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«Mentre proseguono i lavori della conferenza sul clima di Marrakech (Cop22), “le politiche infrastrutturali, energetiche e di gestione dei rifiuti varate da Renzi sono in assoluta contraddizione con gli impegni di riduzione assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi”». Il manifesto, 9 novembre 2016 (m.p.r.)

Il ragazzo si contraddice un giorno sì e l’altro pure. Non mantiene le promesse. Ma questa volta la questione è più seria del solito, perché stiamo parlando degli impegni presi dall’Italia per contrastare il riscaldamento globale. «Quella dei cambiamenti climatici - disse Matteo Renzi al Climate Summit di New York del settembre 2014 - è la sfida del nostro tempo, lo dice la scienza, non c’è tempo da perdere: la politica deve fare la sua parte. I nostri figli attendono che a Parigi l’accordo sia vincolante». Appunto. Sono trascorsi due anni, l’accordo di Parigi (COP21) è entrato in vigore cinque giorni fa e l’Italia è tra quei 60 paesi che formalmente si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 (l’obiettivo nostrano è stato fissato al 33%). Tutto bene? Non proprio.

L’inadeguatezza delle politiche energetiche messe in campo dal governo risulta evidente alla lettura del fitto dossier L’Italia vista da Parigi-Impegni internazionali e politiche nazionali per la lotta ai cambiamenti climatici preparato dall’associazione A Sud e dal Centro Documentazione Conflitti Ambientali (Cdca). La pubblicazione fa il punto della situazione proprio mentre a Marrakech stanno entrando nel vivo i lavori della COP22, la conferenza sul clima dove 170 paesi dovranno dotarsi di regole e strumenti per agire nell’immediato visto che gli anni tra il 2011 e il 2015 sono stati i più caldi mai registrati a livello globale, come documentato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Un dato drammatico che dovrebbe spingere i paesi a fare di più per rispettare l’obiettivo minimo di mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi.

Il dossier, spiega Marica di Pierri, presidente del Cdca e curatrice del rapporto, mette a fuoco alcuni provvedimenti del governo - tra cui il decreto Sblocca Italia, il decreto Spalma Incentivi e il decreto Inceneritori - e sottolinea perché “le politiche infrastrutturali, energetiche e di gestione dei rifiuti varate da Renzi sono in assoluta contraddizione con gli impegni di riduzione assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi”. Un’evidenza che ancora ieri non ha impedito al ministro dell’Ambiente Galletti di affermare che l’Italia “farà di tutto per rendere ancora più ambizioso quell’accordo”. Nient’altro che dichiarazioni di rito a fronte di politiche che moltiplicano gli investimenti per lo sfruttamento delle energie fossili, per le infrastrutture per il trasporto su gomma e per l’incenerimento dei rifiuti.

Lo dice il “calendario” dei principali provvedimenti approvati in Italia nell’ambito della Strategia Energetica Nazionale (Sen) varata dal governo Monti nel 2013. Nel dicembre dello stesso anno il governo Letta autorizza l’erogazione di incentivi per 20 anni per la realizzazione di una centrale nel Sulcis, in Sardegna (secondo uno studio pubblicato a luglio, nel 2013 in Europa le emissioni delle centrali a carbone hanno causato più di 22.900 morti premature, decine di migliaia di casi di malattie e costi sanitari stimati in circa 62 miliardi di euro). Nel cosiddetto decreto “Spalma incentivi”, convertito in legge dal governo Renzi nell’agosto 2014, vengono ridotte le risorse per gli impianti fotovoltaici e i risultati sono evidenti: i nuovi impianti nel 2012 erano 150 mila, l’anno scorso 40 mila.

Non è tutto. Il decreto “Sblocca Italia” – convertito in legge nel settembre 2014 con un voto di fiducia e fortemente avversato da opposizioni e associazioni ambientaliste – di fatto si presenta come la negazione dell’accordo di Parigi. Gli articoli 36, 37 e 38 – si legge nel rapporto – incoraggiano l’attività estrattiva per mezzo della formula di rito che identifica le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale come “operazioni di interesse strategico e di pubblica utilità, urgenti e indifferibili” (è la storia, triste, del referendum sulle trivellazioni dello scorso 17 aprile, con Matteo Renzi che ha tifato per l’astensione). Lo stesso decreto sblocca alcuni cantieri per un valore di 28 miliardi e 866 milioni, soprattutto per opere autostradali e aereoportuali. E ancora. L’articolo 35 sembra un inno alla CO2 e promuove la costruzione di nuovi inceneritori definiti come “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell’ambiente” (un altro decreto, del 10 agosto 2016, poi individua otto aree in cui realizzare inceneritori).

L’elenco dei provvedimenti climalteranti del governo Renzi potrebbe continuare, ma ce n’è abbastanza per dire che l’Italia per essere credibile di fonte alla sfida del riscaldamento globale non può far altro che dotarsi di un nuovo piano energetico. Secondo gli autori del rapporto le soluzioni esistono e l’azione del governo dovrebbe rispettare una regola molto semplice: “Ogni legge o provvedimento che riguardi produzione di energia, infrastrutture, utilizzo dei suoli, trasporto o gestione dei rifiuti deve avere come punto di riferimento gli obiettivi dell’accordo di Parigi, ogni politica che anziché favorire la diminuzione ne produce incremento deve essere abbandonata”. E se la volontà politica manca, come è evidente, dovrebbero essere i cittadini a battersi e a vigilare, anche servendosi di azioni legali. Insomma è un problema di democrazia, e anche in questo caso manca come l’aria (per scaricare il dossier: asud.net e cdca.it).

Un volume decisivo per la comprensione della Laguna di Venezia, costruito da Lidia Fersuoch sulla base di un'mmensa congerie di documenti testuali e cartografici d'archivio è stato presentato recentemente a Venezia. Tra i commentatori Francesco Erbani, che ci ha concesso di pubblicare il testo del suo intervento. In calce il link all'audio dell'affollato evento

Lasciate come prima cosa che denunci l’imbarazzo per la mia scarsa titolarità quale relatore alla presentazione del volume di Lidia Fersuoch. Inadeguatezza nei confronti dell’oggetto, questo poderoso, fondamentale contributo alla storia, alla geografia e direi al presente vivo, un presente così minacciato della Laguna (con la L maiuscola, come ho imparato da Lidia: nomina sunt consequentia rerum). Inadeguatezza, poi, nei confronti degli altri due relatori, Luigi D’Alpaos e Francesco Vallerani, molto più accreditati di me a misurare l’entità scientifica di questo contributo.

Conosco Lidia Fersuoch da tanti anni. Siamo amici. Conosco la sua competenza sulle complesse, fascinose e drammatiche vicende della Laguna. Stimo la sua passione militante. Le volte che mi sono occupato di Laguna come cronista l’ho considerata al pari di una specie di Corte di Cassazione, ritenendola in possesso della parola per me definitiva, quella che consente di orientarsi, di non sbandare, di andare all’essenziale, di fiutare dove stanno le ragioni della Laguna e dove stanno quelle di chi, agli interessi della Laguna, antepone i propri.

Ora, con questo volume, Codex Publicorum. Atlante (edito dall’Istituto veneto di lettere, scienze ed arti) è possibile per me percepire più compiutamente la profondità storica delle competenze spese, insieme a Italia Nostra, nelle battaglie per l’integrità della Laguna, contro le Grandi Navi e i progetti di nuovi canali, contro il Mose. È una quantità di saperi che in questo volume transita dalle discipline umanistiche a quelle idrauliche con sorprendente agilità, per nulla fiaccata dalla mole di documentazione. È come se si completasse un circuito virtuoso fra cultura e politica, un circuito in cui l’una e l’altra si alimentano reciprocamente e che va dalle carte dell’Archivio di Stato alle bocche di porto e dalle bocche di porto torna all’Archivio di Stato.

Questo Atlante restituisce su mappe le misurazioni effettuate dai giudici del piovego, i giudici che dal XIII secolo avevano giurisdizione sulle proprietà pubbliche, erano addetti a redigere una specie di catasto di queste proprietà pubbliche e dunque vigilavano su canali, strade, saline, valli da pesca, barene, ponti, testimoniando attraverso le vicende processuali, i contenziosi, il mutevole assetto lagunare di quello e dei secoli successivi. Svolgevano quei giudici, se non capisco male, una fondamentale funzione di tutela del patrimonio pubblico e dunque in quelle sentenze si potrebbero rintracciare gli antecedente delle denunce, degli esposti, delle battaglie di questi anni.

D’altronde questo è il frutto di un lavoro ventennale, di cui con Lidia qualche volta ci siamo trovati a parlare e i cui presupposti sono in un lavoro che risale al 1995 e che sviluppava la sua tesi di laurea: San Leonardo in Fossa Mala e altre fondazioni medievali lagunari.

All’estremo opposto del volume di cui si parla questa sera, all’estremo opposto come dimensioni, ma non come peso specifico o intensità della riflessione, c’è Confondere la Laguna, 35 essenziali pagine nella coraggiosa, benemerita collana “Occhi aperti su Venezia” della Corte del Fontego di Marina Zanazzo. Lì si legge della “multiforme bellezza” della Laguna, del suo “equilibrio precario tra un orizzonte di mare e uno di terra”, dei “potenti e tortuosi canali che si diramano in venature di sempre minore sezione” a partire dalle tre bocche di porto, delle terre sommerse, i bassifondi, o a pelo d’acqua, le velme, oppure appena rilevate, le barene. Insomma, tutto, tranne che “un semplice e passivo vaso liquido”, tutto, tranne che “un’indistinta distesa d’acque”.

Per molti di noi, non veneziani, per molti di coloro che sono abituati a paesaggi più netti, più rocciosi, a mari profondi, di colore blu cobalto, oppure per chi è incapace di cogliere il dettaglio incerto di un paesaggio, il fascino che genera questa impressione di grigio, è una sorpresa salutare leggere le parole con le quali Lidia descrive il funzionamento delle barene, che proteggono le aree stabilmente emerse, le isole abitate della Laguna, partecipano alla fitodepurazione e sono dotate di una vegetazione capace di catturare i sedimenti sospesi nelle correnti, attuando così un perenne processo di autorigenerazione.

Sono terre, le barene, ma in fondo appartengono di più al mondo dell’acqua: ecco la loro seducente incertezza. Quell’incertezza, quella mutevolezza che induce a percepirle con pazienza, dubbiosi e incerti noi stessi, persino un po’ spaesati, a bandire oltre le osservazioni frettolose, anzi sbrigative, anche atteggiamenti sbrigativi, iniziative che non calcolano le conseguenze.

D’altronde anche questo Atlante del Codex publicorum, che Lidia assimila a un testo medievale, «costituito per gemmazioni successive», riferendosi ai territori della gronda lagunare «da San Martino in Strada a San Leonardo in Fossa Mala», come recita il sottotitolo, tratta di territori incerti e mutevoli, territori ai margini, paesaggi fragili, anfibi, già raccontati nella tesi di laurea e nel volume del ’95. È un paesaggio sfuocato, forse smarrito, che in queste pagine viene come rimesso a fuoco e persino resuscitato, fatto di «fiumi, di laghi, di punte di terra, di vigne». Un’altra Venezia, scrive Lidia Fersuoch, «largamente obliterata e perduta».

Sopravvive comunque e anzi invoca attenzione la trama di un sistema delicato, gli urbanisti lo definirebbero “territorio lento”, che sopporta interventi di salvaguardia, di cuci e scuci (oggi va di moda l’espressione “rammendo”) e che invece è destinato a soccombere se trattato con supponenza scientista, con prepotenza tecnologica. Sono luoghi che – leggo nell’Atlante – interessati dalle sentenze dei giudici «sono animati da vivide presenze, storie, controversie e rivalità», e recano segni di mestieri antichi che, pur inesorabilmente spariti, lasciano nella memoria un deposito di saperi e di metodi che ancora possono servire per orientarsi e non restare sopraffatti di fronte alle imposizioni globali. Hanno dunque bisogno, questi luoghi, di una parola che li descriva, di una rinominazione che restituisca loro vita e freschezza. Le sentenze e l’Atlante ci provano.

A Venezia invece si perdono incessantemente residenti e anche barene: Lidia racconta che nel Seicento una stima estende la superficie totale delle barene a 255 kmq, all’inizio del Novecento si era a 170, nel 2003 si è scesi a 47.

Prima si parlava di incertezza. Incerti, invece, leggendo i volumetti di Lidia, oltre Confondere la Laguna, anche A bocca chiusa, dedicato alle gravi criticità del Mose, e persino Nostro Fontego dei Tedeschi, che non parla di Laguna, ma anche i nuovi templi del lusso, micidiali attrattori turistici gravano sul fragile sistema Venezia-Laguna, e quindi questo poderoso Atlante, incerti, dicevo, non bisogna essere di fronte alla più terribile tragedia che può abbattersi in Laguna, il suo dissesto morfologico, la sua erosione.

Quali danni abbia provocato il Canale dei Petroli, realizzato a metà degli anni Sessanta, lo ha raccontato magistralmente D’Alpaos (il quale, con ragioni assai convincenti, lo ha indicato come responsabile solo parziale dell’alluvione di cinquant’anni fa). Non scenderò nei dettagli, nell’atrofizzazione della venatura di canali dovuta al fatto che la marea, controllata dal nuovo, più profondo e più largo canale, entrando in Laguna corre sulla superficie dei bassifondi e solleva materiali che vengono sospinti in mare aperto. Né mi soffermerò su quel che accade quando passano enormi navi che producono onde le quali anche loro sollevano grandi quantità di materiali dai fondali i quali poi tornano a depositarsi nel Canale dei Petroli o finiscono in mare aperto.

A proposito del passaggio delle navi nel Canale dei Petroli, ricordo il racconto che faceva Lidia (che poi ne parla nel volume del ’95 che citavo prima) delle ricerche dell’archeologo Ernesto Canal, il quale per individuare i resti della chiesa di San Leonardo in Fossa Mala attendeva, appunto, il passaggio di una nave e il risucchio che questo provocava. Poi Lidia ha adottato lo stesso accorgimento per fotografare quei resti prima sommersi e poi emersi.

La Laguna rischia di diventare un cratere: cent'anni fa, calcola D'Alpaos, la profondità media era di 40 centimetri, ora, a causa di un milione di metri cubi di sedimenti che finiscono in mare aperto ogni anno, siamo a un metro e mezzo. E se non si porrà rimedio, fra cinquant'anni si scende a due e mezzo. La Laguna sarà un braccio di mare.

Per me valgono a documentare plasticamente il dissesto che quotidianamente si perpetua da cinquant’anni in Laguna, due immagini: una cartografia della Laguna che restituisce, nella Laguna nord, l’ordito di canali, quasi fosse una forma vegetale che nella ramificazione custodisce l’essenza della propria vita; nella Laguna sud, invece, un azzurro intenso, compatto, una distesa liquida che è l’antitesi della Laguna (la Laguna sud è quella dove c’è il Canale dei Petroli); l’altra immagine è il video che documenta l’onda sollevata dal passaggio di una nave lungo il Canale dei Petroli, un’onda che poi spazza la superficie della Laguna per centinaia e centinaia di metri. Quella cartografia e quel video restano ai miei occhi la prefigurazione di quel che, moltiplicato, potrebbe accadere in Laguna se si scaveranno o si approfondiranno altri canali.

Ci sono altri fattori che alterano la morfologia lagunare. La velocità delle barche a motore e il moto ondoso che provoca. La coltivazione delle vongole. Ma intanto su questo dissesto, oltre che sull’assenza di politiche per regolare e contenere il turismo, sul passaggio in bacino San Marco delle Grandi navi, ha attivato la sua attenzione anche l’Unesco, sollecitato ancora nel 2011, sempre da Lidia Fersuoch e da Italia Nostra, e che nel luglio scorso ha spedito al Comune un voluminoso rapporto, 78 pagine, che si conclude con un ultimatum: se entro il primo febbraio del 2017 non verranno prese misure urgenti, Venezia finirà in una lista nera dell’Unesco, la List of the World Heritage in Danger. Un passaggio che può provocare l’uscita della città e della Laguna dai siti patrimonio dell’umanità (Venezia si era guadagnata il riconoscimento nel 1987).

II riconoscimento Unesco ha un valore culturale e politico, più che giuridico, perché dichiara patrimonio dell’umanità inscindibilmente città e Laguna, raccomandando la tutela di quest’ultima «al pari dei palazzi e delle chiese». E per questo l’organismo dell’Onu guarda con preoccupazione anche lo scavo di altri canali in Laguna per farvi passare le navi tenendole lontane da San Marco: prima il Contorta, più recentemente il Tresse. Secondo molti, un rimedio peggiore del male.

Sul futuro della Laguna nel suo insieme, comprendendo anche Venezia, gravano incertezze e minacce, cinquant’anni dopo quel 4 novembre 1966. Le Grandi navi, lo scavo di nuovi canali, il Mose: sono tre questioni maledettamente legate fra loro. Sembra già sfumato nel tempo il clima d’indignazione seguito all’inchiesta della Procura di Venezia del 2014 che ha rivelato quale gigantesca corruzione avvolgesse il Mose. E quale impressionante mistificazione scientifica, tecnologica e politica abbia oscurato le ragioni della salvaguardia della Laguna, che comprende la salvaguardia di Venezia dall’acqua alta, ma che non si riduce a questa.

