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Paolo Griseri intervista Marc Augé, che per primo denunciò i "non luoghi", nuove cattedrali del dio Denaro. «Difendiamo quei borghi medievali lì è nata l’identità occidentale.È un momento difficile per la Ue: per questo bisogna ricostruire al più presto i simboli del nostro passato». La Repubblica, 31 ottobre 2016 (c.m.c.)
I borghi dell’Italia centrale sono «luoghi dell’identità, non solo cristiana, dell’Occidente ». Per questo salvaguardarli «è particolarmente importante oggi, quando la Brexit costringe l’Europa a guardarsi allo specchio e a realizzare un piano per ricostruire la sua fisionomia politica e culturale». Di fronte alle macerie del cuore dell’Italia l’antropologo francese Marc Augé riflette sul significato della salvaguardia della memoria.

Professor Augé, qual è l’importanza dei luoghi nella costruzione dell’identità dell’Europa?
«Quando l’antica Roma sconfisse Cartagine, i suoi generali rasero al suolo la città e sparsero sale sulle rovine perché in quel luogo non crescesse più nemmeno l’erba».

Ti riduco in macerie per cancellarti dalla storia?
«Esattamente. E quell’illusione è diventata un mito per chiunque in seguito volesse cancellare l’identità di un popolo. Durante l’occupazione tedesca della Francia un radiocronista collaborazionista diceva che il suo sogno era quello di far fare all’Inghiterra la fine di Cartagine».

Per contrasto difendere l’integrità di un luogo significa salvare la memoria?
«Non automaticamente ma è un passo importante».

Salvare i borghi dell’Italia centrale per salvare l’identità culturale dell’Europa?
«Non credo che sia solo questo. Certamente il monachesimno ha avuto un ruolo importante nella storia cristiana europea. Ma quel che è in discussione è, più in generale, il dna dell’intero Occidente. Le figure dell’Italia centrale che hanno fatto la storia del cristianesimo tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio sono riuscite a segnare in profondità i caratteri di quella che noi chiamiamo cultura occidentale».

Il terremoto ha abbattuto case, chiese e dunque pezzi di memoria. Come ricostruire?
«Voglio ancora dire qualcosa sul perché ricostruire. Questo terremoto infatti è arrivato in un momento molto delicato in cui l’Europa sta ricostruendo se stessa».

L’impressione è piuttosto che si stia lentamente disfacendo...
«Certamente la Brexit è stato un segnale di rottura dell’identità. Ma proprio per questo può servire all’Europa per guardarsi allo specchio e decidere di ripartire. Nel momento in cui lo specchio del referendum inglese fa emergere tutti i dubbi e tutte le differenze tra i popoli europei, bene, in questo passaggio sta la delicatezza della fase che attraversiamo. Salvare i borghi dell’Italia centrale significa difendere un pezzo del puzzle della nostra storia continentale».

Se lei dovesse disegnare la mappa dei punti di riferimento dell’identità europea, quali città, quali luoghi segnerebbe sulla cartina?
«Molti luoghi naturalmente. Ma credo che il triangolo di riferimento sia quello che ha come vertici Parigi, Roma e Berlino. Poi naturalmente ci sono i Paesi Bassi. In fondo, se ci pensiamo, quella mappa corrisponde abbastanza a quella degli stati fondatori dell’Unione Europea».

Per quale motivo allora quel disegno di integrazione è andato in crisi? Perché quell’identità è in discussione?
«Perché, a mio avviso, si è proceduto con troppa fretta all’allargamento dell’Unione. Credo che per riuscire a far risorgere l’identità dell’Europa sarà inevitabile immaginare di tornare a un nucleo centrale, quello delle nazioni fondatrici, e a un secondo gruppo di Paesi che hanno vincoli meno stretti».
L’opera di Benedetto da Norcia, santo protettore dell’Europa, ebbe il pregio di offrire un punto di riferimento in un mondo che aveva frantumato la sua unità. Siamo tornati a quel punto?
«L’identità dell’Europa è sempre stata nella sua capacità di valorizzare le sue differenze. Questo è quel che dovremmo riuscire a fare anche oggi per ripartire ».

Anche nel momento in cui l’immigrazione porta in Europa identità e culture diverse da quella dell’Occidente?
«Soprattutto per questo motivo. Senza imparare a riconoscere la nostra identità, anzi le nostre diverse identità, non potremo dialogare con le altre. E, oltre all’identità legata alla storia del Cristianesimo, esiste l’identità laica, nata con la Rivoluzione francese e diffusa in Europa dall’esercito napoleonico. A mio parere la laicità è uno dei punti essenziali del dna dell’Occidente. Dovremmo saperla valorizzare ».

Ricostruire Norcia e gli altri borghi distrutti dal terremoto. Ma come? Non c’è il rischio di trasformarli in musei senza vita?
«Non penso. Certo bisogna fare attenzione ad evitare questo esito. Dobbiamo sapere che l’opera dell’uomo e anche gli eventi naturali fanno parte della storia. Nulla resta esattamente com’era. Il Foro romano è la testimonianza di questo. L’uomo e la natura, gli stessi terremoti, agendo nei secoli ci hanno restituito solo una testimonianza di ciò che fu. Ma quella testimonianza, l’aver saputo salvare quel luogo, è stato decisivo per salvaguardare la memoria della civilizzazione romana. Non sarebbe stato lo stesso se di quell’antica piazza non fosse rimasto nulla».

Lei è stato il primo a denunciare il diffondersi dei non-luoghi nelle nostre città, posti, come i centri commerciali, uguali in qualsiasi punto dell’Occidente. La ricostruzione dei borghi antichi può essere l’antidoto?
«Certamente è un antidoto. È una delle strade per evitare l’omologazione, per rivendicare le differenze come una radice costitutiva dell’Europa. Credo che questo sia essenziale».

Insomma non rischieremo di trovare un giorno un centro commerciale al posto di un’antica basilica?
«Non credo proprio che ci sia questo pericolo. Spero che saremo abbastanza saggi per evitarlo ».

«Terzo Valico. "Cemento come colla", appalti truccati ed escort. Manette a presidente e al vice del consorzio guidato da Impregilo-Salini. Cariche e feriti a Alessandria». Il manifesto, 30 ottobre 2016

Sommerso dagli scandali giudiziari, il Terzo Valico fa acqua da tutte le parti. D’altronde, quanto può essere solida un’opera dove «il cemento sembra colla», come dice un intercettato nell’ultima inchiesta che ha portato all’arresto del presidente e del vice del Cociv, consorzio guidato dalla potentissima Impregilo-Salini, che realizza l’infrastruttura.

Il governo Renzi, come i precedenti, non ha mai messo in discussione l’opera, malgrado le proteste delle popolazioni (ieri terminate in scontri) e l’assenza di serie analisi costi-benefici. «S’ha da fare», diceva la berlusconiana Legge obiettivo, contestata a parole ma mai cancellata, e lo ribadisce ora il ministro Graziano Delrio.

Ieri, ad Alessandria, quasi come se niente fosse, si è svolto l’Alessandria l’Open Space Technology, l’evento promosso dal commissario di governo del Terzo Valico, Iolanda Romano, per discutere delle «opportunità» per il territorio date dai 60 milioni di finanziamenti messi sul piatto dal ministro delle infrastrutture e da Rfi. «Non ci sottraiamo al confronto», aveva detto il commissario, mettendo a tacere le perplessità di alcuni sindaci sull’opportunità dell’evento dopo le ultime vicende.

I No Tav avevano annunciato che sarebbero andati a contestarlo, scrivendo sul sito «Roviniamogli la festa». E così è stato. Diverse centinaia di persone si sono radunate fuori dal centro sportivo Centogrigio, sorvegliato da un imponente schieramento delle forze dell’ordine che, quando i manifestanti si sono mossi per bloccare l’accesso ai delegati iscritti, sono intervenuti con una dura carica. Alcuni No Tav sono rimasti feriti. Contestati sonoramente i senatori del Pd Stefano Esposito e Daniele Borioli, sostenitori del Terzo Valico.

«I 60 milioni di compensazioni dovrebbero darli ai terremotati», ha replicato Claudio Sanita, uno dei leder del movimento contro la grande opera. «Non bisogna commissariare il Cociv ma fermare i cantieri. Le inchieste dimostrano – ha aggiunto Sanita – quello che dicevamo da anni. Noi non ci fermiamo, sabato prossimo bloccheremo il cantiere di Cravasco. E il 27 novembre saremo a Roma contro Renzi e una riforma costituzionale che toglie poteri alle comunità. Oggi la battaglia contro il Terzo valico passa dalla caduta di Renzi, sostenitore delle grandi opere. Contestiamo anche le compensazioni, istituzionalizzazione del meccanismo della tangente: si svende il territorio in cambio di soldi».

Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha chiesto il commissariamento del consorzio che ha la titolarità dei lavori «in modo da evitare che un’opera così essenziale per lo sviluppo di questa parte dell’Italia si incagli a tempo indefinito».

L’inchiesta che ha decapitato il Cociv pone sotto la lente appalti truccati per 324 milioni. Gli imprenditori non pagavano solo tangenti, ma offrivano anche escort ai dirigenti del general contractor.

La Repubblica, 30 ottobre 2016

CLAUDIO Bertini è morto al volante della sua auto perché nel cuore della Brianza per tre ore nessuno ha voluto fermare il traffico mentre un cavalcavia si sbriciolava. Anas e Provincia di Lecco si sono palleggiate la decisione, senza nemmeno provvedere a bloccare un tir da 108 tonnellate in marcia su quel viadotto letale.

Non è stata una fatalità ed esiste un responsabile chiaro: una macchina burocratica che ha perso il senso della realtà, tanto inefficiente da non riuscire a impedire un disastro annunciato. Lo schianto del ponte brianzolo è il punto terminale di una serie di eventi che mettono sotto gli occhi di tutti una situazione inaccettabile. Come è possibile che nessuno curi la manutenzione di un viadotto sotto il quale ogni giorno passano più di 80 mila vetture? Come è possibile che la strage più grave del terremoto di agosto sia avvenuta nelle case popolari di Amatrice, dove 22 persone sono state travolte da edifici pubblici dichiarati sicuri da pubblici ufficiali? Come è possibile che le scosse dell’Italia Centrale abbiano sbriciolato decine di monumenti restaurati negli ultimi anni e certificati come antisismici? È la dimostrazione che il sistema di regole e controlli non funziona. Che la nostra vita è affidata a un apparato incapace non solo di rispondere alle richieste dei cittadini ma addirittura di tutelare la loro incolumità.

Di sicuro, la corruzione ha avuto un ruolo importante nel minare i pilastri su cui scorre la nostra esistenza. La retata di mercoledì scorso ha evidenziato come nei cantieri delle grandi opere si usino materiali scadenti, «cemento che sembra colla» e si falsifichino tutte le verifiche. Da sempre la corruzione prospera nella cattiva amministrazione, sono due facce dello stesso problema. Ma le indagini delle procure di Roma e Genova mostrano una degenerazione arrivata al paradosso: gli incarichi per sorvegliare sulla qualità dei manufatti si sono trasformati in una tangente, perché venivano assegnati alle società degli amici degli amici proprio come compenso per il silenzio sulle malefatte edilizie. E chi doveva vigilare metteva ogni verdetto in vendita: bastava pagare per rendere perfetti binari che invece andavano demoliti, per trasformare una massicciata marcia nella fondamenta di una galleria.

I protagonisti di questo scempio sono una classe di professionisti e imprenditori che ha imparato così bene a convivere con la mafia da copiarne i metodi: come i corleonesi e i casalesi, hanno sostituito le vecchie bustarelle cash con i subappalti del calcestruzzo di bassa lega e alto profitto. E — come loro stessi rivendicano nelle conversazioni registrate — hanno trasferito nella Pianura Padana gli accordi criminali messi a punto nei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. Ai costruttori intercettati la legalità non importava: «Io voglio fare solo i miei 54 milioni di lavori e portare a casa la pagnotta». Tutti sanno, nessuno denuncia. Perché i colossi tirati su con piedi d’argilla garantiscono guadagni ricchi e condivisi, tanto paga “zio Paperone”, ossia la collettività.

Questo male si è diffuso in tutto il Paese. Dal profondo Sud all’estremo Nord, dai sedicenti restauri antisismici delle chiese marchigiane alle infiltrazioni dei clan nei padiglioni di Expo. Ogni scandalo provoca ondate di indignazione, che non si traducono quasi mai in riforme concrete o interventi risolutivi: i problemi restano al loro posto, delegando alla magistratura punizioni che sono tardive o inefficaci. Le immagini agghiaccianti del viadotto che precipita sull’auto di Claudio Bertini invece devono rimanere come un monito per cambiare: chiunque poteva essere al suo posto, ovunque.

“ Nessuno denuncia Icolossi conpiedi di argilla garantiscono guadagni

«Cinque anni di ritardo, investimento raddoppiato e un carico di guai giudiziari». Il Fatto Quotidiano online, 29 ottobre 2016 (p.s.)

Festeggiare i primi passi nell’anno in cui diventi maggiorenne è sintomo di una discreta capacità di vedere il cosiddetto bicchiere mezzo pieno. La dote non manca all’Eur Spa, proprietario della Nuvola, e al governo italiano che – con il ministero dell’Economia – ne è socio di maggioranza: il taglio del nastro, oggi pomeriggio, arriva a esattamente diciotto anni dal bando con cui si pensò di far nascere a Roma un Nuovo Centro Congressi.

L’idea era brillante: portare nella Città eterna anche quel turismo di professionisti che viaggiano per convegni e seminari. E per realizzarla si fece avanti l’architetto Massimiliano Fuksas, uno che ha lasciato il segno in giro per il mondo e che Roma – la sua città – non era ancora riuscita a ospitare.

A dirigere il cronoprogramma dei lavori vengono chiamati gli ingegneri tedeschi della Dress&Sommer, che invece nella Capitale avevano già realizzato – e pure nei tempi previsti – l’Auditorium firmato da Renzo Piano. Il lieto fine arriva oggi. Ma nel mezzo ci sono milioni di euro di troppo, cinque anni di ritardo e un carico di guai giudiziari.

I soldi: il costo finale della Nuvola è ben lontano dai 239 milioni di euro ufficiali. L’opera, parola della sottosegretaria all’Economia Paola De Micheli, “richiede un investimento complessivo di 467 milioni di euro” visto che, oltre ai costi di costruzione, sono state necessarie “iniezioni” decisive per la sopravvivenza del progetto.

A fine 2014 il ministero è stato costretto a ricapitalizzare la società con 133 milioni di euro per convincere le banche a non chiudere i rubinetti. Scongiurato il fermo dei lavori, a giugno del 2015, Eur spa ha firmato con i creditori un accordo sulla ristrutturazione del debito (che, già “scontato”, ammontava a 37 milioni di euro: li ha anticipati il Mef, dovranno essere restituiti entro il 2029). Infine: la vendita dell’albergo, la Lama, doveva essere una delle entrate più sostanziose. Ma ad oggi è ancora sul mercato e il suo valore, nel frattempo, è precipitato da 140 a 50 milioni di euro.

I tempi: la posa della prima pietra è di dicembre 2007, l’obiettivo era chiudere entro la fine del 2010. Gli ingegneri tedeschi di cui sopra hanno scritto in 2 anni 91 report per segnalare i ritardi da parte di Condotte, l’impresa costruttrice. L’allora amministratore delegato di Eur spa, il fedelissimo di Alemanno Riccardo Mancini, finito nei guai per Mafia Capitale, però li fa fuori: la vicenda è arrivata fino al Consiglio di Stato, che ha dato ragione alla Drees&Sommer.

Le cause: la chiusura del contenzioso con Condotte è attesa per l’anno prossimo e vede sul tavolo 200 milioni di euro di varianti in corso d’opera; sulla querelle giudiziaria coi tedeschi invece pesa una richiesta danni per 10 milioni di euro, oltre a circa 800 mila euro di fatture non pagate; perfino la parcella di Fuksas è finita nel mirino della Corte dei Conti e non è chiaro a quanto ammonti il totale degli eventuali risarcimenti dovuti. La maledizione della Nuvola, insomma, potrebbe continuare. Gufi, andate. Oggi è tempo di brindare.

«Ieri un giovane premier in completo Armani sorrideva alle telecamere presentando al Paese questa nuova nuvola, e il suo architetto che ha dichiarato di votare Sì al plebiscito. Aby Warburg diceva che ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita: evidentemente questo è vero anche per il barocco. Nuvole incluse». La Repubblica, ed. Roma, 30 ottobre 2016
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Massimiliano Fuksas non avrebbe voluto che ciò che perlui era The Floating Space fossechiamato la Nuvola. Ha le sue ragioni, perché in effetti la nuvola vera epropria appare chiusa ermeticamente dentro una sorta di grande acquario: e cosìla sensazione di libertà, movimento, leggerezza comunicate dal nome rischia dimutarsi presto in delusione di fronte all’opera, più raggelante che dinamica.

In queste ore qualcuno ha evocato la prodigiosa teoria dinuvole di stucco che ha cambiato per sempre il volto della Roma secentesca: unparagone istruttivo. Prendiamo la più spettacolare apparizione di nuvole delsecolo barocco: la Cattedra di San Pietro, di Gian Lorenzo Bernini. Di essaGiuliano Briganti ha potuto scrivere: «è il cielo, il cielo dei drammatici tramonti romani, col fastosocorteggio delle nuvole trafitte dai raggi di un sole trionfante che offre lepiù suggestive e dirette ispirazioni agli artisti barocchi. La Cattedra di SanPietro non è concepita forse come un paesaggio di nuvole contro il sole?». Se,dunque, in Fuksas la nuvola è prigioniera, tarpata, inscatolata in Bernini, alcontrario, essa esplode, mangia l’architettura michelangiolesca, invadendo lospazio artificiale e riconducendolo ad una stupefacente libertà di natura.

Ovviamentele differenze tra l’opera di Fuksas e quella di Bernini sono infinite, népotrebbe essere altrimenti. Ma ce n’è una in particolare che merita di esserericordata. Le imprese architettoniche del Seicento romano maturo non nasconomai come capolavori isolati di archistar (eppure il divisimo non difettava aBernini e ai suoi grandi colleghi), ma come episodi strettamente correlati diun altissimo progetto unitario, che mirava a cambiare il volto della città: lascala in cui pensavano papi come Alessandro VII Chigi era quella urbanistica,non quella architettonica. Piazza del Popolo, il Corso, Sant’Andrea dellaValle, Ponte Sant’Angelo, Piazza San Pietro, il Baldacchino e la Cattedra sonoaltrettante tappe di un unico percorso trionfale fatto di vuoti e di pieni, difacciate e di interni. C’era un progetto: esattamente quello che manca allaRoma di oggi.

Ilfatto che per finanziare la Nuvola lo Stato abbia dovuto cedere all’Inail – in unapartita di giro che lascia esterrefatti sul piano della razionalità delbilancio pubblico – un patrimonio architettonico pregiatissimo a fortevocazione culturale è il segno più madornale di questa improvvisazione: dove,invece di incastrarsi l’una nell’altra, le tessere del puzzle si mangiano avicenda, senza mai riuscire a costruire una immagine più grande e armoniosa.Questa contraddizione appare ancor più sconcertante quando si rammenti che laNuvola è un Centro Congressi destinato a grandi eventi privati: si prevede chei cittadini possano entrarci, ma solo acquistando un biglietto. Un dettaglioche mette in dubbio nel modo più radicale la stessa appartenenza alla città diquesta nuova architettura: uno spazio, di fatto, privato finanziato con denaropubblico. Tutto il contrario delle piazze o delle chiese dove stendono la loroombra densa le nuvole barocche.

