti, in base al tipo di permesso di soggiorno in loro possesso (nel nostro caso, quello per ragioni umanitarie/di asilo/protezione) sono relativi al comune di registrazione del permesso stesso; successivamente il migrante può spostarsi o essere ricollocato in altro luogo e, per i successivi 1-2 anni, non viene di nuovo censito il suo comune di residenza: per conoscerne l’effettiva ubicazione, servirebbe dunque incrociare le informazioni di diverse banche-dati – quali ad esempio quelle degli enti previdenziali o socio-assistenziali – con quelle in possesso delle varie prefetture ed enti locali.
Non mi è finora stato possibile effettuare questo tipo di ricerca (né mi risultano ad oggi ricerche condotte da altri sul tema), motivo per cui mi limito intanto a quantificare la presenza di permessi di soggiorno per ragioni umanitarie nelle regioni che hanno territori alpini, al 1/1/2015 (dato di stock fornito da ISTAT): nel Nord-Ovest si tratta di 24.053 unità e nel Nord-Est di 17.892 unità (escludendo dal computo i permessi di lungo periodo, le carte di soggiorno e i minori non accompagnati), per un totale dunque di 41.945 persone, in grandissima parte di sesso maschile.
Come più sopra anticipato, per chi fa domanda di asilo o protezione internazionale, è prevista l’accoglienza sia nel sistema territoriale diffuso SPRAR, sia, in grandissima parte, nei CARA e nei CAS, grandi (e molto criticate) strutture, destinate a tutti quanti i soggetti che non si riescono ad inserire nelle prime due modalità di accoglienza. Secondo l’Ufficio Pastorale Migranti, nel 2015 sono risultate circa 105.000 in tutto le persone accolte regolarmente in Italia nei tre circuiti SPRAR, CARA e CAS: di queste, 8.000 sono state collocate negli 8 CARA esistenti, 23.000 nella rete SPRAR (che coinvolge 450 degli 8.000 comuni italiani, in base alla libera adesione degli enti in questione). I restanti (ovvero la gran parte, pari ad oltre 70.000 persone) sono nei CAS, centri nati in base a un accordo tra Stato e Regioni e destinati, come da denominazione, ad una forma di accoglienza che dovrebbe essere “straordinaria”, ma che risulta invece ormai consolidata e di lungo termine. Il numero complessivo degli ospiti nelle strutture di prima e seconda accoglienza è in forte crescita, essendo passato dai 22.118 del 2013 ai 123.038 al 6 giugno 2016, con un aumento del 456% (CENSIS, 2016).
I richiedenti asilo hanno una previsione di attesa della risposta per il riconoscimento della protezione da parte delle Commissioni territoriali di circa 12-18 mesi (il tempo equivalente di permanenza dunque nei vari centri di accoglienza): vale la pena qui di ricordare come nel 2014 siano state accolte positivamente solo il 60% circa delle domande presentate, dato in calo nel 2015 e che pone seri interrogativi sulla destinazione finale di quanti vedono rifiutata la propria domanda di asilo.
Nell’ambito del sistema SPRAR, l’accoglienza dei rifugiati nei piccoli comuni alpini è oggi una realtà significativa, non solo a livello numerico, ma rispetto alla sfida che l’arrivo dei migranti pone ad un territorio dove coesistono – con una distribuzione a macchia di leopardo – innovazione e tradizione, connessione montagna-città e profonde sacche di marginalità “interna”, turismo di massa e turismo sostenibile di nicchia, spopolamento cronico e tendenze verso il neopopolamento (secondo i dati di Fondazione Montagne Italia, tra il 1951 e il 2001, 2.283 Comuni italiani hanno subito una perdita di potenziale insediativo: di questi, 1.678 sono in montagna). Come è stato affermato in occasione della Presentazione del primo Rapporto di Fondazione Montagne Italia (Ottobre 2015):
“I progetti migliori d’accoglienza nel territorio nazionale vengono dai piccoli Comuni di montagna, perché i numeri ridotti rendono la situazione più facilmente affrontabile rispetto alle realtà metropolitane (..). Il processo di diluizione della presenza antropica in montagna può essere sopperito in parte dalla presenza di immigrati che lavorano e richiedono servizi. Servono programmazione e strategie. I Comuni non devono agire da soli, ma le politiche sono da attuare a livello sovracomunale”.
De Menech, Presidente Intergruppo Parlamentare per la Montagna
Il modello di accoglienza che mi interessa in questa sede considerare è dunque quello che offre più possibilità per un inserimento effettivo (temporaneo ma anche, in alcuni casi, con prospettive di insediamento stabile) degli stranieri nei contesti locali, in rapporto poi, in particolare, alla dimensione turistica (e, più in generale, di sviluppo) dei territori alpini in questione: si tratta dunque del modello attuato dalla rete SPRAR, articolata nel 2014, a livello nazionale, in 432 progetti, in cui sono coinvolti 381 enti locali (comuni, unioni di comuni e altri enti sovracomunali): nell’ambito di questa rete, si segnala appunto l’attivismo dei piccoli comuni montani, soprattutto nel Nord-Ovest del Paese.
Con riferimento alle provincie del Nord Italia, il cui territorio è almeno in parte alpino (dalla Liguria sino al Friuli Venezia-Giulia), le permanenze complessive degli immigrati nel sistema SPRAR sono state nel 2015 pari a 2.820. Nel 2016 i posti disponibili nel sistema sono pari invece a 1.723, considerando che ogni posto, nel corso dell’anno, può essere occupato da più di una persona, in turn over (fonte: Cittalia).
Se andiamo invece ad estrarre solo i comuni prettamente montani, classificati come alpini dalla Convenzione delle Alpi, il dato viene fortemente ridimensionato, così come si evidenzia che non tutte le regioni con territorio alpino hanno attivato progetti SPRAR in ambito montano.
A fronte di 473 posti disponibili nelle strutture, i comuni alpini hanno dunque registrato nel 2015 quasi 800 presenze di richiedenti asilo: in termini assoluti, così come relativamente al totale degli arrivi, il numero non è molto elevato, specialmente se pensiamo alla grande disponibilità di spazi ed edifici non utilizzati, diffusi in ambito alpino, in contesti spesso caratterizzati da elevata rarefazione sociale e da abbandono di ampie porzioni di territorio. Tuttavia è un dato interessante, in primo luogo perché segnala come al fenomeno storico dell’immigrazione economica si stia aggiungendo quello dell’accoglienza dei rifugiati in un’area geografica che, da un lato, è investita da fenomeni socio-demografici complessi (tra spopolamento e neopopolamento) e, dall’altro lato, si caratterizza per una dimensione turistica articolata e in mutamento (tra turismo di massa e nuove tendenze sostenibili). In secondo luogo, è interessante perché sappiamo che il sistema SPRAR è ancora del tutto minoritario (ma considerato come eccellenza anche dal governo nazionale) rispetto ai grandi centri di accoglienza che insistono in prossimità dell’area alpina, verso la quale, plausibilmente, si apriranno in futuro sbocchi sempre più consistenti, nell’ambito di politiche di ricollocamento dei migranti al di fuori di ampie concentrazioni di persone, difficilmente gestibili sul medio-lungo termine.
I comuni coinvolti nei progetti SPRAR in ambito alpino sono tutti caratterizzati per la presenza di qualche forma di turismo, solitamente non di massa e spesso caratterizzato da un’offerta rivolta a chi è in cerca di paesaggi culturali, di modalità lente di fruizione del territorio, di una dimensione montana più raccolta e attenta alla qualità del soggiorno. In Piemonte i territori montani e pedemontani interessati sono quelli del Val di Susa (da sempre sviluppata turisticamente, in stretta relazione con Torino), della Val Sacra (connotata dalla diffusa presenza di siti di interesse religioso), della Val Pellice (parte delle valli valdesi, coinvolte in circuiti turistici storico-culturali) e infine della Provincia di Biella (culla dell’industria laniera e oggi interessata da progetti di turismo sostenibile e culturale, a partire dal locale ecomuseo del biellese). In Lombardia, invece, le aree interessate sono in Provincia di Sondrio, con particolare riferimento alla Valchiavenna e alla Valtellina (sviluppate turisticamente, con la presenza anche di località molto note, quali Livigno, e con le vette più alte della regione); nelle Prealpi bresciane (dove la produzione di vino attira forme di turismo slow e agriturismo) e in Valcamonica (dove è sviluppato il turismo montano nel gruppo dell’Adamello, oltre a quello archeologico, inerente i siti camuni, e a quello più di massa, sul lago d’Iseo); in provincia di Lecco, nella Comunità montana della Valsassina, Valvarrone, Val d’Esino e Riviera (luoghi di interesse turistico tra monti e lago di Como, comprendenti il Parco della Grigna Settentrionale). In Trentino i comuni aderenti alla rete SPRAR sono in Provincia di Trento (e da soli accolgono circa 1/3 di tutti i richiedenti asilo arrivati nel 2015 nei comuni alpini italiani), in un’area che è all’avanguardia rispetto allo sviluppo del turismo sostenibile, mentre in Veneto sono interessate le Prealpi venete, in Provincia di Vicenza (che attraggono innanzitutto turismo locale). Infine, per quanto riguarda il Friuli Venezia-Giulia, sono coinvolti, in Provincia di Udine, il comune di Cividale (l’antica Forum Julii, città longobarda e poi medievale, ricca di risorse turistiche e affacciata sulle Valli del Natisone) e la provincia di Gorizia (terra di confine con la Slovenia, anch’essa meta di turismo).
4. Quando i rifugiati favoriscono il turismo: tre buone pratiche a confronto
Nell’ambito dei contesti territoriali appena considerati si collocano tre esperienze di accoglienza dei rifugiati (tra di loro assai diverse per territorio in cui sono ubicate, attori che le hanno promosse, tipo di interventi previsti) la cui caratteristica comune è quella di aver favorito l’inserimento sociale degli stranieri ospitati tramite la loro attiva partecipazione alla cura del paesaggio culturale e alla promozione turistica delle località montane di destinazione.
Alpi Marittime: il “Parco solidale”
In provincia di Cuneo, in un’area delle Alpi a grande valenza paesaggistica e caratterizzata da uno spopolamento di lunga data, si colloca il Parco Naturale del Marguareis; qui, nel comune di Chiusa di Pesio, il commissario del Parco ha promosso nel 2015 (basandosi solo su fondi propri dell’ente), il progetto “Parco solidale”: 20 richiedenti asilo (provenienti da Kenya, Costa d’Avorio, Nigeria, Gambia e Senegal, e di età compresa fra i 18 e 30 anni), sono stati accolti come volontari per lavorare, per un periodo di 3 mesi, alla manutenzione e alla promozione turistica del territorio protetto, tramite un accordo con la Prefettura di Cuneo e con l’accompagnamento di una parallela azione di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale ospitante.
Durante l’estate gli immigrati (ospitati in due agriturismi della zona) sono stati dunque impegnati nelle attività di pulizia e riordino dei sentieri dell’area protetta, nella manutenzione delle aree attrezzate fra la Certosa di Pesio ed il Piano delle Gorre, ma anche in supporto ai servizi di accoglienza turistica (informazioni ai viandanti, apposizione di segnaletica, ecc.), rivolti ad escursionisti e famiglie. La loro attività di cura del territorio si è anche svolta nelle Riserve Naturali di Crava-Morozzo e di Benevagienna, così come in Alta Val Tanaro (dove hanno soggiornato per un periodo in una baita di montagna) e nella Riserva Naturale dei Ciciu. L’Ente Parco si è occupato di fornire una formazione di base ai migranti che hanno aderito al progetto (attivando in tal senso i propri operatori) e di dotarli delle adeguate calzature, della maglietta che li identifica come volontari del “Parco solidale” e dell’idonea strumentazione di lavoro e antinfortunistica.
I risultati si sono visti non solo sul piano della cura del territorio, ma anche su quello dell’inclusione sociale e dell’accettazione dello straniero; come spiega infatti Andreino Ponso (medico e assessore di Chiusa di Pesio), «i nostri cittadini hanno superato molte diffidenze e oggi guardano quelle persone in modo diverso. Hanno capito che non sono un pericolo come qualcuno con molta demagogia voleva fare credere. Certo, non è stato semplice, non tutti hanno compreso. Ma abbiamo visto mutare l’atteggiamento della gente».
Alpi Biellesi: “Sent-ieri, oggi e domani”
A Pettinengo, località nota come “il balcone del biellese” e fino a pochi anni fa connotata dalla presenza di lunga data dell’industria tessile legata ai maglifici (oggi tutti chiusi), Pacefuturo ONLUS (attiva da anni nel settore dell’inclusione sociale dei “soggetti svantaggiati”) ha dato vita al progetto “Sent-ieri, oggi e domani”. L’iniziativa, che ha origine nel 2008 dalla collaborazione con l’Amministrazione Comunale e che vede il coinvolgimento fin da subito della comunità locale, è stata finalizzata a riportare alla luce oltre 10 km di vecchi “sentieri operai”, valorizzando nel contempo i boschi e il paesaggio culturale da essi segnati; in questo modo, si è inteso dare vita alla trasformazione responsabile di un territorio in crisi socio-economica e identitaria, coniugando crescita culturale, valorizzazione turistica e solidarietà sociale. Nel territorio comunale, infatti, si diramano camminamenti, oggi ignoti ai più, che collegavano le cascine e le varie frazioni più alte del paese (da cui provenivano i contadini-operai, nel loro pendolarismo lavorativo quotidiano) ai siti degli opifici oggi dismessi, tra cui spicca l’ex Maglificio Bellia (famoso per il marchio Liabel).
