«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
Critiche severe agli eccessi del turismo sregolato di massa. Lievi rimbrotti a chi quel turismo ha provocato. E silenzio plumbeo su chi ha consentito la privatizzazione di tutto il possibile per favorire il turismo di lusso. Al quale, ovviamente il turismo straccione dà fastidio. Corriere della Sera, 20 agosto 2016
Maiali, no grazie. Certo che era una provocazione, il manifestino affisso sui muri di Venezia da un gruppo venetista con un suino in mutande che buttava pattume per terra sotto la scritta «No welcome!» Una sfida offensiva verso tutti i turisti rispettosi del decoro delle calli. È solo l’ennesimo segnale, però, che i veneziani non ne possono più dell’aggressione di un turismo di massa devastante.
E il video su YouTube dei ragazzi decisi a tuffarsi nel Canal Grande come fossero a Torvajanica è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso.
Sono passati trent’anni da quell’estate del 1986 in cui l’allora assessore al Turismo Augusto Salvadori scatenò l’iradiddio sui giornali internazionali e sulla Cbs («Tre minuti tutti per me. Mi hanno detto: assessore, questo è il microfono, parli. E mi go parlà. Asciutto, incisivo, brillante: tutti i mali di Venezia. Il tappeto umano di sacchi a pelo davanti alla stazione, i picnic a San Marco, la gente che orina sulle saracinesche, i turisti che attraversano la città in gommone senza neanche la canottiera, i gondolieri che ai clienti non cantano le canzoni nostre»).
Tre decenni e molti sindaci dopo, i problemi non solo non sono stati risolti ma si sono aggravati. Gente che fa pipì sui muri senza nemmeno cercare più gli angoli nascosti. Giovanotti in bicicletta per le calli. Tende canadesi piantate qua e là nei giardini o nei campielli. Tovaglie stese sulle rive da famigliole che fanno il picnic manco se si trovassero in un’area di sosta sull’autostrada. Avvinazzati stesi nei sotoporteghi sfatti dall’alcol e completamente nudi. Bottiglie ammucchiate all’ingresso della basilica di San Marco perché con le nuove disposizioni antiterrorismo da qualche parte devono lasciarle e gli spazzini non ce la fanno a stare dietro ai cestini della zona dai quali, come ha scritto il Corriere del Veneto vengono rimossi 30 metri cubi al giorno di immondizie. Borseggiatori a tempo pieno sui vaporetti, a dispetto dei controlli che in questo solo mese di agosto hanno visto il fermo di 120 ladri. Sequestri quotidiani di paccottiglia «italian style» falsa sfornata da laboratori cinesi o napoletani.
Per non dire, appunto, del quotidiano bagno nei canali di visitatori italiani e stranieri, giovani e meno giovani che mai oserebbero mettersi in slip o bikini in altre città del mondo. Come i «foresti» di campo San Vio che, svergognati sul web da una veneziana, guardano la signora che dice loro in inglese e tedesco che «non è permesso tuffarsi nei canali» e che «Venezia non è Disneyland», con aria stupefatta. Come pensassero: che storia è questa, Venezia non è Disneyland? Non appartiene forse a chi paga sganciando euro e dollari, sterline e yen? È o non è un «divertimentificio»?
Ha scritto in un tweet il sindaco Luigi Brugnaro dopo il tuffo dal ponte di Rialto di quell’ubriaco schiantatosi su una barca che passava di sotto: «Insisto: poteri speciali alla città per l’ordine pubblico. Borseggiatori, imbrattatori, ubriachi! Una notte in cella». Minaccia ripetuta ieri: «Stiamo costruendo tutti i passaggi formali per iniziare a colpire duro. Mai fatto». Che dopo anni di lassismo occorra dare una stretta sulle regole per fermare il traumatico degrado di Venezia è vero. Che si possano mettere in riga i turisti (soprattutto quelli che «sporcano di più e spendono di meno») senza mettere in riga anche i veneziani che sfruttano in modo indecente l’alluvione turistica di chi visita Venezia come Las Vegas, però, pare difficile.
Basti leggere il comunicato di ieri della Guardia di Finanza sui risultati della campagna contro i B&B abusivi: «Nel terzo trimestre del 2015, prima di dare avvio all’operazione “Venice journey”, erano state censite poco più di 200 comunicazioni di inizio attività quali “locazioni turistiche”, mentre alla data odierna ne risultano inserite circa 1.900, con un incremento di nuove attività emerse di oltre 1.600 in valore assoluto, e dell’800% in valore percentuale».
Topaie vere e proprie trasformate in ostelli da 20 euro a notte ed edifici deluxe: «“Beautiful palazzo in quiet corner of Venice”: con questo annuncio un cittadino italiano, proprietario di una palazzina di pregio nel centro storico di Venezia, pubblicizzava la sua struttura ricettiva su diversi siti Internet», spiega la Finanza, «la locazione della magione, al prezzo variabile tra 13.000 e 25.000 euro a settimana, è dedicata soprattutto a una clientela straniera, interessata a servizi aggiuntivi di lusso quali vasca idromassaggio, bagno turco, terrazza panoramica e attracco privato per l’ingresso diretto dal canale.
Quando i militari del I Gruppo della Guardia di Finanza di Venezia con la collaborazione degli agenti della Polizia Municipale lagunare sono giunti presso la struttura, ad accoglierli hanno trovato un maggiordomo e personale di servizio in livrea: servizi aggiuntivi richiesti dal cliente di turno, evidentemente molto esigente. Peccato che l’attività di locazione fosse completamente sconosciuta al Fisco ed al Comune di Venezia». «Tutto regolare, i soldi finivano sul nostro conto corrente, forse non abbiamo pagato la tassa di soggiorno...», dicono i proprietari Giorgio e Ilaria Miani. Ci torneremo domani.
Fatto sta che in quell’estate della prima campagna dell’assessore «al decoro», i giornali stranieri si concentrarono soprattutto sulla più «pittoresca» delle iniziative, l’attacco ai gondolieri che intonavano «’O sole mio» invece che con «Nineta monta in gondola» e un quotidiano locale pubblicò la classifica delle canzoni più gettonate: 1° posto «’O sole mio», 2° «Torna a Surriento», 3° «Santa Lucia», 4° «Funiculì funiculà».
Oggi leggiamo reportage allarmatissimi come quello sul National Geographic di Lisa Gerard-Sharp: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». Di più: «Chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?».
Domanda scomodissima. Ma giusta. Recentemente il sindaco di Barcellona Ada Colau è tornata a ribadire: «Non vogliamo fare la fine di Venezia». E ha rilanciato la battaglia contro i B&B abusivi: «Noi vogliamo una città bella, ma anche sostenibile. Fra il 2008 e il 2013 il turismo è aumentato del 18% ed è troppo per noi. Barcellona non è Parigi».
Immaginatevi Venezia, che sta per scendere sotto i 55.000 abitanti. Meno di Carpi o Vigevano. Paolo Costa, il presidente dell’autorità portuale che difende il business delle spropositate navi da crociera, sosteneva anni fa in un libro scritto con Jan van der Borg che la città di San Marco poteva accogliere al massimo 12 milioni di turisti l’anno. Nel 2015 sono stati trenta. E ci vogliamo meravigliare se non sono tutti baronetti di buona educazione?
Il pericolo vero, di fronte al moltiplicarsi di appartamenti trasformati in strutture per turisti, è che l'amministrazione sia disposta a chiudere un occhio, come ha fatto finora, purché i proprietari paghino al Comune la tassa di soggiorno imposta per ogni cliente. Per quelle strutture si tratta di un euro e mezzo al giorno a persona. A nostro avviso i posti letto non dichiarati nel Comune sono circa diecimila (sui 27mila dell’intero Comune). Calcolando una media di occupazione di 200 notti all'anno, parliamo di circa due milioni di persone, che pagherebbero una tassa di tre milioni di euro.
«Venezia: continua l'operazione "Venice Journey" di Finanza e polizia municipale. Ostello con 20 letti ma con una igiene vergognosa. Scoperto anche un affittacamere abusivo. Nel timore dei controlli, ora i cittadini collaborano: incremento di nuove attività emerse dell’800% in un anno». La Nuova Venezia, 19 agosto 2016
L’operazione "Venice Journey" quindi continuerà anche nei prossimi mesi per salvaguardare gli imprenditori che operano nella legalità e che rispettano le regole, oltre che la sicurezza dei cittadini veneziani e dei turisti che soggiornano a Venezia.
«Ho agito d’impulso, ma non capiscono che possono finire tranciati da un’elica?». A parlare è Roberta Chiarotto, la signora che mercoledì pomeriggio alla vista di un gruppo di ragazzi e ragazze stranieri in mutandoni e bikini, che stavano per tuffarsi in Canal Grande dalla riva di campo San Vio - come fossero in una qualunque spiaggia - ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a riprenderli: ma a differenza dei tanti che riprendono e tacciono, sfogandosi poi solo sui social, la signora Chiarotto ha iniziato a richiamare all’ordine il gruppetto balneare (due ragazze e quattro ragazzi). In italiano, in inglese e anche in tedesco: «È proibito tuffarsi a Venezia. Questa non è Disneyland, è una città». E loro, mogi mogi, son tornati occhi bassi sui loro passi. «Siamo veramente al troppo che stroppia: sembravano sobri», prosegue la signora Chiarotto, «purtroppo temo che sia passato il messaggio che in Italia si possa fare ciò che si vuole».
Il primo progetto è in Sardegna, 6mila chilometri quadrati di mare in cui la società norvegese Tgs -Nopec vuole fare prospezioni (indagini) dei fondali marini con l’airgun: un dispositivo che spara aria compressa in acqua, produce onde che si propagano nel fondale e che, riflesse dagli strati della crosta terrestre, forniscono informazioni sulla struttura e la presenza di gas o di liquidi. Inizialmente ritenuto illegale nel disegno di legge sugli ecoreati, visto che secondo gli esperti di tutto il mondo è dannoso per la fauna marina, è stato poi eliminato dal testo con una mossa che da molti è stata interpretata come il primo dei numerosi favori fatti ai petrolieri nei mesi scorsi.
Ed ecco un altro favore: l’istanza per ottenere la Via necessaria per le prospezioni nel Mare di Sardegna viene presentata il 5 febbraio del 2015. Il 10 agosto, sei mesi dopo, il ministero chiede all’azienda una documentazione integrativa perché quella fornita non contiene tutti i rapporti e le misurazioni necessari. Il 29 ottobre, però, le richieste del ministero non sono ancora state soddisfatte e viene concessa una proroga di 60 giorni.
Ancora una volta, il tempo pare non basti e così, con una nota del 14 marzo 2016, il ministero ne concede un’altra, di otto mesi (tanto che le integrazioni arriveranno a luglio). Eppure, gli stessi documenti per la richiesta di integrazioni parlano chiaro: devono pervenire entro 45 giorni durante i quali la società deve fornire informazioni come la durata e le modalità delle operazioni – anche in relazione a quelle già in atto nelle zone limitrofe -, dati relativi alla morfologia del luogo e quelli sulle tecniche che saranno utilizzate. Ma, soprattutto, in questo caso la Tgs – Nopec deve predisporre una dettagliata relazione sulla fauna “con specifico riferimento al vicino santuario dei cetacei Pelagos” e deve riferire sulla presenza di possibili impatti ambientali, che oltretutto il ministero comunque ritiene “scarsamente fondata”.