Lasera del 17 gennaio 1666 il tuono delle artiglierie di Castel Sant’Angelo e ifuochi d’artificio salutarono l’ingresso in Basilica del corteo papale. Lì Berninidette ordine ai marinai della flotta pontificia di far calare il grande tendonecucito con 312 pezzi di taffetà giallo e rosso che copriva la Cattedra, ementre Alessandro VII pregava genuflesso e i musici intonarono il mottetto Tu es Petrus l’incenso saliva verso lenuvole. Ieri un giovane premier in completo Armani sorrideva alle telecamerepresentando al Paese questa nuova nuvola, e il suo architetto che ha dichiaratodi votare Sì al plebiscito.

AbyWarburg diceva che ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita:evidentemente questo è vero anche per il barocco. Nuvole incluse.

«. il manifesto, 29 ottobre 2016 (c.m.c.)

Carlo Tansi è uno scienziato eretico, un geologo che da anni denuncia la cementificazione degli argini dei corsi d’acqua, la gestione parassitaria del territorio ed i rischi del dissesto idrogeologico. Dall’anno scorso è capo della Protezione civile in Calabria.

Dottor Tansi, cosa sta succedendo nelle profondità della terra dell’Italia centrale?
Tutto l’Appennino è attraversato longitudinalmente da un sistema di faglie che si estendono dalla pianura padana alla Sicilia orientale. Negli ultimi anni, dal 2009, si sono attivate a pezzi queste faglie. Poi c’è stata l’attivazione della faglia di Monte Vettore. Ogni volta che si verifica uno scatto, c’è un terremoto. Il 24 agosto si è mosso il tratto meridionale di questa faglia. Ieri s’è mossa la parte settentrionale.

La scienza sa in che modo si posso muovere queste faglie?
No. È un effetto domino. Neanche gli americani e i giapponesi sanno prevedere questi meccanismi. Sicuramente le faglie in Appennino centrale si stanno muovendo. Mi riferisco per esempio ai terremoti che si stanno verificando intorno a Firenze. L’unica arma che abbiamo è la prevenzione.

Costruire le case con i criteri dovuti e adeguare tutto il fabbricato?
Sì. I terremoti in Friuli e Irpinia hanno modificato la percezione del problema. Prima, negli anni Sessanta, il calcestruzzo era adoperato in modo scriteriato. E poi c’è il problema dell’abusivismo. Solo in Calabria abbiamo 142mila case abusive. Il problema è che anche quei comuni che hanno aggiornato i piani d’emergenza antisismici, non li divulgano. A fine anno noi pubblicheremo un’applicazione che in caso di sisma guida le persone verso le aree d’emergenza.

In Calabria la «grande botta» potrebbe arrivare?
È una possibilità concreta. Il terremoto di Reggio e Messina del 1908 raggiunse magnitudo 7,2. I terremoti del passato in Calabria sono stati molto più catastrofici di quelli delle ultime settimane in centro Italia. Tra un grado e l’altro della scala Richter, l’energia liberata è 32 volte maggiore. E la differenza è di diverse decine di migliaia di morti.

Lei sta minacciando spesso le dimissioni da capo della Protezione civile in Calabria. Perché?
Io ho accettato l’incarico perché è mia intenzione mettere a disposizione della collettività la mia esperienza tecnica per l’elaborazione di un modello efficace di gestione delle emergenze. In una regione come la Calabria può voler dire salvare migliaia di vite umane. La mia azione ha il pieno appoggio del presidente Oliverio che mi ha dato carta bianca. Purtroppo molto spesso alcuni settori insofferenti al cambiamento in atto tentano di intralciare il percorso virtuoso intrapreso. Mi sono visto per questo più volte costretto a chiarire che o si cambia davvero o me ne torno a fare il mio lavoro.

Il premier Matteo Renzi ha riportato in agenda il ponte sullo Stretto. Non crede che piuttosto sarebbe meglio veicolare quelle ingenti risorse a favore di un piano nazionale di salvaguardia idrogeologica?
Non mi piace mettere in relazione ponte sullo Stretto e dissesto idrogeologico. Ma una cosa è certa: un piano organico per la messa in sicurezza del territorio è una priorità assoluta. Il territorio è l’infrastruttura portante e senza la sua messa in sicurezza non ci può essere sviluppo. Quando si immagina come ripartire le risorse per gli investimenti, si dovrebbe innanzitutto partire da questa considerazione. Penso sia molto più importante mettere in sicurezza gli edifici pubblici a rischio sismico, come scuole e ospedali, mentre molti di quelli privati sono da abbattere. C’è bisogno poi del cosiddetto fascicolo del fabbricato, cioè classificare gli edifici in base al rischio sismico. Questo non fa comodo agli imprenditori del mattone. Se noi non mettiamo in sicurezza l’edificato di Reggio e Messina, il ponte – come dice Mario Tozzi – collegherebbe due cimiteri.

PatrimonioSOS online, 29 ottobre 2016
Patrizia Asproni, nella veste di presidente di Confculture (Confindustria), sintetizzò qualche anno fa al Teatro Argentina una sorta di personale manifesto culturale: "Stesse in me, cancellerei subito il Ministero per i Beni Culturali e affiderei tutto al Ministero dell'Economia e Sviluppo". Una profetessa, una anticipatrice della turbo-cultura renziana. In quella direzione infatti va, in pieno caos operativo, il MiBACT renziano: la tutela e le Soprintendenze finiranno - secondo la legge Madia - sotto i prefetti (già nel sisma di Amatrice le stesse non sono state mai nominate né tantomeno viste) e la valorizzazione turistico-commerciale potrebbe benissimo diventare una branca di Economia e Sviluppo.

La stessa manager ha dato qualche giorno fa con gran clamore di stampa le dimissioni dalla carica di Torino Musei (e Mostre) accusando la sindaca 5 Stelle Chiara Appendino di non averla mai ascoltata e di averla in sostanza costretta al grave passo impedendole, di fatto, di organizzare la Mostra già programmata su Edouard Manet. Mostra che sarebbe stata catalogata dalla sindaca fra quelle "blockbuster", sorta di pacchetti turistici che girano il mondo costando molto e lasciando dietro di sé assai poco, ma che ormai imperversano nell'inesausto e onnivoro "mostrificio" nazionale. A tutto danno di autentiche e sempre più rare mostre "di ricerca" le quali richiedono ovviamente anni di studio e di preparazione.

Uno scontro fra turbo-cultura in salsa renziana (Asproni) e cultura-cultura (Appendino)? Come è già avvenuto per il Salone del Libro, Milano si è subito presentata sulla piazza torinese pronta a rilevare senza problemi l'organizzazione dell'evento culturale. E' in atto una sorta di assedio della Giunta Cinque Stelle di Torino per indebolire la sua presenza in campo culturale a livello nazionale? Qualcuno già lo dice apertamente.

Alla Asproni, manager toscana, molto grintosa, chiamata dal sindaco Piero Fassino (decisamente incline a privatizzare le gestioni museali), Chiara Appendino, dai banchi dell'opposizione, non aveva certo riservato carezze. Anzi aveva più volte attaccato quella politica troppo privatistica, troppo incline ad un costoso e superfluo "mostrificio". Dal canto suo, l'attuale assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Leon, non è una dilettante in materia, a Torino ha ideato e dirige la Carta Musei imitata in altre città. Figlia del brillante economista keynesiano Paolo Leon, uno dei più attivi nel non facile campo dei beni culturali, morto purtroppo pochi mesi fa, è una solida professionista del ramo, sa quello che fa. Sarà interessante seguire gli sviluppi torinesi che sono peraltro anche un termometro italiano.

«Privatizzazioni. Nel disegno di legge sul servizio idrico, si assiste all’assoluta soppressione del modello dell’azienda speciale, l’unico modello di gestione dei servizi autenticamente pubblico, ancora vigente nel nostro ordinamento». il manifesto, 29 ottobre 2016 (c.m.c.)

La Camera dei deputati nell’aprile del 2016, in prima lettura, ha privatizzato il servizio idrico integrato. Tale voto si pone in assoluto contrasto con la legge di iniziativa popolare che voleva la gestione dell’acqua attraverso enti di diritto pubblico.

Proviamo adesso a fare una simulazione, immaginando già di stare in un modello costituzionale che attribuisce soltanto ad una camera il potere legislativo, con un Senato, composto da 95 personaggi in cerca di autore, impreziositi da 5 legionari del presidente della Repubblica.

Cosa succederebbe in ordine alla gestione dell’acqua? Non ci sarebbe più la possibilità di impedire che il referendum sull’acqua bene comune venga calpestato e con esso la volontà di 27 milioni di cittadini che nel giugno del 2011 votarono contro la svendita dei servizi pubblici essenziali.

Ecco, se malauguratamente dovesse vincere il Sì, quali sarebbero i primi ed immediati effetti nefasti della riforma costituzionale: annullare luoghi di rappresentanza, di discussione, di conflitto. Il bicameralismo perfetto, che in passato, proprio attraverso la tanto deprecata “navetta”, era riuscito a recuperare “sbandate” o “atti di forza” di una delle due camere, non potrà più svolgere quest’azione di ripensamento e di pressione contro indirizzi politici dominanti.

Riavvolgiamo il nastro e vediamo in che contesto si andrebbe ad inserire una non auspicabile riforma costituzionale. Come è noto, sono in corso di approvazione la legge per la gestione del servizio idrico integrato ed il decreto delegato Madia sui servizi pubblici locali di interesse economico generale.

In questo scenario, il 10 agosto u.s. è stato approvato dal Consiglio dei ministri il cd. decreto Madia 1, meglio conosciuto come Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, concepito con l’obiettivo dichiarato di privatizzare le società partecipate, anche quelle che erogano servizi essenziali (il c.d taglia partecipate).
Il fil rouge di tali normative è di calpestare gli esiti del referendum del 2011, di privatizzare e commercializzare i servizi pubblici locali; di sotterrare definitivamente il concetto di impresa pubblica, in evidente contrasto con la parte economica della nostra Costituzione.

Addirittura si indica il ricorso al mercato come criterio di preferenza per l’attribuzione di risorse pubbliche. Ad appena cinque anni dal referendum abrogativo, mentre alcune amministrazioni, quale Napoli, tra mille difficoltà, attuano la volontà referendaria (costituzione di Abc Napoli), Governo e Parlamento stanno costruendo un sistema normativo che ripropone in maniera ancora più virulenta il progetto Berlusconi-Ronchi del 2008.

Il progetto di riforma Madia 2 sui servizi di interesse economico generale esclude che i servizi a rete, quale è l’acqua, possano essere affidati a soggetti di diritto pubblico, come l’azienda speciale.

Siamo in presenza di un progetto normativo che si contrappone anche alla Corte costituzionale che nel 2012, evocando il rispetto della sovranità popolare e degli esiti referendari, aveva enunciato il vincolo referendario, stabilendo che il legislatore dovesse rispettare quanto espresso dai cittadini.

Nel disegno di legge sul servizio idrico, si assiste all’assoluta soppressione del modello dell’azienda speciale, l’unico modello di gestione dei servizi autenticamente pubblico, ancora vigente nel nostro ordinamento. Ovvero, si nega ai comuni, alle autorità d’ambito, anche in contrasto con il diritto europeo, la possibilità di poter scegliere un modello alternativo al mercato.

Il progetto è quello di privatizzare le grandi società pubbliche ex municipalizzate presenti nel nostro Paese (Iren, A2A, Acea, Hera) e porre il territorio italiano sotto il loro dominio e a loro volta della finanza, anche tossica , che le sostiene, da quando si ventilarono i falsi paradisi delle privatizzazioni.

Ma impedire che soggetti di diritto pubblico, quali le aziende speciali, possano gestire servizi pubblici essenziali, è un’operazione non conforme e non compatibile con la Costituzione. Rappresenta un tradimento della volontà popolare e dell’inequivoco risultato politico espresso, che aveva fortemente voluto, tra l’altro, l’abrogazione della clausola della remunerazione del capitale investito, proprio quella che spinge capitali e finanza a gestire l’acqua, a prescindere dalla qualità del servizio, della tutela delle risorse naturali, degli investimenti nelle infrastrutture.

Ma sono violati anche principi di diritto europeo, quali la sussidiarietà verticale e la libertà di definizione, impedendo ai comuni di scegliersi il modello di gestione più adeguato ed opportuno al proprio territorio ed alla propria realtà socio-economica, così come previsto, tra l’altro, dall’art. 106 del Trattato.
Un disegno politico talmente aggressivo da essere incoerente con il principio di neutralità del diritto dell’Unione europea rispetto al regime della proprietà ed ai modelli di gestione, che attribuisce ai comuni il potere fornire ed organizzare i propri servizi d’interesse economico generale e di attivare un “reale” regime pubblicistico in deroga alla regola della concorrenza.

Il ministro Madia ha detto che l’acqua non c’entra con il decreto e comunque il governo non intende privatizzarla. Bene, allora si suggerisce di procedere in tal senso:
1) presenti come emendamento del governo nel dibattito al Senato, relativo al disegno di legge sull’acqua, un emendamento all’art. 7 che preveda espressamente la modalità di gestione del servizio attraverso un ente di diritto pubblico;
2) stralci dallo schema di Decreto Madia 2 la gestione delle risorse idriche, come tra l’altro ha vivamente suggerito di fare la commissione affari costituzionali della Camera in sede consultiva.

Nel caso il quadro normativo rimanesse immutato, i comuni potrebbero scegliere l’acqua pubblica fondando la propria azione amministrativa direttamente sul diritto europeo il che non escluderebbe anche ricorsi dinanzi alla Corte costituzionale, che potrebbero attivare anche il comitato referendario per l’acqua bene comune del 2011, sollevando conflitto di attribuzioni contro gli atti posti in essere da parlamento e governo.

Huffington Post online, 29 ottobre 2016
Come è ben noto, l'entità delle conseguenze delle calamità naturali sul patrimonio culturale è determinata da cause artificiali, cioè dalla qualità e dalla rapidità degli interventi del dopo-disastro: prima si interviene, più si salva; e più si mette in sicurezza, meno si perde in caso di nuove scosse.

Ieri ho ricordato queste banali verità, chiedendomi cosa sarebbe successo se l'abbazia di Sant'Eutizio o la chiesa di San Salvatore a Campi (e moltissimi altri monumenti) fossero stati puntellati e messi in sicurezza dopo il sisma di agosto.

Quando un giornalista glielo ha riferito, Franceschini - che, incredibilmente, non era sui luoghi colpiti, ma in quella discutibile fiera che è la Borsa del turismo archeologico - ha «sbottato». E vale la pena di leggere la lunare cronaca di Silvia Lambertucci (Ansa):

«"Bellissimo", commenta poi entusiasta, incontrando qualcuno dei tanti soprintendenti e direttori dei musei che stanno partecipando ai lavori della manifestazione campana. "La Borsa del turismo archeologico si sta dimostrando in crescita in questi anni, è una manifestazione su cui investire", aggiunge visitando lo stand del Mibact. Lavorare per far crescere il turismo del Mezzogiorno è importante, sottolinea il ministro. E Paestum, che ora godrà anche di più collegamenti ferroviari, è sulla strada giusta. I cronisti però lo sollecitano a tornare sul dramma del terremoto e sulle polemiche. Franceschini allarga le braccia: "E' stato fatto un lavoro molto scrupoloso, fin dal mattino dopo, il 24 agosto e anche ora. Ma la vastità dei danni comporta che si debbano seguire delle priorità. Sono migliaia le chiese colpite da sisma, penso che proprio su questo fare delle polemiche sia sbagliato"».

Un ministro estasiato di fronte agli stands, mentre sono i giornalisti ad incalzarlo su quello che sarebbe il primo e più alto dei suoi doveri: garantire la tutela del patrimonio culturale della nazione. Da tempo, ormai, al Mibact si dice che a Franceschini dei Beni Culturali importi assai poco: tutto preso com'è dalle trame politiche del dopo referendum. D'altro canto a Firenze si sussurra insistentemente che il sindaco Dario Nardella, in caso di vittoria del Sì, prenderà proprio il posto di Franceschini, destinato agli Esteri. Benissimo: giocate pure al risiko delle poltrone, ma ora il terremoto ci richiama brutalmente alla realtà.

E allora Franceschini deve al Paese una risposta che chiarisca la sua affrettata risposta: per mancanza di fondi non ha potuto mettere in sicurezza tutto il patrimonio colpito ad agosto? È davvero così? Può spiegarci quali priorità ha seguito? E, soprattutto, perché non ha preteso e ottenuto fondi dal Presidente del Consiglio? Perché non ha sbattuto il pugno sul tavolo? Perché non si è dimesso? Ciascuna di queste azioni avrebbe potuto forse salvare i monumenti che oggi giacciono a terra.

Ci sarà tempo e modo di discutere a fondo tutto questo. Ma ora è il momento di agire. Oggi «Repubblica» contiene una straziante lettera di Alessandro Delpriori, sindaco di Matelia ma anche giovane e brillante storico dell'arte. Alcuni passaggi di questa lettera esigono una risposta immediata da parte di Franceschini: «C'è però una ferita che fa male. Sono anche uno storico dell'arte che da anni si occupa dell'arte tra Umbria e Marche. Dopo le prime scosse di Amatrice e Arquata ci siamo subito accorti che la situazione per il patrimonio storico artistico era molto difficile, nella zona tra Fabriano e Ascoli Piceno erano centinaia le chiese inagibili, migliaia le opere d'arte in pericolo. Di fronte a tutto questo le soprintendenze erano in stallo totale, non per cattiva volontà dei funzionari sul territorio che invece sono sensibili e molto attivi, ma nella sostanza non si è fatto nulla».

Ecco il frutto avvelenato dello smantellamento delle soprintendenze voluto da Renzi («soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia», ha scritto) e attuato da Franceschini, che ha investito tutto sulla (pessima, peraltro) riforma commerciale dei supermusei. Il cuore dell'Italia è ora abbandonato a se stesso: il solo funzionario storico dell'arte dei territori colpiti non può certo fare tutto da solo. E, infatti, i mucchi di macerie degli ultimi giorni (mucchi in cui sono mescolati frammenti di affreschi, quadri, sculture) aspettano ancora di essere toccati. Il sindaco denuncia: «questo terremoto e l'immobilità stanno vanificando tutto».

Il terremoto è una calamità naturale, ma l'immobilità del Ministero dei Beni culturali e del suo titolare sono una calamità politica. Che l'Italia non merita.

«Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale subisce un'espulsione fisica e simbolica dalle città. I quartieri sono investiti dalla speculazione immobiliare e finanziaria. In tutta Europa nascono movimenti che si ibridano con quelli per il diritto all'abitare». Articoli di Sandra Annunziata e di Roberto Ciccarelli. il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

MOVIMENTI EUROPEI
CONTRO LA GENTRIFICAZIONE
di Sandra Annunziata

Un’agenda contro le politiche di "gentrification" nelle città dell’Europa del Sud. È l’obiettivo collettivo che si sono posti attiviste, rappresentanti di piattaforme anti-sfratto, studiose e comitati di quartiere di Lisbona, Madrid e Barcellona, Roma e Atene che si sono incontrati all’università di Roma tre per un workshop su uno dei temi che interrogano di più i movimenti sociali e le comunità accademiche critiche. La «gentrificazione» è un processo sociale e urbano complesso contro il quale si adottano pratiche anti-sfratto, anti-speculative e contro la mercificazione dello spazio urbano a fini turistici.