L’obiettivo di questa azione è quello di promuovere un modello partecipativo di valorizzazione e di gestione del paesaggio, da un lato creando degli itinerari turistici legati alla pratica di attività outdoor ed alla fruizione di percorsi culturali, e, dall’altro lato, contribuendo alla salvaguardia dell’ambiente dal degrado e dal rischio idrogeologico, dovuti all’abbandono. Allo stesso tempo, l’intervento mira a favorire la riscoperta delle radici identitarie locali, attraverso il recupero delle testimonianze storico-artistiche presenti (sentieri operai, archeologia industriale, cappelle votive, ecc.), restituendone così alla memoria collettiva gli antichi saperi.
Nell’ambito di questa progettualità, dal 2014, l’associazione Pacefuturo, in convenzione con la Prefettura di Biella, ha iniziato a dare accoglienza, a partire dalle proprie strutture (tra cui una villa storica e alcune depandances), ad un gruppo di Richiedenti Protezione Internazionale di origine africana, arrivando nel 2016 ad ospitare a Pettinengo oltre 100 profughi, di diverse nazionalità. Un buon numero di questi soggetti sono stati progressivamente inseriti nel progetto di recupero della sentieristica e dei manufatti architettonici rurali (grazie ad un accordo quadro sul volontariato dei rifugiati, firmato tra Enti pubblici e soggetti gestori), venendo iscritti come soci alla ONLUS e contribuendo, con lavoro volontario, alla cura e manutenzione dei percorsi, nonché alla loro promozione turistica (apposizione di segnaletica, ecc.). Nel contempo, diversi rifugiati sono attivi in modo continuativo nella pulizia del bosco, nella raccolta di legna da ardere (che viene poi consegnata gratuitamente agli anziani del paese) e in altre attività socialmente utili, finalizzate tanto a sostenere il turismo locale, quanto a favorire la permanenza in montagna dei residenti più fragili, specialmente nei mesi invernali. Il progetto è tuttora in corso e vede allargarsi progressivamente il numero degli stranieri coinvolti nelle attività previste.
Val Camonica: “La valle accogliente”
La Valle Camonica, in provincia di Brescia, è oggi un territorio in trasformazione, a cavallo tra economia industriale (siderurgica, tessile, di sfruttamento delle risorse idroelettriche), oggi parzialmente in crisi, e dimensione turistica (in parte ancora da sviluppare e da rendere più sostenibile), legata ai suoi siti archeologici e alle località montane, a partire dal Parco dell’Adamello e dai comprensori sciistici del Passo del Tonale e dell’Aprica. Dal 2011 si è andata costruendo in valle una rete SPRAR (composta da provincia di Brescia, Comunità Montana di Valle Camonica e da 46 comuni della zona), che ha portato sul territorio i primi cento richiedenti asilo, distribuiti in numerose località, solitamente in piccoli gruppi: a gennaio 2016 i soggetti stranieri presenti erano 353, secondo un un modello di accoglienza decentrato e diffuso, riconosciuto come buona pratica in diversi studi e ricerche del settore (Erba, Pennacchio & Turelli, 2015).
Il progetto SPRAR “La valle accogliente” costituisce una risposta bottom-up alla prima azione di collocamento dei migranti sul territorio, avvenuta sempre nel 2011 ma con modalità top-down, quando un centinaio di richiedenti asilo (nell’ambito della cosiddetta “’Emergenza Nord Africa”) erano stati insediati a Montecampione (a 1800 metri di altitudine), in una struttura alberghiera da tempo abbandonata, con modalità di accoglienza del tutto inadeguate (mancanza dei servizi essenziali, lontananza dai centri abitati, affollamento abitativo, ecc.). Tra i promotori più attivi del nuovo progetto si segnala da subito la cooperativa sociale K-Pax, che opera a Breno, comune montano di circa 5000 abitanti, posto in media Val Camonica e principale centro amministrativo della zona. Nonostante il clima sociale inizialmente contrario all’accoglienza (con gravi episodi di intolleranza razzista, fomentati da forze politiche xenofobe), la cooperativa dà vita alla ristrutturazione e alla riapertura di un albergo da tempo dismesso, l’Hotel Giardino, unica struttura ricettiva presente nel comune. L’intervento ha favorito la riscoperta della vocazione turistica del territorio, creando posti di lavoro per alcuni residenti italiani e, nel contempo, inserendo attivamente altrettanti rifugiati stranieri, come personale alberghiero, ma anche in attività di promozione turistica e, parallelamente, di informazione sul tema delle migrazioni (anche tramite l’organizzazione del Festival “Abbracciamondo”, rassegna di eventi interculturali, diffusa su tutto il territorio della valle).
L’albergo, ristrutturato e interamente rinnovato, è diventato così l’Eco-Hotel socio-culturale “Il Giardino”, una struttura (unica in Val Camonica) che punta a valorizzare l’utilizzo dei prodotti a Km zero, promuovendo nel contempo le visite guidate agli alpeggi della zona, l’organizzazione di eventi culturali per residenti e turisti, i corsi di cucina, ma anche i servizi di bike-sharing e di book-crossing, sempre nel segno dell’interculturalità, legata al coinvolgimento dei migranti nelle varie attività del previste, i cui ricavi sono interamente investiti in progetti di housing sociale rivolti ai rifugiati.
5. Conclusioni: turismo sostenibile, cura del territorio e neo-popolamento alpino
Le buone pratiche più sopra discusse ci insegnano qualcosa di importante rispetto al nesso possibile tra l’immigrazione straniera – con un riferimento particolare all’accoglienza dei rifugiati – e il turismo montano: innanzitutto, l’apporto dei migranti può essere significativo proprio rispetto a quella cura del territorio e a quella preservazione del paesaggio culturale, che appaiono i requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile e turisticamente attrattivo, in zone soggette a rischio idrogeologico e caratterizzate spesso da significative risorse ambientali e culturali da preservare.
In secondo luogo, l’inserimento lavorativo dei rifugiati può rappresentare un fattore importante nel rilanciare attività ricettive e di servizio eco-turistiche, la cui sostenibilità sia basata sulla logica dell’impresa sociale (a cavallo tra agire nonprofit e creazione di utili), piuttosto che su quella del mercato puro (spesso inadeguata allo sviluppo di iniziative turistiche ed economiche in contesti montani “minori”)..
Ma i rifugiati rappresentano anche una risorsa potenziale per favorire la resilienza di comunità di montagna in crisi economica e identitaria: la sfida socio-culturale posta dagli stranieri (laddove la loro presenza sia gestita con accortezza rispetto al loro numero e alle modalità del loro inserimento) può infatti rappresentare un’occasione per il ripensamento di identità locali altrimenti a rischio di “museificazione folkloristica”. Come ci ricorda Montandon: "Lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano nella piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza […] Lo straniero ha un ruolo rivelatore". Ripensare queste identità territoriali in una direzione innovativa e inclusiva delle diversità, può anche avere un impatto turistico, come ci mostra il caso (agli antipodi delle Alpi) di Riace Calabro, che ha sviluppato un “turismo dell’accoglienza”, centrato proprio sull’inserimento intelligente dei migranti nel tessuto socio-economico locale.
Non da ultimo, la permanenza durante tutto l’anno dei rifugiati nei comuni alpini ad offerta turistica può contrastare quella desertificazione sociale, tipica della “stagione morta”: i migranti possono costituire un presidio del territorio che può valere dal punto di vista del controllo del dissesto idro-geologico, dell’offerta di servizi ai residenti storici (spesso anziani) e, più in generale, dell’antropizzazione di luoghi altrimenti a lungo spopolati.
Se dunque le Alpi tornassero ad essere “terra d’asilo”, come storicamente sono state tante volte rispetto ai “forestieri”, non è insensato ipotizzare che, in prospettiva, alcuni di questi stranieri, oggi “montanari per forza”, potrebbero divenire in futuro “montanari per scelta”, contribuendo a quel ripopolamento delle terre alte, senza il quale non possono esistere né identità locali vive, né tantomeno alcun sistema turistico attivo e sostenibile.
Andrea Membretti è Dottore di Ricerca in Sociologia, insegna Sociologia del Territorio all’Università di Pavia. Studia le dinamiche socio-demografiche legate all’immigrazione e al neo-popolamento nei territori montani. Cura la rubrica “Montanari per forza” sulla rivista Dislivelli.eu
Riferimenti bibliografici essenziali:
Convenzione delle Alpi (2015), Cambiamenti demografici nelle Alpi. Quinta relazione sullo stato delle Alpi. Rapporto sulla situazione demografica odierna nell’arco alpino, sui principali mutamenti avvenuti e sui trend in atto.
Corrado, F., Dematteis, G. e Di Gioia, A. (a cura di) (2014), Nuovi Montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, F. Angeli, Milano. Volume dedicato al fenomeno dei nuovi abitanti delle Alpi, italiani e stranieri.
Demochange (2012), Cambiamenti demografici nelle Alpi: strategie di adattamento per la programmazione e lo sviluppo regionale. Rapporto sul mutamento demografico nell’arco alpino e sulle strategie per attrarre nuovi abitanti.
Dislivelli.eu, n.64 (febbraio 2016). Numero speciale (a cura di M. Dematteis e A. Membretti), intitolato
“Montanari per forza” e dedicato all’immigrazione straniera nelle montagne italiane.
Erba P., Pennacchio E., Turelli S. (2015), La valle accogliente, Emi. Volume in cui si presenta e analizza il caso del sistema di accoglienza dei rifugiati in Valle Camonica.
Montandon, A. (2002),
Désirs d’hospitalité, PUF. Saggio sull’ospitalità e sui suoi molteplici significati, per come trattata in letteratura, da Omero a Kafka.
«Terzo Valico. Una lunga e controversa storia. il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati,ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)
Il Terzo Valico è il gigante invisibile delle grandi opere. Grande per impatto ambientale, per la spesa pubblica (6,2 miliardi di euro) e per la lunga e controversa storia, ma sconosciuto alla maggioranza delle persone. Una sorta di Golem, potente ma fragile.
Costellato da tantissimi stop and go, proclami, bocciature e travagli giudiziari, il suo sfumato racconto iniziò nel 1991, l’anno in cui venne presentato dal governo dell’epoca – era uno degli innumerevoli esecutivi Andreotti – il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati, in primis le famiglie del capitalismo italiano, ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato.
Dal primo tavolo dell’Alta velocità, apparecchiato per Fiat, Eni e Iri nell’estate del 1991, erano rimasti fuori i Ferruzzi e i Ligresti. Proprio a loro, in extremis (a dicembre), venne affidato il progetto del Supertreno Milano/Genova, che, dopo tre bocciature della commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale), grazie al salvataggio della legge obiettivo (considerata criminogena da Raffaele Cantone), diventerà successivamente Terzo Valico dei Giovi: dalla città della Lanterna fino alla piccola Rivalta Scrivia, frazione di Tortona.
Meno chilometri ma costi esponenzialmente lievitati. Si tratta di un tragitto ferroviario di 53 chilometri ad alta velocità, di cui 37 in galleria, che iniziano dal nodo ferroviario di Genova (Bivio Fegino) e arrivano nella Piana di Novi per poi ripiombare in una linea tradizionale. In questi anni, i proponenti e i favorevoli, al di là degli slogan («ce lo chiede l’Europa» e «senza Genova morirebbe»), hanno sempre eluso la domanda principale: serve davvero? Solo una seria e indipendente analisi costi-benefici avrebbe potuto dirlo, ma non è stata fatta.
L’11 novembre del 2011, l’ultimo giorno prima della caduta dell’esecutivo Berlusconi, con la firma del contratto per i lavori della linea, il gigante diventò visibile. Ma non senza problemi. D’altronde i guai giudiziari erano iniziati nella seconda metà degli anni Novanta, quando si avviarono i lavori per tre «fori pilota», cunicoli esplorativi per sondaggi geodiagnostici. Due di essi, nella Val Lemme, in provincia di Alessandria, da semplici rilievi esplorativi diventarono gallerie lunghe un chilometro.
Scattò la denuncia degli ambientalisti, con il Wwf in testa. E il 24 febbraio 1998 i cantieri furono chiusi dai carabinieri in seguito a un’inchiesta promossa dalla Procura di Milano con l’incriminazione del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, e dell’ingegner Ercole Incalza, accusati di avere speso soldi dello Stato senza alcun progetto approvato e per opere che non erano affatto «fori pilota».
Il processo per truffa aggravata ai danni dello Stato terminò anni dopo con la prescrizione dei reati grazie alla legge Cirielli. Il Sistema Incalza, così denominato successivamente, era già lampante nel 1998: un mix di burocrazia pubblica, privato affarista e cattiva politica che gestiva appalti sempre più cari.
Ed ora la ’ndrangheta.
Ma non è una sorpresa, la presenza della criminalità organizzata nei cantieri del Terzo Valico è stata documentata dai No Tav, in particolare nel settore del movimento terra, parallelamente alle procure. La presenza della ’ndrangheta è accertata sia in provincia di Alessandria sia in quella di Genova. Delle infiltrazioni se ne parlò, per esempio, a proposito del traffico illecito di rifiuti nelle cave del tortonese, quando fu comminata un’interdittiva antimafia all’imprenditore Francesco Ruberto, e se ne discusse quando fu arrestato per camorra il capo della Lande, Marco Cascella, subappaltatore nei cantieri della grande opera.
Con l’attuale indagine della procura di Reggia Calabria è stata accertata l’infiltrazione degli appartenenti alla cosca Raso-Gullace-Albanese in sub-appalti già aggiudicati per la realizzazione dell’infrastruttura. Alcuni affiliati avrebbero anche sovvenzionato i comitati «Sì Tav» per agevolare l’inizio dei lavori.
