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Critiche severe agli eccessi del turismo sregolato di massa. Lievi rimbrotti a chi quel turismo ha provocato. E silenzio plumbeo su chi ha consentito la privatizzazione di tutto il possibile per favorire il turismo di lusso. Al quale, ovviamente il turismo straccione dà fastidio. Corriere della Sera, 20 agosto 2016

Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!» Una sfida offensiva verso tutti i turisti rispettosi del decoro delle calli. È solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante.

E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.

Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà. Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).

Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada. Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perché con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie. Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri. Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani.

Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo. Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?

Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella». Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero. Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.

Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».

Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.

Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia». «Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno...», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.

Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà».

Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».

Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia». E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».

Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano. Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta. E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?

L'opinione del vicepresidente Italia Nostra -sezione di Venezia- sull'abnorme trasformazione della città in "case-albergo". La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)

Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.

Per un comune in perpetuo deficit di cassa, si può capire che la somma faccia gola. Forse per questo il sindaco Brugnaro, di fronte alle recenti scoperte di veri e finti bed and breakfast in nero ha dichiarato: dovranno mettersi in regola. Non ha detto: sono troppi, stravolgono il vivere cittadino, trasformano la città in un albergo. Ha parlato come se per lui la cosa più importante non fosse l'effetto che tutte quelle case-albergo provocano sulla vita veneziana. Ha parlato come se per lui contasse solo che gli occupanti pagassero il dovuto euro e cinquanta di tasse. Ma non è così.
Le case-albergo provocano una grave diminuzione di residenti. Le persone che lavorano a Venezia sono costrette (o spesso spinte dai loro stessi interessi) ad andare ad abitare in terraferma per lasciar posto ai turisti, che possono pagare molto di più. La città si svuota di residenti e non è più il luogo diverso e speciale in cui vivere. Le scuole non hanno più bambini, i luoghi di ritrovo cominciano a chiudere, le società di voga non hanno più iscritti, la cantieristica tradizionale scompare, gli spettacoli pubblici sono sempre diretti al turismo di massa (non si sente parlare di altro che di Casanova, magari spingendosi qualche volta fino a Vivaldi), le piccole aziende nuove si stabiliscono in terraferma, i palazzi diventano alberghi. Nelle stagioni morte la città si svuota, nelle altre diventa gremita di folla.
Io stesso ho ripreso delle "nostalgiche" foto di via Garibaldi in novembre, a fine gennaio o in febbraio, con i residui abitanti fermi in qualche crocicchio a scambiarsi un saluto, con la borse della spesa e con i bambini sui loro tricicli. Ma forse ho fatto male a usare l'aggettivo "nostalgiche". Non si tratta di far rivivere il passato, si tratta solo di potersi aspettare un futuro. Un futuro che non sia nella pur apprezzabilissima terraferma ma nella città in cui si vive meglio che in qualsiasi altra parte del mondo, pagando magari il prezzo di qualche disagio com'è sempre stato e come tutti facciamo ben volentieri (rinunciamo alla comodità della macchina per vivere qui).
I soldi della tassa di soggiorno aiuterebbero forse a sollevare in (piccolissima) parte il peso del deficit dei conti pubblici. Ma una città ben regolata troverebbe altri e più redditizi cespiti da fonti diverse, senza sacrificare la propria stessa natura ed essenza. Il sindaco precedente, Paolo Costa, era un economista e questo forse non poteva capirlo. Ma da quanto traspare finora sembra che anche il sindaco attuale, per quanto laureato in architettura e non in economia, sia molto più attratto dalle questioni di bilancio che da quelle che riguardano la qualità della vita. Forse perché a Venezia lui non ci ha mai abitato e non vorrebbe neppure abitarci. *

«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016

Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti internet. La locazione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, stimolata a spendere da servizi di lusso: vasca idomassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale. Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea.Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al fisco ed al Comune di Venezia. Per il proprietario e gestore, oltre all’irrogazione delle sanzioni amministrative per la violazione della normativa regionale e comunale in materia turistica, c’è stata la segnalazione al competente Reparto della Guardia di Finanza per l’esecuzione dei necessari approfondimenti, visto l’irregolare impiego dei lavoratori e l’esiguo reddito dichiarato al fisco.L’operazione “Venice Journey” prosegue e continua a riservare sorprese: oltre a locazioni di

lusso ed affitti turistici “fai da te”, in un caso gli operanti hanno anche individuato un vero e proprio ostello, nel sestiere Cannaregio, nel quale venivano ospitati fino a 20 turisti a notte in condizioni igieniche disastrose e con scarsa sicurezza.
In un altro caso, invece, un controllo documentale ha portato a denunciare un affittacamere abusivo. Scoperto dalle Fiamme Gialle che aveva controllato un cittadino pachistano mentre faceva alcune foto nei pressi del Ghetto ebraico a Venezia. Il cittadino straniero, risultato poi un tranquillo turista in visita alla città, ha spiegato di essere alloggiato in una struttura ricettiva trovata via internet: immediati i controlli con la segnalazione dell’affittacamere abusivo alla Procura della Repubblica per la mancata comunicazione degli alloggiati.
Negli ultimi due mesi di attività, sono stati scoperti 29 immobili abusivi gestiti da 24 persone, contestati circa 50.000 euro di sanzioni amministrative e denunciate 10 persone per la mancata comunicazione degli alloggiati alla Questura. L’attività di controllo economico del territorio ha anche permesso di acquisire numerosi elementi di interesse ai fini fiscali. E con i controlli aumenta la collaborazione dei cittadini: nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”. Ad agosto 2016 ne risultano inserite circa 1900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale.

L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.

Denunciati dai cittadini aspettiminori del massacro che il turismo sregolato di massa, affiancato al rapaceturismo di lusso, sta arrecando alla città nella Laguna ancora formalmente considerata parte rilevante del"patrimonio dell'umanità". La Nuova Venezia 19 agosto 2016

«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».

Il suo video pubblicato sul suo profilo Facebook è diventato subito virale: in 24 ore ha avuto quasi 100 mila visualizzazioni. Anche perché solo poche ore dopo il mancato tuffo a San Vio - mercoledì sera - i piloti Actv in transito davanti alla stazione hanno iniziato a mandare allarmate segnalazioni alla loro centrale operativa: «Ci sono delle persone che stanno attraversando a nuoto il Canal Grande. È pericoloso». Dalla riva di Santa Lucia a quella di San Simeon piccolo, come fossero in una piscina olimpica di Rio. In due sono stati intercettati da alcuni vigilanti, come mostra la foto di Marco Regalini, pubblicata sulla pagina Facebook del “Gabbiotto”.
Un maleducato sfidare la sorte per gusto della bravata che sconfina nell’inciviltà che si fa pericolosa, nel rischio di far male a sé stessi e agli altri, come dimostra il “tuffo” della scorsa settimana dal ponte di Rialto di un marinaio di uno yacht di passaggio a Venezia, che si è schiantato su un taxi di passaggio, finendo lui (il tuffatore) in Rianimazione, denunciato per attentato alla sicurezza della navigazione, dopo aver rischiato di travolgere il taxista. Ora l’amministrazione sta valutando un inasprimento del regolamento, per verificare la possibilità di estendere le denunce anche in caso di nuotate che creino intralcio alla navigazione.
Più turisti in città significa più maleducati, più pic-nic dove capita, più bagnanti nei rii o persone in costume a prendere il sole stesi a terra. E più “ciclisti” per le calli della città. L’ultima protesta arriva da Sant’Elena, dove il comitato dei residenti ha inviato ripetute segnalazioni alle forze dell’ordine, per protestare contro la noncuranza con la quale troppi diportisti che ormeggiano alla nuova darsena, inforcano la bicicletta per girare per Sant’Elena, quasi fossero in qualsiasi strada motorizzata della Croazia: «Ho visto con i miei occhi anche una piccola moto, ma non avevo il cellulare con me. Gli stessi dipendenti della marina vanno i bici».
Dalle vacanze, il sindaco Brugnaro si è fatto sentire via Twitter. Così a chi gli chiedeva conto delle troppe bici in città, ha scritto: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Con tanto di “smile” con lo sberleffo. Nei giorni scorsi aveva chiesto poteri speciali al governo, per poter far passare una notte in cella a ubriachi molesti. Ieri alle critiche di chi lo ha accusato di giocare allo sceriffo, ha riservato un altro tweet: «Le opposizioni in @comunevenezia non vogliono la cella di sicurezza per i disturbatori della serenità pubblica. I cittadini devono saperlo!». Fiocchetto rosso. Tant’è, prima della fine dell’estate, c’è da credere che la maleducazione di troppi farà ancora parlare di sé in città.
L'ennesima truffa , l'ennesimo favore ai padroni del governo, l'ennesimo sberleffo alla democrazia. Il dicastero di Galletti concede proroghe straordinarie alle compagnie per richiedere le autorizzazioni a cercare idrocarburi dalla Sardegna all’Emilia. Il Fatto quotidiano, 18 agosto 2016

Per mesi si è parlato di trivelle perché c’era il referendum. Ma mentre si discuteva di astensione e autorizzazioni entro le 12 miglia, il ministero dell’Ambiente concedeva proroghe a iter autorizzativi ormai scaduti da tempo. Parliamo di tre richieste per ottenere la Via, la Valutazione di impatto ambientale necessaria per cercare idrocarburi in terra e mare, in tre siti sensibili per l’impatto che questi interventi potrebbero avere proprio sull’ambiente. E di tre proroghe, concesse ben oltre i tempi stabiliti dal Testo unico ambientale. E di una frase, che circola da giorni: “I petrolieri tornano a caccia di concessioni”, ancora una volta grazie al decreto Sblocca Italia e alla decisione del ministero di resuscitare processi autorizzativi che sarebbero dovuti essere morti da mesi.

Il primo progetto è in Sardegna, 6mila chilometri quadrati di mare in cui la società norvegese Tgs -Nopec vuole fare prospezioni (indagini) dei fondali marini con l’airgun: un dispositivo che spara aria compressa in acqua, produce onde che si propagano nel fondale e che, riflesse dagli strati della crosta terrestre, forniscono informazioni sulla struttura e la presenza di gas o di liquidi. Inizialmente ritenuto illegale nel disegno di legge sugli ecoreati, visto che secondo gli esperti di tutto il mondo è dannoso per la fauna marina, è stato poi eliminato dal testo con una mossa che da molti è stata interpretata come il primo dei numerosi favori fatti ai petrolieri nei mesi scorsi.

Ed ecco un altro favore: l’istanza per ottenere la Via necessaria per le prospezioni nel Mare di Sardegna viene presentata il 5 febbraio del 2015. Il 10 agosto, sei mesi dopo, il ministero chiede all’azienda una documentazione integrativa perché quella fornita non contiene tutti i rapporti e le misurazioni necessari. Il 29 ottobre, però, le richieste del ministero non sono ancora state soddisfatte e viene concessa una proroga di 60 giorni.

Ancora una volta, il tempo pare non basti e così, con una nota del 14 marzo 2016, il ministero ne concede un’altra, di otto mesi (tanto che le integrazioni arriveranno a luglio). Eppure, gli stessi documenti per la richiesta di integrazioni parlano chiaro: devono pervenire entro 45 giorni durante i quali la società deve fornire informazioni come la durata e le modalità delle operazioni – anche in relazione a quelle già in atto nelle zone limitrofe -, dati relativi alla morfologia del luogo e quelli sulle tecniche che saranno utilizzate. Ma, soprattutto, in questo caso la Tgs – Nopec deve predisporre una dettagliata relazione sulla fauna “con specifico riferimento al vicino santuario dei cetacei Pelagos” e deve riferire sulla presenza di possibili impatti ambientali, che oltretutto il ministero comunque ritiene “scarsamente fondata”.

Inoltre, deve predisporre un progetto per il “biomonitoraggio acustico” dato che l’azienda intende usare l’airgun. Stessa storia per due siti a terra, in Emilia Romagna, per i quali sono stati concessi altri due mesi di tempo per l’integrazione documentale. Nel primo caso, la Valutazione d’impatto ambientale riguarda un territorio vicino Comacchio, prossimo al sito Unesco delle Valli: la richiesta è dell’Eni. L’altra, di Enel Longanesi Development, in provincia di Ferrara. Anche stavolta il ministero ha chiesto che le integrazioni tengano conto dell’eccezionalità del territorio in cui ricadranno le prospezioni, del rischio sismico e del fenomeno della subsidenza.

Il Fatto Quotidiano ha allora chiesto al ministero dell’Ambiente spiegazioni sul perché non ci sia stato il respingimento previsto, in questi casi, dal Testo Unico Ambientale. Le risposte ne hanno confermato l’eccezionalità.

“Sul fatto che alcuni progetti rappresentino ri-proposizioni di progetti depositati negli anni scorsi – spiegano dal ministero – i progetti di idrocarburi a terra sono di competenza statale dal mese di marzo 2015”. Il riferimento è al decreto Sblocca Italia che ha reso le prospezioni e le coltivazioni petrolifere “strategiche” per l’interesse nazionale e ha spostato la competenza per il rilascio della Via dalle Regioni al ministero di Gian Luca Galletti, di fatto ignorando pareri, vincoli e volere degli enti locali. “Quanto ai tempi del procedimento come indicati dal Codice dell’Ambiente – rispondono, se si fa loro notare che le proroghe concesse non sono previste dalla legge – si evidenzia che sono da intendersi di natura ordinatoria e che l’azione amministrativa deve essere conformata al principio di economicità ed efficacia”. Tutto pur di favorire i cercatori di petrolio.