L’obiettivo dell’incontro è stato quello di condividere cosa significhi oggi ipotizzare delle alternative praticabili ai regimi di espulsione in atto in città caratterizzate da un clima di austerità permanente e assumere una agenda di priorità adatte alle emergenze sociali delle città che abitiamo . La parola "anti-gentrification oggi viene usata almeno per tre motivi. Per pensare al suo contrario, ad esempio. Viviamo in città e quartieri gentrificati, si sta gentrificando anche la periferia storica, i vuoti urbani sono oggetto di mere azioni speculative che non tengono conto nemmeno dei vincoli archeologici, ultima roccaforte per preservare il valore collettivo di una città.

Il concetto dianti-gentrificazione viene anche usato per gestire la complessità dei temi sollevati dai movimenti sociali urbani. Serve a tenere insieme diverse forme di espulsione delle persone appartenenti a diverse categorie sociali. Esiste un’espulsione diretta, quella che avviene con gli sfratti. E l’espulsione indiretta, quella legata ai progetti di trasformazione urbana che inevitabilmente aumentano i valori immobiliari delle aree, di conseguenza gli affitti e il valore degli immobili. Esiste l’espulsione simbolica che reifica il significato dei luoghi e delle memorie urbane e le trasforma in prodotto turistico o da consumare. Infine l’abbiamo usata strategicamente per il suo valore politico e per chiederci se sia gestibile e quale ruolo possano svolgere le politiche in un ottica di prevenzione e mitigazione della gentrificazione.

Per le forme e le specificità assunte da questi processi nelle città dell’Europa del Sud, credo che non possa più ignorare la «gentrificazione». Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale è interessato dal problema. Come fare per invertire la rotta? La risposta arriva dai comitati di quartiere, dai movimenti anti-sfratto, anti-austerity e anti-speculazione: pensare alla decrescita e mitigare il turismo, bloccare i piani di vendita del patrimonio e mettere a regime le competenze sull’autorecupero a scopi abitativi; riabitare il patrimonio inutilizzato; istituire moratorie anti sfratto in assenza di alternative alloggiative, proteggere le prime case e un tessuto diffuso di piccoli proprietari; dare avvio a una nuova generazione di cooperative indivise a diritto d’uso; dare spazio alla partecipazione e assumere il conflitto come base per l’azione sociale.

Queste azioni possono rendere più coesa, più solidale, più giusta una città che non rinuncia allo sviluppo e alla rigenerazione e non ignori le comunità che la abitano e le loro esigenze. La risposte al problema dell’espulsione sono collettive e soprattutto tra diversi gruppi sociali. Contrastare l’espulsione urbana. realizzare l’inclusione, sono due modi per ristabilire un’ordine nelle priorità dell’agenda urbana di una città.

LA STORIA DI CARMEN
«LA BANCA VOLEVA LA CASA
HO RESISTITO E POI HO CAPITO
CHE NON ERO SOLA
»
di Roberto Ciccarelli

«Diritto alla città. La bolla immobiliare in Spagna ha colpito anche il ceto medio che ora sta scopre il mondo dell’autorganizzazione. "A Madrid con la Pah, la piattaforma sociale contro gli sfratti, ho scoperto una comunità, una forza collettiva, un modo di lavorare con gli altri"

Nella sua vita precedente Carmen Gutiez faceva l’imprenditrice a Madrid. Era quella che si poteva definire una «storia di successo»: un’impresa di consulenza sulla formazione che dava lavoro fino a 300 persone, una casa in centro a Madrid il cui valore è stato calcolato intorno al milione di euro.

Oggi ha più di cinquant’anni, è una madre single, e la sua vita è cambiata radicalmente, come mai avrebbe potuto immaginare. Carmen colloca l’ora X nella crisi del 2008. Da quel momento le cose sono andate peggiorando, al punto che ha dovuto chiudere l’impresa, Alla lunga i risparmi sono finiti e Carmen non è riuscita a pagare il mutuo e le bollette. «In Spagna, come anche voi in Italia, agli imprenditori e ai freelance non viene riconosciuto un sussidio di disoccupazione», ci racconta a Roma dopo un intervento in un workshop sui movimenti antigentrificazione e per il diritto all’abitare.

Questa è la storia comune di molti professionisti del ceto medio alto, e basso, travolti nel paese iberico dall’esplosione della bolla immobiliare e dalla crisi economica. Come loro, milioni di spagnoli in condizioni sociali molto distanti. La crisi è interclassista e non guarda in faccia nessuno. «Ero a casa nel 2015 – ricorda – Cercavo lavoro sul mio pc e qualcuno bussa alla porta. Era la polizia e l’ufficiale giudiziario, dicono che vogliono sfrattarmi. La banca voleva la mia casa dopo avermi preso i risparmi».

Nella concitazione, Carmen riesce a ottenere una settimana di tregua. Il tempo necessario per contattare lo snodo locale della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah) di Madrid Centro, snodo del movimento perla casa e contro gli sfratti che in Spagna ha raggiunto una straordinaria ramificazione e partecipazione politica al punto da avere espresso anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Quello di Carmen è diventato un caso nazionale quando il movimento si è mobilitato. Su twitter viene lanciato l’hashtag: #CarmenSeQueda, Carmen non se ne va, resta qui. Uno slogan usato molte altre volte.

La Pah usa anche un altro slogan, mutuato da quello italiano da una definizione dello storico dell’arte e sindaco della Capitale Giulio Carlo Argan: «Roma è una città di gente senza casa e di case senza gente». Sugli striscioni usati durante i picchetti nella negoziazione tra la Pah di Madrid e la banca «La Caixa» ne è stato mostrato uno con la traduzione in spagnolo: «ni gente sin casa, ni casas sin gente» con il simbolo della Pah e quello internazionale: «Stop evictions», cioè «Stop sfratti», «stop desahucios».

«Adesso vivo con un salario minimo di 426 euro mensili, in Spagna esiste e mi arrangio». La sua nuova vita è quella dell’attivista per il diritto all’abitare. Fa la social media manager del movimento, partecipa ai picchetti anti-sfratto, gira la Spagna e l’Europa e fa politica. «Ogni volte rivivo quel momento dello sfratto, non voglio che altre persone lo vivano. Non è giusto – racconta – I miei genitori sono morti, con la Pah ho scoperto un nuovo modo di creare una famiglia. è come riscoprire l’amicizia con il mondo. Ho scoperto la sensazione che ti dà una forza collettiva, insieme a persone molto diverse».

La Pah, nata nel 2009, è una delle più potenti espressioni di quel movimento di massa che è stato il 15M spagnolo nel 2011. Oggi è impegnata nella campagna per una legge sulla casa nella Madrid governata da Manuela Carmena. Una proposta di legge di iniziativa popolare è stata respinta dal parlamento. «Questa è una nuova opportunità per me – sostiene Carmen – non siamo soli e posso lavorare per gli altri».

Riferimenti

Se non sapete che vuol dire "gentrification" scrivete la parole nel "cerca". Leggete soprattutto qui l'articolo di Saskia Sassen

Articoli di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa, di Katia Bonchi, di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti. La Repubblica, il manifesto, IlFatto Quotidiano online, 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

La Repubblica
«QUEL CEMENTO È COLLA»
LE GRANDI OPERE PILOTATE CON ESCORT E BUSTARELLE

di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa

«Trenta arresti per il Terzo valico e la Salerno-Reggio Arrestato il figlio di Monorchio, indagato Lunardi jr.»

Nell’amalgama di imprese colluse, di relazioni tecniche taroccate per illudere sul rispetto delle tempistiche, di funzionari corrotti, affonda il segreto del perché, in Italia, le grandi opere pubbliche non finiscono mai. E del perché, quelle volte che arrivano a conclusione, si scoprono giganti con piedi di cemento scadente.

«Cemento che sembra colla», come dicono al telefono gli uomini che tale “amalgama” hanno creato attorno a due infrastrutture vitali per il paese - la linea dell’Alta Velocità Milano-Genova, l’autostrada Salerno- Reggio Calabria - e al progetto del People mover, che dovrà collegare l’aeroporto Galilei e la stazione di Pisa.

Due inchieste separate dei pm di Roma e Genova, “Amalgama” e “Arka di Noè”, condotte dal Nucleo investigativo provinciale del comando di Roma e dal tributario dalla Finanza, hanno portato all’arresto di 30 persone in tutta Italia, con le accuse di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta, tentata estorsione. Quattro di loro figurano in entrambe le indagini: il direttore tecnico Giampiero De Michelis, l’imprenditore Domenico Gallo (che pare avere legami con le ‘ndrine di Platì), Michele Longo e Ettore Pagani. Non due nomi qualunque, questi ultimi.

Oltre ad avere ruoli apicali nella Salini-Impregilo, il colosso delle costruzioni asso pigliatutto dei lavori pubblici in Italia (tra le altre cose, il Ponte di Messina), sono anche direttore e presidente del consorzio Cociv cui le Ferrovie dello Stato hanno affidato la realizzazione del Terzo Valico della Tav, un’arteria strategica tra Genova e Milano (del costo di 6,2 miliardi, fine lavori nel 2021). Nel consorzio, oltre a Impregilo, c’è la Condotte d’Acqua spa. Gli stessi attori del sesto macrolotto della Salerno-Reggio Calabria, che ha richiesto un investimento per lo Stato di 632 milioni di euro. Questo è il quadro. Ciò che racchiude la cornice è desolante, ma spiega molte cose.

Il personaggio chiave è il “mostro”, come è soprannominato De Michelis, il tecnico della Sintel di Giandomenico Monorchio chiamato per fare il direttore dei lavori delle tre opere, assumendo il ruolo di pubblico ufficiale. Il “mostro” conduceva le danze: invece di controllare le imprese subappaltatrici (tra cui anche la Rocksoil dell’indagato Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro del Pdl), ometteva. I procuratori aggiunti Michele Prestipino e Paolo Ielo l’accusano di non aver segnalato «le irregolarità nelle forniture di prefabbricati e nell’ingresso nei cantieri di mezzi e materiali non autorizzati », di essersi “dimenticato” di applicare penali per i ritardi, di aver permesso che venissero montati cordoli costruiti con calcestruzzo sbagliato. La sua “cecità” aveva un prezzo: ottenere appalti per aziende (Breakout, Oikodomos, Tecnolab, Mandrocle) riconducibili a lui e a Gallo. Per ottenere la compiacenza e chiudere qualche occhio, giravano anche mazzette e escort.

«Quel cemento sembrava colla, abbiamo rimandato indietro tre betoniere», si lamenta l’impresario Paolo Piazzai, quando si accorge di cosa erano fatte le miscele mandate dalla Breakout. Un suo collega aggiunge: «L’iniziale fornitura era acqua, la seconda non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». In un altro caso il gruppo cerca di nascondere una gettata di calcestruzzo malfatta, priva delle previste strutture di contenimento. «La cassaforma non c’era! Perché avete firmato una cosa così», sbraita al telefono un imprenditore con Jennifer De Michelis, la figlia del direttore dei lavori.

«Valuteremo se ci sono le condizioni per chiedere il commissariamento di alcuni appalti: se necessario, siamo pronti a farlo», spiega il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone.

Il manifesto
TAV MILANO-GENOVA,
TANGENTI E INTIMIDAZIONI.
E C'È UN LEGAME CON MAFIA CAPITALE

di Katia Bonchi

«Trenta arresti . Decapitati i vertici del consorzio ligure che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità. Fra gli arrestati il figlio dell'ex ragioniere generale dello Stato Monorchio. Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti»

Turbativa d’asta, metodi di intimidazione mafiosa, tangenti ed escort. La doppia maxi inchiesta sulle grandi opere della Procura di Roma e di quella di Genova rispettivamente sulla Salerno Reggio Calabria e sul Terzo Valico mette in luce che almeno per la parte genovese ha scatenato una bufera con l’azzeramento di fatto dei vertici del Cociv, il consorzio che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità che collegherà Genova a Tortona, opera in sei lotti dal costo complessivo di oltre 6 miliardi di euro.

Le Fiamme gialle a Genova hanno eseguito 14 ordinanze di custodia cautelare (24 in tutto gli indagati) per corruzione, concussione e turbativa d’asta. Tra i destinatari il presidente del Cociv Michele Longo, il suo vice Ettore Pagani e nove fra dirigenti e funzionari del consorzio. Tra gli arrestati figura il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Monorchio.

Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti. L’indagine ha scoperto un giro di appalti milionari truccati grazie a mazzette, escort e anche metodi di intimidazione mafiosa. In un caso l’indagine ha documentato il passaggio di soldi da 10 mila euro da un imprenditore a un dirigente Cociv. In un altro, un imprenditore offre una escort a un dirigente del Cociv in cambio di facilitazioni per l’appalto di una galleria che consentirà di depositare in cava parte dello smarino del Terzo Valico.

Al centro dell’inchiesta ci sono altri due casi di turbativa d’asta. Il primo è relativo al cosiddetto lotto Libarna per un valore di 67 milioni e assegnato alla ditta Oberosler di Trento. L’accusa è di collusione per i suggerimenti dati dai funzionari del Cociv all’azienda per correggere le ‘anomalie’ della sua offerta. Il secondo riguarda il Lotto Serravalle, da 189 milioni, assegnato alla Grandi Lavori Fincosit senza che venisse espletata la valutazione delle anomalie dell’offerta presentata.

C’è di più. Tra gli arrestati, quattro persone legano i due filoni di inchiesta: l’indagine dei carabinieri che ha portato a 21 arresti su richiesta della Procura di Roma nasce da uno stralcio dell’inchiesta su Mafia Capitale e riguarda anche 4 persone che hanno avuto a che fare con i lavori del Tav ligure. Oltre al presidente del Cociv Longo e al suo vice Pagani, ci sono l’ingegnere Giampaolo De Michelis e l’imprenditore calabrese Domenico Gallo. De Michelis, fino alla fine del 2015 è stato direttore dei lavori per il Cociv e avrebbe favorto l’ingresso dell’amico e compaesano Gallo nei subappalti per la fornitura di inerti e calcestruzzi tanto che uno dei dirigenti Cociv in un’intercettazione dice: «C’è troppa Salerno Reggio, è diventato un consorzio a gestione meridionale, troppi calabresi, non va bene».

De Michelis avrebbe fatto di tutto per togliere il subappalto per la fornitura alla ditta Allara di Casale Monferrato con ordini di servizio e minacce ai dirigenti Cociv. Poi misteriosamente un anno fa quattro mezzi della stessa ditta vengono pedinati e danneggiati. L’imprenditore di Allara non ha dubbi, e pochi sembrano averne gli inquirenti: «Questo furgone che girava dietro sono i calabresi di Chivasso collegati a quello, quel delinquente» dice riferendosi a Gallo che secondo il gip di Genova avrebbe contatti «con soggetti legati alla criminalità organizzata» e avrebbe partecipato alla cresima della figlia di Domenico Borrello, affiliato alla `ndrina Barbaru U Castanu di Plati´.

Il Fatto Quotidiano
GRANDI OPERE, LE INTERCETTAZIONI
«CEMENTO COME COLLA»
E CALCESTRUZZO CHE DEFLUISCE A CAZZO.
GIP:«SICUREZZA VIOLATA».

di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti

La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l'imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». Parlando dell'opera la definisce «non collaudabile».

«Cemento che sembra colla», «calcestruzzo che non ha una barriera fisica e defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui». È vario il frasario utilizzato dai protagonisti dell’inchiesta “Amalgama“ per descrivere la scadente qualità dei materiali utilizzati nei cantieri finiti sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Roma. Qualità così scadente che, in un caso, le betoniere pronte a gettare cemento che vengono rimandante indietro «essendo il materiale assolutamente inutilizzabile». Il problema del calcestruzzo fornito dalla Breakout (secondo gli inquirenti di Roma riferibili agli arrestati Giampiero De Michelis e Domenico Gallo) appare davvero inquietante: all’inizio la fornitura era “acqua” mentre la seconda «non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». Miscele, quindi, che «non erano assolutamente idonee». In un altro caso il “cemento” era «diverso da quello prescritto».

Il cemento che sembra colla

Il primo a svelare questo particolare è stato il procuratore aggiunto Paolo Ielo nella conferenza stampa durante la quale il magistrato ha citato un’intercettazione del 27 novembre 2015 in cui Paolo Brogani, responsabile della Divisione Coordinamento Infrastrutture e Viabilità di Cociv – Consorzio Collegamenti Integrati Veloci, general contractor a cui è affidata la progettazione e la realizzazione della linea Alta Velocità Milano-Genova – riceve lamentazioni a causa del «cemento che sembra colla». Anche perché a dire di un intercettato l’imprenditore Domenico Gallo «ha sempre avuto il vizio di mettere nel cemento troppo additivo».

La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Il 24 luglio 2015 Jennifer De Michelis, indagata, responsabile Qualità e Sicurezza per società Grandi Opere Italiane e figlia di quel Giampiero ritenuto dai pm cardine dell’intero sistema corruttivo, parla al telefono con il suo fidanzato Enrico Conventi, indagato, ispettore di cantiere nella costruzione dell’Alta Velocità Milano-Genova, della scarsa qualità del calcestruzzo utilizzato e cerca di convincerlo, scrive il Gip, a «falsificare gli atti del controllo per garantire mediante soluzione condivisa la tenuta del patto criminale».

L’intercettazione: «Poi vediamo chi se la cava peggio»

Illuminanti i virgolettati: «C’è il calcestruzzo della fondazione che che non ha una barriera fisica… ma defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui – protesta l’ispettore con la De Michelis – allora lì è un problema ancora una volta! Se mettiamo “non conforme” il problema è che non essendo conforme va aperta una non conformità per quello. Però io ho autorizzato il getto. Quindi sono nella merda anch’io. Quindi che cazzo dobbiamo fare?».

Conventi è terrorizzato perché «la firma è mia» e la responsabile Qualità e Sicurezza gli fornisce – scrive il gip – la «soluzione documentale al fine di occultare le irregolarità commesse e certificare la regolarità della gittata»: il suggerimento è quello di metterci «una bella X sopra (…) visto che sul progetto c’è scritto ‘gettato controterra‘ (…) O cresciamo tutti e ognuno si assume le proprie responsabilità e tutti quanti troviamo una soluzione condivisa o sennò ognuno pensa al culo suo. Poi vediamo chi se la cava peggio».

Il gip: «Violate sistematicamente le procedure di sicurezza»

È il gip a fotografare in maniera inequivocabile la situazione: «Gli indagati (…) violano sistematicamente le procedure di sicurezza e di qualità delle opere realizzate grazie alla compiacenza della direzione dei lavori». «I risultati – scrive ancora Sturzo – di solito sono noti per altre esperienze accertate nel campo delle indagini degli uffici giudiziari; cosi poi emergeranno i cementi depotenziati, gli inerti di scarsa qualità, il ferro e gli acciai non conformi, gli asfalti diversi per qualità e quantità a quelli dei capitolati». Cause, scrive ancora il magistrato, alla base dei crolli e dei malfunzionamenti di cui sono protagonisti le opere pubbliche: «Questi artifici truffaldini saranno la matrice dei crolli spontanei o indotti dai terremoti e dall’uso, di migliaia di opere pubbliche consegnate come gioielli della tecnica ma, alla luce di ciò che solitamente si accerta, in molti casi frutto di gravissime truffe ai soggetti pubblici».

