loader
menu
© 2024 Eddyburg

«Ultima versione del manifesto di Trevico,il testo è stato elaborato durante la festa d’inverno della paesologia.» comunità provvisorie blog di Franco Armino, 2 settembre 2016 (c.m.c.)


Viviamo in un’epoca volante, ma è il volo dentro una pozzanghera.
Stiamo morendo e stiamo guarendo, stanno accadendo tutte e due le cose assieme.

Noi proponiamo l’intreccio di poesia e impegno civile. Abbiamo bisogno di poeti e contadini. Amiamo Pasolini e Scotellaro, amiamo chi sa fare il formaggio, chi mette insieme il computer e il pero selvatico.

Crediamo che bisogna unire le varie esperienze che si vanno opponendo alla deriva finanziaria e totalitaria dell’intero pianeta. Non basta, ad esempio, parlare di decrescita. Non basta la premura di avere prodotti alimentari buoni e sani. Non bastano le battaglie per la difesa del paesaggio e dei beni comuni. E non bastano i partiti che ci sono o quelli che si vorrebbero costruire.

Noi crediamo alle Comunità Provvisorie che uniscono queste esperienze diverse e altre ancora, annidate sui margini. Parliamo di Italia Interna, parliano di paesi e montagne. Il loro svuotamento in atto da qualche decennio ha effetti che generano nello stesso tempo desolazione e beatitudine.

Non dobbiamo redimere nessuno, pensiamo che in fondo ognuno fa quello che sa fare, però è necessario svolgere qualche serena obiezione all’esistente.

Non stiamo riproponendo la questione meridionale. Ragioniamo su ogni lembo di Occidente che non è stato annientato dal mito del Progresso. C’è un fuoco centrale, una geografia commossa del nostro agire che si muove tra Trevico e Aliano e che si allarga a frammenti urbani e costieri dell’Italia e del Mediterraneo.

Vogliamo che si dia finalmente forza alla Strategia Nazionale dell’Italia Interna.
Per fermare l’anoressia demografica bisogna mettere al centro di tutte le politiche il lavoro giovanile e bisogna trasformare i piccoli paesi da musei delle porte chiuse e degli anziani soli, a luoghi di accoglienza per i migranti, per i nuovi agricoltori e gli artisti: noi crediamo che la musica e il canto siano preziosi per riattivare le Comunità.

Crediamo sia ora di finirla col discredito verso la politica e gli interventi pubblici. C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche.

Chiediamo che l’articolo 42 della costituzione sia intenso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari devono diventare beni comuni.

Vogliamo l’istituzione di un grande Parco Rurale che parta dall’Appennino ligure e arrivi fino alle montagne della Sicilia.

Vogliamo una legge sui Piccoli Comuni che favorisca con investimenti importanti il riequilibro delle popolazioni sui territori. Una legge molto più coraggiosa di quella in discussione da anni in Parlamento.

Vogliamo lo stop al consumo di suolo e una politica che sostenga con decisione l’inserimento dei giovani nell’agricoltura.

Vogliamo che non venga più installata nessuna pala eolica che non sia patrimonio comune: crediamo che le pale già installate debbano portare benefici ben maggiori alle casse dei comuni che le ospitano. Siamo contrari a ulteriori trivellazioni petrolifere e allo sfruttamentto delle risorse naturali da parte di colonizzatori vecchi e nuovi.

Consideriamo inaccettabile il divario economico e sui servizi che esiste tra il Nord e il Sud dell’Italia. Il divario comunque non va considerato sempre a favore del Nord. Per esempio, dal punto di vista della qualità dell’aria e delle falde acquifere, il Sud ha delle zone malate, ma la pianura padana è quasi un cimitero. Il Sud è una meraviglia con grandi problemi. Il Nord del mondo è un grande problema con qualche residua meraviglia. Da una parte un’utopia che ha bisogno di scrupoli, dall’altra scrupolo ed efficienza senza utopia.

Dunque, la Casa della Paesologia propone un ribaltamento delle solite logiche con cui guardiamo ai luoghi. I territori che nella percezione comune sono arretrati e marginali, in realtà possono essere considerati centrali e all’avanguardia.

Noi sappiamo che proprio nell’Italia Interna qualcosa è rimasto incolume alla pressione globalizzante. E allora lo nostra lotta si fa gioiosa, perché abbiamo tanti luoghi belli e tante persone che non considerano il liberismo la loro religione.

Noi non pensiamo che la soluzione sia da una parte sola: la moneta, Dio, l’agricoltura, l’amore, la poesia, la resa, la rivoluzione.
Siamo in fuga da saperi separati, dagli specialismi, dai professionismi. Crediamo che un brutto successo sia peggiore di un buon fallimento.

La vicenda umana ci sembra commovente quando è capace di alzarsi e abbassarsi nello stesso tempo, quando riusciamo a tenere assieme l’infimo e l’immenso, quello che accade nei palazzi della politica e nelle tane delle formiche. Ci interessa la salute delle persone e quella delle api. Ci interessa la democrazia, la gioia e il dolore. Occuparsi della tutela di un paesaggio ha poco senso se poi non ci accorgiamo dei paesaggi dolenti che appaiono sui volti di troppe persone.

La casa della paesologia non è nata per risolvere i nostri problemi e neppure quelli degli altri. Noi stiamo nel tempo che passa e sappiamo che di questo tempo alla fine rimane qualche attimo di bene che siamo riusciti a darci.

Crediamo che l’arcaico non vada cancellato da nuovismi affaristici. Dobbiamo provare a credere di più a queste nostre verità provvisorie e a farle conoscere con le nostre parole, coi nostri abbracci. Sogno e ragione, paesi e città non più come cose separate, ma luoghi diversi dello stesso amore.

L'ex assessore all'urbanistica della giunta Marino precisa le condizioni alle quali darebbe oggi (come diede allora) il suo assenso alla proposta di giocare il megashow delle Olimpiadi 2024 a Roma. Il manifesto, 2 settembre 2016, con postilla

Roma è candidata alle Olimpiadi del 2024 dal 15 settembre del 2015 quando Ignazio Marino ha firmato la lettera di candidatura. la sindaca Virginia Raggi può dire no; farlo è semplice, deve inviare una lettera al CIO motivando il ritiro, l'ha fatto Amburgo, lo può fare Roma. Altre candidature non possono esserci. Il sindaco di Milano si è subito sottratto alle interessate strumentalizzazioni, altri, meno seri, no. Il gioco è spingere (costringere) la sindaca a dire pubblicamente sì. Al CIO conoscono le posizioni elettorali e una dichiarazione pubblica a favore è indispensabile per non indebolire la candidatura. Sarebbe bene sottrarre la città a questi "giochi": è una priorità.

La prima questione è il ruolo del Comune che dovrebbe essere centrale. Sul sito di Roma 2024 è invece relegato al ruolo di main partner, come l'Enel, l'Alitalia, l'Unicoop. Nel Comitato promotore di Paris 2024 la città figura tra i sod fondatori e il sindaco Anne Hidalgo ne è il volto. Il 7 ottobre è in calendario la terza consegna del Dossier, la seconda è stata lo scorso febbraio e la prima fu la lettera di candidatura. Scadenze note da tempo, routine di ogni città candidata. Il progetto per le Olimpiadi comincia dal sapere che uso si farà di tutto dò che si realizza subilo dopo che si è spenta la fiaccola olimpica. E' la legacy, il criterio chiave usato dal CIO per valutare i dossier. Nel luglio del 2015 al CIO di Losanna (presenti il sindaco e il sottosegretario De Vincenti) illustrammo un documento: «Roma Prossima, come sarà la città nei prossimi dieci anni». Il Dossier era inserito in un Progetto di città, «Roma 2025»; l'orizzonte programmatico per le scelte urbanistiche del sindaco Marino, il 2025, che comprende oltre al Giubileo la ricorrenza dei 150 anni di Roma Capitale d'Italia, nel 2021. Programmare, in modo che ogni "evento" fosse a sostegno del progetto di città e non la città a servizio degli eventi.
Il Dossier di Roma 2024 lo costruimmo su una doppia eredità, quella delle Olimpiadi del 1960 (da rimettere in gioco e per questo molto apprezzato dal CIO e quella del 2024, da programmare. Per quest'ultima le scelte poggiavano su due criteri: il lascito non devono essere "residenze" (tanto meno se in aggiunta a quelle previste dal piano regolatore) e, il secondo, un'opportunità per affrontare e risolvere questioni strategiche. La scelta, in modo quasi naturale, cadde sulla direttrice del Tevere, a nord della via Olimpica, quella compresa tra la via Flaminia e la via Salaria, suoli pubblici per realizzare il Parco Olimpico che dopo diventava un Parco Fluviale per tuta i romani di oltre 100 ettari, e consentiva di alleggerire il peso delle funzioni direzionali che affollano i quartieri Prati-Mazzini. La prevista chiusura dell'anello ferroviario (a Tor di Quinto) portava l'acceso diretto all'alta velocità. La trasformazione in metropolitana della linea Roma-Viterbo (oggi indecente) assicurava i collegamenti con il centro, a piazzale Flaminio, e con la linea A.
Il disegno urbanistico del Dossier era a sostegno dello sviluppo economico della città (e non il contrario). A nord il Parco Olimpico e gli uffici giudiziari, a est il comprensorio direzionale di Pietralata (Istat, la Sapienza...) direttamente accessibile dalla metro e dalla stazione dell'alta velocità di Tiburtina, (con la sede di Bnp Paribas), poi lungo la Colombo l'area attorno alla sede della Regione Lazio, l'Eur con il recupero delle Torri, e ancora il centro direzionale di Tor di Valle e da qui verso l'aeroporto. Solo funzioni direzionali che a Roma paradossalmente mancano, e senza consumare suolo.
Per gli impianti sportivi il Dossier era improntato alla stessa logica: recupero dell'esistente (Foro Italico e Flaminio), a Tor Vergata si completava la seconda vela per il Palasport mentre quella esistente diventava la Facoltà di Scienze di Tor Vergata. E poi l'Eur, il Palasport, la Fiera e soprattutto o l'incanto dell'area centrale, il Circo Massimo, il palazzo di via dei Cerchi (per il media center) e poi restituito all'uso museale, il Colosseo, le Terme di Caracalla. Un disegno urbano che coinvolgeva tutta la città. A un anno dalla riunione dell'11 settembre 2015 che ha sancito la fine di tutto, quella in cui Malagò e Montezemolo s'impuntarono sul villaggio degli atleti: «si può fare solo a Tor Vergata», «il lascito sono alloggi per studenti e per ospitare i parenti dei malati del policlinico», siamo ancora allo stesso punto, garantirsi che siano Olimpiadi per la città e non la città usata per le Olimpiadi di pochi. Dire sì non significa necessariamente cedere, se si recupera la centralità di Roma nel Progetto Olimpico e nel Dossier si può fare. Diversamente si dica no, non è difficile, basta una lettera.

postilla

Anche l'ex assessore Caudo condivide l'opinione del suo successore Berdini che i Grandi Eventi possano essere utili alla città: in particolare, a una città come Roma. Ribadiamo il nostro dissenso da questa opinione, per le stesse ragioni per cui abbiamo sempre criticato l'ideologia delle Grandi Opere. Tutto lascia credere che comunque, se si faranno le Olimpiadi a Roma, il disegno strategico sarà quello del potente comitato promotore, il quale non convinse il sindaco Marino a dare il suo si per beneficenza, ma in nome di corposi interessi immobiliari. Sulla strategia urbanistica alternativa a quella vigente, illustrata da Giovanni Caudo, e su alcune sue anticipazioni (come la vicenda di Tor di Valle), riprenderemo il discorso quando il turbine delle dichiarazioni sulle Olimpiadi e sulla posizione della sindaca Raggi si sarà placata.

Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2016 (p.d.)

Si è tuffato nell’estate del 2015 a Milano – non una gran piscina, in realtà, ma c’era l’Expo – e da allora chi l’ha più rivisto: di lui, a Paestum, è rimasto solo il disegnino sul logo del Parco archeologico. La Tomba del Tuffatore, attrazione principale del museo prospiciente i bellissimi templi greci, è assente da oltre un anno e non tornerà a “casa” almeno fino a ottobre: ingaggiato come guest star della mostra “Mito e Natura. Dalla Magna Grecia a Pompei”, il Tuffatore è stato esposto a Palazzo Reale di Milano fino a gennaio 2016, per poi essere trasferito, con il resto delle opere dell’allestimento, all’Archeologico di Napoli, dove rimarrà fino al 30 settembre.

A voler essere maligni e sbrigativi, il Tuffatore è passato direttamente dal supercommissario renziano di Expo, Beppe Sala, al superdirettore renziano del museo partenopeo, Paolo Giulierini, tra i venti nominati nell’agosto 2015 dal Mibact di Dario Franceschini: la sua fu una delle nomine più discusse poiché l’etruscologo fu celermente promosso dal piccolo Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona all’immenso ginepraio dell’Archeologico.

Intanto a Paestum, col cerino in mano, è rimasto Gabriel Zuchtriegel, archeologo tedesco, il più giovane dei venti succitati direttori museali, in carica da un anno. Tuttavia, quando fu deciso e avviato il primo prestito (direzione Milano), nella primavera 2015, il sito cilentano era diretto da Marina Cipriani, che allora assicurò al Corriere del Mezzogiorno: “Il Museo non verrà “spogliato” della Tomba in quanto nei locali devono svolgersi quanto prima alcuni lavori di ristrutturazione e quindi comunque almeno per due-tre mesi il Tuffatore non sarebbe stato visitabile. Traslocarlo a Milano significa richiamare sull’opera tutta l’attenzione che merita”.

Orbene, la sala “Mario Napoli” (dal nome dell’archeologo che scoprì la tomba nel 1968, a due chilometri a sud di Paestum), che ospitava l’opera, è ancora in restauro: i lavori sono stati affidati il 19 maggio e partiti il 23, con consegna prevista entro 60 giorni, ma a oggi la stanza è ancora inagibile e lo sarà fino al ritorno del Tuffatore. I tempi si sono, insomma, raddoppiati, e la beffa è che è sotto gli occhi di tutti, a differenza di altri cartelli informativi illeggibili e di schermi interattivi guasti, posti a mo’ di didascalia accanto a opere e monumenti: fuori dalla sala Napoli, viceversa, un orrendo tendaggio bianco spiega ai turisti modi, tempi e dettagli del restauro, ovviamente disattesi. Ma per fortuna i visitatori sono soprattutto stranieri e il cartello è in italiano.

Dal museo, intanto, fanno sapere che “i lavori saranno ultimati e la sala pronta per il rientro del Tuffatore a Paestum”, quindi tra un mese, si spera. Dacché è stata scoperta quasi 50 anni fa, la Tomba è stata spostata solo un’altra volta, nel 1996, a Palazzo Grassi a Venezia per una mostra su “I Greci in Occidente”: allora il trasloco durò solo qualche mese, da marzo a dicembre, e il ministero si spese per non lasciare a bocca asciutta Paestum e altri musei privati temporaneamente delle proprie opere, organizzando, in contemporanea ai prestiti, “esposizioni su temi complementari nei siti originari della Magna Grecia”.

Col tempo, evidentemente, anche i soggiorni fuoriporta delle opere si sono allungati: ad esempio, la statua marmorea di Hera, rinvenuta nell’Heraion (Santuario di Hera, “attualmente chiuso, ci scusiamo per il disagio”, dal sito online del Parco), è volata in Cina qualche mese fa e lì rimarrà fino a novembre 2017. E pensare che il museo era nato nel 1952 proprio per esporre metope e materiali provenienti dagli scavi dell’Heraion, materiali ancora oggi in mostra, spesso al buio.

Della capitale importanza dell’antica Poseidonia e dei suoi reperti si accorse subito l’archeologo Napoli, che definì la Tomba del Tuffatore “il più sconvolgente rinvenimento archeologico da moltissimi anni a questa parte... Sollevata la lastra di copertura, ecco apparire la tomba completamente affrescata, non solo nelle pareti interne delle quattro lastre formanti la cassa, ma anche, e questa è una strana novità, all’interno della copertura”. Il Tuffatore, che dà il nome all’intera tomba, è raffigurato proprio su quella lastra di copertura e circondato da scene di simposi e amoreggiamenti vari, classico esempio di “ironia tragica” degli antichi. Quanto all’“ironia tragica” dei moderni, basta recarsi al Museo Archeologico partenopeo: il mare non bagna Napoli, ma il Tuffatore ci si è buttato lo stesso.

«Si può ricostruire con cura ed efficacia come è già successo in molti casi in Italia, ma spesso si preferisce sottolineare scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci». Quotidiani del gruppo L'Espresso, 31 agosto 2016 (c.m.c.)

I forti terremoti con vittime umane sono stati, dal 1940 ad oggi più di trenta con migliaia di morti (soltanto in Friuli quasi mille e in Irpinia poco meno di tremila), decine di migliaia di feriti o infortunati a vita, centinaia di migliaia di sfollati.

Secondo il Sole 24 Ore i miliardi di euro spesi dallo Stato dal terremoto del Belice (1968) a ieri ammontano – attualizzando gli stanziamenti – a 121,6 miliardi di ieri. Almeno il doppio o il triplo di quanto costerebbe oggi mettere in sicurezza sul piano antisismico quel 70 % dell’Italia che in sicurezza non è. Un affare. Bisogna però connettere la messa in sicurezza antisismica con quella idrogeologica: se infatti tutta la dorsale appenninica è ad alto rischio terremoti, il 98 % dei Comuni laziali e il 99 % di quelli marchigiani (nessuno di pianura) risulta a rischio idrogeologico. Un territorio quanto mai fragile che la natura sismica esalta e devasta con facilità.