«A Latina e provincia ri-volevano la gestione pubblica del servizio: grazie ad un contratto del 2007, ora decide tutto l’istituto finanziatore.»Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

Avviare un percorso di pubblicizzazione integrale della società di gestione dell’acqua”. Poche parole e le firme dei principali Comuni del Sud pontino, con in testa l’amministrazione di Latina, guidata da due mesi dal sindaco Damiano Coletta (lista civica). E un appello diretto alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per fermare l’operazione di acquisizione da parte di Acea di Acqualatina, la spa partecipata per il 49% dalla multinazionale francese Veolia che dal 2002 gestisce il sistema idrico integrato della seconda provincia del Lazio.

Il documento– presentato nel corso dell’ultima assemblea dei soci del gestore degli acquedotti del sud pontino da 19 sindaci – ha un doppio obiettivo: fermare l’espansione di Acea – intenzionata a prendere il controllo degli acquedotti nell’intera regione Lazio – e ripartire dalla gestione pubblica dell’acqua. Tutto cambia dopo lo tsunami elettorale? Non è detto. Soprattutto viste le reazioni del mondo finanziario.

Pochi giorni dopo la presentazione del documento, la banca irlandese (ma con capitale tedesco) Depfa ha bloccato – per ora – il piano delle nuove amministrazioni comunali: l’annuncio dei sindaci è un “evento rilevante” per la società. Due parole prese direttamente dall’accordo di project financing del 2007, quando l’istituto finanziario specializzato in utilities (società che gestiscono servizi) concesse un mutuo di oltre 100 milioni – collegato a prodotti derivati – in cambio di garanzie in grado di incidere sulle scelte strategiche della società: se vi sono cambi di direzione ritenuti “rilevanti” dagli analisti finanziari, la Depfa Bank può sostituirsi nell’assemblea dei soci ai comuni che firmarono il pegno delle quote. Un potere dimezzato, con i sindaci sottoposti alla tutela diretta dei grandi fondi d’investimento.

La lettera della Depfa è partita da Dublino il 5 agosto, due giorni dopo l’approvazione di una delibera della conferenza dei sindaci della provincia di Latina che rimarcava l’intenzione di riprendere il controllo della gestione dell’acqua. «La situazione sopra descritta – si legge nella comunicazione dell’istituto irlandese – (…) può comportare, tra l’altro, la mancata approvazione del bilancio».

Poi, l’accordo firmato a Londra il 23 maggio del 2007: «In ragione di quanto sopra, ritenendo l’Agente (la banca, ndr) che già sussistano i presupposti per dichiarare l’Evento Rilevante Potenziale, (…) richiede alla società di inviare copia del documento denominato ‘Documento dei sindaci dell’Ato 4 sulla società Acqualatina’». Ovvero la decisione dei Comuni di gestire il servizio idrico integrato, fermando l’acquisizione da parte di Acea. Secondo il contratto di mutuo del 2007 ora la Depfa potrà arrivare a sostituirsi ai principali comuni – tra i quali Latina, che detiene la maggioranza delle quote – durante la prossima assemblea dei soci, prevista per settembre.

La lettera della Banca fa riferimento anche al duro scontro tra i privati di Veolia (rappresentati dalla srl Idrolatina) e i comuni più critici durante l’ultima assemblea dei soci, finita con l’abbandono del tavolo da parte dei rappresentanti dei francesi. In quella occasione i comuni avevano apertamente chiesto le dimissioni del management, annunciando il voto contrario all’approvazione del bilancio 2015.

Appena un assaggio di quella che potrebbe essere la prossima battaglia sulle municipalizzate e i gestori locali dei servizi pubblici, dove i cambi di gestione in amministrazioni chiave – come Roma e Torino – potrebbero scontrarsi con il sistema di regole e accordi, anche privati, consolidati nel tempo. Su acqua e rifiuti, prima di tutto. Acqualatina per anni è stata il simbolo della privatizzazione del sistema idrico: aumenti delle tariffe, taglio dei tubi per chi non poteva pagare e la presenza della politica, soprattutto di Forza Italia, rappresentata dal senatore di Fondi Claudio Fazzone. Quattordici anni da incubo per i cittadini, che oggi si trovano sulle spalle una società legata con il sistema bancario internazionale.

«Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico».ytali online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

Quanti comuni rispettano la legge, in vigore da tre anni, che impone di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato nello stesso comune? L’interrogativo si pone per una ragione molto semplice e insieme allarmante: l’Italia registra una perdita di suolo alla velocità di circa otto metri quadrati al secondo. Un’involuzione inquietante per l’ecosistema che si impoverisce di alberi e piante, fondamentali per il sostegno della vita umana e animale.

Un solo albero è in grado di produrre ossigeno sufficiente per più persone, e di assorbire enormi quantità di CO2. Secondo l’Istituto superiore perla protezione e la ricerca ambientale (Ispra) negli ultimi anni i dati in perdite sono aumentati in modo catastrofico, con un picco negli Anni ’90 quando è stata sfiorata una perdita di suolo di quasi dieci metri quadrati al secondo.

Il rimedio c’è: sta nella legge n. 10 del 14 gennaio 2013, entrata in vigore un mese dopo, che impone appunto ai comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato. Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico. In realtà la norma è tuttora ignorata dalla gran parte dei comuni. E dire che la legge è chiara e in qualche misura severa: se i comuni non ne rispettano le indicazioni, alla fine di ogni anno bisogna che le amministrazioni municipali dispongano delle varianti urbanistiche per assicurare che siano rispettate le quantità minime di spazi riservati al verde pubblico. In buona sostanza ogni comune dovrà individuare un’area nel proprio territorio da destinare a una nuova piccola forestazione urbana con posa di piante autoctone.

Il controllo del rispetto della legge e quindi dei relativi adempimenti spetta al Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio. In base a queste disposizioni ogni comune dovrà inviare al Comitato le informazioni relative al tipo di albero e al luogo della sua messa a dimora nell’ambito di un censimento annuale del nuovo verde urbano.

Ma quanti sono i comuni che rispettano quest’obbligo? Non esiste un dato, neppure approssimativo. Ma tutto lascia ritenere che siano poche, pochissime, le municipalità che hanno provveduto e provvedono in questo modo ad una sempre maggior tutela del verde pubblico, e al suo progressivo sviluppo. E dire che, per sollecitare l’applicazione della legge, è stata persino introdotta una “Giornata nazionale dell’albero” che si celebra ogni anno il 21 novembre con l’obiettivo di “perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto” e di promuovere “attività formative in tutte le scuole”.

In Parlamento sono state presentate interrogazioni, in più riprese e da più parti politiche, per conoscere dai ministeri dell’Ambiente e delle Politiche agricole che cosa intendano fare perché sia rispettata la legge del 2013; e perché non prendano iniziative perché sia piantato un albero per ogni nuovo nato. Ma c’è una terza questione sul tappeto: perché, al fine di prevenire e contenere le alluvioni e il dissesto idrogeologico, e di tutelare la salute di ogni cittadino, il governo non assume iniziative volte a investire risorse economiche per integrare l’opera di piantumazione di nuovi alberi con quella di recupero dei territori maggiormente esposti a frane? Nessuna risposta.

New York Times” indaga successi e fallimenti dei responsabili venuti dall’estero alle prese con il sistema Italia». La Repubblica, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

Compie un anno quel pezzo di riforma dei Beni culturali che ha portato l’autonomia e nuovi direttori in venti fra musei e siti archeologici italiani. In realtà i direttori si sono insediati fra l’autunno e la fine del 2015, ma è stato nella calura dell’agosto scorso che essi sono stati designati dopo una selezione pubblica. Venti nuovi direttori, sette dei quali stranieri. Un anno di piccole e grandi rivoluzioni, ma anche di critiche serrate e di polemiche. L’anniversario rimbalza negli Stati Uniti, dove il New York Times dedica un lungo reportage alla vicenda. Che mette in evidenza luci e ombre, cambiamenti e resistenze e che si chiude con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, il quale, sorridendo, esclama: «Mi hanno messo a fare un lavoro sporco (dirty work), sarebbe meglio che non mi abbandonassero proprio ora».

C’è alle viste il pericolo di lasciare a se stessi storici dell’arte, curatori e archeologi venuti dall’estero per occuparsi di parti pregiate del nostro patrimonio? E ciò andando incontro a uno smacco internazionale di proporzioni poco immaginabili? Ancora è presto per affermarlo. Inoltre i segnali che arrivano dai diversi direttori non lasciano intravedere nubi. Ma le difficoltà che essi incontrano sono quelle che da tempo vengono denunciate: organici carenti, personale molto anziano (oltre il 50 per cento ha più di sessant’anni e fra non molto andrà in pensione), strutture al collasso, leggi farraginose, pastoie burocratiche.

I venti nuovi direttori sono solo la parte più appariscente della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini (e tanto più lo sono i direttori stranieri, fra i quali, oltre a Schmidt, figurano James Bradburne a Brera, Sylvain Bellenger a Capodimonte o Gabriel Zuchtriegel a Paestum). L’obiettivo principale è l’autonomia gestionale e finanziaria dei musei, prima agganciati alle soprintendenze, dalle quali provenivano i direttori.

La scelta è stata netta e su di essa si sono concentrate le accuse: si è voluto smantellare un sistema durato per tutto il Novecento, fondato su un legame stretto fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bilanci di quanto questa frattura abbia prodotto in positivo o in negativo è ancora difficile poterli tracciare. C’è chi sottolinea una spiccata agilità nel prendere decisioni, nell’avviare innovazioni. Chi invece lamenta il rischio di conflitti: la tutela dei beni esposti nei musei resta, ed è naturale, di competenza dei soprintendenti. C’è chi rileva il dinamismo dei nuovi direttori (dove più dove meno), chi segnala che le questioni strutturali restano inevase. C’è chi plaude ai cambiamenti, chi lamenta che negli anni i tanti cambiamenti imposti a una struttura fragilissima sono come un perenne sciame sismico.

Il New York Times mette in evidenza lo scarto fra le iniziative dei direttori e il contesto. L’episodio dal quale parte l’autrice, Rachel Donadio, è noto: la multa affibbiata nel maggio scorso dai vigili urbani di Firenze a Schmidt pescato perché da un altoparlante invitava i visitatori in fila davanti agli Uffizi a fare attenzione a borseggiatori e bagarini. Non aveva l’autorizzazione: 422 euro di sanzione, pagati da Schmidt di tasca propria. Il giornale americano enumera gli sforzi dello storico dell’arte tedesco – l’abbattimento delle file di visitatori, l’ampliamento della galleria, la riorganizzazione dell’amministrazione e dei servizi di custodia, l’apertura del Corridoio Vasariano – e li mette alla prova di resistenze burocratiche, di norme contraddittorie. «È come giocare una partita multipla di scacchi», commenta il direttore.

La riforma, intanto, procede. Ai musei vengono attribuiti fondi speciali per realizzare progetti da tempo in cantiere. E si sono appena chiusi i bandi per selezionare i direttori di altri nove fra musei e siti archeologici o monumentali, mentre il 15 settembre terminerà quello per il Museo Nazionale Romano, che prima era stato destinato all’autonomia, poi era tornato fra le strutture dirette da personale della soprintendenza, quindi di nuovo reso autonomo: una giravolta non inedita dalle parti del Mibact. Fra gli altri siti, per i quali sono arrivate circa 400 domande, figurano Ercolano, la Pilotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. A Roma sono compresi i musei dell’Eur e il museo etrusco di Villa Giulia e gli scavi archeologici di Ostia Antica.

Ecco infine due “parchi archeologici”, tutti da inventare: quello dei Campi Flegrei, a nord di Napoli, e soprattutto l’Appia Antica, che non è un’area a pagamento, essendo un pezzo di città che si spinge verso i Castelli romani, in larghissima parte in mano a privati. L’Appia Antica è stata retta per vent’anni da Rita Paris, con energia e dedizione universalmente riconosciute. Ha avuto sempre a disposizione mezzi scarsi e con questi ha compiuto salti mortali. Chissà se con strutture e strumenti adeguati la condizione dell’Appia sarebbe migliorata. Ma al ministero si è deciso di cambiare tutto.

In tre articoli il racconto di uno scempio programmato per infilzare l'Abruzzo con uno spiedo autostradale sventrando siti protetti e paesaggi incontaminati. C'è chi denuncia e resiste. Il manifesto, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

IL PIANO PER
SVENTRARE L'ABRUZZO

A Cocullo, nell’Aquilano, il casello autostradale dell’A25 è a circa un chilometro e mezzo dal paese. Duecentocinquanta abitanti («in estate di più»), circa mille metri d’altitudine, è borgo celeberrimo nel mondo per l’annuale processione del primo maggio, con la statua di San Domenico avviluppata da centinaia di serpi catturate, nelle precedenti settimane, dai suoi residenti, tra pietre e cespi d’erbe.

L’autostrada qui è arrivata neppure tanto tempo fa, nel ’78. «È una risorsa – dice il sindaco neo eletto Sandro Chiocchio -, soprattutto per il turismo, che è occasione da cogliere in una realtà che, di fatto, per crescere, deve sfruttare bellezze e tradizioni del territorio. Ora a rischio sono sia l’autostrada sia gli splendidi scenari montani».

Perché in ballo c’è un progetto del gruppo imprenditoriale Toto, che gestisce la rete autostradale A24 (L’Aquila-Roma) e A25 (Pescara -Roma), la cosiddetta «Strada dei Parchi» – dal pedaggio tra i più costosi d’Italia – «il più rapido collegamento diretto tra Tirreno e Adriatico, infrastruttura di trasporto di elevato valore economico e strategico», si legge nel sito internet della holding che intende sventrare e asfaltare l’Abruzzo, in lungo e in largo.