La Salerno Reggio Calabria «opera non collaudabile»

Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». «Dici ma io posso pensare pure perché eh m’avete fatto revocare pure l’incarico mi avete spinto pure voi perché non firmo quello che volevate … e io … Allora io le so tutte e tenete conto di un’altra cosa allora che qua caschiamo e tutta la Salerno Reggio Calabria, dell’opera non collaudabile, dell’arbitrato… Ed io le relazioni gli dici… che le troviamo… di quando dovevate chiudere a 40 milioni (inc) è stato trasferito apposta e cosa ora qua o fate le persone per bene completiamo il ciclo e poi mi mandate a fanculo però io 10 adesso devo completare perché cosi vi siete messi d accordo tutti per mettermi in mezzo ad una strada? Io mi difendo». Ad ascoltare c’è l’ingegnere Giampiero De Michelis, direttore dei lavori del Cociv, che con Gallo, secondo gli inquirenti, avevano innescato un ricatto nei confronti di Giandomenico Monorchio.

Il documento presentato in una gremita assemblea internazionale a Quito (Ecuador) dovrebbe costituire il riferimento strategico per le trasformazione urbane del prossimo ventennio. Abbiamo chiesto una illustrazione alla nostra redattrice, che è stata coinvolta nel lavoro di preparazione del documento.

La Dichiarazione di Quito dall’accattivante titolo“Città e insediamenti umani sostenibili per tutti”, di cui la stampa sta inquesti giorni informando, merita un commento un po’ più ampio di quello che lecronache quotidiane possono permettersi. E’ il risultato di un processo che siè sviluppato in molti mesi e, data l’autorevolezza della fonte (le Nazioni Unite),avrà un impatto notevole sull’opinione pubblica e contribuirà a determinare ilpensiero comune.

Si tratta della terza Agenda Urbana a partire dal1976. Come le precedenti, ha l’obiettivodi orientare le politiche urbane per il prossimo ventennio. È sostanzialmenteuna sintesi delle politiche urbane dominanti negli ultimi vent’anni: buonipropositi e buone strategie, ma “moderate”, così da non mettere in discussionelo sviluppo economico dato e non intralciare il finanzcapitalismo[1]e le speculazioni immobiliari ad esso collegate.
Ho partecipato allo svolgimento del percorso dipreparazione dell’Agenda all'interno del gruppo sulle politiche per lagovernance (Policy Unit 4: UrbanGovernance): credo che la sintesi migliore sia proprio nel titolodell'articolo che Il Sole 24Ore ha dedicato all’evento: “Urbanizzazione per losviluppo”; in altri termini, come obbligare città e governi a indebitarsi congli investitori e i developers, checostruiscono l'espansione delle città per fini puramente monetari, e come ulteriormente trasformare terraagricole a questo scopo.

Il documento contiene tutte le “parole chiave” chehanno gonfiato il dibattito urbano internazionale, dalla parola storica - maancora in testa alle classifiche - “sostenibilità” fino alla parola “resilienza”, l’ultima arrivata. Neldocumento si parla moltissimo di esclusione, iniquità, povertà, problemiambientali e climatici, e c’è una sincera preoccupazione per tutti questifenomeni, ma senza mai mettere in dubbio la benevolenza del modello di sviluppoattuale - quel modello che comporta l’urbanizzazione a tutti i costi e losfruttamento la città “come motore di sviluppo economico”.
L’Agenda mirava ad essere “firmata” dagli statimembri, sebbene l’adesione non costituisca nessun vincolo o impegno. Ed è propriola ricerca a tutti i costi di un consenso, inutile, che ha costituito findall’inizio la rinuncia a provare a creare un documento progressista, creativoe innovativo.
Come strumento di partecipazione e sensibilizzazionedegli stati membri, l’Agenda non ha funzionato molto bene, poiché sono statipochi quelli che hanno avviato un dibattito nazionale[2].Ma certamente è servita per assicurare un larghissimo pubblico all’eventofinale che si è tenuto a Quito.
Un percorsopasticciato e opaco
Il testo finale è il risultato di un percorsopasticciato e poco trasparente, che tuttavia ha impegnato, per oltre un anno,moltissime persone, di diversi paesi ed esperienze ma sempre sotto la regia delSegretariato di Habitat III, che si è riservato la stesura finale del documento.Un Team delle Nazioni Unite, costituito da membri delle varie organizzazioni (conla Banca Mondiale e UN-Habitat sempre presenti), ha inizialmente preparato un documentocostituito da 22 Issues Papers (documenti tematici): una serie diquestioni cruciali da affrontare. Poi sono state costituite dieci Policy Units,ognuna composta da circa 20 esperti guidati da istituzioni con reputazioneinternazionale. Questi hanno lavorato da settembre 2015 ad aprile 2016,individuando punti critici, obiettivi e strategie in specifici ambiti (peresempio la Governance Urbana, il Diritto alla Città, l’Housing, etc.). Ciascundocumento (Issues paper e Policy Paper) è stato inviato aglistati membri e organizzazioni internazionali varie che hanno potuto commentare eproporre cambiamenti. Sulla base dei PolicyPapers il Segretariato di Habitat III ha preparato lo Zero Draftdocument (maggio 2016). Il documento è circolato tra i paesi membri, discusso in numerosiappuntamenti internazionali e revisionato diverse volte, fino ad approdare aQuito nella sua versione finale.
Tre punticritici
Vorrei commentare il documento, e l’insiemedell’iniziativa, su tre principali punti: l’obiettivo dell’Agenda, lo scontrosul concetto “diritto alla città” e un’omissione importante.
L’obiettivo
L’Agenda Urbana dovrebbe esprimere una visione,dei diritti e principi che possiamo assumere come universali, ma non ancorariconosciuti; e forse degli orientamenti strategici. È una fortuna che ildocumento sia rimasto sul terreno generale (e universale) dell’affermazione diprincipi e indirizzi strategici validi per tutte le regioni del mondo.L’imposizione di “modelli” e “regole di governo” da applicare a tutte le cittàe territori del mondo sarebbe devastante, almeno per chi condivide l’idea chela diversità è una ricchezza, e che i diversi contesti ambientali, sociali e culturalirichiedono strategie e tattiche diverse. Fare altrimenti (come qualcunovorrebbe), sarebbe stato un ulteriore strumento di omologazione nell’uso deglispazi, che avrebbe rafforzato i danni già provocati dalle tendenze attuali delsistema capitalistico.
Il “diritto alla città”
Per chi ha seguito da vicino la preparazione diquesta nuova Agenda Urbana, l’elemento più interessante è stato il braccio diferro tra coloro che volevano inserire il “diritto alla città” nel documentofinale e le grandi potenze che hanno espresso un opposizione aspra e tenace. IlSegretariato ha risolto il conflitto tra le grandi potenze e i sostenitoridell’inclusione del nuovo “diritto” (tracui i paesi dell’America Latina capeggiati dal Brasile) dando a questi ultimiun contentino: la citazione dell’espressione nel par. 11 relativo alla ‘visionecondivisa’[3].La formulazione è così ambigua cherisulta chiara la non condivisione del nuovo diritto. Ancora una volta lavolontà dei paesi del Nord del mondo ha prevalso su quella dei paesi del Sud.
L’inserimento del “diritto alla città” èstato ovviamente osteggiato perché potrebbe portare sia a rivendicazioni diriconoscimento del diritto in se - incluso quello di non essere costretto adandare in città - sia all’emergere di ulteriori rivendicazioni di misure per lasua messa in pratica: misure certamente non gradite perché potrebberointralciare il processo di urbanizzazione in atto, gli investimenti e iconseguenti profitti per alcuni dei soggetti (i meno, ma ricchi) eindebitamenti e sfratti scaricati sulle spalle di altri (i più, ma poveri).
L’omissione

Quest’ultima considerazione mi porta direttamentealla terza critica sostanziale all’Agenda urbana di Quito: una pesanteomissione, che ribadisce chiaramente da che parte stiano il mondo e le NazioniUnite. Questi ultimi vent’anni hanno visto ilmoltiplicarsi delle espulsioni, in tutti i paesi del mondo, soprattutto adiscapito delle popolazioni povere, minoritarie e fragili, proprio per effettodi questo modello. Nonostante le Nazioni Unite, in particolare UN-Habitat, abbianoin parecchi rapporti denunciato gli sfratti, questo documento non ha preso unaposizione decisa al riguardo, espressa da più parti nel corso della stesura deipolicy papers, e da molti movimenti e organizzazioni nazionali e internazionali[4].

Il linguaggio è sempre cauto, mai una denuncia decisa e un impegno a impedirele espulsioni, ma piuttosto un impegno a) promuovere politiche della casa atutti i livelli che portino progressivamente a prevenire le espulsioni forzatearbitrarie; b) a incoraggiare politiche che prevengano le espulsioni forzatearbitrarie; c) promuovere lo sviluppo di adeguati e attuabili regolamenti percombattere e prevenire la speculazione, trasferimento e espulsioni forzatearbitrarie[5].(par.107 e 111 del capitolo relativo all’implementazione).

I tre professori con il segretario di UN-Habitat

A concludere la conferenza Habitat III di Quito, econquistare la platea, è stato l’annuncio del “Quito Papers” da parte deiprofessori Saskia Sassen, Richard Sennet e Richard Burdett - già protagonistidel Convegno “Conflicts of an Urban Age” [6] - edi Joan Clos, direttore esecutivo di UN-Habitat, nonché persona di primo pianointernazionale (ex sindaco di Barcellona) e protagonista di Habitat III.
A partire da una forte critica della Carta diAtene, dei principi del Movimento Moderno e delle gated communities, che dovrebbero essere considerate illegali,Sennet sostiene che le città dovrebbero consentire a molte cose diaccadere contemporaneamente, e non dovrebbero aspirare a raggiungere un statoconcluso, ma essere sempre in un processo di incompletezza. Leggendo ilresoconto dell’incontro di Citiscope,avrei voluto sentire una denuncia alleespulsioni, ampiamente descritte e argomentata da Saskia Sassen nel suo ultimolibro Espulsioni[7].
Invece, anche i sociologi sembrano cadere nellatrappola di ritenere che la progettazione urbana sia la chiave per affrontare inostri problemi. A dicembre sarà pubblicato il loro testo, già dichiarato “uncontrappunto intellettuale” alla Urban Agenda. Temo che invece si tratterà diuna traduzione in chiave più progettuale – quindi destinata a rivitalizzare ilruolo dell’architettura e dell’urban design – della Agenda attuale. È unaposizione, del resto, già anticipata al citato convegno LSE-Urban Age daRichard Burdett: un invito ad abbandonare le lotte sociali e buttarsi sulla progettazione.Potrebbe essere invece un invito a un serio pragmatismo, a tentare una viadiversa per catalizzare il cambiamento, ma con la piena consapevolezza cheanche la progettazione dello spazio deve essere politicamente e ideologicamenteschierata? L’appuntamento è a dicembre.



[1] Mi riferisco a quella mutazione del sistema economicocapitalista, che Gallino ha appunto definito “finanzcapitalismo” (Luciano Gallino,Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011),per la quale si è passati ad assumere la ricchezza monetaria come unicafinalità dello “sviluppo” e che comporta il saccheggio delle risorsedisponibili, l’incremento dell’indebitamento delle famiglie e degli stati e losfruttamento del territorio come fonte di rendita e di rendita percepita.
[2] L’Italia, come la maggior parte delle nazioni, hapreparato il suo Rapporto Nazionaleda inviare a Quito, con il coordinamento del Consiglio dei Ministri e il Dipartimentoper le Politiche di Coesione, e la collaborazione di una settantina di personee diverse istituzioni tra cui l’ Anci e l’Istituto Nazionale di Urbanistica(INU). In realtà è mancato completamente un confronto e la raccolta di commentiè stata completamente lasciata alla libera iniziativa delle personedirettamente coinvolte. Così come pochissima diffusione è stata data al documentostesso.
[3] Qui di seguito il testo integrale: “We share a vision of cities for all, referring to the equal use and enjoyment of cities and human settlements, seeking to promote inclusivity and ensure that all inhabitants, of present and future generations, without discrimination of any kind, are able to inhabit and produce just, safe, healthy, accessible, affordable, resilient, and sustainable cities and human settlements, to foster prosperity and quality of life for all. We note the efforts of some national and local governments to enshrine this vision, referred to as right to the city, in their legislations, political declarations and charters.” (Habitat III, New Urban agenda. Draft outcome document for adoption in Quito, 10 September 2016, p. 2).
[4] Per esempio quelli che danno sostegno all’International Tribunal on Evictions, che a Quito si è riunito per un assembleanell’ ambito del “People’s Social Forum Resistance Habitat III”, un evento in contrapposizione a Habitat III. Siveda per esempiosu questo sito
[5]I tre punti sono stati estratti rispettivamentedai par. 31, 107 e 111 dell’Agenda. Di seguito il par.114, nel capito sulleimplementazioni (il corsivo è mio è mio) “We will encourage developing policies, tools, mechanisms, and financingmodels that promote access to a wide range of affordable, sustainable housingoptions including rental and other tenure options, as well as cooperativesolutions such as co-housing, community land trust, and other forms ofcollective tenure, that would address the evolving needs of persons andcommunities, in order to improve the supply of housing, especially forlow-income groups and to preventsegregation and arbitrary forced evictions and displacements, to providedignified and adequate re-allocation.” (Habitat III, New Urban agenda. Draft outcome document for adoption in Quito, 10September 2016, p. 14).
[6]Si legga a proposito l’articolo su eddyburg “Banche al fronte”di Paola Somma.
[7]Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia locale, IlMulino, 2015.

«Strategia e visione per una città hanno a che fare con l'identità. “Scali ferroviari”: si ripropone una mai risolta questione . Due interventi dal dibattito sugli scali ferroviari». ȦrcipelagoMilano online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

URBANISTICA SCALI FERROVIARI
LE CITTÀ POSSIBILI

Giulia Mattace Raso

Ogni silenzio ha un suo proprio caratteristico linguaggio, quello che aleggiava nella Sala del Grechetto gremita, in attesa e durante l’incontro dedicato alla riqualificazione degli scali ferroviari e alle città possibili, parlava di una “domanda di senso”. Domanda di senso che riguarda l’oggetto il processo di trasformazione e il destino di queste aree con la consapevolezza che si stia discutendo del destino della città tutta.

E la prima considerazione evidente è dove finisce il tutto di questa città, perché solo con la coscienza della propria dimensione si individua il piano corretto delle scelte. È richiesto un salto triplo concettuale. Se le élite milanesi faticavano a pensarsi fuori dalla cerchia dei bastioni, non hanno immaginario sulla Città Metropolitana, è particolarmente arduo concepire il tema degli scali alla dimensione regionale, quale è rispetto alle reti, come tema di sviluppo e di uguaglianza di accesso alle funzioni urbane.

«Le scelte per la riqualificazione degli scali ferroviari, per localizzazione, qualità e dimensione delle aree, peseranno come e più di un piano urbanistico generale» ma in questo caso devono assumere le fattezze più proprie di un piano strategico, considerando allo stesso tempo un tema di cornice (lo sviluppo ambientale), un tema di scala (“siamo una città di 7 milioni di abitanti”), un tema di direzione (cosa vogliamo diventare).

Il caso di Torino illustrato da Stefano Lo Russo, è quasi lineare nel suo processo di trasformazione “forzata” alle prese con il declino della città fabbrica: si è riconvertita una città intera, con il suo piano urbanistico generale che ha saputo tracciare la via venti anni fa, il PRG del 1995 (le principali strategie: recupero del centro storico, costruire sul costruito, riorganizzazione della struttura urbana, riuso delle aree industriali), con una scelta forte e coerente, portare il trasporto su ferro sotto il piano di campagna e ricucire il tessuto urbano. Bussola operativa: nella trasformazione urbana l’amministrazione pubblica fa da regista, e nelle dinamiche con i privati l’ultima parola spetta al Pubblico.

Punto di partenza e destinazione finale chiari e riconosciuti a Torino per una visione strategica. Milano sembra già in difficoltà a pensare e definire se stessa. Ricordiamo anche solo il dibattito sull’anima della città prima di Expo, quando ci ponemmo il problema di presentarsi al mondo. Pensato in chiave di brand e marketing territoriale, di fatto affrontava il tema dell’identità: non ne siamo venuti a una.

Difficoltà che si scontra quotidianamente nella ambiguità della dimensione amministrativa: l’orizzonte dichiarato è quello della Città metropolitana ma nel dibattito attuale lo scalo ferroviario di Segrate rimane fuori dal conto perché “fuori dalle mura”. Eppure i geografi ci descrivono come una città di 7 milioni di abitanti, le dinamiche non possono certo essere quelle del ritorno immobiliare calcolato per singoli lotti.

Dobbiamo assicurarci che la cornice di riferimento cognitiva sia quella delle nuove logiche di sviluppo (il decoupling), quella dell’era geologica di appartenenza – l’antropocene -, essere consci di dover partecipare, in quanto attori primi del cambiamento come città, alle messa in atto delle convenzioni internazionali. Scrive Gianluca Ruggieri su questo stesso numero: «Più in generale, è urgente chiedersi come si stanno adeguando urbanisti e amministratori alla prospettiva post-carbonio. Ad esempio nella discussione sul destino degli scali ferroviari urbani, qualcuno si sta ponendo il problema di come gestire la logistica senza far uso di mezzi alimentati da benzina e gasolio (obiettivo che l’Unione Europea avrebbe posto ai centri urbani per il 2030)?»

Le sfide non sono banali, è richiesta attitudine nel gestire la complessità e nel cogliere le opportunità di sviluppo, sinergiche solo se i costi e i benefici saranno calcolati in modo complessivo. Minor costo per chi, maggior guadagno per chi: il caso M4 è paradigmatico nei suoi andamenti, quando si scontra una ratio economica pura con la qualità di vita generale della città, riflessa in quella apparentemente “particolare” dei comitati. Ma non si può pensare la partecipazione come opera di mitigazione sociale, accontentare i bisogni dei cittadini senza tenerne in conto i desideri, o si sta rinunciando alla loro spinta fortemente trasformativa.

La qualità della vita è un ingrediente indispensabile della capacità di attrazione della città e se la «reputazione ormai conta più della ricchezza» e il capitale reputazionale viaggia anche sui social media, questo l’abbiamo molto ben imparato con Expo, allora quel che pensano i cittadini non è proprio più così secondario.

CHI DETERMINA
LE SCELTE URBANISTICHE

Sergio Brenna

I due interventi di Favole e Targetti nello scorso numero di ArcipelagoMilano sono quanto mai utili a indicare quali dovrebbero essere gli obiettivi di interesse pubblico generale cui il Comune dovrebbe indirizzare le scelte di trasformazione urbanistica nel riuso degli ex scali ferroviari milanesi: per un verso la risposta alle esigenze della domanda di evoluzione demografica e sociale e per altro verso l’acquisizione da parte del Comune di una quota preponderante della rendita fondiaria da destinare alla realizzazione di infrastrutture pubbliche in ambito milanese-metropolitano, che invece FS/Sistemi Urbani ritiene di poter destinare prevalentemente all’alleggerimento dei propri costi di esercizio.