Contro tutto questo si è battuto anche ieri il movimento No Tav. A Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, un centinaio di attivisti si è radunato per opporsi all’esproprio degli ultimi due lotti del cantiere.
«Viaggio a Song-do, sede del Fondo Verde per il Clima, raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo e dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita». Sbilanciamoci info,19 luglio 2016 (c.m.c.)
Song-do, due ore e passa in metro da Seul, Corea del Sud, è una città costruita dal nulla, su 6,5 kilometri quadrati rubati al mare dalla mano dell’uomo che altera confini e morfologie. L’intenzione è di ospitare almeno 250mila persone in questo insediamento che sta diventando “trendy” al punto da convincere varie star di soap opera di andarci a vivere neanche fosse una Beverly Hills d’Oriente.
Ad oggi però ci sono solo costruzioni avveniristiche ultimate semivuote, qualche sparuto ciclista e cantieri che lavorano 24 ore su 24. Sullo sfondo canali pieni di navi mercantili. Camminando tra questi grattacieli di acciaio e cristalli, strade semivuote in attesa di essere riempite di auto, sembra di vivere in un Truman show del liberismo più sfrenato.
È ad Incheon che a suo tempo sbarcarono i contingenti delle Nazioni Unite con a capo il generale MacArthur, in una mossa azzardata che segnò le sorti della guerra di Corea. Un luogo simbolico quindi e non solo, celebrato da una placca al centro di CentralPark, che ribadice l’ impegno a proseguire la “missione di libertà e prosperità” per il popolo coreano. Oggi una statua di bronzo di MacArthur ricorda il luogo dello sbarco.
Non a caso Song-do è stata costruita all’interno di una delle quattro zone economiche libere della Corea, la Incheon-Free-Economic-Zone (IFEZ), per le quali il governo coreano ha investito qualcosa come 41 miliardi di dollari, su una superficie di 290 kilometri quadrati, la maggior parte conquistata al mare.
Quasi una città-stato nel quale chi investe gode di esenzioni fiscali e non solo. Una raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo, quello della reificazione del quotidiano, della natura trasformata in merce di consumo, dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita, pietre finte e alberi trapiantati sulla sabbia piatta, sferzata dal vento, gelido di inverno, caldo ed umido d’estate. Song-do ci racconta uno stato alterato di sovranità, o forse d’eccezione così ben descritto da Giorgio Agamben.
Il “G-building” ospita il governo della IFEZ (Incheon Free Economic Zone) – c’è addirittura un ambasciatore per le relazioni internazionali – ed anche gli uffici del Fondo Verde per il Clima, entità istituita per finanziare l’attuazione degli accordi sul clima di Parigi. Al piano terra entri e vieni accolto da uno schermo luminoso che proietta gli indici di borsa, negli ascensori un altro video ti spara un grafico per poi chiederti se hai fatto la tua dose di passi giornalieri per tenerti in forma. I marciapiedi sono quasi tutti in tartan, per biciclette e “runner”, ma ce ne sono assai pochi, in questa città che vuole essere una eco-città modello. Salta agli occhi la vera contraddizione, quella che vorrebbe applicare al liberismo una patina di verde e di tecnologie appropriate.
Oggi Song-do è considerata, non a caso, un modello di “green economy” costruito sostituendo un ecosistema dove vivevano 11 specie di uccelli migratori definiti di grande importanza dalla Convenzione di Ramsar, tra cui la “Platalea Minor”. Mentre le verdissime centrali “a zero emissioni di carbonio” sfruttano le energie delle maree distruggendo habitat costieri delicatissimi. Il paradosso è che uno di questi impianti, il più grande al mondo, il Siwha Tidal Power Plant è stato anche registrato come progetto del Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio.
A conflict of greens: Green Development versus Habitat Preservation-the case of Incheon, South Korea titolava un saggio a sottolineare la contraddizione tra capitalismo verde ed ecologia. Quale conversione ecologica potrà essere possibile in un luogo artificiale, dove i diritti sono sottomessi alle leggi del mercato e della finanza? Un luogo che pretende di essere laboratorio di un Green New Deal asettico e senz’anima?
Fa riflettere quella teoria , non corroborata da prove scientifiche, secondo la quale una città acquisisce una propria “anima” nello spazio di due generazioni o per essere precisi intorno a 70 anni o giù di lì. Allora, la Song-do di oggi sarà soppiantata da progetti ancor più avveniristici, già illustrati nel museo-mostra permanente dell’IFEZ. E ci vorranno altri 70 anni per la nuova “anima” della città. A pochi kilometri dall’aeroporto, in pratica uno “shopping mall” con piste di decollo ed atterraggio, sta nascendo un casinò enorme , dal costo, si dice, di un miliardo di dollari, per ricchi cinesi in cerca di azzardo e facile fortuna.
Ero già stato in una situazione simile, a Doha, Qatar, lì erano il gas ed il petrolio a fare da motore della trasformazione radicale dello spazio urbano, con braccia e mani di centinaia di migliaia di migranti che lavorano in condizioni di semi schiavitù. Anche lì una penisola rubata al mare, una vetrina dei migliori architetti in circolazione da Jean Nouvel a Norman Foster, anche lì una realtà artificiale, una Venezia in plastica al centro di un megacentro commerciale. Eppoi cantieri e cantieri, per far giocare gli opulenti ed annoiatissimi autoctoni al borsino della speculazione immobiliare, e trasformare il Qatar in un polo della conoscenza e della ricerca scientifica per tutta la regione ed attrarre ragazzi e ragazze nei nuovi campus e centri di ricerca.
Pare che il presidente ecuadoriano Rafael Correa si fosse innamorato del Qatar, non a caso gli sceicchi si stanno comprando mezza Quito, dopo avere conquistato Londra e la Milano da “bere”. Si innamorò di quella società che si vuole dire “post-petrolifera”, e che investe nella conoscenza, e dopo Doha si innamorò anche di Incheon. Così anche tra le Ande ecuadoriane, nacque Yachay, una sorta di Silicon Valley della conoscenza e delle biotech, disegnata dalla cura attenta di esperti coreani. Anche qua, come a Doha ed a Song-do si cerca di attrarre cervelli e docenti delle migliori università.
Saranno spazi extraterritoriali urbani come l’IFEZ, plasmati a tavolino, sospesi nello spazio e nel tempo, buchi neri dove vige l’esenzione dalle regole e dalle tasse, dai diritti dei lavoratori, a costituire la nuova frontiera del liberismo selvaggio che si nutre di risorse saccheggiate altrove. Fatto sta che Song-do oggi è uno di quei tanti luoghi di “extraterritorialità”, che fanno il pari con le Zone di Libero Scambio (Export Processing Zones) dedicate esclusivamente all’ esportazione – ricordo quella di Manaus – o Hong Kong – che assieme ai paradisi fiscali disegnano un’altra geografia del potere, un sistema reticolare di governo parallelo, impermeabile allo scrutinio pubblico, che non prevede anomalie o alternative.
Un esempio tra i tanti di “zone” (assai bene descritte in un saggio di Keller Easterly del 2014, Extrastatecraft: the power of infrastructure space) dove vengono ridisegnati poteri e sovranità, tra assetti statuali e di mercato.
Il modello “coreano” viene esportato ovunque nel mondo, non solo in Ecuador, ma anche ad esempio in Honduras, dove capitali coreani sostengono la creazione di charter cities, vere città stato autonome ed indipendenti, regolate solo dalla legge del mercato e del profitto. Viene da pensare alla City di Londra oggi all’indomani della Brexit, ed a chi pensa che la Brexit possa contrastare il disegno del capitalismo liberista e finanziarizzato.
Non si facciano illusioni, esistono già altri luoghi non-luoghi pronti a prendere il posto di Londra o di Francoforte sparsi lungo la densa rete di “città stato”, “città mercato” globali come disse a suo tempo Saskia Sassen, aree di libero scambio, zone economiche libere che stanno nascendo in ogni parte del mondo.
Così Song-Do, disegnata di sana pianta da una compagnia di progettazione, la Kohn Pedersen Fox, è una città “chiavi in mano” da riprodurre altrove nel mondo, con il suo Central Park, il suo World Trade Center ed i suoi canali di tipo Venezia del futuro, ed anche altre zone di libero scambio, un technopark e un biocomplex. I cessi elettronici degli hotel ti offrono varie opzioni, tra clistere automatizzato e massaggi del fondo schiena a temperatura regolabile. I supermercati vendono cosmetici tratti dalla manipolazione genetica di cellule staminali, per schiarire la pelle e regalare l’illusione dell’eterna giovinezza.
La Repubblica online, 18 luglio 2016
"I have __ good news for you. A: an; B: some; C: nothing". Alla concettosa domanda numero 115 del test di inglese manca la risposta giusta: che sarebbe "no".
Non ci sono, infatti, buone notizie per i 19.479 laureati, specializzati e dottorati che dal prossimo 26 luglio affronteranno il concorso per i sospirati 500 posti di funzionari del Mibact. E non solo perché in regioni chiave come la Campania, la Calabria o la Puglia non ci sono praticamente posti (il che consegna alla disperazione intere generazioni di studenti meridionali del passato e del presente), o perché le biblioteche hanno così pochi posti da aver indotto alle dimissioni tutti gli organi tecnici competenti in seno allo stesso Mibact (cosa mai successa).
Domande quasi tutte di storia dell'arte (pochissima archeologia, praticamente niente per bibliotecari e archivisti - la parola "archivio" ricorre 6 volte su 1400 domande... - , per non parlare degli altri profili presenti nel concorso): e soprattutto bizzarre, irrilevanti, irte di errori, talvolta con tutte e tre le risposte sbagliate. E con definizioni copiate di peso da wikipedia o da altre pagine web. Infine, curiosamente relative in gran parte alla storia dell'arte di Roma.
La più citata in rete è forse la mitica numero 70: "L'opera "All'amico Lucio" dello scultore catanese Carmine Susinni, esposta anche all' Expo di Milano lungo il decumano, ritrae Lucio Dalla: A: in piedi con il clarinetto; B: che parla con un gatto; C: seduto su una panchina". Una tipica 'nozione generale' sul nostro patrimonio!
Gli anonimi compilatori si rivelano affetti da una vera mania caravaggesca: ben 26 domande riguardano il Merisi. Ecco la più incredibile: "Quale di queste opere di Caravaggio non venne esposta nel 1995-6 nei Musei Capitolini alla Mostra "La natura morta al tempo di Caravaggio"? A: Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana di Milano; B: Bacchino malato della Galleria Borghese di Roma; C: Ragazzo morso dal ramarro della Fondazione Longhi di Firenze". Una domanda assolutamente irrilevante, cui potrebbero rispondere forse solo i curatori della mostra.
Accanto alle domande che sanno di Trivial Pursuit ("Qual è l'unica opera di Giorgione che ha ancora la cornice originale?"; oppure: "La Diana cacciatrice della Pinacoteca Capitolina attribuita a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino è: A: Un olio su rame; B: Un olio su tavola; C: Un olio su tela") e a quelle grottescamente sadiche ("Quale Cappella realizzò Filippo Raguzzini tra il 1724 e il 1725 nella Chiesa di Santa Maria Sopra Minerva per volere di papa Benedetto XIII che qui venne sepolto? A: Cappella di San Giovanni Battista; B: Cappella del Sacro Cuore; C: Cappella di San Domenico"), ci sono quelle offensive per ovvietà: "In quale cappella della città del Vaticano sono visibili alcuni tra i più famosi affreschi di Michelangelo Buonarroti, tra i quali il "Giudizio universale"? A: Cappella di Sant'Olav. B: Cappella Cornaro; C: Cappella Sistina". O, forse peggio ancora: "Come è denominato il complesso delle più grandi Terme della Romaantica, costruito tra il 298 e il 306 d.C., e costituente oggi una delle sedi del Museo Nazionale Romano? A: Terme di Diocleziano; B: Terme di Stigliano; C: Terme di Saturnia".
Inquietante il divario tra la caricatura dell'iperspecialismo medievistico ("In quale anno Onorio III consacrò la chiesa cistercense di Casamari? A: 1217; B: 1219. C: 1220") e la sbracatura sul contemporaneo ("La scultura in legno "Ritratto di Ungaretti" di Pericle Fazzini è.... A: Un esempio della scultura preromanica del sec. VII; B: Un'opera del primo medioevo, periodo in cui la scultura è sentita come ornamento e completamento dell'architettura; C: Un'opera del XX secolo conservata nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma").
Ci sono le domande con troppe risposte giuste (qui la A e la C: "Il dipinto Et in Arcadia Ego della Galleria Nazionale d'arte antica di Roma di Palazzo Barberini, eseguito da Giovan Francesco Barbieri detto Il Guercino è: A: Un paesaggio arcadico; B: Un'allegoria del "memento mori"; C: Una natura morta"), quelle con nessuna risposta giusta ("La statua bronzea del pugilatore conservata al Museo Nazionale Romano è firmata da un artista greco. Quale? A: Polidoros; B Apollonios; C: Atenodoros": ma la scultura non è firmata...), quelle che contengono un errore nella domanda ("Il cosiddetto Teatro all'Antica, o Teatro Olimpico progettato da Vittorio Scamozzi costituisce uno tra i primi esempi tra gli edifici teatrali dell'età moderna. Dove si trova? A Sabbioneta B Vicenza?C Mantova": ma Scamozzi si chiamava Vincenzo...), e quelle della serie "di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?": "I "Bronzi di Riace"(V secolo a. C.), oggi a Palazzo Campanella di Reggio Calabria, sono stati realizzati: A: In marmo; B: In legno; C: In bronzo".