Il piano prevede infatti la realizzazione di varianti, assi di penetrazione e di interconnessione, tunnel a volontà con paesaggi annientati, costoni rocciosi bucati e falde che verrebbero intaccate in maniera irreversibile, con una “monumentale” perdita di acqua. Progetto che nasce dall’interesse di un privato e non da programmazione statale: dieci anni di lavori, interventi per 6 miliardi. Niente fondi pubblici ma aumenti certi dei pedaggi (inevitabili, perché il treno per compiere quello stesso percorso, su una monorotaia, impiega più del doppio del tempo) e la società promotrice in cambio guadagnerebbe la gestione del tratto autostradale per altri 45 anni (oltre ai 28 già stabiliti).

«Ricostruire invece che mantenere».

L’idea è di rimodulare l’autostrada esistente in «considerazione della classificazione di A24 e A25 quali opere strategiche per finalità di protezione civile». Inoltre – recita il progetto preliminare – c’è necessità «di adeguamento e messa in sicurezza dei viadotti e degli impianti in galleria». Per sopperire alle carenze e per ammodernare sarebbero necessari interventi di manutenzione straordinaria e invece… Invece si vuole smantellare e ricostruire, cambiando tragitto, aggiungendo, distruggendo.

Le carte, tra continue revisioni, raccontano di demolizioni di tronchi autostradali, apertura e chiusura di caselli, raccordi e svincoli elevati qui e là. È prevista la realizzazione di 10 tunnel, a doppia canna più corsia d’emergenza, per circa 50 chilometri complessivi, in zone altamente sismiche. Un progetto faraonico, con distruzione e stravolgimento irreversibile dei territori (nella mappa, in rosso in nuovi tratti da costruire). Per quali fini? Perché, secondo Toto, è più agevole rifare che aggiustare. Adeguare significherebbe, viene fatto presente, «cantieri sulla viabilità autostradale, con necessità di chiusura delle tratte soggette a lavori, con ripercussioni notevoli sul comfort di viaggio…». Per scongiurare ciò, ecco colate infinite di cemento e catrame.

Sulla nuova autostrada – viene ancora specificato – «la velocità massima potrà essere di 130 chilometri orari, come da legge, mentre attualmente la velocità media possibile è di 90 chilometri, per la presenza delle elevate pendenze longitudinali, per le alte quote». Queste le motivazioni addotte e gli ambientalisti si sono infuriati. «Si promuove il progetto – spiegano – ipotizzando risparmi di tempo immaginari e comunque di manciate di minuti e sostenendo che adesso la velocità media di percorrenza possibile è di 90 km/h come si legge nel parere favorevole di un dirigente della Regione Lazio! Con la nostra esperienza diretta fatta, più volte, con un misero Pandino e senza superare i limiti ci pare di poter smentire questo dato. Inoltre, allontanando l’autostrada dalla Valle Peligna, dalla Valle del Sagittario, dalla Valle del Giovenco, e dall’Alto Sangro, non si è calcolato che i tempi di percorrenza per molti cittadini aumenterebbero a dismisura».

Le montagne bucate

«Nel progetto – rileva il coordinamento “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” che abbraccia decine di associazioni, comitati, movimenti, partiti e sindacati – oltre alle varianti, si prospetta una doppia galleria tra il territorio del Parco nazionale d’Abruzzo e Roccaraso, con traforo sotto la Montagna Grande e il Genzana. Ipotesi incredibile e costi assurdi per limitatissimi volumi di traffico. Le zone interne verrebbero letteralmente massacrate, con tunnel che andrebbero a martoriare gioielli ambientali unici in Europa».

Solo il massiccio del Sirente, dove c’è l’unico cratere da impatto di meteorite italiano, verrebbe devastato con un traforo di 12,75 km e con altre due gallerie di 2,3 km e 3,9 km che sarebbero collegate ad un viadotto sulle Gole di San Venanzio. I Monti Simbruini sarebbero perforati per 9,88 km. «Abbiamo sovrapposto i tracciati con i perimetri delle aree protette – sottolineano dal coordinamento – : sarebbero direttamente coinvolti il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise; il Parco regionale del Sirente-Velino; la Riserva del Monte Genzana e quella delle Gole di San Venanzio, senza considerare le riserve limitrofe: di San Domenico a Villalago e delle Gole del Sagittario». La Val Vomano (Teramo), che presenta ancora un po’ di agricoltura, sarebbe distrutta da 24 chilometri di strade «con consumo di suolo irreparabile e risibili vantaggi a fronte di spese assurde».

In Valpescara il comune di Spoltore e la frazione di Santa Teresa verrebbero separate da una bretella: quest’ultima sarà ridotta ad uno spartitraffico. Progetto avallato dalla Regione Abruzzo ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha finora ricusato. E decine di Comuni – delle province di L’Aquila, Teramo e Pescara – sono sul piede di guerra. Grandi e piccoli. «Basta affacciarsi da queste parti – riprende il sindaco Chiocchio – per rendersi conto delle condizioni, da denuncia, in cui versano alcuni piloni autostradali. Se la cura dell’esistente è già scarsa, chi gestirebbe la costosissima manutenzione dei lunghi tratti che verrebbero dismessi? Siamo contro perché il progetto è deleterio e taglierebbe fuori l’intera zona dai principali collegamenti viari. Senza contare il disastro ambientale».

La Valle del Sagittario – con Cocullo, Villalago, Anversa – vanta ambienti esuberanti – con canyon ed eremi -, tutelati per le loro caratteristiche. È rifugio di animali selvatici, dai lupi all’orso bruno marsicano, che qui è autoctono. E che di sicuro, al bitume, preferisce ciliegi da razziare.

TUTTI CONTRO IL PROGETTO TOTO
TRANNE REGIONE E PD

«Cinquanta chilometri di tunnel, lunghi come cinque trafori del Gran Sasso. Parchi, riserve e aree protette deturpati. Impatti irreversibili, comunità isolate, connotati della regione modificati, sfigurati».

Il progetto del gruppo imprenditoriale Toto di abbattere e in parte rifare le autostrade A24 e A25 ha «incocciato» la resistenza di un Abruzzo deciso a bloccare la proposta. «Abbiamo una visione alternativa della gestione del territorio – dicono gli ambientalisti, i primi a scendere in campo dopo essere riusciti a scovare mappe ed elaborati tecnici nascosti a lungo dalla Regione – ed è basata sul rilancio del trasporto pubblico collettivo, a partire dalle ferrovie, e sul risanamento del territorio, l’unica vera grande opera necessaria: dalla depurazione alle bonifiche, passando per il dissesto idrogeologico».

Invece piace tanto alla Regione Abruzzo il progetto e, in particolare, piace al presidente Pd Luciano D’Alfonso, che spinge e accelera.

In Regione, con delibera 325 del 5 maggio 2015, per seguire la faccenda, è stato istituito un Gruppo interdipartimentale che, il 6 giugno scorso, ha emesso un primo parere tecnico favorevole. Questo nonostante esistano più versioni del progetto (l’ultima del 13 aprile) e che una nuova sia in fase di predisposizione. Senza sapere quali saranno le variazioni, senza interpellare le comunità locali, tenendo ben celati pezzi di documenti e delibere, è stato detto sì ai mastodontici interventi.

Pur rilevando, comunque, che bisogna considerare «l’impatto delle gallerie a livello idrogeologico, anche in relazione alle problematiche che emersero durante la realizzazione del traforo del Gran Sasso». E pur evidenziando che l’autostrada in programma attraversa almeno tre «faglie pericolosamente attive» (del Fucino, dei Monti Capo di Moro-Ventrino e della Valle Subequana), quindi sarebbe un percorso «ad alto rischio sismico rispetto all’attuale tracciato». Anche per ciò il fronte del no cresce, si allarga giorno dopo giorno, è ampio ed è trasversale, anche a livello politico. Per le ragioni più disparate.

«Le decine di chilometri di scavi attraverserebbero montagne carbonatiche letteralmente piene d’acqua, la risorsa più preziosa – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua e coordinamento «No Toto» -. Stiamo parlando del patrimonio idrico con cui ci dissetiamo e che alimenta fiumi e sorgenti utili a industria ed agricoltura. Ebbene, considerando solo i trafori, sarebbero toccati almeno 10 corpi idrici sotterranei di interesse, più di un terzo di quelli dell’Abruzzo e tra i più significativi, un’enormità nell’epoca dei cambiamenti climatici. Ricordiamo – viene aggiunto – che il traforo del Gran Sasso, che ha comportato danni irreversibili alla falda abbassandola di 600 metri, era lungo solo 10 chilometri».

Contro, finora, si sono espressi Forza Italia, Ncd, Abruzzo Futuro, Sel- Sinistra italiana, Radicali, Italia Unica, Rifondazione comunista. Il Partito democratico è (come al solito) spaccato. Si oppongono Cgil e Cobas.

Il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interpellanza parlamentare urgente per avere lumi. E, in risposta, dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, l’opera è stata definita «non sostenibile sotto il profilo tecnico, amministrativo, giuridico ed economico-finanziario». Fa presente il deputato grillino Gianluca Vacca: «È stata di fatto certificata la totale mancanza di qualsiasi presupposto normativo e amministrativo, confermando che gli unici lavori possibili sono appunto quelli di manutenzione e messa in sicurezza dell’attuale percorso, per un investimento totale stimato di circa un miliardo».

«Un progetto di tale portata calato sul territorio senza informare le istituzioni locali, senza chiarezza, senza confronto: è inaccettabile», tuona il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, che guida una coalizione di centrosinistra e dal cui Consiglio comunale è arrivata una unanime bocciatura all’iniziativa. «Insieme ad altri trenta Comuni, per capirci di più, per approfondire, stiamo promuovendo riunioni, anche di carattere tecnico scientifico. Di fronte ad interessi imponenti, bisogna tenere alta la guardia. Il territorio lavorerà coeso, per evitare di essere deturpato, pensando al proprio sviluppo. Altrimenti chi ci difenderà?».


GLI INTRECCI
DEL POTERE CEMENTIZIO

«Dati i notissimi legami Luciano D’Alfonso-Toto, confermati dai procedimenti giudiziari che li hanno riguardati e li riguardano, il presidente della Regione Abruzzo farebbe bene a dimettersi e andare a lavorare direttamente nel gruppo (anche il ruolo nell’Anas appare incompatibile)».

La stoccata, frontale, al governatore dell’Abruzzo parte da Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista, e l’occasione è data proprio dallo «scellerata trovata di Toto di adeguamento dell’autostrada A24/A25».

Un progetto inopportuno, secondo Acerbo, e «D’Alfonso – afferma – da esperto di infrastrutture e dirigente dell’Anas non può non sapere che l’operazione che sta sponsorizzando rappresenta una forzatura enorme, anche sul piano normativo e non solo su quello dello scempio ambientale».

L’accoppiata Toto-D’Alfonso, come ricorda l’esponente di Prc, è sinonimo di intrecci affari-politica che più d’una volta sono finiti all’attenzione della magistratura. È ancora in corso il processo sulla strada fantasma Mare-Monti a Penne, nato in seguito a proteste di Wwf e Prc e che ruota intorno ad un appalto da 22 milioni di euro, che prevedeva la realizzazione di un viadotto che sarebbe passato nel perimetro della riserva naturale del lago di Penne. Area protetta salvata dall’intervento di Forestale e carabinieri. «Quasi un’anticipazione – dice Acerbo – della mega devastazione che oggi, con questo nuovo progetto, propongono».

Risale invece al 2008 l’arresto di D’Alfonso, allora sindaco di Pescara e segretario regionale del Pd, per presunte tangenti in appalti pubblici. Tra i 21 indagati – per concussione, corruzione, falso e abuso – anche il patron di Air One, Carlo Toto, suo figlio Alfonso e tecnici del Comune.

Secondo l’accusa i Toto avevano riempito il primo cittadino di regali per ottenere lavori, tra cui l’affidamento in concessione dei parcheggi dell’area di risulta a Pescara. Alla fine – nel cosiddetto processo “Housework” perché in ballo c’erano anche interventi alla villa di D’Alfonso – è stato acclarato, con sentenza di assoluzione, che tutti quei “doni” a D’Alfonso c’erano stati ma erano conseguenza di un’amicizia di vecchia data: un’auto con autista per tre anni, dal settembre 2004 al gennaio 2007, pagata dai Toto; voli gratis sulla compagnia area di proprietà, pranzi e cene per circa 11 mila euro, viaggi, benefit, contributi. «D’Alfonso, che si è avvalso anche della prescrizione, è operativo più di prima.

Di recente – sottolinea Acerbo – ha infatti annunciato quella che ha definito una nomina storica, ossia quella di un architetto abruzzese nel Consiglio superiore dei Lavori pubblici (Gianluca Marcantonio, ndr).

Per la prima volta – ha detto D’Alfonso – un abruzzese entra nell’organismo. E guarda caso l’illustre designato è stato testimone della difesa in un suo processo. Dato il rapporto con D’Alfonso non so se questa nomina gioverà all’Abruzzo, – conclude Acerbo – considerato il ruolo che il presidente sta svolgendo di sostegno a progetti al di fuori della programmazione regionale, come quello dell’A24/A25».

«Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria». L'intervista di Carlo Mion a Maurizio Don, l'articolo di Gianni Favarato, La Nuova Venezia, 17 agosto 2016 (m.p.r.)