Inoltre, deve predisporre un progetto per il “biomonitoraggio acustico” dato che l’azienda intende usare l’airgun. Stessa storia per due siti a terra, in Emilia Romagna, per i quali sono stati concessi altri due mesi di tempo per l’integrazione documentale. Nel primo caso, la Valutazione d’impatto ambientale riguarda un territorio vicino Comacchio, prossimo al sito Unesco delle Valli: la richiesta è dell’Eni. L’altra, di Enel Longanesi Development, in provincia di Ferrara. Anche stavolta il ministero ha chiesto che le integrazioni tengano conto dell’eccezionalità del territorio in cui ricadranno le prospezioni, del rischio sismico e del fenomeno della subsidenza.
Il Fatto Quotidiano ha allora chiesto al ministero dell’Ambiente spiegazioni sul perché non ci sia stato il respingimento previsto, in questi casi, dal Testo Unico Ambientale. Le risposte ne hanno confermato l’eccezionalità.
“Sul fatto che alcuni progetti rappresentino ri-proposizioni di progetti depositati negli anni scorsi – spiegano dal ministero – i progetti di idrocarburi a terra sono di competenza statale dal mese di marzo 2015”. Il riferimento è al decreto Sblocca Italia che ha reso le prospezioni e le coltivazioni petrolifere “strategiche” per l’interesse nazionale e ha spostato la competenza per il rilascio della Via dalle Regioni al ministero di Gian Luca Galletti, di fatto ignorando pareri, vincoli e volere degli enti locali. “Quanto ai tempi del procedimento come indicati dal Codice dell’Ambiente – rispondono, se si fa loro notare che le proroghe concesse non sono previste dalla legge – si evidenzia che sono da intendersi di natura ordinatoria e che l’azione amministrativa deve essere conformata al principio di economicità ed efficacia”. Tutto pur di favorire i cercatori di petrolio.
«A Latina e provincia ri-volevano la gestione pubblica del servizio: grazie ad un contratto del 2007, ora decide tutto l’istituto finanziatore.»Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Avviare un percorso di pubblicizzazione integrale della società di gestione dell’acqua”. Poche parole e le firme dei principali Comuni del Sud pontino, con in testa l’amministrazione di Latina, guidata da due mesi dal sindaco Damiano Coletta (lista civica). E un appello diretto alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per fermare l’operazione di acquisizione da parte di Acea di Acqualatina, la spa partecipata per il 49% dalla multinazionale francese Veolia che dal 2002 gestisce il sistema idrico integrato della seconda provincia del Lazio.
Il documento– presentato nel corso dell’ultima assemblea dei soci del gestore degli acquedotti del sud pontino da 19 sindaci – ha un doppio obiettivo: fermare l’espansione di Acea – intenzionata a prendere il controllo degli acquedotti nell’intera regione Lazio – e ripartire dalla gestione pubblica dell’acqua. Tutto cambia dopo lo tsunami elettorale? Non è detto. Soprattutto viste le reazioni del mondo finanziario.
Pochi giorni dopo la presentazione del documento, la banca irlandese (ma con capitale tedesco) Depfa ha bloccato – per ora – il piano delle nuove amministrazioni comunali: l’annuncio dei sindaci è un “evento rilevante” per la società. Due parole prese direttamente dall’accordo di project financing del 2007, quando l’istituto finanziario specializzato in utilities (società che gestiscono servizi) concesse un mutuo di oltre 100 milioni – collegato a prodotti derivati – in cambio di garanzie in grado di incidere sulle scelte strategiche della società: se vi sono cambi di direzione ritenuti “rilevanti” dagli analisti finanziari, la Depfa Bank può sostituirsi nell’assemblea dei soci ai comuni che firmarono il pegno delle quote. Un potere dimezzato, con i sindaci sottoposti alla tutela diretta dei grandi fondi d’investimento.
La lettera della Depfa è partita da Dublino il 5 agosto, due giorni dopo l’approvazione di una delibera della conferenza dei sindaci della provincia di Latina che rimarcava l’intenzione di riprendere il controllo della gestione dell’acqua. «La situazione sopra descritta – si legge nella comunicazione dell’istituto irlandese – (…) può comportare, tra l’altro, la mancata approvazione del bilancio».
Poi, l’accordo firmato a Londra il 23 maggio del 2007: «In ragione di quanto sopra, ritenendo l’Agente (la banca, ndr) che già sussistano i presupposti per dichiarare l’Evento Rilevante Potenziale, (…) richiede alla società di inviare copia del documento denominato ‘Documento dei sindaci dell’Ato 4 sulla società Acqualatina’». Ovvero la decisione dei Comuni di gestire il servizio idrico integrato, fermando l’acquisizione da parte di Acea. Secondo il contratto di mutuo del 2007 ora la Depfa potrà arrivare a sostituirsi ai principali comuni – tra i quali Latina, che detiene la maggioranza delle quote – durante la prossima assemblea dei soci, prevista per settembre.
La lettera della Banca fa riferimento anche al duro scontro tra i privati di Veolia (rappresentati dalla srl Idrolatina) e i comuni più critici durante l’ultima assemblea dei soci, finita con l’abbandono del tavolo da parte dei rappresentanti dei francesi. In quella occasione i comuni avevano apertamente chiesto le dimissioni del management, annunciando il voto contrario all’approvazione del bilancio 2015.
Appena un assaggio di quella che potrebbe essere la prossima battaglia sulle municipalizzate e i gestori locali dei servizi pubblici, dove i cambi di gestione in amministrazioni chiave – come Roma e Torino – potrebbero scontrarsi con il sistema di regole e accordi, anche privati, consolidati nel tempo. Su acqua e rifiuti, prima di tutto. Acqualatina per anni è stata il simbolo della privatizzazione del sistema idrico: aumenti delle tariffe, taglio dei tubi per chi non poteva pagare e la presenza della politica, soprattutto di Forza Italia, rappresentata dal senatore di Fondi Claudio Fazzone. Quattordici anni da incubo per i cittadini, che oggi si trovano sulle spalle una società legata con il sistema bancario internazionale.
«Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico».ytali online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Quanti comuni rispettano la legge, in vigore da tre anni, che impone di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato nello stesso comune? L’interrogativo si pone per una ragione molto semplice e insieme allarmante: l’Italia registra una perdita di suolo alla velocità di circa otto metri quadrati al secondo. Un’involuzione inquietante per l’ecosistema che si impoverisce di alberi e piante, fondamentali per il sostegno della vita umana e animale.
Un solo albero è in grado di produrre ossigeno sufficiente per più persone, e di assorbire enormi quantità di CO2. Secondo l’Istituto superiore perla protezione e la ricerca ambientale (Ispra) negli ultimi anni i dati in perdite sono aumentati in modo catastrofico, con un picco negli Anni ’90 quando è stata sfiorata una perdita di suolo di quasi dieci metri quadrati al secondo.
Il rimedio c’è: sta nella legge n. 10 del 14 gennaio 2013, entrata in vigore un mese dopo, che impone appunto ai comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato. Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico. In realtà la norma è tuttora ignorata dalla gran parte dei comuni. E dire che la legge è chiara e in qualche misura severa: se i comuni non ne rispettano le indicazioni, alla fine di ogni anno bisogna che le amministrazioni municipali dispongano delle varianti urbanistiche per assicurare che siano rispettate le quantità minime di spazi riservati al verde pubblico. In buona sostanza ogni comune dovrà individuare un’area nel proprio territorio da destinare a una nuova piccola forestazione urbana con posa di piante autoctone.
Il controllo del rispetto della legge e quindi dei relativi adempimenti spetta al Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio. In base a queste disposizioni ogni comune dovrà inviare al Comitato le informazioni relative al tipo di albero e al luogo della sua messa a dimora nell’ambito di un censimento annuale del nuovo verde urbano.
Ma quanti sono i comuni che rispettano quest’obbligo? Non esiste un dato, neppure approssimativo. Ma tutto lascia ritenere che siano poche, pochissime, le municipalità che hanno provveduto e provvedono in questo modo ad una sempre maggior tutela del verde pubblico, e al suo progressivo sviluppo. E dire che, per sollecitare l’applicazione della legge, è stata persino introdotta una “Giornata nazionale dell’albero” che si celebra ogni anno il 21 novembre con l’obiettivo di “perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto” e di promuovere “attività formative in tutte le scuole”.
In Parlamento sono state presentate interrogazioni, in più riprese e da più parti politiche, per conoscere dai ministeri dell’Ambiente e delle Politiche agricole che cosa intendano fare perché sia rispettata la legge del 2013; e perché non prendano iniziative perché sia piantato un albero per ogni nuovo nato. Ma c’è una terza questione sul tappeto: perché, al fine di prevenire e contenere le alluvioni e il dissesto idrogeologico, e di tutelare la salute di ogni cittadino, il governo non assume iniziative volte a investire risorse economiche per integrare l’opera di piantumazione di nuovi alberi con quella di recupero dei territori maggiormente esposti a frane? Nessuna risposta.
New York Times” indaga successi e fallimenti dei responsabili venuti dall’estero alle prese con il sistema Italia». La Repubblica, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Compie un anno quel pezzo di riforma dei Beni culturali che ha portato l’autonomia e nuovi direttori in venti fra musei e siti archeologici italiani. In realtà i direttori si sono insediati fra l’autunno e la fine del 2015, ma è stato nella calura dell’agosto scorso che essi sono stati designati dopo una selezione pubblica. Venti nuovi direttori, sette dei quali stranieri. Un anno di piccole e grandi rivoluzioni, ma anche di critiche serrate e di polemiche. L’anniversario rimbalza negli Stati Uniti, dove il New York Times dedica un lungo reportage alla vicenda. Che mette in evidenza luci e ombre, cambiamenti e resistenze e che si chiude con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, il quale, sorridendo, esclama: «Mi hanno messo a fare un lavoro sporco (dirty work), sarebbe meglio che non mi abbandonassero proprio ora».
C’è alle viste il pericolo di lasciare a se stessi storici dell’arte, curatori e archeologi venuti dall’estero per occuparsi di parti pregiate del nostro patrimonio? E ciò andando incontro a uno smacco internazionale di proporzioni poco immaginabili? Ancora è presto per affermarlo. Inoltre i segnali che arrivano dai diversi direttori non lasciano intravedere nubi. Ma le difficoltà che essi incontrano sono quelle che da tempo vengono denunciate: organici carenti, personale molto anziano (oltre il 50 per cento ha più di sessant’anni e fra non molto andrà in pensione), strutture al collasso, leggi farraginose, pastoie burocratiche.
I venti nuovi direttori sono solo la parte più appariscente della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini (e tanto più lo sono i direttori stranieri, fra i quali, oltre a Schmidt, figurano James Bradburne a Brera, Sylvain Bellenger a Capodimonte o Gabriel Zuchtriegel a Paestum). L’obiettivo principale è l’autonomia gestionale e finanziaria dei musei, prima agganciati alle soprintendenze, dalle quali provenivano i direttori.
La scelta è stata netta e su di essa si sono concentrate le accuse: si è voluto smantellare un sistema durato per tutto il Novecento, fondato su un legame stretto fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bilanci di quanto questa frattura abbia prodotto in positivo o in negativo è ancora difficile poterli tracciare. C’è chi sottolinea una spiccata agilità nel prendere decisioni, nell’avviare innovazioni. Chi invece lamenta il rischio di conflitti: la tutela dei beni esposti nei musei resta, ed è naturale, di competenza dei soprintendenti. C’è chi rileva il dinamismo dei nuovi direttori (dove più dove meno), chi segnala che le questioni strutturali restano inevase. C’è chi plaude ai cambiamenti, chi lamenta che negli anni i tanti cambiamenti imposti a una struttura fragilissima sono come un perenne sciame sismico.