Entrambi gli interventi concordano che per motivi sia di evoluzione demografica prevedibile sia di andamento del mercato immobiliare, soprattutto residenziale, non vi sia necessità nei prossimi decenni di grandi quantità di edificazioni a libero mercato, quanto piuttosto di edilizia sociale a basso costo per rispondere alla domanda che attualmente è inevasa dal mercato per impossibilità di accedere ai costi gravati dalla rendita fondiaria.

Da questo punto di vista desidero precisare che il richiamo di Targetti all’obbligo di legge degli anni ’60/’70 (L.167/62, modificata poi dalla L. 865/71) di destinare a edilizia economico popolare dal minimo il 40% al massimo del 70% del fabbisogno abitativo decennale stimato, in realtà non è mai venuto meno: semplicemente con il progressivo esaurirsi delle aree a ciò destinate nei Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) approvati in quegli anni e l’estinguersi dei finanziamenti pubblici all’edilizia sociale, lo stiamo di fatto silenziosamente disapplicando, soprattutto dopo che gli strumenti urbanistici vengono approvati solo in sede comunale, senza sostanziali controlli da parte della Regione, se non quelli dell’eventuale contrasto con opere di interesse regionale (strade, centri servizi, ecc.).

Molto interessante è anche il tentativo di Targetti di stimare la redditività del business plan relativo alle quantità edificatorie attualmente previste in PGT e, per quanto lui stesso introduca più volte elementi prudenziali, mi pare che l’ordine di grandezza da lui stimato in 1,2 miliardi di euro in dieci anni sia del tutto attendibile ed evidenzia la sproporzione con le contropartite pubbliche attualmente previste dall’Accordo di Programma non ratificato dal Consiglio comunale nel dicembre dell’anno scorso.

Dissento, invece, dalla sua troppo remissiva considerazione che secondo la legge urbanistica regionale i diritti volumetrici sono sanciti dai Piani Attuativi e non dal Documento di Piano del PGT e che, quindi, ogni Accordo di programma possa integrare ad libitum il PGT (non a caso è ciò che ha dato origine alle spropositate edificazioni di Citylife e Porta Nuova, dove gli indici edificatori contrattati sono stati di oltre 1 mq/mq e gli spazi pubblici realizzabili dell’ordine di soli 15 mq/abitante, contri i 44-45 mq/abitanti promessi): è una procedura che mi ricorda troppo da vicino la prassi disastrosa degli anni ’50/’60 delle “convenzioni” caso per caso, senza o contro le previsioni dei Piani Regolatori Generali, perché non debba allarmarmi.

È bene invece che i diritti volumetrici siano fissati negli strumenti di pianificazione generale in maniera congruente alle quantità di spazi pubblici e alle densità fondiarie che si intendono ottenere, e che i Piani Attuativi (compresi gli Accordi di programma) vi si attengano, salvo articolarne: mediamente non oltre lo 0,50 mq/mq, se si vogliono spazi pubblici effettivamente realizzabili dell’ordine di 45 mq/abitante, irrinunciabili per una città che voglia dirsi confrontabile con le grandi metropoli europee.

Una volta fissata in questo modo la quantità edificatoria ammissibile e, quindi, la base del valore economico dell’operazione di trasformazione urbana, per le grandi proprietà in trasformazione sarebbe più opportuno introdurre l’obbligo di attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari non con il criterio del rialzo del prezzo, ma con quello del ribasso della quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale.

In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori accettabili condivisi, sia massimizzarne l’utilità sociale, sia infine ottenere un esito progettuale conformativo congruente con i tessuti circostanti.

Purtroppo accade esattamente il contrario. Infatti i Comuni spesso applicano elevati indici edificatori nelle trasformazioni poiché da una parte accettano la proposta immobiliarista privata, d’altra sono condizionati dal dover far fronte con gli oneri urbanizzativi a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio. Si accetta, così, l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale. Non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale.

In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. È a riflettere su questi temi che vorrei veder l’attuale amministrazione impegnata a confrontarsi con le forze sociali e intellettuali della città, anziché attardarsi a rimasticare la riproposizione dell’Accordo con FS bocciato dal Consiglio comunale nel dicembre scorso.

La Repubblica, 25 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il Sudafrica ha annunciato la propria intenzione di ritirarsi dalla Corte Penale Internazionale — Cpi, il Tribunale che dal 2002 è chiamato, sulla base del Trattato di Roma del 1998, a giudicare delitti di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. L’annuncio sudafricano è clamoroso, ma certo non inatteso.

Sono anni che la Corte è oggetto di pesanti accuse da parte di numerosi stati africani che l’accusano di discriminazione facendo notare che tutti gli otto procedimenti iniziati dall’Ufficio del procuratore della Cpi si riferiscono a paesi africani: Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Repubblica Centrafricana, Sudan, Kenya, Libia, Costa d’Avorio e Mali, con il Burundi che, alla vigilia della formale apertura di un’inchiesta, ha avviato le procedure di uscita dalla Cpi.

Il Sudafrica non è sotto inchiesta, ma il Ministro della giustizia ha motivato la decisione con la contraddizione fra la giurisdizione della Corte e l’immunità di cui godono i vertici politici di qualsiasi paese.Siamo quindi in presenza di due diversi tipi di contestazione, che pure convergono nello spingere gli africani verso la rottura con la Cpi.

Opporre l’immunità dei vertici politici alla competenza della Corte significa svuotare il senso stesso del tribunale, istituito proprio per impedire che laddove si legge “immunità” quello che si pretende è l’impunità nei confronti dei crimini più atroci. Se è questo il problema, allora alcuni dei 124 paesi (africani e non) che hanno aderito alla Corte farebbero bene ad uscirne per semplice coerenza.

In Africa, poi — come e più che in altri continenti — dirigenti criminali sottopongono le rispettive popolazioni a repressioni massicce che hanno giustificazioni etniche o tribali, ma che di solito servono a coprire sistemi di corruzione ed esclusione, quando non di sterminio, come nel caso del genocidio del 1994 in Ruanda. In Africa non sono pochi quelli che vedono nell’esistenza della Corte una tutela per le popolazioni attraverso la deterrenza che la Corte può esercitare nei confronti di dirigenti sanguinari. Ma anche loro denunciano il macroscopico squilibrio fra l’attenzione riservata all’Africa e quella dedicata ad altri continenti, dove pure non mancano situazioni di gravissime violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario. Come ha detto un alto funzionario dell’Unione Africana, «Perché non l’Argentina? Perché non Myanmar? Perché non l’Iraq?»

Emerge ancora una volta la debolezza di un sistema internazionale al cui interno disuguaglianze a asimmetrie fanno perdere credibilità a norme e istituzioni che sarebbero necessarie a garantire un mondo meno feroce e ingiusto. A partire dall’esistenza in ambito Onu di paesi «più uguali degli altri» (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza), sono troppe le situazioni in cui viene meno il criterio fondamentale che sta alla base del riconoscimento e del rispetto di regole comuni: «la legge è uguale per tutti».

Chi può sostenere che esista il diritto di sterminare il proprio popolo con un genocidio, e che i dirigenti responsabili di simili atrocità debbano essere coperti dall’immunità? E non si tratta solo di un obbligo morale, ma anche di razionalità politica, dato che sarebbe assurdo non vedere come queste colossali azioni criminali causino — dal terrorismo ai flussi di rifugiati — gran parte dell’instabilità globale.

Ma si può difendere un sistema che è forte con i deboli e debole con i forti?
E poi, se vogliamo parlare della Corte Penale Internazionale, faremmo bene a non limitarci a considerare la critica e il rigetto da parte dei paesi africani.

Faremmo bene a ricordare che gli Stati Uniti, che pure erano stati alle origini della sua fondazione e che avevano sottoscritto il Trattato di Roma durante la presidenza Clinton, non solo non l’hanno mai ratificato, ma — sotto la presidenza Bush — hanno preteso addirittura di cancellare la firma apposta a Roma. Perché? Perché hanno sostenuto che, date le proprie responsabilità mondiali, non potevano ammettere che non solo i propri dirigenti, ma anche i propri soldati fossero sottoposti a procedimenti che avrebbero potuto risultare inquinati da intenzionalità politiche.

Sotto Bush l’ostilità americana nei confronti della Cpi è arrivata all’approvazione da parte del Congresso di un meccanismo di sanzioni (la cancellazione dei programmi di aiuti militari) nei confronti dei paesi che non avessero accettato di garantire ai cittadini americani immunità nei confronti della giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Con Obama Washington è passata dall’ostilità a una collaborazione sul piano pragmatico, ma rimane ferma sul principio che la Corte non potrà mai giudicare cittadini americani.

Non sono quindi solo gli africani a volersi sottrarre alla giurisdizione della Corte — una Corte la cui attuale debolezza è stata anche il frutto dei suoi errori (il peggiore, per un tribunale: due pesi due misure), ma che in realtà concerne il nodo fondamentale della politica: il problematico rapporto fra forza e regole.
La strada della giustizia internazionale è molto lunga, molto problematica, molto accidentata.

Concluso a Quito Habitat III; organizzato dall'agenzia dell'ONU per casa città, territorio ambiente. Approvata l'Agenda urbana per il prossimo ventennio. Come ne racconta il significato e il senso la il giornale dell'associazione degli industriali italiani e affini Fra poco la racconta eddyburg. Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2016.

Dopo Parigi, Quito. Nella capitale più alta del mondo, 193 governi hanno firmato questa settimana la Nuova Agenda Urbana, che delinea le strategie globali di urbanizzazione per i prossimi vent’anni, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il documento, approvato nella conferenza Habitat III dopo mesi di negoziati delinea una visione ambiziosa di città compatte, sviluppate lungo assi di trasporto pubblico sostenibile e umanizzate da una crescita policentrica, che cerca d’indirizzare il processo d’inurbamento lungo linee nuove, per evitare il sovraffollamento selvaggio delle megalopoli. Fra i punti centrali della Nuova Agenda Urbana c’è il cosiddetto diritto alla città - «Le città sono per la gente, non per il profitto» -, un principio concepito per spingere i governi locali a una pianificazione che privilegi il pubblico sul privato.

Le città già oggi ospitano oltre metà dell’umanità, producono il 70% del Pil globale e sono responsabili del 70% delle emissioni di gas serra, ma continuano a espandersi: entro fine 2016, altri 70 milioni di persone si saranno spostati nelle aree urbane. Entro il 2030, ci saranno 41 megalopoli di 10 milioni di abitanti o più, contro le attuali 28. Entro il 2050, l’homo civicus avrà superato i 6 miliardi di persone, due terzi dell’umanità, e genererà oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti l’anno.

D’altra parte, le città sono anche grandi catalizzatori di soluzioni per la sostenibilità. Entro il 2017, per esempio, 2,5 milioni di pendolari della metropolitana di Santiago del Cile viaggeranno ogni giorno su treni alimentati da energia solare ed eolica. Singapore ha aperto la strada per una gestione efficace del traffico fin dal 1975, grazie alla prima congestion charge. Città del Capo vanta gli obiettivi di risparmio idrico più ambiziosi del continente. San Francisco e Montreal hanno di gran lunga superato gli standard dei loro governi federali per le politiche in materia di diritti umani. Il ruolo pionieristico delle città nell’affrontare le grandi sfide è stato riconosciuto nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e nei Millennium Goals dell’Onu.

La Nuova Agenda Urbana ha lo scopo di sfruttare questo dinamismo urbano come motore dello sviluppo sostenibile. Ma lo stato d’animo festoso che ha salutato l’esito dei negoziati a Quito non può celare i problemi di fondo. Come uno tsunami, le migrazioni spazzano rapidamente tutto il globo. I confini delle aree urbane di espandono, le città satellite crescono, la dispersione delle aree edificate aumenta. Quest’ultimo è lo sviluppo più dannoso per l’ambiente. La maggior parte degli insediamenti urbani, infatti, sono partiti dai terreni agricoli migliori lungo un corso d’acqua dolce, ricco di vegetazione naturale. Edifici, coltivazioni, pascoli e boschi spesso si sono sviluppati in anelli concentrici. L’espansione urbana quindi invade e inquina a un ritmo crescente risorse naturali preziose. Questo modello si applica per le città di ogni taglia, dalle più piccole alle più grandi (oltre 10 milioni di persone). Intorno ai bordi delle piccole e medie città degli Stati Uniti, da Salt Lake City a Denver, gli ecosistemi naturali si sono ridotti a zone sempre più frammentate e degradate. Allo stesso modo, Seul ha trasformato le zone verdi circostanti in un anello di parchi delimitato da autostrade

«Il titolo della legge, attesa in aula al Senato, promette di tutelare le aree protette cambiando governance e regole. Insorgono 17 associazioni ambientaliste sostenendo che i partiti e gli interessi locali si spartiranno poltrone e non sapranno arginare le brame di industriali, petrolieri e cacciatori.». Il Fatto Quotidiano online, 24 ottobre 2016 (c.m.c.)

Le mani della politica sui parchi, sempre più ostaggio di spartizioni e interessi locali, con un presidente e un direttore che possono non saperne niente di ambiente e si ritrovano esposti alle pressioni dei privati che pagano royalty per inquinare, costretti poi – al momento del rinnovo delle concessioni – a scegliere tra la conservazione della natura senza compromessi e la possibilità di intascare qualche euro per far fronte alle croniche ristrettezze economiche.

È questo, secondo gli ambientalisti, il destino dei parchi nazionali d’Italia se il testo della riforma della legge sulle aree protette, approvata lo scorso 20 ottobre dalla commissione Ambiente del Senato e atteso in aula, non verrà modificato. «Questa riforma non fa altro che accentuare il politicismo dei parchi indebolendo il loro ruolo principale che è la tutela della natura», denuncia il direttore del Wwf Gaetano Benedetto, sintetizzando la posizione di 17 associazioni ambientaliste che hanno diffuso un documento con tutte le modifiche necessarie perché la legge non tradisca nei fatti i buoni propositi enunciati dal relatore Massimo Caleo, vicepresidente Pd della commissione ambiente. «Il Parlamento ha saputo mettere a punto un provvedimento che finalmente aggiorna la legge sui parchi alle nuove esigenze degli enti, rafforzando le finalità di conservazione dell’ambiente e aprendo nuove opportunità di sviluppo sostenibile», ha annunciato il senatore in pompa magna subito dopo il voto, lasciando sconcertate le associazioni.

In balia degli interessi locali

A mettere in allarme gli ambientalisti è la modifica delle regole sulla composizione dei consigli direttivi dei parchi, uno degli organi principali nella gestione delle aree protette soprattutto per tutte le questioni economiche. Oggi la metà dei membri vengono dagli enti locali, portatori dunque degli interessi del territorio, mentre l’altra metà è designata a livello statale, e rappresenta gli interessi di conservazione della natura.

Con la riforma questo equilibrio rischia di rompersi, perché tra le nomine statali la legge prevede che accanto al rappresentante delle associazioni ambientaliste e a quelli di ministero dell’Ambiente e Ispra ce ne sia anche «delle associazioni agricole nazionali più rappresentative» (finora era scelto dal ministero dell’Agricoltura). Cioè un imprenditore agricolo del territorio, portatore di interessi economici legittimi, ma non proprio sovrapponibili a quelli di protezione dell’ambiente. Nei fatti, fa notare chi è d’accordo con il testo, è già così: i ministeri da sempre scelgono i loro referenti politici locali, ma per la presidente del Wwf Donatella Bianchi, «si rischia di sbilanciare i consigli verso gli interessi territoriali, diversi dalla conservazione della natura. Tra l’altro, ci sono categorie altrettanto importanti, come quella del turismo, che non vengono minimamente considerate».

Non fanno dormire tranquilli gli ambientalisti neanche i criteri per la scelta dei vertici dei parchi: «Il ddl non dice chiaramente che presidente e direttore devono avere specifiche competenze sulla conservazione della natura. Il rischio è che il presidente sia una figura più politica e che il direttore venga scelto sulla base delle sua capacità gestionali, che sono importanti ma non devono essere separate da specifiche competenze naturalistiche», continua la presidente del Wwf. In gioco c’è il lavoro stesso dei parchi, che da enti di tutela della natura rischiano di diventare ancora di più terreno di lottizzazione politica.

Per qualche euro in più

Anche la questione delle royalty si sta rivelando un vero e proprio cavallo di troia. Le legge prevede che i parchi ricevano direttamente le somme pagate da chi sfrutta il patrimonio naturale del parco o le aree contigue per attività economiche già autorizzate. Parliamo per esempio di concessioni di derivazione d’acqua per produrre energia idroelettrica, di permessi per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi o ancora di concessioni per l’ormeggio di imbarcazioni. Un contentino per compensare le aree protette delle magre risorse messe a disposizione dal ministero dell’Ambiente? Il rischio, dice il presidente della Lipu Fulvio Mamone Capria, è che «le royalty diventino merce di scambio e che i parchi siano incentivati all’allargamento delle concessioni al momento del rinnovo».

Fuori le doppiette dai parchi

Gli ambientalisti vorrebbero anche che il testo escludesse definitivamente i cacciatori dai parchi nazionali, dove oggi sono ammessi per attività di controllo delle specie invasive o troppo numerose, come i cinghiali. «Chiediamo che per queste attività si scelgano sistemi ecologici e a ridotto impatto ambientale per gli ecosistemi del parco. Gli animali possono per esempio essere catturati e poi macellati altrove. L’ingresso con le armi nei parchi deve essere l’extrema ratio, e comunque deve poterlo fare solo il personale dell’area protetta, non cacciatori e guardie venatorie», denuncia ancora Mamone Capria.

La frattura

Mentre le 17 associazioni ambientaliste hanno ritrovato l’unità per combattere contro un testo che la Lipu definisce “pessimo”, e in cui, secondo il Wwf, «in nome della semplificazione si rischia di perdere di vista la tutela della natura», Federparchi, il “sindacato” delle aree protette, non esita a definire il provvedimento «un grande passo avanti per l’Italia dei parchi». E se il presidente di Federprachi Giampiero Sammuri minimizza le differenze, dicendo che «con gli ambientalisti siamo d’accordo quasi su tutto», il direttore del Wwf Gaetano Benedetto rilancia: «Federparchi ha dato il via libera in consiglio direttivo al ddl che poi è andato in votazione in commissione, le associazioni hanno presentato un testo di critica a quel provvedimento. La fotografia è questa, non ce n’è un’altra». Un particolare da non dimenticare è che il testo affiderebbe a Federparchi la piena ed esclusiva rappresentanza delle aree protette, anche se trattandosi di un’associazione volontaria aderirvi in teoria non è obbligatorio.

Le differenze di posizione sono evidenti. Alle critiche delle associazioni, Sammuri replica che «nei consigli direttivi con la riforma non si crea assolutamente uno sbilanciamento. Le royalty sono una buona cosa, anche perché una volta costruiti e autorizzati con le concessioni, gli impianti in questione non potrebbero comunque essere smontati e portati via». Sulle competenze dei vertici, spiega che «è giusto che il direttore abbia soprattutto competenze gestionali, perché deve far funzionare la macchina del parco. Il presidente deve essere una figura politica e non un esperto di temi naturalistici, così come il sindaco non deve essere esperto di viabilità o gestione dei rifiuti. Il provvedimento è molto positivo su alcuni aspetti pratici che chi milita nelle associazioni ambientaliste non ha chiari o non ritiene abbastanza importanti. Uno su tutti l’accorciamento dei tempi per la scelta del presidente, che è fondamentale».