«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion

Marghera. Del Petrolchimico di Porto Marghera che fu il più grande d'Europa, restano vecchi tubi arrugginiti, stabili dismessi e terreni da bonificare. La natura, come testimonia il reportage pubblicato sulla “Nuova” di lunedì, si sta riprendendo lo spazio che le era stato strappato un secolo fa. In occasione dei cento anni di vita, errori del passato, agonia del presente e speranze per il futuro nel botta e risposta con Maurizio Don, sindacalista nazionale della Uiltec e per decenni sindacalista al Petrolchimico.
A cento anni dalla nascita della grande area industriale di Porto Marghera cosa resta?
«I primi insediamenti furono quelli della zona industriale vicini al ponte della Libertà che comprendevano i fertilizzanti e l'alluminio della Sava. Oggi dell' industria a ridosso di Mestre e Marghera non è rimasto più nulla o quasi. È sparita Montedison Agricoltura e prima ancora la Sava, non c'è più la Vidal e nemmeno il Feltrificio Veneto. Sono state chiuse le vecchie centrali elettriche dell'Enel, Vinyls, il Clorosoda e la Pilkington è da tempo in brutte acque. Nella seconda zona industriale la chimica costruita dalla Montecatini in poi è in fase di trasformazione e quello che rimane lo stiamo difendendo con i denti».

In questo anniversario c'è il rischio delle celebrazioni permeate di retorica?
«Sono stati tanti anni di progresso e di emancipazione sociale per il territorio veneziano, e non solo, che hanno valorizzato fortemente l'economia di questi paesi e della sua gente. Quanto fatto, nel bene e nel male, va ricordato e va studiato con il raffronto fra la visione di sviluppo del primo dopoguerra e la coscienza ambientale di oggi. Se non vogliamo che sia soltanto una passerella di rappresentanza occorrerà che si lavori per una nuova ripartenza che non getti via il bambino con l'acqua sporca».

Nell'ultimo quarto di secolo sul Petrolchimico quali sono stati gli errori maggiori?
«Il più grande petrolchimico d'Europa ha avuto il merito di essere stata una grande realtà industriale, pur con tutte le sue storture, ed il demerito di non essersi adeguato nel tempo ai cambiamenti richiesti dall'evoluzione produttiva e di mercato. La discussione dei primi anni '90 era basata su una questione: la chimica italiana deve restare privata in mano a Montedison o diventare pubblica dentro Eni? Questa diatriba con contorno di tangenti ha sviato l'attenzione dall'evoluzione di processo verso un interminabile balletto di posizioni politiche e istituzionali che hanno contribuito a soffocare ogni iniziativa di rilancio industriale».
E chi ha sbagliato maggiormente in questo senso?
«Hanno sbagliato tutti: le imprese che non hanno avuto il coraggio o la forza di fare quadrato a difendere le potenzialità enormi di un tessuto industrializzato senza pari. Ha sbagliato la politica nel trasformare la discussione sul recupero ed il rilancio di Porto Marghera in un ring elettorale inconcludente e forse, qualcosa ha sbagliato anche il sindacato che ha potuto solo difendere i posti di lavoro che si perdevano. Noi abbiamo cercato di rallentare le dismissioni per ridurre il disagio occupazionale di migliaia di lavoratori. In questo contesto abbiamo sbagliato, eccedendo con la fiducia verso imprenditori che hanno, tradendo le nostre aspettative, tentato di fare solo speculazione sui cadaveri delle imprese».
Solo errori o la volontà (politica?) di smantellare una realtà industriale che non poteva essere competitiva nel luogo dove era nata?
«La perdita di competitività delle produzioni chimiche di Marghera è figlia della mancanza di capacità di reazione alle evoluzioni del mercato. Ma era difficile farlo se la burocrazia ha soffocato ogni tentativo di riconversione, se una autorizzazione ambientale ha tempi straordinariamente lunghi rispetto ai nostri competitors mondiali. Alla fine degli anni 90 si fece il primo Accordo di Programma su Porto Marghera e già allora governatore Giancarlo Galan sosteneva che nel 2015 non ci sarebbe stato più un polo chimico. Nulla è stato fatto nella logica della programmazione alternativa, ma tutto è servito ad acuire lo scontro fra i sostenitori, pochi, del cambiamento accompagnato, e coloro, molti, che pensavano che il non fare nulla era già una decisione».

Nel momento in cui iniziò il declino, al posto di arroccarsi nella strenua difesa dei posti di lavoro, non si poteva pensare a reinventare quei posti pensando al recupero delle aree?
«Porto Marghera aveva e ha in sé tutte le condizioni esogene per essere un'area molto appetibile per le imprese: servizi, logistica, portualità ed enormi professionalità nelle sue maestranze, ma una gestione politica ignava ed imprese poco coraggiose non hanno voluto pensare ad una trasformazione di accompagno. I sindacati hanno sempre chiesto non lo status quo, ma un processo di trasformazione che creasse nuova occupazione prima di una dismissione. Ma questo non è mai avvenuto. La logica dell'occupazione attraverso le bonifiche è sempre stata effimera perché per bonificare dove lavoravano centinaia di persone stabilmente, bastano poche unità e a breve termine ed è per questo che è stata osteggiata dal sindacato».
Si sta perdendo ancora tempo in discussioni infinite?
«Le celebrazioni del centenario della nascita di Porto Marghera hanno questa responsabilità: analizzare gli errori, quali - quanti e perché sono stati fatti, valorizzare quanto ancora esiste, seguendo l'esempio della trasformazione della raffineria e sostenendo come detto la strada della chimica verde, non buttando cioè alle ortiche cento anni di storia perché non si ha il coraggio di ammettere che, anche se oggi nessuno farebbe un petrolchimico a bordo laguna, è solo per mancanza di senso di responsabilità che si preferisce lasciare tutto fermo. C'e un problema, lo stato non pagherà perché per bonificare Porto Marghera serve un finanziaria, e di conseguenza se non favoriamo un nuovo sviluppo produttivo, attraverso la chimica verde, avremo una nuova Bagnoli in laguna».


LA PARABOLA MORTALE DELLA CHIMICA ITALIANA AI BORDI DELLA LAGUNA
di Gianni Favarato
Cinquant’anni di storia, dall’Eni di Mattei e la Montedison di Raul Gardini alla nuova chimica verde promessa dall’Eni

Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.

Erano gli anni Sessanta e nell’Italia in pieno boom economico e in Italia nascevano due grandi società, il nascente Ente nazionale idrocarburi fondato da Enrico Mattei e la Montedison di Cuccia che poi passò alla famiglia Ferruzzi e infine a Raul Gardini e Gabriele Cagliari che si sono suicidati alla vigilia del primo interrogatorio dei magistrati di Mani Pulite. Eni e Montendison decisero di sancire un grande matrimonio per da vita ad Enimont, un sogno di grandezza industriale nazionale durato ben poco, per poi lasciare il terreno a multinazionali - come Dow Chemical, Evc, Ineos, Elf Atochem e Solvay - che negli ultimi anni, una dietro l'altra, dopo aver “spremuto” tutti i profitti possibili, l'hanno abbandonata chiudendo le produzioni o vendendole a improbabili imprenditori come il trevigiano Fiorenzo Sartor che ha rilevato la produzione di cvm e plastica in pvc della Ineos nel 2009 per poi portare i libri contabili in tribunale e decretare così la chiusura definitiva del ciclo del cloro.
Il “sogno” di una rivoluzione industriale permanente, grazie alla chimica italiana, è stato definitivamente sepolto a Porto Marghera e nei siti minori sparsi per l'italia, dalla Sicilia alla Puglia, fino alla Sardegna, lasciando un grande “buco nero”, con un’immane tragedia ambientale e sanitaria ancora da risanare, migliaia di posti di lavoro persi, per l'immane inquinamento di acque, suoli e falde ancora ben lungi dall'essere ripulito con le attese e ormai sempre più improbabili bonifiche e ha ingoiato migliaia di miliardi delle vecchie lire, finiti nelle tasche dei “boss” delle Partecipazioni Statali italiane e delle multinazionali chimiche. Oggi a Porto Marghera a tirare la ripresa è rimasto il porto passeggeri e commerciale con le connesse attività logistiche e industriali che piano piano stanno occupando parte delle aree abbandonate. Sono rimaste in esercizio solo due grandi stabilimenti chimici (oltre a quelli più modesti di Atochem, Sapio e Solvay) che fanno capo all’Eni e sono la raffineria di petrolio ai bordi della laguna, ora riconvertita al biodiesel e il vecchio impianto del cracking dell’etilene che doveva essere chiuso o venduto ma ora, stando alle ultime promesse - da verificare nei fatti - dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, dovrebbe veder rinascere la chimica italiana in versione “verde”.
La Repubblica, ed. Firenze, 17 agosto 2016
UN ‘effetto Torino’: quello per cui Piero Fassino ha perso le elezioni pur essendo convinto (in parte non a torto) di aver ‘governato bene’. È quello che rischia Enrico Rossi: almeno a giudicare dalle sue reazioni alla sentenza del Tar toscano sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze.
Proverò a dar conto del sentimento che queste reazioni suscitano in un cittadino che non abbia una posizione definita sulla materia del contendere. Un cittadino, dunque, diverso da me: sono sempre stato contrario a quell’ampliamento, convinto che l’unica scelta sensata sarebbe stata fare del Galilei di Pisa l’aeroporto (anche) di Firenze, con una navetta su monorotaia che lo collegasse in trenta minuti a Santa Maria Novella.

Ma non è di questo che ora si parla. La sentenza del Tar non riguarda, ovviamente, la decisione politica, ma il modo in cui essa si attua. In particolare, essa investe la correttezza delle procedure che dovrebbero accertare la compatibilità di quel progetto con la tutela dell’ambiente, e cioè con la salute di chi vive nella Piana.
Su questo nodo si fronteggiano da tempo due schieramenti: da una parte i governi della Regione e del Comune di Firenze, e ora la Società Toscana Aeroporti presieduta da Marco Carrai, dall’altra un foltissimo gruppo di comitati, singoli cittadini, tecnici, altre amministrazioni e istituzioni (tra le quali anche l’università di Firenze).
Un ‘effetto Torino’: quello per cui Piero Fassino ha perso le elezioni pur essendo convinto (in parte non a torto) di aver ‘governato bene’. È quello che rischia Enrico Rossi: almeno a giudicare dalle sue reazioni alla sentenza del Tar toscano sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze.
Proverò a dar conto del sentimento che queste reazioni suscitano in un cittadino che non abbia una posizione definita sulla materia del contendere. Un cittadino, dunque, diverso da me: sono sempre stato contrario a quell’ampliamento, convinto che l’unica scelta sensata sarebbe stata fare del Galilei di Pisa l’aeroporto (anche) di Firenze, con una navetta su monorotaia che lo collegasse in trenta minuti a Santa Maria Novella.

Ma non è di questo che ora si parla. La sentenza del Tar non riguarda, ovviamente, la decisione politica, ma il modo in cui essa si attua. In particolare, essa investe la correttezza delle procedure che dovrebbero accertare la compatibilità di quel progetto con la tutela dell’ambiente, e cioè con la salute di chi vive nella Piana.

Su questo nodo si fronteggiano da tempo due schieramenti: da una parte i governi della Regione e del Comune di Firenze, e ora la Società Toscana Aeroporti presieduta da Marco Carrai, dall’altra un foltissimo gruppo di comitati, singoli cittadini, tecnici, altre amministrazioni e istituzioni (tra le quali anche l’università di Firenze).

Il discorso mediatico mainstream racconta questa contrapposizione in termini stereotipati: da una parte le ragioni dello sviluppo, dall’altra le ubbìe ambientaliste di una minoranza di fanatici.

Per un osservatore terzo l’unico modo per capire chi ha ragione è potersi fidare delle procedure seguite dal potere pubblico per attuare le sue decisioni. Questa correttezza si basa sull’autonomia intangibile degli organi tecnici: perché la nostra legislazione riconosce che - quando si parla di tutela dell’ambiente e della salute umana non tutto è nella disponibilità della maggioranza politica del momento.

Ebbene, la fiducia di quell’ipotetico (ma concretissimo) osservatore era già stata messa a dura prova: si deve infatti rammentare che la Valutazione strategica della variante al Piano di Indirizzo Territoriale era stata approvata nonostante il parere negativo dell’organo tecnico della Regione (il nucleo di valutazione). E che la conseguente Valutazione di impatto ambientale si è conclusa positivamente nonostante che l’apposito nucleo di valutazione abbia dichiarato di non potersi esprimere perché non aveva ricevuto tutti i documenti necessari. Infatti la società privata che propone l’ampliamento non ha presentato un progetto definitivo, ma solo un masterplan: e cioè un progetto preliminare di massima. Tre irregolarità piuttosto pesanti.

Ma niente in confronto a ciò che ora stabilisce la sentenza del Tar: che dice a chiare lettere che le procedure seguite non garantiscono affatto la tutela dell’ambiente (e dunque della salute dei cittadini).

A questo punto, quel famoso osservatore terzo cosa si aspetterebbe dalle pubbliche autorità? Una dettagliata confutazione delle conclusioni del Tar. Che, invece, non c’è stata. Sia Enrico Rossi che il sindaco di Firenze Dario Nardella hanno preferito parlare di tattica processuale. Non hanno detto che questa sentenza è ingiusta, o incompetente: hanno invece detto che sapranno renderla ininfluente.
E qua i destini si separano. Perché se nemmeno il più neutrale degli osservatori può aspettarsi da Nardella la benché minima autonomia da una società presieduta dall’intimo amico di Matteo Renzi, ben diversa è la posizione di Rossi: che si candida a disputare a Renzi la segreteria del Pd da posizioni che egli stesso definisce «socialiste».

Quel cittadino legge la sentenza del Tar (o almeno l’ampio sunto presente sui giornali). E pensa che se anche solo un decimo delle cose che essa afferma fossero vere, sarebbe evidente che siamo in mano ad una classe dirigente che realizza grandi opere senza curarsi del loro impatto. E poco importa che lo faccia a servizio di alcune lobbies, o perché incapace di affrancarsi dall’idea che lo sviluppo debba prevalere sulla tutela di ambiente e salute.