Il New York Times mette in evidenza lo scarto fra le iniziative dei direttori e il contesto. L’episodio dal quale parte l’autrice, Rachel Donadio, è noto: la multa affibbiata nel maggio scorso dai vigili urbani di Firenze a Schmidt pescato perché da un altoparlante invitava i visitatori in fila davanti agli Uffizi a fare attenzione a borseggiatori e bagarini. Non aveva l’autorizzazione: 422 euro di sanzione, pagati da Schmidt di tasca propria. Il giornale americano enumera gli sforzi dello storico dell’arte tedesco – l’abbattimento delle file di visitatori, l’ampliamento della galleria, la riorganizzazione dell’amministrazione e dei servizi di custodia, l’apertura del Corridoio Vasariano – e li mette alla prova di resistenze burocratiche, di norme contraddittorie. «È come giocare una partita multipla di scacchi», commenta il direttore.
La riforma, intanto, procede. Ai musei vengono attribuiti fondi speciali per realizzare progetti da tempo in cantiere. E si sono appena chiusi i bandi per selezionare i direttori di altri nove fra musei e siti archeologici o monumentali, mentre il 15 settembre terminerà quello per il Museo Nazionale Romano, che prima era stato destinato all’autonomia, poi era tornato fra le strutture dirette da personale della soprintendenza, quindi di nuovo reso autonomo: una giravolta non inedita dalle parti del Mibact. Fra gli altri siti, per i quali sono arrivate circa 400 domande, figurano Ercolano, la Pilotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. A Roma sono compresi i musei dell’Eur e il museo etrusco di Villa Giulia e gli scavi archeologici di Ostia Antica.
Ecco infine due “parchi archeologici”, tutti da inventare: quello dei Campi Flegrei, a nord di Napoli, e soprattutto l’Appia Antica, che non è un’area a pagamento, essendo un pezzo di città che si spinge verso i Castelli romani, in larghissima parte in mano a privati. L’Appia Antica è stata retta per vent’anni da Rita Paris, con energia e dedizione universalmente riconosciute. Ha avuto sempre a disposizione mezzi scarsi e con questi ha compiuto salti mortali. Chissà se con strutture e strumenti adeguati la condizione dell’Appia sarebbe migliorata. Ma al ministero si è deciso di cambiare tutto.
In tre articoli il racconto di uno scempio programmato per infilzare l'Abruzzo con uno spiedo autostradale sventrando siti protetti e paesaggi incontaminati. C'è chi denuncia e resiste. Il manifesto, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
IL PIANO PER
SVENTRARE L'ABRUZZO
A Cocullo, nell’Aquilano, il casello autostradale dell’A25 è a circa un chilometro e mezzo dal paese. Duecentocinquanta abitanti («in estate di più»), circa mille metri d’altitudine, è borgo celeberrimo nel mondo per l’annuale processione del primo maggio, con la statua di San Domenico avviluppata da centinaia di serpi catturate, nelle precedenti settimane, dai suoi residenti, tra pietre e cespi d’erbe.
L’autostrada qui è arrivata neppure tanto tempo fa, nel ’78. «È una risorsa – dice il sindaco neo eletto Sandro Chiocchio -, soprattutto per il turismo, che è occasione da cogliere in una realtà che, di fatto, per crescere, deve sfruttare bellezze e tradizioni del territorio. Ora a rischio sono sia l’autostrada sia gli splendidi scenari montani».
Perché in ballo c’è un progetto del gruppo imprenditoriale Toto, che gestisce la rete autostradale A24 (L’Aquila-Roma) e A25 (Pescara -Roma), la cosiddetta «Strada dei Parchi» – dal pedaggio tra i più costosi d’Italia – «il più rapido collegamento diretto tra Tirreno e Adriatico, infrastruttura di trasporto di elevato valore economico e strategico», si legge nel sito internet della holding che intende sventrare e asfaltare l’Abruzzo, in lungo e in largo.
Il piano prevede infatti la realizzazione di varianti, assi di penetrazione e di interconnessione, tunnel a volontà con paesaggi annientati, costoni rocciosi bucati e falde che verrebbero intaccate in maniera irreversibile, con una “monumentale” perdita di acqua. Progetto che nasce dall’interesse di un privato e non da programmazione statale: dieci anni di lavori, interventi per 6 miliardi. Niente fondi pubblici ma aumenti certi dei pedaggi (inevitabili, perché il treno per compiere quello stesso percorso, su una monorotaia, impiega più del doppio del tempo) e la società promotrice in cambio guadagnerebbe la gestione del tratto autostradale per altri 45 anni (oltre ai 28 già stabiliti).
«Ricostruire invece che mantenere».
L’idea è di rimodulare l’autostrada esistente in «considerazione della classificazione di A24 e A25 quali opere strategiche per finalità di protezione civile». Inoltre – recita il progetto preliminare – c’è necessità «di adeguamento e messa in sicurezza dei viadotti e degli impianti in galleria». Per sopperire alle carenze e per ammodernare sarebbero necessari interventi di manutenzione straordinaria e invece… Invece si vuole smantellare e ricostruire, cambiando tragitto, aggiungendo, distruggendo.
Le carte, tra continue revisioni, raccontano di demolizioni di tronchi autostradali, apertura e chiusura di caselli, raccordi e svincoli elevati qui e là. È prevista la realizzazione di 10 tunnel, a doppia canna più corsia d’emergenza, per circa 50 chilometri complessivi, in zone altamente sismiche. Un progetto faraonico, con distruzione e stravolgimento irreversibile dei territori (nella mappa, in rosso in nuovi tratti da costruire). Per quali fini? Perché, secondo Toto, è più agevole rifare che aggiustare. Adeguare significherebbe, viene fatto presente, «cantieri sulla viabilità autostradale, con necessità di chiusura delle tratte soggette a lavori, con ripercussioni notevoli sul comfort di viaggio…». Per scongiurare ciò, ecco colate infinite di cemento e catrame.
Sulla nuova autostrada – viene ancora specificato – «la velocità massima potrà essere di 130 chilometri orari, come da legge, mentre attualmente la velocità media possibile è di 90 chilometri, per la presenza delle elevate pendenze longitudinali, per le alte quote». Queste le motivazioni addotte e gli ambientalisti si sono infuriati. «Si promuove il progetto – spiegano – ipotizzando risparmi di tempo immaginari e comunque di manciate di minuti e sostenendo che adesso la velocità media di percorrenza possibile è di 90 km/h come si legge nel parere favorevole di un dirigente della Regione Lazio! Con la nostra esperienza diretta fatta, più volte, con un misero Pandino e senza superare i limiti ci pare di poter smentire questo dato. Inoltre, allontanando l’autostrada dalla Valle Peligna, dalla Valle del Sagittario, dalla Valle del Giovenco, e dall’Alto Sangro, non si è calcolato che i tempi di percorrenza per molti cittadini aumenterebbero a dismisura».
Le montagne bucate
«Nel progetto – rileva il coordinamento “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” che abbraccia decine di associazioni, comitati, movimenti, partiti e sindacati – oltre alle varianti, si prospetta una doppia galleria tra il territorio del Parco nazionale d’Abruzzo e Roccaraso, con traforo sotto la Montagna Grande e il Genzana. Ipotesi incredibile e costi assurdi per limitatissimi volumi di traffico. Le zone interne verrebbero letteralmente massacrate, con tunnel che andrebbero a martoriare gioielli ambientali unici in Europa».
Solo il massiccio del Sirente, dove c’è l’unico cratere da impatto di meteorite italiano, verrebbe devastato con un traforo di 12,75 km e con altre due gallerie di 2,3 km e 3,9 km che sarebbero collegate ad un viadotto sulle Gole di San Venanzio. I Monti Simbruini sarebbero perforati per 9,88 km. «Abbiamo sovrapposto i tracciati con i perimetri delle aree protette – sottolineano dal coordinamento – : sarebbero direttamente coinvolti il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise; il Parco regionale del Sirente-Velino; la Riserva del Monte Genzana e quella delle Gole di San Venanzio, senza considerare le riserve limitrofe: di San Domenico a Villalago e delle Gole del Sagittario». La Val Vomano (Teramo), che presenta ancora un po’ di agricoltura, sarebbe distrutta da 24 chilometri di strade «con consumo di suolo irreparabile e risibili vantaggi a fronte di spese assurde».
In Valpescara il comune di Spoltore e la frazione di Santa Teresa verrebbero separate da una bretella: quest’ultima sarà ridotta ad uno spartitraffico. Progetto avallato dalla Regione Abruzzo ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha finora ricusato. E decine di Comuni – delle province di L’Aquila, Teramo e Pescara – sono sul piede di guerra. Grandi e piccoli. «Basta affacciarsi da queste parti – riprende il sindaco Chiocchio – per rendersi conto delle condizioni, da denuncia, in cui versano alcuni piloni autostradali. Se la cura dell’esistente è già scarsa, chi gestirebbe la costosissima manutenzione dei lunghi tratti che verrebbero dismessi? Siamo contro perché il progetto è deleterio e taglierebbe fuori l’intera zona dai principali collegamenti viari. Senza contare il disastro ambientale».
La Valle del Sagittario – con Cocullo, Villalago, Anversa – vanta ambienti esuberanti – con canyon ed eremi -, tutelati per le loro caratteristiche. È rifugio di animali selvatici, dai lupi all’orso bruno marsicano, che qui è autoctono. E che di sicuro, al bitume, preferisce ciliegi da razziare.
TUTTI CONTRO IL PROGETTO TOTO
TRANNE REGIONE E PD
«Cinquanta chilometri di tunnel, lunghi come cinque trafori del Gran Sasso. Parchi, riserve e aree protette deturpati. Impatti irreversibili, comunità isolate, connotati della regione modificati, sfigurati».
Il progetto del gruppo imprenditoriale Toto di abbattere e in parte rifare le autostrade A24 e A25 ha «incocciato» la resistenza di un Abruzzo deciso a bloccare la proposta. «Abbiamo una visione alternativa della gestione del territorio – dicono gli ambientalisti, i primi a scendere in campo dopo essere riusciti a scovare mappe ed elaborati tecnici nascosti a lungo dalla Regione – ed è basata sul rilancio del trasporto pubblico collettivo, a partire dalle ferrovie, e sul risanamento del territorio, l’unica vera grande opera necessaria: dalla depurazione alle bonifiche, passando per il dissesto idrogeologico».
Invece piace tanto alla Regione Abruzzo il progetto e, in particolare, piace al presidente Pd Luciano D’Alfonso, che spinge e accelera.
In Regione, con delibera 325 del 5 maggio 2015, per seguire la faccenda, è stato istituito un Gruppo interdipartimentale che, il 6 giugno scorso, ha emesso un primo parere tecnico favorevole. Questo nonostante esistano più versioni del progetto (l’ultima del 13 aprile) e che una nuova sia in fase di predisposizione. Senza sapere quali saranno le variazioni, senza interpellare le comunità locali, tenendo ben celati pezzi di documenti e delibere, è stato detto sì ai mastodontici interventi.
Pur rilevando, comunque, che bisogna considerare «l’impatto delle gallerie a livello idrogeologico, anche in relazione alle problematiche che emersero durante la realizzazione del traforo del Gran Sasso». E pur evidenziando che l’autostrada in programma attraversa almeno tre «faglie pericolosamente attive» (del Fucino, dei Monti Capo di Moro-Ventrino e della Valle Subequana), quindi sarebbe un percorso «ad alto rischio sismico rispetto all’attuale tracciato». Anche per ciò il fronte del no cresce, si allarga giorno dopo giorno, è ampio ed è trasversale, anche a livello politico. Per le ragioni più disparate.