Ebbene chi s’immergesse nella lettura dello studio di Lidia Fersuoch, approfondirebbe una storia che si riferisce ai secoli dal XIII in poi, ma ogni tanto solleverà lo sguardo all’oggi e ne ricaverà utilissimi elementi di conoscenza.

Collegamenti.


Qui il link alla registrazione video_ degli interventi, su you tube. Qui il link alla scheda illustrativa dell'opera

«L’11 novembre entra in vigore la legge Madia. La Legge Obiettivo, pur abolita, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia. E la corsa alle grandi opere prosegue». Sbilanciamoci.info, 9 novembre 2016 (p.d.)

Sulle infrastrutture ed insediamenti produttivi arriva il Decreto del Presidente della Repubblica con il Regolamento di semplificazione in attuazione della Legge Madia. E’ il DPR n.194 del 12 settembre 2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27/10/2016 e che entrerà in funzione l’11 novembre 2016.

Quindi come al solito per il superamento della Legge Obiettivo si fa un passo avanti e due indietro come questo DPR basato sulla “semplificazione ed accelerazione di procedimenti amministrativi riguardante rilevanti insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l’avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull’economia o sull’occupazione” si legge all’articolo 1 del testo.

Come dire che non si valuta l’utilità delle opere ed il servizio che poi dovranno rendere ai cittadini. Il provvedimento si potrà applicare sia ad opere pubbliche che private e verranno semplificate ed accelerate anche le procedure preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico e della tutela della salute.

Ogni anno entro il 31 marzo, su proposta del Presidente del Consiglio con relativa deliberazione del Consiglio dei Ministri, è individuata con DPCM la lista degli interventi sentiti i Presidenti delle Regioni interessate dai progetti. I Comuni, le Regioni e le città Metropolitane potranno avanzare progetti da inserire nel DPCM annuale, oltre ad altri progetti individuati dalla Presidenza del Consiglio, anche su segnalazione del soggetto proponente o del Ministro competente.

I criteri di selezione della lista saranno stabiliti da un Decreto da adottare entro 60 giorni con un provvedimento del Governo previa intesa in Conferenza Unificata. Sarà interessante capire quale saranno i criteri per scegliere le opere che hanno effetti positivi sull’occupazione e l’economia e se saranno messe a confronto analisi comparate e soluzioni differenti.

Il DPCM con la lista individua opera per opera i tempi ridotti delle procedure fino al 50% di quelli necessari per “la conclusione dei procedimenti necessari per la localizzazione, progettazione e realizzazione delle opere o degli insediamenti produttivi e l’avvio delle attività”. Se il termine fissato non viene rispettato, il Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del CdM può utilizzare “poteri sostitutivi” per procedere comunque.

Si tenga conto che le procedure ordinarie della Conferenza dei Servizi telematica (modificata di recente da altri decreti Madia) fissa 5 giorni per la convocazione, poi 45 giorni di svolgimento della CdS, che diventano al massimo 90 per gli enti di tutela. Con il DPR di semplificazione n.194 tutto si può dimezzare ed al massimo in 45 giorni si dovrà decidere altrimenti decide il Presidente del Consiglio, indebolendo gli strumenti di tutela.

Difficile credere che in questo modo si decideranno le opere utili, snelle e condivise di cui ha parlato il Ministro Delrio, anche nell’Allegato Infrastrutture al DEF 2016. E che verrà promosso un efficace e credibile processo di partecipazione e dibattimento pubblico sulle opere cosi come indicato dal nuovo Codice appalti (di cui manca per ora il regolamento attuativo). Di fatto questa è una nuova “legge obiettivo” con la lista delle opere e la massima semplificazione decisoria.

Si estende il regime transitorio della vecchia Legge obiettivo

Questa nuova semplificazione si aggiunge alla già complessa situazione della legge obiettivo che pur essendo stata abolita con la Legge 50/2016 nuovo Codice Appalti, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia.

Ricordiamo che andranno avanti secondo le procedure della Legge Obiettivo quelle in corso di realizzazione, quelle già decise dal Cipe e su cui vi sono Obblighi Giuridici Vincolanti, ma anche quelle che hanno avviato l’iter per la Valutazione di Impatto Ambientale. E’ questa è una novità certificata anche dal Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone con la delibera n. 924 del 7 settembre 2016 che ha stabilito che le opere riferite al XI Allegato Infrastrutture al DEF 2013 che abbiamo avviato la VIA dovranno essere concluse con le stesse procedure, ad esclusione delle gare d’affidamento delle opere che dovranno seguire le procedure del nuovo Codice Appalti.

Il risultato è che abbiamo in essere cinque differenti procedimenti per l’approvazione delle opere e tutto questo non ci aiuta certo a diventare un paese normale: la vecchia legge obiettivo per le opere con iter avviato prima del 18/4/2016 (entrata in vigore nuovo codice appalti), le procedure ordinarie per le opere pubbliche (articolo 27 Codice Appalti), quelle speciali per le infrastrutture prioritarie nazionali (articoli 201-202 Codice Appalti). A cui si aggiunge il Commissario Straordinario previsto dal decreto Sblocca Italia con proprio iter semplificato ed infine il recente Regolamento “Madia” 194 di semplificazione che entra in funzione l’11 novembre 2016, con i poteri al Presidente e Consiglio dei Ministri.

Non si tratta di semplici procedure perché se vediamo di quali opere e di quali dimensioni stiamo parlando, risulterà chiaro che siamo davvero lontani a scegliere le opere secondo una strategia di politica dei trasporti, trasparente e misurabile.

Lo stato delle Infrastrutture strategiche

Per capirlo basta utilizzare il 10° Rapporto del Servizio Studi della Camera dei Deputati in collaborazione con l’Autorità Anticorruzione dal titolo “Le Infrastrutture strategiche. Dalla Legge obiettivo alle opere prioritarie” pubblicato a maggio 2016 che fa un punto preciso e ragionato della situazione. (www.silos.infrastrutturestrategiche.it)

Dal 2001 al 2015 sono state inserite nella Legge Obiettivo ben 418 opere con un costo stimato di 362 miliardi. Di queste – quelle che sono state inserite nell’XI allegato infrastrutture DEF 2013 (documento che ha completato l’iter di approvazione con l’intesa con le Regioni ed approvazione Cipe nel 2014) – equivalgono a 278 miliardi di investimenti ed una lista di 190 opere.

Tra questi 278 miliardi di opere in corsa, sono state selezionate dal Ministro Delrio le 25 opere prioritarie (costo stimato 90 miliardi) che costituiscono l’Allegato Infrastrutture 2015 e 2016, che non avendo però perfezionato l’iter di adozione costringe a riferirsi all’XI Allegato ed al suo vasto bacino di opere come regime transitorio della legge obiettivo.

Quindi dei 278 miliardi complessivi risultano esserci un gruppo di 25 opere prioritarie che vale 90 miliardi ed un altro gruppo di 165 opere non prioritarie che vale 188 miliardi. Tra le 25 opere prioritarie ben l’83% è stato deliberato dal Cipe (costo stimato 75 miliardi), tra quelle non prioritarie sono state deliberate dal Cipe il 39% (costo stimato 73 miliardi). Il risultato è che su 278 miliardi di interventi Legge Obiettivo ben 151 miliardi sono gli interventi che hanno avuto un iter presso il Cipe.

E sempre dal 10° Rapporto Camera si legge che lo stato di attuazione della lista dei 278 miliardi è cosi suddivisa: 10% sono le opere completate, in corso di realizzazione il 17%, un altro 8,4 ha un contratto di affidamento, l’1,6% sono aggiudicati ed il 6,7% sono in gara. Oltre il 55% sono le opere ancora in progettazione e procedure di autorizzazione.

Se guardiamo con un focus su quelle con Obbligazioni Giuridicamente Vincolanti (cioè con contratti come le definisce il Codice Appalti) si arriva ad un ammontare di 70,1 miliardi di opere.

Infine non può mancare una analisi delle risorse effettivamente disponibili: su 278 miliardi sono disponibili 140 miliardi ed il resto manca all’appello. Tra i 140 miliardi disponibili, 87 derivano da risorse pubbliche e 52 miliardi da risorse private, in grande parte concessionarie autostradali (che però chiedono sempre aiuti come tariffe, proroghe delle concessioni, valore di subentro, defiscalizzazioni varie, risorse pubbliche per specifiche opere).

Sarà su questi valori e procedure che si dovrà misurare il primo Documento Pluriennale di Programmazione che in Ministro Delrio dovrà presentare entro il 18 aprile 2017 e che avrà il potere anche di selezione reale degli investimenti.

Prosegue la corsa delle grandi opere

Entrando nel merito sulle opere in corso sappiamo che – pur a stadi differenti – sono numerose le grandi opere che proseguono la loro corsa. Tra le 25 opere prioritarie, oltre alle opere utili come le Metropolitane urbane, ci sono i grandi progetti TAV come la Torino-Lione e la Milano Genova, le autostrade Pedemontana Veneta e Pedemontana Lombarda, realizzate al 15%, dai costi ed impatti notevoli, che dovrebbero essere riviste.

Tra le opere non prioritarie e che stanno procedendo ugualmente troviamo il 1° lotto del Tibre Parma Verona, 513 miliardi di lavori della società AutoCisa, di scarsa utilità ma che forse servono alla concessionaria per non vedersi ridotta la proroga della concessione a suo tempo assentita.

Troviamo l’autostrada Campogalliano Sassuolo, che con una delibera Cipe del 1 maggio ha ottenuto un sistema di anticipi ed aiuti fiscali ed è in attesa del via libera della Corte dei Conti. Da notare che l’approvazione è avvenuta dopo l’entrata in vigore del nuovo codice appalti e comunque ai sensi della Legge Obiettivo nonostante non sia nemmeno un’opera prioritaria. Su quest’opera inoltre si intreccia la vicenda della Concessionaria Autobrennero che sta lavorando per diventare una società interamente pubblica e quindi – secondo la nuova direttiva UE concessioni – poter godere del rinnovo della scadenza. Ma se realizza in project financing insieme ai privati la Campogalliano Sassuolo può definirsi una società in house come richiede Bruxelles?

Vi sono opere autostradali come la Gronda di Genova, costo 3,8 miliardi, che Autostrade l’Italia per poter realizzare vorrebbe aumenti tariffari su tutta la rete ed anche una ventilata proroga della concessione di 7 anni dell’intere reta italiana.

C’è il passante autostradale di Bologna, che dopo la bocciatura da parte degli Enti locali del tracciato nord, adesso Autostrade per l’Italia d’intesa con il Comune, punta all’ampliamento in sede dell’attuale fascio autostradale. Tracciato comunque impattante sulle residenze e che aumenta il traffico veicolare in circolazione sull’area metropolitana. E’ in corso un esteso dibattimento pubblico nei quartieri e tra i cittadini per presentare il progetto e raccogliere le osservazioni.

Anche il sistema tangenziale di Lucca sembra essere ripartito dopo che il Cipe il 10 agosto 2016 ne ha finanziato un primo lotto del costo di 84 milioni di euro. Al momento la delibera è in attesa del via libera per essere pubblicata.

Prosegue la sua corsa l’autostrada Roma Latina, approvata dal Cipe nel 2013 e sui cui c’è una forte pressione della regione Lazio per la sua realizzazione. Affidata dopo molte traversie nel luglio 2016, adesso pende il ricorso al TAR della seconda impresa risultata non vincente, che ritiene l’offerta di quella risultata vincente non adeguata alle richieste del bando di gara.

Infine di recente si è riavviato il progetto sull’Autostrada della Maremma, dopo l’intesa tra Regioni, SAT, ASPI e MIT del maggio 2015, che ha stabilito che tra Grosseto e San Pietro in Palazzi a nord non verrà realizzata nessuna autostrada mentre il progetto si concentrerà a sud nel tratto tra Tarquinia e Grosseto. A settembre 2106 la concessionaria SAT ha esposto il nuovo tracciato ai Comuni ed alla Regione Toscana: il tracciato è prevalentemente in sede sull’Aurelia o lungo la ferrovia ma con diverse varianti importanti come ad Albinia e Fonteblanda. Inoltre il sistema è con barriere di esazione e pochi svincoli liberi: quindi i residenti e la viabilità locale si vedranno sottrarre una strada gratuita (per quanto da ammodernare) senza poter utilizzare liberamente la nuova infrastruttura a pedaggio. Nei prossimi mesi il progetto sarà ripubblicato in procedura di VIA e c’è da augurarsi che almeno in questo caso si utilizzeranno le nuove procedure del Codice appalti superando davvero la Legge Obiettivo.

Da questa breve sintesi sulle opere in corsa ben si comprende come la Legge obiettivo stia decisamente avanzando. E solo in pochi casi il MIT sta procedendo con la project review: l’adeguamento della E45-E55 invece dell’autostrada Orte Mestre, la Napoli Bari ad Alta Capacità, la Salerno Reggio Calabria (tratto finale) e la Statale Ionica 106, il nodo di Vicenza AV. Anche il tratto italiano della Torino Lione AV sarebbe soggetto a questa revisione ma non si comprende come si possa conciliare comunque il tunnel di base da scavare con l’uso della ferrovia esistente, che nel tratto italiano è utilizzata anche per il trasporto pendolari: servirebbe una revisione dell’intero progetto TAV e non solo del tratto Italiano.

Revisione del progetti, DPP ed aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti

Nel nuovo codice appalti per fare le scelte sulle opere “utili snelle e condivise” si punta alla revisione dei progetti in corsa – cercando di ridurne l’impatto ed i costi – e sulla predisposizione entro il 18 aprile 2017 del Documento Pluriennale di Programmazione degli investimenti, che promette di fare ordine e di scegliere davvero le priorità. E’ poi previsto l’aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica per la fine del 2017, come documento strategico di riferimento per le politiche e le scelte.

Ma come abbiamo dimostrato – tra estensione del regime transitorio della vecchia legge obiettivo e nuove semplificazioni ai sensi della Legge Madia – il rischio concreto è che la buona pianificazione arrivi davvero troppo tardi.

Se poi oltre alle opere in corsa, aggiungiamo il Ponte sullo Stretto di Messina, che il Presidente del Consiglio ha rilanciato solo due mesi fa come opera strategica per il Paese, c’è davvero il rischio di veder “cambiare tutto per non cambiare nulla” sulle grandi opere.

«Venezia è città complessa, policentrica, che si articola su almeno tre livelli: il centro storico, la terraferma e le isole. Bene hanno fatto le autrici di questa guida a inserire nella guida capitoli dedicati a tutti questi luoghi». Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2016 (m.p.r.)

“Venezia è ribelle già per sua natura: sfida il delicatissimo equilibrio tra terra e acqua, sorge su pali di legno piantati nella laguna, cresce ricca di edifici, chiese, palazzi e strade mettendo in discussione le leggi della fisica, sopravvive grazie a un continuo passo a due tra l’uomo e l’ambiente circostante”: con queste parole le due autrici Beatrice Barzaghi e Maria Fiano presentano la Guida alla Venezia ribelle, che vuole essere un manuale per un turismo alternativo, capace di proporre percorsi certo insoliti e forse lontani dalle consuete mete stereotipate, eppure per questo quanto più autentiche. Pubblicato dall’apprezzabile Voland, casa editrice che ha già dato alle stampe le «guide ribelli» a Roma, Parigi, Barcellona, il libro propone per ogni tappa consigli su canzoni, film, libri che permettano di approfondire gli argomenti trattati.

La guida ci invita a seguire itinerari, per l’appunto, ribelli, che raccontano di una città da sempre allergica alle imposizioni, capace di essere un punto di riferimento per la libertà di stampa nell’epoca della Controriforma, protagonista nel Risorgimento e durante la Resistenza antifascista, fino alle lotte operaie degli anni ’70 e alle rivendicazioni per il diritto alla casa negli ultimi decenni. E tutto questo è in contrasto con la visione di una Venezia in irreversibile decadenza, al massimo meta per i turisti delle Grandi Navi o di ricchi proprietari di seconde case.

Venezia è città complessa, policentrica, che si articola su almeno tre livelli: il centro storico, la terraferma (con Mestre e il complesso industriale di Marghera, che ha meno di cent’anni) e le isole. Bene hanno fatto le autrici a inserire nella guida capitoli dedicati a tutti questi luoghi, considerando giustamente Venezia come un tutt’uno multiforme in comunicazione ininterrotta (anche se la consapevolezza di questa unicità è cosa recente).

E se a Rialto la farmacia Morelli ospita in vetrina un contatore che indica come in un countdown il numero dei residenti del centro storico, in continuo calo e da molto sotto i 60mila, l’isola di Poveglia ha visto partecipare sostenitori da tutto il mondo alla raccolta fondi per il riacquisto dell’isola dal demanio, perché rimanesse un luogo accessibile a tutti, in un lavoro di recupero ambientale che ricorda, ad esempio, quello analogo portato avanti negli anni ’80 per rendere di nuovo agibile l’isola della Certosa.