Quel cittadino si aspetta da Rossi una chiara argomentazione sul merito di ognuno dei punti che la sentenza solleva. Più in generale, l’opinione pubblica si aspetta che la classe politica renda conto delle proprie scelte con umiltà, competenza e trasparenza. Se questo non succede, prima o poi il rapporto di fiducia si rompe, come è successo a Torino: Fassino ha pagato nel modo più pesante l’arroganza di una oligarchia che non credeva di dover perdere tempo a rendere conto delle proprie decisioni.

Le possibilità di conoscenza offerte dalla rete, e la felice saldatura tra saperi tecnici e opinione pubblica che essa consente, mettono la classe politica di fronte ad una responsabilità nuova: spiegare in modo convincente le proprie decisioni in fatto di ambiente. È così che un tema fino a poco tempo fa secondario sta invece ora diventando decisivo: chi non lo capisce rischia di essere travolto. E le reazioni alla sentenza del Tar dimostrano che la Toscana non è affatto immune dall’‘effetto Torino’.

«la creazione di un modello di accoglienza per richiedenti asilo, il sindaco di Riace Mimmo Lucano va avanti su un un’altra questione vitale: l’acqua come bene comune». Il manifesto, 17 agosto 2016 (c.m.c.)

E’ stato in marzo che il magazine Fortune ha inserito fra le cinquanta personalità più influenti del mondo, unico italiano, il sindaco di Riace per il suo impegno e lungimiranza nel costruire un modello di accoglienza per richiedenti asilo in grado di connettersi con piccole comunità calabresi a rischio di spopolamento. «La più grande opera pubblica che potevamo fare», commenta il sindaco.

Molti conoscono il modello di accoglienza di Riace (su questo giornale ne abbiamo scritto quando nacque nel lontano 1999!) , un modello che dimostra come i migranti potrebbero far rinascere le aree interne e spopolate del nostro paese.

Ma, come abbiamo proposto in altre occasioni ci vorrebbe un progetto su scala nazionale ed una nuova Riforma agraria che miri a recuperare case e terreni abbandonati ( e sono tanti non solo nel Sud), a far rivivere le botteghe artigiane, con l’inserimento lavorativo di italiani e migranti. Un progetto nazionale a cui Riace ha dato la prova che si può fare.

Di fronte alla sordità o ottusità dei governo nazionale il sindaco di Riace non si è arreso ed è andato avanti su un un’altra questione vitale : l’acqua come bene comune. Riace si sta liberando dalla dipendenza dalla Sorical, società mista con la multinazionale Veolia come socio privato, che in Calabria gestisce l’acqua pubblica e la fa pagare profumatamente ai cittadini, oltre a non investire nella manutenzione straordinaria di cui abbisognano i vecchi acquedotti della regione.

Un videro amatoriale presenta uno scroscio d’acqua violento che si abbatte su un secchio, acqua che spruzza, che deborda, che allaga tutto intorno, la scritta che accompagna le immagini dice: «Questa sorgente d’acqua ha visto la luce grazie al coraggio e perseveranza del sindaco di Riace Domenico Lucano, assistito dal geologo Aurelio Circosta, progettista e direttore dei lavori».

Non è stato facile, né tecnicamente, né dal punto di vista amministrativo. Sul piano tecnico, la falda acquifera è stata trovata in località Coltura, sinistra orografica del torrente Riace che collega l’abitato della Marina di Riace con il capoluogo comunale; dopo uno studio accurato condotto con elettrosondaggi, rilievi eseguiti nel dicembre 2015, grazie ad un lungo lavoro del geologo Circosta.

La relazione del geologo evidenzia il ritrovamento di colline argillose con una captazione della sorgente a 157 mt di profondità, mediante l’introduzione di una elettropompa sommersa è stato possibile valutare l’uscita dell’acqua di 25 litri al secondo.

Ma, come si poteva finanziare la ricerca e i lavori per il prelievo della falda, nonché la costruzione di una connessione all’ acquedotto comunale? Il ragioniere del comune di Riace mostrava al sindaco un bilancio preventivo 2016 dove non c’era un euro in più da spendere.

Con il coraggio che oggi è assolutamente necessario per gestire gli enti locali, Domenico Lucano decise di inserire in bilancio la metà del costo dell’acqua pagata alla Sorical nell’anno 2015, pari a circa 180mila euro, contando di terminare i lavori entro giugno 2016. In altri termini, il comune faceva un investimento con denaro che non aveva, ma avrebbe avuto al termine dei lavori con il risparmio sul pagamento dell’acqua nel periodo luglio/dicembre 2016.

Il sogno si è avverato. L’acqua è oggi a Riace davvero un bene comune e presto i cittadini ne vedranno chiaramente i benefici anche sul versante della spesa familiare (si stima un risparmio per famiglia di circa il 70% sulla bolletta dell’acqua).

E si tratta di un’acqua potabile, certificata, migliore di quella distribuita dalla Sorical. E’ stato possibile collegare il pozzo in località Coltura con una condotta del diametro di 200 mm e lungo 2500 mt. La potabilità dell’acqua viene rilasciata con certificato dall’Azienda sanitaria provinciale di Siderno il 24 maggio del 2016 «esito di conformità ai parametri di legge».

L’Arpacal evince la mancanza di minerali pesanti, di antiparassiti, di idrocarburi, batteri e composti organici, un aspetto positivo, segnala Circosta, da attribuire alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche del giacimento, l’acqua protetta da una coltre argillosa impermeabile che garantisce l’impossibilità alla contaminazione da agenti inquinanti e assicura la potabilità per il presente e il futuro.

Era il 2009 quando un campo di lavoro dell’Arci ragazzi provenienti da molte parti d’Italia aveva visto decine di giovani lavorare sotto il sole per costruire murales, uno di questi riguardava la casetta con fontanella e la scritta «Acqua bene comune». Nel Il paese dei Bronzi (2010) di Vincenzo Caricari, uno dei primi documentari su Riace, testimonia un consiglio comunale dove il sindaco di Riace propone di inserire nello Statuto «l’acqua è un bene pubblico e tale deve rimanere».

Altri comuni calabresi, in testa quelli della Sila e preSila, stanno seguendo la stessa strada, territori ricchi d’acqua finora malgestita (numerose le interruzioni di forniture idriche) e sfruttata da privati e politici corrotti.

Il manifesto, 12 agosto 2016

È l’anno 2050 e Israele ha realizzato la sua visione di Gerusalemme: i visitatori arriveranno in un centro high-tech a maggioranza ebraica in mezzo ad un mare di turisti, con una presenza minima di palestinesi. Per ottenere questa visione, Israele sta lavorando a tre master plan: uno è noto, ma due restano fuori dai radar.

Edward Said aveva già avvertito nel 1995: «Solo progettando prima un’idea di Gerusalemme, Israele potrà procedere a cambiamenti sul terreno che corrispondano a queste immagini e proiezioni». L’idea israeliana di Gerusalemme prevede la massimizzazione del numero di ebrei e la riduzione di quello di palestinesi attraverso un graduale processo di colonizzazione, sfollamento e spossessamento.

Il più noto dei tre master plan è il Jerusalem 2020. I meno noti sono il Marom Plan e il Jerusalem 5800 Plan, meglio conosciuto come Jerusalem 2050. Il Jerusalem 2020 Master Plan è stato preparato da una commissione nazionale di pianificazione e pubblicato la prima volta nel 2004. È il primo piano spaziale comprensivo e dettagliato sia per Gerusalemme Ovest che Est dall’occupazione israeliana del 1967. Comprende lo sviluppo di diverse aree: pianificazione urbana, archeologia, turismo, economia, educazione, trasporti, ambiente, cultura e arte.

Il Marom Plan è il prodotto di una commissione governativa. L’obiettivo è promuovere Gerusalemme come «città internazionale, leader nel commercio e nella qualità della vita nel settore pubblico». Il Jerusalem 2050 è un’iniziativa privata di Kevin Bermeister, innovatore tecnologico australiano e investitore immobiliare. Il piano fornisce progetti per Gerusalemme fino al 2050, fungendo da «master plan di trasformazione» della città. È diviso in vari progetti indipendenti, ognuno dei quali realizzabile in autonomia.

Turismo, educazione e high-tech

Il Comune di Gerusalemme punta a promuovere il turismo e in particolare gli aspetti culturali con una campagna di marketing che aumenti il potenziale dello sviluppo immobiliare, sostenga il turismo locale e internazionale e investa nelle infrastrutture turistiche.

Il governo israeliano ha stanziato 42 milioni di dollari per sostenere Gerusalemme come meta turistica internazionale, mentre il Ministero del Turismo dovrebbe allocare circa 21.5 milioni di dollari per la costruzione di hotel e offrire specifici incentivi agli imprenditori e le compagnie che costruiscono o ampliano alberghi a Gerusalemme e organizzano eventi culturali per attirare visitatori, come il Jerusalem Opera Festival, o eventi per l’industria del turismo, come il Jerusalem Convention for International Tourism.

Promuovere il settore turistico è anche alla base del Jerusalem 2050 che immagina Gerusalemme come «città globale, importante centro turistico, ecologico, spirituale e culturale mondiale», che attiri 12 milioni di turisti e oltre 4 milioni di residenti. Punta ad aumentare gli investimenti privati, la costruzione di hotel, giardini-terrazza e parchi e la trasformazione di aree che circondano la Città Vecchia in alberghi, vietando la circolazione delle auto. Il piano prevede poi la costruzione di un sistema di trasporti di alta qualità compresa una linea ferroviaria di alta velocità e una rete estesa di autobus; l’aggiunta di superstrade e l’espansione di quelle esistenti; e la costruzione di una “super autostrada” che attraversi il paese da nord a sud. Infine propone la costruzione di un aeroporto nella valle di Horkania, tra Gerusalemme e il Mar Morto, per servire 35 milioni di passeggeri l’anno.

Tenta di presentarsi come piano apocalittico che promuove «la pace attraverso la prosperità economica», ma ha obiettivi demografici che dimostrano il contrario: i 120 miliardi di dollari di valore aggiunto derivanti dall’implementazione del piano, insieme a 75-85mila impieghi negli alberghi e i 300mila nelle industrie dell’indotto, attireranno più ebrei a Gerusalemme, aumentandone il numero e facendo pendere la bilancia demografica ebrei-palestinesi a favore dei primi.

Il settore turistico non è visto solo come motore di sviluppo economico per attrarre ebrei in città. È un mezzo per controllare la narrativa e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno come «città ebraica». Questi piani vanno infatti di pari passo con le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo della stessa industria palestinese a Gerusalemme Est: l’isolamento dal resto dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente dopo la costruzione del Muro; la perdita di terre e i costi conseguenti; le deboli infrastrutture; le alte tasse; le restrizioni nel rilascio dei permessi per la costruzione di hotel o la conversione di edifici in alberghi; le difficili procedure per ottenere licenze per gli uomini d’affari palestinesi. Questi ostacoli, insieme ai milioni di dollari che vengono versati nel mercato turistico israeliano, fanno sì che l’industria turistica palestinese non abbia speranza di competervi.

Un altro obiettivo comune dei tre piani è attirare ebrei da tutto il mondo attraverso lo sviluppo di due industrie avanzate: l’educazione superiore e l’high-tech. Il 2020 Master Plan punta alla costruzione di un’università internazionale con l’inglese come principale lingua. Il Marom Plan vuole fare di Gerusalemme «una città accademica di riferimento» che attragga sia studenti ebrei che stranieri, che siano incoraggiati a fermarsi a Gerusalemme una volta terminati gli studi. Sulla stessa linea, il Jerusalem 2050 vede come un’opportunità la creazione di impieghi e crescita economica attraverso “il turismo educativo di lunga residenza”. Un’industria intrinsecamente collegata allo sviluppo di high-tech, bio-informazione e biotecnologie. Il 2020 Master Plan fa appello alla creazione di un’università per la gestione e la tecnologia nel centro di Gerusalemme e per l’assistenza governativa nella Ricerca e lo Sviluppo (R&D) nei campi dell’alta tecnologia e della biotecnologia.

Sradicare la comunità palestinese

Mentre Israele lavora per trasformare Gerusalemme in un centro d’affari, i problemi di Gerusalemme Est sono infiniti. Tra questi lo schiacciamento del business palestinese e del settore commerciale e la debolezza del settore educativo e delle infrastrutture. Il risultato del soffocamento del potenziale di Gerusalemme Est? Il 75% dei palestinesi – e l’84% dei bambini – vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, c’è una crescente crisi identitaria a Gerusalemme Est, in particolare tra i giovani a causa dell’isolamento dal resto dei Territori Occupati, del vacuum istituzionale e di leadership e la perdita di speranza in un cambiamento positivo. Il Muro è una delle principali misure demografiche che Israele ha preso per garantirsi una maggioranza ebraica e rafforzare i confini politici de facto della città, trasformandola nella più grande in Israele. È costruito in modo da permettere a Israele di annettere altri 160 km² di Territori e di separare fisicamente oltre 55mila gerusalemiti dalla città. Pianificazione e sviluppo nei quartieri che ora sono al di là del Muro sono estremamente poveri e i servizi governativi e comunali sono virtualmente assenti, nonostante i palestinesi continuino a pagare la tassa di proprietà, l’Arnona.