Quale riforma?

Il testo andrà in aula al Senato a partire dal 25 ottobre. Poi dovrà passare alla Camera. Se tutto va bene, la riforma arriverà nel 2017. «Non so se ci sarà l’apertura che le associazioni ambientaliste stanno chiedendo, perché alcune questioni sono strettamente connotate secondo la moda politica del momento: scivolamento sull’ambito territoriale, federalismo improprio, concetto economico che viene sempre prima nonostante la Costituzione dica altre cose», dice un po’ abbattuto il direttore del Wwf Benedetto. E mentre il presidente della Lipu minaccia le barricate in mancanza di emendamenti migliorativi da parte del Parlamento o del governo, quello di Federparchi dice: «So già che non ci saranno tutte le cose che chiediamo, ma non per questo mi incatenerò davanti alla Camera o al Senato».

Che succede nel Sud dell'Africa, a partire dalle università e dalla prima generazione post-apartheid? Una breve cronologia, un'analisi di Kenichi Serino da The Atlantic, Usa, e un commento di Andrew Ihsaan Gasnolar da Daily Maverick, SA. Internazionale, 21 ottobre 2016, (i.b.)

nota cronologica

Ottobre 2015 In varie università cominciano le protestecontro la proposta di aumentare le tasse universitarie ino a un massimodell’11,5 per centoAlla fine del mese il presidente Jacob Zuma annuncia che nonci saranno aumenti delle rette nel 2016
12 agosto 2016 Il Council on higher education, un ente indipendente cheoffre consulenza al ministero dell’istruzione, conclude che non au­ mentare lerette universitarie per il 2017 sarebbe insostenibileNei giorni seguenti ci sononuove manifestazioni in varie università
19 settembre Il ministro dell’istruzione Blade Nziman­ de annuncia chele università potranno aumentare le tasse d’iscrizione ino all’8 per cento eche ogni ateneo potrà decidere autonomamente sugli aumentiNzimande aferma ancheche il governo sta cercando il modo di fornire assistenza inanziaria aglistudenti provenienti da famiglie che hanno un reddito annuo inferiore a 600milarand (38mila euro)Dopo l’annuncio ci sono mobilitazioni degli studenti.

13 ottobre La University of the Free State annuncia che il suocampus principale, nella città di Bloemfontein, e altri campus resterannochiusi fino al 28 ottobre
15 ottobre Nove persone sono arrestate in seguito agli scontri tra lapolizia e gli studenti dell’università di Witwatersrand
17 ottobre La University of Cape Town riapre dopo la chiusura dovuta a“motivi di sicurezza”, ma la polizia inter­ viene per disperdere una manifestazionedegli studentiUn edificio dell’università viene sgomberato in seguito ad attivandalici

da Mail&Guardian, Reuters

The Atlantic, USA
ANCORA IN CAMMINO
VERSO LA LIBERTÀ
di
Kenichi Serino,


«Le università dovrebbero essere i luoghi in cui il superamento dell’apartheid è più evidente. Invece sono ancora segnate dalle disuguaglianze tra i neri e i bianchi»
Quando nel 2011 Nyiko Lebogang Shikwambane, che all’epoca aveva 24 anni,lasciòla sua casa alla periferia di Johannesburg per studiare legge all’università diWitwatersrand, portava con sé le aspirazioni di una famiglia di insegnanti e infermieri,le sole professioni rispettabili per gran parte dei sudafricani neri durantel’apartheid
L’università di Witwatersrand, chiamata anche Wits, è una di quelleistituzioni accademiche sudafricane che un tempo erano prevalentemente bianchee che, du­ rante l’apartheid, di tanto in tanto si scontravano con il governoper le loro politiche di ammissioneAnche se un numero mini­ mo di studenti neriera ammesso, alla Wits e in altre prestigiose università anglofone, come laUniversity of Cape Town (Uct) e la Rhodes university di Grahamstown, glistudenti erano in maggioranza bianchiDopo la ine della segregazione razziale,in pochi anni molti di questi atenei erano fre­ quentati soprattutto da neri.

Shikwambane, che aveva fatto le elementari in una scuola in passatoriservata ai bianchi, si è accorta che nei corsi che seguiva alla Wits,frequentati da molti neri, c’era una gerarchia implicita: “I ragazzi bianchi,in molti casi provenienti da scuole un tempo riservate ai bianchi, erano gliunici a ri­ spondere alle domande e a sentirsi a loro agio a parlare davanti aun’aula con 120 persone. Prendevano i voti più alti e si passava­ no gliappunti degli studenti che avevano frequentato i corsi l’anno prima”Gli stu­denti neri prendevano appunti con carta e penna, mentre i bianchi avevano quasisempre computer portatili e iPad, che Shikwambane vedeva per la prima volta
Anche se l’apartheid è finito nel 1994, in Sudafrica c’è ancoraun’enorme distanza tra l’esperienza degli studenti bianchi e quella deglistudenti neri come Shikwambane, che riescono a entrare in universitàprestigiose dopo aver frequentato scuole pubbliche scadenti e con pocherisorse. Gli istituti in passato riservati ai bianchi, invece, oltre a riceveremolti finanziamenti, possono contare sui contributi dei genitori e degli exalunni. Queste scuole mandano i loro studenti nelle migliori università delpaese, ofrendo delle opportunità ai ragazzi neri che vengono da contesti dipovertà
Ecco perché le università sono tra i luoghi che meglio rappresentano larabbia della generazione post-apartheid o dei “nati liberi”. Questa generazionesi è trovata di fronte a un triste paradosso: è più libera di quella che l’hapreceduta, ma non ha i mezzi o il sostegno per sfruttare in pieno questalibertà. Molti giovani si sentono limitati da quella che percepiscono sempre dipiù come una trasformazione sociale e politica incompleta, che ha semplicementeconsolidato le disuguaglianze di un’epoca considerata ormai passata
Questa rabbia è sfociata in una serie di proteste, le ultime delle qualialla Uct e alla Wits. Gli studenti delle due università han­ no occupato irispettivi campus dopo es­sersi scontrati con la polizia e con gli agen­ti disicurezza privati. Alla Uct la contestazione è cominciata a metà settembre,dopo che erano state prese azioni disciplinari contro alcuni studenti accusatidi aver commesso atti vandaliciAlla Witwaters­ rand, invece, migliaia distudenti hanno bloccato gli ingressi dell’università e han­ no occupato laprincipale sede amministrativa per protestare contro la decisione del governodi proporre un aumento delle tasse per alcuni iscritti
In teoria le università dovrebbero essere i luoghi in cui le grandidisparità economiche e sociali tra bianchi e neri imposte dall’apartheid siriducono.Invece è proprio qui che l’eredità del regime razzista rimane piùvisibile
Nel 1994, dopo decenni di proteste spesso violente, critiche dallacomunità internazionale e boicottaggi, il governo sudafricano guidato dalNational party, il partito nazionalista di destra, e l’African nationalcongress (Anc) di Nelson Mandela negoziarono la fine di un sistema che dal 1948istituzionalizzava la discriminazione, riconoscendo diritti diversi aicittadini a seconda che fossero bianchi o neriLe successive elezioni democratiche,le prime nella storia del paese, contribuirono a evitare la guerra civile echiusero definitivamente il capitolo del razzismo di stato. L’Anc, che prima didiventare un partito era stato un movimento di liberazione, lavorò per lariconciliazione e l’amnistia per alcuni crimini commessi durante l’apartheidattraverso la Commissione per la verità e la riconciliazioneI leader dell’Ancsapevano che mentre il potere politico sarebbe arrivato subito con le elezioni,altri cambiamenti – come la riforma agraria, le partecipazioni societarie e l’affirmativeaction (uno strumento per promuovere l’uguaglianza tra i cittadini) – sarebberostati introdotti gradualmente attraverso la cosiddetta trasformazione
Con l’avvento della democrazia, per gli studenti neri diventò piùsemplice entrare nelle scuole e nelle università prima riservate aibianchi.Queste istituzioni nominarono vicerettori e rettori neri
Ma il cambiamento è stato lento, spiega Sithembile Mbete, che insegnaall’università di Pretoria: “I problemi del Sudafrica sono stati inquadratisolo in termini etnici, come se affrontare la questione razziale potesserisolvere tutto”
Bocca chiusa

Così non è stato. In Sudafrica ledisuguaglianze sono tra le più marcate al mondo, e la povertà è legatasoprattutto alla questione razziale. Un cittadino nero ha quattro volte piùprobabilità di trovarsi senza lavoro di un bianco. Il reddito medio di unafamiglia bianca è sei volte superiore a quello di una famiglia nera. Nelleaziende i bianchi ricoprono sempre gli incarichi più importanti.

Nel 2015 ilquotidiano sudafricano Business Day ha scritto che il numero degliamministratori delegati neri – sono considerati neri anche i coloured (meticci)e i sudafricani indiani, anche loro discriminati durante l’apartheid – eraaddirittura calato dal 2012. Inoltre il costo dell’istruzione superiore eraaumentato a causa dell’inflazione e del taglio delle sovvenzioni pubbliche

Figlio di una madre single, Anzio Jacobs è un ragazzo snello. Ha unapettinatura afro con striature bianche e un tatuaggio del dio hindu Ganesha sulpolso. È cresciuto a Woodstock, un ex quartiere popolare di Città del Capo.Dato che l’apartheid aveva confinato le famiglie nere in periferia mentre icentri delle città erano dominati dai bianchi, Jacobs e gli altri studenti neripotevano impiegare anche ore per arrivare a scuola. Gli studenti bianchi,racconta, nel cestino del pranzo avevano la cioccolata; i neri si portavanomattoni di pane vecchio. E dovevano conformarsi“. Quando andavo a scuola,dovevo corrispondere a una particolare tipologia di coloured. La miadoveva essere un’esistenza ai margini della sfera bianca. Dovevo parlarel’inglese giusto e vestirmi nel modo giusto”, ricorda Jacobs
Jacobs racconta della pressione a cui sono sottoposti gli studenti neriche vengono ammessi nelle ex università bianche. Una volta ricevuta la “chiaved’oro”, i giovani neri devono fare i conti con l’ingiustizia sociale e ilrazzismo“. Devi tenere la bocca chiusa e non fare niente, perché ti hanno fattoun regalo, ti hanno concesso un’istruzione. E a caval donato non si guarda inbocca”, dice
Nel 1996 Jacobs aveva cominciato a frequentare una scuola privata primariservata ai bianchi, dove aveva imparato che “il razzismo è ancora unarealtà”. Lui e gli altri coloured erano vittime del bullismo deglistudenti bianchi, e al preside, bianco, non importava niente
A 25 anni è ancora iscritto al secondo anno diuniversità, perché non riuscendo a pagare le tasse d’iscrizione ha dovutoricominciare tutto da capo“- Continuo a fare gli esami ma so che quando iniròentrerò in un mondo del lavoro che non ha spazio.
Daily Maverick, Sudafrica
LE PROMESSE NON MANTENUTE di Andrew Ihsaan Gasnolar,
«Le proteste degli studentifanno luce su altri problemi della società sudafricana. E sulla
sua identitàirrisolta»

La memoria collettiva del Sudafrica è piena di buchi. Dimentichiamo troppofacilmente, permettendo alle iene di scorrazzare indisturbate e mettendo arischio il nostro futuro. Il Sudafrica non sta semplicemente vivendo una stagionedi malcontento: la sensazione è che stiamo andando completamente alla deriva. Nonci basterà pregare o parlare di come uscire da questo disastroIl movimentochiamato #FeesMustFall ha evidenziato le fratture della società e ha attiratol’attenzione sull’atteggiamento indolente e miope delle persone che dovrebberoguidarci.

Dopo che in diverse università sono scoppiate le proteste control’aumento delle rette proposto dal governo, il 19 settembre Blade Nzimande, ilministro dell’istruzione e della formazione superiore, ha annunciato che nontornerà sui suoi passi In base alla proposta del governo, le universitàdovrebbero aumentare le tasse d’iscrizione fino all’8 per cento.Le famiglie conun reddito inferiore a 600mila rand all’anno (38mila euro) potranno chiedere uncontributo pubblico equivalente all’aumento
Questo annuncio ha fatto salire la tensione e l’incertezza in tutti icampus universitari. È importante notare che per qualcuno la proposta di Nzimandeè a vantaggio dei poveri, e in efetti va valutata considerando fattori diversi.

Nzimande ha spiegato che il governo si sarebbe impegnato a tutelare lefasce di popolazione più deboli con una serie di interventi finanziati dal National student financial aid scheme,che offre prestiti agli studenti, Il dipartimento del tesoro ha specificato che“sta esaminando vari meccanismi per trovare i fondi necessari a garantire isussidi”Sappiamo tutti, però, che nella situazione iscale attuale non sarà facile trovare 2,5 milioni di rand. E infatti la proposta del governoè già stata bocciata dagli studenti, che hanno nuovamente chiesto un’istruzionegratuita per tutti.
Il tema dell’istruzione gratuita non va trattato come una questioneisolata, soprattutto in tempi difficili come questi. La responsabilità è in granparte di un governo tronio e frammentato e della pessima azione del presidenteJacob Zuma. I tagli suggeriti dal dipartimento del tesoro non dovrebberoriguardare solo i singoli ministeri, ma anche le dimensioni e la struttura delgoverno. La domanda che tutti i sudafricani dovrebbero farsi è come il paese puòsuperare l’impasse e realizzare il sistema scolastico promesso ai suoi giovani.
Verso il cambiamento

Non siamo a un bivio solo sul tema dell’istruzione. Stiamo mettendo indiscussione il tessuto stesso di questa unione frammentata e imperfetta, cheoggi è in grande difficoltà. La colpa non è solo di politici inetti come Zuma,ma anche della nostra incapacità di andare oltre le parole e di passare aifatti. Certo, è sconcertante che questi politici si siano dimenticati che nonagiscono per intercessione divina ma che sono dei semplici impiegati con deicompiti da svolgere. Ma non sono loro gli unici responsabili del sabotaggiodella nostra democrazia, sono solo la faccia della corruzione e dellaprevaricazione che minacciano il paese
La crisi che dobbiamo affrontare non si limita al dirittoall’istruzione, ma riguarda anche la disuguaglianza, la povertà, ladisoccupazione e l’accesso ai servizi di base. Stiamo facendo a botte con lanostra identità nazionale. Non riusciamo a costruire sull’eredità incerta dichi ci ha preceduto e allo stesso tempo siamo limitati dall’inefficienza edalle carenze di chi oggi è al timone
Il dipartimento del tesoro sottolinea che “chi può pagare lo fa perpermettere allo stato di sostenere gli studenti sempre più numerosi che nonhanno i mezzi per frequentare l’università e meritano di essere aiutati”.Parlando al Gordon Institute Of Business Science il 20 settembre, l’ex ministrodelle finanze Nhlanhla Nene ha dichiarato che “le battaglie che gli studentistanno combattendo sono le nostre battaglie. I soldi non sono solo deldipartimento del tesoro. Servono perché tutti possiamo diventare una cosasola. Tutti dobbiamo dare il nostro contributo”
Tuttavia, il rischio di lasciare la gestione al governo è che questifondi non si otterranno da un ridimensionamento dell’esecutivo, dal tagliodelle prestazioni superflue e delle retribuzioni dei politici o da un giro divite sulle appropriazioni indebite o sulla corruzione.Potrebbero esseresottratti ai fondi destinati ai servizi di base, di cui milioni di sudafricanihanno un disperato bisogno, mettendo il paese ancora più in diicoltà
Il 9 settembre, durante la cerimonia in onore dell’attivistaantiapartheid Stephen Bantu Biko, la coraggiosa attivista e scrittricestatunitense Angela Davis ci ha ricordato che i nostri leader «stannocominciando ad affrontare questioni irrisolte e alcune delle tante omissioni eostruzioni»I giovani si appoggiano a loro, ha proseguito, ma questi leader «nonhanno le spalle solide». Come ha osservato Davis, «la rivoluzione che volevamonon è quella che abbiamo prodotto», ma dobbiamo intervenire ora per risolvereil problema ancora più grande che affligge il paese: la questione della nostraidentità, che non può essere demandata all’attuale generazione di leader. Isudafricani devono andare oltre il loro orticello, cominciare a dare risposteconcrete e agire guardando al presente
È l’unico modo che abbiamo per contrastare disuguaglianza, povertà edisoccupazione, i servizi di base non garantiti e diritto allo studio nontutelato. Solo allora potremo passare alla fase successiva della rivoluzioneper la democrazia, lottare per “le promesse non mantenute del passato e dareinizio a un nuovo attivismo», più che mai necessario.

Direzione Cop 22. Sbarca oggi a Porto Torres la flotta per la giustizia sociale e climatica». Peccato che lo stesso giorno la Sardegna respingeva un gruppo di profughi, perché ne avevano già accolti il quantitativo stabilito.il manifesto, 23 ottobre 2016 (c.m.c.)

In vista della Conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico (Cop 22), che si terrà dal 7 al 18 novembre a Marrakech, in Marocco, un gruppo di attori della società civile ha scelto di lanciare una campagna di mobilitazione euro-africana per la giustizia climatica e la giustizia sociale, l’Odissea delle Alternative Ibn Battûta, dal nome del cosiddetto «Marco Polo dell’Islam» che a metà del XIV secolo da Tangeri viaggiò per 28 anni, per terra e per mare, raggiungendo Timbuctù e Pechino.

«L’Odissea delle Alternative», partita il 19 ottobre e che proseguirà fino al 10 novembre, farà tappa in sei Paesi – Spagna, Francia, Italia, Tunisia, Algeria e Marocco – con l’obiettivo di rilanciare i temi della giustizia sociale, del clima e delle migrazioni, dando risalto alle pratiche virtuose ed alle soluzioni già riscontrabili in alcune delle comunità che si affacciano sul Mediterraneo.

Il Mediterraneo, afflitto dal crescere dell’intolleranza, da un brusco aggravamento delle tensioni, da guerre e conflitti, sarà una delle aree che maggiormente risentirà degli effetti dei cambiamenti climatici. Ed è per questo motivo che le comunità dell’area, ovvero le organizzazioni della società civile del Mediterraneo e del Sahel, si trovano – e ci troviamo – in prima linea per impedire o ridurre al minimo gli effetti, potenzialmente disastrosi, dei mutamenti climatici.

Da anni molti uomini, donne, bambini, attraversano il Mediterraneo, sperando in una vita migliore, ma spesso trovano la morte, anche per le gravi responsabilità delle istituzioni europee, che continuano a perseguire politiche di chiusura e di esternalizzazione delle frontiere.

Eppure questa drammatica situazione può essere modificata e sono tanti gli esempi che vanno in questa direzione, anche nei Paesi più poveri e in difficoltà: la rivalutazione dei saperi artigiani e industriali; il contrasto alla privatizzazione dei beni comuni; l’affermazione della gestione pubblica e partecipata del ciclo dei rifiuti e del ciclo delle acque; l’agricoltura familiare e di prossimità; i sistemi sociali ed economici locali che privilegiano la crescita auto sostenibile e lo scambio solidale e sussidiario, in opposizione al sistema competitivo neoliberista.