«Le decine di chilometri di scavi attraverserebbero montagne carbonatiche letteralmente piene d’acqua, la risorsa più preziosa – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua e coordinamento «No Toto» -. Stiamo parlando del patrimonio idrico con cui ci dissetiamo e che alimenta fiumi e sorgenti utili a industria ed agricoltura. Ebbene, considerando solo i trafori, sarebbero toccati almeno 10 corpi idrici sotterranei di interesse, più di un terzo di quelli dell’Abruzzo e tra i più significativi, un’enormità nell’epoca dei cambiamenti climatici. Ricordiamo – viene aggiunto – che il traforo del Gran Sasso, che ha comportato danni irreversibili alla falda abbassandola di 600 metri, era lungo solo 10 chilometri».
Contro, finora, si sono espressi Forza Italia, Ncd, Abruzzo Futuro, Sel- Sinistra italiana, Radicali, Italia Unica, Rifondazione comunista. Il Partito democratico è (come al solito) spaccato. Si oppongono Cgil e Cobas.
Il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interpellanza parlamentare urgente per avere lumi. E, in risposta, dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, l’opera è stata definita «non sostenibile sotto il profilo tecnico, amministrativo, giuridico ed economico-finanziario». Fa presente il deputato grillino Gianluca Vacca: «È stata di fatto certificata la totale mancanza di qualsiasi presupposto normativo e amministrativo, confermando che gli unici lavori possibili sono appunto quelli di manutenzione e messa in sicurezza dell’attuale percorso, per un investimento totale stimato di circa un miliardo».
«Un progetto di tale portata calato sul territorio senza informare le istituzioni locali, senza chiarezza, senza confronto: è inaccettabile», tuona il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, che guida una coalizione di centrosinistra e dal cui Consiglio comunale è arrivata una unanime bocciatura all’iniziativa. «Insieme ad altri trenta Comuni, per capirci di più, per approfondire, stiamo promuovendo riunioni, anche di carattere tecnico scientifico. Di fronte ad interessi imponenti, bisogna tenere alta la guardia. Il territorio lavorerà coeso, per evitare di essere deturpato, pensando al proprio sviluppo. Altrimenti chi ci difenderà?».
GLI INTRECCI
DEL POTERE CEMENTIZIO
«Dati i notissimi legami Luciano D’Alfonso-Toto, confermati dai procedimenti giudiziari che li hanno riguardati e li riguardano, il presidente della Regione Abruzzo farebbe bene a dimettersi e andare a lavorare direttamente nel gruppo (anche il ruolo nell’Anas appare incompatibile)».
La stoccata, frontale, al governatore dell’Abruzzo parte da Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista, e l’occasione è data proprio dallo «scellerata trovata di Toto di adeguamento dell’autostrada A24/A25».
Un progetto inopportuno, secondo Acerbo, e «D’Alfonso – afferma – da esperto di infrastrutture e dirigente dell’Anas non può non sapere che l’operazione che sta sponsorizzando rappresenta una forzatura enorme, anche sul piano normativo e non solo su quello dello scempio ambientale».
L’accoppiata Toto-D’Alfonso, come ricorda l’esponente di Prc, è sinonimo di intrecci affari-politica che più d’una volta sono finiti all’attenzione della magistratura. È ancora in corso il processo sulla strada fantasma Mare-Monti a Penne, nato in seguito a proteste di Wwf e Prc e che ruota intorno ad un appalto da 22 milioni di euro, che prevedeva la realizzazione di un viadotto che sarebbe passato nel perimetro della riserva naturale del lago di Penne. Area protetta salvata dall’intervento di Forestale e carabinieri. «Quasi un’anticipazione – dice Acerbo – della mega devastazione che oggi, con questo nuovo progetto, propongono».
Risale invece al 2008 l’arresto di D’Alfonso, allora sindaco di Pescara e segretario regionale del Pd, per presunte tangenti in appalti pubblici. Tra i 21 indagati – per concussione, corruzione, falso e abuso – anche il patron di Air One, Carlo Toto, suo figlio Alfonso e tecnici del Comune.
Secondo l’accusa i Toto avevano riempito il primo cittadino di regali per ottenere lavori, tra cui l’affidamento in concessione dei parcheggi dell’area di risulta a Pescara. Alla fine – nel cosiddetto processo “Housework” perché in ballo c’erano anche interventi alla villa di D’Alfonso – è stato acclarato, con sentenza di assoluzione, che tutti quei “doni” a D’Alfonso c’erano stati ma erano conseguenza di un’amicizia di vecchia data: un’auto con autista per tre anni, dal settembre 2004 al gennaio 2007, pagata dai Toto; voli gratis sulla compagnia area di proprietà, pranzi e cene per circa 11 mila euro, viaggi, benefit, contributi. «D’Alfonso, che si è avvalso anche della prescrizione, è operativo più di prima.
Di recente – sottolinea Acerbo – ha infatti annunciato quella che ha definito una nomina storica, ossia quella di un architetto abruzzese nel Consiglio superiore dei Lavori pubblici (Gianluca Marcantonio, ndr).
Per la prima volta – ha detto D’Alfonso – un abruzzese entra nell’organismo. E guarda caso l’illustre designato è stato testimone della difesa in un suo processo. Dato il rapporto con D’Alfonso non so se questa nomina gioverà all’Abruzzo, – conclude Acerbo – considerato il ruolo che il presidente sta svolgendo di sostegno a progetti al di fuori della programmazione regionale, come quello dell’A24/A25».
«PORTO MARGHERA
ULTIMA OCCASIONE»
di Carlo Mion
Marghera. Le grandi fonderie e fabbriche siderurgiche nate all’inizio del seconolo scorso (dalla Sava, all’Alumix fino all’Alcoa) ormai è stata praticamente azzerata, lasciando capannoni vuoti e fatiscenti in aree abbandonate a se stesse e piene di veleni. Anche la parabola della chimica di base italiana che ha fatto la storia di Porto Marghera, qui è cominciata occupando decine di migliaia di lavoratori ai bordi della laguna e qui ora sta sparendo quasi del tutto, ancor prima della possibile rinascita in una nuova versione “green” che utilizza oli vegetali al posto deo derivati del petrolio. “E mo', e mo', Moplen!” diceva con il suo faccione da clown l'indenticabile Gino Bramieri pubblicizzando in televisione la rivoluzionaria plastica di propilene prodotta per dalla Montecatini sulla scia della scoperta di una nuova sostanza plastica polimerica fatta dal premio Nobel Giulio Natta.
«la creazione di un modello di accoglienza per richiedenti asilo, il sindaco di Riace Mimmo Lucano va avanti su un un’altra questione vitale: l’acqua come bene comune». Il manifesto, 17 agosto 2016 (c.m.c.)
E’ stato in marzo che il magazine Fortune ha inserito fra le cinquanta personalità più influenti del mondo, unico italiano, il sindaco di Riace per il suo impegno e lungimiranza nel costruire un modello di accoglienza per richiedenti asilo in grado di connettersi con piccole comunità calabresi a rischio di spopolamento. «La più grande opera pubblica che potevamo fare», commenta il sindaco.
Molti conoscono il modello di accoglienza di Riace (su questo giornale ne abbiamo scritto quando nacque nel lontano 1999!) , un modello che dimostra come i migranti potrebbero far rinascere le aree interne e spopolate del nostro paese.
Ma, come abbiamo proposto in altre occasioni ci vorrebbe un progetto su scala nazionale ed una nuova Riforma agraria che miri a recuperare case e terreni abbandonati ( e sono tanti non solo nel Sud), a far rivivere le botteghe artigiane, con l’inserimento lavorativo di italiani e migranti. Un progetto nazionale a cui Riace ha dato la prova che si può fare.
Di fronte alla sordità o ottusità dei governo nazionale il sindaco di Riace non si è arreso ed è andato avanti su un un’altra questione vitale : l’acqua come bene comune. Riace si sta liberando dalla dipendenza dalla Sorical, società mista con la multinazionale Veolia come socio privato, che in Calabria gestisce l’acqua pubblica e la fa pagare profumatamente ai cittadini, oltre a non investire nella manutenzione straordinaria di cui abbisognano i vecchi acquedotti della regione.
Un videro amatoriale presenta uno scroscio d’acqua violento che si abbatte su un secchio, acqua che spruzza, che deborda, che allaga tutto intorno, la scritta che accompagna le immagini dice: «Questa sorgente d’acqua ha visto la luce grazie al coraggio e perseveranza del sindaco di Riace Domenico Lucano, assistito dal geologo Aurelio Circosta, progettista e direttore dei lavori».
Non è stato facile, né tecnicamente, né dal punto di vista amministrativo. Sul piano tecnico, la falda acquifera è stata trovata in località Coltura, sinistra orografica del torrente Riace che collega l’abitato della Marina di Riace con il capoluogo comunale; dopo uno studio accurato condotto con elettrosondaggi, rilievi eseguiti nel dicembre 2015, grazie ad un lungo lavoro del geologo Circosta.
La relazione del geologo evidenzia il ritrovamento di colline argillose con una captazione della sorgente a 157 mt di profondità, mediante l’introduzione di una elettropompa sommersa è stato possibile valutare l’uscita dell’acqua di 25 litri al secondo.
Ma, come si poteva finanziare la ricerca e i lavori per il prelievo della falda, nonché la costruzione di una connessione all’ acquedotto comunale? Il ragioniere del comune di Riace mostrava al sindaco un bilancio preventivo 2016 dove non c’era un euro in più da spendere.
Con il coraggio che oggi è assolutamente necessario per gestire gli enti locali, Domenico Lucano decise di inserire in bilancio la metà del costo dell’acqua pagata alla Sorical nell’anno 2015, pari a circa 180mila euro, contando di terminare i lavori entro giugno 2016. In altri termini, il comune faceva un investimento con denaro che non aveva, ma avrebbe avuto al termine dei lavori con il risparmio sul pagamento dell’acqua nel periodo luglio/dicembre 2016.
Il sogno si è avverato. L’acqua è oggi a Riace davvero un bene comune e presto i cittadini ne vedranno chiaramente i benefici anche sul versante della spesa familiare (si stima un risparmio per famiglia di circa il 70% sulla bolletta dell’acqua).
E si tratta di un’acqua potabile, certificata, migliore di quella distribuita dalla Sorical. E’ stato possibile collegare il pozzo in località Coltura con una condotta del diametro di 200 mm e lungo 2500 mt. La potabilità dell’acqua viene rilasciata con certificato dall’Azienda sanitaria provinciale di Siderno il 24 maggio del 2016 «esito di conformità ai parametri di legge».
L’Arpacal evince la mancanza di minerali pesanti, di antiparassiti, di idrocarburi, batteri e composti organici, un aspetto positivo, segnala Circosta, da attribuire alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche del giacimento, l’acqua protetta da una coltre argillosa impermeabile che garantisce l’impossibilità alla contaminazione da agenti inquinanti e assicura la potabilità per il presente e il futuro.
Era il 2009 quando un campo di lavoro dell’Arci ragazzi provenienti da molte parti d’Italia aveva visto decine di giovani lavorare sotto il sole per costruire murales, uno di questi riguardava la casetta con fontanella e la scritta «Acqua bene comune». Nel Il paese dei Bronzi (2010) di Vincenzo Caricari, uno dei primi documentari su Riace, testimonia un consiglio comunale dove il sindaco di Riace propone di inserire nello Statuto «l’acqua è un bene pubblico e tale deve rimanere».