La tragedia di Amatrice e di altri Comuni fra Lazio e Marche ha per lo meno prodotto una riflessione critica su prevenzione e ricostruzione. Non abbiamo dovuto riascoltare i tromboni della retorica del post-terremoto aquilano con il duo Berlusconi-Bertolaso unti dal Signore per salvare quelle terre martoriate con una loro ricetta che prescindeva totalmente (l’abbiamo scritto inutilmente) dalle esperienze positive di altre ricostruzioni. Il modello-Aquila viene infatti considerato oggi come uno di quelli da cui rifuggire. Mentre si riparla di “ricostruire com’era e dov’era” (ministro Del Rio) che fu il motto vincente del Friuli, di non disperdere le piccole comunità locali sfollandole lontano per anni, di non creare assurde new towns senza un minimo disegno urbanistico.

Anche la grande stampa tuttavia indugia molto in generiche denunce degli sprechi del passato facendo di tutta l’erba un solo fascio ovviamente deprimente. Mentre nella storia tribolatissima di questo Paese geologicamente “giovane” squassato da frequenti forti terremoti esistono anche esempi di saggia, informata e filologica ricostruzione.

A questo punto vorrei dire sommessamente che la richiesta di Matteo Renzi all’archistar Renzo Piano di occuparsi di questa ricostruzione fra Lazio e Marche ancora una volta profuma di trovata mediatica. Piano, geniale, generoso e attrezzato, non figura fra gli esperti dei post-terremoti italiani.

Ho citato il Friuli 1976-77: qui furono le comunità locali a volere – soprattutto a Venzone come documenta il prezioso libro Le pietre dello scandalo uscito da Einaudi nel 1980 a cura di Marisa Dalai, Remo Cacitti, Maria Teresa Binaghi Olivari e altri nella collana diretta da Corrado Stajano – una ricostruzione “pietra su pietra”.

Ma ci fu la più stretta collaborazione interdisciplinare fra Soprintendenze statali, Comuni, Regione, Curie vescovili, uffici tecnici locali, ecc. Come quella messa in campo nel 1997 dal governo Prodi (ministro Veltroni, direttore generale ai Beni Culturali il mai abbastanza rimpianto Mario Serio) nominando commissario straordinario per l’Umbria Antonio Paolucci affiancato dallo storico dell’arte umbro Bruno Toscano e per le Marche l’ex soprintendente e allora direttore del Catalogo Maria Luisa Polichetti affiancata dalla storica dell’arte Marisa Dalai.

Una fruttuosa collaborazione sul campo fra Soprintendenze e Università, coi giovani impegnati (40 quelli della Sapienza) a catalogare le opere danneggiate. Per la Basilica Superiore di Assisi si rischiò lo slittamento a valle e una rovina totale, ma il pronto e coraggioso intervento di tecnici preparatissimi lo evitò e consentì il restauro integrale della Basilica grazie a Giuseppe Basile, specialista straordinario dell’Istituto Centrale per il Restauro, e di strutturisti di caratura internazionale quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi (successivamente di restauratori come Sergio Fusetti e Carlo Giantomassi). In due anni e due mesi soltanto la Basilica Superiore fu riconsegnata splendente ai francescani. Più lungo il recupero di centri storici molto colpiti come Foligno, Nocera Umbra, Gualdo Tadino, Colfiorito, Tolentino, ecc.

Per gli sfollati si usarono prefabbricati in legno di ottima qualità che riprodussero di fatto le comunità locali, incluse scuole e altri servizi, senza allontanare la gente. In tal senso il lavoro di squadra posto in opera fra Umbria e Marche rimane per molti versi esemplare in senso positivo. In buona misura pure quello della Val Nerina dopo il 1979, come dimostra la buona tenuta antisismica di Norcia investita dal terremoto di Amatrice.

In senso negativo sono invece esemplari purtroppo le ricostruzioni della Valle del Belice dove ambizioni sbagliate hanno allungato enormemente i tempi e cancellato le identità locali e quella dell’Aquila. Negativa fu pure, per gran parte, la vicenda dell’Irpinia, non per i monumenti tuttavia il cui recupero fu diretto da un soprintendente di grande livello quale Mario De Cunzo che spese presto e bene i 300 miliardi di lire assegnatigli. Allo stesso modo i commissari per la casa di Napoli (colpita dal sisma) Maurizio Valenzi sindaco e l’urbanista Vezio De Lucia i quali riconsegnarono ben 20.000 alloggi recuperati in tempi rapidi senza l’ombra di un avviso di garanzia.

Valide furono pure due ricostruzioni post-terremoto di cui non si parla mai: quella di Tuscania semidistrutta con oltre trenta vittime dal sisma del 1971, che oltre quarant’anni più tardi regge benissimo, e l’altra di Ancona dove lo sciame sismico scosse il centro storico della città per undici mesi, senza fare vittime e però con danni profondi a tutta la città antica, dall’alto del colle fino al quartiere del Porto. Ma nessuno o quasi ne parla. Preferendo sottolineare sempre e soltanto scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci. Oppure rifacendosi miracolisticamente agli archistar.

«Paralisi 5 Stelle. Movimento diviso sul da farsi nella Capitale. Mezzo sì anche sul nuovo stadio della Roma. E la Regione chiede chiarimenti. Mentre la sindaca Raggi tace». Il manifesto, 31 agosto 2016, con postilla

«Ora i 5 Stelle devono decidere cosa vogliono fare da grandi», sospira uno dei tecnici indipendenti che segue da mesi il doppio dossier Olimpiadi e nuovo stadio della Roma.

Perché su entrambi i fronti i nodi stanno arrivando al pettine e sotto la superficie del movimento più di qualcosa si sta muovendo. Lo testimoniano le chiari aperture dell’assessore all’urbanistica di Roma capitale Paolo Berdini ieri in tv ad Agorà: «Se le Olimpiadi servono per fare quattro linee della metro o la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì, entro dieci giorni decideremo».

Anche sul mega stadio americano della squadra di Pallotta il comune ieri ha inviato sul filo di lana le carte alla Regione Lazio (un atto dovuto) ma lo ha fatto in modo incompleto, senza il parere di conformità che avrebbe invece sciolto definitivamente la matassa. La giunta, infatti, prende tempo, come ha ammesso la sindaca Virginia Raggi alla festa del Fatto domenica scorsa.

Perché il nodo è politico, tutto interno al movimento e tra il movimento e il Pd, ma investe soprattutto il futuro della Capitale e di milioni di abitanti.

«Forse la partita si è riaperta», sussurrano al Coni con un tasso di ottimismo per ora non suffragato da nessun atto concreto della giunta pentastellata.

La verità è che sulle Olimpiadi, soprattutto, si consuma la partita tra Di Maio e Di Battista per la guida del movimento. I 5 Stelle, come detto in campagna elettorale, sono contrari. E Di Battista non perde occasione a livello locale per tenere fede a questo impegno.

Ma Di Maio, che è lo sfidante in pectore di Renzi, non può bocciare le Olimpiadi senza una buona ragione, una causa inoppugnabile e comprensibile anche a chi non fa parte dei meetup grillini e potrebbe votarlo a Palazzo Chigi.

Il problema è che per ora questo motivo non è chiaro, anzi, Malagò e Montezemolo hanno offerto alla nuova giunta campo libero: anticorruzione, scelta delle aree, letteralmente di tutto purché Raggi firmi il progetto definitivo da consegnare al Cio entro il prossimo 7 ottobre. Al Coni giurano che nei prossimi giorni questa carta già bianca diventerà bianchissima. Non a caso Berdini, prudentemente, aspettando le decisioni della sindaca, prova ad andare a vedere le carte nella conferenza dei servizi.

Perché la realtà è semplice: il comune di Roma, con Marino, ha già detto sì sia alle Olimpiadi che allo stadio della Roma. Perciò Raggi o revoca quelle scelte andando in consiglio (ma in questo modo attaccherebbe a Di Maio l’etichetta del signornò), come ha fatto la città di Amburgo limpidamente, o lavora duro sui dossier e dà i pareri necessari.

Dal punto di vista tecnico, infatti, le questioni da risolvere non mancano, se solo si volesse affrontarle.

Per le Olimpiadi gli ambientalisti hanno individuato 3 punti critici: il bacino remiero (un parco fluviale da 2 km da scavare sul Tevere), il centro media a Saxa Rubra e, soprattutto, la questione Tor Vergata, una zona vasta in cui vivono 500mila persone, che si può tradurre anche come «questione Caltagirone» (che è anche editore del Messaggero).

In quest’area, secondo il Coni e il comune targato Marino, dovrebbe stare il villaggio olimpico, che dopo il 2024 potrebbe diventare il campus universitario della capitale.

Il problema è che nel lontano 1987 tutti quei terreni erano di Caltagirone, che li trasferì all’università di Tor Vergata a condizione che la sua Vianini Costruzioni avesse gli appalti edili e di manutenzione nel futuro. Sono ancora validi quegli accordi? Se è così, significherebbe affidare i lavori delle Olimpiadi chiavi in mano a Caltagirone, ed è contro le norme europee. Se non è così allora di chi sono quelle aree? E’ pane per i denti di un’amministrazione comunale, che ancora oggi (ma neanche con Marino) ha detto una volta per tutte di chi e che cosa sono veramente quelle aree strategiche.

Idem sullo stadio romanista. Con Marino, il comune condizionò l’ok alla cura del ferro: o prolungamento della metro B o più treni sulla Roma-Lido. È una scelta che spetta al comune. E che la regione, guidata dal pd Zingaretti, sicuramente pretende oggi prima di dare il proprio via libera. Per i 5 stelle rovesciare il tavolo e dire di no a entrambi i progetti sembra arduo, anche per il rischio contenzioso con la stessa As Roma e il rischio finanziamenti dal governo in vista del primo bilancio della città a novembre.

postilla
Governare significa scegliere. Compito abbastanza facile quando la decisione riguarda progetti e risorse propri, più difficile quando i progetti e le risorse vengono da fuori, come nel caso delle olimpiadi romane. E nella logica delle politiche tradizionali (quelle caratterizzate dalla visuale corta e dell'attenzioni spasmodicamente rivolta al prossimo risultato elettorale) è molto più facile dire si (a Roma si direbbe "abbozzare") che dire no, anche quando si sa che la saggezza imporrebbe di dire un sonoro NO.
Non meravigliano quindi le esitazioni e i passetti da balletto di Raggi e di Berdini. Testimoniano quanto sia difficile cambiare rispetto al vecchio modo di fare politica: accorciano la distanza tra il modo in cui si poteva pensare che governasse il M5S e quello in cui governa il PD di Renzi.
Ciò che invece stupisce è che ancora vi sia chi crede, o mostra di credere, che i grandi eventi spettacolari costituiscano una occasione e una risorsa. E' un errore identico a quello che compie chi affida le sorti alle Grandi opere. Le Grandi opere e i grandi eventi potrebbero, forse, avere utilità laddove vi fosse un'elevata capacità, maturità, autorevolezza della rappresentanza politica e, soprattutto, una macchina amministrativa (la cosiddetta "burocrazia") competente, interamente volta al rispetto delle regole e all'interesse generale, rodate da una lunga esperienza e tale da aver meritato la fiducia degli amministrati). A Roma, e forse in tutt'Italia, siamo ben lontani dall'aver raggiunto queste condizioni: da almeno un quarto di secolo si sta lavorando nella direzione opposta.

Anche la Sardegna vive i fenomeni che portano alla distruzione dei patrimoni storici su cui poggiano le identità dei popoli. In Sardegna con una velocità maggiore che altrove, per le caratteristiche delle aree interne e le politiche dissennate sulle coste, prima e dopo la parentesi del governo Soru. La Nuova Sardegna, 30 agosto 2016

Mi capita d' estate di andare dalla costa occidentale dell'isola a quella orientale attraversando paesi, uno in particolare. Malinconico tour spinto dalla curiosità pure quest'anno, sotto Ferragosto. Speranzoso di ritrovarla, a metà mattina, quella riunione di anziani all'ombra di un un fico in uno slargo nel percorso. Da un paio d'anni non si vede (quasi) più nessuno lì nei pressi. Facile immaginare che quel gruppo in bianco e nero si sia sciolto. D'altra parte quel paese è quasi vuoto, chiuso e non per ferie, abbandonati i palazzetti più rifiniti, vessilli di un impegno civico orgoglioso. Lo so che un terremoto è un terremoto. Ma fa impressione pure la fine lenta di un paese, vedere la svalutazione progressiva di ogni sua parte, l' inutilità di tutto ciò che lo ha reso vivo, come quel riparo dal sole, minimalista, ma che ha ospitato più dibattiti del centro congressi di Alghero. Impressionante, più della diagnosi dei demografi sulla crisi di oltre 200 paesi sardi. Una settantina stanno peggio, la metà destinata a svuotarsi nel giro di 15-30anni. 0ltre un terzo del territorio coinvolto.

E si sa, la percezione del declino accelera lo spopolamento, specialmente di chi non ce la fa a sopportare disoccupazione + isolamento, “poca vita, sempre quella” è la sintesi di Lucio Dalla. E a poco servono gli appelli a “fare sistema”, tottumpare tutti insieme per risparmiare sui servizi.

L'allarme è stato lanciato da anni. Nell'indifferenza verso un troppo piccolo bacino elettorale. E per quanto sia un comune su cinque ad esaurirsi in tempi brevi, nessun tentativo di soccorso: la fine data per scontata come nella profezia del romanzo di Garcia Marquez, “il futuro non esiste, né mai è esistito sotto il cielo di Macondo”.

Succede anche altrove; ma è peggio in un'isola povera che si spopola anche nelle città, e dove le crescite sono spesso controsensi. Altro che due velocità! In realtà c'è una Sardegna che arretra per sparire. E un'altra dove lo sviluppo edilizio produce insediamenti invivibili, e non solo perché la terra si scioglie sotto i piedi quando piove più forte.

In fondo la sorte della Sardegna ha a che fare con questa schizofrenia, spiegata dal mercato immobiliare, un terrazzo di pochi mq sul mare che può costare quanto qualche ettaro di campagna a una trentina di chilometri verso l'interno.

Per questo vorremmo saperne di più su contenuti e progressi della strategia delineata nella delibera del governo regionale (marzo 2015), obbiettivo “un'inversione del trend demografico”. Vedremo com'è il programma per creare occupazione – lì e ora –, perché senza lavoro non ci sono ragioni che possano trattenere gli abitanti di quei paesi o attirarne di nuovi.

E poi i tempi, perché il tic tac del conto alla rovescia comincia a sentirsi. E se non si agisce finché c'è ancora qualche forza residua in quelle aree, credo che sarà complicato dare senso a vuoti incustoditi, a disposizione di incendiari e per scorrerie postmoderne, nel solco di quelle degli speculatori dell'energia.

Inimmaginabile la Sardegna senza i suoi paesi (il cui valore lo capisci dalla volontà dei terremotati marchigiani a ricostruirli dov'erano). Ed è ragionevole attendersi un impegno straordinario dello Stato (magari annunciato da un tweet di Renzi #lasardegna.nelcuore). E un impetuoso andirivieni tra Roma e Bruxelles delle autorità dell'isola, decise a farsi sentire, il piglio di chi raccoglie la sfida, tipo Al Pacino nel film, “dico quello che penso e faccio quello che dico”. Perché nessuno creda che ci basti un ripiego, che so, l'itinerario attrezzato delle ghost town per i turisti nei giorni no-mare.

Insomma servirebbe un capitolo dedicato allo spopolamento in ogni dossier riguardante l'isola. Pure in quello presentato a Sassari a luglio. E quindi un progetto, dove sia scritto chiaro quali risultati ci possiamo aspettare ed entro quanto tempo. Se non possiamo contare sulla passione, in €, che si mette per salvare una banca, dobbiamo pretendere che almeno si ristabilisca una dignitosa proporzione. In fondo si tratta di paesi, una storia che non può finire.

Nell'icona una foto di Gianni Berengo Gardin ripresa, a Carloforte

«È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia». Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016 (p.d.)

Di fronte ai disastri naturali, la nostra debolezza più grande è la mancanza di prevenzione. Lo scriviamo da decenni. Molte le chiacchiere e le promesse subito dopo ogni evento, sia esso un terremoto o un’alluvione, poi cade il silenzio. Eppure la prevenzione va fatta a bocce ferme, quando splende il sole e la terra non trema. È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia. Sia sul piano delle infrastrutture, sia su quello dell’informazione ed educazione della gente, che ancora oggi in Italia preferisce toccarsi in mezzo alle gambe o appendere qua è là cornetti e santini invece che guardare in faccia la realtà.

Il settore aeronautico ha sviluppato un metodo molto efficace per la prevenzione degli incidenti, infatti è oggi tra i modi più sicuri di viaggiare. Ogni volta che – vuoi per errori di pilotaggio, vuoi per cause tecniche – c’è un problema o una sciagura (ormai rara), si attiva una procedura internazionale che analizza le cause, propone soluzioni e modifica strumenti e procedure. Nel frattempo, i velivoli difettosi vengono lasciati a terra fino a modifiche concluse. È un processo trasparente, che pur senza essere punitivo, mette in luce le responsabilità e spinge tutti a migliorare, approfittando insieme della lezione ricevuta o meglio, come lo chiamano i francesi, del retour d’experience. In tanti altri settori, e soprattutto in quello della gestione del territorio, non si analizzano mai i risultati a posteriori delle scelte precedenti, raramente si individuano i responsabili dei fallimenti, e mai si tesaurizza l’insegnamento ricevuto.

Ogni volta stesse considerazioni e stessi errori,una retorica del disastro che se togliete data e luogo è immutata fin dall’alluvione di Firenze di cinquant’anni fa. Ma la gente così continua a morire e i danni li paghiamo tutti. Ora si parla di ricostruzione rapida dopo-sisma. Ma non avevamo detto tutto ciò che c’era da dire già con L’Aquila 2009? Abbiamo ripetuto alla nausea che la ricetta razionale sta in una capillare ristrutturazione antisismica degli edifici,che li riqualifichi pure energeticamente, prendendo così due piccioni con una fava.E che accanto al rischio sismico investa pure sulla protezione idrogeologica: frane e alluvioni sono ancor più diffuse dei terremoti, dall’Alpi allo Ionio. E si occupi pure della strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, contro le future siccità, i futuri eventi estremi e l’aumento del livello dei mari, di realizzare casse di espansione per i fiumi e di turar le falle agli acquedotti. Si chiama resilienza.