Sono molte infatti le forme di resistenza, anche creativa, allo spopolamento ed alla svendita di edifici e di spazi preziosi per la collettività. Che danno vita a esperimenti civici, a nuove forme di condivisione, in un posto in cui è difficile costruire da zero e dove anche la vita dei luoghi si rinnova, e così le forme dell’abitare e di vivere la città. Città che diventa humus fertile per personaggi irregolari, geniali, spesso innovatori nei propri campi d’azione. Come l’artista Emilio Vedova, il compositore Luigi Nono o i coniugi Basaglia, che hanno rivoluzionato l’approccio alla psichiatria. E soprattutto, come sottolinea la storica Maria Teresa Sega nell’introduzione, “Venezia città delle donne ribelli”. Dove l’emancipazione spesso è passata attraverso il lavoro, come nel caso delle molte operaie attive nelle fabbriche cittadine, o grazie al riconoscimento dell’opera intellettuale, come capitato alla pittrice Rosalba Carriera, o a Elena Cornaro, prima donna laureata al mondo. Ed è anche da qui che emerge l’eccezionalità di una Venezia che possiamo vedere ora con occhi diversi.

Corriere della Sera, 8 novembre 2016 (m.p.r.)

Vecchi che piangono. Che resistono. Che non si arrendono. Pazienti in transizione, li chiamano i medici. Hanno perso tutto, devono andarsene ma non se ne vorrebbero andare. La somma di quel che manca ai sopravvissuti del terremoto è enorme: case, odori, rumori, umori, la memoria del corpo e degli affetti, le pietre, l’erba calpestata, i rintocchi di una campana. «La distruzione è un dolore immenso, il sisma è come una guerra. Dopo bisogna ricostruire», dice la psicanalista Lella Ravasi. «Ma i traumi non sono una sconfitta, possono diventare storie, memorie, una spinta per andare oltre. In quelle case polverizzate c’è il senso della vita, l’impronta di chi ci è stato». L’anima dei luoghi.

«È questo amore, questo rispetto, questa dignità che evoca la gente anziana dei borghi. È per quest’anima che vogliono tornare. Dentro la sofferenza c’è uno straordinario messaggio di vita, contro la terra che sprofonda, contro ogni tipo di deportazione. È la speranza che risale dopo un lutto, la forza di gridare che non si può perdere il rapporto con il luogo che sentiamo nostro, è l’umanità che va difesa e salvata», spiega. Nel dramma si pesano le cose che contano. «Si torna ai gesti primitivi, al valore dei sentimenti veri. Nell’attaccamento che abbiamo visto, anche da parte dei giovani, c’è il tentativo umano di andare contro la morte, di recuperare frammenti di memoria che danno senso alla vita».

Amatrice, Arquata, Ussita, Preci, Visso, Castelluccio, Fiastra, Sarnano, Camerino. Quanto pesa il dolore per gli anziani che hanno questi luoghi dentro la pelle? «Un peso schiacciante», risponde il gerontologo Carlo Vergani. «Il borgo amico è l’ancora di salvezza dei vecchi, l’ambiente dove affondano le radici. È quel che resta di una vita soggetta a continue perdite, che configura la loro identità». Si può reagire, si deve reagire.

«L’anima dei luoghi evoca dentro di noi la forza dei primi tempi di vita, bisogna guardare avanti per non soccombere», dice Ravasi. Gli anziani sfollati devono aggrapparsi a qualcosa, aggiunge Vergani, studioso della nuova longevità: «Quando il borgo crolla e le radici vengono estirpate, anche la sfida adattativa viene meno. Se la difficoltà supera la forza residua subentra la desistenza. La resa». E ricorda uno studio dell’università di Boston sulle persone anziane sopravvissute al terremoto del 2011 in Giappone: «L’allontanamento dalle case e dai vicini non solo può provocare problemi di salute mentale come il disturbo da stress post traumatico, ma può anche accelerare il declino cognitivo in chi è vulnerabile».

La sfida adesso è la ricostruzione, tornare e recuperare quei sentimenti che creano comunità. Ma come e con chi? Basta mettere le case in sicurezza? «No, non basta», dice Carlo Ratti, docente al Mit di Boston, «in certi posti non c’è più nemmeno lo scheletro delle case. Accanto al vissuto bisogna ricostruire uno spirito, portare in questi luoghi segnati da abbandono, il lavoro, i giovani, internet, la modernità delle tecnologie intelligenti. Bisogna dare valore. Si può pensare al turismo, dare gli incentivi, restaurare i monumenti, ma la vera svolta viene dal lavoro, attività produttive legate alla terra, agricoltura bio, qualità delle filiere diffusa attraverso la Rete». Ratti, teorico della smart city, pensa alla robotica che ha fatto fare un salto di qualità ai trattori della New Holland («Si guidano da soli nelle zone impervie») e ricorda l’investimento di Google in Boston Dynamics, la società di ingegneria che ha creato il mulo meccanico per l’esercito Usa. «L’anima antica e l’anima del futuro in questi luoghi può essere saldata con la terra. È importante creare nuove opportunità con la tecnologia, rispettando la storia. Se muore la Civitas, scompare anche l’Urbs. Per questo, con gli anziani, devono tornare giovani e lavoro». Per salvare un patrimonio che fa parte di noi.

«Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città». Millenniourbano, 8 novembre 2016 (c.m.c.)

Ciò che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti pensa in materia di politiche urbane è molto semplice e si può riassumere con quel inner cities are a disater che ha dato molto da scrivere ai periodici statunitensi. Forbes, ad esempio, smentisce l’affermazione citando i prezzi degli immobili in crescita del 52 per cento negli ultimi 6 anni nelle aree centrali delle 31 maggiori aree metropolitane e precisando quale significato abbia attribuito all’espressione inner city, ovvero l’area definita da un raggio di cinque chilometri dal centro geometrico di una certa città.

Qui emerge il primo problema della semplificazione di Trump: quando si parla di aree centrali delle metropoli statunitensi non è chiaro a cosa ci si riferisca. Inner city, a differenza di metro area, non è un’entità statistica. Più che altro è un luogo comune dell’immaginario collettivo statunitense e bianco che fa riferimento ai quartieri a maggioranza non bianca dei settori centrali delle grandi aree metropolitane.

Da lì ha tratto origine il grande flusso verso i sobborghi residenziali che ha caratterizzato la storia urbana del Nord America dal secondo dopoguerra in poi, ma è proprio nei quartieri centrali delle metropoli americane che si sta verificando l’inversione di tendenza di cui scrive Forbes. A Boston, ad esempio, le case del centro costano il doppio di quelle delle zone residenziali limitrofe: se dobbiamo attenerci alla sola legge della domanda e dell’offerta vivere in centro a Boston è due volte più desiderabile che abitare in qualche sobborgo della sua area metropolitana.

Il newyorchese Trump di quartieri centrali delle grandi metropoli se ne intende: la società immobiliare di famiglia è stata un attore importante dell’offerta abitativa a New York City dove ha realizzato complessi residenziali nei quali l’accesso delle persone di colore è stato molto ostacolato (le richieste provenienti da famiglie non bianche venivano contrassegnate con l’iniziale C della parola colored e quasi sempre rigettate).

Come molti altri imprenditori del settore immobiliare anche Trump ha contribuito alla segregazione delle minoranze etniche nei complessi di edilizia residenziale pubblica, poi stigmatizzati per le loro condizioni “infernali”. Eppure tutto ciò non gli impedisce di scrivere in “New Deal for Black America: With a Plan for Urban Renewal” che «anno dopo anno la condizione dei neri in America peggiora. Le condizioni nelle nostre città sono oggi inaccettabili». Il piano propone esenzioni fiscali per gli investimenti nei settori centrali delle città e l’utilizzo del denaro risparmiato con la sospensione dei programmi di accoglienza dei rifugiati in investimenti «nei nostri centri urbani» e in programmi «per far rispettare le nostre leggi». La retorica populista della «nostra gente» riguarda evidentemente le due sponde dell’Atlantico.

Le strategie del piano di Trump omettono una realtà importante: non tutti gli afroamericani vivono nelle inner cities. L’evidenza invece mostra che anche gli afro-americani, come ogni altro gruppo etnico degli Stati Uniti, sono una realtà troppo diversificata per generalizzazioni di questo tipo.

Il termine inner city, che ha guadagnato popolarità attraverso il lavoro di teorici urbani e di sociologi tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso ed è ampiamente servito per indicare le comunità non bianche delle aree più centrali dei sistemi metropolitani, non fa giustizia di una realtà in profondo cambiamento.

L’Urban Institute ad esempio evidenzia come ad Atlanta – una delle aree metropolitane a più rapida crescita – gli afro-americani vivano ben oltre la città centrale e i quartieri prevalentemente neri siano dispersi in tutto il paesaggio metropolitano. Solo il 12 per cento dei residenti neri della città metropolitana di Atlanta vive all’interno del perimetro municipale della città di Atlanta.

Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna quindi al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città.

L’Urban Institute denuncia, dati alla mano, quanto la narrazione di Trump degli afroamericani e delle altre minoranze come gli unici abitanti delle inner cities sia falsa, obsoleta, e tesa a perpetuare le condizioni che hanno consolidato le condizioni di povertà nei quartieri a maggioranza non bianca.

Da una parte egli invoca politiche pubbliche per risolvere i problemi urbani e dall’altra minimizza la storia problematica delle città americane grazie alla confusione tra inner cities e minoranze etniche. Il suo discorso finisce per far coincidere le ancora irrisolte questioni urbane degli Stati Uniti d’America e con i persistenti problemi razziali. Nella semplificazione a fini elettorali ciò significa contrapporre i bianchi dei sobborghi alle minoranze etniche delle zone urbane centrali, anche se ormai è ampiamente noto che questa distinzione abbia smesso di essere applicabile alle aree metropolitane americane.

Cosa dice a noi della sponda europea dell’Atlantico la retorica di Trump sulle grandi città? Che la questione della diversità delle popolazioni insediate al centro delle aree metropolitane più che una debolezza va considerata come un elemento di forza, cosa che viene indicata proprio dal cosiddetto Rinascimento urbano d’oltre oceano dove le differenze etniche dei quartieri centrali non hanno affatto ostacolato il processo di valorizzazione segnalato dal mercato immobiliare.

Da noi si fa ancora fatica ad andare oltre la narrativa della città centrale come unica espressione possibile della nostra cultura urbana ma è proprio cogliendo tutte le differenze che anche qui hanno trovato spazio nei sistemi metropolitani che la politica potrà forse capire e dire qualcosa di più sulle trasformazioni non sempre negative delle nostre grandi città.

“Non mi debbo difendere solo soltanto dal terremoto, ma anche dalla burocrazia, le pare possibile?”, diceva il 1 novembre Adolfo Marinangeli, sindaco di Amandola, uno dei piccoli comuni del maceratese sui quali il terremoto ha fatto quasi tabula rasa.

“Le regole sono assurde. Per poter fare un puntellamento di uno stabile che ha un certo valore storico-artistico si deve trovare l’assenso di una serie di enti che non sempre sono in accordo l’uno con l’altro”, spiegava Marinangeli. La sua voce tutt’altro che isolata. “Il terremoto di domenica scorsa ha gravemente lesionato la nostra duecentesca chiesa di San Francesco e solo giovedì ho avuto l’autorizzazione a metterla in sicurezza. Ma lo sanno che con uno sciame sismico cinque giorni sono un’eternità?”, rincara la dose Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno. Sembra sia andata persino peggio a Caldarola, altro comune del maceratese dove gli interventi non ci sono stati proprio, almeno a sentire il sindaco Luca Giuseppetti.

Così non si sa nulla del Castello Pallotta e del santuario di Santa Maria, non diversamente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Borgo Piandebussi, del castello e dell’antiquarium di Pievefavera e della chiesa della Santa Croce a Croce. Ma il punto non è quel che non si è fatto, almeno nell’immediato a Amandola, Ascoli Piceno e Caldarola. Il disastro è generalizzato.

Su questo il fronte degli amministratori locali è concorde. Servono troppi permessi. Per saperlo non è necessario essere un sindaco. Basta possedere un qualsiasi immobile vincolato e dover provvedere a un intervento di restauro. è innegabile che le procedure amministrative per giungere alla realizzazione dell’intervento sono difficili. Sia relativamente alle modalità che ai tempi.

Constato questo gap, tra la necessità di interventi rapidi e il dovere istituzionale di assicurare che siano garanti gli standard di scientificità richiesti dalle normative, quale potrebbe essere la soluzione? Quale la modalità per fare “presto e bene”? Non occorre scervellarsi. Inutile pensarci. Tutto sistemato. Ci ha pensato il Consiglio dei ministri del 4 novembre.

“Per la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico, i Comuni interessati hanno la facoltà di effettuare direttamente gli interventi indispensabili, dandone comunicazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, la misura che risolve ogni cosa. Et voilà, verrebbe da dire. Quanto questa decisione risolva i problemi evidenziati dai sindaci dei centri spazzati via dal sisma del centro Italia, lo diranno i risultati che si raggiungeranno. Non soltanto in termini di rapidità, ma anche di qualità.

Quel che invece da subito appare inequivocabilmente evidente è che così si esautora sostanzialmente il ruolo delle Soprintendenze. Di più, si esaspera quella marginalizzazione già in atto da tempo dei tecnici che lavorano per gli uffici del Mibact. messi da parte restauratori, storici dell’arte, architetti e archeologi per far posto ai sindaci. Da ora, la salvezza di una chiesa oppure di una torre, di un castello o di un antiquarium dipenderà dalla loro capacità di darsi delle priorità, capacità di scelta, ad esempio, tra una ditta o l’altra. La sopravvivenza del patrimonio storico-artistico e archeologico dipenderà dal loro interventismo.

Un punto però deve essere chiaro. Il problema non sono i sindaci e neppure la loro difficoltà a provvedere, tanto più in situazioni di emergenza, a quel che necessita di cure. Il problema non è neppure quel che riusciranno a fare. Loro, i sindaci, sono davvero preoccupati. Così, questa misura che gli affida anche il patrimonio storico appare come l’unica soluzione possibile. Nella realtà non lo sarà, probabilmente. Anche se è una scelta che l’opinione pubblica, insomma quella degli non addetti ai lavori, osserverà con favore.

“Le Soprintendenze tra un parere e l’altro fanno passare mesi e intanto la distruzione prosegue. Finalmente ora ci sarà chi decide senza perdere tempo”, pensano in molti. E ognuno a citare un esempio. Per sentito dire, per esperienza diretta. Il vero problema è che a scegliere questa misura sia stato il Consiglio dei Ministri. Il guaio è che ad adottare questo provvedimento sia stato un Presidente del Consiglio e, considerate le competenze, il Ministro dei Beni culturali, con ogni probabilità ascoltato il parere del commissario per la ricostruzione. Hanno scelto di non scegliere. Facendo ricorso alla soluzione più demagogica e più irragionevole che ci fosse.

Una rapidità quella di Renzi e Franceschini sorprendente e peraltro utilizzata a intermittenza. Come non pensare ad esempio alla Soprintendenza unica speciale per il terremoto annunciata dal Ministro il 17 ottobre ma ancora in attesa di essere presentata? Ancora. Non sarebbe stato più utile rafforzare il ruolo delle professionalità all’interno delle Soprintendenze, facilitandone il lavoro, delineandone le strategie? In territori nei quali il sopraggiungere di eventi climatici sfavorevoli rischia di aggravare rapidamente le criticità provocate dal sisma, le esperienze delle professionalità delle Soprintendenza avrebbero potuto essere valorizzate. Finora si ha l’impressione che non sia accaduto. La crociata di Renzi e Franceschini contro la tutela tentata dalle Soprintendenze rischia di cancellare quel che resta.

«Prima la speculazione si limitava a distruggere la bellezza, era un dramma estetico. Ora esclude la vita, il cancro è antropologico. Venezia è prossima a ridursi a un deserto occupato da 30 milioni di visitatori all’anno, un non-luogo privo di comunità». Ma ogni tanto appare qualche segno di speranza ,perfino in una città così corrotta da 20 anni di governi al servizio del Mercato. Incoraggiamoli. La Repubblica, 7 novembre 2016

«Ti ga finoci?». Il sole illumina gli orti della “Maravegia” a Sant’Erasmo, flottanti sulla laguna ancora calda e silenziosa. Lontano le Dolomiti sono già azzurre di neve. Davide Tozzato, 30 anni e laurea in Economia, coltiva verdure in modo naturale. Consegna sul campo, oppure online. «Mi piace questa vita — dice — ma qui il problema è che tocca ai giovani dare il buon esempio agli adulti». A fine mese, per ora, non ci arriva. In compenso quello che fa è buono. A Venezia questa, oggi, è una rivoluzione. I ragazzi non accettano di assistere alla morte della città che la retorica globale assicura di amare di più al mondo.

Dove l’acqua finisce, la scelta è non vedere: sull’ex Serenissima si combatte la guerra cruciale che oppone la vita delle persone semplici agli interessi dei capitali anonimi. Si stenta a crederci ma è la verità: uomini contro soldi a Venezia, i veneziani contro i turisti. E la resistenza, segnale di un’evoluzione più vasta e più profonda, parte dai ragazzi, decimati, espulsi e ignorati. Non può che essere così: la città è stata venduta dai suoi abitanti, i vecchi assistono alla tragedia delle colpe dei padri scontate dai figli. La sfida impossibile di chi è nato qui e ha meno di trent’anni è semplice: restare o tornare a Venezia e sulle sue isole per arginare il vuoto, offerta a termine per una massa di estranei.