A MARRAKECH, finalmente, temi sino ad oggi trattati come singoli fenomeni saranno affrontati secondo una visione organica: la giustizia climatica, le migrazioni, la gestione delle risorse naturali, la sovranità alimentare, la riconversione ecologica, la sostenibilità energetica, la difesa del territorio, dei diritti umani e sociali, la pace, la cooperazione internazionale.

Senza dimenticare la necessità di lavorare a un grande piano di manutenzione della dimensione democratica, ricostruendo il concetto di partecipazione e ridando ruolo e potere ai «luoghi» reali della vita e della democrazia, rendendo riconoscibile il processo decisionale e di governo.

Il contrario di quello che prevede la riforma della Costituzione italiana promossa dal governo Renzi e sostenuta da tutte le più potenti lobbies economiche e finanziarie.Chi, come e dove si decide è argomento decisivo per il nostro futuro.

Per ridisegnare un nuovo assetto sociale ed economico occorre ricominciare ad «abitare» i luoghi, ripensare i processi decisionali, anche di governo del territorio, restituire la sovranità delle scelte alle comunità piccole e grandi. È necessario tracciare la strada verso un modello economico sostenibile e rispettoso dell’ambiente, dei territori, delle comunità che lo abitano; delineare un’organizzazione sociale basata sulla cooperazione, sul mutualismo e sull’autogestione.

Ed è di questo e di tanto altro che ci occuperemo anche nella tappa italiana dell’«Odissea delle Alternative» che l’Arci ha organizzato insieme alla Coalizione Clima, Rete della Pace, Rete della Conoscenza, Cgil, Legambiente, Unione degli Studenti, Rete degli Studenti Medi, Marevivo, Mani Tese, Fondazione Univerde, Earth Day Italia e con il patrocinio del Comune di Porto Torres. Le imbarcazioni attraccheranno oggi a Porto Torres e la manifestazione avrà inizio a partire dalle 16 nei locali del Museo del Porto.

Alla tavola rotonda sul Mediterraneo che affronterà il tema dei cambiamenti climatici e dei flussi migratori, seguirà un documentario, Mare Chiuso, sui respingimenti in mare; assisteremo ad alcune incursioni teatrali con una colorata Parata Migrante e concluderemo con un aperitivo multietnico e solidale a base di prodotti afro-sardi.

I catamarani, con il loro equipaggio, salperanno in direzione di Biserta, in Tunisia, dopo aver caricato le provviste e organizzato la cambusa. Simbolo di esperienze di resistenza e di resilienza e monito per chi ha in mano le leve del potere a rispettare prima e applicare poi, con serietà, gli impegni assunti nel documento firmato alla Cop21 di Parigi.

Riflessioni sulla fine delle politiche abitative pubbliche, mascherata dalle retoriche e dal sostegno al cosiddetto housing sociale, a partire da un libro sull'edilizia sociale e da una legge della Regione Lombardia. casadellacultura.it, 22 ottobre 2016. (m.b.)

Il libro curato da Saverio Santangelo, Edilizia sociale e urbanistica. La difficile transizione dalla casa all'abitare (Carocci, 2015), prende in esame il tema della nuova questione abitativa, valutando lo stato di salute delle politiche pubbliche degli ultimi anni. Il volume si sviluppa attraverso il contributo di ricercatori e attori diretti, in una prospettiva di inquadramento storico, cercando di mettere in luce, a partire da un'analisi critica delle politiche messe in campo oggi, i nodi teorici e i conseguenti risvolti pratici, anche individuando approcci e strumenti che potrebbero contenere elementi di novità e interesse per la definizione di nuove strategie di intervento. Transizione, come suggerisce il titolo, è la parola chiave: come travaglio del processo di cambiamento in corso della società e della crisi del modello fondato sull'intervento pubblico, caratterizzato da debolezze strutturali e persistenti ma che ha comunque dato risposte importanti con l'edilizia pubblica al bisogno di casa dei ceti popolari, nella più generale crisi del welfare; come opportunità e necessità di definire nuove strategie di intervento integrate in merito alle politiche della casa e all'urbanistica, verso una politica che consideri qualità dell'abitare e del vivere nella città. Attorno a questa tensione si snoda il libro. Tra ciò che si sta realmente compiendo e ciò che si potrebbe ancora modificare e realizzare. Transizione quindi verso dove? E chi sono gli attori che le politiche pensano, promuovono e attuano? Ma anche chi sono i beneficiari e secondo quali priorità vengono ascoltati e inclusi nei processi decisionali. E ancora, questa fase di demolizione e ricostruzione del welfare abitativo è un'opportunità per chi?

Sebbene il libro contenga una pluralità di voci e vengano presentate esperienze locali e sperimentazioni di progetti di rigenerazione urbana e di edilizia sociale analizzate nelle loro criticità, ma anche nei diversi aspetti positivi e di successo, emerge con nettezza un giudizio globale negativo: questa transizione è difficile: "in assenza di un cambiamento complessivo, culturale, politico-istituzionale e sociale - e che in quanto tale richiede tempi lunghi -, sulle questioni qui affrontate non è possibile attendersi risultati significativi" (dall'introduzione del testo).

Il dato di partenza è il dramma della realtà italiana: aumento costante dei tassi di disoccupazione nella prolungata fase di stagnazione economica che stiamo attraversando, contrazione del potere di acquisto delle famiglie, accelerazione dell'aumento della diffusione della povertà nel processo iniziato ormai trent'anni fa di crescita della diseguaglianza economica; crisi del ciclo edilizio travolto dalla crisi economico-finanziaria globale dopo aver comunque lasciato il territorio italiano ricoperto di cemento, un consistente patrimonio immobiliare sfitto, il drastico calo delle compravendite, guadagni e risparmi delle famiglie immobilizzati nella spesa della casa; centinaia di migliaia di famiglie in attesa dell'assegnazione di un alloggio popolare, 150mila famiglie con in corso una procedura di sfratto o esproprio, città in cui diminuisce la qualità dell'abitare, un patrimonio pubblico in progressivo decadimento a causa della mancanza dei piani di manutenzione ordinaria e straordinaria, quartieri popolari sempre più abbandonati dalle istituzioni e ormai ghetti, sganciati dal destino del resto della città.

Il secondo elemento è che, in una situazione così strutturalmente complessa e disastrosa, costante e progressiva è la riduzione dei finanziamenti pubblici. La crisi economica e i conseguenti programmi di austerity richiesti dall'Europa sono andati a sovrapporsi negli ultimi anni a una politica pubblica già caratterizzata fin dai suoi inizi da investimenti per il welfare abitativo che hanno sempre collocato l'Italia tra gli ultimi paesi europei. E come mostrato nella conclusione del libro, l'ultimo intervento nazionale, il Piano Casa Renzi-Lupi, promosso come lo strumento attraverso cui il tema dell'emergenza abitativa ritornava al centro della politica, in realtà mette a disposizione ancora meno risorse, solo lo 0,08% del PIL.

A partire da questi due assunti nel volume viene dato spazio al tema dell'housing sociale, ripercorrendone l'evoluzione normativa, dalla nascita agli inizi degli anni duemila, alla costituzione nel 2009 del Sistema Integrato dei Fondi di Investimento (Sifi), al ruolo che assume con la Legge 80/2014: da misura collaterale introdotta a supporto ed integrazione delle politiche pubbliche già in atto come risposta al fabbisogno abitativo di un ceto medio solvibile ma troppo povero per il mercato privato ad ambito che ha permesso l'entrata sulla scena del welfare abitativo di attori finanziari attraverso i fondi immobiliari, determinando una ridefinizione dell'intervento pubblico volto all'investimento. A causa di un quadro normativo frammentato e approssimativo, della mancanza di una governance forte da parte dell'istituzione pubblica e della mancata integrazione con le politiche urbanistiche, tale strumento ha però fino ad ora disatteso le aspettative a fronte invece di una consistente mobilitazione di risorse pubbliche: la redditività degli interventi per gli investitori privati insieme con gli ingenti costi dell'"apparato" delle società di gestione del risparmio ha infatti privilegiato la nuova costruzione a discapito di progetti di recupero e riqualificazione dell'esistente, con un risultato comunque misero (2500 alloggi, dicono i dati disponibili) in minima parte in locazione e con affitti accessibili. Nel contempo però la partecipazione alla privatizzazione di Cassa Depositi Prestiti ha fruttato alle fondazioni di origine bancaria una rivalutazione superiore al 50% dell'investimento, che nell'ambito del welfare abitativo si sta declinando anche nella gestione dei processi di privatizzazione dei patrimoni immobiliari pubblici e degli enti previdenziali.

Ad allarmare non è solamente l'esiguità dei risultati degli interventi, ma la filosofia sottesa che sta forse a indicare la meta della transizione in corso, se altre strade non verranno scoperte e percorse. Housing sociale è espressione ricorrente in tanta letteratura e retorica istituzionale, il più delle volte accompagnata ad altre espressioni, quali opportunità, coesione sociale, accompagnamento, ibridazione pubblico-privato, innovazione. Una narrazione che ci spinge a credere che i diversi attori, pubblici e privati, possano concorrere al benessere collettivo ciascuno "guadagnandoci" qualcosa. In questo quadro però a essere ridefinito e ridimensionato è il ruolo del Pubblico, ridotto a mero facilitatore: cioè con il compito di rendere l'investimento sostenibile economicamente per il soggetto finanziario, che in cambio si adopererà per il benessere della società. A essere sacrificato sembra essere il diritto a un abitare dignitoso e sostenibile economicamente delle famiglie senza casa, sotto sfratto, costrette in alloggi spesso antigienici e non idonei e delle migliaia di inquilini che abitano nei caseggiati dei quartieri popolari abbandonati al degrado. Si dice infatti che il sistema dei fondi di investimento e dell'housing sociale non siano una risposta alla questione abitativa e non potranno sostituire l'edilizia popolare. Si sente dire meno però che le politiche promosse contravvengono a questa constatazione, valorizzando l'intervento privato e creando le condizioni normative ed economiche per una sua maggiore diffusione e per un suo più stabile radicamento.

La logica di finanziarizzazione del welfare e di riduzione dell'intervento pubblico a facilitatore dell'investimento privato si può ritrovare anche in alcuni interventi strategici dei diversi livelli istituzioni. Ne è esempio la costituzione da parte del Comune di Milano dell'Agenzia sociale per la locazione, oggetto di un'energica campagna di marketing, ma che ad oggi non ha dato alcun risultato concreto sia nella gestione delle situazioni di morosità incolpevole, secondo quanto previsto dalla Legge 80, che nella stipula di contratti a canone concordato (i dati infatti non vengono pubblicizzati né dal Comune né dall'Agenzia stessa). La retorica è simile a quella promossa dalle politiche rivolte a sostenere i fondi mobiliari: cercare di alleviare il disagio di quella fascia di popolazione che non può accedere all'edilizia popolare (ma per cui i canoni liberi da mercato incidono troppo sul bilancio famigliare) in modo da arginare i processi di impoverimento; agevolare l'incontro della domanda e dell'offerta facendo comprendere a entrambe le parti quanto sia conveniente stipulare un contratto a canone concordato. Secondo questa stessa motivazione il Comune di Milano ha ottenuto che venisse rivisto al rialzo il nuovo accordo locale sugli affitti, sebbene non sia stato sottoscritto dalle organizzazione sindacali più rappresentative in città. Un'opportunità, quindi, più che per gli inquilini, per le grosse proprietà immobiliari che ritoccando di poco gli affitti già percepiti potranno beneficiare di consistenti agevolazioni fiscali.

Eppure siamo di fronte a una realtà drammatica che solo a Milano riguarda 30mila famiglie su cui pende una procedura di sfratto o esproprio, 14mila famiglie con l'ufficiale giudiziario alla porta e 25mila famiglie in attesa di un alloggio popolare. Abbiamo anche a disposizione studi approfonditi e seri che mostrano come esista un profondo divario tra reale domanda per capacità economica dei nuclei famigliari e l'offerta di alloggi. Citiamo a titolo di esempio la ricerca condotta nel 2012 dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, "Offerta e fabbisogno di abitazioni al 2018 in Lombardia" (responsabile prof. Antonello Boatti), che dimostra come in Lombardia "il 73,97% del fabbisogno complessivo stimato al 2018, sulla base dell'analisi dei redditi, [sia] ascrivibile necessariamente a nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica, il 26,03% del medesimo fabbisogno [sia] invece ascrivibile alla domanda di edilizia residenziale sociale. Infine il surplus di edilizia residenziale libera stimato [ammonti] a 808.656 vani, pari a 367.656 abitazioni". Colpisce dunque come, in generale, ad avere il sopravvento sia una narrazione pacificata della realtà, secondo cui sarebbe sufficiente far convergere i diversi interessi in campo, mentre pare impossibile aprire anche solo una discussione sulla possibilità che il Pubblico possa riconquistare un ruolo più determinante sul mercato, attraverso gli strumenti fiscali, urbanistici e normativi che ha a disposizione.

Un secondo esempio di come le politiche di valorizzazione immobiliari si stiano qualificando come operazioni di privatizzazione e sottrazione di patrimonio pubblico alle sue finalità sociali è dato dal caso di alcuni stabili del quartiere Mazzini a Milano. Dopo essere stati svuotati parzialmente dagli abitanti nell'ambito del progetto di riqualificazione Contratto di Quartiere II iniziato nel 2004 ed essere stati lasciati privi degli interventi di manutenzione ordinaria, con un'accelerazione dei processi di degrado, a seguito del dissesto finanziario di ALER e la mancanza dei fondi, la cabina di regia del progetto ha deciso di cancellare gli interventi non iniziati. E nonostante le famiglie rimaste negli stabili, costrette a subire un abitare non dignitoso in un contesto di abbandono, si siano comunque impegnate insieme con i loro rappresentanti sindacali a trovare soluzioni, Regione Lombardia ha accolto la proposta di Investire sgr e ha trasferito la piena proprietà di alcuni immobili a un comparto del Fondo Immobiliare di Lombardia già esistente. Case finanziate e costruite come edilizia pubblica verranno così trasformate in edilizia privata/convenzionata, senza nessuna informazione e coinvolgimento degli abitanti presenti e dei loro rappresentanti e senza alcuna garanzia.

Ritroviamo in una forma più sistematica questi stessi principi nel nuovo Testo di Riforma dell'edilizia popolare e sociale, approvato dal Consiglio Regionale della Lombardia a giugno e che ha come titolo "Disciplina regionale dei servizi abitativi", tema che meriterebbe uno studio e un approfondimento specifico, soprattutto in relazione al processo di fallimento economico di Aler Milano, nel quadro del ventennio di governo Formigoni. Il Testo è stato approvato nel quasi totale disinteresse dei mezzi di informazione e della collettività e con la sola opposizione delle organizzazione sindacali degli inquilini, di alcuni comitati e movimenti per la casa che, purtroppo, non sono riusciti a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza del tema.

Il progetto, con lo scopo dichiarato di voler risolvere la strutturale mancanza di finanziamenti per le politiche della casa e dei quartieri pubblici, a partire dai principi della "sostenibilità economica" del sistema e del "mix sociale", va a ridefinire la funzione dell'edilizia pubblica, stravolgendone il senso e costruendo un modello che esclude i ceti più poveri, colpevolizzandoli e costringendoli in un sistema che ha sempre meno a che fare con i diritti e sempre più con uno stato sociale residuale e caritatevole, delegato al privato sociale. In breve, le misure principali previste dalla normativa sono: l'ingresso dei privati nella gestione degli immobili attraverso il sistema dell'accreditamento; un limite all'accesso delle famiglie indigenti che potranno avere una casa solo ed esclusivamente tramite la presa in carico dai servizi sociali; il consolidamento dei piani di alienazione del patrimonio; la promozione di programmi di valorizzazione; l'assegnazione degli alloggi svincolata da graduatorie di bisogno e subordinata all'offerta degli alloggi effettivamente disponibili; l'affidamento al Terzo Settore della gestione di alloggi da trasformare in "servizi abitativi transitori" rivolti a famiglie in emergenza abitativa e sotto sfratto; l'erogazione di contributi economici a carattere temporaneo con contestuale attivazione di programmi di recupero dell'autonomia economica e sociale rivolti agli inquilini riconosciuti "morosi incolpevoli"; misure di allontanamento per gli inquilini riconosciuti "morosi colpevoli" e occupanti senza titolo. In prospettiva ciò significa che 1/3 del patrimonio di case popolari attuali potrebbe cambiare la sua destinazione ed essere venduto e "spostato" in un sistema più sostenibile e redditizio per gli enti gestori, a canone moderato o convenzionato o in patto a futura vendita o dirottato ai servizi transitori, tradendo la funzione sociale per cui l'edilizia pubblica è stata realizzata e cioè dare una casa dignitosa ai ceti popolari.

L'equilibrio finanziario del sistema sembra quindi essere trovato attraverso il "cambiamento dell'inquilinato": escludere le famiglie più povere per sostituirle con famiglie con capacità economiche più certe. In questo modo l'istituzione pubblica si sgrava di una parte del compito di dover garantire il diritto di tutti a una casa a un costo economicamente giusto e in secondo luogo si sottrae a qualunque possibile discussione sul giusto costo della casa popolare e sociale, sia per quanto riguarda il canone che le spese, anche in relazione alla qualità dei servizi e ai costi di gestione e sulle connessioni con l'urbanistica.

Discutibile è infine la retorica sulla colpevolezza/incolpevolezza della morosità, che stigmatizza la condizione di povertà, riducendola alla sola responsabilità dei singoli, e mette in risalto la distanza tra coloro che hanno steso la legge e i cittadini a cui la legge è rivolta. Cittadini che con sofferenza, ogni giorno, si scontrano con la precarietà del mondo del lavoro e la frammentazione del sistema sociale, subendo così una progressiva riduzione del proprio orizzonte di cambiamento e di mobilità sociale, senza trovare ancora un'autonoma capacità di espressione. In conclusione, una riforma ideologica, che non sembra essere all'altezza della realtà e che andrà ad aggravare l'emergenza abitativa di questi anni.

«Festa della neolingua. A Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne, campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa al servizio del Mercato». il manifesto, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità, comunità o di mercato, marchio, prodotto?

L’esame del contesto moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli Esteri.

Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.

Ma a togliere ogni dubbio era l’apparato non verbale della manifestazione, in Palazzo Vecchio.

Nell’adiacente piazzale degli Uffizi erano infatti esposte due scintillanti auto di lusso: all’incredulità e all’indignazione dei passanti, esterrefatti dalla riduzione a show room dello spazio pubblico monumentale, l’ineffabile assessore (all’Istruzione!) Cristina Giachi replicava che «allo sponsor qualcosa si deve pur concedere». Già, perché un evento cui intervenivano il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e vari ministri aveva in effetti uno sponsor ufficiale: la Maserati.

Non so quanti precedenti abbia una simile scelta, che riduce i vertici della Repubblica a testimonial di un marchio commerciale.

Particolare grottesco, le due auto erano collocate in corrispondenza delle statue di due padri della lingua italiana (cito dal sito della casa automobilistica): «La Maserati Quattroporte esposta a Firenze da questa mattina è di colore bianco ed è situata esattamente sotto la statua di Francesco Petrarca, mentre Alfa Romeo Giulia Quadrifoglio con motore 2.9 litri V6 da 510 cavalli di colore rosso si trova sotto la statua di Giovanni Boccaccio. Questa iniziativa rappresenta uno dei numerosi modi trovati negli ultimi tempi dal gruppo italo americano del numero uno Sergio Marchionne per promuovere la propria gamma di prodotti».