Esiste pure un’associazione internazionale, Iclei.org, che riunisce le città che nel mondo si stanno attrezzando per la sostenibilità e la riduzione degli impatti degli eventi geoidrologici. In Italia, al di là di encomiabili esempi locali, questo progetto di resilienza nazionale, corale, condiviso, omogeneo, unitario, non c’è. Trionfa invece il sempreverde annuncio e la relativa cantierizzazione della grande opera cementizia, vista come unica azione salvifica. La nuova autostrada, la nuova pedemontana, il nuovo ponte sullo stretto, i nuovi trafori ferroviari,i nuovi eventi sportivi internazionali. L’importante è che siano grandi,costosi e vistosi. Non che servano a qualcosa e che funzionino. Se si applicasse il metodo aeronautico alle opere già fatte, si potrebbe facilmente verificare se i soldi sono stati spesi bene e i problemi risolti.

Invece le scuole ristrutturate sono crollate, l’autostrada Bre.Be.Mi giudicata indispensabile in fase di progetto, è vuota, il Mosedi Venezia è già inchiodato da sabbia e detriti prima di entrare in servizio, gli impianti sportivi delle Olimpiadi invernali della Val di Susa sono in via di smantellamento per eccessivi costi di manutenzione, ma la lista è lunga, distretti industriali, parchi divertimento, poli fieristici, sportivi e turistici... tutto annunciato sulla carta come necessario, apportatore di progresso, soldi e lavoro, ma alla prova dei fatti cadente, abbandonato e diroccato. Spesso la società civile di fronte a tali progetti ha protestato, ha lottato, ha mostrato e documentato scientificamente incongruenze e inadeguatezze. Ma niente, ruspe e betoniere sono state inesorabili. Poi tutto come previsto, miseramente fallito. Chi paga? Qual è il ritorno d’esperienza? Con il metodo aeronautico, il ritiro della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 sarebbe immediato, basta giudicare dai costi e dalle scomode eredità delle precedenti edizioni! Lasceremmo perdere il supertunnel Tav Torino-Lionee i nuovi sogni espansionistici delle reti autostradali. Mentre investiremmo subito i pochi denari che ci restano in manutenzione del territorio, sostenibilità e prevenzione dei rischi naturali, unico progetto sensato per il benessere del futuro.

«La presenza degli stranieri, e dei rifugiati in particolare, in questi borghi tra gli Appennini si è rivelata negli anni una risorsa preziosa per ridare vita a territori spopolati». La Repubblica, 30 agosto 2016 (m.p.r.)

Romeni, albanesi, qualche marocchino: erano tanti i bambini stranieri a frequentare la scuola “Romolo Capranica”, crollata rovinosamente in seguito al sisma, e le altre sedi dell’istituto di Amatrice, sparse per la vallata.

È anche grazie a loro se alcune scuole di montagna hanno evitato la chiusura. Sono più importanti di quanto s’immagini. «Se muore una scuola muore il territorio, con le sue ricchezze: legna, formaggi, pastorizia, non solo paesaggi»: a spiegarmelo è stata la dirigente scolastica Maria Vincenza Bussi, reggente dell’istituto, che da anni si prodiga per l’integrazione degli alunni stranieri. L’ho incontrata la scorsa primavera, quando, nel corso di un viaggio nelle scuole primarie ad alta densità di stranieri in tutta Italia, ho visitato anche l’istituto “Capranica”. «Le piccole scuole arginano lo spopolamento», spiegava, «se le chiudessimo, i genitori, che per lo più lavorano nei paesi più grandi o a Rieti, trasferirebbero la residenza». Dopo una vita spesa a salvare le scuole della zona, non avrebbe mai immaginato di chiudere la carriera nel segno di una tragedia simile.

Con un 15% di alunni non italiani, l’istituto riceveva da tempo i fondi del Miur per le “aree a forte processo immigratorio”. Per lo più sono bambini nati qui: ad Amatrice e negli altri borghi della Comunità montana del Velino, infatti, spopolati di italiani, il numero di cittadini stranieri è cresciuto a ritmo lento ma costante negli anni ultimi vent’anni. I giovani italiani cercano fortuna altrove, la popolazione invecchia (per ogni bambino sotto i 14 anni ci sono tre over 65) e gli immigrati si sono inseriti quasi inavvertitamente nel tessuto sociale e produttivo del territorio, impiegati per lo più nell’edilizia, nelle pulizie, come badanti. Gli amatriciani me li avevano descritti come disciplinati, tranquilli, grandi lavoratori. Come nel resto d’Italia, fanno quei lavori umili e di fatica da cui gli italiani rifuggono.
Negli elenchi delle vittime ci sono anche loro: sono già 11 i morti accertati di nazionalità romena (l’ambasciata ha chiesto che le loro generalità restino riservate). Il triste bilancio è specchio fedele dei dati Istat. Prima comunità di stranieri in Italia, lo sono anche nella valle del Velino: ad Accumoli, epicentro del sisma, dove gli stranieri sono l’11,4% della popolazione, più della metà sono romeni; ad Amatrice, su 204 residenti non italiani (su 2600), i romeni sono il 37,7%, seguiti da albanesi (25%) e kosovari (8,8%). Molti di loro probabilmente hanno perso la casa in cui avevano investito fatica e risparmi, il sogno di una vita. I loro figli a scuola sono bravissimi, mi aveva raccontato una maestra di Amatrice (sana e salva, per fortuna): per molte famiglie immigrate, infatti, la scuola rappresenta la possibilità di riscatto sociale.
Nell’Europa dell’Est, inoltre, la scuola tradizionalmente è presa molto sul serio. I genitori, anche se poveri, si impegnano per non far mancare nulla ai bambini, sono molto solerti nel dar retta agli insegnanti (spesso più degli italiani) ed esigono in cambio dai figli il massimo impegno. Dopo le medie, qualche ragazzo straniero ha cominciato a iscriversi al liceo, anziché andare a lavorare o frequentare l’istituto alberghiero: è un ottimo segno, anche se la strada verso la piena integrazione è ancora lunga. Una professoressa della scuola media, oriunda di Sicilia, mi raccontava dei tanti alunni che, dopo anni, si sentono ancora “stranieri” tra gli autoctoni. Complice la struttura abitativa del territorio, fatta di frazioni disperse, spesso tra stranieri e italiani c’è “coesistenza pacifica”, più che vera integrazione.
Il radicamento degli stranieri nella Comunità del Velino ha un antesignano illustre. Negli anni Sessanta, il pittore albanese Lin Delija, esule politico, dopo aver studiato a Roma con Mario Mafai si stabilì a vivere ad Antrodoco, a pochi chilometri da Amatrice, che oggi ospita un museo dedicato alle sue opere. Ne possiede una anche la dirigente scolastica Bussi. È una crocifissione, dolentissima: il Cristo di un profugo. Opera profetica: accanto alle comunità romena e albanese, stabilmente insediate, dal 2008 è cresciuta nel Velino la presenza di rifugiati e richiedenti asilo, afghani, curdi, africani. L’anno scorso nell’ambito dello Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati, organizzato dal Ministero dell’Interno con l’Anci) nei Comuni in provincia di Rieti sono stati attivati progetti d’accoglienza per un totale di 264 posti, di cui 30 ad Amatrice.
Cittareale è un borgo minuscolo che pare abbia dato i natali all’imperatore Vespasiano, nemmeno 500 abitanti a quasi 1000 metri d’altezza. Al momento, il sisma qui non ha prodotto danni eccessivi, ma gli abitanti dormono fuori casa, per paura di nuove scosse, mi spiega Angela, funzionaria dell’anagrafe, al telefono. «Non puoi immaginare cos’è qui. Le immagini alla televisione non rendono », dice. Anche qui la presenza di stranieri è insospettabilmente folta: Cittareale aderisce allo Sprar dal 2008 e per la piccola comunità è stata una svolta: grazie al progetto hanno aperto il birrificio artigianale Alta Quota, che ha avuto grande successo, si è ingrandito e adesso offre lavoro anche a molti italiani. La presenza dei figli dei rifugiati, dall’ex Jugoslavia prima, da Turchia, Iraq, Egitto poi, è stata cruciale per mantenere in vita la scuola del paese - minuscola, con finestre che si affacciano sui boschi da ogni lato: un incanto - dove i bambini frequentano la “pluriclasse” della maestra Pina in cui si mescolano allievi di varie età.
La presenza degli stranieri, e dei rifugiati in particolare, in questi borghi tra gli Appennini si è rivelata negli anni una risorsa preziosa per ridare vita a territori spopolati. Con l’emergenza terremoto, attraverso le immagini degli stranieri impegnati nelle attività di soccorso, questa realtà si affaccia alla ribalta nazionale. Speriamo che se ne accorgano, e lo tengano a mente, i populisti xenofobi che strepitano contro le politiche di accoglienza.
«È una sfida vitale, perché riavere i nostri borghi com’erano e dov’erano non serve a difendere il passato: ma a permettere che esista un futuro».La Repubblica, 30 agosto 2016 (c.m.c.)

In Italia i cittadini e i loro monumenti non hanno destini separati: vivono, o muoiono, insieme. Per questo appaiono non solo condivisibili, ma davvero importanti, le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi e del ministro Graziano Delrio sulla necessità di ricostruire i centri devastati dal sisma dov’erano e com’erano, salvo che per le misure antisismiche.

L’espressione «dov’era e com’era» ha una lunga storia italiana. Alle 9.52 del 14 luglio del 1902 il campanile di San Marco a Venezia rovinò al suolo, lasciando un cumulo di macerie alto venti metri. In un dibattito parlamentare, incalzato dal deputato Pompeo Molmenti, il ministro per l’Istruzione Nunzio Nasi (allora responsabile delle Belle Arti) pronunciò parole simili a quelle oggi dette da Renzi: «Il governo non potrà far altro che rispettare la volontà dei veneziani». E il 19 luglio l’inviato del governo dichiarò che il Campanile sarebbe stato ricostruito «com’era e dov’era»: non era pensabile che Venezia perdesse il suo profilo. Venne stampato un francobollo con quel motto, e nel 1908 il ‘nuovo’ Campanile fu inaugurato.

È di fronte alla dimensione apocalittica delle distruzioni della Seconda guerra mondiale che quel motto torna attuale. Nell’aprile del 1945, nel primo numero del Ponte di Piero Calamandrei, lo storico dell’arte Bernard Berenson scrive: «Se noi amiamo Firenze come un organismo storico che si è tramandato attraverso i secoli, come una configurazione di forme e di profili che è rimasta singolarmente intatta nonostante le trasformazioni a cui sono soggette le dimore degli uomini, allora essi vanno ricostruiti al modo che fu detto del Campanile di San Marco, “dove erano e come erano”».

È da quello spirito, che intrecciava ricostruzione delle città e ricostruzione della democrazia, che nasce l’articolo 9 della Costituzione: «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Gli italiani di oggi non lo sanno (il che non fa che dimostrare l’eccezionale bravura delle maestranze di allora), ma le chiese, le piazze, i palazzi che formano i nostri centri storici sono in parte assai notevole frutto di una estesa opera di ricostruzione postbellica. In altri termini: se nel 1945 non fosse stata presa quella decisione, oggi l’Italia come tutti la conosciamo, e celebriamo, semplicemente non esisterebbe.

Questa linea attraversa la nostra storia, annoverando successi (si pensi a Venzone, in Friuli) e insuccessi, fino ad arrestarsi drammaticamente all’Aquila, nel 2009. Qui il governo Berlusconi decise di sacrificare il futuro di una città sull’altare della propria immagine mediatica, dando vita ad una sorta di deportazione di massa, che ha spezzato forse per sempre ogni rapporto sociale, recidendo alla radice il rapporto tra un popolo e le sue pietre.

Con il risultato che oggi il vero rischio è che forse finiremo (tra vent’anni) per avere un’Aquila ricostruita, ma vuota: perché il suo corpo sociale non esiste più. I diciannove insediamenti di cemento voluti da Berlusconi e Bertolaso intorno all’Aquila sono stati chiamati, abusivamente new town, ma il risultato è un’unica no town: una generazione di aquilani che non sa cosa sia una città, e dunque cosa sia la cittadinanza. Perché questo è il cuore della tradizione culturale italiana: il nesso strettissimo tra la bellezza della città e la dignità della vita civile.

Anche la gestione del dopo terremoto in Emilia non è stata esente da ombre: tra le quali il frettoloso abbattimento, a colpi di dinamite, di troppi campanili e municipi danneggiati, ma salvabili. Ora Vasco Errani ha l’occasione di mostrare che si è fatto tesoro di quegli errori, coinvolgendo sistematicamente la comunità scientifica nelle decisioni da prendere. Per ricostruire i borghi appenninici com’erano e dov’erano occorrerà, infatti, abbandonare improvvisazioni mediatiche come quella dei cosiddetti ‘caschi blu della cultura’, e invece tornare ad avvalersi delle solide competenze del personale delle soprintendenze, troppo spesso umiliato e privato di ogni mezzo.

Grazie al lavoro esemplare di una funzionaria dei Beni Culturali (Alia Englen, coadiuvata tra gli altri dalla storica dell’arte, e direttrice del museo civico di Amatrice, Floriana Svizzeretto, uccisa dal crollo della sua abitazione) abbiamo una catalogazione capillare del patrimonio artistico di Amatrice, corredata da una capillare documentazione fotografica: ed è da questa conoscenza che bisogna ripartire per impedire saccheggi, salvare ogni pietra che si possa consolidare, ricostruire il resto e trattenere in loco il patrimonio mobile.

È una sfida vitale, perché riavere i nostri borghi com’erano e dov’erano non serve a difendere il passato: ma a permettere che esista un futuro.

Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato...(segue)

Nel dipinto “San Marco benedice le isole della laguna”, di Jacopo e Domenico Tintoretto, il protettore di Venezia è raffigurato mentre stende la mano benedicente verso le prime capanne ed i primi abitanti della laguna. Ora gli abitanti della laguna sono stati cacciati, e ognuna di quelle isole benedette è diventata, o si avvia a diventare, un albergo di lusso.

Periodicamente appaiono articoli di stampa nei quali si dà conto, spesso compiacendosene, che “a Venezia è caccia ai resort sulle isole…. il fenomeno si sta intensificando… le isole stanno vivendo un vero e proprio boom di gradimento e attirano investimenti esteri (Sole 24 Ore, 15 maggio 2015). Non si dice, però, che il “fenomeno” è il risultato del piano messo a punto e accuratamente attuato dagli amministratori locali a servizio degli investitori, per cedere ai privati la proprietà non solo di singoli edifici, ma di intere isole.

Le decisioni del comune che, come “bombe intelligenti” sono state usate per “neutralizzare” gli abitanti e salvare le pietre, hanno colpito tutto il territorio lagunare. Ma è nella serie di isole che si snoda a sud della Giudecca e di San Giorgio: la Grazia, San Clemente, Sacca Sessola, Santo Spirito, Poveglia, che il progetto, avviato vent’anni fa, con l’intento di trasformare la laguna in un contenitore di villaggi per le vacanze dei ricchi è stato portato a termine nel modo più completo e sistematico.

San Clemente e Sacca Sessola.
Nel 1997, subito dopo la rielezione a sindaco di Massimo Cacciari, il comune inizia le procedure per la vendita di San Clemente, già sede di un ospedale psichiatrico, nella cui proprietà era subentrato alla provincia, nel 1992, in seguito alla chiusura delle strutture manicomiali imposta dalla legge 180 del 1978, fermo restando il vincolo di utilizzo a favore delle attività della ULSS, l’azienda sanitaria locale.

San Clemente

Il primo atto è un accordo di programma con l’azienda sanitaria e con la regione (ai tempi presieduta da Giancarlo Galan), accordo che viene sottoscritto in tempi rapidissimi, perché tutte le istituzioni coinvolte sono favorevoli all’operazione. Scrive, ad esempio, Carlo Crepas direttore della ULSS in una lettera al sindaco: “caro Cacciari, come ti ho più volte illustrato, stiamo seguendo le vie più opportune per addivenire alla alienazione dell’isola di san Clemente, cui l’amministrazione comunale è molto interessata al parimenti di noi.. il ritorno per il servizio sanitario nazionale e l’utenza sarebbe positivo e incontrovertibile… inoltre… in questo momento vi sono buone possibilità di reperire sul mercato potenziali acquirenti tenuto conto della carenza di posti letto alberghieri nel centro storico veneziano, in relazione anche al periodo concomitante con il prossimo Giubileo”.

Nel mentre lavora per consentirne la vendita, il comune si attiva anche per rendere più appetibile l’acquisto dell’isola, modificandone le destinazioni d’uso che, secondo il piano regolatore, erano: ospedali per la parte edificata e rurale a cultura estensiva per quella non edificata. La variante al piano regolatore, predisposta nello stesso 1997 dall’assessorato all’urbanistica, di cui è titolare l’architetto Roberto d’Agostino, si pone come obiettivo quello di “determinare le condizioni reali per l’utilizzo del bene” e indica tra le destinazioni ammesse: abitazioni collettive, attività ricettive, espositive, di istruzione, uffici, attività ricreative e culturali. In alcuni edifici, inoltre, autorizza l’inserimento di nuovi solai per aumentare il numero dei piani.

Dopo di che, l’isola, che ha una superficie di 6,7 ettari, va all’asta e, nel 1999, viene acquistata, per l’equivalente di circa 10 milioni di euro, dalla Compagnia Finanziaria di Investimento spa di cui è principale azionista Gilberto Benetton.

Si conclude, così, la prima parte di una vicenda che è un caso da manuale della saldatura tra privatizzazione della sanità pubblica e privatizzazione del territorio. A nulla sono valse le proteste, peraltro isolate, di cittadini e associazioni, tant’é che, nel 2004, il Tar respinge il ricorso dell’Associazione italiana per la tutela della sanità mentale, che aveva denunciato lo sviamento di fondi pubblici da parte dell’azienda sanitaria locale perché aveva ignorato il vincolo d’obbligo dei proventi della alienazione a favore di attività e servizi per la salute mentale e “aveva deportato i ricoverati per liberare l’isola e farne una perla del turismo lagunare”.