«L’Italia e la comunità internazionale — dice Silvia Scaramuzza, maestra d’ascia alla Giudecca — non capiscono che il caso-Venezia è un’emergenza che tocca tutti. Prima la speculazione si limitava a distruggere la bellezza, era un dramma estetico. Ora esclude la vita, il cancro è antropologico. Venezia è prossima a ridursi a un deserto occupato da 30 milioni di visitatori all’anno, un non-luogo privo di comunità. Il passo in più è che anticipiamo il destino del Paese».

La novità è che i giovani non si rassegnano: denunciano, si ribellano e soprattutto fanno. Il 10 settembre lo slogan di Generazione 90 era “Ocio ae gambe che go el careo”:n on tutti sono maschere, qualcuno ancora deve fare la spesa per mangiare. Il 2 luglio “Ditelo coi nizioi” del Gruppo 25 Aprile ha coperto centinaia di case con lenzuola che dicevano: “Il mio futuro è qui, non me ne vado”. La prossima protesta di Venessia. com sarà il 12 novembre: “ Venexodus”, o “Tolgo il disturbo”, tutti con la valigia in mano sotto il municipio. Un doge in gondola abbandonerà Venezia per sempre, tirando un trolley.

Sotto accusa il sindaco Luigi Brugnaro, il primo di destra nella storia cittadina, ma pure i predecessori del centrosinistra. Lo shock però l’ha dato Brugnaro: «Il futuro dei veneziani - la sentenza - è a Mestre o sulla terraferma». Come dire che il centro storico è perduto, una città-selfie in un’Italia stile autoscatto, un palcoscenico sull’acqua. Altro che patrimonio culturale: al tramonto solo uno sfondo. «Fuori nessuno ha reagito - dice Piero Dri, 33 anni, laurea in Astronomia ma remèr a Cannaregio - sulle isole abbiamo capito che la situazione è sfuggita di mano. Chi amministra una comunità non può invitarla ad andarsene per fare posto a chi spende di più. La logica del libero mercato, applicata alle persone, elimina la vita: oggi tocca a Venezia, domani al resto d’Italia».

I numeri contano. In laguna, nel 1946, vivevano in 190mila. I due conta-persone pagati dai residenti ora sono a quota 54.970. In settant’anni la popolazione è ridotta a un quarto, mai la peste ha decimato di più. I giovani non sono più di 6 mila: 3 al giorno vanno via, 2 gli sfratti quotidiani. In un giorno qualsiasi di fine ottobre i turisti registrati sono 57.179: i nativi, età media 47 anni, sono sempre minoranza. «Case inarrivabili - dice Marina Colussi, 24 anni, pasticcera a San Barnaba - scelte di lavoro zero, iniziative per i giovani ancora meno. Finiti gli studi è l’ecatombe: o fai la comparsa per i turisti o devi andare via, qui o bevi nei campielli o cammini per le calli. Oppure ti rimbocchi le maniche e lotti per cambiare tutto ritrovando un’anima».

È la strada dei ragazzi della nuova resistenza civile veneziana. Laureati o diplomati, sono sarte e tagliaoro, pescivendoli e cartai, gondolieri e vetrai, merlettaie e contadini, ma pure programmisti di computer e web designer, urbanisti e restauratori, volontari e istruttori di voga alla veneta. Non emigrare è un sacrificio: vivono in famiglia per risparmiare l’affitto, niente matrimonio e niente famiglia, superfluo abolito. Eleonora Menegazzo ha 33 anni ed è figlia della storica dinastia Berta, battiloro nella casa abitata da Tiziano, dietro Fondamenta Nuove. Pur di non trasferire la bottega in terraferma, ogni giorno sta tre ore su corriere e vaporetti. «Devo dormire a Iesolo - dice - e avere pazienza. Ho studiato Economia del turismo, ma agli alberghi ho preferito un mestiere secolare che si fa con le mani. La pazienza e la bellezza camminano insieme, come l’onestà e la giustizia: la missione della nostra generazione è spingere Venezia a riconoscere i valori essenziali». Tra questi, per chi vuole andare veloce, c’è anche la lentezza. Federico Mantovan, 32 anni, laurea a Ca’ Foscari in Beni culturali, consegna il cibo che produce in barca a remi. All’alba parte da piazzale Roma e voga per i canali, vendendo e parlando con la gente sulle rive. «Nessuna nostalgia - dice - contano la felicità e la soddisfazione di fare bene un lavoro che funziona, in modo giusto e in un luogo unico. Il mio modo di ribellarmi alla condanna a morte dei ragazzi veneziani è ricominciare a fare, accontentandomi con entusiasmo».

Questa è una città fondamentale che la cronaca evita di documentare. Parliamo degli scandali e delle grandi navi che violano il bacino di San Marco, dei vecchi che cacciano i giovani per affittare agli stranieri e dei turisti che si tuffano sugli scafi-taxi dal ponte di Rialto, delle tangenti per il Mose e della crescente voglia di indipendenza, dei cinesi che rastrellano palazzi e chioschi di souvenir. Abitanti contro visitatori e comitive contro residenti, due eserciti accomunati solo dall’odio reciproco e dall’incubo di essere fregati. Oltre alla cupidigia, all’egoismo, alla maleducazione e alla criminalità, rinasce invece oggi un universo veneziano che rifiuta modelli finiti, preferendo la speranza di una modesta vita bella alla disperazione di un’esagerata morte tranquilla.

«Il futuro è proprio qui - dice Fabio Carrera, docente di Economia in città e negli Usa, fondatore del pensatoio hi-tech per studenti Venice Project Center - nello scatto mentale che induce sempre più ragazzi a rifiutare privilegi fatali e a scegliere l’energia della normalità. Grazie alla giovinezza la realtà sta già cambiando: la solidarietà della “cassa peota” può abbattere il muro di affitti e mutui, il made in Venice supera la monocultura turistica attraverso la ricerca e la tecnologia, l’elettronica e il web risolvono l’emergenza degli accessi di massa. I giovani veneziani, con la testa o con le mani, stanno cambiando il modo di fare soldi, rendendolo compatibile con la loro sopravvivenza. Solo i politici e i vecchi speculatori non lo vedono, o sperano nel fallimento di questa travolgente rivoluzione».

La stessa “idea del turista” a Venezia non è più quella promossa da tour operator e media. Lo schema logoro impone il patto ineludibile distruzione-ricchezza, il sacrificio della città, o del Paese, in cambio dell’agio finanziario. Tra chi conta meno di trent’anni prevale invece la fiducia nel coetaneo che, nel resto del pianeta, si mette in viaggio per la prima volta, incarnando il visitatore del futuro. «Se parli con un turista di vent’anni - dice Giulia Ribaudo, 26 anni, laurea in Filosofia e coordinatrice dell’associazione Closer - nemmeno il concetto di rinunciare è più tabù. Chiudere Venezia è punitivo, chiedere che non tutti visitino sempre tutto, che non ogni tour italiano offra sempre anche l’ebbrezza di uno scatto davanti al Ponte dei Sospiri, è gratificante. I giovani accettano di rinunciare a un’emozione per proteggere Venezia e salvare i veneziani, di passare dal concetto di parco- divertimenti a quello di oasi da tutelare per il bene collettivo ».

La prossima campagna dei ragazzi che vivono sull’acqua, offerta alle agenzie internazionali di promozione turistica, avrà come slogan “Amo Venezia: oggi non voglio vederla, domani sì”. È una dichiarazione d’amore, come quella di Michele Rossetto, 29 anni, vetraio a Murano. Tutto chiude, attorno a lui: nelle fabbriche erano 15mila, sull’isola ne restano mille. Ogni giorno nella piccola fornace di famiglia, per vivere e per restare, fonde trecento perle a lume, fiamma a mille gradi, 40 centesimi a pezzo. Sui vaporetti i marinai faticano meno, trovano una morosa, lo stipendio è certo. Lui si cuoce, è solo, d’inverno è povero. Però dice di essere orgoglioso, come Simone dei Rossi, 21 anni, sveglia fissa sulle 3.45 per portare sogliole e vongole al mercato. «Svolgo un servizio per la mia comunità - dice - riesco a mangiare senza fare danni. La bellezza c’è solo se non ci pensi». Vuole dire che se diventa un espediente da sfruttare, sparisce. È la lezione dei giovani partigiani che resistono sulle isole incantate “al di là del ponte”, che non cedono e che non vanno via, oppure che ritornano. Venezia la stanno salvando loro, poche parole, Venezia sono loro. Non si può dimenticarli, vanno aiutati, molto e subito: sarà una felicità.

Note sulla Laudato si' e sulla Dichiarazione islamica sul clima. Convergenze significative su questioni fondamentali in un mondo dominato troppo a lungo da un'ideologia dissipatrice del pianeta e devastatrice dell'umanità, e guidato da una politica asservita al mondo della finanza e al mito della crescita. Casa della cultura, Milano, online, 3 novembre 2016

Nell'enciclica Laudato si' Papa Francesco tratta le sfide più grandi che l'umanità si trova ad affrontare con sorprendente sintonia con la visione islamica del mondo e del ruolo che questa conferisce all'uomo che, secondo l'Islam, è quello di Vicario di Dio sulla terra, "khalifat-Allah fil-ard".
"E [ricorda] quando il tuo Signore disse agli angeli: 'Io porrò un vicario sulla terra'. Essi dissero: 'Metterai su di essa chi vi verserà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi Ti glorifichiamo lodandoTi e Ti santifichiamo?'. Egli disse: 'In verità, Io conosco quello che voi non conoscete'. E insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose e quindi le presentò agli angeli e disse: "Ditemi ora i loro nomi, se siete sinceri". [Sura Al Baqara, La Vacca, versetti 30-32]. In questi versetti è esemplificato il rapporto dell'uomo con la creazione nel pensiero islamico, dove il Vicario di Dio sulla terra deve preservare quanto affidatogli perché la terra è ciò che Dio ha creato ed affidato in custodia (amana). L'uomo dovrebbe quindi comprendere e meditare quanto la natura sia intimamente connessa a Dio poiché Sua creazione e la sua tutela diventa perciò un dovere religioso. Il richiamo all'intelletto umano, alla sua capacità di discernimento e di cogliere il divino è una costante nella narrazione coranica. "Non riflettono sui cammelli e su come sono stati creati, sul cielo e come è stato elevato, sulle montagne e come sono state infisse, sulla terra e come è stata distesa? Ammonisci dunque ché tu altro non sei che un ammonitore..." [Il Corano, Sura Al Ghashiah, L'Avvolgente, versetti 17-21].

Nel primo capitolo dell'enciclica il Pontefice ricorda che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale» e ingiunge ad ascoltare «tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Parole che trovano perfetta adesione con gli ideali islamici di giustizia sociale ed eguaglianza. Troviamo una profonda consonanza con quanto scritto nell'Enciclica sin dal primo capitolo - Quello che sta accadendo alla nostra casa - dove il Papa richiama a una profonda riflessione sulla condizione attuale del pianeta terra. Nella denuncia dei disastri ambientali provocati dall'uso scriteriato delle risorse in un mondo sempre più ingiusto e dalle disparità sociali devastanti che arrivano addirittura a privare una considerevole parte dell'umanità del diritto naturale all'acqua, il Papa tocca le corde più profonde del pensiero dei musulmani e temi su cui i più attenti si battono da tempo. Il Corano infatti conta infiniti passi sulla natura e sul creato, fino ad arrivare a una descrizione della storia della terra: «Non vedono dunque gli empi che i cieli e la terra erano un tempo una massa confusa e noi li abbiam separati, e dall'acqua abbiam fatto germinare ogni cosa vivente? E ancora non credono? E ponemmo sulla terra montagne immobili, che la terra non si scotesse sotto i piedi degli uomini, e ponemmo fra i monti dei passaggi, a guisa di strade, che gli uomini potessero dirigersi nel loro cammino, e ponemmo il cielo come un tetto saldamente tenuto. Eppure essi s'allontanano dai Nostri Segni sdegnosi! E pure è Lui che ha creato la notte e il giorno, e il sole e la luna, ciascuno navigante nella sua sfera" [Il Corano, Sura al Anbiya, i Profeti, versetti 30-33].

Nel secondo capitolo - Il Vangelo della creazione - Bergoglio riporta le parole dei vescovi del Paraguay molto significative: «Ogni contadino ha diritto naturale a possedere un appezzamento ragionevole di terra, dove possa stabilire la sua casa, lavorare per il sostentamento della propria famiglia e avere sicurezza per la propria esistenza». Questi diritti umani trovano un corrispettivo sharaitico alla base della giurisprudenza islamica: i maqasid al shari'ah, ovvero gli scopi ultimi dell'Islam, che sono la tutela della persona e della sua integrità (himayat al nafs wa himayat al 'ird), e qui ecco il contadino, la tutela della sua famiglia (himayat al nasl), della sua proprietà (himayat al mal).

Nel terzo capitolo - La radice umana della crisi ecologica - il Papa riporta il discorso sull'uomo e le sue responsabilità nella devastazione della terra a causa di un'ideologia relativista e "usa e getta" che mette il denaro al primo posto: un malinteso antropocentrismo che ha fatto credere agli uomini di potersi disconnettere dal Creatore e disporre a piacimento della Sua creazione senza porci alcun limite. Un monito che trova eco nel versetto coranico: «Ma non osservano il cielo sopra di loro come l'abbiam edificato e abbellito e senza fenditura alcuna? E la terra l'abbiamo distesa e vi infiggemmo le montagne vi facemmo crescere ogni specie di meravigliosa vegetazione: invito alla riflessione e monito per ogni servo penitente. Abbiam fatto scendere dal cielo un'acqua benedetta, per mezzo della quale abbiamo fatto germinare giardini e il grano delle messi e palme slanciate dalle spate sovrapposte" [Il Corano Sura Qaf, versetti 6-10].

Nel quarto capitolo Francesco ci richiama a quel fondamentale concetto che è il 'bene comune', base del nostro agire collettivo e pluralista, che richiede l'impegno di tutti per favorire la creazione di società più armoniche. Qui riporta le significative parole dei Vescovi del Portogallo - «L'ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva» - per passare poi a interrogarsi su che tipo di mondo vogliamo per chi verrà dopo di noi. Nella denuncia del «principio della massimizzazione del profitto», il pensiero dell'enciclica incontra l'approccio islamico alla finanza, che proibisce gli interessi sul denaro ed è in radicale disaccordo con il terribile meccanismo del debito pubblico che schiaccia i paesi più poveri.

Rivolgendosi a un'ampia platea il Papa ha trovato larghi riscontri tra i credenti musulmani, specialmente nelle fasce più impegnate e colte. Per aderire all'appello lanciato da Papa Francesco nella Laudato si', al termine di un simposio internazionale che si è tenuto a Istanbul il 17 e il 18 agosto del 2015, è stata redatta la Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico. La questione su cui è incentrata è quella del cambiamento climatico, altre questioni ecologiche sono citate in modo secondario. Si tratta probabilmente di una scelta strategica: il documento ha avuto forse lo scopo di esercitare una qualche influenza sui lavori della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si sarebbe poi tenuta a Parigi nel dicembre 2015. Il preambolo della Dichiarazione descrive i motivi che hanno determinato la stesura del documento che prende le mosse dall'affermazione dottrinale che Dio ha creato il mondo. Il paragrafo successivo fornisce un'interpretazione teologica del fenomeno del cambiamento climatico: esso - in sintesi - sarebbe il risultato del nostro fallimento esistenziale nell'assolvere al dovere dell'uomo di curare e tutelare il creato, cioè al nostro ruolo di khalifa di Dio sulla terra: «Egli è Colui Che vi ha costituiti vicari della terra» [Il Corano, Sura al-An'am, Il Bestiam, versetto 165].

La tesi di fondo della Dichiarazione è che invece di coltivare quella terra che Dio ci ha donato e affidato, l'abbiamo danneggiata abusandone. In termini analoghi alla Laudato si', il testo affronta il tema dell'"equilibrio delicato della terra" e del nostro essere "inseriti nel tessuto del mondo naturale". Seguono alcuni paragrafi in cui si mette in evidenza la gravità della situazione attuale e si esprime allarme rispetto a quanto poco è stato fatto in vista di una sua soluzione. Subito dopo una serie di affermazioni dottrinali - per la maggior parte semplici espressioni coraniche della signoria di Dio sulla creazione - viene tessuto un discorso complessivo volto ad affermare che la cura per l'ambiente è una preoccupazione intrinseca dell'Islam. «Le stelle e gli alberi prostrano» [Il Corano, Sura Al Rahman, Il Misericordioso, versetto 6], «a Dio si prostrano quanto è nei cieli e quanto è sulla terra, il sole, la luna, le stelle, le montagne, gli alberi, e le bestie» (Sura Yunus, Giona, versetto 18).

Tutti i musulmani vedono nei comportamenti del Profeta Mohammad la parola definitiva sulla giusta condotta. È inevitabile che il suo comportamento debba essere invocato a sostegno delle affermazioni della Dichiarazione. Alcuni suoi tratti vengono richiamati come una guida per portarci verso l'armonia. Il testo fa dunque riferimento anche alla semplicità dello stile di vita di Maometto (tra cui il suo parco uso di carne), alla sua raccomandazione di proteggere le scarse risorse del deserto come l'acqua, e di costruire santuari per la protezione della vita animale e vegetale.

La Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico si conclude con una serie di appelli: ai negoziatori della Conferenza delle Nazioni Unite, cui chiede di condurre i colloqui per raggiungere dei risultati soddisfacenti; ai Paesi ricchi, che vengono esortati a farsi carico della parte preponderante dell'onere finanziario di una graduale eliminazione dei combustibili fossili; alle persone di tutte le nazioni, incoraggiate a rinunciare ai combustibili fossili e ad adottare le fonti di energia rinnovabile elaborando un nuovo modello di benessere che non danneggi il pianeta. L'appello del Papa trova perciò una eccezionale consonanza nel mondo islamico e stimola una riflessione che può e deve avvicinare gli uomini e le donne di buona volontà a qualsiasi religione appartengano. Il richiamo all'ecologia è un appello a una società più impegnata e meno materialista: ora è necessario agire tutti insieme per affermare il primato del pianeta terra e degli esseri umani su quelle logiche economiche che stanno distruggendo il mondo.

Nota del curatore. - Paolo Gonzaga è traduttore, giornalista freelance e analista politico. Laureato in Lingua e Letteratura Araba alla Facoltà di Lingue Orientali dell'Università di Ca' Foscari, ha vissuto in Egitto dal 1998 al 2004. Qui ha lavorato come Lettore di Lingua e Letteratura Italiana all'Università di El Minia e ha collaborato con il Consolato Italiano del Cairo come traduttore e mediatore culturale (fonte: Arab media Report). Nel 2011 ha pubblicato il libro: Islam e democrazia. I fratelli musulmani in Egitto (Torino: Ananke) e attualmente dirige il master dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: "Fonti, storia, istituzioni e norme dei tre monoteismi: ebraismo, cristianesimo e islam". (Renzo Riboldazzi)

La grande abilità di Giuseppe Salvaggiulo, che ha intervistato Luigi Brugnaro, sindaco protempore di Venezia, é che lo ha completamente spogliato e lo ha costretto a rivelarsi come realmente è. Purtroppo per la città. La Stampa, 4 novembre 2016

L’eloquio torrenziale («ho un convegno a San Donà, c’è tempo solo per un’ultima domanda», poi parla per un’altra mezz’ora), la gigantesca spilla dei pompieri di New York sul rever della giacca («mi hanno fatto vigile del fuoco onorario»), una certa idea dell’economia («le aziende in crisi devono fallire, i soldi pubblici servono a portare qui le multinazionali»), lo stile da parón che un anno e mezzo da sindaco non ha scalfito («vivo in trincea con 800 milioni di debiti, grazie a quindici anni di sindaci filosofi e professori»). Nel giorno in cui la città celebra l’anniversario dell’Aqua Granda, l’alluvione del 1966, Luigi Brugnaro, l’imprenditore che con una lista civica appoggiata dal centrodestra ha espugnato Venezia, svela le sue idee su turismo, Unesco, urbanistica, sviluppo industriale. Con un messaggio per Renzi.

Il turismo di massa è l’emergenza?
«Tutt’altro. Ma qualcuno, invece di sviluppare altri settori, vuole uccidere il turismo che ci dà da mangiare».

Qual è la sua ricetta?
«Prima sviluppiamo l’industria. Tutto dipende dal porto. Gli armatori acquistano navi più grandi e il nostro non è in grado di accoglierle. Allora dico a Renzi: facciamo un patto per Venezia».

In che cosa consiste?

«Nel 2002 accettammo il Mose in cambio di uno sviluppo del porto. Non s’è visto nulla. Bisogna fare un nuovo porto offshore per le navi oceaniche. I cinesi sono pronti a investire 600 milioni di euro, ma vogliono certezze».

Che altro c’è nel patto?
«Un nuovo tracciato per le grandi navi da crociera, peraltro già usato in passato. E Porto Marghera».

Chiede soldi?
«Quelli della legge speciale, doverosi. Per il resto, soprattutto regole. I privati vogliono sapere quanto costano le bonifiche e cosa possono costruire. Con un’autorizzazione unica e tempi rapidi».

Il suo piano per Porto Marghera?
«Sul waterfront grattacieli fino a cento metri con terziario e residenziale, alle spalle una zona industriale, sui canali la logistica».

Quanti grattacieli?
«Quanti ne vogliono. L’area è grande, non c’è limite».

Com’è il suo rapporto con il governo?
«Io sono filogovernativo per natura. Aspetto una risposta in un rapporto leale».

Dunque migliore di quello con l’Unesco, che potrebbe mettere Venezia nella black list dei siti a rischio.
«Noi ospitiamo una sede Unesco e paghiamo le spese, solo negli ultimi anni 1,4 milioni. Eppure l’Unesco ci manda un aut aut da Istanbul. Io dico: i turchi li abbiamo fermati a Lepanto, se volete parlarci venite qui».

Ne fa una questione di galateo?
«No, di sostanza. Ci minaccia un’organizzazione che cambia i nomi ai luoghi sacri di Gerusalemme. Ignobile. Non accetto giudici e controllori, ma proposte. A casa nostra i conti li facciamo da soli».

L’Unesco propone di vietare le grandi navi da crociera.
«Le vietassero a casa loro. E i cinquemila posti di lavoro poi chi ce li dà, l’Unesco?».

Dell’ecosistema lagunare non si preoccupa?
«Le grandi navi non fanno male a nessuno».

Le maree bene non fanno.
«Le maree? Non dia retta agli estremisti».

Uscire dall’Unesco?
«Sarebbe ininfluente. È l’Unesco che si fa pubblicità con Venezia, non il contrario. È l’Unesco che va salvata, non Venezia».

Unesco a parte, sul turismo di massa bisogna fare qualcosa? Veniamo da un weekend con punte di 150mila turisti al giorno, tre volte i residenti.
«Tutti ci danno lezioni, allora io ho istituito una commissione pubblica. Chiunque ha proposte le consegni. Ora o mai più. Noi accoglieremo quelle condivisibili e faremo le nostre».

Qual è la base della discussione?
«I turisti non vanno demonizzati, sono persone come noi. Senza turisti Venezia muore».

Anche i turisti trash?
«I maleducati ci sono anche a New York, inevitabile che a Ferragosto qualcuno si tolga la maglietta. Lo multeremo».

Vuole il numero chiuso?
«La città è aperta a tutti, non la vieterò mai a nessuno. Ma il turismo mordi e fuggi non dà grandi benefici e crea costi per la città, va regolamentato».

Come?
«La tassa di soggiorno non basta per finanziare i servizi utilizzati dai turisti. Penso a un contributo, un obolo inversamente proporzionale al tempo di permanenza. Chi arriva e parte in un solo giorno paga di più, ogni giorno di pernottamento fa calare l’entità del contributo».

Vale anche per i passeggeri delle grandi navi?
«Certo».

Come si può applicare?
«Con un sistema di prenotazioni online e di addebito sui biglietti dei vaporetti, delle navi e dei treni».

Venezia rischia di diventare una città per ricchi.
«No, per chi la ama e non si accontenta di qualche ora tra Rialto e San Marco».

Perché avete venduto l’aeroporto del Lido a 26 mila euro?
«Perché l’aeroporto funzioni. Il Comune non può fare l’imprenditore. È la valutazione in bilancio. Nessuna speculazione».

E la privatizzazione del giardino Papadopoli?
«Ma quale giardino! Era un ricettacolo di tossici, una fogna. Abbiamo accettato una proposta dell’hotel vicino, che lo sistema e custodisce utilizzandolo in via esclusiva per dieci giorni l’anno. A costo zero per il Comune: un affare».

La chiamano “sindaco fuori dal Comune” perché non vive a Venezia ma a Mogliano Veneto, Treviso. «Lavoro 16 ore al giorno, non prendo stipendio, mi pago staff, auto, barca, viaggi, non ho conflitti di interessi, non ho bisogno di rubare. Solo il caffè che abbiamo bevuto è a spese del Comune. Dove risiedo sono c...i miei».

Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016 (p.d.)

C’è un forte scontento per il modo in cui il governo, e per esso il ministero dei Beni culturali, sta da mesi trattando (o non trattando) la scottante materia del dopo-sisma fra Lazio, Umbria e Marche. A settanta giorni dalla prima grave scossa del 24 agosto s’inizia soltanto ora a parlare di Soprintendenza speciale per le zone terremotate nella bozza del decreto bis sul sisma.

“Le chiese di Norcia e di Campi si potevano salvare”, s’indigna Bruno Toscano, storico dell’arte, il più penetrante conoscitore di quei territori, protagonista del dopo-terremoto del ’97. “Dopo il 24 agosto bisognava puntellare quanto si poteva, subito. Come si fece per la Basilica di San Francesco ad Assisi subito dopo la scossa del 25 settembre 1997 senza aspettare quella del 4 ottobre che sarebbe stata devastante. Qui i forti terremoti si susseguono a cadenza quasi regolare: 1958, 1969, 1997, 2016. E invece niente prevenzione”.

Era pure venuta qui, in missione, il segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, architetto. Perché non ha deciso nulla di concreto? Perché non ha seguito l’esempio dell’ultimo, forse, grande segretario del ministero, Mario Serio, che nel ’97 si assunse col commissario straordinario Antonio Paolucci, assistito da strutturisti quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi, la responsabilità totale delle grandi gru e della foresta di tubi d’acciaio montata fra Umbria e Marche, cominciando dal timpano della pericolante Basilica Superiore? Dove sono finiti i tecnici del ministero per i Beni culturali?

Hanno lavorato come matti per visitare, con un gruppo di ingegneri strutturisti – lo racconta uno di questi, Antonio Borri – quasi tutte le chiese della Valnerina. Misure concrete? Zero via zero. Con la frustrazione di veder crollare ciò che era salvabile dopo il 24 agosto. “Ce ne sono ancora di tecnici nelle Soprintendenze?”, si domanda scettico un grande archeologo, Mario Torelli, per decenni docente a Perugia. “I più mi risultano imbucati nei Poli museali dove lavorano meno e con meno responsabilità: in tutta l’Umbria è rimasto un solo archeologo dove cinque anni fa ce n’erano otto”.

La Soprintendenza unica voluta a tutti i costi dal ministro Dario Franceschini fra proteste diffuse ha qui come segretaria una distinta archivista. Del resto del terremoto se ne occupa non il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, con Franceschini e con magari il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ma Matteo Renzi in prima persona, con al fianco l’archistar Renzo Piano. Non lo vedrete mai con un soprintendente. Il premier detesta “la figura più mediocre e grigia della burocrazia”; “un potere assurdamente monocratico”, come ha scritto pochi anni fa.

Per questo il ministero dei Beni culturali è ormai un vecchio corpo, indebolito dalla fame e dai continui interventi chirurgici, otto riforme, ultima la riforma-killer Renzi-Franceschini: conta appena 539 architetti per tutta Italia, un pugno in Umbria e Marche, ancor meno archeologi (384) e storici dell’arte (397), con una percentuale altissima, la metà, oltre i 60 anni e una bassissima di trentenni, fra il 2 e il 7 per cento. Da piangere. Tutti accorpati o in via di accorpamento ora nelle Soprintendenze uniche e quindi impegnati a disfare uffici, a trovarne altri, a dividerseli coi musei scissi dalle Soprintendenze perché valorizzazione e promozione non vengano “contaminate”, guai mai, dalla tutela.

Ora il commissario straordinario Vasco Errani – che viene da una situazione emiliana dove la ricostruzione delle fabbriche è stata rapida, mentre non pochi ritardi emergono per i centri storici – ha deciso di affidare la tutela ai Comuni. Gesto disperato. Sono i Comuni, in testa il sindaco di Matelica (Macerata), a reclamare più Stato, più interventi ministeriali efficienti e competenti. “Purtroppo si è sprofondati ovunque nell’ignoranza e nell’incompetenza”, commenta lo storico dell’arte spoletino, Bruno Toscano.

“Con Michele Cordaro, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro, facemmo realizzare vicino a Spoleto, a Santo Chiodo, un grande magazzino di 22 mila metri cubi, pagato dallo Stato, per il pronto intervento e il non meno pronto ricovero delle opere d’arte nelle chiese, nei conventi, nei palazzi terremotati. Sa cosa ci ha messo dentro la Regione Umbria? Le cartacce del proprio archivio”.

E ora molte opere d’arte sono ancora lì in mezzo alle rovine. Né si sono montati quei grandi tendoni impermeabili che, coprendo le macerie, le riparano dai furti e soprattutto dalle piogge, dalle intemperie, consentendo, loro sì, di recuperare colonne, capitelli, pezzi di tortiglioni e di sculture, cornici, fregi, e quant’altro servirà a una ricostruzione il più possibile filologica.

Una misura ormai di routine. E ora sono arrivate le piogge. Quel “ricostruiremo com’era e dov’era” rischia di essere, con questo personale politico e scientifico, soltanto una vaga promessa.

«Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente?» La Repubblica, 5 novembre 2016 (c.m.c.)
Il prossimo 7 novembre si aprirà a Marrakech la ventiduesima Conferenza delle Parti (Cop) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sinteticamente detta Cop22. La ventiduesima da quel 1994 in cui i governi si trovarono per ratificare gli Accordi di Rio. Obiettivo principale di quest’anno sarà dare seguito agli accordi siglati lo scorso dicembre a Parigi, che hanno rappresentato un passaggio storico, ancorché perfettibile, nella salvaguardia di un futuro per l’uomo su questo pianeta.
A distanza di quasi un quarto di secolo dal primo incontro, in Marocco farà finalmente il suo ingresso al tavolo dei negoziati anche l’agricoltura, buona ultima. Lasciando da parte l’amara constatazione che averci messo così tanto per comprendere la centralità della produzione alimentare nell’impatto sul cambio climatico non rende onore alla lungimiranza dei governanti del mondo, bisogna tuttavia anche segnalare un vulnus nell’impostazione della Cop22: se infatti finalmente all’ordine del giorno compare la produzione alimentare, questa è presente principalmente come comparto minacciato dalla crisi ambientale in atto.
Questo è senza dubbio vero, ma è un discorso monco se non si tengono presenti le responsabilità che questo settore ha nell’accelerare lo stesso cambiamento climatico. L’agricoltura (intesa nella sua accezione più ampia e dunque fatta anche di allevamento e pesca) incide sulle emissioni di gas serra per un terzo del loro valore complessivo, una cifra enorme che supera l’intero settore dei trasporti o della produzione di elettricità. Si può ignorare questo fattore? Volendo andare più nello specifico, poi, scopriamo come il 14,5% delle emissioni totali di gas serra sia dovuta alla sola produzione di carne. È evidente che questo modello di produzione non ha futuro, e che se vogliamo incidere oggi dobbiamo per forza di cose intervenire anche qui.
La Fao avverte che se il trend di consumo di carne proseguirà ai tassi attuali, entro il 2050 la quantità di carne prodotta e consumata raddoppierà dai livelli attuali, con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare. Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente? Di questo devono parlare i nostri governanti riuniti in Marocco. Altrimenti sarà l’ennesimo buco nell’acqua o poco più.

È necessario promuovere un modello alimentare differente, è necessario sensibilizzare a un minor consumo di proteine animali ma di migliore qualità, bisogna incentivare metodi di allevamento che siano a basso impatto ambientale, a ciclo chiuso e non intensivi, agroecologici e attenti al benessere animale. E attenzione, queste esperienze non sono da inventare, alcune esistono da migliaia di anni e ancora oggi rappresentano la grande maggioranza dell’intera produzione mondiale (l’agricoltura familiare produce ancora oggi il 70% del totale del cibo sul pianeta).

Fatte queste considerazioni sorge però spontanea un’altra riflessione: chi ha la responsabilità di fare il primo passo? Chi deve avviare per primo un percorso di contrazione? La risposta è una e una sola: i paesi dell’occidente industrializzato e ricco. Si sente da più parti affermare che Cina e India o altri paesi in via di sviluppo, vista la loro popolazione enorme e in crescita, dovrebbero rallentare e non imitare gli stili di consumo del nord ricco. Ma come si può essere credibili con un discorso di questo tipo? I paesi ricchi sono stati fino ad ora e sono ancora i principali responsabili delle emissioni e dunque del cambiamento climatico.
Questo è un fatto. E allora ci vuole un gesto di coraggio e di onestà, tocca a noi rivedere i nostri consumi e i nostri modelli di produzione, tocca a noi segnare la strada per un cambiamento effettivamente promettente per il futuro, tocca a noi tracciare una nuova traiettoria di sviluppo possibile per tutti, senza giocare al gioco dell’“iniziate voi e noi vi seguiamo”.
La ventiduesima Conferenza delle Parti è una nuova opportunità che va colta una volta per tutte, non possiamo certo permetterci di attendere altri ventidue anni nell’attesa che qualcuno si decida ad agire.

I "fondisovrani" (fondi finanziari di proprietà diretta di governi, e non di singoli investitori) sembrano eccitati dalle possibilità di diventare padroni a casa nostra, dove il mattone vale molto di più del grano duro, delle olive di Gaeta e del Lambrusco; non parliamo dei filosofi. Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016

Italia terreno di conquista di trophy asset da tenere a reddito e di operazioni di riqualificazione. È questa la view dei fondi sovrani internazionali sul nostro Paese. Mentre si sta facendo strada tra gli investitori istituzionali una cautela sul real estate italiano indotta soprattutto dall’esito dell’imminente referendum costituzionale e dalla ripresa ancora rinviata della crescita economica. Una cautela emersa dalle relazioni ascoltate nei numerosi convegni sul real estate che si sono tenuti negli ultimi giorni. Non dimentichiamo però che a complicare la situazione ci saranno anche le prossime elezioni in Francia, prima, e in Germania, poi, per restare in un ambito esclusivamente europeo.