Altri comuni calabresi, in testa quelli della Sila e preSila, stanno seguendo la stessa strada, territori ricchi d’acqua finora malgestita (numerose le interruzioni di forniture idriche) e sfruttata da privati e politici corrotti.
È l’anno 2050 e Israele ha realizzato la sua visione di Gerusalemme: i visitatori arriveranno in un centro high-tech a maggioranza ebraica in mezzo ad un mare di turisti, con una presenza minima di palestinesi. Per ottenere questa visione, Israele sta lavorando a tre master plan: uno è noto, ma due restano fuori dai radar.
Edward Said aveva già avvertito nel 1995: «Solo progettando prima un’idea di Gerusalemme, Israele potrà procedere a cambiamenti sul terreno che corrispondano a queste immagini e proiezioni». L’idea israeliana di Gerusalemme prevede la massimizzazione del numero di ebrei e la riduzione di quello di palestinesi attraverso un graduale processo di colonizzazione, sfollamento e spossessamento.
Il più noto dei tre master plan è il Jerusalem 2020. I meno noti sono il Marom Plan e il Jerusalem 5800 Plan, meglio conosciuto come Jerusalem 2050. Il Jerusalem 2020 Master Plan è stato preparato da una commissione nazionale di pianificazione e pubblicato la prima volta nel 2004. È il primo piano spaziale comprensivo e dettagliato sia per Gerusalemme Ovest che Est dall’occupazione israeliana del 1967. Comprende lo sviluppo di diverse aree: pianificazione urbana, archeologia, turismo, economia, educazione, trasporti, ambiente, cultura e arte.
Il Marom Plan è il prodotto di una commissione governativa. L’obiettivo è promuovere Gerusalemme come «città internazionale, leader nel commercio e nella qualità della vita nel settore pubblico». Il Jerusalem 2050 è un’iniziativa privata di Kevin Bermeister, innovatore tecnologico australiano e investitore immobiliare. Il piano fornisce progetti per Gerusalemme fino al 2050, fungendo da «master plan di trasformazione» della città. È diviso in vari progetti indipendenti, ognuno dei quali realizzabile in autonomia.
Turismo, educazione e high-tech
Il Comune di Gerusalemme punta a promuovere il turismo e in particolare gli aspetti culturali con una campagna di marketing che aumenti il potenziale dello sviluppo immobiliare, sostenga il turismo locale e internazionale e investa nelle infrastrutture turistiche.
Il governo israeliano ha stanziato 42 milioni di dollari per sostenere Gerusalemme come meta turistica internazionale, mentre il Ministero del Turismo dovrebbe allocare circa 21.5 milioni di dollari per la costruzione di hotel e offrire specifici incentivi agli imprenditori e le compagnie che costruiscono o ampliano alberghi a Gerusalemme e organizzano eventi culturali per attirare visitatori, come il Jerusalem Opera Festival, o eventi per l’industria del turismo, come il Jerusalem Convention for International Tourism.
Promuovere il settore turistico è anche alla base del Jerusalem 2050 che immagina Gerusalemme come «città globale, importante centro turistico, ecologico, spirituale e culturale mondiale», che attiri 12 milioni di turisti e oltre 4 milioni di residenti. Punta ad aumentare gli investimenti privati, la costruzione di hotel, giardini-terrazza e parchi e la trasformazione di aree che circondano la Città Vecchia in alberghi, vietando la circolazione delle auto. Il piano prevede poi la costruzione di un sistema di trasporti di alta qualità compresa una linea ferroviaria di alta velocità e una rete estesa di autobus; l’aggiunta di superstrade e l’espansione di quelle esistenti; e la costruzione di una “super autostrada” che attraversi il paese da nord a sud. Infine propone la costruzione di un aeroporto nella valle di Horkania, tra Gerusalemme e il Mar Morto, per servire 35 milioni di passeggeri l’anno.
Tenta di presentarsi come piano apocalittico che promuove «la pace attraverso la prosperità economica», ma ha obiettivi demografici che dimostrano il contrario: i 120 miliardi di dollari di valore aggiunto derivanti dall’implementazione del piano, insieme a 75-85mila impieghi negli alberghi e i 300mila nelle industrie dell’indotto, attireranno più ebrei a Gerusalemme, aumentandone il numero e facendo pendere la bilancia demografica ebrei-palestinesi a favore dei primi.
Il settore turistico non è visto solo come motore di sviluppo economico per attrarre ebrei in città. È un mezzo per controllare la narrativa e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno come «città ebraica». Questi piani vanno infatti di pari passo con le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo della stessa industria palestinese a Gerusalemme Est: l’isolamento dal resto dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente dopo la costruzione del Muro; la perdita di terre e i costi conseguenti; le deboli infrastrutture; le alte tasse; le restrizioni nel rilascio dei permessi per la costruzione di hotel o la conversione di edifici in alberghi; le difficili procedure per ottenere licenze per gli uomini d’affari palestinesi. Questi ostacoli, insieme ai milioni di dollari che vengono versati nel mercato turistico israeliano, fanno sì che l’industria turistica palestinese non abbia speranza di competervi.
Un altro obiettivo comune dei tre piani è attirare ebrei da tutto il mondo attraverso lo sviluppo di due industrie avanzate: l’educazione superiore e l’high-tech. Il 2020 Master Plan punta alla costruzione di un’università internazionale con l’inglese come principale lingua. Il Marom Plan vuole fare di Gerusalemme «una città accademica di riferimento» che attragga sia studenti ebrei che stranieri, che siano incoraggiati a fermarsi a Gerusalemme una volta terminati gli studi. Sulla stessa linea, il Jerusalem 2050 vede come un’opportunità la creazione di impieghi e crescita economica attraverso “il turismo educativo di lunga residenza”. Un’industria intrinsecamente collegata allo sviluppo di high-tech, bio-informazione e biotecnologie. Il 2020 Master Plan fa appello alla creazione di un’università per la gestione e la tecnologia nel centro di Gerusalemme e per l’assistenza governativa nella Ricerca e lo Sviluppo (R&D) nei campi dell’alta tecnologia e della biotecnologia.
Sradicare la comunità palestinese
Mentre Israele lavora per trasformare Gerusalemme in un centro d’affari, i problemi di Gerusalemme Est sono infiniti. Tra questi lo schiacciamento del business palestinese e del settore commerciale e la debolezza del settore educativo e delle infrastrutture. Il risultato del soffocamento del potenziale di Gerusalemme Est? Il 75% dei palestinesi – e l’84% dei bambini – vive sotto la soglia di povertà. Inoltre, c’è una crescente crisi identitaria a Gerusalemme Est, in particolare tra i giovani a causa dell’isolamento dal resto dei Territori Occupati, del vacuum istituzionale e di leadership e la perdita di speranza in un cambiamento positivo. Il Muro è una delle principali misure demografiche che Israele ha preso per garantirsi una maggioranza ebraica e rafforzare i confini politici de facto della città, trasformandola nella più grande in Israele. È costruito in modo da permettere a Israele di annettere altri 160 km² di Territori e di separare fisicamente oltre 55mila gerusalemiti dalla città. Pianificazione e sviluppo nei quartieri che ora sono al di là del Muro sono estremamente poveri e i servizi governativi e comunali sono virtualmente assenti, nonostante i palestinesi continuino a pagare la tassa di proprietà, l’Arnona.
La pianificazione urbana è un altro dei principali mezzi geopolitici e strategici usati da Israele dal 1967 per stringere la morsa su Gerusalemme e ridurre l’espansione urbana palestinese. È il cuore del 2020 Master Plan che vede Gerusalemme come unità urbana unica, centro metropolitano e capitale di Israele. Uno degli obiettivi del piano è «mantenere una solida maggioranza ebraica in città» incoraggiando colonie ebraiche a Gerusalemme Est. Tra le altre cose, il piano mira a costruire unità abitative economiche in quartieri ebraici già esistenti e in quartieri nuovi. E immagina il collegamento delle colonie israeliane in Cisgiordania geograficamente, economicamente e socialmente a Gerusalemme e Tel Aviv.
La presenza palestinese e lo sviluppo dei suoi quartieri sono estremamente limitate dall’impegno del piano a «portare avanti con severità le leggi di pianificazione e costruzione per impedire il fenomeno delle costruzioni illegali». Tuttavia, solo il 7% dei permessi di costruzione a Gerusalemme sono stati rilasciati a dei palestinesi negli ultimi anni. La discriminazione di Israele nel rilasciarli, combinata all’alto costo dei permessi [circa 30mila dollari, secondo le informazioni raccolte dall’autrice], costringe molti palestinesi a costruire illegalmente. Sono discriminati anche quando si tratta di mettere in pratica questi regolamenti. Secondo un rapporto dell’International Peace and Cooperation Center, il 78,4% delle violazioni tra il 2004 e il 2008 sono state commesse a Gerusalemme Ovest, contro le 21,5% a Est. Eppure solo il 27% delle violazioni a Ovest sono state oggetto di ordini di demolizioni, contro l’84% di Gerusalemme Est.
Le istituzioni statali non sono le uniche coinvolte: organizzazioni non governative prendono parte alla ristrutturazione dello spazio urbano. L’organizzazione di destra Elad ha come obiettivo la colonizzazione del quartiere palestinese di Silwan – che chiamano «La Città di David» – e gestisce siti turistici e archeologici. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Elad ha ricevuto donazioni per oltre 115 milioni di dollari tra il 2006 e il 2013, diventando così una delle più ricche Ong israeliane.
«Automaticamente il “libero mercato” espelle gli abitanti dalla città con gli sfratti e con gli altissimi prezzi e costi. Ovviamente non si può combattere l’esodo e lo spopolamento solo con le norme, i controlli e le sanzioni. Occorre attivare un complesso sistema di politiche attive che devono rendere possibile e sostenibile abitare nella storica città d’acqua». La Nuova Venezia, 12 agosto 2016 (m.p.r.)
Ormai da oltre vent’anni anni continuano le dichiarazioni che non vogliono farsi carico dell’esodo che sta portando alla morte la città d’acqua di Venezia e le isole minori della laguna. Hanno cominciato le giunte Cacciari-D’Agostino revocando e cambiando le norme in vigore del Piano regolatore della città storica adottato precedentemente, norme che hanno bloccato fino alla fine degli anni ’90 i cambi d’uso degli appartamenti. Le concessioni dei cambi d’uso sono poi sempre continuate fino all’attuale giunta Brugnaro che ha subito prontamente contraddetto gli impegni elettorali.
«"La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa". Un libro elettronico scaricabile costituito da una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud. Nel testo vi sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare». Sbilanciamoci info, 12 agosto 2016 (c.m.c.)
Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose.
Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Zamarin, il vignettista che disegnava per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.
Gli ometti di Zamarin che assaltavano con metodo, tranquillamente, la Fiat mi sono tornati in mente leggendo il libro elettronico Crisi ambientali e migrazioni forzate (L’ondata silenziosa oltre la Fortezza Europa), una raccolta di saggi e articoli pubblicata da A Sud. Si corre troppo sovrapponendo la vecchia Fiat alla Fortezza Europa? Anche quest’ultima appare a certi ricercatori cattiva, ignorante, prepotente, paurosa.