La pianificazione urbana è un altro dei principali mezzi geopolitici e strategici usati da Israele dal 1967 per stringere la morsa su Gerusalemme e ridurre l’espansione urbana palestinese. È il cuore del 2020 Master Plan che vede Gerusalemme come unità urbana unica, centro metropolitano e capitale di Israele. Uno degli obiettivi del piano è «mantenere una solida maggioranza ebraica in città» incoraggiando colonie ebraiche a Gerusalemme Est. Tra le altre cose, il piano mira a costruire unità abitative economiche in quartieri ebraici già esistenti e in quartieri nuovi. E immagina il collegamento delle colonie israeliane in Cisgiordania geograficamente, economicamente e socialmente a Gerusalemme e Tel Aviv.

La presenza palestinese e lo sviluppo dei suoi quartieri sono estremamente limitate dall’impegno del piano a «portare avanti con severità le leggi di pianificazione e costruzione per impedire il fenomeno delle costruzioni illegali». Tuttavia, solo il 7% dei permessi di costruzione a Gerusalemme sono stati rilasciati a dei palestinesi negli ultimi anni. La discriminazione di Israele nel rilasciarli, combinata all’alto costo dei permessi [circa 30mila dollari, secondo le informazioni raccolte dall’autrice], costringe molti palestinesi a costruire illegalmente. Sono discriminati anche quando si tratta di mettere in pratica questi regolamenti. Secondo un rapporto dell’International Peace and Cooperation Center, il 78,4% delle violazioni tra il 2004 e il 2008 sono state commesse a Gerusalemme Ovest, contro le 21,5% a Est. Eppure solo il 27% delle violazioni a Ovest sono state oggetto di ordini di demolizioni, contro l’84% di Gerusalemme Est.

Le istituzioni statali non sono le uniche coinvolte: organizzazioni non governative prendono parte alla ristrutturazione dello spazio urbano. L’organizzazione di destra Elad ha come obiettivo la colonizzazione del quartiere palestinese di Silwan – che chiamano «La Città di David» – e gestisce siti turistici e archeologici. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Elad ha ricevuto donazioni per oltre 115 milioni di dollari tra il 2006 e il 2013, diventando così una delle più ricche Ong israeliane.

«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)

Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.

Dall’inizio degli anni Duemila sono state presentate numerosissime domande e progetti per i cambi d’uso, e così sono cresciuti molto velocemente gli alberghi, le pensioni e le loro espansioni negli appartamenti vicini. Contemporaneamente non solo le attività private ma persino anche le funzioni pubbliche hanno cominciato a essere spostate in terraferma e al Tronchetto per vendere le loro sedi in centro “valorizzate” con il cambio a funzione ricettiva. E prima si sono sempre più inglobati nel bilancio ordinario per le spese correnti gli oneri di urbanizzazione che dovrebbero finanziare la realizzazione dei servizi pubblici, poi è seguita la svendita del patrimonio pubblico, che continua con la nuova giunta, per far quadrare in questo modo il bilancio delle spese ordinarie; e ogni volta si attua il cambio d’uso preliminarmente alla vendita.
Nel frattempo dilagano i B&B e l’affitto turistico degli appartamenti, cosa conosciutissima da tutti ma senza alcun controllo pubblico da sempre. Da anni, con la semplice ricerca diretta sul campo di poche decine di studenti di urbanistica, quasi ogni porta del centro città risultava impegnata dalla ricezione turistica; questa situazione sempre più dilagante solo recentemente è stata denunciata grazie a ricerche private su Internet compiute con mezzi semplicissimi. Tutto questo è stato ulteriormente favorito e incentivato dai decreti emergenziali degli ultimi governi e dalle leggi regionali (che hanno devastato le normative urbanistiche) e dalla connivenza e omertà delle amministrazioni locali.
Da una decina d’anni ogni richiamo alla gravità della situazione viene eluso con la falsa o ignorante scusa che “succede in tutti i centri storici”, ignorando volutamente che Venezia non è un centro storico ma una città storica con molte aree centrali, altre periferiche e molte aree di servizio e produttive che con l’insieme delle isole minori della laguna costituisce un sistema urbano d’acqua, diverso dalla terraferma, che è sempre stato e ancora può essere per molte funzioni autonomo e autosufficiente. E si vuole ignorare che gran parte dei 90 mila pendolari giornalieri sono lavoratori, ma anche studenti e operatori culturali, che abitavano e ancora abiterebbero in città se la disponibilità e il mercato degli alloggi non fosse impraticabile e li spingesse all’esodo e al pendolarismo.
Anche senza fare nulla, automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città sia direttamente con gli sfratti sia indirettamente con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente quindi non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni che pur mancano e devono essere ripristinati e attivati. Occorre anche attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua. Politiche che rendano innanzitutto usabile tutto il patrimonio pubblico oggi non disponibile: con la riqualificazione pubblica (con risorse europee, nazionali e per le città metropolitane), con la locazione in cambio di restauri autogestiti, con lo scambio degli oneri degli interventi privati, con incentivi e contributi, ecc.
E se l’amministrazione pubblica non funziona correttamente o addirittura è connivente con l’operatore immobiliare privato anche le poche operazioni che dovevano rendere disponibili alcune decine di appartamenti (come i casi della Giudecca) sono andate a finire nel mercato dell’acquisto privato o si sono arenate. E comunque senza norme, controlli e politiche efficienti ed efficaci mentre si rendono disponibili poche decine di appartamenti il mercato ne fa perdere molte centinaia. Poco a poco in città anche la consapevolezza della necessità di non lasciar dilagare la monocultura turistica è venuta a mancare, anche gli amministratori si sono arresi alla comoda rendita di posizione: l’attività turistica rende più delle altre senza particolari capacità.
Anche per incentivare l’arrivo di nuove attività occorrono politiche attive per ridare incentivi, opportunità, forza ad attività innovative sia private che pubbliche non turistiche. Ricordo ad esempio che nel 1988/’90 con la giunta Casellati eravamo arrivati a un buon punto nella disponibilità dichiarata ad insediare a Venezia gli uffici e i laboratori sia dell’Agenzia europea dell’ambiente sia dell’Agenzia mondiale delle acque (l’Amministrazione aveva formalmente offerto la disponibilità degli spazi ed edifici necessari per le attività e per le abitazioni). Ma poi tutto è stato lasciato cadere. E molti spazi in disuso ai margini della città, per poter allocare nuove attività, sono sempre disponibili ma senza politiche attive ed efficienti non può succedere nulla. Anche per gli spazi dell’Arsenale occorre predisporre un progetto complessivo e unitario (chiesto e proposto inutilmente da anni dal Forum Arsenale), senza limitarsi a subire passivamente le iniziative della Biennale e del Consorzio Venezia Nuova, magari limitandosi a rendere disponibili singoli spazi al miglior offerente o per eventi unici a pagamento.
Nei secoli Venezia è stata ripopolata più volte dopo eventi calamitosi. Ma occorre ricostruire una fortissima convinzione e volontà politica sia livello nazionale sia a livello locale che costruisca piani, programmi, progetti e strumenti e sappia reperire risorse per poter contrastare le tendenze automatiche del “libero mercato”. Per questo, sapendosi muovere, potrebbero essere di stimolo e di aiuto anche le risoluzioni dell’Unesco, ma bisogna saperle riconoscere e valorizzare anziché denigrare.
* Già assessore all’Urbanistica, membro della Commissione di Salvaguardia, Venezia

«"La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa". Un libro elettronico scaricabile costituito da una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud. Nel testo vi sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare». Sbilanciamoci info, 12 agosto 2016 (c.m.c.)

Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose.

Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Zamarin, il vignettista che disegnava per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.

Gli ometti di Zamarin che assaltavano con metodo, tranquillamente, la Fiat mi sono tornati in mente leggendo il libro elettronico Crisi ambientali e migrazioni forzate (L’ondata silenziosa oltre la Fortezza Europa), una raccolta di saggi e articoli pubblicata da A Sud. Si corre troppo sovrapponendo la vecchia Fiat alla Fortezza Europa? Anche quest’ultima appare a certi ricercatori cattiva, ignorante, prepotente, paurosa.

I ricercatori, con i loro piccoli, acuti picconi si danno da fare, cercano di fare chiarezza, di smuovere qualcosa, forse soltanto le coscienze. Cercano di convincere chi li ascolta che se si accetta che ogni strada sia sbarrata, la battaglia ambientale perduta. Comunque, se vincere non si può, si può continuare nella ricerca di altre vie per capire meglio, studiando per conto di tutti, il nostro pianeta e il suo domani, lasciando finalmente da parte i pregiudizi sullo Sviluppo, questo fratello gemello del Profitto.

Nelle quattro parti del testo (discussione delle teorie affermate, posizioni delle riforme suggerite dai tempi nuovi, esame di quello che avviene, resoconto di qualche caso speciale) sono molti gli argomenti in discussione. Ne trattano, in vario modo, decine di giovani specialisti per lo più poco conosciuti. La caratteristica generale è un’estrema lealtà scientifica. Si direbbe che nessuno evita di scrivere quello che pensa solo per dare ragione a qualche docente superiore e favorire così la propria carriera.

Da profano, vorrei suggerire di leggere tutto (trecento pagine) a partire da due aspetti generali. Uno di essi è la quantità di suggerimenti. Nel testo internet sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare. La scienza ambientale diventa un po’ più aperta a tutti, discutibile in ogni campo.

Molte persone possono così studiare e capire il mondo in cui vivono e darsi da fare per cercare di migliorarlo. Dentro e fuori quel movimento, qualcuno si ricorderà mai che la prima delle Cinque Stelle è l’acqua? L’acqua di tutti, l’acqua a tutti nota. L’acqua di cui molti studi danno finalmente una misura attuale. Un secondo aspetto è costituito da proposte e suggerimenti, a volte inaspettati, che sono frequenti nei testi e che servono a volte come punto di partenza di passi avanti inaspettati e altre volte a spiazzare il ragionamento consueto. Ma entriamo nel vivo del discorso.

Per meglio dire entriamo per un momento nella pentola della Rana Bollita. (Le migrazioni ambientali dell’antropocene e la sindrome della rana bollita, di Salvatore Altiero e Maria Marano che sono anche i curatori dell’opera è il testo di avvio di tutto il libro). La sindrome della rana nella pentola è un ragionamento crudele che serve per fare giustizia tra i sostenitori dell’adattamento e quelli della mitigazione.

Non c’è storia: una rana in pentola – rappresenta una popolazione messa in condizioni critiche da una modifica ambientale, quale che ne sia l’origine – può un po’ adattarsi al nuovo clima, anche accettare il proprio benessere provvisorio, ma in breve tempo si troverà in una condizione diversa e dolorosa; spostandosi ai bordi della pentola, saltando nell’acqua, non potrà che brevemente mitigare il calore insopportabile. Non c’è scampo per la rana nella pentola. Si può solo scappare prima, prima che sia troppo tardi. Altrimenti si può solo spegnere il fuoco, sempre che non sia comunque tardi.

C’è un’altra osservazione di cui fare tesoro: in un testo di carattere giuridico, scritto da Antonello Ciervo I rifugiati invisibili. Brevi note sul riconoscimento giuridico di una nuova categoria di richiedenti asilo in cui si discutono gli atteggiamenti del diritto comunitario nei confronti degli immigrati, vi è il ricordo di quando il pericolo ambientale che sovrastava il nostro futuro era il grande freddo, il global cooling che faceva appunto parte della Guerra fredda, in voga a quei tempi.

Il pensiero degli studiosi era che nel 2015 si sarebbe arrivati a un temperatura media globale di 0 gradi centigradi. Solo pochi anni dopo il pensiero degli studiosi si è capovolto in un global warming in cui tutt’ora viviamo. Questo suggerisce molta cautela, sempre. Sempre lo studioso Ciervo che si occupa dell’assetto giuridico dei rapporti tra migranti e istituzioni, si lancia in un altro fuori tema quando ci consiglia di fare attenzione alla storia.

Ricorda l’avvenimento dell’eruzione del vulcano islandese Laki che avvenne nel 1783, ricoperse le pianura dell’Europa continentale di polveri sottili, causò piogge acide in Francia con la conseguenza della assai ridotta produzione di derrate e il loro potente aumento di prezzo negli anni seguenti del decennio, ivi compreso il fatidico 1789. La scarsità di grano e gli insopportabili prezzi agricoli, assicurano gli storici accreditati (Lefebvre), furono tra le cause non ultime della rivoluzione francese, come più di recente sembra sia avvenuto per le primavere arabe.

Se la prima parte discute dei temi generali – di rane in pentola, come si è detto cioè di Crisi climatica e conflitti ambientali – spetta alla seconda che titola sul Cambiamento del clima e conflitti ambientali: emigrazioni forzate – il compito di parlare della rana che fugge, in qualche modo, come può, dalla pentola bollente.

I temi generali sono superati; la discussione tra i famosi professori Norman Myers e Richard Black, con il primo che prevede 200 milioni di rifugiati ambientali per il 2050 e il secondo che scrive, per confutarne le cifre, un saggio dal titolo Environamental Refugees: Mith or Reality non è più indispensabile; per capire le cose, più che classificare casi e sottocasi, conta conoscere i fatti (e gli antefatti). A furia di fatti, i diversi casi emergono con grande evidenza. Fondamentale nell’economia del lavoro collettivo è la Siria ed è l’acqua.

Acqua crisi climatica e migrazioni di Anna Brusarosco con il contributo di Salvatore Altiero propone molte riflessioni sui rapporti tra calamità naturali e vere e proprie guerre per l’acqua, tra comunità sotto stress o paesi rivali. Un lungo elenco di casi recenti, tutti conosciuti e spesso trascurati da chi legge lasciano intendere la vera natura dell’acqua e dell’obbligo di partire dal luogo in cui una comunità ha potuto trascorrere secoli della vita precedente. La crisi idrica, attuale o temuta, non si può affrontare altrimenti.