La successiva realizzazione del complesso alberghiero vede alterne vicende e cambi di proprietà, che non inficiano, però, il successo complessivo dell’operazione. Ora San Clemente appartiene alla società turca Permak che l’ha data in gestione al gruppo Kempinski. Nel marzo 2016, l’albergo è stato riaperto con il nome di San Clemente Palace Kempinski Venezia. “Il Palace è perfetto per il portafoglio Kempinski” ha detto l’amministratore delegato della società. “Offre relax totale.. su un’isola privata che si sviluppa su più di sette ettari e con splendidi giardini, gli edifici storici del monastero e una chiesa risalente al XII secolo ”.

Sacca Sessola

Simili, e pressoché contemporanee le tappe che hanno consentito la trasformazione di Sacca Sessola, già sede di un ospedale per malattie polmonari, in albergo gestito da una multinazionale del turismo di lusso.

Nel 1997, il comune adotta una variante al piano regolatore che modifica le destinazioni d‘uso della grande isola, 16 ettari di superficie, che l’azienda sanitaria locale intende vendere per 13 milioni di euro. In questo caso l’acquirente non è un “imprenditore mecenate”, ma la CIT Compagnia italiana del turismo che, nel 1998, è stata privatizzata dal governo Prodi e usando soldi pubblici si è lanciata in speculazioni nei settori più vari. Prima di fallire, la CIT realizza un albergo al grezzo il cui completamento si prolunga per una decina d’anni. Nel 2012, l’amministrazione del sindaco Giorgio Orsoni elimina la previsione di attrezzature sportive, che secondo gli strumenti urbanistici avrebbero dovuto essere create nella parte nord ovest, perché “non vi è alcun interesse da parte dell’amministrazione comunale all’uso di impianti sportivi in quell’ambito” e approva il progetto di riqualificazione unitaria predisposto dai proprietari.

Ora l’isola appartiene a una finanziaria tedesca la Aareal Bank, che l’ha data in gestione al gruppo americano Marriott. A sancire la conquista, i nuovi padroni hanno cambiato il nome di Sacca Sessola, battezzandola Isola delle Rose.

Oltre alle 250 camere della parte propriamente alberghiera, il Marriott Venice Resort ha al suo interno una chiesetta che verrà ristrutturata per i matrimoni e un “centro benessere” con tre piscine, di cui una coperta, “la spa più grande di Venezia.. . un paradiso a portata di turista dove il relax non è più un semplice lusso” (La Stampa, 29 giugno 2015).

Nei messaggi pubblicitari dell’albergo, che per Marriott rappresenta “la prima proprietà 5 stelle de luxe in Italia”, l’isola è descritta come “un luogo unico per rigenerarsi… carico di energia positiva, vi spira una brezza, già mediterranea nel gioco delle correnti, fresca e benefica”. Non a caso era un sanatorio!

La Variante al Piano regolatore generale
per la Laguna e le isole minori



Soddisfatti per l’esito delle varianti di San Clemente e Sacca Sessola, gli amministratori comunali decidono di non procedere più caso per caso, ma di predisporre una Variante al Piano regolatore generale per la Laguna e le isole minori. Il documento, redatto tra il 1999 e il 2001, è adottato dal comune nel 2004, quando è sindaco Paolo Costa, ma l’assessore competente è ancora l’architetto D’Agostino.

Bisogna “approntare un quadro urbanistico che consenta il riuso e sia già pronto quando si presentino i potenziali investitori”, si legge nella relazione che illustra la filosofia del comune nei confronti dei beni pubblici e descrive i criteri e le modalità di intervento più idonei per renderli attraenti ai privati.

Secondo gli estensori, infatti:
- se molte isole sono state abbandonate è perche le loro destinazioni non erano più appropriate, “si trattava di usi poveri che sfruttavano l’insularità per creare condizioni di segregazione rispetto al contesto urbano”,
- essendo abbandonate, le isole sono soggette ad usi predatori… è la “tragedia dei commons” per cui i beni pubblici vengono sfruttati in maniera non sostenibile,
- il piano regolatore generale del 1962 vincola molte isole della laguna a destinazioni d’uso obsolete, militari e ospedaliere, da tempo cessate e non più opportune, il che ne ostacola seriamente l’uso.

Ne deriva l’obiettivo primario di “favorire il riuso delle isole con attività che generino flussi di persone tali da giustificare nuove linee di trasporto pubblico, anche a chiamata, cosicché gli usi controllati aiutino a combattere quelli predatori”.

Dal punto di vista operativo, e tenuto conto che il recupero è possibile “solo per funzioni che diano agli immobili un valore tale da rendere economicamente sostenibili i costi, la variante indica una “gamma realistica di destinazioni compatibili con la valorizzazione di ogni isola e della porzione di laguna limitrofa”. Fra gli usi ammessi ci sono sempre attrezzature collettive “non necessariamente di proprietà pubblica” e, siccome per alcune isole “il recupero all’uso può essere ostacolato dall’insufficiente capienza degli edifici esistenti”, è ammessa la realizzazione di strutture necessarie all’efficiente esplicazione delle funzioni previste dallo strumento urbanistico” (cioè nuovi edifici).

Per i cittadini (i “predatori” secondo l’amministrazione comunale) poco resta. La variante dice solo che “onde evitare che il recupero all’uso da parte dei privati si traduca nella impossibilità di accedere alle isole da parte della generalità dei cittadini, laddove ciò appariva ragionevole è stata ricavata una porzione da destinare a spazio d’uso pubblico… che sarà regolato da convenzione tra privati proprietari e comune e ne stabilisca orari e modalità compatibili con l’uso principale dell’isola”.

Santa Maria della Grazia

Santa Maria della Grazia

Per attirare i compratori, oltre ad un quadro normativo sempre più “business friendly” , le amministrazioni pubbliche fanno a gara nell’abbassare i prezzi delle isole a valori fuori mercato. Nel 2001, ad esempio, la regione autorizza l’azienda sanitaria locale che intende alienare l’isola della Grazia, di quasi 4 ettari, “al fine di ricavare risorse necessarie al miglioramento delle strutture sanitarie al servizio dei cittadini veneziani”, a venderla per 20 milioni di euro. Ma l’anno successivo, nel 2002, una nuova delibera ne dimezza il prezzo a 10 milioni.

Quindi, il comune si attiva per “offrire una corsia preferenziale” per la Grazia e, nel 2003, adotta una variante (stralcio della variante per tutte le isole non ancora adottata) che ne modifica le destinazioni e consente la costruzione di due nuovi edifici.

Nel 2007 l‘isola è venduta, per 8,7 milioni di euro, alla GS Investment di Giovanna Stefanel, sorella dell’imprenditore trevigiano, “entrata nel mondo degli affari immobiliari con il marito tedesco”.

Oltre che da vertenze giudiziarie per presunte irregolarità nella vendita e dalla pretesa dei proprietari di accollare i costi di bonifica dei terreni ai contribuenti, la trasformazione è rallentata anche dalla insoddisfazione della signora Stefanel che amerebbe farne una sua residenza - “l’isola è entrata nel mio cuore!”- per i vincoli che ne impongono un pur minimo accesso pubblico.

Secondo lo schema di convenzione per il progetto unitario per la riqualificazione della Grazia approvato nel 2012 (sindaco Giorgio Orsoni, assessore Ezio Micelli), tali vincoli consistono nella “apertura della piazzetta e la possibilità di passaggio lungo un percorso prestabilito, per tre giorni alla settimana, più le festività, dalle 10 alle 11 e 30”. La piazzetta, peraltro, per 60 giorni all’anno rimane ad uso esclusivo della struttura ricettiva.

Secondo il Gazzettino “la Grazia è una storia emblematica delle complicazioni in cui si può impantanare la vendita di un bene pubblico… di come un piccolo gioiello possa finire nel dimenticatoio nella rovina”, ma tutto è bene quel che finisce bene, e ora pare che la signora Stefanel possa procedere. I suoi architetti, ha dichiarato, stanno lavorando a “un progetto mondiale, una struttura unica”, e finalmente “sarà garantito il recupero dell’isola nel rispetto della sua storia”.

Santo Spirito e Poveglia

Assieme all’azienda sanitaria locale, il grande venditore di isole è il Demanio dello Stato, le cui offerte sono sicuramente le più vantaggiose. Nel 2004, ad esempio, vende, per 350 mila euro, i 2,4 ettari di Santo Spirito ad un gruppo di imprenditori padovani facenti capo alla Poveglia srl.

Il relativo “piano di recupero di iniziativa privata”, strumento sufficiente, dopo l’approvazione da parte della regione, nel 2010, della variante per la laguna e le isole, per le trasformazioni fisiche nel territorio lagunare, è approvato nel 2014 dal commissario straordinario Vittorio Zappalorto.
La destinazione dichiarata è residenziale, una scelta determinata dalla volontà di “creare un luogo dove si può godere del vivere in mezzo all’acqua abbandonandosi alla quiete e al silenzio… assaporare l’estasi di vivere tra mare e cielo, tra acqua e stelle, e l’attrazione di raggiungere in pochi minuti il salotto più emozionante al mondo piazza san Marco”. Alla residenza sarà annessa una piscina e il tetto potrà essere coperto con una struttura che non “costituisce volume”. Ci saranno anche un certo numero di case- albero, strutture aperte e staccate dal suolo, dedicate a chi desidera godersi la vista della laguna meditando”. In definitiva, concludono gli autori, si tratta di un progetto di “ri-antropizzazione dell’isola saccheggiata e distrutta dopo secoli di splendore residenziale”.

Santo Spirito

“Case per 144 nuovi veneziani. La sfida è ripopolare la città storica col recupero di beni dismessi” titola con entusiasmo il Gazzettino (15 marzo 2014); “Quartiere residenziale per 150 persone” esulta la Nuova Venezia (30 luglio 2014). Più sobriamente, le agenzie immobiliari parlano di villaggio nautico (si sta infatti progettando una darsena) con alloggi e relativi posti barca.
Oltre che per il linguaggio ingannevole, il piano di recupero di iniziativa privata per Santo Spirito merita attenzione per il modo in cui perfino modeste previsioni di spazi pubblici vengono stravolte a danno dei cittadini. Per i 144 abitanti teorici insediabili sull’isola, infatti, gli standards prescriverebbero una dotazione di 3456 metri quadri. La prevista area verde pubblico con possibilità di ormeggio ne misura 1581, meno della metà. Gli altri 1875 “non sono stati trovati”, recita la delibera con cui è stato approvato il piano, e quindi il loro valore “sarà” monetizzato. L’area pubblica, inoltre, sarà recintata e alcuni cancelli vi permetteranno l’accesso dalla parte privata.

Poveglia

Il Demanio dello stato ha messo all’asta anche Poveglia che è stata aggiudicata, per 513 mila euro, all’attuale sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, intenzionato a crearvi un centro di “cura per i disturbi alimentari”. L’associazione “Poveglia per tutti” è riuscita a portare all’attenzione mondiale lo scandalo di un paese dove i cittadini sono costretti ad organizzare collette per pagare il riscatto dei beni di loro proprietà, che le pubbliche istituzioni sequestrano a vantaggio di interessi privati.

La vendita di Poveglia è momentaneamente ferma, ma altre isole sono sul mercato. Come dichiara Claudio Scarpa, direttore dell’associazione degli albergatori di Venezia, “il business alberghiero si sta progressivamente spostando sulle isole… Venezia soffoca di turismo, così i big player dell'hotellerie guardano alle isole….luoghi in grado di garantire riservatezza e fornire ambienti ideali per resort e strutture di lusso dotati di ogni comfort”.

Tutti questi “ambienti ideali”, che secondo la variante dell’assessore D’Agostino erano stati abbandonati perché occupati da funzioni povere come gli ospedali, sono ora reclamizzati come oasi di benessere psichico e fisico: relax totale a San Clemente (ex manicomio), aria buona a Sacca Sessola (ex sanatorio); splendido isolamento alla Grazia (ex malattie infettive). Forse il loro “problema” non erano le funzioni povere, ma i clienti poveri. In sé le isole sono perfettamente adatte al benessere e alla salute, ma solo per i ricchi investitori che le salvano dalla “tragedia dei commons”.

Nota. Tutte le foto delle isole sono tratte dal programma Mappe di Apple inc.

«Discutendo con rappresentanti dei cittadini a diversi livelli, durante incontri e assemblee, abbiamo capito che la sicurezza era certo una priorità. Accanto alla quale, però, emergevano altri problemi, più antichi». La Repubblica, 28 luglio 2016 (m.p.r.)

Poche regole, semplici. Per prima cosa una buona ricostruzione è fondata sulla partecipazione delle persone colpite da un terremoto, sul loro senso comunitario. Inoltre non bisogna avere fretta né confondere la carità - necessaria - con la qualità degli interventi. Una buona ricostruzione, poi, comincia un minuto dopo la tragedia e tutto quel che si fa dai primi istanti è parte dell’obiettivo finale. E nell’obiettivo finale è compreso il miglioramento della qualità di vita di chi il sisma ha subito.

Alejandro Aravena, l’architetto cileno premio Pritzker 2016, artefice della svolta marcatamente sociale della Biennale architettura in corso a Venezia, sostenuta con forza dal presidente Paolo Baratta, ha nel curriculum il lavoro nella ricostruzione di Constitución, la città di circa 50 mila abitanti distrutta nel febbraio 2010 da un terremoto di magnitudo 8,8 e sulla quale successivamente si abbatté lo tsunami. Lavoro che si è ripetuto anche recentemente in Ecuador, dopo il sisma (magnitudo 7,8) dell’aprile scorso. A Constitución, dove la ricostruzione procede (l’80 per cento del tessuto urbano è stato distrutto), Aravena, che ora è a Venezia per uno dei periodici incontri previsti dalla Biennale, ha proseguito nell’esperimento già avviato anni prima a Iquique: con i pochi soldi pubblici a disposizione ha progettato insediamenti in cui veniva realizzata solo metà di un appartamento, comprese però le strutture portanti, lasciando a chi la abita di completarla. Uno dei sistemi considerati più innovativi dell’edilizia sociale.
Che cosa vi ha insegnato l’esperienza di Constitución?
«Fin dalla prima emergenza tutta la comunità, nessuno escluso, doveva essere coinvolta. Cominciando dalle piccole cose. A Constitución erano i bambini che s’incaricavano di distribuire l’acqua. Di solito nelle tendopoli arrivavano i camion cisterna e la gente si ammassava, contendendosi una razione d’acqua. Oppure occorreva andare a rifornirsi lontano e nessuno poteva procurarsi più di dieci litri per volta. Nel 2010 fu sperimentato un sistema appreso in Africa. Venticinque bottiglie da un litro erano sistemate in una specie di bidone che anche un bambino poteva far rotolare. Si alleviava una sofferenza e si faceva partecipare chi di solito non partecipa».

Un problema che in Italia si propone ad ogni terremoto è la sistemazione provvisoria dei senzatetto. Purtroppo è come se si partisse sempre da zero. Voi come avete proceduto?
«Il punto è come considerare il temporaneo. Non dev’essere né scadente né assomigliare a qualcosa che resterà permanente. A Constitución abbiamo realizzato strutture che sarebbero diventate parte di quelle definitive. Sia perché alcuni elementi dell’edificio sono stati riutilizzati, sia perché quell’edificio è stato successivamente completato. La ricostruzione è un processo incrementale. E la si deve concepire in questi termini fin da subito: si risparmiano tempo e soldi. Le persone sono disposte ad aspettare più tempo pur di avere una ricostruzione ben fatta. Ma il temporaneo ha anche bisogno di una dimensione collettiva».

In che senso?
«Le abitazioni provvisorie devono raggrupparsi e prevedere servizi in comune. Anche questo è utile a cementare uno spirito comunitario. A Constitución abbiamo realizzato strutture con un numero che andava da otto a venti abitazioni, ognuna per un gruppo familiare. Si formavano piccole cellule sociali, a metà strada fra il privato e il pubblico. Questi nuclei avevano un rappresentante e hanno costituito un elemento di base per la partecipazione alla ricostruzione vera e propria».

Questi nuclei riproponevano un rapporto di vicinato precedente il terremoto?
«In certi casi sì, in altri no. Non venivano stabilite regole fisse. Una gran parte di questo processo era comunque affidata alla volontà dei singoli ».

Veniamo alla partecipazione.
«La questione più delicata di una ricostruzione è il coordinamento di diverse risorse e di diversi interventi. Spesso la partecipazione viene considerata come una perdita di tempo, mentre è esattamente il contrario. Senza partecipazione dei cittadini ogni passaggio sarebbe stato più lento e sarebbero aumentati i fattori di inefficienza. Inoltre partecipare può anche funzionare come terapia per alleviare il dolore e ridurre la paura. Si condivide una visione del futuro. L’importante è capire che dalle persone colpite dal terremoto non bisogna aspettarsi risposte, ma domande che occorre interpretare alla luce delle conoscenze tecniche».
Mi fa l’esempio di un effetto del coinvolgimento dei cittadini?
«Dopo il terremoto, Constitución è stata investita da uno tsunami. Fra le soluzioni proposte c’era la costruzione di un muro che avrebbe dovuto proteggere da un’eventuale, nuova furia del mare. Discutendo con rappresentanti dei cittadini a diversi livelli, durante incontri e assemblee, abbiamo capito che la sicurezza era certo una priorità. Accanto alla quale, però, emergevano altri problemi, più antichi».