I ricercatori, con i loro piccoli, acuti picconi si danno da fare, cercano di fare chiarezza, di smuovere qualcosa, forse soltanto le coscienze. Cercano di convincere chi li ascolta che se si accetta che ogni strada sia sbarrata, la battaglia ambientale perduta. Comunque, se vincere non si può, si può continuare nella ricerca di altre vie per capire meglio, studiando per conto di tutti, il nostro pianeta e il suo domani, lasciando finalmente da parte i pregiudizi sullo Sviluppo, questo fratello gemello del Profitto.
Nelle quattro parti del testo (discussione delle teorie affermate, posizioni delle riforme suggerite dai tempi nuovi, esame di quello che avviene, resoconto di qualche caso speciale) sono molti gli argomenti in discussione. Ne trattano, in vario modo, decine di giovani specialisti per lo più poco conosciuti. La caratteristica generale è un’estrema lealtà scientifica. Si direbbe che nessuno evita di scrivere quello che pensa solo per dare ragione a qualche docente superiore e favorire così la propria carriera.
Da profano, vorrei suggerire di leggere tutto (trecento pagine) a partire da due aspetti generali. Uno di essi è la quantità di suggerimenti. Nel testo internet sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare. La scienza ambientale diventa un po’ più aperta a tutti, discutibile in ogni campo.
Molte persone possono così studiare e capire il mondo in cui vivono e darsi da fare per cercare di migliorarlo. Dentro e fuori quel movimento, qualcuno si ricorderà mai che la prima delle Cinque Stelle è l’acqua? L’acqua di tutti, l’acqua a tutti nota. L’acqua di cui molti studi danno finalmente una misura attuale. Un secondo aspetto è costituito da proposte e suggerimenti, a volte inaspettati, che sono frequenti nei testi e che servono a volte come punto di partenza di passi avanti inaspettati e altre volte a spiazzare il ragionamento consueto. Ma entriamo nel vivo del discorso.
Per meglio dire entriamo per un momento nella pentola della Rana Bollita. (Le migrazioni ambientali dell’antropocene e la sindrome della rana bollita, di Salvatore Altiero e Maria Marano che sono anche i curatori dell’opera è il testo di avvio di tutto il libro). La sindrome della rana nella pentola è un ragionamento crudele che serve per fare giustizia tra i sostenitori dell’adattamento e quelli della mitigazione.
Non c’è storia: una rana in pentola – rappresenta una popolazione messa in condizioni critiche da una modifica ambientale, quale che ne sia l’origine – può un po’ adattarsi al nuovo clima, anche accettare il proprio benessere provvisorio, ma in breve tempo si troverà in una condizione diversa e dolorosa; spostandosi ai bordi della pentola, saltando nell’acqua, non potrà che brevemente mitigare il calore insopportabile. Non c’è scampo per la rana nella pentola. Si può solo scappare prima, prima che sia troppo tardi. Altrimenti si può solo spegnere il fuoco, sempre che non sia comunque tardi.
C’è un’altra osservazione di cui fare tesoro: in un testo di carattere giuridico, scritto da Antonello Ciervo I rifugiati invisibili. Brevi note sul riconoscimento giuridico di una nuova categoria di richiedenti asilo in cui si discutono gli atteggiamenti del diritto comunitario nei confronti degli immigrati, vi è il ricordo di quando il pericolo ambientale che sovrastava il nostro futuro era il grande freddo, il global cooling che faceva appunto parte della Guerra fredda, in voga a quei tempi.
Il pensiero degli studiosi era che nel 2015 si sarebbe arrivati a un temperatura media globale di 0 gradi centigradi. Solo pochi anni dopo il pensiero degli studiosi si è capovolto in un global warming in cui tutt’ora viviamo. Questo suggerisce molta cautela, sempre. Sempre lo studioso Ciervo che si occupa dell’assetto giuridico dei rapporti tra migranti e istituzioni, si lancia in un altro fuori tema quando ci consiglia di fare attenzione alla storia.
Ricorda l’avvenimento dell’eruzione del vulcano islandese Laki che avvenne nel 1783, ricoperse le pianura dell’Europa continentale di polveri sottili, causò piogge acide in Francia con la conseguenza della assai ridotta produzione di derrate e il loro potente aumento di prezzo negli anni seguenti del decennio, ivi compreso il fatidico 1789. La scarsità di grano e gli insopportabili prezzi agricoli, assicurano gli storici accreditati (Lefebvre), furono tra le cause non ultime della rivoluzione francese, come più di recente sembra sia avvenuto per le primavere arabe.
Se la prima parte discute dei temi generali – di rane in pentola, come si è detto cioè di Crisi climatica e conflitti ambientali – spetta alla seconda che titola sul Cambiamento del clima e conflitti ambientali: emigrazioni forzate – il compito di parlare della rana che fugge, in qualche modo, come può, dalla pentola bollente.
I temi generali sono superati; la discussione tra i famosi professori Norman Myers e Richard Black, con il primo che prevede 200 milioni di rifugiati ambientali per il 2050 e il secondo che scrive, per confutarne le cifre, un saggio dal titolo Environamental Refugees: Mith or Reality non è più indispensabile; per capire le cose, più che classificare casi e sottocasi, conta conoscere i fatti (e gli antefatti). A furia di fatti, i diversi casi emergono con grande evidenza. Fondamentale nell’economia del lavoro collettivo è la Siria ed è l’acqua.
Acqua crisi climatica e migrazioni di Anna Brusarosco con il contributo di Salvatore Altiero propone molte riflessioni sui rapporti tra calamità naturali e vere e proprie guerre per l’acqua, tra comunità sotto stress o paesi rivali. Un lungo elenco di casi recenti, tutti conosciuti e spesso trascurati da chi legge lasciano intendere la vera natura dell’acqua e dell’obbligo di partire dal luogo in cui una comunità ha potuto trascorrere secoli della vita precedente. La crisi idrica, attuale o temuta, non si può affrontare altrimenti.
Si è costretti a partire, o rimanendo all’interno della regione, dei confini nazionali, oppure cercando di saltarli via, alla ricerca di un nuovo mondo, almeno di un po’ di acqua da bere. Non si vive senza bere e senza lavare i panni, la casa arida si trasforma in una sala di tortura; una famiglia contadina non ce la fa se non ha acqua per coltivare gli ortaggi, per allevare gli animali.
Sopra tutto questo, l’acqua e la scarsità di cibo si presenta in assoluta drammaticità il caso siriano, studiato attentamente da Desirée A. Quagliarotti Siria: cambiamento climatico, migrazioni e conflitti. Qui è difficile stabilire in modo autoritario un prima e un dopo, le cause e le conseguenze. Certo l’occupazione delle alture del Golan avvenuta nella guerra del 1973 costituisce un antefatto idrico ai danni della popolazione e dello stato siriano.
In seguito, più di trent’anni dopo, la gestione dell’acqua dal lato dei turchi, l’erezione di altre dighe a monte del territorio siriano, la terribile siccità durata oltre due anni, i dissidi crescenti tra il bath siriano guidato da alauiti, in urto religioso con i numerosi sunniti delle regioni e stati dei confini, l’instancabile lotta dei curdi, tutto questo insieme e altri disturbi ancora hanno provocato la fame, la moria degli animali, la necessità dei contadini abitanti vaste zone della Siria di cambiare territorio per tentare di sopravvivere.
Gli spazi vuoti sono stati facilmente occupati da altri siriani, altri disperati venuti dall’estero con l’aiuto economico, politico, logistico e militare di forti gruppi religiosi o politici contrari agli Assad al potere a Damasco. Le popolazioni fuggite per l’acqua e la terra si sono riversate in città siriane, le storiche capitali, come Damasco o Aleppo che non erano in grado e non volevano accoglierle.
Non è troppo difficile immaginare lo sconquasso, gli scontri armati e la guerra aperta che i siriani di governo, gli oppositori, i predoni sempre presenti, benvisti dallo Stato Islamico, forze, partiti o gruppi organizzati e paesi interi dell’area mediorientale non hanno perso l’occasione di gettarsi nella mischia, subito imitati dalle grandi potenze che hanno armato, bombardato, avvelenato, tradito tutti, da un lato e dall’altro lato; tutti e tutti gli altri, da par loro. Come resistere, come cercare di non morire, se non buttandosi oltre i confini?
http://asud.net/wp-content/uploads/2016/07/Crisi-ambientali-e-migrazioni-forzate-def.pdf
«L’architetto D’Agostino interviene sullo spopolamento “Ho favorito gli alloggi turistici? No, il piano si poteva cambiare. Più controlli sui B&B”». Le responsabilità dell'ex assessore sono in verità considerevoli. La Nuova Venezia, 11 agosto 2016 , con postilla
Per qualcuno è uno dei «responsabili» della deriva turistica del patrimonio immobiliare veneziano, perché il suo piano regolatore del 2005, favorì l’accorpamento degli alloggi, le trasformazioni alberghiere e il proliferare dei bed & breakfast, ma l’architetto Roberto D’Agostino - per molti anni assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia e poi presidente di Arsenale Venezia spa, la società di gestione del complesso, poi disciolta dalla Giunta Orsoni - respinge l’accusa e rilancia, spiegando perché, a suo avviso, le politiche pubbliche sulla residenza negli ultimi dieci anni almeno sono fallite, accelerando lo spopolamento.
postilla
L'architetto D'Agostino è uno dei maggiori responsabili del degrado della città negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda le scelte della pianificazione urbanistica. In questa intervista ha riesposto sue tesi già espresse in passato. Segnaliamo qualche documento in proposito. Sulla questione della "liberalizzazione" in favore delle utilizzazioni turistiche si veda su eddyburg la puntuale risposta che gli diede a suo tempo Luigi Scano, nell'articolo "Prg di Venezia. e proliferazione di alberghi e affittacamere". Si veda anche di Edoardo Salzano Il piano D’Agostino-Benevolo per la città storica di Venezia, e di Alberto Vitucci. Osservatorio casa mandato a casa. Altri articoli ad abundantiam nelle cartelle dedicate a Venezia, nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg.
È da qualche decennio che chi governa Venezia (e il Veneto) fa ponti d'oro a chi lavora alacremente per aumentare la presenza dei turisti a Venezia. Turismo di lusso e turismo di massa tutto fa brodo. E anche la maggioranza dei veneziani acconsente: infatti, vota per loro. La Repubblica, 10 agosto 2016
Lo spopolamento è stato graduale ed è iniziato dopo la grande alluvione del 1966, quando moltissimi veneziani si sono spostati verso la terraferma. Nel 1861 Venezia aveva 128.787 residenti. All’epoca i numeri erano in crescita, tanto da arrivare nel 1901 a 146.682 cittadini residenti e nel 1951 a 167.069, il massimo storico. Poi, il lento ma progressivo svuotamento della città, mentre cresceva il turismo di massa, che oggi si attesta attorno ai 22 milioni di arrivi all’anno.
Una situazione paradossale, perché se la città è un sogno per il turista che ne rimane stregato, dall’altro lato è sempre più un incubo per chi vuole mettere radici nella laguna e si ritrova alle prese con affitti altissimi, botteghe di quartiere che chiudono, negozi di paccottiglia e di souvenir a un euro che proliferano e palazzi che si trasformano in un baleno in hotel di lusso. Se a questo si aggiunge che l’età media è di 47 anni e che la popolazione anziana è in continuo aumento, si capirà che per un veneziano restare a Venezia è diventata una vera battaglia.
Il risultato è un business selvaggio che ricade per primo sui veneziani e su quelle associazioni che chiedono una città a misura di residente e non del turismo di massa, come fa il Gruppo25Aprile con la campagna #Veneziaèilmiofuturo, o l’Associazione Poveglia, che chiede che l’omonima isola non sia ceduta ai privati, o ancora Venessia.com che denuncia da anni il calo degli abitanti.