Una nota positiva: è ammirevole il tatto con cui non si chiede l'attribuzione, ma solo la materia, del Cristo comprato come di Michelangelo da Sandro Bondi nel 2009, con l'assenso tecnico anche della funzionaria cui ora Franceschini ha affidato la superpotente direzione unica per il patrimonio culturale: "La statua "Crocifisso Gallino" (1495-1497 circa), conservata nel Museo del Bargello
(Firenze) è stata realizzata: A: In bronzo. B. In legno. C. In marmo".
Inevitabile conclusione: di cos'è fatta la faccia di chi pensa che si possano preselezionare così i futuri custodi del nostro patrimonio culturale? A. di bronzo; B: di tolla; C di ...
«Il neomunicipalismo è un ritorno alla città come spazio aperto, alla piazza, alla polis, all'agorà.Un approccio che guarda all'Europa contro l'austerità dei tecnocrati e il razzismo dei populisti». 18 luglio 2016 (c.m.c)
Il 14 luglio nell’arena di piazza Mercato a Marghera si è svolto l’incontro pubblico Le città ribelli per cambiare l’Europa promosso dalla Municipalità ed European Alternatives con Ada Colau, sindaca di Barcellona, Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera, e Lorenzo Marsili fondatore di European Alternatives, moderato dal giornalista Giacomo Russo Spena.
È stata una delle occasioni per mettere in comune le esperienze delle ‘città del cambiamento’ e lanciare la rete delle ‘città ribelli’ all’Europa delle lobby.
Barcellona rappresenta la punta di diamante della svolta possibile in Spagna, mentre Napoli aggiorna la ‘rivoluzione arancione’ altrove tradita grazie all’innesto dei centri sociali. Ma l’alternativa guadagna terreno in tutt’Europa: Birmingham e Bristol nel Regno Unito, il governo del Land Turingia in Germania, Grenoble in Francia, i governi regionali dell’Attica e delle Isole Ionie in Grecia, Wadowice e Slupsk in Polonia.
Nata otto anni fa European Alternatives è un’organizzazione transnazionale della società civile e un movimento di cittadini e cittadine che promuove i valori di democrazia oltre gli Stato-nazione.
Per il giornalista Giacomo Russo Spena il neomunicipalismo è un ritorno alla città come spazio aperto, alla piazza, alla polis, all'agorà. Un approccio che, come testimoniano i contatti dei sindaci presenti con l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis e con Podemos in Spagna, guarda all'Europa contro l'austerità dei tecnocrati e il razzismo dei populisti.
Ada Colau ha raccontato come ha reso possibile l'impossibile, cioè coinvolgere chi è fuori dal sistema, i cittadini e le cittadine disillusi dalla politica di Palazzo insieme alle forze ribelli della città, per scommettere sull'idea democratica del suo progetto vincendo le comunali del 2015.
Contro i poteri forti della politica tradizionale e dell’economia, e sottolineando come il movimento delle donne da sempre è fuori dalle logiche del potere, ha indicato che la forza delle esperienze di governo alternative al sistema sta nella partecipazione e decisionalità del popolo, degli uomini e delle donne che possono cambiare lo status quo. Continua affermando che l'emergenza migranti doveva manifestare i principi fondanti dell'Unione, invece li ha messi in crisi. La sua è ormai una ‘città rifugio’ che in collaborazione con Lampedusa e Lesbo offre accoglienza e ospitalità.
Per la sindaca il neomunicipalismo deve evolversi dalla ribellione e puntare ai diritti conservando il contatto con la gente. Non dev'essere una nuova burocrazia, ma uno scambio di pratiche e di esempi concreti che può rigenerare la democrazia.
De Magistris racconta come la sua amministrazione (oppressa da ben quattro governi di Berlusconi, Monti, Letta e Renzi) abbia valorizzato il capitale umano della città. Dal sostegno alle scuole a quello ai movimenti, dal recupero degli spazi pubblici alla creazione di un'azienda per la gestione pubblica dell'acqua.
Senza gerarchie e senza autoritarismo, è una governance orizzontale che si propone di eliminare il conflitto novecentesco tra pubblico e privato per il bene comune. Nonostante i molti problemi, Napoli oggi è libera dalle collusioni con il malaffare e con le cricche, risultato possibile solo grazie al legame con la gente.
Per questi sindaci le città possono tornare a svolgere un ruolo da protagoniste, come è stato nei momenti decisivi di transizione nella storia europea, e candidarsi ad essere luoghi di radicale innovazione politica, di vera e propria reinvenzione della democrazia. E, in questo modo, offrire risposte alle principali sfide della contemporaneità.
«Le “Mamme No Inceneritore” di Firenze presentano il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina». Comune-info, 17 luglio 2016 (c.m.c.)
La zona della piana fiorentina, che comprende la parte nord della città, è considerata dall’agenzia europea per l’ambiente una delle più inquinate di tutta Europa. Inoltre in questa zona le amministrazioni locali hanno previsto la costruzione di opere altamente inquinanti e impattanti sulla qualità dell’aria come un inceneritore, un nuovo areoporto, la terza corsia dell’autostrada. Ciononostante nella piana fiorentina non sono state collocate, né lo saranno in futuro, stazioni di rilevamento della qualità dell’aria.
È per questo Le “Mamme No Inceneritore” hanno presentato il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina.
Le centraline analizzeranno inquinanti come PM 2.5 e PM10, CO e NO2, temperatura e umidità, così da avere una fotografia completa della qualità dell’aria e degli inquinanti presenti nell’area e provenienti da diverse fonti (traffico, fabbriche, riscaldamento, aeroporto). Sfruttando l’energia solare, la maggior parte delle centraline si renderanno autonome dal punto di vista energetico.
Il progetto verrà realizzato con partner autorevoli tecnici informatici, medici e ricercatori universitari che contribuiranno con la loro professionalità e competenza alla realizzazione di un progetto forte, anche dal punto di vista scientifico.
I dati raccolti saranno pubblicati su una piattaforma pubblica, che raccoglierà i dati anche di altre centraline, in modo da poterli confrontare. I dati inoltre saranno utilizzati per uno studio scientifico partecipato concernente sia il rilevamento dell’inquinamento atmosferico e sia gli effetti sulla salute umana.
Ben presto gli investitori realizzeranno che non è conveniente costruire un inceneritore dove la popolazione non dà tregua e ha gli strumenti per non delegare a nessuno la tutela della propria salute.
A questo progetto stanno collaborando reti e comunità di persone attive in diversi settori e con al centro del loro essere e operato la socialità, la formazione, la salvaguardia dei beni comuni, della salute e dell’ambiente. Quello che costruiremo sarà patrimonio di tutti, il progetto potrà essere replicato anche in altre zone della città, della Regione e di tutta Italia.
Per ringraziarvi del vostro sostegno abbiamo previsto anche delle ricompense, che sono diverse e variano in base al vostro supporto, come per esempio: una borraccia di acciaio, una maglietta, workshop su come autocostruire una centralina, urban tour tra città e oasi naturalistiche per visitare la parte di città interessata dal progetto dell’inceneritore, una copia di 1 dvd a scelta tra due film premiati a livello internazionale che parlano sui rifiuti e sugli inceneritori (Trashed e Sporchi da morire) e infine una copia di 1 libro per bambini a scelta tra due libri che trattano il problema dei rifiuti e dell’inceneritore (Ollip e il grande inceneritore e Chi è stato?). Per chi sostiene con cifre elevate, prevediamo delle ricompense stile pacchetto (1 borraccia + 1 dvd + indica una zona che secondo te meriterebbe essere monitorata o 1 libro + 1 dvd + dai il nome a una centralina).
Mezzo secolo fa ai grandi eventi distruttivi, conseguenti a e periodi di saccheggio del territorio, generavano nella società e nella politica reazioni positive. Dobbiamo aspettare un ulteriore disastro per ritrovare un analogo slancio?
Gli anniversari servono a fare i ripassi di storia e a capire meglio quello che è successo nel frattempo. Il 19 luglio 1966, cinquant’anni fa, gran parte dell’Agrigento moderna franò sotto il peso della speculazione edilizia provocando il crollo di centinaia di alloggi e migliaia di senzatetto. Da allora il 19 luglio del 1966 è una data fondativa della vicenda urbanistica italiana del secondo dopoguerra. Ma per intendere bene l’importanza dei fatti di Agrigento è necessario un passo indietro di tre anni, al 13 aprile 1993, il giorno in cui la Democrazia cristiana sconfessò il ministro dei Lavori pubblici del quarto governo Fanfani, il democristiano Fiorentino Sullo, stroncando sul nascere la sua risolutiva riforma urbanistica fondata sull’esproprio preventivo e generalizzato delle aree edificabili. Nonostante l’assassinio politico di Sullo, il terrore per la riforma urbanistica fu tale da indurre i vertici delle istituzioni repubblicane – dal presidente della Repubblica Antonio Segni, al ministro Emilio Colombo ad altre autorevoli personalità – a ordire un tentativo di colpo di Stato (il piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo) che rientrò quando i socialisti, nella formazione del primo governo organico di centro sinistra presieduto da Aldo Moro, rinunciarono di fatto alla legge urbanistica. E di riforma urbanistica non si parlò più.
Fu l’enorme risonanza sulla stampa e sull’opinione pubblica della frana di Agrigento – come se allora per la prima volta ci si rendesse conto che la speculazione edilizia stava distruggendo le città italiane – che consentirono a Giacomo Mancini, ministro socialista dei Lavori pubblici, di sfruttare sapientemente la circostanza per riprendere, con inconsueta determinazione, il tema proibito della riforma urbanistica. Il primo passo fu l’indagine sulla situazione edilizia di Agrigento coordinata dal direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli. Un lavoro esemplare – condotto in due soli mesi, agosto e settembre del 1966 – che esamina puntigliosamente centinaia di documenti e di progetti e valuta le responsabilità del Comune, della Regione, dello Stato, con nomi e cognomi. Il dato forse più clamoroso riguarda il dimensionamento del programma di fabbricazione del 1958 che prevedeva per Agrigento una crescita da 40 a 200 mila abitanti. Ma soprattutto l’indagine mise in evidenza che la speculazione edilizia non era una triste prerogativa della città dei Templi, il modello era lo stesso di Napoli, Roma, Rapallo, Milano e Palermo.
All’indagine Martuscelli fece seguito un aspro e serrato dibattito parlamentare (memorabile l’intervento, “d’intransigenza giacobina”, del comunista Mario Alicata, che morì subito dopo averlo pronunciato). L’iniziativa politica di Mancini si concluse con l’approvazione della cosiddetta legge ponte del 1967, ponte perché doveva valere per il tempo necessario all’approvazione della riforma urbanistica propriamente detta. La legge obbligò tutti comuni a dotarsi di strumenti urbanistici e i privati a pagare le urbanizzazioni, moralizzò le attività professionali in materia di urbanistica, mise mano alla repressione dell’abusivismo, ma sono soprattutto due le novità assolute della legge: gli standard urbanistici e le norme di tutela del paesaggio e dei centri storici.
Con gli standard del 1968, la fruizione degli spazi pubblici (per il verde, l’istruzione, le attrezzature d’interesse comune, i parcheggi) è diventata un diritto che la legge garantisce a ogni cittadino italiano. L’accanimento contro gli standard degli energumeni del cemento armato (come l’ex ministro Maurizio Lupi) è un indiscutibile riconoscimento della loro qualità sociale. L’altra novità sono le norme di tutela che per la prima volta entrano a far parte della disciplina urbanistica. E per la prima volta dopo l’art. 9 della Costituzione la tutela del paesaggio compare in una legge ordinaria. Che sostanzialmente riprende anche i principi della Carta di Atene del 1960 per l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici sottoposti a vincolo. Se i centri storici italiani hanno resistito meglio che nel resto d’Europa alle alterazioni, anche questo è merito della legge ponte.
Dei fatti di Agrigento e delle successive vicende abbiamo scritto altre volte anche su queste pagine e a esse rimandiamo, in particolare per il racconto degli eventi scatenati dalla legge ponte (le sentenze del maggio del 1968 della Corte Costituzionale) che riportarono in alto mare la riforma urbanistica. Almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando la spinta per la riforma ripartì grazie al movimento popolare e sindacale che, dall’estate del 1969, si attivò risolutamente sui temi della casa e dell’urbanistica. La mobilitazione culminò nello sciopero generale del 19 novembre 1969, forse la più possente e partecipata manifestazione che abbia attraversato le strade delle nostre città. La risposta fu un cospicuo impegno dello Stato per l’edilizia pubblica e per la riforma urbanistica, che vide finalmente la luce con la legge Bucalossi del 1977. Ma sappiamo come andò a finire, la riforma durò solo tre anni. A partire dal 1980 una susseguirsi di sentenze della Corte Costituzionale rimisero tutto in discussione. E siamo sempre in attesa della riforma che, come Godot, non arriva mai. In effetti con gli anni Ottanta è cambiato il mondo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica che ormai non compare più nell’agenda politica.
La conclusione di questo ricordo del 19 luglio di cinquant’anni fa è che, alla fine, la legge ponte e gli standard del 1968 sono stati l’unica riforma urbanistica approvata in Italia dopo la legge del 1942. Che il cielo non mi ascolti, ma è difficile non pensare che per ottenere un risultato significativo in materia di politica del territorio – la riforma urbanistica di oggi è in primo luogo lo stop al consumo del suolo – serva un’altra catastrofe, un’altra frana come quella di Agrigento del 19 luglio 1966. E un
«L’urbanistica nel saggio di Pier Vittorio Aureli "Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo"» per Quodlibet». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
Benché già alla fine degli anni Cinquanta, Giulio Carlo Argan avesse qualificato il Movimento Moderno e le sue strategie urbanistiche come «un capitolo della storia del riformismo europeo» è raro, nella pubblicistica architettonica, che ci si decida ad afferrare la crisi della progettazione razionale direttamente sul lato politico. In effetti, è su questo piano che andrebbero svolte le analisi del dibattito che, nell’architettura italiana, si è aperto nella finestra compresa tra le ricerche compositive e tipologiche, le ironie delle neoavanguardie degli anni Settanta e l’esplosione del postmodernismo.