Quali?
«La carenza di spazio pubblico, in primo luogo. Ogni abitante di Constitución aveva a disposizione appena 2 metri quadrati di spazio pubblico. Tenga conto che a Londra sono 44. E, ancora: a ogni pioggia intensa parti della città finivano alluvionate. Poi entrava in gioco l’identità collettiva ».
L’identità?
«In Italia hanno valore identitario un campanile, una torre, un edificio antico, un centro storico. Ed è fondamentale che questi manufatti, danneggiati da un terremoto, si restaurino. A Constitución l’identità trovava raffigurazione nel fiume, le cui sponde erano quasi integralmente in mano a poche famiglie. Questi e altri elementi ancora ci hanno fatto capire quanto articolata fosse la domanda proveniente dalla comunità. E allora, invece di realizzare un muraglione, abbiamo cercato soluzioni che dessero risposte anche agli altri bisogni. Così è nata l’idea di un bosco davanti al mare, un bosco che potesse dissipare le onde di uno tsunami, ma che contemporaneamente fosse luogo di svago e di benessere, che consentisse l’accesso al fiume e che garantisse maggiore assorbimento delle acque piovane».
E la gente ha apprezzato?
«Ha votato e per il 94 per cento ha approvato il nostro progetto. È maturata la convinzione che da una tragedia si può uscire reinventando se stessi, conservando ciò che di buono la città aveva espresso e anche ottenendo nuove conquiste».

«Un’altra Italia, interna e provvisoria come quella appena ferita dal sisma, al centro del festival animato dal poeta della paesologia Franco Arminio. "La luna e i calanchi", viaggio "politico" negli avvolgenti paesaggi lucani di Aliano, dove la ricostruzione è anche quella delle parole». Il manifesto, 28 agosto 2016



Fare cinquecento chilometri per attraversare l’Abruzzo, tagliare la Puglia in direzione Potenza, e perderci negli avvolgenti paesaggi lucani verso Aliano per me e il poeta Adelelmo Ruggieri è stato un gesto politico. Arrivare in un paese di poche anime e tra queste terre dove le strade si perdono dentro i calanchi chiari e argillosi, strade che incrociano altre strade, fin quando dal basso delle lingue di asfalto non sali seguendo l’indicazione perché le case, i borghi, le piccole piazze sono in alto, bisogna conquistarli, espugnarli curva dopo curva.

Confinato qui dal fascismo Carlo Levi vedeva il paese «bianco vicino ad un alto colle desolato, come una piccola Gerusalemme immaginaria nella solitudine di un deserto», così scriveva in uno dei nostri libri civili, Cristo si è fermato a Eboli, che ad Aliano ha dato un po’ di notorietà letteraria.

Settant’anni dopo la sua pubblicazione un altro scrittore visionario quanto quello torinese, Franco Arminio, è giunto in questo luogo simbolico della Lucania interiore per organizzare «La luna e i calanchi», qualcosa che ricorda più i raduni situazionistici degli anni ’70 che le paludate rassegne festivaliere con i filosofi o gli scrittori, l’orizzontale contro il verticale insomma.

Lui, che si definisce un «Capitano» whitmaniano, quando arriviamo è già in Piazza Garibaldi padrone della scena. Pantaloncini corti da paesologo camminatore, stringe mani, incita e sfotte, cerca di risolvere anche i problemi di alloggio nelle case diffuse prive di asciugamani, carta igienica, dove non c’è neanche uno specchio per potersi guardare. Ma qui è così, e nessuno si lamenta, tutto è provvisorio come la comunità che si raccoglie ogni anno intorno all’autore irpino difensore dell’Italia interna, quello che visita da anni i paesi disabitati di un sud disperso per fare quello che chiama «turismo della clemenza». Mentre un’altra Italia, quella centrale, negli stessi giorni era straziata da un terremoto apocalittico, quindi un festival di una urgenza molto forte, diretto da uno scrittore nato nella ferita del sisma che colpì la sua Irpinia d’Oriente negli anni ‘80, che ha raccontato in un libro indimenticabile, Viaggio nel cratere (Sironi, 2003).

In Piazza Garibaldi, di lato alla sede del Comune, è allestito il circo dei Calanchi, un clown calvo e corpulento ammaestra i bambini seduti sulle balle di fieno, per strada Claudia Fabris, le cui ciocche di capelli nerissimi e rigogliosi sono alzate da palloncini colorati, gira con un cesto da cui si possono pescare poesie, in paese il clima è rilassato, si passeggia in lungo e il largo la via principale, i giovani arrivati qui e accampati in tenda stanno seduti ai tavoli dei due baretti bevendo birre, o vagano per i vicoli che da qui scendono verso Piazzetta Panevino. È l’agorà dove dalle dieci di sera alle sette del mattino c’è sempre qualcuno che recita, canta, suona, oppure come me e Adelelmo alle due passate conversa sui destini sociali del Sulcis-iglesiente ma anche sulla morte, tema al quale il festival della paesologia quest’anno dedica una stanza dove si può lasciare una testimonianza scritta. Ce ne sono alcune struggenti e umanissime. Mi colpisce quella scritta a mano con una grafia elegante di un mancato incontro davanti al mare di Posillipo: «Non sei arrivato e io ero a cinque minuti e non t’ho potuto abbracciare mentre morivi». Tra i vicoli molte istallazioni nelle cantine delle case, come la piccola ma preziosa mostra Cellophane armato di Pietrantonio Arminio, appoggiate a un muro che dà verso i calanchi le tavole in terracotta con le parole cadute in disuso: Umiltà, Rispetto, Altruismo, Tolleranza, Solidarietà, Ascolto e Pietà.

Per essere un piccolo paese, Aliano ospita un museo della civiltà contadina, la casa di Levi e i suoi luoghi, ricordati con delle targhe in terracotta in diversi punti del borgo, un auditorium e la Sala personale Paul Russotto, un pittore newyorkese di origini alianesi, esponente di spicco dell’espressionismo astratto americano. Sotto al museo c’è «La stanza delle voci», curata da Claudia Fofi e Silvana Kühtz, con giochi di lettura e il lascito delle voci. Sono voci di chi ha tradito, oppure è stato abbandonato. Quando mi siedo, Silvana legge una poesia però mi chiede di ascoltarla ad occhi chiusi. «Ci sono troppe immagini, troppe fotografie», mi spiega Claudia. «Bisogna dimenticare i visi e mantenere le voci, la voce è la vera anima delle persone». Quando va nelle scuole cerca di insegnare ai bambini di non parlare con la voce alta ma ad alta voce, spiega, «quella che si usava nei campi, che era una voce selvatica, vera» racconta commossa.

Diverse sono le incursioni paesologiche, come quella verso Gorgoglione, un pellegrinaggio iniziato con un serpentone di auto e finito a piedi tra i boschi fino alla Grotta del Brigante. Io e Adelelmo ci siamo andati insieme ad Antonio Selbusi e Fridanna Maricchiolo, incontrati in paese. Frida è ricercatore all’Università Roma Tre, dice che secondo lei la gente arrivata qui è spinta da un forte bisogno di identità sociale, «tutto si basa sull’appartenenza a dei gruppi che abbiano un riconoscimento sociale positivo, perché questo crea autostima». Ma c’è anche un bisogno forte di politica e di ricostruzione di un lessico, cose che questo festival comunitario interpreta con alcune lectio magistralis (Isaia Sales sulle mafie, Gianfranco Viesti su Sud e globalizzazione, tra gli altri) e i Parlamenti, sorta di confronto a più voci e aperto sulle questioni della contemporaneità. Indimenticabile «La passeggiata nei calanchi», poco sotto Aliano in un paesaggio lunare di collinette argillose e dentro il grande uliveto che si vede in alto, dal paese, la messe di alberi rigogliosi che tinteggiano le terre arse. Come in una cerimonia laica fatta di sedici stazioni, lungo la strada di polvere che serpeggia in uno scenario naturale fortemente suggestivo, riecheggiano voci e suoni di musicisti e poeti, quelle di attori. Anche grazie a queste «Azioni paesologiche», dove «l’arte sacralizza i luoghi», come dice Arminio al megafono mentre la processione avanza, «siamo sentinelle di questo paesaggio, quindi non potranno oltraggiarlo, anche grazie a noi diventerà il Parco protetto dei calanchi».

In una società dove ormai gli scrittori, gli intellettuali non hanno più un ruolo sociale, ridotti anche loro a produttori di merci seriali, divenuti entertainer spettacolari, Franco Arminio è l’ultimo dei poeti comunitari, cioè qualcuno per il quale la parola diventa concreta, la frase dà vita a una azione civile, è uno dei motivi che ha spinto me e Adelelmo ad arrivare fin qui in questa coda dell’estate, cosa che hanno fatto molti altri da ogni parte dell’Italia, poeti come Mariangela Gualtieri, critici rigorosi come Andrea Cortellessa, narratori civili come Andrea Di Consoli, reporter come Rumiz, filosofi, pensatori, politici che cercano d’invertire la rotta di un Meridione che arretra sempre di più nel mondo globalizzato. Le sue frasi liriche combattono quelle mortifere del Capitale finanziario, e al P.I.L. oppone esteticamente il B.I.L. (Bellezza interna lorda). Per i ragazzi nati in queste terre, spesso destinati alla cattività e all’esodo, Arminio ha scritto una lettera, li invita alla rivolta: «Uscite, contestate con durezza i ladri del vostro futuro: sono qui e a Milano e Francoforte, guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo. Siate dolci con i deboli, feroci con i potenti». È l’erede naturale di Rocco Scotellaro e Danilo Dolci, di cui ho comprato proprio qui ad Aliano un libro delizioso, La radio dei poveri cristi, storia brevissima della prima emittente libera italiana durata un giorno e chiusa da poliziotti e carabinieri nel marzo del 1970. Me l’ha venduto un editore coraggioso arrivato dalla Sicilia, Ottavio Navarra, pacchi colmi di volumi e banchetto al seguito. «Sono venuto perché mi piace quello che scrive Arminio», mi spiega, «l’idea di un nuovo Umanesimo, siamo qui per cercare strade nuove, parole nuove, un festival dove uno diventa veramente protagonista».

Sono tornato a Fermo, la mia piccola città, giusto in tempo per sentire il grido sotterraneo di un’altra Italia interna sfregiata dal terremoto che ha colpito piccoli paesi che erano e sono anche parte della mia geografia interiore: Arquata del Tronto, Amandola, la montagna di Montegallo. Anche nel nostro appartamento al quinto piano, è arrivata la paura a svegliarci nel cuore della notte, a ricordarci fragili come le piante, le case, gli animali dei paesi.

Essendo stato per tre giorni ad Aliano, dove pubblico e artisti si incontrano davvero per strada, nei bar, soprattutto con la gente, con una umanità semplice e mite, consumano un pasto povero alla mensa, mi è venuta in mente quella frase bellissima di Cesare Pavese da La luna e i falò che pensando ai luoghi cancellati fa venire i brividi: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

». La Repubblica, 28 agosto 2016 (c.m.c.)

«Qui tutte le chiese sono piene di sordide, maledette e menzognere immagini, ma tutti le venerano. Perciò le sto distruggendo una per una da solo, con le mie mani, per combattere la superstizione e l’eresia». La scena è Torino, e chi parla non è un estremista islamico ma Claudio, irriducibile campione di un’iconoclastia militante, che di Torino fu vescovo per dodici anni (dall’816 all’828).

Secondo il suo contemporaneo Giona di Orléans, Claudio, «acceso da zelo sconfinato e senza freni, devastò e abbatté in tutte le chiese della diocesi non solo i dipinti di storia sacra, ma perfino tutte le croci», deridendo gli avversari: «Cristo fu sulla croce per sei ore, e dobbiamo venerare tutte le croci? Non dovremmo allora venerare anche le mangiatoie, dato che fu in una mangiatoia, le barche perché in barca fu spesso, gli asini perché su un asino entrò a Gerusalemme, i rovi perché di rovo era la corona di spine, le lance perché una lancia gli fu confitta nel costato?»

Troppo spesso consideriamo l’iconoclastia un corpo estraneo rispetto alla cultura “occidentale”, attribuendola in esclusiva all’Islam, o semmai a una fase della storia religiosa di Bisanzio. Ma non meno spietata, e più vicina a noi, fu l’iconoclastia protestante, lanciata a Zurigo nel 1523 e poi diffusa in tutti i Paesi a nord delle Alpi. Al British Iconoclasm la Tate Gallery dedicò nel 2013 una mostra importante, e con egual forza il fanatismo di Claudio di Torino ci obbliga a guardare anche l’iconoclasta che è in noi. Eppure, da Bamiyan a Timbuctu, l’iconoclastia vista dall’Europa sembra dover portare un solo marchio di fabbrica, quello dell’Islam.

Gli stessi autori di queste devastazioni fanno di tutto per accreditare la radice teologico- religiosa della loro furia demolitrice, presentata come ossequio ai precetti del Corano. Se accettiamo questa versione dei fatti, la conseguenza è uno scontro di civiltà, in cui chiunque contrasti le distruzioni — anche se rigorosamente ateo — viene bollato come “crociato”.

Il solo antidoto a questo veleno è riconoscere e denunciare la natura strettamente politica dell’iconoclastia del nostro tempo. Ma anche la radice, egualmente politica, della tutela della memoria culturale. Ricordiamo: la distruzione dei giganteschi Buddha gemelli di Bamiyan (12 marzo 2001) anticipò di nove mesi esatti l’abbattimento delle Torri gemelle di New York (11 settembre), come se il secondo evento, con le sue vittime umane e la sua spettacolarità ineguagliata, fosse già in gestazione nel primo.

In ambo i casi, centro generatore dell’azione devastatrice non fu una statua o un grattacielo, ma la scena, o meglio lo spettacolo, della distruzione. Le Twin Towers furono abbattute nella certezza che l’evento sarebbe stato ripreso sull’istante dalle televisioni, e che il mondo si sarebbe fermato a guardare. A Bamiyan, a Mosul, a Palmira sono stati gli stessi distruttori a documentare se stessi, in un’orgia di selfie fotografici e cinematografici, da diffondersi poi in tutto il mondo.

Adepti più o meno consapevoli della “società dello spettacolo” profetizzata da Guy Debord (1967), questi nemici delle immagini le annientano sì, ma allo scopo di produrre nuove immagini, quelle della loro distruzione. Creano e diffondono accanitamente una neo-idolatria, una iconizzazione di sé che richiede l’intenso uso dei media: 45mila accounts Twitter di militanti Is secondo Stern e Berger ( ISIS: the State of Terror, 2015). Il loro è calcolo politico, esattamente come quando si abbatterono le statue di Mussolini o di Stalin: chi atterra le immagini vuol farsi vedere mentre lo fa perché mostra i muscoli, trasmette un messaggio di intransigenza e di forza ostinate, spedito al mondo da un palcoscenico creato
ad hoc. Eppure, fra chi elogiò i primi tentativi di distruggere i Buddha di Bamiyan nel Settecento si conta Goethe: l’insofferenza protestante per le immagini di culto s’incontrava in lui con l’iconofobia ricorrente nella cultura islamica.

Ma c’è oggi un’altra iconoclastia, che non ha religione né confini. Non ostenta se stessa, ma nemmeno si nasconde, perché conta su una naturale complicità “globale”. Alla Mecca vige il divieto di ingresso ai non mussulmani, ma negli ultimi anni la città si è trasformata in una vera e propria Las Vegas saudita (lo scrive Ziauddin Sardar, Mecca. The Sacred City, 2015). Il re porta il titolo di “Custode delle Sacre Moschee”, ma lo interpreta promuovendo la distruzione sistematica di preziosi edifici storici in favore di centri commerciali. Per citare solo qualche esempio fra tanti, è stata abbattuta la moschea di Bilal, del tempo di Maometto; la gigantesca fortezza ottomana di Aiyad (sec. XVIII) è stata rasa al suolo nel 2002 e sostituita dal Mecca Royal Clock Tower, un complesso alberghiero di lusso con al centro un grattacielo alto 601 metri, copia ingigantita del Big Ben, che ormai sovrasta i luoghi più sacri dell’Islam.

Cambiamo scenario: a Mosca si è combattuto duramente fra chi voleva salvaguardare Dom Stroyburo, edificio- simbolo del costruttivismo russo, opera di Arkady Langman (1928), e chi voleva distruggerlo per una speculazione edilizia. Nonostante fosse sottoposto a tutela architettonica, l’edificio è stato abbattuto illegalmente di notte nel marzo 2015, a quel che pare da membri della mafia locale, che durante la demolizione urlavano derisoriamente “Allah è grande!”. L’invocazione religiosa degli estremisti islamici diventava così un blasfemo sberleffo di criminali comuni, in una capitale europea.

Una stessa iconoclastia, in nome del mercato, è all’opera alla Mecca e a Mosca, ma anche intorno a noi. È il degrado che colpisce il patrimonio culturale, l’invasione dei paesaggi svenduti alla speculazione edilizia, l’inquinamento dell’ambiente, l’abbandono di chiese e monumenti storici, l’installarsi di malsane discariche anche nelle più preziose aree agricole, la colpevole retorica di uno “sviluppo” che calpesta la storia in nome dell’economia, la monocultura del turismo che svuota le città, l’esilio della cultura ai margini della società.

La nostra sensibilità collettiva si accende di indignazione davanti ad efferate distruzioni di beni monumentali, ma non quando devastazioni di eguale violenza vengono compiute da noi stessi, contro la dignità e la vita stessa dei cittadini. Questo non si chiama “terrorismo”, ma produce effetti non meno devastanti. Perciò è importante ricordare a noi stessi che la tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio culturale ha una radice squisitamente politica. Si collega (lo dice la Costituzione) all’orizzonte dei nostri diritti. È il sale della democrazia. Anche davanti a distruzioni severe e incontrollabili (una guerra, un terremoto) è dalla capacità di salvare e ricostruire il patrimonio monumentale che si misura la forza, o la debolezza, di un Paese. Le promesse fatte dal governo in questi giorni vanno nella direzione giusta: speriamo di poterne confermare il giudizio da qui a un anno.

Non sempre il mondo della finanza interviene utilizzando i suoi burattini: i governi. A volte preferisce cancellare le decisioni dei popoli direttamente«Dalla Calabria a Pisa, da Latina ad Arezzo: la finanza blocca la gestione statale del servizio». Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2016 (p.d.)