Se al numero dei cittadini della laguna si somma quello degli degli abitanti delle isole, il calo non si arresta, perché si passa da 84.666 a 83.398 abitanti. «Lo spopolamento non si può risolvere in pochi mesi — dice Lucia Colle, vice sindaco e assessora al Patrimonio — Quello che sta facendo la nostra amministrazione è cercare di attirare gli under 40 con alcuni bandi per case a prezzi privilegiati. Vogliamo anche provare a portare lavoro in città, perché è quello che poi aumenta la residenzialità. Per quanto riguarda le strutture abusive, invece, stiamo aumentando i controlli».
Nonostante le università Ca’ Foscari e Iuav pullulino di giovani, dopo la laurea quasi tutti imboccano il Ponte della Libertà e tornano nella terraferma, dissuasi a restare dagli affitti da capogiro. Uffici e magazzini si trasformano in stanze da affittare e giorno dopo giorno si chiudono i palazzi. E in tutto questo a rimetterci sono quei residenti che non vogliono diventare comparse costrette a vivere in un luna park. Il luna park Venezia che, quando cala la sera, viene dimenticato da tutti.
«Dopo che il Tar ha bocciato il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, il sindaco Nardella e il viceministro Nencini replicano che alla fine decideranno i ministeri dell'ambiente e dei trasporti. Con un accentramento dei poteri a livello centrale ben definito nella riforma costituzionale su cui a novembre ci sarà il referendum».Il manifesto, 10 agosto 2016 (c.m.c.)
Il Tar boccia, per i tanti motivi che i lettori del manifesto ben conoscono, il progetto dell’aeroporto intercontinentale fiorentino tanto caro alla premiata ditta Renzi&Carrai? Poco male: «Tanto a decidere sarà il ministero». Questa chiave di lettura, esternata da Toscana Aeroporti, rende bene l’idea di quanto per i padroni del vapore sia seducente l’idea dell’accentramento dei poteri a livello centrale, messo nero su bianco nella riforma costituzionale su cui a novembre si terrà il referendum.
All’indomani della decisione dei giudici amministrativi, la riprova arriva con le parole del viceministro Riccardo Nencini: «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». A fare eco a Nencini ecco Dario Nardella: «Il piano bocciato dal Tar è stato superato: c’è un nuovo piano approvato dall’Enac. Quindi resta valido il percorso avviato con la valutazione di impatto ambientale che attendiamo dal ministero dell’ambiente, e la successiva conferenza dei servizi del ministero dei trasporti: il piano dell’aeroporto, sul quale il Tar non è intervenuto, va avanti». Insomma per Nardella, Nencini, e Toscana Aeroporti, decidono solo i ministeri.
Intanto però Guido Giovannelli, avvocato dei comitati no aeroporto, Medicina democratica e Ordine degli architetti di Prato, che hanno fatto ricorso contro la variante al Pit (Piano regionale integrato del territorio) che ha inserito la pista di 2.400 metri parallela all’autostrada A11, ha già inviato una diffida al ministero dell’ambiente: «Non può procedersi a Via – spiega Giovannelli – in quanto la Vas, la valutazione ambientale strategica che ne costituiva il presupposto normativo a livello regionale, è stata annullata dalla sentenza. Dunque la Via ministeriale, a queste condizioni, potrebbe essere solo negativa, venendo meno i suoi stessi presupposti, o sospesa, in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato sulla vicenda».
A seguire, proprio sul tema dei rapporti fra governo centrale ed enti locali, l’avvocato osserva: «Ho letto e sentito commenti secondo o quali questa pronuncia non cambierebbe nulla. Devo dire che trovo questa posizione contraddittoria. Se così fosse, non si penserebbe a fare ricorso al Consiglio di Stato. Cosa che è stata immediatamente annunciata». A partire da Enrico Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa». Continuando con il presidente dell’assemblea toscana, Eugenio Giani: «Sono d’accordo che la Regione impugni la sentenza; ci aiuterà anche a capire che cosa fare per perfezionare gli atti amministrativi. Io sono per votare anche subito una variante che tenga conto delle decisioni del Tar».
Fra queste, come un macigno, spicca anche il problema di Castello, l’area oggi di proprietà di Unipol che ha un piano urbanistico, approvato da Palazzo Vecchio & c., con tutti i permessi a costruire già firmati: «Non risulta possibile approvare il progetto e al tempo stesso far salva la compatibilità con le previsioni urbanistiche» di Castello, scrivono i giudici del Tar, che sul tema accolgono le critiche di «carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà e illogicità manifesta». «E chiaro quale sia l’interesse pubblico predominante», replica Nardella. Interesse pubblico? Nella zona solo la Scuola Marescialli dei Carabinieri è già costruita. E ricadrà nella zona dove il rumore sarà a ben 55 decibel. Auguri ai militari dell’Arma.
«Land Grabbing. Cento morti e arresti a migliaia tra chi non si piega all’esproprio di Addis Abeba mentre l’Italia festeggia la "sua" diga». Il manifesto, 10 agosto 2016 (p.d.)
Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. «Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso», ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.
In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. «Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento», ha detto Kagari.
A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con postamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici.
Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese – gli Oromo, appunto – da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba.
La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine.
Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso.
In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità.
Prosegue il cammino della privatizzazione del complesso delle isole di Sant'Andrea e Certosa, concesse in uso cinquantennale a una S.r.l dedita allo sviluppo del turismo di lusso. I cittadini tacciono, i loro rappresentanti e i media plaudono. Ora si aggiunge il peso di uno sponsor potente. La Nuova Venezia, 9 agosto 2016
Veicoli elettrici e stazioni per la ricarica, sistemi Ict per l’illuminazione pubblica e connettività a banda larga, interventi di efficienza energetica, impianti fotovoltaici, mini-eolici e batterie per l’accumulo dell’elettricità: grazie alla sperimentazione di una serie di soluzioni innovative, frutto dell’accordo firmato tra Vento di Venezia, società che persegue la riqualificazione dell’isola della Certosa in partenariato con il Comune di Venezia , e Terna Plus, la società del gruppo Terna che sviluppa e gestisce le Attività Non Regolate, l’Isola della Certosa diventa un laboratorio per le energie smart.
Il progetto, della durata triennale, si inserisce all’interno di un programma più ampio che ha come obiettivo il recupero, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico, dei 24 ettari di territorio dell’isola della Certosa. Grazie all’intervento di Terna Plus si innalzeranno gli obiettivi del progetto di rigenerazione urbana e l’Isola, che vanta un notevole patrimonio storico e paesaggistico, diventerà un modello di “Smart Energy Island” sostenibile e all’avanguardia a livello internazionale. Con la diffusione delle energie pulite e la loro integrazione in rete, lo sviluppo della mobilità elettrica e una più intelligente gestione dei consumi, l’Isola della Certosa - che attualmente è collegata elettricamente alla rete in terraferma – si orienta alla gestione energetica localizzata e, al contempo, alla riduzione delle emissioni inquinanti, grazie a un minor impiego di fonti di produzione tradizionale, con evidenti ricadute positive per il territorio e per le attività che verranno sviluppate sull’isola.
Per contenere gli impatti dell’intervento di riqualificazione ambientale,tutte le soluzioni individuate saranno studiate per coniugare le esigenze del servizio elettrico con quelle paesaggistiche, con strutture che occupino la minor porzione possibile di territorio, minimizzando l’interferenza con le zone di pregio naturalistico, storico e archeologico presenti sull’isola.
Il progetto per rendere Certosa un’isola a vocazione rinnovabile, smart, sostenibile, più autosufficiente dal punto di vista energetico e a basse emissioni, fa parte della più ampia strategia di Terna per l’ammodernamento delle reti elettriche delle isole minori, che si estende anche ad altri territori italiani: iniziative simili sono, infatti, già state avviate per le isole del Giglio e Giannutri, in Toscana, e Pantelleria, in Sicilia.
«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
L’aeroporto di Renzi rischia di precipitare. «Il Tar ha accolto sei punti del ricorso presentato dai comitati», racconta l’avvocato Guido Giovannelli che ha curato l’azione legale contro l’infrastruttura voluta dal premier e dal governatore Enrico Rossi. Con Marco Carrai, fedelissimo del premier, a presiedere la società. E adesso il progetto rischia di fermarsi o di andare avanti con tanti paletti che ne cambieranno il volto.
I punti chiave della bocciatura? «Tanto per cominciare – spiega Giovannelli – la compatibilità della nuova opera con il Parco della Piana. Poi l’inquinamento dell’aria, perché – fanno intendere i giudici – non si possono fare studi su opere che non ci sono ancora. Infine la sicurezza idraulica della zona». Dubbi di cui il Fatto ha già più volte dato conto.
E che erano contenuti anche in un dossier presentato da professori universitari. Spiega Giovannelli: «Il Tar ha annullato il piano di indirizzo territoriale regionale nella parte in cui fissa l’ampliamento dello scalo secondo lo schema della pista parallela-convergente rispetto all’autostrada». Nelle 70 pagine della sentenza si legge: «Ogni prospettato intervento sul reticolo idrico, sul parco o sui boschi produce conseguenze rilevanti in termini di sostenibilità ambientale, la cui valutazione non può essere spostata alla successiva fase di Via».
È la questione sollevata dai comitati: la Valutazione di Impatto Ambientale che arriva a giochi fatti. Una prassi irrituale. Scrive il Tar: «La scelta della pista parallela convergente» con l’autostrada, «comporta una importante diminuzione sia del numero che della superficie totale delle zone umide». Una manciata di righe che, però, imporrebbero una radicale rivisitazione progettuale. Quindi, a pagina 42, il problema dell’inquinamento. In un’area dove oltre allo scalo aereo c’è un’autostrada.
E poi c’è la questione del termovalorizzatore: «Particolarmente delicata si presenta la questione dell’impatto» ambientale, «già l’attuale condizione della piana fiorentina presenta condizioni di criticità in ordine alla qualità dell’aria». Una zona delicatissima anche per l’equilibrio idrogeologico: «La complessità e l’incisività degli interventi previsti, in termini di interferenze con la rete delle acque, avrebbe richiesto, in forza del principio di precauzione, un’esauriente valutazione di sostenibilità ambientale, che invece è stata differita alle fasi successive».
I giudici concludono: «Il principio di precauzione in materia ambientale fa sì che ad esito della valutazione di incidenza sia preclusa la realizzazione dell’opera che risulti pregiudicare l’integrità del sito o anche dia adito a dubbi sulla compatibilità con l’integrità del sito stesso».
Infine il nodo delle ville medicee, sito Unesco che rischia di essere compromesso dall’aeroporto. Il governatore Rossi contesta la sentenza: «Confonde la valutazione strategica con la valutazione di impatto ambientale. Faremo ricorso al Consiglio di Stato». Rossi è convinto: «La sentenza non fermerà l’aeroporto». I comitati, però, pensano di aver vinto: «È la fine dell’aeroporto voluto da Renzi».
il 21 gennaio del 2011 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il Commissario per l’area archeologica della Capitale, la Soprintendenza e la Tod’s di Diego Della Valle per il restauro del colosseo. La Repubblica, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
Prendendo spunto dal caso del Colosseo, la Corte dei Conti indica una strada virtuosa in materia di sponsorizzazioni per la tutela del patrimonio culturale. È la stessa strada che indicherebbe il buon senso: stabilire con attenzione le contropartite da concedere allo sponsor, e vegliare sul fatto che quest’ultimo faccia davvero tutto ciò che si è impegnato a fare.