Perciò il volume che finalmente Pier Vittorio Aureli consegna al lettore italiano, Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo (Quodlibet, pp. 192, euro 17), è prezioso. Tanto più che l’architetto e docente presso l’«Architectural Association» di Londra vi riconosce la centralità di una stagione politica e culturale intensa, raccolta attorno all’eresia operaista e ai suoi esiti. Il testo nasce da un seminario tenuto dall’autore presso la Columbia University che la Princeton Architectural Press ha poi dato alle stampe nel 2008, a testimonianza dell’ormai noto interesse che su scala globale si tributa a quel capitolo del lungo Sessantotto italiano.
Il nodo della pianificazione
Si tratta del tentativo di rileggere in parallelo «testi di Panzieri, Tronti, Cacciari, Tafuri, Rossi e Archizoom come se questi testi appartenessero a un unico – seppur composito e perfino contraddittorio – progetto dell’autonomia». Certo, Aureli menziona puntualmente le significative differenze che esistono tra questi autori, ma le mette in ordine in una ipotesi di ricerca per molti versi affine a quella che si è tentata sul piano filosofico con l’Italian Theory. La chiave teorica la troviamo nel secondo termine del titolo – autonomia – concetto recuperato per la pratica di progetto come premessa di una ricerca personale che Aureli ha esposto in un secondo volume del 2011, dal titolo significativo: The possibility of an absolute architecture pubblicato da Mit Press.
Questione complessa e spinosa, questa della possibilità di una autonomia del progetto – s’intenda: dalle forme dello sviluppo capitalistico attuale – che possa restituirci una architettura assoluta. Nel chiasma che tiene insieme le ricerche del primo operaismo – fino a Contropiano – con la triade Manfredo Tafuri, Aldo Rossi, Archizoom, Aureli trova tre elementi condivisi: la «critica alla professionalizzazione dell’architettura e al suo ruolo politicamente e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche urbane»; la polemica antiriformista; e la decostruzione dei «miti tecnocratici della «programmazione economica» e della città-territorio».
Tracce che l’autore ripercorre quando introduce l’ipotesi sperimentale di una progettazione urbanistica «per parti»: oggetti assoluti e polemici rispetto al generico della metropoli. Una traiettoria dedotta attraverso l’analogia tra la «forma discretizzante» dei luoghi urbani di Aldo Rossi, la libertà teorica di Archizoom e l’autonomia del politico di Mario Tronti, prospettiva unica attraverso la quale, secondo l’autore, si deve leggere l’eredità dell’operaismo classico.
Le differenze che contano
Insomma pur riconoscendo un certo interesse per le tesi dell’intera costellazione di autori che, a differenza di Tronti, hanno partecipato ai nuovi movimenti dagli anni Settanta in poi, secondo Aureli «non si può non esser d’accordo con le critiche che Tronti – padre dell’operaismo – ha mosso verso le tesi del post-operaismo, soprattutto nei confronti del rifiuto, troppo disinvolto ed entusiasta della tradizione del movimento operaio», riducendo tutta intera quella ricerca ad «accademia stanca del girare su se stesso del post-strutturalismo». Mentre si propone, tanto sul piano politico che su quello architettonico, di riprendere «un progetto che affonda le sue radici proprio agli inizi della storia occidentale moderna».
Una domanda: regge questa ipotesi di ricerca? Sul piano strettamente filosofico-politico, direi di no: e del resto anche all’interno del recente dibattito sull’Italian Theory si è riconosciuto ampiamente che l’autonomia del politico non coincide con l’esito destinale del primo operaismo ma ne configura piuttosto una corruzione e un rovesciamento (cosa peraltro che lo stesso Tronti non avrebbe difficoltà ad ammettere).
Insomma più che continuità qui si dovrebbero far giocare delle rotture e delle differenze, delle aperture e delle divaricazioni tra dimensioni del progetto politico del tutto inconciliabili. E per quanto riguarda il progetto di architettura? Anche qui, a ben vedere, la triade Rossi, Tafuri, Archizoom può stare insieme solo nell’ordinato casellario dello storico disciplinare, ma traballa paurosamente se guardata più da vicino.
La fuga nel design
Certo: le neoavanguardie italiane avevano letto gli articoli di Tafuri su Contropiano, come è noto il loro interesse per le ricerche portate avanti da Aldo Rossi. Ed è vero che il rapporto tra Tafuri e Rossi resta affettuosamente testimoniato dalla celebre tavola del ’74, L’architettura assassinata, che l’architetto dedicò allo storico. Tuttavia è proprio l’autonomia del progetto, l’ipotesi di un’architettura assoluta che qui fa problema. Perché tutta l’impresa teorica di Tafuri è volta a dimostrarne l’impossibilità, mentre il «novecentismo» elementare di Rossi e le fughe nel design delle neoavanguardie, seppure per via distopica si perdevano nell’impossibile impresa di ribadirla.
Non è forse la critica del lavoro intellettuale, uno dei caratteri centrali di quella stagione? In che direzione viene svolta quella critica dalle diverse figure chiamate in causa?
Scavare queste differenze potrebbe forse consegnarci un’ipotesi di lavoro nuova, capace di tenere insieme una propedeutica critica del razionalismo, la decostruzione del formalismo architettonico, con la necessaria sperimentazione di un progetto all’altezza del capitalismo cognitivo e delle sue faglie. Aureli ha il merito di offrirci l’occasione di questa discussione.
Grandi Opere. Enrico Rossi rilancia: "Il sottoattraversamento va fatto, per separare treni av dai regionali". Rispondono i prof di architettura e ingegneria: "Con due binari di superficie in più, problemi risolti"». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
Come effetto collaterale del disastro ferroviario in Puglia, il sottoattraversamento fiorentino dell’alta velocità sta continuando a far discutere. Anche molto animatamente. Quando sembrava che il maxi progetto – doppio tunnel di sette chilometri e stazione sotterranea griffata Norman Foster nell’area Belfiore-Macelli – si fosse almeno politicamente arenato, a riaprire la partita è stata una netta presa di posizione di Enrico Rossi, che ha trovato alleati nel viceministro Riccardo Nencini e nel presidente del consiglio toscano Eugenio Giani.
Sull’altro fronte, dal dipartimento di Architettura dell’ateneo è stata ribadita la bontà del progetto alternativo di superficie, redatto già anni fa da architetti ed ingegneri dell’Università: “C’è già – ha sintetizzato Fausto Ferruzza che guida Legambiente Toscana – una soluzione: due binari in più fra le stazioni di Statuto, Campo di Marte e Rifredi. Una scelta che può tranquillamente assolvere alle stesse funzioni del sottoattraversamento, ma senza sbancare l’alveo del Mugnone, e senza creare un meccanismo di perturbazione grave e il dissesto idrogeologico dell’area”.
Sul punto però Rossi non molla la presa: «I treni ad alta velocità vanno separati da quelli regionali. Per questo si deve fare il sottoattraversamento. Non darò nessun assenso a soluzioni diverse fino a quando sarò presidente di questa Regione, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in Puglia». Il presidente toscano insiste: «Il 21 luglio parteciperò a un incontro con il governo a Roma. Se decidessero diversamente, vedremo con la nostra avvocatura; passeremo, come suggerisce Eugenio Giani, dal consiglio. Se poi la questione è lo smaltimento delle terre di scavo, che lo Stato e Rfi la risolvano. In tutte le altre città, da Bologna a Torino, si è scavato. Qui i cantieri sono aperti, ci sono le imprese, che si finiscano i lavori, altrimenti si cade nel ridicolo».
Da Architettura si risponde colpo su colpo: «L’assunto principale su cui si fonda il nostro progetto è che gli obiettivi prestazionali del sottoattraversamento possono essere tranquillamente conseguiti utilizzando strutture e spazi ferroviari già esistenti in superficie. La proposta consiste nell’aggiungere, al fascio di quattro binari già esistenti, una nuova coppia di binari destinati a ospitare l’aumento di traffico generato dall’alta velocità.Adottando caso per caso, nei punti dove la sede ferroviaria non consente in modo immediato questa aggiunta, espedienti progettuali ad hoc volti a garantirla». Il tutto, fatto non certo trascurabile, con una spesa del 70% inferiore a quanto previsto, al momento, per la Tav in sotterranea, che ha già drenato più di 700 milioni. Senza che i lavori dei due tunnel siano partiti.
Su questo punto, ieri Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, ha ricordato ancora una volta le “diffuse anomalie” nelle pieghe dei lavori fin qui fatti; con l’inchiesta della procura fiorentina del gennaio 2013, gli arresti anche eccellenti come quello di Maria Rita Lorenzetti, e il processo fissato in autunno. Anche da questo caso Cantone ha tirato le somme generali: «La realizzazione di alcune grandi infrastrutture nazionali ha confermato numerose criticità, quali le carenze nella progettazione, e l’apposizione di numerose varianti e riserve».
Gli aggravi anche forti dei costi, e i diffusi timori di impatti ambientali (e architettonici) come conseguenze dei lavori, sono fattori decisivi agli occhi dei prof dell’ateneo: «Il progetto di superficie nasce sulla base di tre principi: riuso delle strutture già esistenti, con minimizzazione delle nuove realizzazioni e quindi di spesa e impatti; integrazione con i sistemi (ambientali, territoriali, paesistici, urbanistici, dei trasporti…) già in essere nell’area; integrazione prospettica con i quadri scenariali previsti dalla pianificazione (integrazione pro-getto/piano)».
Va da sé infine che le parole di Rossi fanno arrabbiare il comitato No tunnel Tav: «La tragedia della Puglia non c’entra nulla con il tunnel. I 760 milioni spesi per la stazione Foster potevano essere utilizzati per la sicurezza sulle linee regionali. Anche le Ferrovie si sono rese conto dell’insostenibilità del progetto, anche Renzi se n’è accorto». «Rossi dice una sciocchezza – chiosa Alessia Petraglia di Si – affermando che il tunnel assicura sicurezza.Confonde due cose diverse».
Critico anche il comitato pendolari del Valdarno: «Il tunnel non serve ai pendolari. Il tappo è sulla direttissima Firenze Rovezzano, prima del Campo di Marte dove inizia il sottoattraversamento». E Legambiente ricorda: «Noi pensiamo che il Mugello insegni molte cose, basterebbe leggere gli atti di quel processo».
Il giorno in cui l'Unesco prendeva la durissima e giustificata decisione il sindaco della disgraziata città concionava alla Biennale proclamando "Via l'Unesco da Venezia, la città sarà salvata dai suoi abitanti. La Repubblica, 15 luglio 2016
Rapporto shock dell’organismo delle Nazioni Unite: “Basta passaggio delle grandi navi e limite al numero di turisti entro febbraio 2017. In caso contrario non sarà più considerata patrimonio dell’umanità”. L’indagine è nata da un esposto di Italia Nostra
L’ultimatum è perentorio. Se entro il primo febbraio del 2017 non verranno prese misure urgenti, Venezia finirà in una lista nera dell’Unesco, la List of the World Heritage in Danger. Un passaggio che può provocare l’uscita della città e della laguna dai siti patrimonio dell’umanità (Venezia si era guadagnata il riconoscimento nel 1987). Lo ha deciso l’Unesco stesso, ieri a Istanbul, durante la quarantesima sessione del World Heritage Committee.
Con un voto all’unanimità è stato infatti approvato il rapporto che tre ispettori avevano redatto dopo la visita di una settimana compiuta a Venezia nell’ottobre scorso. Al rapporto, 78 densissime pagine, seguiva uno stringente elenco di criticità. Fra le questioni più roventi agli occhi dell’Unesco spicca il passaggio di Grandi Navi davanti al bacino di San Marco e in generale il transito sregolato e caotico di imbarcazioni a motore che alterano pericolosamente il moto ondoso. Altrettanto preoccupanti sono gli interventi in laguna, in particolare gli ipotizzati scavi o allargamenti di canali che sconvolgerebbero definitivamente l’equilibrio di quel pregiato specchio d’acqua. Infine desta allarme l’assenza di politiche turistiche, un settore nient’affatto governato, con flussi di visitatori incompatibili con la fragilità di Venezia, dove è consentita quasi senza limiti la possibilità di trasformare le abitazioni in residenze temporanee, per lo più bed & breakfast.
La richiesta di un intervento dell’Unesco risale al 2011 e fu avanzata da Italia Nostra veneziana, presieduta da Lidia Fersuoch. I cui rilievi sono in gran parte accolti nel rapporto. In questi anni l’organismo delle Nazioni Unite ha avviato tutte le procedure istruttorie per verificare se esistessero ancora le condizioni perché la città e la laguna potessero far parte dei 51 siti italiani patrimonio dell’umanità.
L’Italia è il paese con il più alto numero di siti, che nel mondo sono 1031. Negli ultimi anni hanno rischiato di essere esclusi, senza poi conseguenze, anche Villa Adriana a Tivoli, minacciata prima da una discarica, poi da un insediamento residenziale, e l’area archeologica di Pompei. Una procedura di verifica l’Unesco l’ha avviata qualche mese fa per Vicenza e il paesaggio palladiano: qui un gigantesco complesso edilizio è sorto a qualche centinaio di metri dalla Villa La Rotonda, mentre incalzano preoccupanti progetti per l’Alta Velocità.