Carte segrete e acquedotti colabrodo; dighe iniziate e mai finite; un socio privato – la francese Veolia – che non vede l’ora di lasciare la Calabria, ma in cambio di un “condono”sul passato. E poi un finanziamento milionario della Depfa Bank, lo stesso istituto finanziario – controllato oggi dal governo tedesco – che sta bloccando per via legale il piano di riubblicizzazione dell’acqua a Latina. Tutto garantito da un contratto firmato 9 anni fa e ancora oggi secretato “per tutelare la banca, che non ha dato l’autorizzazione a divulgare il documento”, spiega al Fatto Quotidiano il direttore finanziario di Sorical, Simone Lo Piccolo, che nega l’accesso agli atti invocando la privacy.

Sorical Spa è uno dei tanti disastri della gestione mista pubblico-privata degli acquedotti: vende l’acqua ai Comuni della Calabria, gestisce le grandi infrastrutture e, con l’arrivo dei francesi, avrebbe dovuto incanalare con acquedotti moderni l’enorme quantità di acqua delle montagne calabresi. Dopo anni di pessima gestione, sono arrivati i commissari e il sistema idrico integrato è rimasto il grande sogno incompiuto. In pieno stile Salerno-Reggio.

Sorical, però, è anche uno dei principali clienti italiani di Depfa, la banca specializzata in derivati e finanziamenti degli enti pubblici europei, salvata nel 2014 da un fondo del governo tedesco, dopo essere finita nella bufera per via dei famigerati mutui subprime. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono stati per anni il campo d’azione della banca, per un pacchetto di obbligazioni in mano a fondi internazionali che supera abbondantemente il miliardo di euro, garantito da una serie di complessi – e rischiosi – derivati. In Calabria e a Latina, Depfa ha avuto come partner principale Veolia; in Toscana i suoi compagni di avventura sono la romana Acea (al 51% del Campidoglio) e il Monte dei Paschi di Siena. Qui l’acqua, da tempo, è appannaggio del Giglio magico renziano. A partire da Publiacqua, il gestore della provincia di Firenze guidato negli anni passati da Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità, e che nel cui cda è stata per diverso tempo Maria Elena Boschi.

I Comuni dell’ambito idrico della Provincia di Pisa, invece, nel 2002 hanno affidato la gestione del servizio alla Acque Spa, partecipata – come in gran parte della Regione – da Acea. Quando è il momento di mettere i soldi per gli investimenti previsti dalla concessione, però, la società romana contatta Depfa. Una sigla decisamente di moda nel nostro Paese all’epoca, quando il governo – attraverso il ministero delle Infrastrutture – promuoveva ovunque gli strumenti finanziari più sofisticati per realizzare gli acquedotti, senza però evidenziarne i rischi. La banca di Dublino – affiancata da Mps, da alcuni istituti locali e dalla Cassa depositi e prestiti – presenta ai sindaci della provincia di Pisa le stesse condizioni che applicherà poco dopo a Latina e di cui Il Fatto si è occupato nei giorni scorsi: in cambio dei soldi, i Comuni hanno dovuto firmare un contratto di pegno che prevede un potere totale per gli investitori. Una serie di clausole che consentono a Depfa, in caso di “evento rilevante”, di esautorare il potere d’indirizzo strategico dei sindaci sostituendosi ad amministrazioni elette dal popolo. I possibili casi di “evento rilevante” sono elencati con precisione e, tra questi, a Pisa, c’è anche la possibilità che la quota di Acea scenda sotto al 45%. Nessuna ri-pubblicizzazione, dunque, sarà mai possibile in quella zona. Eppure la volontà degli elettori di Pisa e dintorni al referendum del 2011 fu chiara: il 95,41% votò a favore dell’acqua pubblica, con un’affluenza al 65,08%. Una volontà popolare tradita l’ultima volta lo scorso anno, quando i Comuni presenti nella società Acque Spa hanno confermato, senza grande clamore, le regole del finanziamento. Incluso un complesso e voluminoso contratto in inglese con tanto di clausole riguardanti sofisticati strumenti finanziari e le norme che bloccano ogni possibilità di cambio di strategia.

Dove Depfa non è arrivata ha agito Mps, stretta alleata all’epoca sia di Acea sia della banca irlandese, insieme a un istituto finanziario ormai famoso, Popolare Etruria. È il caso di Arezzo, la provincia dove per la prima volta in Italia è stato privatizzato il sistema idrico integrato col modello, di origine francese, del partenariato pubblico-privato. Era il 1999, la gestione comunale passa nelle mani di Nuove Acque, partner privato la Suez e, poco dopo, l’immancabile Acea.

Come in praticamente tutte le esperienze simili in Italia, anche qui il privato mette i soldi per gli investimenti indebitando la società mista, attraverso lo schema del prestito in cambio di pegno delle azioni, comprese quelle dei Comuni. In questo caso entra in gioco un pool composto da BEI, Monte dei Paschi, Dexia e Etruria. È il 2005 e la gran parte dei Comuni approva: “Si consegna ai privati un potere assoluto. Con questa operazione la maggioranza pubblica di Nuove Acque diventa un guscio vuoto”, commentano i comitati locali in un documento che analizza l’operazione. Dunque anche qui, come a Latina, a Pisa e in altre province italiane, il voto per l’acqua pubblica si ferma davanti agli sportelli delle banche.

Nella Calabria degli accordi segreti, intanto, la giunta Oliverio annuncia di volersi riprendere la gestione idrica. “Io non sono stato nominato per liquidare la società, ma per rilanciarla”, spiega al Fatto Luigi Incarnato, commissario di Sorical. “Vuole sapere una cosa sul mutuo Depfa? Mi sono informato e questi asset il governo tedesco li ha acquisiti pagandoli 16% del valore nominale”. Tradotto: il credito vantato da Depfa nei confronti dei gestori degli acquedotti oggi vale assai meno. “Quindi ricontratteremo tutto – dice Incarnato – facendo entrare in società i Comuni appena Veolia se ne va. Manca solo un passaggio, vogliono una manleva sui debiti (l’esclusione di responsabilità sul passato, ndr) e il presidente ci sta pensando”. Ma di mostrare quel contratto di finanziamento che pesa sulla società per ora non se ne parla. Acqua pubblica forse, trasparente non tanto.

Dai sopralluoghi i primi atti di un'inchiesta. Magra consolazione affermare: «chi ha sbagliato pagherà». La Repubblica, 27 agosto 2016

Amatrice. Una scuola elementare appena ristrutturata che si sbriciola, i pilastri portanti incrinati. Un campanile restaurato tre volte che diventa la tomba di un bambino di pochi mesi. Case che crollano sotto il peso di soffitti in cemento armato poggiati sopra fragili mura di sassi. Palazzine dai tramezzi con più sabbia che malta. «No, quanto accaduto non può essere considerato solo frutto della fatalità», dice il procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva. L’uomo che, in queste ore, deve trovare la risposta più difficile: c’è una responsabilità “altra” per la strage dei 281 morti causata dal terremoto? «L’esperienza e la logica ci dicono che, ad Amatrice, le faglie hanno fatto tragicamente il loro lavoro. E questo si chiama destino. Ma se gli edifici fossero stati costruiti come in Giappone, non sarebbero crollati».

La verità dei tramezzi

Chiuso nel suo ufficio di Rieti, Saieva ricontrolla per l’ennesima volta la lista dei morti accertati sulla sua scrivania. «Sono loro, per ora, la mia priorità». Le salme. Da identificare ufficialmente, da sottoporre ad esame medico-legale una per una. «Tutte le nostre risorse sono impegnate su questo fronte». Ma il procuratore, che ha aperto un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo, sa bene la mole di lavoro che lo aspetta. E di cui già ha intravisto le tracce.

Poche ore dopo il terremoto della notte del 24 agosto, infatti, è andato personalmente sui luoghi del disastro. «Per portare la mia solidarietà», spiega. Ma era anche un sopralluogo. Di fatto, il primo atto della sua inchiesta. «All’ingresso del paese ho visto una villa schiacciata sotto un’enorme tettoia di cemento armato», racconta. «Poco lontano c’era anche un palazzo di tre piani che aveva tutti i tramezzi crollati. Devo pensare che sia stato costruito al risparmio, utilizzando più sabbia che cemento». Sono i primi appunti di un fascicolo tutto da scrivere. «Cose che accerteremo a tempo debito. Se emergeranno responsabilità e omissioni, saranno perseguite. E chi ha sbagliato, pagherà».
Documenti da recuperare
Sotto le macerie ci sono anche le carte su cui si baserà l’indagine della procura di Rieti, affidata a un pool di quattro magistrati. Sono i documenti raccolti dagli uffici tecnici di Amatrice (dove il municipio è devastato) e Accumoli, dove il campanile della chiesa è caduto. Permessi di costruzione, autorizzazioni, adeguamenti antisismici, progetti esecutivi, collaudi, relazioni dei direttori dei lavori. In sintesi, la vita burocratica di ogni edificio, di ogni appartamento, di ogni palazzo di questo territorio inserito dai geologi nella zona rossa, rischio sismico massimo.
La polizia giudiziaria non li ha ancora acquisiti. Una volta presi tutti i faldoni, l’indagine si concentrerà sugli immobili che hanno subito i danni maggiori. Iniziando da quelli dove ci sono state delle vittime. Secondo una prima stima, sono 115 gli edifici crollati o gravemente lesionati nei due comuni del reatino. I pm, per prima cosa, verificheranno se ciò che è stato costruito ex novo o modificato negli ultimi 15 anni sia conforme al testo unico del 2001, la norma base con le disposizioni in materia di progettazione antisismica. Ma non basterà risultare in regola sulla carta. Ulteriori accertamenti saranno svolti su come sono stati realizzati i progetti dalle imprese. E neanche allora basterà, perché poi si guarderanno i collaudi: sono stati fatti per tutti? Sono stati fatti correttamente?
I costruttori sotto accusa
Questa radiografia la subirà anche la scuola Romeo Capranica di Amatrice. Il simbolo di un fallimento, a suo modo. Torniamo indietro di qualche anno, intorno al 2010. Il comune di Amatrice riceve un primo finanziamento di 500mila euro dal fondo per l’edilizia scolastica. A questi, dopo il sisma dell’Aquila, se ne aggiungono 200mila, stanziati dalla Regione con l’obiettivo specifico del miglioramento antisismico di quell’edificio. Soldi che in realtà il comune di Amatrice anticipa dalle proprie casse, perché ancora oggi non sono stati erogati dalla Provincia.
L’istituto viene comunque ristrutturato e inaugurato in tempi record: il 13 settembre 2012, alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico. Ma sull’esecuzione dei lavori, la storia si ingarbuglia. L’appalto lo vince il Consorzio Stabile Valori, controllato dalla Dionigi srl, di cui è socio l’avvocato amministrativista Francesco Mollica, 39 anni. Un suo zio, l’imprenditore di Patti Pietro Tindaro Mollica, si è ritrovato più volte coinvolto in vicende giudiziarie, senza però aver mai riportato condanne e ottenendo da Tar e Consiglio di stato l’annullamento di alcune interdittive antimafia. Oggi Pietro Tindaro Mollica è ancora imputato per bancarotta a Roma. Attraverso l’avvocato Filippo Dinacci, il Consorzio stabile Valori, rappresentato da Valentino Di Virgilio, spiega: «Eseguiamo i lavori attraverso circa 80 consorziate. Nel caso di Amatrice sono stati assegnati ed eseguiti totalmente dalla Edil Qualità di Roma. Siamo certi della correttezza dell’operato dell’impresa costruttrice».

Polistirolo nelle mura
Altro nodo da sciogliere riguarda un ulteriore appalto “per la prevenzione e riduzione del rischio connesso alla vulnerabilità degli elementi anche non strutturali della Capranica”. La gara, per un valore di 172.000, si apre il 22 dicembre scorso e se la aggiudica la Dema Srl con un ribasso del 27,5 per cento. Solo pochi giorni prima del terremoto, alla preside della scuola viene comunicato che si sarebbe fatto un intervento al tetto. Le prime foto degli interni, scattate dalle squadre dei vigili del fuoco dopo il disastro, sembrano però suggerire problemi strutturali ai pilastri più che al soffitto. E alcune immagini televisive mostrano polistirolo e retine nelle strutture portanti. Ma Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice, non ci sta a finire sulla graticola: «Abbiamo già notificato ai carabinieri la delibera con la quale ci costituiremo parte civile. Evitiamo qualsiasi sciacallaggio. Ho dei figli, sono il primo ad essere sconvolto».

«Occorre tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti ». Il manifesto, 26 agosto 2016 (c.m.c.)

Anni fa mi colpì il racconto di Salvatore Veca L’ascia del nonno. Un vecchio signore mostrava a tutti i suoi ospiti che andavano a fargli visita, l’ascia che il proprio nonno aveva usato in passato. Era conservata gelosamente sotto una teca di vetro. «Vedete», spiegava il vecchio signore, «questa era l’ascia di mio nonno. La lama in ferro naturalmente è stata sostituita con una nuova lama perché corrosa dalla ruggine. E il manico dei legno è stato anch’esso sostituito perché roso dai tarli». Dunque, si chiedeva Salvatore Veca, «cosa è quell’ascia conservata?». Ebbene, la ricostruzione (speriamo che inizi quanto prima) dei paesi devastati dal sisma dovrebbe evitare che i nuovi paesi diventino come l’ascia del nonno ricostruita, cioè una semplice riesumazione del “vecchio” che non c’è più.

C’è un legame indissolubile tra comunità e luogo: non può esistere comunità senza luogo né tantomeno un luogo che è stato privato della sua comunità. Sarebbe bastata questa semplice considerazione a decretare il fallimento delle new town berlusconiane, ovvero di quei non-luoghi per non-comunità. Come evitare che la “ricostruzione” dei due vecchi paesi (Amatrice e Accumuli) non ripercorra questa strada fallimentare?

Tanti anni fa, erano gli anni Cinquanta, a seguito del libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, fu realizzata una delle più interessanti esperienze urbanistiche con la creazione del villaggio La Martella per tentare di risolvere l’annosa, e scandalosa, questione dei “Sassi” di Matera. Esso coinvolse una straordinaria schiera di architetti, urbanisti, antropologi, psicologi e perfino psichiatri, tra i quali figurava anche Adriano Olivetti. Considerate le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano, gli abitanti dei “Sassi”, essi furono mandati, con tutto il loro carico di storia millenaria, a vivere in questo piccolo villaggio rurale appena fuori Matera, progettato con un atteggiamento di massimo rispetto del patrimonio culturale degli abitanti e della loro comunità contadina.

Queste attenzioni (perfino nei dettagli architettonici e nei materiali di costruzioni), non furono sufficienti a realizzare completamente l’obiettivo di ricostituire la comunità originale: alcuni abitanti si rifiutarono di andarci, altri, qualche tempo dopo, tornarono ad occupare i “Sassi”, altri ancora andarono a vivere altrove.
Potremmo dire oggi che il “fallimento” (metto tra virgolette poiché fu comunque un’impresa straordinaria dal punto di vista culturale) scontava il prezzo di fare riferimento a standard e modelli di vita totalmente “incomprensibili” agli abitanti dei “Sassi” che, nel tempo, si erano adattati al loro rapporto con la natura rappresentata dagli stessi “Sassi” e dalle opportunità che essi offrivano (comprese le cattive condizioni igieniche).

Tutto questo per dire che ricostruire i luoghi fisici (piazze, campanili, chiese, strade e manufatti abitativi) è un conto, ricostituire la comunità dispersa è un altro e di assai più difficile soluzione. Questa sfida può però essere affrontata con una prospettiva diversa. La “ricostruzione” può allora diventare l’opportunità di insediare una “nuova” comunità pur formata in gran parte dagli stessi abitanti che, pur non rinunciando al proprio patrimonio passato (tradizioni, memoria, usi e costumi) si proietti in una dimensione futura evitando di diventare un esempio di modernità di cartapesta.

Costituire, ad esempio, un insediamento ecologico in armonia con il territorio e la natura, un esempio virtuoso di ritrovato equilibrio con i problemi che affliggono il nostro Appennino. Potrebbe costituire uno dei primi esempi di pianificazione non condizionato da esigenze speculative e con l’obiettivo di riavviare i processi di riqualificazione delle cosiddette “aree interne”.
In primis, nel progetto di ricostruzione dovrebbero entrare tutte le storie raccontate dai vecchi abitanti, le consuetudini locali, le attività produttive piccole e grandi che costituivano l’economia del paese, nuove economie inerenti il recupero e l’applicazione di norme sismiche. Servirebbero poi studi geologici rigorosi per scegliere i siti edificabili e scartare le aree più a rischio; realizzare spazi pubblici, piazze, limitare le privatizzazioni di suolo, progettare luoghi che favoriscano le produzione di socialità e convivialità, evitare, come è successo a L’Aquila, la militarizzazione del territorio, favorire dovunque l’incontro, la bellezza, il dialogo, la narrazione delle storie.

L’emergenza non deve essere cattiva consigliera. E quella straordinaria sapienza acquisita da tutti coloro che si stanno prodigando (volontari e non) per salvare vite e cose, dovrebbe anch’essa confluire nel progetto di ricostruzione. Guai, insomma, se a decidere come e dove ricostruire fosse una ristretta élites di tecnici preoccupati solo di collaudare qualche straordinaria invenzione tecnologica dell’ultimo grido o, peggio, qualche esempio di smart cities dopo il disastro delle new town.

Dobbiamo, al contrario, tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti che potrebbero contribuire alla formazione di una nuova, rinnovata e più moderna comunità urbana che, mai, per usare le parole di Erri De Luca, «dovrebbe insuperbirsi di nessun possesso».
Già a breve, passata la fase dei soccorsi, gli abitanti potrebbero ridiventare protagonisti delle loro storie partecipando al progetto di ricostruzione insieme al personale organizzato dal governo: non li escludete, altrimenti ricostruireste un paese fantasma: l’ascia del nonno, appunto.