Si è costretti a partire, o rimanendo all’interno della regione, dei confini nazionali, oppure cercando di saltarli via, alla ricerca di un nuovo mondo, almeno di un po’ di acqua da bere. Non si vive senza bere e senza lavare i panni, la casa arida si trasforma in una sala di tortura; una famiglia contadina non ce la fa se non ha acqua per coltivare gli ortaggi, per allevare gli animali.

Sopra tutto questo, l’acqua e la scarsità di cibo si presenta in assoluta drammaticità il caso siriano, studiato attentamente da Desirée A. Quagliarotti Siria: cambiamento climatico, migrazioni e conflitti. Qui è difficile stabilire in modo autoritario un prima e un dopo, le cause e le conseguenze. Certo l’occupazione delle alture del Golan avvenuta nella guerra del 1973 costituisce un antefatto idrico ai danni della popolazione e dello stato siriano.

In seguito, più di trent’anni dopo, la gestione dell’acqua dal lato dei turchi, l’erezione di altre dighe a monte del territorio siriano, la terribile siccità durata oltre due anni, i dissidi crescenti tra il bath siriano guidato da alauiti, in urto religioso con i numerosi sunniti delle regioni e stati dei confini, l’instancabile lotta dei curdi, tutto questo insieme e altri disturbi ancora hanno provocato la fame, la moria degli animali, la necessità dei contadini abitanti vaste zone della Siria di cambiare territorio per tentare di sopravvivere.

Gli spazi vuoti sono stati facilmente occupati da altri siriani, altri disperati venuti dall’estero con l’aiuto economico, politico, logistico e militare di forti gruppi religiosi o politici contrari agli Assad al potere a Damasco. Le popolazioni fuggite per l’acqua e la terra si sono riversate in città siriane, le storiche capitali, come Damasco o Aleppo che non erano in grado e non volevano accoglierle.

Non è troppo difficile immaginare lo sconquasso, gli scontri armati e la guerra aperta che i siriani di governo, gli oppositori, i predoni sempre presenti, benvisti dallo Stato Islamico, forze, partiti o gruppi organizzati e paesi interi dell’area mediorientale non hanno perso l’occasione di gettarsi nella mischia, subito imitati dalle grandi potenze che hanno armato, bombardato, avvelenato, tradito tutti, da un lato e dall’altro lato; tutti e tutti gli altri, da par loro. Come resistere, come cercare di non morire, se non buttandosi oltre i confini?

http://asud.net/wp-content/uploads/2016/07/Crisi-ambientali-e-migrazioni-forzate-def.pdf

«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla

Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.

Architetto D’Agostino, si è sbagliato sul cambio di destinazioni d’uso favorendo gli alloggi turisti?
«Premesso che quel piano è di più di vent’anni fa e volendo c’era tutto il tempo di cambiarlo, esso prevedeva la destinazione a residenza, sono state le leggi regionali e nazionali a favorire poi l’arrivo e la proliferazione di bed & breakfast, affittacamere e ora alloggi turistici. E lì che si dovrebbe intervenire, fermo restando che sono stati gli stessi veneziani a favorire queste trasformazioni, purtroppo, guardando ciascuno al proprio interesse».

Troppo tardi ora per invertire la tendenza?
«Secondo me no. Per i bed & breakfast basterebbe una squadra di vigili e tecnici dedicata che vada in perlustrazione costante per scoprire facilmente che la metà di quelli aperti non rispetta l’obbligo di un residente nell’esercizio e farli chiudere. E per gli alloggi turistici basterebbe rispettare il limite del soggiorno di almeno una settimana - anche qui con relativi controlli - per ridurre molto la tendenza».
Perché è fallita in questi anni la politica sulla residenza, a cominciare dai 5 mila alloggi promessi dalla Giunta Orsoni e mai realizzati?
«Perché dopo l’inizio degli anni Duemila non si è più “progettato”. Proprio gli interventi alla Giudecca sono una prova degli effetti positivi di un intervento pubblico. E molti progetti sono rimasti inspiegabilmente nel cassetto».

Quali?
«Penso al progetto per creare 70 alloggi in social housing alla Celestia, con il sì dell’Agenzia del demanio, a costo zero per l’amministrazione perché i fondi della Cassa Depositi e Prestiti per costruirli si sarebbero pagati con parte degli affitti. O ai 400 che avrebbero dovuto sorgere a Sant’Elena nell’area ex Actv. O ai 40 previsti nell’ex Caserma Sanguinetti all’Arsenale. Interventi pronti sulla carta, finanziabili appunto attraverso gli affitti, ma rimasti sulla carta».
Perché?
«Perché nessuna amministrazione ha voluto seriamente occuparsi, si è attrezzata per questo. Sull’Arsenale c’era poi il veto del Consorzio Venezia Nuova e il tacito accordo tra l’allora sindaco Giorgio Orsoni e l’allora presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati per lasciare che solo le imprese si occupassero di quelle aree. Così è stato per quelle lasciate alla Biennale, che almeno hanno una parziale ricaduta sul territorio. Non ci sono né idee né volontà e non a caso l’Arsenale è usato dal Comune per le feste di Vela. Senza una struttura dedicata che se ne occupi con autonomia gestionale - sia pure sotto lo stretto controllo del Comune - è difficile mandare avanti progetti, anche quando, come era avvenuto, i soldi erano stati trovati».
Intanto i prezzi delle case sul mercato libero sono diventati proibitivi per i residenti.
«I prezzi sono alti per le possibilità dei residenti attuali, ma non più alti di quelli di altre grandi città italiane, penso a Milano o a Roma. Il problema è che là c’è una potenziale base di acquirenti di milioni di persone, qui di poco più di 50 mila ed è anche per questo che gli alloggi sono venduti come seconde case o sono utilizzati a fini turistici dagli stessi veneziani che li possiedono, e che preferiscono guadagnarci sopra. Se non si riparte con gli alloggi in social housing, non può esserci ripresa demografica».

postilla

L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.

È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016

La Venezia da cartolina attira sempre più turisti, ma quella dei veneziani rischia di sparire. Gli ultimi dati del Comune sul numero dei residenti rimasti in città sono preoccupanti. A oggi sarebbero soltanto 55.075 i cittadini che resistono allo spopolamento, ma il numero è destinato a scendere a 54 mila già dai primi di settembre, secondo le proiezioni. Un calo a picco che sembra irrefrenabile. Dal 2000, quando gli abitanti erano 66.386, Venezia ha perso in maniera sistematica mille abitanti all’anno, arrivando nel 2016 ai minimi storici con una media di 2,6 residenti in meno al giorno, 956 da gennaio.

Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.

Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.

Eppure, nonostante la Guardia di finanza abbia stanato nell’ultimo periodo circa duecento strutture ricettive abusive, il problema di Venezia sembra sia proprio rappresentato da una parte di veneziani. Quelli, sempre più numerosi, che hanno trasformato la propria città in un business di acchiappaturisti scegliendo di dare in affitto la propria abitazione. Affitti spesso irregolari, con una durata dichiarata di un mese che poi diventano quattro.

Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.

Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».

Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.

«Dopo che il Tar ha bocciato il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, il sindaco Nardella e il viceministro Nencini replicano che alla fine decideranno i ministeri dell'ambiente e dei trasporti. Con un accentramento dei poteri a livello centrale ben definito nella riforma costituzionale su cui a novembre ci sarà il referendum».Il manifesto, 10 agosto 2016 (c.m.c.)

Il Tar boccia, per i tanti motivi che i lettori del manifesto ben conoscono, il progetto dell’aeroporto intercontinentale fiorentino tanto caro alla premiata ditta Renzi&Carrai? Poco male: «Tanto a decidere sarà il ministero». Questa chiave di lettura, esternata da Toscana Aeroporti, rende bene l’idea di quanto per i padroni del vapore sia seducente l’idea dell’accentramento dei poteri a livello centrale, messo nero su bianco nella riforma costituzionale su cui a novembre si terrà il referendum.

All’indomani della decisione dei giudici amministrativi, la riprova arriva con le parole del viceministro Riccardo Nencini: «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». A fare eco a Nencini ecco Dario Nardella: «Il piano bocciato dal Tar è stato superato: c’è un nuovo piano approvato dall’Enac. Quindi resta valido il percorso avviato con la valutazione di impatto ambientale che attendiamo dal ministero dell’ambiente, e la successiva conferenza dei servizi del ministero dei trasporti: il piano dell’aeroporto, sul quale il Tar non è intervenuto, va avanti». Insomma per Nardella, Nencini, e Toscana Aeroporti, decidono solo i ministeri.

Intanto però Guido Giovannelli, avvocato dei comitati no aeroporto, Medicina democratica e Ordine degli architetti di Prato, che hanno fatto ricorso contro la variante al Pit (Piano regionale integrato del territorio) che ha inserito la pista di 2.400 metri parallela all’autostrada A11, ha già inviato una diffida al ministero dell’ambiente: «Non può procedersi a Via – spiega Giovannelli – in quanto la Vas, la valutazione ambientale strategica che ne costituiva il presupposto normativo a livello regionale, è stata annullata dalla sentenza. Dunque la Via ministeriale, a queste condizioni, potrebbe essere solo negativa, venendo meno i suoi stessi presupposti, o sospesa, in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato sulla vicenda».

A seguire, proprio sul tema dei rapporti fra governo centrale ed enti locali, l’avvocato osserva: «Ho letto e sentito commenti secondo o quali questa pronuncia non cambierebbe nulla. Devo dire che trovo questa posizione contraddittoria. Se così fosse, non si penserebbe a fare ricorso al Consiglio di Stato. Cosa che è stata immediatamente annunciata». A partire da Enrico Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa». Continuando con il presidente dell’assemblea toscana, Eugenio Giani: «Sono d’accordo che la Regione impugni la sentenza; ci aiuterà anche a capire che cosa fare per perfezionare gli atti amministrativi. Io sono per votare anche subito una variante che tenga conto delle decisioni del Tar».

Fra queste, come un macigno, spicca anche il problema di Castello, l’area oggi di proprietà di Unipol che ha un piano urbanistico, approvato da Palazzo Vecchio & c., con tutti i permessi a costruire già firmati: «Non risulta possibile approvare il progetto e al tempo stesso far salva la compatibilità con le previsioni urbanistiche» di Castello, scrivono i giudici del Tar, che sul tema accolgono le critiche di «carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà e illogicità manifesta». «E chiaro quale sia l’interesse pubblico predominante», replica Nardella. Interesse pubblico? Nella zona solo la Scuola Marescialli dei Carabinieri è già costruita. E ricadrà nella zona dove il rumore sarà a ben 55 decibel. Auguri ai militari dell’Arma.

«Land Grabbing. Cento morti e arresti a migliaia tra chi non si piega all’esproprio di Addis Abeba mentre l’Italia festeggia la "sua" diga». Il manifesto, 10 agosto 2016 (p.d.)

È strage di oppositori in Etiopia, una strage che si è concentratta nei giorni tra il 6 e il 7 agosto scorsi quando almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante le proteste antigovernative nelle regioni di Oromiya e Amhara.

Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. «Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso», ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.

In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. «Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento», ha detto Kagari.

A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con postamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici.

Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese – gli Oromo, appunto – da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba.

La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine.

Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso.

In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità.

Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016

Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.


Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.

Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.

Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.

Riferimenti

Vedi sull'argomento l'articolo di Lidia Fersuoch, presidente di Italia nostra -Venezia, a proposito del complesso Sant'Andrea-Certosa

«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)

L’aeroporto di Renzi rischia di precipitare. «Il Tar ha accolto sei punti del ricorso presentato dai comitati», racconta l’avvocato Guido Giovannelli che ha curato l’azione legale contro l’infrastruttura voluta dal premier e dal governatore Enrico Rossi. Con Marco Carrai, fedelissimo del premier, a presiedere la società. E adesso il progetto rischia di fermarsi o di andare avanti con tanti paletti che ne cambieranno il volto.

I punti chiave della bocciatura? «Tanto per cominciare – spiega Giovannelli – la compatibilità della nuova opera con il Parco della Piana. Poi l’inquinamento dell’aria, perché – fanno intendere i giudici – non si possono fare studi su opere che non ci sono ancora. Infine la sicurezza idraulica della zona». Dubbi di cui il Fatto ha già più volte dato conto.

E che erano contenuti anche in un dossier presentato da professori universitari. Spiega Giovannelli: «Il Tar ha annullato il piano di indirizzo territoriale regionale nella parte in cui fissa l’ampliamento dello scalo secondo lo schema della pista parallela-convergente rispetto all’autostrada». Nelle 70 pagine della sentenza si legge: «Ogni prospettato intervento sul reticolo idrico, sul parco o sui boschi produce conseguenze rilevanti in termini di sostenibilità ambientale, la cui valutazione non può essere spostata alla successiva fase di Via».

È la questione sollevata dai comitati: la Valutazione di Impatto Ambientale che arriva a giochi fatti. Una prassi irrituale. Scrive il Tar: «La scelta della pista parallela convergente» con l’autostrada, «comporta una importante diminuzione sia del numero che della superficie totale delle zone umide». Una manciata di righe che, però, imporrebbero una radicale rivisitazione progettuale. Quindi, a pagina 42, il problema dell’inquinamento. In un’area dove oltre allo scalo aereo c’è un’autostrada.

E poi c’è la questione del termovalorizzatore: «Particolarmente delicata si presenta la questione dell’impatto» ambientale, «già l’attuale condizione della piana fiorentina presenta condizioni di criticità in ordine alla qualità dell’aria». Una zona delicatissima anche per l’equilibrio idrogeologico: «La complessità e l’incisività degli interventi previsti, in termini di interferenze con la rete delle acque, avrebbe richiesto, in forza del principio di precauzione, un’esauriente valutazione di sostenibilità ambientale, che invece è stata differita alle fasi successive».