Secondo Italia Nostra e altre associazioni, i presupposti sono venuti meno anche a Venezia. Le Grandi Navi transitano regolarmente nel canale della Giudecca per raggiungere la Stazione marittima. Ne arrivano ogni anno, dicono alcune stime, più di 700, il che vuol dire 1400 passaggi davanti a piazza San Marco. Gravissimi, stando sempre alle denunce, sono i danni da inquinamento e da moto ondoso, oltre all’impatto visivo. L’Unesco, nel rapporto, chiede che questi giganti del mare non entrino più in laguna.
Ma le Grandi Navi sono anche l’estremo simbolo di una città consegnata al turismo, 30 milioni di presenze l’anno, il che vuol dire che dalla primavera all’autunno i visitatori ogni giorno sono in numero di gran lunga superiore ai residenti nella città storica, scesi ormai a 56mila (sono 260mila se si comprende Mestre e la terraferma). Tutto, a Venezia, si va piegando alle esigenze turistiche, che sostituiscono i tratti essenziali di una dimensione urbana.
E poi fioccano i progetti alternativi al passaggio delle Grandi Navi. Alcuni prevedono lo scavo di altri canali in laguna per farvi passare le navi tenendole lontane da San Marco: prima il Contorta, più recentemente il Tresse. Su questi progetti il rapporto dell’Unesco esprime molte preoccupazioni per gli effetti di stravolgimento che potrebbero generare sui fondali della laguna stessa, deformandone la natura e trasformandola completamente in un braccio di mare. Il che avrebbe conseguenze drammatiche sulla città di Venezia, il cui benessere dipende molto dallo stato di salute della laguna. Non a caso l’Unesco dichiara patrimonio dell’umanità inscindibilmente città e laguna, raccomandando la tutela di quest’ultima «al pari dei palazzi e delle chiese».
«Una bellissima esperienza di comunità, di condivisione fra tante storie e idee diverse, unite dall’obiettivo di non rassegnarsi e di riappropriarsi di un territorio e di una cittadinanza che non si rassegnerà mai al “tanto lo fanno lo stesso”». La città invisibile, 14 luglio 2016
L’acronimo che abbiamo scelto – LUCI (Lavoratori Uniti Contro Inceneritore) nella Piana – può forse strappare un sorriso, ma da sorridere c’è ben poco nel lavorare all’Osmannoro, tra Firenze e Prato, in una delle zone più inquinate della Toscana. La Terra dei Fuochi di casa nostra.
E’ cosa nota a tutti, ma è meglio non parlarne. Un fatto tacitamente accettato nella rassegnazione che caratterizza ormai troppo spesso il nostro status di cittadini. Avere un lavoro di questi tempi sembra un privilegio, figuriamoci se possiamo pretendere anche di lavorare in luoghi sani. Del resto le normative sulla sicurezza e la salute all’interno delle aziende sono ormai tali da richiedere lauree e specializzazioni pluriennali. Quindi di cosa preoccuparsi?
Poi una sera hai fretta e ti fermi a cena all’Osmannoro appena uscito dall’ufficio o dalla fabbrica, e siccome è estate decidi di stare all’aperto, sottovalutando il fatto di essere sulla traiettoria di atterraggio dei voli in arrivo al Vespucci e ti ritrovi – letteralmente – la pasta condita al cherosene e la pelle bagnata di goccioline oleose e puzzolenti rilasciate dall’ultimo aereo in arrivo da Parigi o da Londra. Sconcertato ti chiedi allora quanto altro carburante hai ricevuto in dono sulla pelle e nei polmoni, senza saperlo, tutte le volte che hai sospeso una conversazione perché il rombo degli aerei ti assordava.
Ti chiedi anche come sia possibile che esista un aeroporto internazionale nel centro industriale più popolato della provincia, e alla fine ti domandi con quale dissennata decisione si possa pensare di raddoppiarlo. E si sa, una volta che le domande iniziano è difficile fermarle, una tira l’altra.
Ti domandi allora che fine farà, con l’ampliamento dell’aeroporto, il tanto rimandato Parco della Piana, soprattutto se dentro ci mettiamo anche un enorme inceneritore che come previsto, potrà, ma soprattutto dovrà – per andare a regime e dare profitti a chi ci ha investito – accogliere e bruciare rifiuti da tutto il territorio nazionale. E anche se lo chiamano con grande ipocrisia “termovalorizzatore” la domanda resta esattamente la stessa.
La volta che hai provato anche tu ad essere green e ad arrivare in bici (come mai le ciclabili di Osmannoro inizino e finiscano nel nulla, te lo eri già chiesto diverse volte e hai supposto che forse son state fatte solo per ottenere fondi europei e non per una mobilità veramente sostenibile), quasi non sei riuscito a respirare e gli occhi ti hanno lacrimato per tutta la giornata. E vabbè, tanto adesso fanno la tranvia, ti sei detto, dando per scontato che collegherà i paesi limitrofi con il centro di Firenze, come sarebbe ovvio per ridurre il traffico. Invece no. Apprendi incredulo che la tranvia si fermerà all’aeroporto e che nel frattempo costruiranno una terza corsia dell’Autostrada A11.
E allora le domande sono troppe e inquietanti. E le risposte del “Sistema” non ti rassicurano per niente, perché, ad esempio, ti viene il dubbio che non ti abbiamo mai detto il vero prezzo che gli abitanti di Copenaghen pagano in salute per il tanto magnificato termovalorizzatore nel centro della città con pista per sciare, tralasciando che a te sembra comunque più divertente farlo sulla neve vera dell’Abetone.
Non è mai troppo tardi per farsi domande ed iniziare a dubitare. Lo diceva anche Oscar Wilde, ti sembra di ricordare, che dubitare è profondamente appassionante.
Capisci allora con sgomento la malafede di chi avrebbe dovuto tutelare la salute dei cittadini e si è invece dimenticato delle migliaia di lavoratori che vivranno sotto la ciminiera di un termovalorizzatore enorme, a due passi da un aeroporto internazionale, fra un’autostrada e vie di collegamento trafficatissime, il tutto ben condito da quanto emesso in termini di inquinamento da una zona produttiva e commerciale probabilmente non ancora totalmente bonificata nemmeno dall’amianto. Con il Parco della Piana che è rimasto solo sulla carta.
Chiedi alle Organizzazioni Sindacali di informarti, di prendere una qualche posizione, di schierarsi dalla tua parte e bene che ti vada trovi indifferenza, paura di andare contro, quando hai la fortuna di non subire un vero e proprio boicottaggio.
Chiedi anche al tuo datore di lavoro, ma ti risponde che pochi altri hanno sollevato il problema, che comunque le amministrazioni locali hanno fatto le dovute verifiche (ma se i lavoratori non sono stati censiti nella Valutazione di Impatto Ambientale né nei piani di monitoraggio delle ASL forse le hanno fatte a Vallombrosa, non all’Osmannoro? Altra domanda che ti toglie il sonno), e che comunque per quanto riguarda la tua fabbrica o il tuo ufficio tutto è in regola, comprese le prese elettriche, quindi devi lavorare tranquillo, semmai chiudi le finestre.
E allora ti decidi a partecipare (anche se il dopo cena ti ha fatto parecchia fatica, va detto) a qualche assemblea informativa organizzata da cittadini come te, e finalmente ascolti medici che non hanno dimenticato Ippocrate, persone che hanno portato avanti con successo in altre comunità strategie alternative di sviluppo industriale e di gestione dei rifiuti, i quali ti spiegano con dati scientifici ed esempi concreti che l’inceneritore, se non si sa quanto male faccia alla tua salute, è di certo sicuro e provato che non fa per niente bene, ma soprattutto che non è l’unica alternativa alla discarica, perché i cassonetti (non ci avevi mai pensato) sono vere e proprie miniere urbane di materia prima e una sinergia virtuosa fra il mondo della produzione e la tutela dell’ambiente crea ancora più sviluppo e nuovi posti di lavoro.
Rincuorato, ma anche con tanta rabbia, capisci che la politica deve e può ancora essere il bene di una comunità, e che solo l’incompetenza e gli interessi privati non riescono a varare strategie innovative per un progresso che possa veramente chiamarsi tale, spacciandoti invece come unico possibile un modello ormai superato, ancora utile solo a chi lucra sulla salute tua e delle prossime generazioni, oltre che a scapito dell’ambiente che (forse talvolta ti era sfuggito?) non è sostituibile come fosse il cellulare dell’anno prima.
Capisci soprattutto che la palla passa a te. Così è nato LUCI nella Piana.
In pochi mesi siamo cresciuti informando e aggregando centinaia di lavoratori.
E’ stata e continua ad essere innanzitutto una bellissima esperienza di comunità, di condivisione fra tante storie e idee diverse, unite dall’obiettivo di non rassegnarsi e di riappropriarsi di un territorio e di una cittadinanza che non si rassegnerà mai al “tanto lo fanno lo stesso”.
Se lo fanno o non lo fanno, l’inceneritore, l’aeroporto, o qualsiasi altro progetto nocivo e assurdo, dipende innanzitutto e soprattutto da tutti noi. Ecco perché, forse sorridendo noi stessi, ci siamo chiamati LUCI nella Piana. Ma stavolta è un sorriso di speranza.
Per tre giorni Napoli è stata ceduta alla ditta D&G che ha "occupato" l'intero Borgo marinaro e molti altri spazi pubblici chiusi agli abituali utilizzatori e riservati agli ospiti della ditta, Molti degli intellettuali locali compiaciuti o rassegnati, ma fortunatamente non tutti. La Repubblica, ed. Napoli, 14 luglio 2016
TRA i due modi che il Calvino delle Città invisibili propone per non soffrire in mezzo all’«inferno dei viventi » il più difficile è quello di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno: e farlo durare e dargli spazio». È un esercizio cognitivo e morale fondamentale: un esercizio cui è impossibile sfuggire quando si scruta ciò che succede a Napoli.
Ora la domanda è: il grande evento di Dolce e Gabbana come va letto? Come qualcosa che non è inferno (sembra l’opinione prevalente, anche se spesso la motivazione che la sorregge è un disarmato: «meglio di niente!»), o come un pezzo del solito, immutabile, eterno inferno? Sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ciò che abbiamo vissuto in questi giorni non è la promessa di qualcosa di nuovo, è l’ennesima manifestazione dell’abdicazione perpetua di questa città.
Cosa c’è, infatti, di nuovo nella circostanza per cui un signore si prende Napoli, la chiude, la nega ai cittadini stessi e ci costruisce un apparato effimero? L’unica novità, rispetto ai riti di antico regime, non è una bella novità: ora la festa non è neanche a sollazzo del popolo, ma a totale beneficio del marketing del moderno signore e padrone.
La gravità di ciò che è successo mi pare evidente soprattutto sul piano simbolico, e dunque su quello educativo: perché si è affermato con forza che la città non è dei cittadini. Il colmo lo si è raggiunto con la decisione gravissima di chiudere il Dipartimento di Scienze sociali della Federico II: una scelta che ben chiarisce la gerarchia simbolica dei poteri. Non c’è dubbio che gli studenti abbiano così ricevuto la più eloquente lezione di sociologia applicata della loro carriera: ma credo che i vertici del mio ateneo dovrebbero attentamente riflettere sul messaggio che si è, di fatto, mandato.
Nel complesso, questo evento ha ridotto ancora una volta i cittadini a plebe, legittimando così ogni disprezzo: perché un giovane diseredato di una qualunque periferia dovrebbe astenersi dal coprire di vernice i monumenti che compongono questo set privato? Le parole, e la loro carica simbolica, sono importanti: e cosa può fare un evento “esclusivo”, se non escludere? Escludere ancora un po’, in una città che ha, invece, bisogno di inclusione come dell’acqua.
Per Per quattro giorni Come ai tempi di piazza Plebiscito regalata alla Nutella, il sindaco de Magistris continua a confondere cittadini e spettatori, e – alla faccia della retorica dei beni comuni – si presta a far da comparsa in una kermesse che la Valente o Lettieri avrebbero applaudito nello stesso, identico modo. Già, perché il vero problema è l’omologazione culturale del pensiero unico: quella per cui, negli stessi giorni, Diego Della Valle chiudeva per una festa privata due ordini del Colosseo (quando un’assemblea sindacale, legale e annunciata, l’aveva fatto per sole due ore, Dario Franceschini e Matteo Renzi avevano scatenato un inferno mediatico) e Fendi si prendeva la Fontana di Trevi per una sfilata di moda sull’acqua, letteralmente calpestando il monumento. Di qualche settimana fa è, poi, la cena esclusiva organizzata da un negozio di moda su un ponte galleggiante sull’Arno a Firenze, riedizione iperbolica e ultraconsumistica della madre di tutte le privatizzazioni dello spazio pubblico: quella della cena della Ferrari che nel 2013 chiuse Ponte Vecchio per una notte, per decisione dell’allora sindaco Renzi.
Conosco l’obiezione a questa lettura. Napoli – si dice – ne avrebbe guadagnato «in immagine ». A questo rispondo innanzitutto che la prima immagine di Napoli ad essere importante è quella che viene trasmessa ai suoi stessi cittadini: e il messaggio per cui la città è di chi se la prende è un messaggio devastante.