Affidare la bandiera dell’italianità ad un gruppo il cui quartier generale e il cui domicilio fiscale hanno lasciato il Paese e il cui amministratore delegato risiede in Svizzera è esattamente come esporre la strategia di difesa della lingua italiana usando l’espressione inglese «made in Italy»: una ipocrisia grottesca che comunica esattamente il contrario di quanto afferma.

Decisamente più sincera la ministra Giannini. Ad un giornalista che le chiedeva (mesi fa) quale fosse il principale problema della scuola italiana, rispondeva candidamente che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana». Sono parole perfettamente assonanti a quelle dell’introduzione alla riforma su cui voteremo il 4 dicembre: si cambia la Costituzione «per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale».

La lingua italiana serve al mercato, la scuola serve al mercato, la Costituzione serve al mercato, i vertici della Repubblica servono al mercato: le berline di lusso sotto le statue di Petrarca e Boccaccio agli Uffizi sono il simbolo più eloquente di questa incondiziata servitù.

Abituarsi a leggere, a decostruire, a interpretare questo codice simbolico di potere e supremazia significa – per usare le parole di Marc Bloch – preparare «un antidoto alle tossine della propaganda e della menzogna».

Un simile antidoto può giovarci quotidianamente, come può chiarire un esempio preso dall’attualità più stretta. La trasmissione della serie su “The Young Pope” di Paolo Sorrentino aprirà, inevitabilmente, dibattiti e riflessioni sulle reazioni vaticane: ma l’unica reazione incontrovertibile del Vaticano è da qualche giorno sotto gli occhi di tutti, nel centro di Roma.

Qua il bramantesco Palazzo della Cancelleria è coperto da giganteschi cartelloni pubblicitari della serie, con un Jude Law in abiti papali alto venti metri: ebbene, quel palazzo non è solo un apice del Rinascimento, ma è anche una proprietà extraterritoriale del Vaticano. Così il pensiero unico del marketing impone la sua pace in nome dell’unico dio, il Mercato.

Chi dissente non è nemmeno sentito come un nemico, ma come un eccentrico, quasi un demente: un’ondata di gelida incomprensione ha investito la vedova di Lucio Battisti che si oppone al fatto che le canzoni del marito possano essere usate in spot commerciali. Chi l’avrebbe mai detto che “Il mio canto libero” sarebbe diventato l’inno dell’ultima resistenza al dominio del marketing?

Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2016 (p.d.)

Teano è celebre per essere il luogo dell’incontro tra Giuseppe Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II il 26 ottobre 1860. Sempre a Teano ben prima, nel II secolo a.C., fu realizzato quello che ora è “il più antico edificio da spettacolo interamente costruito su volte”, come si legge sul sito ufficiale della Soprintendenza per i Beni culturali delle province di Caserta e Benevento, ma oggi versa in grave stato di abbandono e da tempo è chiuso al pubblico. Assurdo, perché il Teatro di Teano è un vero gioiello, “faceva parte – spiega la Soprintendenza – di un complesso architettonico costituito da una grande terrazza artificiale che normalizza l’altura retrostante il teatro sulla quale sorgeva un tempio, che secondo dati epigrafici, sembra fosse dedicato ad Apollo. La decorazione del teatro fu rinnovata durante il regno di Augusto, probabilmente in connessione con l’elezione di Teanum Sidicinum a colonia romana. Agli inizi del III sec. d.C. il teatro fu completamente rinnovato per volere imperiale, su impulso di Settimio Severo, e fu completato da Gordiano III assumendo forme grandiose”.
Il complesso archeologico di Teano è proprietà dello Stato e gestito dal Polo museale della Regione Campania. Italia Nostra ha appena stilato l’impietosa nuova “lista rossa” dei beni culturali che corrono il rischio di essere seriamente compromessi e di scomparire sotto i colpi dell’incuria di Stato. Tra questi c’è, appunto, proprio il sito di Teano: “La mancanza di fondi da parte della Regione Campania e le mancate rimesse del governo ne stanno determinando il tragico declino. Nessuna manutenzione ordinaria al monumento, tanto da obbligarne la chiusura al pubblico”. Il presidente di Italia Nostra, Marco Parini, spiega: “Il complesso di Teano necessita di un progetto di restauro e di consolidamento delle cime murarie fuori terra. Con la lista rossa Italia Nostra prosegue l’impegno per salvare monumenti, per nulla minori, identitari della nostra cultura, che cadono nell’oblio”. L’associazione segnala altri quaranta luoghi del Bel Paese in pericolo mortale, che si aggiungono alla prima lista rossa inaugurata nel 2012, e lancia l’App lista rossa che permetterà di ricevere segnalazioni dei cittadini su altri siti in stato di abbandono.

Quello di Italia Nostra è un viaggio alla scoperta di sfregi al bello. Un altro esempio è nel parco di Villa Ada a Roma: le Scuderie Reali in completo stato di abbandono. C’era un piano di restauro con aree per eventi, bar e ristoranti ma la giunta Alemanno considerò il costo eccessivo e chiuse tutto in cassetti che nessuno ha più riaperto.

Proseguiamo questo particolare giro d’Italia in Sardegna: Sinis Cabras, provincia di Oristano, lungo la costa sorgono torri difensive dal grande valore storico-architettonico, come la Torre di Columbargia (fine 1500) e la Torre di Ischia Ruja (1580). Purtroppo rischiano di crollare da un momento all’altro: interventi di consolidamento sono urgentissimi.

Ritorniamo nel Lazio, alla scoperta di un luogo, il Borgo di Fogliano, in provincia di Latina, dove sono stati girati i film della saga di Sandokan. È un antico villaggio di pescatori, con ritrovamenti archeologici risalenti al II sec. a.C., ma “purtroppo l’imponente giardino è in totale stato di degrado e oggi non è neppure chiaro quale ente debba emanare un bando per la gestione del Borgo”, denuncia ancora Italia Nostra.

Le cose non vanno meglio in Veneto: “L’Arsenale di Venezia ha anticipato di alcuni secoli il moderno concetto di fabbrica”. Costruito nel XII secolo è adesso minacciato dal Mose, la mega opera che dovrebbe difendere la Laguna dall’acqua alta. “È confermata – spiega Parini – la manutenzione delle paratoie del Mose dentro l’Arsenale: questo significa costruire capannoni industriali e un mega depuratore (perché le paratoie sono molto inquinate) e costruire i capannoni stessi in Arsenale nord, a ridosso dei tre Bacini di Carneggio storici in pietra d’Istria, che non hanno eguali in tutto il Mediterraneo e sono perfettamente funzionanti. Così i bacini non potranno esser più utilizzati e l’Arsenale, dopo secoli di attività, cesserà le sue funzioni e sarà deturpato come già avvenuto all’esterno con le orribili mega banchine in cemento armato con guardrail. Abbiamo individuato un’area di rimessa a Marghera per costruire questi capannoni, spero che vorranno ascoltarci”.

Sempre in Veneto a rischio anche il Forte Sant’Andrea (Venezia, XVI secolo) e la dimora estiva della regina Margherita di Savoia, Villa Tonello (Recoaro Terme, XIX secolo). Il tragico elenco continua in Puglia con il Castello di Villanova (Ostuni, XIV secolo), completamente dimenticato: non è accessibile al pubblico. E la “lista rossa”, purtroppo, non finisce qui.

Si può formulare una rigorosa proposta di legge per mettere fine al consumo di suolo, in alternativa a quella, più dannosa che utile, attualmente all'esame del Senato? Il Forum Salviamo il Paesaggio ritiene di sì e ha promosso l'elaborazione di un testo da sottoporre ad un'ampia consultazione. Con postilla (m.b.)

La Rete delle oltre 1.000 organizzazioni che compongono il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio (più noto come "Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, difendiamo i Territori") ha avviato oggi l'attività di elaborazione di una propria Proposta di Legge per l'"Arresto del consumo di suolo in Italia".

Tale iniziativa intende portare a compimento un percorso iniziato nell'ottobre del 2011 all'atto della costituzione del Forum stesso e interrotto successivamente in attesa del completamento dell'azione normativa del Parlamento in materia di consumo del suolo agricolo, avviata nel 2012 dal Consiglio dei Ministri del Governo Monti allora in carica, su proposta del ministro Catania, e attualmente giunta in discussione al Senato, dopo molteplici revisioni che il Forum giudica un utile primo passo, ma insufficiente per intervenire con efficacia su quella che deve, invece, essere considerata una assoluta emergenza cui porre rimedio.

Per tale motivo, nei giorni scorsi è stato composto un apposito Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico multidisciplinare, che conta al momento 70 persone: architetti, urbanisti, docenti universitari, ricercatori, pedologi, geologi, agricoltori, agronomi, tecnici ambientali, giuristi, avvocati, giornalisti/divulgatori, psicanalisti, tecnici di primarie associazioni nazionali, sindacalisti, paesaggisti, biologi ecc.

Tra essi, alcuni dei principali esperti nazionali in materia quali Anna Marson, Luca Mercalli, Paolo Pileri, Fabio Terribile, Michele Munafò, Paola Bonora, Paolo Berdini, Luisa Calimani, Giorgio Ferraresi, Tiziano Tempesta, il Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena, il segretario nazionale della Fillea/Cgil Salvatore Lo Balbo, il primo Sindaco a "crescita zero urbanistica" Domenico Finiguerra, tecnici di primarie associazioni nazionali.
Il Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico, coordinato da Alessandro Mortarino e Federico Sandrone, si è dato 6 settimane di tempo per definire un testo condiviso da tutti i suoi componenti, da sottoporre successivamente all'analisi e all'approvazione delle migliaia di aderenti - individuali e associazioni - al Forum, in modo da poter consentire la sua "validazione" da un gruppo di giuristi tra la fine dell'anno corrente e i primi giorni del 2017.

L'avvio odierno dei lavori è stato accompagnato da una prima bozza di testo normativo, che verrà ora "emendato" da tutti gli esperti e progressivamente arricchito per offrire alle forze politiche, sociali e economiche e a tutto il Parlamento uno strumento in grado di orientare concretamente il comparto edile verso la grande sfida del recupero e riuso di quell'enorme stock di abitazioni vuote, sfitte, non utilizzate esistente nel nostro Paese: circa 7 milioni di opportunità di lavoro che attendono solo un segnale forte di cambiamento.

postilla
Condividiamo le finalità dell'iniziativa del Forum Salviamo il Paesaggio: ci siamo impegnati con continuità fin dal 2005 per informare sulle conseguenze del consumo di suolo e ribadire la necessità di arrestare, in modo definitivo, l'espansione urbana (qui una visita guidata agli articoli pubblicati sul sito). Ribadiamo l'auspicio che l'attuale disegno di legge sia accantonato, per le molte ragioni che abbiamo più volte illustrato. Riteniamo che si debba procedere su basi del tutto differenti. eddyburg, a questo proposito, ha formulato nel 2013 una proposta di legge basata sul riconoscimento della salvaguardia del territorio non urbanizzato come parte della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di competenza esclusiva dello Stato, che richiamiamo come contributo al lavoro avviato dal Forum.

ILa Repubblica, 19 ottobre 2016

Esistono ragioni dell’individuo non appellabili: se si vuole rischiare la vita lanciandosi da un cocuzzolo con una tuta alare si ha il diritto di farlo (ne sono morti tanti anche salendo, sulle Alpi, e nessuno si è sognato di vietare l’alpinismo). Ma dalla bella inchiesta di Giampaolo Visetti sui jumper estremi emerge qualcosa di diverso e nuovo rispetto alle tante tradizionali maniere di rischiare la pelle per provare un’emozione forte.

Questo qualcosa di diverso e nuovo è riassunto alla perfezione da queste parole del jumper Di Palma: «Se non ci fossero i social, il 90 per cento di noi farebbe altro». Ovvero: ci si lancia solo a patto che questa esperienza estrema (e solitaria) possa avere un pubblico. Solo se la webcam è accesa. Qualcuno poi compone le spoglie e recupera la webcam. Le morti in diretta dei jumper (37 solo quest’anno) hanno milioni di visualizzazioni; lo sanno bene gli inserzionisti pubblicitari. Ma il cinismo pubblicitario non è certo una novità, mister Barnum lo conosceva bene già nell’Ottocento; e neppure l’eccitato voyeurismo di noi pubblico lo è.
La novità è la perdita di senso dell’esperienza individuale (che fu il vero scopo dell’alpinismo classico) al di fuori della sua condivisione pubblica. O tutti vedono quello che sto facendo, o è come se non lo facessi. La chiamerei: dittatura degli altri, o allocrazia. Il supremo lusso futuro in tema di libertà sarà fare qualcosa solo per se stessi, badando bene che nessuno lo sappia.

«Nel testo di Ilaria Agostini Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana la proposta ecologista mira alla costruzione di società nelle quali il valore di scambio cede il passo al valore d'uso, la competizione alla convivialità, la carenza al dono».casadellacultura-cittàbenecomune, 14 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il testo di Ilaria Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana (Ediesse, Roma, 2015) è un esempio assai significativo di una critica ecologica svolta contro-tempo, nel senso che intende compiere un'operazione ai limiti dell'impossibile, vale a dire tenere assieme più analisi dei nostri variegati modi di percepire, di vivere il presente, puntando ancora sulla centralità della dimensione della spazialità, del nostro habitat complessivo, quello che contiene storie molteplici, alcune ormai consumate, altre ricche di potenzialità di ulteriore e differente articolazione.

Il presupposto del testo è costituito dal resoconto di un'esperienza culturale fiorentina, quella della "Fierucola del pane" (primo mercato biologico in Italia e vero e proprio «ambiente ecologista radicale») che a partire dal 1984 rappresenta la conferma di come sia possibile un'alleanza "felice" tra una singolare pratica di agricoltura "contadina" e il territorio urbano.

Questo anche in vista di una riscoperta, da parte della città, del suo legame essenziale con la dimensione agroalimentare, con una ciclicità naturale tradotta in termini virtuosamente "verdi" sotto veste di "ruralizzazione ecologica", non dissipatrice di territorio, che riabbraccia così proficuamente le esperienze di vita dei cittadini sintonizzate di nuovo con i cicli naturali.

Agostini volge il suo sguardo di ricercatrice attenta proprio a quell'esercizio di un "diritto alla campagna" che articolandosi in forme di esperienze rurali microterritoriali e nella coalizione dei "neorurali" può favorire un processo di rifondazione dell'urbano, un ripensamento approfondito di ciò che risulta essenziale nella delineazione di progetti e pianificazioni riferiti all'ambito socio-territoriale.

Certamente tale "diritto alla campagna" è stato fin dall'inizio, dagli anni '80, pensato come "diritto di cittadinanza", quindi con risvolti nettamente etico-politici, laddove in esso si sono condensate esigenze/urgenze di nuove modalità di vita, soprattutto contraddistinte da una critica di fondo all'idea di una produzione "illimitata", di una qualificazione delle attività soltanto nella forma del lavoro-merce.

Ciò è rilevato nella "premessa" al testo di Vandana Shiva, nella quale si sottolinea l'importanza di cambiare quel paradigma economico, quello dell'economia "lineare", che di fatto ha svuotato la campagna anche e soprattutto attraverso le dinamiche specifiche dell'agricoltura industriale.

Al suo posto va tentata la concretizzazione di un'economia "circolare", non "estrattiva" e capace anche di decisiva "restituzione", a partire dalla consapevolezza che "il suolo è vivo" e che la sua cura (per la salute complessiva del pianeta e quindi anche "nostra") individua il lavoro più essenziale che sia possibile svolgere dai contadini.

Da qui deriva appunto l'invito, raccolto precocemente dall'esperienza della "Fierucola del pane" (descritta anche nell'appendice - "Voci della Fierucola" - di Laura Montanari), dal suo "collettivo" di contadini e cittadini, a "liberare" l'agricoltura dalla presa asfissiante della industrializzazione "data" e della "urbanizzazione" che si vuole senza storia, cioè senza memoria, favorendo così una fertilità dei suoli collegata con la cura della salute umana, reale risposta progressiva e non-violenta «ai soprusi della globalizzazione, dell'omogeneizzazione e delle monoculture» (p.13).

Agostini delinea tale "utopia concreta" impiegando una batteria di studiosi che fanno da referenti preziosi per la costruzione di un simile ambiente "culturale": le lezioni di Ivan Illich, Gandhi, Lanza del Vasto, William Morris, Lewis Mumford, tra gli altri, sono finemente recepite e messe in proficua relazione con altri percorsi di ricerca, che vedono molti protagonisti, alcuni dei quali ancora oggi attivi e impegnati sulle strade di un tentativo quanto mai necessario di rinascita complessiva della sensibilità critica di ordine pratico e teorico, si potrebbe quasi dire: "filosofico-operativo".

Nella "Introduzione" al suo testo, l'autrice scrive in maniera assai efficace, presentando il suo punto di vista, raffinato da una esperienza di ricerca che a me ricorda quella - messa a fuoco alcuni decenni fa in un altro ambito di osservazione - della "co-ricerca": «L'ipotesi ecologista radicale, fondata su una critica serrata al mito industriale della crescita senza limiti, aspira al trapasso dall'economia di mercato alla sussistenza, e individua nella comunità locale l'occasione di autopoiesi, di autogoverno, di rigenerazione. Cura e manutenzione capillare del territorio diventano 'alternative possibili' alla politica delle opere pubbliche affette da gigantismo ed eterodirette. La microterritorialità, il villaggio e il modello insediativo policentrico costituiranno l'antidoto alla megalopoli, parassita ecologico divoratore di risorse e inibitore di socialità. La policoltura contadina, all'avanzata della monocoltura industriale. Parafrasando Illich, la proposta ecologista mira alla costruzione di società nelle quali il valore di scambio cede il passo al valore d'uso, la competizione alla convivialità, la carenza al dono» (pp.18-19).

Il rinvio a Illich è dunque esplicito, ma altri rimandi sono presenti nel testo: ricordo quelli a Gorz, Guattari, Langer, Viale, Scandurra (ma molti atri dovrei aggiungerne...), che mi permettono di evidenziare un'altra dominante teorica, per me importante, del testo di Agostini e che riassumerei nei seguenti termini: l'indicazione di un compito fondamentalmente etico-ecologico che vuole svilupparsi nel senso di non lasciare/consegnare il motivo della "produzione" alla sua abituale declinazione sotto veste di sfruttamento economico di ciò che è "naturale" (a livello umano e non-umano).

Proponendo cioè - di tale motivo - una sua "spesa" sul terreno di un riconoscimento della possibilità concreta di cogliere e ri-disegnare luoghi, spazi, costitutivamente "naturalculturali", all'interno dei quali imparare a coltivare pratiche d'azione, di manovra, altri rispetto a quella modalità di storicizzazione dello spazio risultante dalla coniugazione nefasta della valorizzazione capitalista con la predazione/devastazione dell'ambiente.

Abbiamo bisogno di altre storie, rispetto a quella della crescita infinita e del conseguente culto di un invisibile posto come valore proprio di un regime trascendente di verità, e quindi di un'altra geografia, legata alla indispensabile rivalutazione di ciò che si vede, che è presente, che basta a se stesso e che ci stimola così a modulare su di esso i tempi di una esistenza - la nostra - consapevole del proprio essere "minore" ma non per questo meno importante (per riprendere - fuori contesto, ma non troppo... - la riflessione complessiva dei Deleuze-Guattari).

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