I fondi sovrani, invece, hanno fatto shopping negli ultimi anni nel nostro Paese e intendono continuare a farlo. Cogliendo di volta in volta le occasioni che il mercato ancora offre. Non dimentichiamo poi che al momento sul mercato sono arrivati o stanno arrivando una serie di portafogli già pronti, alcuni a reddito altri destinati a operatori opportunistici, che potrebbero risultare interessanti. Dal portafoglio Cdp, con le caserme Mameli e Guido Reni al fondo Cloe, passando per il pacchetto da 500 milioni di euro di uffici propri che vende Intesa Sanpaolo.

«Investiamo in maniera diretta e indiretta in grandi progetti - ha spiegato Ruslan Alakbarov, a capo della divisione real estate di State oil fund of Republic of Azerbaijan, al convegno organizzato dal gruppo Coima qualche giorno fa -. Puntiamo sul real estate spinti anche dal cambiamento nei rendimenti delle diverse asset class di investimento. Valutiamo nuovi mercati, Milano è uno di questi. Analizziamo le potenzialità: per esempio nel centro di Milano, dove abbiamo acquistato Palazzo Turati (affittato alla Camera di commercio), non si può costruire molto e aumentare l’offerta di uffici».

I fondi sovrani negli anni hanno accumulato un discreto portafoglio sull’Italia. Primo fra tutti il fondo sovrano del Qatar che ha iniziato a investire nel settore alberghi - il primo acquisto nel 2006 è stato quello dell’hotel Gallia di Milano, al quale hanno fatto seguito le acquisizioni dei quattro hotel di lusso della Costa Smeralda , del Four Season’s di Firenze e del Westin Excelsior di Roma - per poi acquistare filiali bancarie, uffici e il complesso di Porta Nuova a Milano.

«L’Italia, come Francia, Uk, Spagna e Germania, è per noi un Paese “core” - dice Madeleine Cosgrave, managing director Europa per Gic (Government of Singapore Investment corporation) -. Vogliamo creare un portafoglio immobiliare focalizzato sull’Italia, ma il Paese richiede tempi lunghi per realizzare un deal e per avere accesso al debito». Per adesso Gic detiene il 100% del centro commerciale Romaest a Roma.

Manca ancora sul nostro territorio il fondo sovrano norvegese, il più grande al mondo con 820 miliardi di euro di valore stimato a fine 2016, che però sta valutando l’immobiliare italiano.

Il real estate nel nostro Paese arriverà a registrare a fine anno un volume di investimenti di circa otto miliardi di euro, in aumento sull’anno scorso. Nel 2016 bisogna però registrare un calo degli investimenti dei fondi sovrani rispetto ai volumi consistenti del 2015. Tra i fondi sovrani che investono nel nostro Paese c’è Adia (Abu Dhabi investment authority), guidato in Europa da Pascal Duhamel. Adia ha acquistato a Milano, tramite Coima Sgr, il palazzo dell’Inps di via Melchiorre Gioia a Milano che sarà abbattuto e ricostruito .

La preferenza per il mattone è una tendenza che i fondi sovrani mostrano a livello mondiale. Secondo il Sovereign Annual Report 2015 della Bocconi nel 2015 i fondi sovrani hanno concentrato il 56,9% degli investimenti in real estate, hotel e strutture turistiche, infrastrutture e utility, settori che offrono ritorni nel lungo periodo, pagando un premio per l’illiquidità dell’investimento.

    «Nel nuovo piano della regione guidata da Roberto Maroni, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità, in barba alle linee guida europee e al flop della Brebemi». Sbilanciamoci.info, 3 novembre 2016 (p.d.)

    Non se ne sono accorti in molti, ma nel settembre scorso è stato varato il piano dei trasporti della regione Lombardia, guidata dal leghista Roberto Maroni. Un documento ambizioso, che rimedia a 34 anni di vuoto programmatorio con una lista ipertrofica di opere e, soprattutto, con una colata di asfalto come non se ne vedevano dagli anni Sessanta. Il fatto è degno di nota, anche perché rischia di fare scuola nel resto del paese. Quanto poi sia realistica la furia asfaltatrice della giunta Maroni è un tema di cui si occuperanno le prossime generazioni, magari per coprire i buchi lasciati dagli attuali amministratori. Intanto però, in un sostanziale silenzio mediatico, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità in Lombardia, in barba alle linee guida europee su trasporto e ambiente e del tutto incuranti del flop di Brebemi, Tangenziale Esterna (Teem) e Pedemontana (lotti A e B1), tre autostrade costate quasi 10 miliardi di euro e ben lontane dal pareggio di bilancio.

    Lo dicono anzitutto i numeri. Nei prossimi anni sono previste 331 km di nuove autostrade, su 715 di dotazione esistente (+46%), incluse arterie che sembravano estinte naturalmente come la Cremona-Mantova o la Broni-Mortara (bocciata recentemente anche dal Governo in sede di valutazione ambientale). Costo complessivo: 10,9 miliardi, di cui 3,5 provenienti da Stato, Regione o Anas, cioè dalle tasche dei cittadini. Il resto dovrebbe arrivare dalla banche, che al momento non si sognano nemmeno di mettere soldi su operazioni (quasi certamente) in perdita.

    Nel complesso, strade e autostrade assorbiranno 17,6 miliardi di investimenti, dei quali 15,9 per nuovi lavori (cioè non riferibili a opere già cantierate). Ben 7,7 miliardi saranno soldi pubblici provenienti, nell’ordine, da Anas (quasi la metà), Stato, Province, Città Metropolitana, Serravalle e Regione.

    Alle ferrovie invece sono destinati 15,9 miliardi, di cui solo 7,3 per nuovi lavori, ossia programmati dalla Regione. Ma ben 8,2 miliardi finiranno all’Alta velocità Treviglio-Verona e Milano-Genova e 11,7 miliardi saranno a carico delle ferrovie nazionali (Rfi). Altri 2 miliardi andranno al solo nodo di Milano e 1,2 miliardi al rinnovo del materiale rotabile. Dunque per le tratte locali, quelle di gran lunga più utilizzate e con trend in costante crescita, sono previsti 7,7 miliardi, incluse opere contestate ed impattanti come il traforo del Mortirolo (300 milioni).

    È evidente che alla “cura del ferro” lanciata (per ora in gran parte a parole) dal ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, la giunta lombarda preferisce la collaudatissima “cura dell’asfalto”.

    E’ appena il caso di ricordare che la Svizzera ha appena inaugurato il tunnel ferroviario di base del Gottardo, il più lungo del mondo, e nel 2020 aprirà quello del Ceneri: entrambi scaricheranno sulla linea transfrontaliera Italia-Svizzera fino a 260 treni merci al giorno (oggi sono 180) e già nel 2020 i convogli giornalieri merci e passeggeri saliranno a 390, 100 in più rispetto ad oggi. Per reggere in sicurezza tali flussi è previsto il quadruplicamento della Chiasso-Milano e il raddoppio di alcune tratte sulle direttrici Luino-Gallarate e Luino-Novara. Il costo previsto è di 4,2 miliardi (1,4 per la Milano-Chiasso) ma c’è un problema: in cassa ci sono solo 175 milioni, appena sufficienti per adeguare le infrastrutture al passaggio di treni più lunghi e pesanti dal Nord Europa. Insomma, se ne riparlerà nel 2023, sempre che si trovino i soldi, con taglio del nastro nel 2030.

    Ma per restate all’oggi, si fatica a trovare anche 1,5 miliardi per rimettere a nuovo i treni locali, spesso fermi o in ritardo per la vetustà del materiale rotabile. Un ragionamento analogo potremmo farlo per la manutenzione delle strade ordinarie, di cui si dibatte in questi giorni dopo il crollo del ponte sulla statele 36 Milano-Lecco, per le quali quali lo Stato centrale ha destinato appena 250 milioni. Al contrario, sulla triade Brebemi-Pedenmontana-Teem, Stato e Regione hanno già messo sul piatto la cifra monstre di 1,95 miliardi. Questione di priorità.

    E visto che, tornando al piano regionale, sulle ferrovie mancano all’appello 9,7 miliardi e sulle strade 10,5 miliardi, di cui 5,5 pubblici, bisognerà fare delle scelte, uscendo per un attimo dal libro dei sogni nel quale sembra caduta la giunta lombarda. E a quanto pare la strada, appunto, sembra tracciata: autostrade e alta velocità.

    A meno di pensare che davvero abbiamo bisogno di 330 km di nuove autostrade. Ironia della sorte, a smentire questa ipotesi è in gran parte la stessa Valutazione ambientale strategica allegata al piano regionale, che dovrebbe giustificarne le scelte ma finisce per contraddirle. Con dovizia di numeri e grafici essa ci mostra come nell’ultimo quindicennio sia cresciuto sensibilmente l’uso del treno – grazie anche alle nuove linee suburbane – mentre si sono ridotti gli spostamenti in auto. E, dato interessante, i comuni maggiormente serviti dal trasporto pubblico e dalla ferrovia presentano un minor tasso di motorizzazione. Come a dire: quando c’è un servizio pubblico che funzione la gente è ben disposta a rinunciare all’auto.

    Occorre poi sfatare il mito del cosiddetto “gap infrastrutturale”.L’Italia ha una densità autostradale (km rispetto alla superficie) pari a quasi tre volte la media europea, ma la Lombardia è al terzo posto in Europa con 30 km ogni 1000 km quadrati, dopo Germania e Paesi Bassi. Con le nuove arterie salirebbe al secondo posto, distanziando abbondantemente i tedeschi. Ma a costo di autostrade deserte, nuovo debito pubblico, aria inquinata e almeno 8.000 ettari di suolo compromesso, in un’Europa che sta andando in tutt’altra direzione. Se questa è l’eccellenza lombarda.

    Roberto Cuda è autore di “Anatomia di una grande opera. La vera storia di Brebemi”, ed. Ambiente

    La Repubblica online, blog "articolo 9", 3 novembre 2016

    Pubblico di seguito una lettera del professor Antonio Borri, Ordinario di Scienza delle Costruzioni nella Università degli Studi di Perugia e Presidente del Centro Studi Mastrodicasa.

    «Caro Prof. Montanari,

    ho letto i suoi articoli riguardanti la mancata tempestività del MiBACT ad intervenire con le messe in sicurezza delle chiese nell’Italia centrale, in particolare in Valnerina, e le scrivo per dare un contributo a questo tema.

    Conosco, almeno in parte, la situazione, dato che in questi ultimi due mesi ho coordinato una squadra di ingegneri strutturisti che a partire dai primi di settembre ha fornito un supporto tecnico ai funzionari del MiBACT incaricati di effettuare i rilievi dei danni al patrimonio culturale colpito dal sisma.

    Credo sia giusto riconoscere anzitutto l'abnegazione e la competenza di questi funzionari del Ministero e delle Soprintendenze che si sono resi disponibili a fare i sopralluoghi in condizioni di notevole rischio, spesso rimettendoci peraltro di tasca propria, sotto la formula – già questa fonte di molte perplessità – del “volontariato”.

    Noi strutturisti universitari che li abbiamo accompagnati ci siamo presi, insieme al rischio fisico, anche la responsabilità di valutare l’agibilità o meno di queste costruzioni e di indicare le eventuali necessità di provvedimenti di pronto intervento. Il tutto, ovviamente, a titolo gratuito e volontaristico, come peraltro avevamo fatto nei sismi degli anni passati.

    In questi ultimi due mesi abbiamo visto quasi tutte le chiese della Valnerina, e in molti casi erano necessari interventi rapidi, quanto meno per mettere in salvo i beni mobili.

    Spesso, purtroppo, a queste indicazioni e a queste proposte di provvedimenti non è seguito alcunché.

    L’ultima scossa di magnitudo 6.5 ha causato il crollo di moltissime di quelle chiese che avevamo esaminato, e, guardando indietro, non posso evitare di fare un amaro bilancio: tutto il lavoro svolto, con tutti i rischi connessi, non è servito assolutamente a nulla.

    Posso dire che mai, nel futuro, ci presteremo ancora a supportare filiere così inefficienti e inadeguate.

    Adesso è giusto domandarci: se fossero stati fatti subito interventi di prevenzione nei confronti di eventuali nuove scosse (peraltro previste dai sismologi) si potevano evitare questi crolli?

    In molti casi la risposta è negativa; l’intensità dell’evento del 30 ottobre è stata elevatissima ed intervenire in emergenza su questi manufatti, specie quando sono così numerosi, è davvero problematico, se non impossibile. Al di là dei problemi burocratici per avviare le procedure amministrative per i progetti ed i lavori (come sappiamo, quando in Italia si vogliono fare i lavori di urgenza si fanno…) non sarebbe stato comunque possibile trovare tecnici ed imprese che in poco tempo potessero intervenire dappertutto.

    È vero però - e qui mi riallaccio alla sua indignazione - che per molti casi si poteva realisticamente sperare in esiti migliori. Ad esempio, se fin dall’inizio fossero state individuate le chiese maggiormente significative e rilevanti, si poteva intervenire in modo adeguato almeno su queste.

    Difficile dire come sarebbe andata, ma certo era assolutamente doveroso tentare.

    E sarebbe bastato salvarne uno, anche solo uno, di questi capolavori storico-architettonici, per poter dire, adesso, che (almeno) qualcosa avevamo fatto. E invece: nulla, e quello che è avvenuto supera purtroppo di gran lunga, per quanto riguarda i crolli delle chiese, i danni sismici dell’Aquila.

    Certamente colpisce la lentezza e la farraginosità del processo decisionale al Ministero, con rallentamenti, sovrapposizioni, rimbalzi e stasi che sono inaccettabili per situazioni come queste.

    Non si capisce, francamente, come mai, dopo una serie continua di eventi drammatici e distruttivi (Umbria-Marche, L’Aquila, Emilia) il MiBACT ancora non abbia messo a punto, come invece ha fatto da tempo la Protezione Civile, una macchina operativa efficiente e snella.

    Sino ad ora tutto sembra procedere invece, almeno dal punto di vista sistemico-burocratico (non come impegno, encomiabile, dei singoli) come se fossero nell’ordinario, ovvero “bradipo-like”.

    Concludo facendole io una domanda: la ricostruzione di queste chiese ridotte a rovine, che peraltro costerà centinaia di milioni di euro, cosa ci restituirà di quel patrimonio che avevamo?

    Temo di conoscere già la sua risposta….

    Un cordiale saluto.

    Antonio Borri»

    «“La crisi ecologica nasce dalla nostra separazione da ‘madre natura’. Ogni anello della catena della biodiversità è minacciato di privatizzazione e mercificazione”. Arriva in libreria “La Terra ha i suoi diritti”, l’ultimo libro-intervista di Vandana Shiva. Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo “Pace, democrazia, attivismo”». Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2016 (p.d.)

    Si parla di guerra per indicare campi di battaglia come la Siria, la Libia, l’Ucraina, l’Iraq o l’Afghanistan. Ma la più grande guerra che attualmente si combatte è quella contro il nostro pianeta. Poche multinazionali cercano di assicurarsi il controllo delle risorse della Terra in spregio dei più elementari limiti etici ed ecologici. La nostra acqua, i nostri geni, le nostre cellule, i nostri organi, le nostre conoscenze, la nostra cultura e il nostro futuro sono direttamente minacciati come su un campo di battaglia tradizionale. Non vede l’onnipresenza e la retorica guerriera dell’agroindustria? Che diventa palese quando si citano i nomi degli erbicidi di Monsanto: Roundup (“retata”, “razzia”), Machete, Lasso (“lazo”). Le industrie che producevano veleni ed esplosivi per uccidere durante le guerre sono le stesse che oggi fabbricano prodotti agrochimici. Negli anni Sessanta, Monsanto produceva in particolare l’Agente Arancio, scaricato dall’aviazione statunitense sulle foreste vietnamite durante la guerra per avvelenare gli alberi e gli uomini che essi proteggevano. Oltre ai numerosi tumori e malformazioni provocati all’epoca, molti altri casi fanno ancor oggi la loro comparsa.

    I pesticidi hanno origine nelle armi chimiche: è utilizzando il cloro durante la Prima guerra mondiale (per esempio nell’iprite) che sono state messe in evidenza le proprietà insetticide dei composti a base di cloro, in seguito abbandonati, tra cui il Ddt, largamente diffuso prima di venire proibito. In seguito, l’ingegneria genetica ha preteso di offrire un’alternativa ai prodotti tossici. In realtà ha incrementato l’utilizzo di pesticidi ed erbicidi. Intanto gli Stati sostengono sempre di più i grandi gruppi nella loro marcia verso l’accaparramento delle risorse. È emerso un potere che coalizza Stato e industria per imporre le sue priorità al pianeta e ai popoli. Lo constatiamo senza timore di smentita in India, dove l’esercito è regolarmente chiamato a intervenire per espropriare le popolazioni che risiedono sui territori adocchiati dalle imprese. Ma il metodo è identico quando manifestanti greci o spagnoli subiscono gli assalti delle forze dell’ordine anche se non fanno che denunciare un’evidenza: le crisi economiche, alimentari, finanziarie sono lì a dimostrare che il sistema è agli sgoccioli e che una crescita senza limiti è impossibile su un pianeta dalle risorse limitate.