Ma anche se si pensa all’immagine di Napoli di fronte al mondo, credo che il ragionamento sia profondamente sbagliato. Il risultato, si dice, è aver fatto passare il messaggio che «Napoli non è solo Gomorra ». Parole infelici: intanto perché tradiscono un inconfessabile fastidio verso chi denuncia, racconta, rappresenta Gomorra. E poi perché trascurano il risultato finale: e cioè che l’immagine di Napoli che ne esce è per metà Gomorra e per metà Luna Park. Tutto tranne che una città. E anzi un ircocervo mostruoso, che finisce con l’abbracciare, di fatto, la visione di un Oscar Farinetti: per cui l’unica prospettiva del Mezzogiorno è diventare «una grande Sharm el Sheik». Una predizione di qualche anno fa, nel frattempo divenuta sinistramente calzante: visto che la località egiziana è ormai ridotta a un’oasi per ricchi protetta da un esercito in armi.
Dunque, se davvero vogliamo «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio» non è all’effimero circo degli eventi che dobbiamo guardare, ma a quanto questa città è capace di fare davvero per se stessa. Se – per non fare che un esempio – il lavoro straordinario della Fondazione Foqus ai Quartieri Spagnoli venisse raccontato con un decimo dell’enfasi e dello spazio riservati alle feste di Dolce e Gabbana non faremmo tutti un miglior servizio al corpo (e all’immagine) di Napoli?
Una corrispondenza per eddyburg sulla giornata del suolo, organizzata da ISPRA, a Roma il 13 luglio. Come accade troppo spesso, a parole tutti si dichiarano consapevoli della posta in gioco. Ma non seguono fatti concreti. (m.b.)
Il SoilDay organizzato da Ispra in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Roma ci invita a riflettere e a fare rete sul problema di un suolo che non c’è più, alla scala locale come a quella globale.
Le principali parole chiave proposte nei dibattiti a più voci tra politici, tecnici, istituzioni di ricerca (Ispra, Cresme, Dipse) e associazioni (Legambiente, Wwf, Fai, Slow Food Italia, Salviamo il Paesaggio, Touring Club, Cia, Coldiretti, Copagri, Conaf) diversamente impegnati su questo tema, sono state: il suolo come tema centrale per il futuro del Paese, il rapporto tra aree urbane ed extraurbane, ma soprattutto il contenimento del consumo di suolo come responsabilità improrogabile per una rigenerazione etico-culturale senza la quale nessuna legge potrebbe garantire quel “consumo zero” entro il 2050 che l’Italia, come gli altri Paesi dell’UE, si sono impegnati a raggiungere nella Conferenza di Parigi del 2015.
I dati del Rapporto annuale 2016 (Ispra) fotografano un Paese tristemente conosciuto che, nonostante la crisi e la decrescita, continua a consumare il proprio suolo a una velocità di 4mq/sec in termini di superficie agricola vitale e di qualità inesorabilmente persa. Il nostro Paese si posizione al 5° posto in Europa (dopo Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Germania) per percentuale di consumo di suolo (7%), pur avendo una larga parte del territorio costituita da colline e montagne.
Ma quali sono le conseguenze in termini di perdita di servizi ecosistemici e quali i costi di questo veloce progredire? E soprattutto quali sono le politiche che l’Italia è in grado di mettere in campo per il contenimento del consumo di suolo?
Ispra, nel rapporto 2016, ha contabilizzato in 800 milioni di euro l'anno i costi della mancata regolamentazione del consumo di suolo, dovuti alla perdita di produzione agricola, all’erosione, alla mancata infiltrazione dell’acqua, agli effetti sul microclima urbano.
Quanto alle politiche, la principale risposta a scala nazionale è affidata al Ddl “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, (in gestazione da più di quattro anni, non certo per colpa del bicameralismo per difetto) e ora in discussione al Senato. Nella versione approvata dalla Camera, il Ddl presenta criticità sostanziali a partire dalla stessa definizione di suolo (con quella attuale verrebbe non considerato circa il 50% di suolo artificializzato), evidenziate con forza dal mondo dell’associazionismo che richiede modifiche sostanziali. Seppur più volte sia stato ricordato dagli stessi relatori del Ddl che non si tratta di una nuova legge urbanistica, che è comunque meglio approvare una legge – anche se imperfetta - che c’è la volontà di apportare modifiche nel passaggio in Senato (fra gli argomenti citati: oneri di urbanizzazione, demolizioni…), rimane il dubbio che il testo così com’è non produca il cambiamento auspicato nelle forme di intervento nel territorio. Il rapporto Ispra sollecita a porre al centro dell’agenda politica il problema del suolo perduto, il “meno peggio” non può sempre essere considerato il risultato migliore.
Riferimenti
Il rapporto sul consumo di suolo 2016 è disponibile nel sito dell’ISPRA, dove - meritoriamente - l'Istituto hè scaricabile la cartografia del consumo di suolo relativa agli anni 2012-15.
Sulla giornata di studi organizzata da Ispra si vedano in eddyburg gli articoli di Paolo Berdini e Luca Fazio, ripresi da il manifesto. Sul disegno di legge, verso il quale eddyburg è radicalmente critico, si veda il recente intervento di Vezio de Lucia, con in calce i riferimenti alle numerose prese di posizione e disamine disponibili nel sito. Tutto quel che c'è da sapere sul consumo di suolo è riassunto in una visita guidata attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it.
C'è chi denuncia, giustamente, il proseguire inarrestato del consumo di suolo e sottolinea i danni provcati, ma c'è chi, al tempo stesso, auspica l'approvazione di un provvedimento che aggraverebbe ancora il devastante fenomeno. Ipocriti, sciocchi o disinformati?.Il manifesto, 14 luglio 2016
Uno. In questo momento, trascorso un secondo, in Italia sono già spariti quattro metri quadrati di suolo sotto una colata di cemento. Fanno circa 35 ettari al giorno, una calamità non naturale ma inesorabile che in soli due anni ha ricoperto 250 chilometri quadrati di territorio. E non è stato nemmeno il biennio peggiore, visto che la crisi ha rallentato l’aggressione all’ecosistema Italia.
Solo per restare sui terreni agricoli, in meno di venti anni le superfici edificate hanno “bruciato” oltre 2 milioni di ettari coltivati: il 16% delle campagne è sparito. E continua a sparire al ritmo di 55 ettari al giorno (per ogni cittadino si “erodono” 350 metri quadrati di aree agricole all’anno). Questa follia suicida figlia di uno sviluppo insostenibile che non si arresta – è come continuare a segare allegramente il ramo su cui si sta seduti – ha un costo annuale che è possibile quantificare in oltre 800 milioni di euro.
Questo è quanto gli italiani potrebbero pagare a partire dal 2016 solo per fronteggiare le conseguenze del consumo di suolo del triennio 2012-2015. Le stime dei costi, non solo economici, sono state pubblicate ieri durante la presentazione del rapporto Ispra 2016 sul consumo di suolo in Italia (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). «Nonostante questo rallentamento – ha spiegato Michele Munafò, responsabile del rapporto – il consumo di suolo continua e questo ha delle conseguenze gravi anche i termini economici. E’ importante ricordare che oltre alle aree colpite direttamente l’impatto riguarda anche quelle vicine coinvolgendo ormai oltre la metà del territorio nazionale, provocando la perdita dei servizi ecosistemici che il suolo ci fornisce gratuitamente».
Secondo una stima dei “costi occulti” – quelli non percepiti nell’immediato perché si rivelano tali solo nel calcolo delle conseguenze – ogni ettaro di terreno consumato presenterebbe un conto per la collettività che può arrivare a 55 mila euro. Dipende dal tipo di suolo e dalla sua utilità per l’ecosistema: produzione agricola (400 milioni), stoccaggio di carbonio (circa 150 milioni), mancata protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), danni provocati per la mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni), assenza di insetti impollinatori (3 milioni).
Ma far di conto non basta per dare l’idea della catastrofe in corso su scala globale: «Azzerare le perdite di suolo e migliorare lo stato di salute di quello fertile – ha detto Michele Pisante, commissario del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) – rappresentano due direttrici ineludibili per il pianeta nei prossimi anni. Vincere o perdere questa sfida rappresenterà la differenza tra la vita e la morte per milioni di persone e porrà i presupposti per nuovi equilibri sociali, politici ed economici».
Nelle aree urbane il consumo di suolo altera anche la regolazione del microclima (un aumento di 20 ettari per Km2 di suolo sacrificato provoca un aumento di 0,6 gradi della temperatura), e questo ha un costo. Le tre città campione messe peggio sono Milano (45 milioni), Roma (39 milioni) e Venezia (27 milioni). Inoltre, spiega il rapporto, gli impatti negativi della sottrazione di suolo si producono non solo nelle aree direttamente coinvolte ma fino a 100 metri di distanza.
Le regioni meno virtuose, con più del 10% di territorio consumato nel 2015, sono Lombardia, Veneto e Campania (ma Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche non si sono certo distinte visto che si attestano su valori compresi tra il 7 e il 10%). Si distingue solo la Valle d’Aosta, che comunque ha consumato il 3% del suo territorio. Il fenomeno, curiosamente, riguarda sia i grandi centri abitati, che hanno visto aumentare la popolazione, che i piccoli paesi dove la popolazione non cresce.
A commento del rapporto Ispra, le associazioni dei coltivatori hanno voluto sottolineare altri due aspetti fondamentali per la tenuta del “sistema Italia”. La sicurezza alimentare e il dissesto idrogeologico. «Il consumo di suolo coltivato – ha spiegato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino – rischia di riflettersi sulle cifre dell’approvvigionamento alimentare in Italia, dove a oggi si arriva a coprire il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro. Dovendo ricorrere alle importazioni per coprire questo deficit produttivo».
Su un territorio reso più fragile, scrive Coldiretti, si abbattono i cambiamenti climatici con precipitazioni intense impossibili da assorbire: «Il risultato è che sono saliti a 7.145 i comuni italiani, l’88,3% del totale, che sono a rischio frane e alluvioni” (le regioni con il 100% dei comuni a rischio idrogeologico sono Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata»).
La politica, interrogata, oggi non può far altro che rispondere come Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente del governo Renzi: «Il tema è al centro dell’agenda politica». E’ vero invece che le strategie e le normative in discussione per considerare il suolo un bene comune per anni sono rimaste lettera morta. «Per questo – ha detto Damiano Di Simine della segreteria nazionale di Legambiente – chiediamo al Parlamento di approvare in questa legislatura e in tempi brevi il ddl contro il consumo di suolo, in ballo da quattro anni e ora in discussione al Senato. All’Unione europea invece chiediamo di approvare una direttiva europea sul suolo».
Legambiente, con altre associazioni, a settembre lancerà una petizione popolare europea che coinvolgerà oltre 300 organizzazioni. Obiettivo: raccogliere un milione di firme per spingere le istituzioni comunitarie a legiferare per la tutela del suolo in Europa.
Per fermare il consumo di suolo «occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, continua lodevolmente a misurare gli effetti dell’espansione urbana. Nel rapporto presentato ieri, il coordinatore della ricerca Michele Munafò ha richiamato l’attenzione sul dato quantitativo impressionante (35 ettari di terreno viene cementificato ogni giorno) ed ha anche posto l’accento su due questioni che, se prese in carico dalle politiche nazionali, rappresenterebbero la chiave di volta per il rilancio economico dell’intero paese.
La prima questione riguarda il fatto che non è più vero che costruire significa aumentare la ricchezza pubblica. Afferma infatti il rapporto che per sostenere la cementificazione realizzata nel triennio 2012–2015 lo Stato nel suo complesso dovrà pagare 800 milioni ogni anno.
Cifre imponenti in tempi di crisi che potrebbero ad esempio servire per sostenere la riconversione energetica del patrimonio edilizio esistente e che invece vengono “bruciate” per sostenere l’abnorme crescita edilizia. Milano e Roma pagheranno la deregulation urbanistica con 43 e 39 milioni all’anno. Se si tiene conto che negli ultimi anni sono stati tagliati i trasferimenti ai comuni per 17 miliardi, si comprende come siano avviati verso il fallimento economico o -nel migliore dei casi- a dover ridurre la qualità urbana. Teniamo dunque ancora acceso il motore di una macchina che sta minando la nostra civiltà urbana e credo sia necessario assumerne tutte le implicazioni.
In primo luogo si dovrebbe avviare una sistematica politica di riqualificazione delle periferie urbane che rappresentano i luoghi in cui si manifestano maggiormente le patologie sociali. Occorre dunque chiudere per sempre l’espansione urbana e indirizzare ogni risorsa al miglioramento di quanto è stato costruito.
Per farlo occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici anche in zone di elevata qualità.
La legge approvata sembra dunque risentire di una cultura derogatoria che ha provocato soltanto degrado urbano. E’ invece evidente che potremo rendere migliori le nostre città solo se ricostruiremo un sistema di regoli semplici e immediatamente applicabili: con la deregulation degli ultimi 25 anni abbiamo addirittura ampiamente utilizzato nello scacchiere urbano la legge «Obiettivo» del 2001, definita «criminogena» dal presidente dell’Autorità sugli appalti, Raffaele Cantone. La crisi in cui ci dibattiamo dimostra che l’unico modo per far ripartire la filiera urbana è recuperare il profilo etico invano atteso dall’intero paese. E infine il secondo dato preoccupante.
Afferma l’Ispra che a causa della cementificazione la temperatura aumenta di 0,6 gradi ogni venti ettari di terreno cementificato. Sono più dieci giorni che le temperature delle città si attestano intorno ai 40 gradi e ogni attività umana, dal lavoro alla normale vita degli anziani, risente oltre modo di questo fenomeno.
Per combattere il cambiamento climatico in atto occorre coraggio e siamo certi che il ministro competente sarà in grado di trovarlo: invece di espandere ancora le città occorre avviare una gigantesca opera di riforestazione urbana e potremo pensarla soltanto se prenderemo atto culturalmente che l’espansione urbana è un meccanismo inservibile. Continuare sarebbe un errore strategico imperdonabile.