I giudici concludono: «Il principio di precauzione in materia ambientale fa sì che ad esito della valutazione di incidenza sia preclusa la realizzazione dell’opera che risulti pregiudicare l’integrità del sito o anche dia adito a dubbi sulla compatibilità con l’integrità del sito stesso».

Infine il nodo delle ville medicee, sito Unesco che rischia di essere compromesso dall’aeroporto. Il governatore Rossi contesta la sentenza: «Confonde la valutazione strategica con la valutazione di impatto ambientale. Faremo ricorso al Consiglio di Stato». Rossi è convinto: «La sentenza non fermerà l’aeroporto». I comitati, però, pensano di aver vinto: «È la fine dell’aeroporto voluto da Renzi».

il 21 gennaio del 2011 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il Commissario per l’area archeologica della Capitale, la Soprintendenza e la Tod’s di Diego Della Valle per il restauro del colosseo. La Repubblica, 9 agosto 2016 (c.m.c.)

Prendendo spunto dal caso del Colosseo, la Corte dei Conti indica una strada virtuosa in materia di sponsorizzazioni per la tutela del patrimonio culturale. È la stessa strada che indicherebbe il buon senso: stabilire con attenzione le contropartite da concedere allo sponsor, e vegliare sul fatto che quest’ultimo faccia davvero tutto ciò che si è impegnato a fare.

Già, perché — nonostante la confusione che continua ad imperare nel discorso pubblico — lo sponsor non è un mecenate. Quest’ultimo (in Italia davvero rarissimo) dà i suoi soldi in cambio di nulla (di nulla di materiale: e cioè in cambio di legittimazione sociale, gratitudine, appagamento personale…), mentre lo sponsor imposta un’operazione commerciale grazie alla quale conta di ricavare assai più di quanto doni allo Stato.

Mentre in Francia si è preferito investire sul mecenatismo, e in particolare su quello diffuso (tanto da riuscire a raccogliere ogni anno un miliardo di euro: cifra che fa impallidire il nostro pur volentoroso Art Bonus), in Italia si è fatto largo agli sponsor.

Questa differenza si deve alla stessa ragione per cui ora la Corte dei Conti tira le orecchie al ministero per i Beni culturali: e cioè che da noi lo Stato è debole, anzi in perpetua ritirata. Ed è questo il punto: perché il rapporto Stato-privati in campo culturale (e non solo) funzioni bene, bisogna che lo Stato sia forte, e cioè che non si presenti col cappello in mano, pronto ad accettare qualunque condizione contrattuale. Perché altrimenti il rischio è la mercificazione di un inestimabile bene comune.

La Corte dei Conti invita infatti il MiBact a darsi una normativa chiara e univoca: perché finché si procederà caso per caso lo Stato continuerà ad arretrare di fronte a privati ben decisi a mettere il proprio marchio sui monumenti di tutti. Ma il governo ha appena fatto la scelta opposta: con il nuovo Codice degli appalti il privato fa la sua proposta di sponsorizzazione, che viene resa nota attraverso la Rete. Se entro 30 giorni nessun “concorrente” si fa vivo, lo Stato accetta. Tutto il contrario di una programmazione, cioè di un progetto forte e omogeneo.

D’altra parte, la cena vip offerta da Della Valle per celebrare il restauro ha imposto una chiusura di parti del Colosseo ben più lunga di quella dovuta alla famosa assemblea sindacale di un anno fa. Questa volta nessuno ha fiatato: segno che i rapporti di forza sono proprio quelli ora impietosamente fotografati dalla Corte dei Conti.

Riferimenti

Informazioni sul "regalo" dello sponsor Della Valle sono disponibili qui

Il manifesto, 7 agosto 2016

Con la caduta della capitale alle elezioni amministrative di mercoledì scorso, la débâcle per il partito di Nelson Mandela suona ancora più ineluttabile. A Pretoria ad avere la maggioranza con il 43% è la Democratic Alliance (Da) – il maggior partito d’opposizione – contro il 41% dell’African National Congress (Anc). Diversa la situazione a Johannesburg, dove i risultati ancora parziali assegnano la vittoria – anche qui di misura – all’Anc con il 44% contro il 38% dei Da. Imbarazzanti invece i risultati a Nelson Mandela Bay (che comprende Port Elizabeth, città simbolo della lotta all’apartheid), dove appare più netta la sconfitta per l’Anc con il 40% contro il 46% ottenuto dai Da.

Mentre scriviamo, con il 99% dei voti scrutinati, l’Anc emerge dominante a livello nazionale con il 53.9% dei voti (circa 9 punti percentuali in meno rispetto al 62% ottenuto nelle elezioni comunali del 2011), mentre la Da è al secondo posto con il 26.9%, seguita dall’ Economic Freedom Fighters (Eff) con l’8,19% dei voti.

L’Anc si assicura così 175 consigli e la Da 24. In 26 consigli non sarebbe stata raggiunta la maggioranza da nessun partito. Si tratta di quei comuni per cui sarebbero già in corso trattative per formare amministrazioni di coalizione. Il calo dei consensi si è registrato in almeno 8 grandi città, dove a differenza delle zone rurali i meccanismi clientelari del partito sono probabilmente meno radicati. Nonostante Anc conservi la maggioranza su base nazionale, è la sconfitta o il testa a testa in città chiave come Pretoria e Johannesburg e in roccaforti come Port Elizabeth a dare la misura del cambiamento epocale a cui dovranno prepararsi le classi politiche in lizza.

Se per l’Anc queste elezioni segnano una grave sconfitta, per la Da invece si tratta della prima più importante vittoria fuori dalla roccaforte del Western Cape dove mantiene la maggioranza schiacciante con il 63%. Così come per l’Eff, che alla sua seconda tornata elettorale, si sta imponendo come attrattore importante per gli elettori più delusi di Anc.

Ventidue anni dopo la fine dell’apartheid, il Sudafrica ha espresso per la prima volta un voto di protesta e di cambiamento. Se per due decenni infatti l’Anc ha potuto contare sul sostegno incondizionato di decine di milioni di sudafricani neri vissuti sotto il regime di segregazione razziale, d’ora in avanti per guadagnarsi la chance per governare dovrà abbandonare la logica del movimento di liberazione e guardare oltre le politiche razziali e di assistenzialismo. Che l’Anc, il movimento di liberazione che ha contribuito in modo decisivo a liberare il Paese dall’apartheid, sia stato battuto in città strategiche dal maggior partito di opposizione, la Da, notoriamente il partito che fa gli interessi dei bianchi (guidato da appena un anno dal suo primo leader nero) è un fatto indicativo.

Si tratta di una svolta storica che segna l’avvio di una nuova era che rimodella lo scenario politico in vista delle presidenziali del 2019 e inaugura l’inizio di un nuovo percorso democratico di potenziali governance alterne.

Con la fine di quello che di fatto è stato un sistema a partito unico e l’inizio delle amministrazioni di coalizione e delle alleanze politiche. Con la sconfitta di Anc, più di vent’anni dopo la fine di un regime di segregazione razziale, è l’elettorato storico del partito di Mandela a pretendere un nuovo corso politico indicando la via per una nuova riconciliazione non nel superamento ideologico delle divisioni razziali tout court quanto nella risoluzione delle gravi problematiche economiche sociali che le alimentano.

L’Anc ha perso quella che probabilmente considerava l’ovvia fedeltà dei suoi elettori storici e non è riuscito a guadagnarsi quella delle nuove generazioni, dei cosiddetti born free cresciuti in un Sudafrica libero ma preda, più di 20 anni dopo la fine dell’apartheid e due decenni di governo dell’Anc, ancora di forti diseguaglianze sociali ed economiche, in cui il potere è ancora nelle mani della minoranza bianca (8% della popolazione), la maggioranza della popolazione (i neri) soffre la mancanza di servizi di base, un alto tasso di disoccupazione (circa il 27%), vive ancora nelle township, non gode di un sistema scolastico efficiente.

Larghe fasce della popolazione che con questo voto hanno espresso il malcontento e tutta la mancanza di credibilità nei confronti dell’Anc, di Jacob Zuma e della sua leadership macchiata da diversi scandali di corruzione. Anc non può più considerare permanente – quasi di diritto per aver traghettato il Paese fuori dal regime – quel mandato per governare che l’elettorato nero gli aveva affidato all’indomani delle prime elezioni libere nel 1994 con l’elezione di Nelson Mandela primo presidente nero.

È questo l’elemento nuovo che i risultati di queste elezioni introducono nel panorama politico della giovane democrazia sudafricana che finora ha legato le sue sorti sull’«ovvia« governance del partito che si è battuto per la fine del regime di dominazione dei bianchi.

«Wwf. Un dossier lancia l’allarme sull’erosione del litorale e l’inquinamento che stanno distruggendo la costa e il mare. Solo 1.860 km i tratti di costa in buona salute. Tartarughe, uccelli e cetacei a rischio». Il manifesto, 6 agosto 2016 (c.m.c.)

Lo sviluppo urbanistico lungo il litorale italiano «ha divorato 10 km lineari di coste l’anno per 50 anni». Una «barriera di cemento e mattoni lunga 2000 km (un quarto delle nostre coste), l’inquinamento dovuto all’estrazione di idrocarburi, con «122 piattaforme offshore attive e 36 istanze per nuovi impianti», lo sversamento di rifiuti urbani, solidi e anche tossici (compresi radioattivi), l’iper sviluppo turistico che riversa sulle località costiere «il 45% dei turisti italiani e il 24% di quelli stranieri», l’impennata del trasporto via mare che fa «dell’Italia il Paese in Europa, dopo Olanda e Regno Unito, per quantità di merci containerizzate movimentate», e la caduta verticale dell’attività di pesca, con il «93% dei nostri stock ittici sovra sfruttato, e la proliferazione di impianti di acquacoltura (in 10 anni aumentati in Italia del 70%)».

Sono questi i fattori che stanno mettendo a serio rischio i nostri mari e le nostre coste. A lanciare l’allarme è il Wwf che nel suo dossier «Italia: l’ultima spiaggia» chiede subito di invertire le tendenze degli ultimi 50 anni.

«Non può che rassicurarci il fatto che questo nostro Paese abbia circa 700 km di costa (sugli 8 mila complessivi, ndr) e 228 mila ettari di mare tutelati da 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi o che l’Italia sia tra le nazioni più ricche d’Europa per la biodiversità marina», scrive Donatella Bianchi, la presidente del Wwf Italia, in premessa del corposo dossier. Però non si può dimenticare che «i tratti di costa liberi dalla urbanizzazione pervasiva più lunghi di 5 km, ad un buon grado di naturalità, non siano più del 10% di tutto il nostro litorale nel versante tirrenico e del 13% in quello adriatico».

Il consumo del suolo infatti sembra inarrestabile: secondo il Wwf che ha usato anche gli studi dell’equipe dell’Università dell’Aquila, «la densità dell’urbanizzazione in una fascia di un km dalla linea di costa è passata nella Penisola dal 10 al 21%, mentre in Sicilia ha raggiunto il 33% e in Sardegna il 25%».

Secondo i dati Istat, prendendo in considerazione la fascia costiera di un km dalla battigia, tra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti 13.500 edifici, «40 edifici per km quadrato nei versanti tirrenico e adriatico e più del doppio sulla costa jonica». Prevede l’associazione ambientalista che se le nuove edificazioni sorgessero allo stesso ritmo di quello registrato tra il 2000 e il 2010, «nei prossimi 30 anni avremmo su scala nazionale almeno altri 40.500 nuovi edifici nella fascia costiera».

L’erosione delle coste, l’inquinamento, l’ipersfruttamento turistico e l’elevato traffico di barche e mezzi acquatici di trasporto non solo modificano il paesaggio, distruggono la flora e la fauna marina, spazzano via sabbia, coralli, plancton, posedonia, spugne, e uccidono le specie rare, ma avvelenano anche i prodotti destinati al consumo umano.

Lo studio del Wwf però identifica quattro grandi aree strategiche per la biodiversità dove si concentra la maggior ricchezza dei nostri mari e da dove poter ricominciare per pianificare uno sviluppo sostenibile di tutto il litorale e l’ambiente marino italiano. Sono quattro zone «di forte interazione tra “crescita blu” sostenibile e siti di interesse conservazionisto».

Si tratta della zona tra il Mar Ligure ed il parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, del canale di Sicilia, del Mare Adriatico settentrionale e dell’area del canale di Otranto nell’Adriatico meridionale. Per capirne l’importanza, si pensi solo al fatto che, per esempio, nell’Arcipelago toscano sono stati osservati 12 specie di cetacei (balenottera comune, capodoglio, delfino comune, tursiope, stenella striata, globicefalo, grampo, zifio, balenottera minore, steno, orca, pseudorca). O che il Canale di Sicilia è «un’importante area di nursery per lo squalo bianco, una specie in via di estinzione», e «l’ultimo habitat importante per la razza Maltese, classificata in Pericolo critico». Mentre nel canale di Otranto vivono delfinoidi, foche monache e tartarughe.

Per tutelarli e tutelarci il Wwf chiede una moratoria all’edificazione nella fascia costiera, «sino a quando non saranno approvati i piani paesaggistici in tutte le Regioni», e il blocco dei rinnovi automatici di tutte le concessioni balneari, «come richiesto dalla Corte di Giustizia europea, sino a quando l’Italia non si doterà di una normativa che preveda l’obbligo di gara», e «uno stretto coordinamento operativo tra i ministeri, le regioni e i comuni».

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