    Gli scienziati hanno annunciato che siamo entrati in una nuova era: l’Antropocene. Ciò significa che le conseguenze chimiche, urbane, nucleari dei nostri stili di vita rimarranno incise negli archivi geologici del pianeta per migliaia di anni.

    Eppure, anche tra quanti ammettono questa verità e il dato che l’umanità si trova in un’impasse esistono quelli che reagiscono ancora in maniera bellicosa, per esempio con la geoingegneria. Si rifiutano di abbassare le armi per lasciare che la natura si rigeneri e auspicano una lotta tecnologica contro i fenomeni naturali. Progettano interventi su grande scala per influenzare il sistema climatico e rallentare il riscaldamento: avvolgere la Terra di particelle di solfato per raffreddare il pianeta, inseminare di ferro gli oceani per stimolare il fitoplancton, o catturare il carbonio accumulato nell’atmosfera.

    Manipolazioni che sono frutto di una totale mancanza di umiltà e di un’arroganza illimitata. Sono il sintomo di una perversione etica ed ecologica. Chi le promuove vede nell’uomo, una volta di più, il proprietario e padrone della natura, non un elemento che ne fa semplicemente parte. Di conseguenza, difendere i diritti della Terra Madre è la lotta più importante, tanto per l’ambiente come per i diritti umani e la giustizia sociale. Tenendo conto di tale contesto, è questa la lotta con le maggiori chance di portare a una pace duratura e a una situazione di stabilità.

    «Terremoto. La natura non si addomestica, e la modernità del secolo "superbo e sciocco" usa il verbo sbagliato: dominare anziché convivere. Nel pastore che non vuole lasciare la terra del terremoto c’è una saggezza che noi moderni chiamiamo ignoranza. E’ la saggezza di chi non vuole morire orfano». il manifesto, 3 novembre 2016 (c.m.c.)

    Sono in corso due grandi guerre: quella di uomini contro altri uomini e quella degli uomini contro la Natura. Apparentemente diverse, combattute con armi diverse, esse sono riunificate sotto il medesimo obiettivo: il dominio. La prima guerra continua oggi in modi del tutto simili al passato; la differenza sta nelle armi usate. Non più solo armi da fuoco; ora con più potenti armi finanziarie capaci di ridurre interi popoli in ginocchio, affamarli senza versare sangue.

    E c’è una lotta contro la natura che ha data più recente. Allorché l’uomo, entrato nella Modernità, ha immaginato di dover essere il proprietario del pianeta che lo ha generato: il Libro della Natura è scritto nei simboli della matematica, affermava Galilei. Una guerra questa volta «giustificata» dalla necessità dello Sviluppo e del Progresso: secolo superbo e sciocco, aveva chiamato Leopardi questa nuova era di dominio dell’uomo.

    Ora queste due guerre si sono unificate in una sola guerra: la guerra contro il vivente, o contro il Creato (per chi ha fede), sia esso rappresentato da umani, sia da ogni forma di manifestazione della natura. A tal punto le due guerre si sono unificate, che resta difficile distinguere l’una dall’altra. I migranti ne sono prova: sono in molti a sostenere che essi sono tutti migranti ambientali, ovvero fuggono da territori diventati inospitali, per cambiamenti climatici, per eccessivo sfruttamento di risorse da parte dei Conquistatori (razza speciale di umani), per mancanza di cibo, acqua, per dittature odiose.

    La seconda di queste guerre avrà una fine già segnata: la vittoria della Natura, perché è una guerra asimmetrica, perché la creatura che distrugge l’ambiente, distrugge se stessa; è come segare il ramo dell’albero su cui si è seduti. Non abbiamo un altro pianeta verso il quale emigrare: questo solo ci è dato. E’ ancora Bateson a ricordarci che viviamo in una casa di vetro e, in una casa di vetro, prima di tirare i sassi bisogna pensarci bene.

    Il «mostro» è stato chiamato quella forza oscura e potente che nasce dalle viscere del pianeta e colpisce alla cieca il suolo dove si svolge la vita, scuotendolo e contorcendolo come fosse cartone; ridisegnando nuove geografie, indifferente a tutto ciò che l’uomo ha prodotto, comprese le sue opere d’arte. E già averlo definito «mostro» ci fa apparire bambini spauriti.

    Da sempre alla Natura è stato conferito un doppio nome: benigna quando essa ci dona i suoi frutti; maligna, e ora «mostro», quando svela il suo volto feroce. Stiamo assistendo alla scomparsa degli Appennini, qualcuno profetizza. Ma una volta gli Appennini non c’erano. Se solo si alza lo sguardo oltre gli anni che definiscono una vita, si capisce che la natura non si addomestica, ha i suoi ritmi, la sua vita: l’hanno chiamata Gaia pensandola come un gigantesco organismo vivente.

    Ora è tempo di lutto e di silenzi. Il dominio sulla natura ci appare del tutto fuori misura. E fa riflettere quel pastore, o quell’anziano, che non vuole abbandonare la propria casa. C’è una saggezza, che noi moderni chiamiamo incoscienza, o peggio, ignoranza: vuole continuare a convivere col «mostro», come hanno fatto, prima di lui, i suoi antenati. Perché perdere la propria dimora, il proprio tetto e la propria terra è rimanere orfani per sempre, vuol dire morire orfani. Ci vuole un anziano o un pastore per riconoscere questa sensazione, per sentirsi in sintonia con la natura anche quando essa mostra il suo volto spietato e indifferente e ci vuole un paese dove vivere.

    Convivere è il verbo giusto, dominare quello sbagliato. La Modernità ha confuso i verbi; la Natura ci restituisce le giuste coordinate. In questi giorni, incollato alla televisione, mi sono più volte fatto la stessa domanda: dove sono gli animali in quei territori devastati: che siano emigrati anche loro?

    Ritratto di città italiana, una volta bellissima. Le forze che, maneggiando governanti complici o inetti, la stanno distruggendo. Questa, come tante altre. La città invisibile, 2 novembre 2016


    Le città, le conurbazioni, le areemetropolitane sono agglomerati densi e in continua evoluzione. I soggetti dellatrasformazione sono innumerevoli e difficilmente riconducibili a schemiprefissati. Centrale dovrebbe essere il ruolo di governo degliorganismi elettivi, svolto in nome dell’interesse generale dellepopolazioni insediate, al di là delle pressioni del mercato, dei gruppi socialied economici più influenti e del tornaconto politico delle scelte fatte. La tensione al bene comune dovrebbe orientare le politichepubbliche della città, non disgiunte da un profondo senso di equità sociale.
    In questi ultimi anni, invece, leamministrazioni centrali e locali, in nome di un maggior grado di libertà dellescelte e della loro rapida esecuzione, hanno smantellato gran parte delleforme di governo della cosa pubblica, e delle garanzie democratiche correlate,a favore della subordinazione al dominio della finanza e del mercato.
    Le politiche urbane si sono adeguate! Larigida pianificazione per aree funzionali (residenza, industria, ecc.),ampiamente insoddisfacente, ha lasciato il posto a quella che definisco Urbanistica del Proponente: il progetto dicittà è indicato da coloro, gruppi finanziari e immobiliari, che ormai si sonosostituiti all’amministrazione locale nella proposizione delle politicheurbane. Quest’ultima ha solo la funzione residuale di ratificare o diincentivare le scelte private, nella speranza di elemosinare entrate fiscalisupplementari con cui tappare qualche buca stradale, sistemare qualchegiardino, provare a ripianare i bilanci comunali dissestati, alimentare ilsottogoverno locale. E i cittadini dovrebbero stare a guardare!
    In questo senso Firenze, con le amministrazioni Domenici, Renzi e Nardella, fiancheggiate dalpresidente Rossi, è stata e continua ancora ad essere unmodello.
    Gli inutilmente elefantiaci pianiurbanistici, illeggibili e privi di alcuna visione integrata, si sono succeduticonsegnandoci una città dal cui Centro Storico, ognianno, circa mille fiorentini scappano in cerca di altri luoghi,forse più accoglienti e vivibili. La pressione di nove milioni di presenzeturistiche nell’ultimo anno, circa 25 mila ogni giorno, scoraggia qualsiasiespressione di attaccamento alla città di Firenze. Se a questa sommiamol’inconsistenza delle politiche pubbliche, il gioco è fatto. Non un progettodegno di questo nome, di respiro internazionale, è riuscito a rianimarel’esangue spirito dei fiorentini.
    Provincialismo, subordinazione eaccentramento del sottogoverno sonola cifra preponderante delle varie amministrazioni di centro sinistra che ormaida tanti anni ci governano.
    Le questioni che oggi emergono sono quellerelative ad una incontrollata crescita interna della città nellearee che hanno cambiato le funzioni o sono state abbandonate a se stesse,originando pericolosi fenomeni di degrado sia fisico che sociale. Si tratta dipalazzi storici, fabbriche dismesse o ampie zone della città in cui l’azione digoverno del territorio si è di fatto ritirata favorendo da un lato la svenditadel patrimonio immobiliare pubblico e dall’altro la gentrificazione di intere aree urbane, o addirittura disingoli isolati, strade o piazze.
    La gentrificazione, ossia la produzione di spazio urbano per utenti sempre più abbienti attraversola sostituzione/espulsione dei residenti storici e delle attività commerciali aquesti legate, sta diventando un fenomeno preoccupante perché crea conflittitra i residenti e gli utenti dell’area, conflitti che il più delle voltegiocano a favore solo della “valorizzazione speculativa”dell’area stessa o della strada.Solitamente si tratta di enclaves a prevalente tessuto popolare o con unacospicua presenza di immigrati in cui si manifesta un certo disagio sociale,una rarefazione delle relazioni sociali, un ritrarsi dei residenti entro lesicure mura domestiche. Lo spazio pubblico a volte viene colonizzato da unamicrocriminalità urbana, spaccio degli stupefacenti compreso, che indubbiamente deve essere neutralizzata, ma da nonidentificare tout court con la presenzadegli immigrati.

    Questa sarebbe una grave espressione di xenofobia e di miopia, amplificata a dovere dalla stampa locale, che in alcunicasi non è del tutto disinteressata. Tutto ciò crea un conflitto tra poveri,tra coloro che subiscono la gentrificazione e che al termine della “valorizzazione” saranno tutti costretti a trasferirsi osaranno brutalmente espulsi.
    In molti casi si moltiplicano le richiestedi decoro contro il degrado, si moltiplicano le ordinanze sulla sicurezzaurbana che delineano invece una visione di governo preoccupata più dell’immagine che di risolvere problemi veri e complessi, come l’eccesso di turisti, la movida giovanile e l’ambulantato abusivomediante politiche di integrazione ai varilivelli, urbanistico, sociale, delle politiche giovanili e culturali.
    Sappiamo quali sono a Firenze le aree a rischio gentrificazione, dalpopolare quartiere dell’Oltrarno all’area di San Salvi, dalla ManifatturaTabacchi a Via Palazzuolo, Piazza Brunelleschi, Via Panicale e Sant’Orsola, ExPanificio Militare, la zona di Novoli-Via Forlanini, e tante altre.
    Insomma tantissimi complessiarchitettonici e aree per le quali la gentrificazione si presenta come l’unicapolitica urbana e sociale, visto che le amministrazioni sanno solo svendere il nostro patrimonio a favore di alberghi di lusso, di ambigui ostelli e case di riposo dilusso, come se il lusso fosse garanzia di qualificazione del tessuto urbano.
    NO, questo è il vero degrado della vitacittadina, la saturazione turistico ricettiva delCentro Storico e della stessa città in nome di profittiimmobiliari e commerciali ottenuti sulla pelle degli abitanti, vecchi e nuovi.
    Aumentano gli affitti degli immobili,aumenta il costo delle abitazioni, aumenta il numero degli sfratti, aumenta ilnumero dei senza tetto e delle famiglie espulse: questa è la spirale involutivadella gentrificazione che le amministrazioni e i residenti meno attenti nonvogliono vedere. Anzi!
    In via Tornabuoni alcuni locali sonoaffittati a 840 mila euro l’anno, cifrepazzesche che fanno il vuoto intorno. Non a caso Tiziano Terzani amavaricordare: «Sono così pazzo che per protestare contro il degrado di Firenze edella mia amata via Tornabuoni, dove una delle più belle librerie di Firenze,la Seeber, è stata sostituita da un negozio che vende mutande firmate, ognivolta che ci passo davanti apro la porta e urlo dentro: Vergogna!».Ormai Terzani non c’è più, ma ci siamo ancora tutti noi a ricordare quanto staaccadendo.
    Le ondate di gentrificazione hanno deicosti elevati anche sulle aree contermini, su cui si scaricano lecontraddizioni di quanto accade a Firenze, nella patinata luxury town rinascimentale! Neicomuni della corona circolare aumenta il consumo di suolo per le nuoveresidenze, aumenta la pendolarità e quindi la congestione del territoriocircostante, come nel caso della Piana Fiorentina, in cui, non a caso, sonostati rilevati i più alti tassi di inquinamento atmosferico d’Europa.
    Nonostante ciò, la concitata vogliafiorentina del “fare” (danni!) regalerà a questosistema territoriale anche un aeroporto intercontinentale e un mega inceneritore,tanto per non farsi mancare nulla, mentre ancora non si sa come andrà a finirela questione della TAV.
    A questo punto è l’intera areametropolitana ad essere coinvolta dalle varie ondate gentrificatorie. A partireda una pianificazione labile, “on demand” da partedella speculazione immobiliare, sono giustificati interventi slegati tra loro.Questi potenziano la rendita fondiaria non solo dellearee centrali del sistema territoriale, ma anche di alcune fasce periferiche econtermini su cui si abbattono le richieste indotte dal marketing territorialedell’area centrale. La pesante infrastrutturazione della Piana in questo sensoè funzionale perché dovrebbe provvedere, portando da 2 a 4 milioni i passeggeridel nuovo aeroporto, a fornire ulteriori utenti a questa catena di montaggio internazionale della gentrificazione diFirenze!
    Un cambio di prospettiva si rende semprepiù necessario: l’estensione della sfera pubblica, istituzionale oautorganizzata, nella vita della città deve poter garantire le fasce più deboli della popolazione, immigraticompresi. Difesa degli affittuari, rigenerazioni urbane chepongano al centro l’offerta di edilizia residenziale pubblica e non glialberghi di lusso, pianificazione delle attività commerciali tale da favorirequelle di vicinato, previsione di forme intelligenti di autorecupero degli immobili,anche di quelli più significativi.
    Insomma è necessaria una azione politica coraggiosa, aperta alle sperimentazioni, direspiro europeo, realmente democratica e profondamente equa cheperò queste asfittiche amministrazioni di centro sinistra non sono in grado digarantire.
    «Il sisma è un evento naturale che, certo, è difficile prevedere ma si può e si deve fare prevenzione per salvare vite umane; la guerra invece è un "terremoto" ma voluto e prodotto dagli uomini». il manifesto, 2 novembre 2016 (c.m.c.)

    Dall’epicentro Italia si irradia una condizione di concreta e profonda instabilità materiale, subito fisica e sensoriale prima ancora che di prospettiva sull’incerto futuro per decine di migliaia di persone costrette alla fuga, alle quali è letteralmente cascato il mondo e cascata la terra. E non è un girotondo. Il clima di incertezza è la costante e l’inverno è arrivato nelle aree del terremoto.

    Ci si chiede che fare di fronte a tanta disperazione. E come, da parte nostra, essere all’altezza di una tale crisi. Così, mentre apprezziamo che ci sia «unità» istituzionale iniziata con la dichiarazione della presidenza del consiglio che «l’unico possibilità è non dividersi ma rispondere insieme alla sfida», tuttavia rimaniamo quantomeno contraddetti dalle iniziative fin qui annunciate. Senza dimenticare che siamo nel clima del referendum il cui voto si approssima, per un plebiscito che – mentre si chiede il concorso di tutti – divide e spacca il paese e soprattutto prepara una «democrazia di nominati», mentre la tragedia del sisma proprio in queste ore mostra invece la necessità di poteri reali, voluti e controllati direttamente dai cittadini; com’è per il ruolo dei sindaci, unica, ancora, vera esperienza di democrazia in Italia.

    Il consiglio dei ministri annuncia nuove spese per l’emergenza, dopo avere evocato, solo a parole, il progetto di Casa Italia, annunciato due mesi fa dopo il terremoto di Amatrice.

    Resterà anche questo, è bene saperlo, promessa e lettera morta nonostante ormai rappresenti la vera necessità del Paese ferito che non vuole perdere lavoro e identità culturale. Perché nasce sotto la cattiva filosofia dell’emergenza, della difesa del nostro territorio volta a volta, sotto i riflettori delle tv. Mentre la questione del sisma è strutturale, come dimostra la storia italiana. Dove, ogni volta, c’è «bisogno» di un terremoto perché si metta mano ad un piano che difenda l’assetto storico abitativo del Belpaese. Siamo forse costretti a parlare d’ora in poi di utilità del terremoto? Soprattutto, Casa Italia resterà lettera morta se non si avvia revisione mirata e progettuale della spesa finanziaria.

    Nel senso che, di fronte alla necessità di Casa Italia, che pretende brigate di ingegneri, battaglioni di geologi e vulcanologi, un esercito di geometri e un’armata di operai, edili e metallurgici, specializzati, mentre subito servono tende e casette, alloggiamenti sulla costa, macchine movimentazione terra, schiere di vigili del fuoco, presidi di medici e assistenti sanitari, ci chiediamo perché questo paese debba avere in finanziaria il costo di 15 miliardi per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F-35.