I disastri di un territorio fragile rivelati dai terremoti sono aggravati e spesso provocati dagli interventi sbagliati (a partire dalle grandi opere). I loro effetti sarebbero ridotti o scongiurati se i intervenire con politiche lungimiranti: ma una classe dirigente che privilegia gli affari sul buongoverno è incapace di comprenderlo e di farlo. Il manifesto, 25 agosto 2016

L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate. Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.

Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno).

L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.

Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!).

Quattro cose da fare

Eppure, gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto, irreversibilmente, alla sua formazione.

Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso.

In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo.

In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.

Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni.

I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.

«Non c’è altro evento più del terremoto capace di mettere a nudo lo sgoverno del nostro paese, l’incapacità delle classi dirigenti di mettere in campo l’unica grande opera necessaria alla salvaguardia di un territorio nazionale abbandonato all’incuria, alla speculazione, alle ruberie». Il manifesto, 25 agosto 2016 (m.p.r.)

Le parole di cordoglio – «l’Italia piange», «il cuore grande dei volontari», «con il cuore in mano voglio dire che non lasceremo da solo nessuno» – pronunciate dal presidente del consiglio ieri mattina in televisione a poche ore dalla tragedia, avrebbero dovuto suscitare condivisione se non le avessimo già sentite ripetere troppe volte per non provare, invece, insofferenza, rabbia, indignazione. Forse perché non c’è altro evento più del terremoto capace di mettere a nudo lo sgoverno del nostro paese, l’incapacità delle classi dirigenti di mettere in campo l’unica grande opera necessaria alla salvaguardia di un territorio nazionale abbandonato all’incuria, alla speculazione, alle ruberie (come i processi del post-terremoto dell’Aquila hanno purtroppo mostrato a tutti noi).

Nessun paese industriale, con un elevatissimo rischio sismico come il nostro, viene polverizzato ogni volta che la terra trema. Le cifre imbarazzanti stanziate un anno dopo l’altro per la sicurezza ambientale nelle leggi finanziarie danno la misura dell’inconsistenza delle politiche di intervento. Dal 2009 a oggi è stato messo in bilancio, ma solo perché in quel momento eravamo stati colpiti dallo spappolamento dell’Aquila, meno dell’1 per cento del fabbisogno necessario alla prevenzione. E’ la cifra di un fallimento storico, morale, politico.

Chiunque capisce che prima di abbassare le tasse alle imprese, prima di distribuire 10 miliardi divisi per 80 euro, bisognerebbe investire per costruire l’unica grande impresa che i vivi reclamano anche a nome dei morti.

Chi ci amministra ha costantemente lavorato alla dissipazione delle nostre risorse comuni. Il paese è allo stremo ma nessuno, nemmeno questo governo, cambia direzione. Con investimenti tecnologici, ripopolamento delle terre interne, salvaguardia del patrimonio culturale, paesistico. E finalmente lavoro per gli italiani, per gli immigrati. Finalmente progetti ambiziosi per uno sviluppo economico di qualità legato ai territori e alle loro istituzioni. Non ci sono soldi? E quanti ne spendiamo per il rattoppo delle voragini materiali e morali?

Purtroppo oltre a temere e piangere ogni volta le vittime della mancata prevenzione (andiamo verso l’autunno, pioverà, saremo esposti al pericolo di frane e alluvioni), dobbiamo aver paura anche della ricostruzione. Nelle pagine dedicate al terremoto pubblichiamo un pro-memoria dei cittadini dell’Aquila che riassume come meglio non si potrebbe i danni, i pericoli aggiunti con gli interventi edilizi post-terremoto. Perché accanto al simbolo della tragedia di sette anni fa, il monumentale palazzo della Prefettura del capoluogo abruzzese, oggi abbiamo l’ospedale di Amatrice colpito perché nemmeno questo edificio era costruito con criteri antisismici. E nessuno dimentica le macerie della scuola di San Giuliano di Puglia con i suoi piccoli rimasti sepolti, come i bambini morti ieri sull’Appennino.

Il numero delle vittime sale ogni ora, persone uccise dall’incuria di chi aveva il dovere di provvedere e non lo ha fatto, nemmeno per salvaguardare scuole, ospedali, edifici pubblici. Rivedremo le tendopoli, assisteremo allo sradicamento degli abitanti, alla desolazione dell new-town. Speriamo almeno di non dover riascoltare le risate fameliche di chi ora aspetta l’appalto.

«Questo terremoto, disvela anche altro. E’ un grande e sinistro fascio di luce gettato su quelle estese aree del nostro territorio che per convenzione ormai chiamiamo “aree interne”». Il manifesto, 25 agosto 2016 (m.p.r.)

Il terremoto che ha colpito i paesi del Reatino, come spesso accade agli eventi catastrofici, è un potente disvelatore di gravi questioni. E non si tratta soltanto, come al solito, dei consunti benché sacrosanti temi che siamo costretti a ripetere come un rosario dopo ogni sisma devastatore. Vale a dire la sempiterna mancanza di previdenza nella costruzione degli edifici, la nessuna consapevolezza storica del territorio, la rimozione di ogni “memoria” dei luoghi, della loro fragilità, della sfida sotterranea che un suolo come quella della Penisola lancia al futuro di ogni edificazione.

L’immagine della torre dell’orologio di Amatrice (tredicesimo secolo), che svetta ancora intatta su un cumulo di abitazioni in macerie, è un atto di accusa che i costruttori dei secoli passati lanciano contro la modernità di cartapesta dei contemporanei.

Ma questo terremoto, che per fortuna non ha colpito una città, com’è accaduto a L’Aquila, né grandi centri abitati, disvela anche altro. E’ un grande e sinistro fascio di luce gettato su quelle estese aree del nostro territorio che per convenzione ormai chiamiamo “aree interne”. E’ la vasta Italia della dorsale appenninica e pre-appenninica, l’Italia delle montagne e soprattutto delle colline. Un’area che si va sempre più spopolando, disgregando tanto sotto il profilo sociale che territoriale, modificando in maniera drammatica la geografia nazionale. Un immenso “osso”- per riprendere una vecchia e nota metafora di Manlio Rossi Doria – si va sempre più dilatando lungo la fascia centrale della Penisola, mentre la “polpa”- l’area più ricca di attività produttive, servizi, popolazione- si va restringendo progressivamente sui versanti costieri.

E’ un processo che costituisce una perdita economica e sociale gigantesca, già oggi e che ne prepara una ancora più drammatica per l’avvenire. L’abbandono delle aree interne comporta infatti il progressivo decadimento di un immenso patrimonio edilizio, spesso frutto di una sedimentazione secolare, e non privo di beni monumentali di pregio. Ma con i paesi deperiscono anche le economie che li sostenevano. Per millenni la nostra agricoltura è stata prevalentemente collinare. Ora si lascia che terre fertili- fonte di sostentamento e ricchezza per infinite generazioni – siano abbandonate, invase dalla macchia, o oggetto di speculazione edilizia. E che dire dei boschi, habitat produttivi di prima grandezza, ecosistemi di rilevante utilità, oggi sempre più lontani da un orizzonte di governo consapevole? Come se la ricchezza dell’Italia si esaurisse nell’industria e nelle banche. Come se l’industria e perfino le banche non dipendessero alla fin fine anche dalla salute del territorio.

Le attuali classi dirigenti ignorano infatti sovranamente il delicato equilibrio ambientale su cui si è venuta evolvendo la geografia della Penisola. Questo equilibrio ha avuto il suo centro nell’area dell’”osso”, là dove si formano le forze dinamiche dei processi erosivi che dal monte scendono a valle, verso le coste e il piano. Se le aree interne vengono abbandonate e nessun aggregato demografico presidia più il territorio, questo equilibrio si rompe e la “polpa” delle pianure e delle coste pagherà prezzi altissimi ad ogni alluvione stagionale. Anche le industrie ed i servizi verranno colpiti.

Strano Paese il nostro. Ormai da anni demograficamente fermo, con una popolazione sempre più vecchia, investe soldi, istituzioni ed energia per segregare tanti disperati che approdano alle nostre coste come degli appestati. Eppure si tratta in genere di giovani, desiderosi di costruirsi una vita degna, in cerca di una qualche patria. Se i nostri governanti fossero dotati di qualche barlume di visione, di un minimo di capacità pianificatoria – smettendo l’ormai comodo alibi di un mercato risolutore di ogni problema – il grande dramma dell’immigrazione si rovescerebbe, nel giro di qualche anno, in una potente leva di “riconversione ecologica” del nostro territorio. Un’occasione per voltare una pagina di ripetuti fallimenti.

Ci auguriamo che la ricostruzione dei paesi distrutti dal sisma non avvenga secondo una logica di puro risarcimento delle popolazioni colpite, ma costituisca l’avvio di un nuovo corso per fare dell’Italia interna il cuore di un rinnovato rapporto tra popolazioni e risorse.

«I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. In Italia nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai. Se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi». La Repubblica, 25 agosto 2016 (c.m.c.)

«Ci vogliono due impegni: il primo a ricostruire in fretta, e il secondo a cominciare a rifare il Paese in modo antisismico, perché i terremoti vengono casualmente, ma i morti no»: ieri è stata questa, di Romano Prodi, la sintesi più efficace. Davvero l’unico modo per dare un senso a queste morti e a queste distruzioni è che questi due impegni vengano presi, e onorati.

Il primo sembrerebbe facile: perfino ovvio in quella che è, nonostante tutto, una delle più potenti economie del mondo. E invece la ricostruzione dell’Aquila arranca ancora, dopo anni perduti e dopo errori che hanno forse distrutto per sempre il tessuto sociale di uno dei venti capoluoghi di regione del nostro Paese. Ma oggi il governo ha l’occasione di dimostrare che qualcosa è cambiato davvero: la ricostruzione di Amatrice e degli altri luoghi colpiti può — deve — diventare un esempio da manuale. Un esempio positivo.

Ma è il secondo impegno, quello a rifare antisismica l’Italia, la sfida vera: quella più carica di futuro.
I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. La meno pericolosa delle quattro zone in cui la Mappa della classificazione del rischio sismico divide l’Italia è quella in cui i terremoti sono “rari”: non inesistenti, e non innocui, ma rari. Il che significa che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai: nell’ultimo millennio l’Italia ha subito un terremoto dagli effetti catastrofici mediamente ogni dieci anni. E dunque, se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi.

Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 ha previsto che siano finanziati interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale: un passo culturalmente importante, ma drammaticamente insufficiente nella sua attuazione pratica. La legge prevede, infatti, l’erogazione di un miliardo in dieci anni: «solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche» (così la Protezione Civile).

In questo 2016, per esempio, stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché le casse siano vuote: basta rammentare che lo Sblocca Italia varato dal governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle Grandi Opere, o ricordare che un’opera inutile e ambientalmente disastrosa come la autostrada Orte-Mestre (per ora fermata dalle inchieste) dovrebbe costare 10 miliardi (2,5 già stanziati).

È qua, di fronte a questi numeri, che occorre uno scatto: dobbiamo convincerci che la messa in sicurezza del nostro territorio è l’unica Grande Opera davvero sensata. Non l’ideologico e faraonico Ponte sullo Stretto, che si continua a vagheggiare, ma la prevenzione dei danni dei terremoti, e delle alluvioni: una Grande Opera che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia.

Un capitolo di questa grande impresa dovrà riguardare il patrimonio culturale. Ancora non sappiamo cosa è successo ai monumenti delle zone colpite. È anzi un po’ sconcertante che gli italiani, e i ricercatori di tutto il mondo, provino ad intuirlo dalle foto (drammatiche quelle del campanile di Accumoli, e delle chiese di Amatrice) postate sui social, e non dalla voce del ministero per i Beni culturali, cha ha fissato solo a stamani la riunione della sua unità di crisi (mentre è noto che, per le opere d’arte proprio come per le persone, è nelle prime ore che si possono fare interventi decisivi).

In ogni caso, è chiaro che non possiamo continuare a sperare nella buona sorte: siamo ancora lontanissimi dalla redazione di quel Piano per la conservazione programmata del patrimonio culturale che già negli anni Settanta Giovanni Urbani cercò, invano, di far realizzare. In mancanza di un progetto generale, pochissimo si è fatto: mentre troppi palazzi e chiese antichi continuano ad essere riempiti di cemento, che invece di rafforzarli li rende espostissimi alle scosse.

È forse utopico pensare di contendere alla forza del terremoto ogni vita, ogni monumento: ma è certamente imperdonabile continuare a non provarci nemmeno.

«Nel 2013 la città ha dichiarato la bancarotta. Ad aprile 2016 ha ospitato il primo Forum nordamericano dell’economia sociale solidale. È stata l’occasione per conoscere le iniziative comunitarie che ne fanno un laboratorio del futuro».Altreconomia online,23 agosto 2016 (c.m.c.)

Le superstrade a 6 corsie che circondano e attraversano la città una volta dovevano essere molto trafficate: oggi sono per lo più vuote. Detroit, Michigan, storica sede della “triplice” automobilistica (Ford, GM e Chrysler), è la città che meglio rappresenta la profonda ferita che ha colpito il Sogno americano. Qui è forte l’evidenza fisica dell’abbandono e della devastazione: interi palazzi vuoti, case bruciate, strade inagibili in buona parte delle periferie e del centro, edifici storici chiusi e pericolanti.

Nel 2013, Detroit ha presentato istanza di bancarotta, con un debito stimato di 7 miliardi di dollari. Da povertà, disperazione, inquinamento e marginalizzazione, però, sono emersi negli anni gruppi di cittadini attivisti (grassroots), dando vita a progetti e movimenti che stanno rivitalizzando la comunità. Per conoscerlo, Rich Feldman, che dopo aver lavorato alle catena di montaggio dell’industria automobilistica per 30 anni, facendo il sindacalista, è instancabile leader del movimento di giustizia sociale, organizza un tour a bordo di uno scuolabus giallo degli anni Sessanta, from Growing our economy to growing our souls (dal far crescere la nostra economia al coltivare le nostre anime).

Si attraversa l’Hope District: il quartiere della speranza ospita la fabbrica artigianale di patatine Detroit friends potato chips, che ha dato lavoro a molti giovani. Qui negli anni Ottanta si avviò la diffusione del crack, ma la comunità seppe reagire con le marce contro le crack houses e l’istituzione di Zone di Pace (per arrivare a risolvere i conflitti senza ricorrere alla polizia, considerata un “esercito d’occupazione”), dalla Detroit Summer e la Boggs School for Manual Arts (che prende il nome da James e Grace Lee Boggs, anime storiche del movimento americano per la giustizia sociale), forme alternative di educazione che hanno cresciuto generazioni di leader di comunità. Ed ha funzionato.

Il tour finisce nel cuore della East Side di Detroit, nei due isolati occupati dall’Hidleberg project: l’artista Tyree Guyton ha recuperato oggetti di uso quotidiano per creare un’area piena di colore, simbolismo e dimostrare il potere della creatività per trasformare la vita. Marciapiedi, alberi ed edifici raccontano in maniera estremamente vivace gli effetti della globalizzazione: ci sono le barche dei profughi sul prato, 10mila scarpe a rappresentare i cittadini che hanno perso la casa, un Humvee (il SUV corazzato) installato nel 2010 durante l’US Social Forum a simboleggiare il militarismo. Dentro ci è cresciuto un albero.

A Detroit tra l’8 e il 10 aprile si è tenuto il primo Forum nordamericano dell’economia sociale e solidale: attivisti statunitensi e canadesi hanno discusso su come far crescere il movimento diffuso ma invisibile per un’altra economia, cominciando dal “decolonizzare la nostra economia solidale” da modelli e pratiche che fanno parte dell’economia dominante: dal superamento della separazione tra produzione e consumo, di come si finanziano le attività e del cambiamento di senso di parole come “ricchezza”, “benessere”, “condivisione”, “sostenibilità”.

Il luogo che ha ospitato il Forum è il Samaritan Center: un ex ospedale pubblico abbandonato, ristrutturato da una fondazione religiosa e trasformato in un centro polivalente, dove si trovano 30 organizzazioni tra associazioni, micro-imprese, cliniche, un fab-lab e una scuola. Il Forum è stato organizzato da RIPESS-Nord America (che include reti come il U.S. Solidarity Economy Network , il Canadian Community Economic Development Network e il Chantier de l’économie Sociale del Quebec).

La plenaria si è svolta in una grande palestra, e ad aprirla è stata Tawana “Honecomby” Petty, del Boggs Center to Nurture Community Leadership: «In un’epoca di dualità, dove una città è destinata alla bancarotta per alcuni, eppure è ancora fiorente per altri, dove la tecnologia isola gli anziani mentre abilita i giovani, dove il sistema alimentare affama il suo popolo di vero nutrimento e contribuisce alla sua obesità, e dove la giustizia penale e i sistemi educativi abusano dei cittadini con il pretesto della sicurezza, è imperativo per noi re-immaginare il sistema nella sua interezza, e identificare e riconoscere i ruoli e il contributo che ognuno di noi può dare».

Un altro dei “visionari” (così definiti nel programma) ha preso la parola dicendo: «Stiamo costruendo l’infrastruttura del futuro, ma dobbiamo fare attenzione. La sfida è quella di diffondere l’economia solidale al di là della classe media, prevalentemente bianca, perché risponda anche ai bisogni di chi è economicamente escluso. E abbiamo bisogno dei media per raccontarne la storia, preparandoci per quando sarà mainstream..». A parlare è Gar Alperovitz, economista politico, fondatore dell’organizzazione Democracy Collaborative/Next System Project.

Chi ha chiaro un piano e una visione del futuro a lungo termine è senz’altro Blair Evans, direttore e mente dell’Incite focus, il primo “fab lab” di Detroit. Situato all’interno del Samaritan Center, questo laboratorio di “makers” è ben più di una “falegnameria hi-tech”. Ingegnere elettronico, Evans è insegnante di Fabbricazione digitale (presso il Massachusetts Institute of Technology) e istruttore certificato di permacultura, e ha ideato vari modelli d’impresa sostenibile per la produzione su base comunitaria, con partecipazioni miste pubblico-privato-no profit.