Intervista di Francesco Erbani alla sociologa della Columbia University: «Le grandi corporation e le speculazioni immobiliari, la crisi economica e la fine dello spazio urbano pubblico. Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti». La Repubblica, 13 luglio 2016
Per rendere esemplare il suo ragionamento su chi siano i padroni della città, Saskia Sassen racconta il caso di Atlantic Yards, un’area grande circa nove ettari a New York. Un tempo ospitava uno stabilimento industriale. Al suo posto erano subentrati laboratori artigiani e industriali, studi di artisti, piccoli appartamenti e piccoli negozi. Si era sviluppato un sistema di vicinato, diremmo noi italiani, che aveva favorito diverse attività. Ma questa miscela culturale, sociale ed etnica così rappresentativa della dimensione urbana, aggiunge Sassen, è stata rimpiazzata da 14 formidabili torri con residenze di lusso che hanno «deurbanizzato questo spazio».
Cos’era successo? Semplicemente che l’area di Atlantic Yards è stata acquistata da un gruppo immobiliare e trasformata. Qualcuno direbbe persino: riqualificata. Esempi simili si trovano ormai dovunque in Nord America e in Europa. Nonostante la crisi, anzi forse proprio perché c’è la crisi, aggiunge Sassen, sui grandi centri urbani sono piovuti investimenti che, toccando l’edilizia e solo quella, stravolgono variegati assetti urbanistici.
Da tempo Saskia Sassen, sociologa della Columbia University, autrice di libri celebri (da Le città globali all’ultimo Espulsioni, editi in Italia dal Mulino) tiene sotto osservazione i mutamenti della scena urbana incrociandoli con le riflessioni sulla crisi finanziaria e sugli effetti che questa produce in termini di aumento delle disuguaglianze. Che proprio nelle città si manifestano con virulenza, laddove si sottrae spazio pubblico, si espellono e sostituiscono ceti sociali, imponendo tipologie architettoniche identiche a Parigi, a Chicago e a Shangai. Sassen sta arrivando a Venezia dove partecipa al convegno di Urban Age nella sessione insieme, fra gli altri, ad Ada Colau, sindaca di Barcellona, e all’economista Edward Glaeser, che l’architetto inglese Richard Burdett, promotore dell’iniziativa, ha intitolato «Who owns the city?». Appunto: chi possiede la città?
Sassen, è possibile che una città appartenga a qualcuno?
«È una provocazione. Ma è un invito a guardare al fatto che interi pezzi di città passano di mano in molte parti del mondo. Una città, nella sua forma più genuina, è un insieme di abitazioni private, di uffici, di edifici pubblici e di spazi pubblici, cioè strade, parchi, piazze… Non c’è una proporzione fissa fra questi elementi. Del tutto sproporzionata è invece una città dominata da giganteschi complessi edilizi, che spesso restano vuoti, fortezze protette da muri sorte una volta eliminati quartieri, strade e parchi».
A chi appartengono alcune grandi città del mondo?
«Appartengono a grandi corporation immobiliari e finanziarie. Che siano nazionali o che abbiano sede in altri paesi è secondario. Fra il 2013 e il 2014 i loro investimenti sono cresciuti dal 300 al 400 per cento».
Quali città sono interessate da questi investimenti?
«Più che le fonti ufficiali, parlano gli stessi operatori. Fra le prime 25 città troviamo, nell’ordine, New York, subito dopo Londra, più staccate Tokyo e Los Angeles, poi San Francisco e Parigi, quindi Chicago, Dallas, Hong Kong, Houston, Berlino, fino a Pechino, San Diego e Toronto».
Nessuna italiana?
«Nelle prime 25 no».
Lei cita Londra: che cosa cambierà con la Brexit?
«A Londra hanno una sede gran parte delle corporation immobiliari globali. Per un certo periodo nella capitale inglese gli investimenti in edilizia si fermeranno. Poi torneranno».
Che cosa ha favorito queste acquisizioni, i meccanismi dell’economia finanziaria globale o anche norme urbanistiche molto permissive?
«Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti. Il territorio urbano ha un valore in sé a prescindere dal valore degli edifici che vi sorgono. Questi possono essere anche di scarso pregio, ma il territorio urbano che li ospita ha un pregio potenziale che può essere sfruttato trasformandolo».
E a questo scopo intervengono norme urbanistiche ad hoc?
«Dagli anni Novanta del Novecento si è assistito a una forte deregolamentazione ».
Quali parti di una città vengono stravolte da queste acquisizioni?
«Un primo aspetto riguarda singoli ma rilevanti edifici. Edifici storici, edifici simbolo. Molte di queste compravendite sono invisibili a occhio nudo. Le facciate restano intatte. Cambiano le funzioni e quindi cambia la relazione con il contesto della città. Un secondo aspetto è invece relativo ad aree un tempo industriali, con un’edilizia più modesta, ma che si tende a valorizzare».
Si interviene quindi sia nelle zone centrali che in quelle più periferiche?«Fino ad ora si è investito soprattutto nelle aree centrali, o in quelle più vicine al centro. Ma si tende, come dicevo, a estendere gli investimenti laddove è possibile realizzare megaprogetti…».
Megaprogetti che hanno un enorme impatto urbanistico.
«Si realizzano edifici ad alta densità, che impongono la monotonia alla complessità di un assetto urbano, senza sufficiente cura per gli aspetti architettonici o, appunto, urbanistici. L’effetto che si procura è la deurbanizzazione. Si svuota di senso la dimensione urbana. Il risultato è che gli spazi accessibili al pubblico diventano molto più deboli. Dove prima i territori erano governati da amministrazioni pubbliche ora lo sono dalle corporation».
È come se si rovesciasse il significato storico della città.
«Sì. La città è sempre stata un luogo complesso ma incompleto, nel senso di non perfetto, un luogo di frontiera dove gli attori più diversi, provenienti dai mondi più diversi, possono entrare in relazione. Come in rapporto possono entrare coloro che hanno potere e coloro che non ce l’hanno».
Crescono in questo modo i fattori di disuguaglianza?
«La disuguaglianza è in crescita da tempo. Se ne discuteva già quando scrivevo Le città globali, era il 1994 (l’edizione italiana è successiva di dieci anni, ndr). In una città diventiamo tutti soggetti urbani e non siamo solo appartenenti a una comunità religiosa, etnica o sociale. Anche i più poveri sono riconosciuti come soggetti urbani, hanno voce, sono parte della complessità. Ma piuttosto che prevedere luoghi che includono, le nostre città globali tendono a espellere. I nuovi abitanti sono abitanti part-time, sono internazionali ma non perché rappresentino diverse culture o diverse tradizioni, bensì sono esponenti di una nuova, omogenea cultura globale».
A Venezia si discute di come architettura e urbanistica possono proporre soluzioni socialmente orientate. La Biennale di Alejandro Aravena ha questo indirizzo. Crede che queste proposte siano attuabili?«Io sottolineo l’insopprimibile forza che possiede una città, se essa è mescolanza e complessità. A Venezia è presente il sindaco di Bogotà, Enrique Peñalosa. Nella capitale colombiana, come a Medellin, si sono intraprese la via della cultura e di un’architettura che include, che migliora la condizione dei più poveri, per fronteggiare i signori della droga. Sono soluzioni migliori della militarizzazione».
IL CONVEGNO
Saskia Sassen interviene a Urban Age, il convegno che si apre domani a Venezia, ospite della Biennale Architettura. Il titolo è “ Shaping Cities”. Urban Age è organizzato dalla London School of Economics Cities, dalla Alfred Herrhausen Gesellschaft della Deutsche Bank con United Nations Habitat III. ( In foto: Summer Slums di Jonathan Wisner). Qui è scaricabile il programms completo del convegno. tra gli oratori del secondo giorno anche Ilaria Boniburini, della redazione di eddyburg.it
«Puglia Tragica. A Nord si investono miliardi in Alta Velocità, da Roma in giù si taglia. I veri tagli sono arrivati con il governo Berlusconi che 2010 ridusse le risorse del 50,7%. Da allora dilagano le società degli autobus. Uno dei convogli dell’incidente era del 2004, un lusso per gli standard concessi ai meridionali». Il manifesto, 13 luglio 2016
Ogni giorno al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. 1738 corse contro 2300. Eppure, da Roma in giù, sono al servizio del doppio degli abitanti. Al Sud i treni sono più vecchi. L’età media dei convogli è di 20,4 anni, al Nord 16,6. La Sicilia è la quarta Regione in Italia per popolazione con 5 milioni di abitanti. Vi circolano meno di 1/5 dei treni regionali della Lombardia, regione che però ha solo il doppio degli abitanti. Al Nord c’è l’alta velocità (o forse sarebbe meglio dire l’alta voracità visti i costi). Molte linee del Sud viaggiano ancora su binario unico, raggiungendo anche i 250 treni al giorno (come nel tratto in Puglia dove si è verificato ieri il disastroso incidente).
Su 71 progetti programmati nel piano triennale dei trasporti 2017/2020 solo due riguardano il Sud.
L’Italia viaggia a due velocità e non fa nulla per cambiare le cose. I soldi per il Tav ci sono, così come ci sono stati quelli per la nuova tratta Milano-Torino (per essere economicamente conveniente doveva trasportare 400 treni, si arriva circa a 40). Per il Sud no. L’incidente di ieri accende una luce sul dramma di migliaia di pendolari di serie B. I treni protagonisti dell’incidente non erano vecchi. Uno dei due era addirittura del 2004, praticamente nuovo per gli standard concessi ai meridionali. Un treno di lusso. Viaggiava però su un binario unico come troppi da Roma in giù. Una condizione di minorità infrastrutturale che non può essere dimenticata di fronte alle possibili colpe umane celate dietro il disastro.
Treni con più di 20 anni? In Europa li fermano, in Italia li mandano al Sud
In Europa i treni che superano i 20 anni di attività vengono smantellati e sottoposti a un radicale revamping. In Italia vengono mandati al Sud. La cosa è evidente con Trenitalia ma lo è anche sulle linee regionali. I tagli hanno imposto alle società di gestione l’acquisto di mezzi sempre più logori. In Abruzzo ben l’84,7% hanno spento le 20 candeline. Un po’ come accade con i bus urbani delle municipalizzate. Quelli appena elencati sono tutti numeri riportati da Legambiente nel rapporto «Pendolaria 2015» che fotografa lo stato dell’arte delle ferrovie italiane.
Cresce il numero degli utenti ma da Roma in giù si taglia
Il numero delle persone che in Italia viaggia in treno è in crescita: +2,4% nel 2015. Eppure si tagliano i servizi in maniera discriminatoria: da Roma verso Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17, mentre oggi tra Frecciarossa e Italo sono 63, con un aumento dell’offerta in 8 anni pari al 370%. La situazione è completamente diversa a Napoli per coloro che prendono i treni della ex Circumvesuviana (120 corse al giorno): hanno subìto un calo dell’offerta del 30%. Rispetto al 2009 i passeggeri sono aumentati dell’8%; le risorse statali per il trasporto regionale si sono ridotte di oltre il 20%. Scrive Legambiente: “Da una parte il successo di treni sempre più moderni e veloci – si muovono tra Salerno, Torino e Venezia con una offerta sempre più ampia e articolata e un crescendo di passeggeri ogni giorno su Frecciarossa e Italo – dall’altra la progressiva riduzione dei treni Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza su tutte le altre direttrici nazionali (-22,7% dal 2010 al 2014), dove i tempi di viaggio sono rimasti fermi agli anni Ottanta”.
Dal 2010 tagli indiscriminati: da 6,2 a 4,8 miliardi
Il crollo nei trasferimenti è avvenuto con la finanziaria 2010 e i tagli di Tremonti, quando introdusse una riduzione a regime del 50,7% delle risorse per il servizio. Il Governo Monti a fine 2011 intervenne per coprire una parte del deficit relativo al 2011 e al 2012. Se si confronta il dato attuale con la cifra che sarebbe necessaria per il funzionamento del servizio (parliamo dei servizi di base), ossia quella stanziata fino al 2009, ci si rende conto della radice dei problemi del trasporto pubblico in Italia. Si è passati da 6,2 miliardi di euro per il trasporto su gomma e su ferro ai poco più di 4,8. Per il 2016 le risorse a disposizione sono state di poco superiori: si passa da 4,819 nel 2015 a 4,925 miliardi di euro. Per garantire servizi decenti non bisognerebbe scendere sotto i 6,5 miliardi (rimanendo comunque lontani dalle medie europee).
Quel contratto di servizio per gli Intercity fermo al 2014
Dal 2001 la competenza sul servizio ferroviario pendolare è in mano alle Regioni che definiscono i contratti di servizio con i concessionari. Il Ministero, però, è rimasto responsabile del Contratto di Servizio per i treni a lunga percorrenza non a mercato (gli Intercity, molto frequentati dai pendolari), dal valore di 220 milioni di Euro. Un contratto che è scaduto nel 2014. Non è ancora stato aperto un confronto per capire come rinnovarlo o se mandarlo a gara, per decidere se e dove potenziare. Si continua a procedere per proroghe, senza una visione sul futuro di questi treni, che pure percorrono tratte importanti del Paese, provando a tenerlo unito (su tutte le direttrici Adriatica e Tirrenica).
Il business del trasporto su gommaIl Sud è diventato in breve tempo territorio di conquista per le società di trasporto su bus. Non avendo alternative i cittadini prendono la corriera rinforzando, inevitabilmente, un sistema potentissimo che sembra impossibile da cambiare. Si sono moltiplicate le società specializzate, mettendo su un business che ha preso il posto del servizio ferroviario. I governi non hanno fatto nulla per invertire la rotta. Evidentemente conviene così.