Già, perché — nonostante la confusione che continua ad imperare nel discorso pubblico — lo sponsor non è un mecenate. Quest’ultimo (in Italia davvero rarissimo) dà i suoi soldi in cambio di nulla (di nulla di materiale: e cioè in cambio di legittimazione sociale, gratitudine, appagamento personale…), mentre lo sponsor imposta un’operazione commerciale grazie alla quale conta di ricavare assai più di quanto doni allo Stato.
Mentre in Francia si è preferito investire sul mecenatismo, e in particolare su quello diffuso (tanto da riuscire a raccogliere ogni anno un miliardo di euro: cifra che fa impallidire il nostro pur volentoroso Art Bonus), in Italia si è fatto largo agli sponsor.
Questa differenza si deve alla stessa ragione per cui ora la Corte dei Conti tira le orecchie al ministero per i Beni culturali: e cioè che da noi lo Stato è debole, anzi in perpetua ritirata. Ed è questo il punto: perché il rapporto Stato-privati in campo culturale (e non solo) funzioni bene, bisogna che lo Stato sia forte, e cioè che non si presenti col cappello in mano, pronto ad accettare qualunque condizione contrattuale. Perché altrimenti il rischio è la mercificazione di un inestimabile bene comune.
La Corte dei Conti invita infatti il MiBact a darsi una normativa chiara e univoca: perché finché si procederà caso per caso lo Stato continuerà ad arretrare di fronte a privati ben decisi a mettere il proprio marchio sui monumenti di tutti. Ma il governo ha appena fatto la scelta opposta: con il nuovo Codice degli appalti il privato fa la sua proposta di sponsorizzazione, che viene resa nota attraverso la Rete. Se entro 30 giorni nessun “concorrente” si fa vivo, lo Stato accetta. Tutto il contrario di una programmazione, cioè di un progetto forte e omogeneo.
D’altra parte, la cena vip offerta da Della Valle per celebrare il restauro ha imposto una chiusura di parti del Colosseo ben più lunga di quella dovuta alla famosa assemblea sindacale di un anno fa. Questa volta nessuno ha fiatato: segno che i rapporti di forza sono proprio quelli ora impietosamente fotografati dalla Corte dei Conti.
Riferimenti
Informazioni sul "regalo" dello sponsor Della Valle sono disponibili qui
Il manifesto, 7 agosto 2016
Mentre scriviamo, con il 99% dei voti scrutinati, l’Anc emerge dominante a livello nazionale con il 53.9% dei voti (circa 9 punti percentuali in meno rispetto al 62% ottenuto nelle elezioni comunali del 2011), mentre la Da è al secondo posto con il 26.9%, seguita dall’ Economic Freedom Fighters (Eff) con l’8,19% dei voti.
L’Anc si assicura così 175 consigli e la Da 24. In 26 consigli non sarebbe stata raggiunta la maggioranza da nessun partito. Si tratta di quei comuni per cui sarebbero già in corso trattative per formare amministrazioni di coalizione. Il calo dei consensi si è registrato in almeno 8 grandi città, dove a differenza delle zone rurali i meccanismi clientelari del partito sono probabilmente meno radicati. Nonostante Anc conservi la maggioranza su base nazionale, è la sconfitta o il testa a testa in città chiave come Pretoria e Johannesburg e in roccaforti come Port Elizabeth a dare la misura del cambiamento epocale a cui dovranno prepararsi le classi politiche in lizza.
Se per l’Anc queste elezioni segnano una grave sconfitta, per la Da invece si tratta della prima più importante vittoria fuori dalla roccaforte del Western Cape dove mantiene la maggioranza schiacciante con il 63%. Così come per l’Eff, che alla sua seconda tornata elettorale, si sta imponendo come attrattore importante per gli elettori più delusi di Anc.
Ventidue anni dopo la fine dell’apartheid, il Sudafrica ha espresso per la prima volta un voto di protesta e di cambiamento. Se per due decenni infatti l’Anc ha potuto contare sul sostegno incondizionato di decine di milioni di sudafricani neri vissuti sotto il regime di segregazione razziale, d’ora in avanti per guadagnarsi la chance per governare dovrà abbandonare la logica del movimento di liberazione e guardare oltre le politiche razziali e di assistenzialismo. Che l’Anc, il movimento di liberazione che ha contribuito in modo decisivo a liberare il Paese dall’apartheid, sia stato battuto in città strategiche dal maggior partito di opposizione, la Da, notoriamente il partito che fa gli interessi dei bianchi (guidato da appena un anno dal suo primo leader nero) è un fatto indicativo.
Si tratta di una svolta storica che segna l’avvio di una nuova era che rimodella lo scenario politico in vista delle presidenziali del 2019 e inaugura l’inizio di un nuovo percorso democratico di potenziali governance alterne.
Con la fine di quello che di fatto è stato un sistema a partito unico e l’inizio delle amministrazioni di coalizione e delle alleanze politiche. Con la sconfitta di Anc, più di vent’anni dopo la fine di un regime di segregazione razziale, è l’elettorato storico del partito di Mandela a pretendere un nuovo corso politico indicando la via per una nuova riconciliazione non nel superamento ideologico delle divisioni razziali tout court quanto nella risoluzione delle gravi problematiche economiche sociali che le alimentano.
L’Anc ha perso quella che probabilmente considerava l’ovvia fedeltà dei suoi elettori storici e non è riuscito a guadagnarsi quella delle nuove generazioni, dei cosiddetti born free cresciuti in un Sudafrica libero ma preda, più di 20 anni dopo la fine dell’apartheid e due decenni di governo dell’Anc, ancora di forti diseguaglianze sociali ed economiche, in cui il potere è ancora nelle mani della minoranza bianca (8% della popolazione), la maggioranza della popolazione (i neri) soffre la mancanza di servizi di base, un alto tasso di disoccupazione (circa il 27%), vive ancora nelle township, non gode di un sistema scolastico efficiente.
Larghe fasce della popolazione che con questo voto hanno espresso il malcontento e tutta la mancanza di credibilità nei confronti dell’Anc, di Jacob Zuma e della sua leadership macchiata da diversi scandali di corruzione. Anc non può più considerare permanente – quasi di diritto per aver traghettato il Paese fuori dal regime – quel mandato per governare che l’elettorato nero gli aveva affidato all’indomani delle prime elezioni libere nel 1994 con l’elezione di Nelson Mandela primo presidente nero.
È questo l’elemento nuovo che i risultati di queste elezioni introducono nel panorama politico della giovane democrazia sudafricana che finora ha legato le sue sorti sull’«ovvia« governance del partito che si è battuto per la fine del regime di dominazione dei bianchi.
«Wwf. Un dossier lancia l’allarme sull’erosione del litorale e l’inquinamento che stanno distruggendo la costa e il mare. Solo 1.860 km i tratti di costa in buona salute. Tartarughe, uccelli e cetacei a rischio». Il manifesto, 6 agosto 2016 (c.m.c.)
Lo sviluppo urbanistico lungo il litorale italiano «ha divorato 10 km lineari di coste l’anno per 50 anni». Una «barriera di cemento e mattoni lunga 2000 km (un quarto delle nostre coste), l’inquinamento dovuto all’estrazione di idrocarburi, con «122 piattaforme offshore attive e 36 istanze per nuovi impianti», lo sversamento di rifiuti urbani, solidi e anche tossici (compresi radioattivi), l’iper sviluppo turistico che riversa sulle località costiere «il 45% dei turisti italiani e il 24% di quelli stranieri», l’impennata del trasporto via mare che fa «dell’Italia il Paese in Europa, dopo Olanda e Regno Unito, per quantità di merci containerizzate movimentate», e la caduta verticale dell’attività di pesca, con il «93% dei nostri stock ittici sovra sfruttato, e la proliferazione di impianti di acquacoltura (in 10 anni aumentati in Italia del 70%)».
Sono questi i fattori che stanno mettendo a serio rischio i nostri mari e le nostre coste. A lanciare l’allarme è il Wwf che nel suo dossier «Italia: l’ultima spiaggia» chiede subito di invertire le tendenze degli ultimi 50 anni.
«Non può che rassicurarci il fatto che questo nostro Paese abbia circa 700 km di costa (sugli 8 mila complessivi, ndr) e 228 mila ettari di mare tutelati da 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi o che l’Italia sia tra le nazioni più ricche d’Europa per la biodiversità marina», scrive Donatella Bianchi, la presidente del Wwf Italia, in premessa del corposo dossier. Però non si può dimenticare che «i tratti di costa liberi dalla urbanizzazione pervasiva più lunghi di 5 km, ad un buon grado di naturalità, non siano più del 10% di tutto il nostro litorale nel versante tirrenico e del 13% in quello adriatico».
Il consumo del suolo infatti sembra inarrestabile: secondo il Wwf che ha usato anche gli studi dell’equipe dell’Università dell’Aquila, «la densità dell’urbanizzazione in una fascia di un km dalla linea di costa è passata nella Penisola dal 10 al 21%, mentre in Sicilia ha raggiunto il 33% e in Sardegna il 25%».
Secondo i dati Istat, prendendo in considerazione la fascia costiera di un km dalla battigia, tra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti 13.500 edifici, «40 edifici per km quadrato nei versanti tirrenico e adriatico e più del doppio sulla costa jonica». Prevede l’associazione ambientalista che se le nuove edificazioni sorgessero allo stesso ritmo di quello registrato tra il 2000 e il 2010, «nei prossimi 30 anni avremmo su scala nazionale almeno altri 40.500 nuovi edifici nella fascia costiera».
L’erosione delle coste, l’inquinamento, l’ipersfruttamento turistico e l’elevato traffico di barche e mezzi acquatici di trasporto non solo modificano il paesaggio, distruggono la flora e la fauna marina, spazzano via sabbia, coralli, plancton, posedonia, spugne, e uccidono le specie rare, ma avvelenano anche i prodotti destinati al consumo umano.
Lo studio del Wwf però identifica quattro grandi aree strategiche per la biodiversità dove si concentra la maggior ricchezza dei nostri mari e da dove poter ricominciare per pianificare uno sviluppo sostenibile di tutto il litorale e l’ambiente marino italiano. Sono quattro zone «di forte interazione tra “crescita blu” sostenibile e siti di interesse conservazionisto».
Si tratta della zona tra il Mar Ligure ed il parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, del canale di Sicilia, del Mare Adriatico settentrionale e dell’area del canale di Otranto nell’Adriatico meridionale. Per capirne l’importanza, si pensi solo al fatto che, per esempio, nell’Arcipelago toscano sono stati osservati 12 specie di cetacei (balenottera comune, capodoglio, delfino comune, tursiope, stenella striata, globicefalo, grampo, zifio, balenottera minore, steno, orca, pseudorca). O che il Canale di Sicilia è «un’importante area di nursery per lo squalo bianco, una specie in via di estinzione», e «l’ultimo habitat importante per la razza Maltese, classificata in Pericolo critico». Mentre nel canale di Otranto vivono delfinoidi, foche monache e tartarughe.
Per tutelarli e tutelarci il Wwf chiede una moratoria all’edificazione nella fascia costiera, «sino a quando non saranno approvati i piani paesaggistici in tutte le Regioni», e il blocco dei rinnovi automatici di tutte le concessioni balneari, «come richiesto dalla Corte di Giustizia europea, sino a quando l’Italia non si doterà di una normativa che preveda l’obbligo di gara», e «uno stretto coordinamento operativo tra i ministeri, le regioni e i comuni».