Il piano di Evans e dei suoi collaboratori prevede la formazione continua di giovani e disoccupati al lavoro del futuro, la fabbricazione a livello locale e micro-industriale (con stampanti 3D e tecnologie simili, auto-riproducibili e “open”) di tutto quello di cui possiamo avere bisogno, con risorse e materiali il più possibili reperiti a “km0”. Le aree di lavoro sono principalmente tre: l’ambiente naturale (attraverso forme di bio-mimesi, agroecologia e tecnologie appropriate), l’ambiente costruito (con la fabbricazione digitale) e l’ambiente invisibile (ovvero l’organizzazione delle strutture sociali, economiche e politiche di una comunità).

La sperimentazione prevede, ad esempio, la costruzione di case con materiali prodotti in Fab Lab, autosufficienti per gran parte delle necessità (energia elettrica, riscaldamento, acqua e gestione residui, orticoltura...) e in rete. Per il 2017 è previsto un primo Fab-co-working center di quartiere; per il 2020 un Fab Village; per il 2030 un Fab District e infine, per il 2054, la trasformazione di Detroit in Fab City...

In molti, intanto, credono che la rivoluzione passi per la capacità di produrre il proprio cibo. We cannot free ourselves until we feed ourselves” (non ci possiamo liberare fintanto che non siamo capaci di nutrirci autonomamente) è lo slogan coniato da Gerald Hairston, fondatore dei Gardening Angels (gli angeli degli orti), un movimento intergenerazionale e interculturale che ha “piantato i semi della speranza”, coivolgendo centinaia di individui e gruppi di vicinato a crearsi il proprio orto sociale: orti dei ragazzi, orti di scuola, orti d’ospedale, orti degli anziani, orti del benessere, orti di parrocchia.

Durante il tour della città si visita Feedom-Freedom Growers (nutrire i coltivatori di libertà), un progetto che ha come scopo quello di combattere l’obesità di molti ragazzi facendogli coltivare il proprio cibo, oltre ad organizzare mercatini della salute e feste di quartiere. Gli orti familiari sono migliaia, e seicento quelli comunitari: l’agricoltura urbana sta cambiando il volto della città e coinvolge giovani da tutti gli Stati Uniti. Naim Edwards è uno di questi. Giovane eco-biologo afroamericano, dalla Pennsylvania si è trasferito a Detroit da un anno. Mi ospita a dormire presso la sede della sua associazione, Voices for Earth Justice, che è anche la sua casa. Prima ci ha accompagnato per quartieri semi-abbandonati, dove spuntano orti e serre. Quello che gestisce, con tecniche agroecologiche, è condiviso.

New work, new culture” è invece un movimento nato da una “conversazione” di anni tra alcuni degli storici attivisti di Detroit, come Grace Lee Boogs, Frithjof Bergmann, Rick Feldman e Frank Joyce. Bergmann, in particolare, ne è l’anima filosofica (ex professore di filosofia dell’Università del Michigan): un simpatico signore su una sedia a rotelle che di sè dice di esser stato «contadino per tre periodi della mia vita» e quindi sa «bene cosa significhi vivere sulla terra e della terra». Nel seminario del Forum che ha introdotto, ha spiegato che «stiamo vivendo un cambiamento epocale: l’idea che abbiamo oggi del lavoro è esistita solo negli ultimi duecento anni, e costringe gli individui a fare quello che ‘devono’ fare, non quello che ‘vogliono’. A Detroit abbiamo un’opportunità eccezionale per promuovere una nuova cultura del lavoro che rimetta al centro la relazione tra le persone. Dobbiamo immaginare di lavorare per una comunità e così facendo, creare comunità».

L’icona di questo movimento è Grace Lee Boggs: l’ho conosciuta nel 2010, aveva 95 anni. Cino-americana, instancabile ispiratrice e protagonista di mille campagne, è vissuta -sempre attiva- fino all’anno scorso. Al Forum l’hanno celebrata, a partire dalle magliette con il suo slogan: “(r)Evolution”. Nel suo ultimo libro, postumo, scrive: «La prossima Rivoluzione americana non riguarda [...] rendere possibile a più persone di realizzare il sogno americano di mobilità verso l’alto. Si tratta di creare un nuovo sogno americano che abbia come obiettivo un’umanità più alta, invece di uno standard di vita più alto ma dipendente dall’Impero. Si tratta di praticare un nuovo, più attivo e partecipatorio concetto di cittadinanza».

«E’ davvero deprimente constatare che si ridicolizza il concetto di “rifiuti zero”, non si conosce il concetto di “economia circolare” e si dipinge l’incenerimento come soluzione del problema rifiuti». Il Fatto Quotidiano online, 23 agosto 2016 (p.d.)

L’antivigilia di ferragosto dall’agenzia adnkronos è stato diffuso un comunicato della SItI (Società Italiana Igiene Medicina Preventiva e Sanità Pubblica) con 7 “verità” a supporto della presunta utilità e innocuità degli inceneritori di nuova generazione, posizione che sarebbe condivisa anche dall’Istituto Superiore di Sanità. Purtroppo sul sito ufficiale della SItI non è reperibile il comunicato originale e quindi ci si deve limitare a quanto diffuso da adnkronos e ampiamente ripreso dai media. C’è da rimanere profondamente sconcertati davanti alle “7 verità” perché non solo nessuna di esse è scientificamente supportata, ma addirittura alcune affermazioni sono in netto contrasto con ciò che emerge dalla letteratura scientifica. Non sono mancate pronte repliche sia da parte dell’Isde (l’Associazione dei Medici per l’Ambiente) che di Medicina Democratica, ma alcune considerazioni della SItI meritano di essere prese in esame.

Si afferma ad esempio che gli inceneritori “non provocano rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti” e che dallo studio epidemiologico Moniter “una delle più sofisticate ricerche al mondo sul rischio connesso alle emissioni di inceneritori […] si evidenzia chiaramente la assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti”. Come già tante volte ho avuto modo di scrivere sono viceversa numerosi gli studi scientifici (anche recentissimi) che dimostrano esattamente il contrario e descrivono effetti sia a breve (esiti riproduttivi, malformazioni, esiti cardiovascolari, respiratori) che a lungo termine (soprattutto tumori). E’ vero che per la gran parte (ma non per la totalità) si tratta di studi che riguardano impianti di “vecchia generazione”, ma dove sono studi epidemiologici che valutano gli effetti a lungo termine degli inceneritori di “nuova” generazione?

Quanto poi al Moniter – condotto dopo gli allarmanti risultati per la salute femminile emersi dall’indagine sugli inceneritori di Forlì, e costato ben 3 milioni e 400.000 euro di soldi pubblici – si fa presente che sono solo 2 gli studi usciti da questo immane lavoro che sono stati pubblicati su riviste internazionali. Tali studi segnalano un incremento statisticamente significativo del rischio di nascite pre-termine e di abortività spontanea in relazione alle emissioni degli impianti. Abortività spontanea e prematurità sono quindi per la SItI inquadrabili come “assenza di rilevanti rischi sanitari”? Ancora si afferma che le discariche inquinano più degli inceneritori, dimenticando che gli inceneritori (anche di terza generazione) necessitano di discariche speciali per le ceneri leggere, quelle che residuano dai filtri e dai processi di lavaggio dei fumi, residui tossici che non ci sarebbero senza la combustione.

Ancora si parla di “un bilancio energetico complessivo positivo, con produzione di energia e sistemi di teleriscaldamento come accade virtuosamente da anni in città come Brescia, Lecco e Bolzano”. In realtà dal punto di vista energetico, anche con le migliori tecnologie disponibili, si raggiunge un rendimento pari al 40% dell’energia associata ai rifiuti in ingresso, risultato che si può ottenere solo attraverso un uso efficiente del teleriscaldamento e di fatto realizzato solo nelle 3 città citate. In realtà secondo i dati della Epa a parità di materiale l’energia risparmiata con il riciclo è da due a sei volte superiore a quella recuperata con l’incenerimento!

E’ davvero deprimente constatare che si ridicolizza il concetto di “rifiuti zero”, non si conosce il concetto di “economia circolare” e si dipinge l’incenerimento come soluzione del problema rifiuti. Sono invece proprio questi impianti che ostacolano la soluzione dell’“emergenza rifiuti” perché – una volta costruiti – devono essere alimentati per decine di anni con grandissime quantità di rifiuti, impedendo riduzione, riuso e riciclo dei materiali. C’è quindi una “caccia” ai rifiuti per ogni dove – con ovvio aggravio del traffico pesante – o addirittura si assimilano i rifiuti speciali non pericolosi (prodotti da utenze commerciali e produttive) ai rifiuti urbani (gli unici di cui dovrebbe farsi carico l’amministrazione pubblica) pur di avere quantità adeguate da bruciare.

La pratica della assimilazione è ampiamente diffusa in Emilia Romagna e Toscana e questo anche se la normativa comunitaria prevede che i rifiuti speciali siano gestiti a mercato libero, in quanto per la massima parte facilmente riciclabili. Si dimentica che gli inceneritori sono finanziati ogni anno con 500 milioni di euro pagati da tutti noi con la bolletta elettrica e questo trasforma l’incenerimento in un ottimo investimento per i gestori, ma non certo per la salute e l’occupazione. Non è certo da oggi che andiamo ribadendo questi concetti: se fossimo stati ascoltati e le risorse spese a favore degli inceneritori fossero state impiegate per raccolta domiciliare e centri di riciclo, quanti problemi avremmo risolto? Quanti ricoveri ospedalieri, sofferenze e morti avremmo risparmiato?

Davanti ad argomentazioni così banali e superficiali della SItI c’è solo da arrossire: come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella classe medica se una parte qualificata di essa si dimostra quanto meno così poco informata? Personalmente voglio ancora credere nel ruolo dei medici e della sanità pubblica e non rassegnarmi davanti a quella che vorrei fosse solo superficialità e incompetenza, ma non vorrei nascondesse intrecci con interessi che nulla hanno a che fare con la tutela della salute.

«Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori». Il manifesto, 23 agosto 2016, con postilla

I manifesti contro gli stranieri “maleducati” affissi a San Zaccaria, a due passi dalla Basilica di San Marco. Non si parla d’altro in questi giorni a Venezia, dopo che l’associazione venetista Wsm (Viva San Marco) si è spesa assieme ad altre in inviti perentori di dubbio stile, allo scopo di liberarsi del “foresto”.

Sono certi, i firmatari dei manifesti, di interpretare il pensiero e la volontà di quei veneziani che si sentono aggrediti dalla folla dei turisti. Rigorosi e brutali i messaggi accompagnati talvolta da immagini suine offensive corredate da scritte tradotte in inglese che dovrebbero “ripulire” la città dagli ospiti sgraditi.

Innegabile l’esasperazione per il numero incontenibile di ospiti che talvolta non trattano la città con rispetto, ma sarebbe utile chiedersi se Venezia rispetta i suoi visitatori. Se ce la fa ad offrire accoglienza e servizi capaci di stemperare l’impatto estivo, se vaporetti, motoscafi, sono sufficienti alla domanda, se i cestini di rifiuti, sempre straripanti vengono svuotati puntualmente. Nel contempo aumentano le offerte sul web, che invitano, invogliano a realizzare il sogno di visitare Venezia: appartamenti e bed and breakfast in questi giorni presi di mira e dalla pentola scoperchiata sono uscite situazioni intollerabili di evasione fiscale, di degrado, di prenotazioni in nero di luoghi fantasma scoperti per caso, come un appartamento di lusso a San Pietro di Castello che fruttava ai proprietari 25mila euro alla settimana.

Sullo sfondo le cause e gli effetti: Venezia nel 1951 contava 175mila abitanti, oggi arriva a stento a 56mila. Ne è scaturito uno sradicamento sociale ed umano e la città d’acqua e di pietra è diventata un polo turistico commerciale prezioso per l’economia e per tutte le attività che godono della presenza del turista (oggi con 34milioni di visitatori all’anno la laguna è in ginocchio). La città, sommersa e ferita, non ha sufficiente forza e voce per rivendicare la sua vocazione culturale e sono in molti ormai a pensare che sia necessario un ripensamento, un progetto capace di offrire una alternativa al turismo.

Quel progetto non può che nascere dal suo resistente e storico centro culturale e come suggerisce il Rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliari, dovrebbero essere le Fondazioni culturali, la Biennale, l’Università, la Fondazione Cini e le diverse e differenti anime della cultura ad offrire nuove opportunità in grado di diversificare la domanda (ambiti informatici e scientifici… ), ridurre le presenze estive per invogliare a visitare Venezia d’inverno e nei posti meno frequentati come il Lido, l’Arsenale e Santa Marta. Il Sindaco dal canto suo promette la linea dura nei confronti di chi offende la città, ma la Giunta di Luigi Brugnaro nel suo complesso è cauta, sa che i proventi del turismo sono fondamentali alla sua economia e conta su cartelli e mezzi informativi per educare alla civiltà. Tant’è.

Spiace scomodare Simone Weil e la pietas che si dovrebbe riservare alla bellezza quando si sente che la stiamo perdendo, ma che direbbe Jaffier, l’eroe puro di Venezia Salva che pur in vesti e armi spagnole, non ha voluto contribuire alla distruzione della città. E per questo ha tradito, per non infrangere il sogno di tanta, troppa, incontenibile bellezza. La città di Carlo Goldoni che ha incantato e incanta artisti di ogni dove, la Venezia invernale di Josif Brodskij, con le sue tinte cupe, sembra non esserci più.

Eppure resiste ad ogni provocazione, di sua natura è aperta e ospitale, apprezza chi la ama, chi visita i suoi monumenti e le sue chiese. E anche chi semplicemente vuole capire il senso dell’incontro con questa città singolare stretta dai troppi problemi che l’assillano, per primo lo spopolamento e che risente di un tessuto sociale frammentato, oggi più che mai disorientato e incapace di leggerne la complessità.

C’è chi visita Venezia dopo averla molto pensata e immagina di trovare una Venezia classica, legata al mondo antico, con questi sentimenti sono arrivati in Piazza San Marco, Dostoevskij, Goethe è arrivato in barca da Padova, e poi Proust, Lord Byron, Ruskin e tanti altri viaggiatori illustri, sapendo che le loro aspettative non sarebbero state deluse.

Oggi emerge una vita “altra” che i masegni sopportano a stento, il caos infonde disarmonia e diffidenza, mentre le Grandi Navi attraversano beate il Canale della Giudecca e il Bacino di San Marco e i passeggeri fanno ciao ciao con la mano.

postilla
Diciamola tutta. È più di vent'anni che i cittadini del comune di Venezia (della Terraferma e della città lagunare) votano per i sindaci e i partiti che puntano tutte le carte su quel turismo che distrugge la città antica con le due ganasce della sua tenaglia: il turismo sgovernato di massa e il
rapace turismo di lusso, privatizzatore di ogni bene pubblico e stupratore d'ogni monumento. E sono decenni che le istituzioni culturali disprezzano il gigantesco patrimonio culturale costruito in un millennio di storia, facilitando la pseudo modernizzazione della città modernissima.

Per la prima volta si promette di mettere a confronto le diverse proposte presentate par garantire l'accesso a Venezia ai flussi di turisti che l'invadono. La Nuova Venezia, 20 agosto 2016 (m.p.r.)

«Una valutazione comparata e partecipata di tutte le soluzioni progettuali alternative per le grandi navi fin qui formalizzate». È l’invito contenuto nel documento finale approvato dalla commissione Ambiente del Senato al termine dell'audizione con i firmatari del progetto di avamporto galleggiante al Lido. Un'ora di domande e risposte davanti al presidente della commissione di Palazzo Madama, Francesco Maria Marinello, con i progettisti Stefano Boato, Vincenzo Di Tella e Carlo Giacomini che hanno risposto alle domande dei senatori.

La novità è che per la prima volta è emersa, condivisa alla fine da tutti i commissari, la necessità di mettere sul tavolo le soluzioni alternative e di confrontarle «con modalità obiettive ed equanimi». Come peraltro prevedeva un mai applicato ordine del giorno del Senato approvato praticamente all'unanimità nel febbraio di due anni fa su proposte del senatore veneziano Felice Casson. «Abbiamo chiesto al ministero delle Infrastrutture di fare un bando di gara che precisi le condizioni funzionali e le modalità tecniche dei progetti», ha detto in aula Boato, «ma non è mai stato fatto». Gianpiero Della Zuanna ha chiesto se il progetto di avamporto galleggiante, che prevede di spostare la stazione Marittima al Lido, davanti all'isola artificiale del Mose, sia «sicuro». «Gli studi sono stati effettuati dalla società internazionale Principia», hanno riposto i progettisti. Costo dell'opera, 120 milioni di euro. E i rifornimenti delle merci e dei passeggeri arriveranno con imbarcazioni a basso impatto di onde e inquinamento attraverso il canale dell'Orfano, dietro la Giudecca. Incalzanti le domande dei senatori Paolo Arrigoni, Laura Puppato, Paola De Din. «Siamo soddisfatti», commentano Boato, Di Tella e Giacomini, che hanno ricordato ai senatori come esistano anche le normative che prevedono il confronto prima di qualunque decisione. In particolare il Codice degli appalti. Il 18 aprile scorso, con il decreto legislativo numero 50, è stato introdotto nell’ordinamento dei Lavori pubblici lo strumento del dibattito pubblico. Una svolta rispetto alle decisioni sulle grandi opere del passato, calate dall’alto e poi spesso rivelatesi sbagliate. Per le alternative alle navi si discute di alcuni progetti. Il canale Tresse Nuovo, per far arrivare le navi in Marittima passando dal Lido, sostenuto dall’Autorità portuale e dal sindaco Brugnaro, Il terminal al Lido di De Piccoli-Duferco, la nuova stazione passeggeri a Marghera. E l’avamporto galleggiante, presentato adesso al Senato. Ipotesi che i proponenti hanno chiesto e ottenuto siano confrontate prima di ogni decisione.
© 2024 Eddyburg