    Qualcuno, a cominciare dal governo Renzi per favore ci risponda. E non con le chiacchiere che la spesa sarebbe «spalmata per molti anni». La necessità non è il cacciabombardiere ma il soccorso e l’aiuto, l’assistenza e la ricostruzione.

    L’esempio del costo degli F-35 non sembri capzioso. Il paragone invece viene proprio da paesi distrutti dal sisma: la nuvola di polvere e fumo che si è sollevata dai centri precipitati al momento delle scosse è stata più volte paragonata a quella di un bombardamento. Solo che il sisma è un evento naturale che, certo, è difficile prevedere ma si può e si deve fare prevenzione per salvare vite umane; la guerra invece è un «terremoto» ma voluto e prodotto dagli uomini.

    L’unica vera difesa dell’Italia è questa, non l’offesa della guerra in territori altrui, come da nostra Costituzione. E ora perché il conflitto con l’Unione europea non sembri una moina per apparire antagonisti in occasione del referendum, cominciamo a modificare i contenuti e la filosofia della finanziaria d’austerità: via il fiscal compact messo nella Costituzione, via ogni vincolo di bilancio.

    E via la spesa di 15 miliardi per i cacciabombardieri F-35 a fronte di tre miliardi – solo sulla carta – destinati alla ricostruzione e ai terremotati. Se casca il mondo e casca la terra, tutti giù per terra. Ce lo chiede la disperazione dell’epicentro Italia.

    «
L’elaborazione concettuale di un’indiscutibile emergenza non può cancellare la necessità di un lavoro in un tempo diverso, non deve diventare rimozione frettolosa e superficiale delle complessità che le macerie portano con sè». comune-info.net, 1 novembre 2016 (i.b.)

    In pochi secondi una scossa di terremoto può sconvolgere la vita e l’aspetto di un paese. Un cambiamento drastico, brutale, istantaneo. Un terremoto può cancellare gran parte del nostro mondo e imporci di ripartire quasi da zero, per recuperare quanto perduto, al più presto. Vista così, alcune strade da percorrere possono sembrare obbligate, altre possono apparire logiche, rassicuranti. Ma forse in questo quadro manca qualcosa. Forse osservando meglio, potremmo eliminare alcune illusioni prospettiche. La prima distorsione nella nostra visione abituale riguarda il tempo del terremoto.

    Una scossa dura pochi secondi: quel che accade spesso è così veloce da non darci modo di reagire opportunamente, di renderci conto chiaramente; in pochi secondi avviene qualcosa di assolutamente sconvolgente e totalmente “trasformante”. Però il tempo del terremoto non è quel che noi vediamo: sotto terra, il terremoto cresce e si prepara in moltissimi anni, in tempi geologici, con forze gigantesche e lentissime. Non possiamo pensare di rispondere a tempi così lunghi, forze così grandi, trasformazioni così profonde, con azioni rapide, soluzioni veloci, senza lunghe preparazioni. La prospettiva del nostro dialogo col terremoto non può che essere in tempi lunghi. 
L’idea delle soluzioni in emergenza è in parte obbligata (non si possono lasciare persone che hanno perso tutto in condizioni di difficoltà e vuoto!), ma non deve cancellare la necessità di un lavoro nel tempo, non deve diventare rimozione e fretta.

    Riguardo al tempo del terremoto c’è un’altra caratteristica che a volte sembra sfuggirci: i terremoti non “arrivano”, i terremoti ritornano. Il tempo del terremoto è circolare. 
Dove un terremoto c’è già stato, lì ci sarà di nuovo. Il terremoto tornerà. Dopo il tempo necessario a riprepararsi, che non sappiamo quanto sarà e che per lo più sarà così lungo da far perdere memoria del terremoto precedente, il terremoto tornerà. Ma il fatto che i tempi lunghi ci facciano perdere memoria, non vuol dire che i terremoti del passato non siano esistiti. E se il tempo del terremoto è circolare, allora noi dovremmo provare a entrare nella sua ruota per dialogare con lui: dovremmo imparare a ricordare, a guardare le cicatrici che lascia e i segni che tramanda, a confrontarci giorno dopo giorno, a prepararci per il prossimo incontro.

    Tempi lunghi, circolarità continua e “irregolare” (perché circolare non vuol dire che i terremoti hanno una “scadenza” esatta!): non siamo abituati a ragionare in questo modo sui terremoti, perché il dolore, il trauma, ci spingono a rispondere velocemente e poi rimuovere. Ma questa strada non può funzionare, perché il terremoto ha un suo carattere e dobbiamo farci i conti. Poi ci sono altre illusioni che sarebbe opportuno rimuovere. Prima fra tutte l’illusione della continuità: dopo uno sconvolgimento così doloroso e profondo com’è un terremoto, la tentazione di ricostruire tutto esattamente com’era, per dimenticare la sofferenza e la perdita, può essere forte. Ma è una tentazione che ci fa uscire dalla realtà (il cambiamento c’è stato, la perdita è irrimediabile) e ci rende difficile l’elaborazione e il ricordo. Inoltre il cambiamento, anche senza terremoto, è necessario e fisiologico: il terremoto ci costringe a un’evoluzione che dobbiamo provare a “governare”, facendoci tutte le domande che ci faremmo se il cambiamento l’avessimo indotto noi stessi.

    Nel ricostruire dopo un terremoto dovrebbe essere normale chiedersi (come faremmo in qualsiasi altra ricostruzione): cosa c’era che non andava più bene(che non era più adatto, funzionale, “bello”) in quel che c’era prima? Cosa avrei voluto cambiare e cosa voglio cambiare? Come posso recuperare le cose che erano davvero importanti, costruire quelle che mancavano e tenere traccia della mia storia, incluso quest’ultimo evento?

    Quel che per lo più succede ora, dopo un terremoto, è che nell’immediato si costruiscono strutture (che a volte permangono a lungo!) del tutto avulse dal corpo dell’abitato precedente, generando a volte un tessuto urbano frastagliato, sconvolto, confuso.
 Poi si pretende di ricostruire “com’era prima”, immaginando di cancellare non solo il cambiamento e le perdite, ma anche l’adattamento mentale e psicologico cui i cittadini hanno dovuto ricorrere per gestire la confusione del dopo. Per non parlare dell’idea di ricostruire “dov’era”, che può essere ancora più folle, perché a volte gli edifici cadono proprio perché erano costruiti nel posto sbagliato!

    Possiamo lavorare per una continuità che conservi memoria nella trasformazione, ma non possiamo puntare all’immutabilità, per il semplice fatto che l’immutabilità non esiste. C’è un’altra illusione, un’altra tentazione che rischia di farci perdere di vista la realtà e la complessità: l’illusione dell’azzeramento del rischio. Nei tempi lunghi di cui parlavamo è bene lavorare alla riduzione del rischio, agendo sul contesto e con le persone: lavorare per rendere i luoghi in cui viviamo più sicuri e soprattutto lavorare continuamente nelle comunità, per aumentare consapevolezza, responsabilità, collaborazione, capacità di leggere il territorio e di prevenire e reagire. Ma nei tempi tesi e veloci dell’emergenza l’idea di ricostruire un contesto che guardi solo alla sicurezza, mettendola avanti ad ogni altra cosa e immaginando di poter regalare alle comunità una situazione “a rischio zero”, è non solo un’illusione, ma una prospettiva destinata a produrre seri danni. Innanzitutto perché azzerare il rischio non è possibile: ci confrontiamo continuamente con rischi di ogni genere e continueremo a farlo, sempre.

    Possiamo lavorare per ridurre il rischio “oggettivo”, concentrandoci su un rischio specifico (quello sismico, ad esempio), ma non possiamo prescindere dalla necessità di imparare a confrontarci col rischio, con tutti i rischi con cui siamo continuamente chiamati a misurarci. Immagiamo, per paradosso, una comunità convinta di vivere in un ambiente in cui il rischio è stato azzerato, convinta che sia la tecnologia a proteggere gli esseri umani dai rischi: che capacità svilupperanno i cittadini di osservare, di analizzare, di scegliere? E che faranno quando incontreranno, come inevitabilmente capiterà, un pericolo?

    È ovvio che nella ricostruzione dopo un terremoto si punti alla massima sicurezza, ma per farlo non è necessario né accettabile dimenticare dimensioni altrettanto importanti (la vivibilità, la bellezza, la felicità). L’ultima illusione che vogliamo sottolineare è l’illusione dei salvatori e dei salvati. È l’illusione più pericolosa, perché (a volte) nasce da sentimenti nobilissimi e assolutamente da coltivare: empatia, solidarietà, collaborazione. E nasce anche da una necessità: nell’emergenza servono persone capaci, competenti, per agire rapidamente e bene, per salvare vite, per valutare i danni e predisporre soluzioni.L’emergenza in Italia viene gestita bene; il sistema di Protezione Civile è efficiente e fa quel che va fatto. Ma la nostra cultura impone anche ai terremoti le sue regole, che non è detto siano le regole adatte. La nostra cultura prevede che, soprattutto in casi estremi, siano solo gli “esperti” a dover decidere ed agire, il che sarebbe anche ragionevole, se fra gli esperti si includessero coloro che “hanno fatto esperienza” di quel che si deve affrontare. La nostra cultura non prevede più reazioni e soluzioni “spirituali” e comunitarie, ma solo soluzioni personali, pratiche e dall’alto.

    Cosa succede dopo un terremoto? Sul territorio e fra le persone colpite calano esperti, decisori, curatori, volontari che risolvono la situazione, assistendo le vittime. Il territorio, già sottratto ai suoi dal terremoto, viene ulteriormente allontanato, nascosto; le persone colpite diventano definitivamente vittime, passive, mentre altri risolvono per loro (e spesso sono le stesse persone colpite ad aspettarsi che qualcuno da fuori risolva per loro la situazione). Tralasciamo l’ipotesi di scelte sbagliate (quando non truffaldine) e concentriamoci solo sui ruoli che i diversi soggetti si trovano ad interpretare: come si può uscire da uno sconvolgimento così grande se non ci si misura con esso? Se non si mettono in campo le proprie risorse, se non ci si connette con i nostri amici-vicini e se non si riconquista il proprio territorio?

    Un tempo c’erano riti e momenti codificati per questa riconquista di relazioni e spazi: processioni, assemblee. Oggi la dimensione “spirituale” è sostituita da quella psicologica, che però lavora troppo spesso per risolvere i traumi dei singoli. Ma la dimensione del terremoto non è singola, è collettiva: il terremoto colpisce le comunità e solo dalle comunità può essere affrontato, nei suoi aspetti pratici, come in quelli emotivi, psicologici e spirituali. D’altra parte, perché una comunità che fa esperienza di un terremoto possa essere protagonista delle scelte e della ricostruzione, questa comunità deve esistere, riconoscersi, sapersi muovere come comunità prima del terremoto e prima dell’emergenza, ma da noi su questo aspetto (la famosa resilienza!) non si lavora, né come forma di prevenzione né come nient’altro.

    Quindi, nonostante l’emergenza e le sue indiscutibili necessità, nonostante il desiderio di risolvere in fretta per superare il dolore, nonostante quel che apparentemente ci sembra normale e logico fare, ci converrebbe guardare anche oltre, per non trovarci di nuovo, al tempo del prossimo terremoto, impreparati.

    Flaminia Brasini e Delia Modonesi, ConUnGioco onlus, da molti anni si occupano di educazione per la riduzione del rischio. Girano l’Italia in lungo e in largo, dal Friuli alla Sicilia, per incontrare bambini, ragazzi, insegnanti e cittadini che si confrontano col terremoto. “Proponiamo strumenti di scoperta e condivisione per capire, elaborare e decidere insieme. Abbiamo lavorato a lungo con ragazzi e insegnanti delle scuole di L’Aquila nel post emergenza e di svariate scuole dei comuni colpiti dal terremoto dell’Emilia. Esperienze e persone da cui abbiamo imparato molto”.

    Qualcuno pensava che quando Renzi promette soldi per le periferie ha in mente interventi per il miglioramento della vita nelle aree più povere e lontane dal centro? No, l'obiettivo è far fare affari e privatizzare il pubblico. La Nuova Venezia, 1° novembre 2016

    Un grande supermercato per il centro cittadino al posto della stazione Atvo [Azientatrasporti Veneto orientale). Piazza IV Novembre potrebbe rinascere entro un anno e mezzo, stando ai tempi dei prossimi finanziamenti previsti con il bando periferie che saranno sfruttati per la Porta Nord. Matteo Renzi dal congresso Anci ha detto che i soldi ci sono e i circa cinque milioni del bando cui partecipa convinta San Donà sono ormai a portata di mano. Questo significa spostare l’autostazione verso la Porta Nord, assieme alla stazione nuova dei treni e della metro di superficie che saranno vicine all’area della cantina sociale dove troveranno posto la nuova fiera e altri interventi.

    Il presidente di Atvo, Fabio Turchetto, si distingue per la inconfondibile chioma argentea che di tanto in tanto riavvia con la mano quando sta riflettendo: «Sì il bando periferie potrebbe essere alla portata e noi siamo interessati a questo trasferimento alla Porta Nord, formando con Rfi un polo unico del trasporto pubblico davvero moderno. Allora la nostra struttura in centro, totalmente di proprietà, potrebbe diventare qualcosa di molto strategico e importante a livello commerciale e anche per i cittadini. Abbiamo ricevuto proposte da numerosi gruppi interessati per un grande supermarket in centro, che qui avrebbero anche la zona parcheggio. Ma potrebbero trovare posto numerose altre realtà».

    I progetti presentati per il Bando Periferie saranno finanziati entro il 2017,per una spesa complessiva di due miliardi. Per San Donà rientrare tra gli obiettivi di finanziamento del bando significherebbe un contributo di circa cinque milioni, come ha detto il sindaco Andrea Cereser, di ritorno da Bari e dall’assemblea dell’Anci, dove il premier ha rilasciato il suo annuncio. I progetti presentati dall’amministrazione, in collaborazione con i privati e la Città metropolitana sono stati elaborati con una certa precisione. Circa 1,1 milioni serviranno per completare la stazione Sfmr, 2 andrebbero a realizzare, nella stessa area, la stazione Atvo, che condividerebbe con lo scalo ferroviario la biglietteria. Il progetto costituirebbe un hub in coincidenza del polo fieristico. L’importo complessivo dei lavori è di cinque milioni d coperti da Atvo oltre che dallo stesso bando. I tempi di esecuzione sono di circa 18 mesi dal momento della stipula della convenzione, comprensivi di progettazione esecutiva e gestione della gara d’appalto.

    Il bando prevede un contributo di circa 1,8 milioni per il recupero della vecchia cantina sociale, adiacente alla nuova stazione Sfmr. Sorgerà al suo interno la Cantina dei talenti, un contenitore di funzioni relative all’agroalimentare ma anche all’innovazione, al co-working, agli eventi.

    «Un patrimonio immateriale è l’“anima” dei nostri luoghi, del nostro territorio. L’unica incommensurabile ricchezza che il terremoto non ha potuto abbattere». La Repubblica, 1 novembre 2016 (c.m.c.)

    Ventiquattro agosto. 26 ottobre. 30 ottobre, ore 7.41. È l’ultimo bilancio: oltre 150 Comuni colpiti, fino a 100 mila persone sfollate. Case, chiese, luoghi di lavoro, bar dove le persone si ritrovano, i negozi… tutto distrutto. Paesi che non ci sono più. Ma paesi che non possono, e non debbono, morire. Così vogliono le comunità locali, così vogliono i sindaci che le rappresentano. È umano, è comprensibile, ma è anche giusto. Perché in quei luoghi, oggi distrutti; in quelle piazze, oggi piene di macerie; in quelle vie oggi attraversate dal dolore, dall’angoscia, dalla disperazione e dalle lacrime ci sono i beni, i ricordi, la storia di intere famiglie, di intere comunità.

    Qui vogliono restare, dicono i sindaci; qui vogliamo ritornare, dicono gli abitanti. Qui c’è la nostra storia, c’è la nostra anima. Qui, e hanno ragione, c’è il cuore del Paese più bello del mondo. Qui c’è il cuore dell’Italia.

    Non sono più un sindaco. Ma mai come oggi mi sento ancora un sindaco. Il sindaco è scelto dai suoi concittadini. È uno di loro ma ha sulle sue spalle la responsabilità dell’intera comunità. Del suo bene. Del suo bene anche, e forse soprattutto, nel momento del male. Da cittadino, che è stato anche sindaco, comprendo quanto sia importante non perdere la memoria. E come sia altrettanto importante guardare, sperare, credere nel futuro. La vita deve riprendere qui. Qui dove l’esistenza non è la singola esistenza ma quella di una comunità intera. La vita sono le case, i negozi, le piazze, le chiese, gli uffici. Ma la vita sono soprattutto le relazioni tra le persone, il modo che hanno trovato per stare insieme.

    Dunque l’obiettivo deve essere preservare tutto questo. Un patrimonio immateriale è l’“anima” dei nostri luoghi, del nostro territorio. L’unica incommensurabile ricchezza che il terremoto non ha potuto abbattere.
    L’obiettivo è il faro verso il quale deve muovere l’agire. E non c’è dubbio che la direzione nella quale andare è quella di ricostruire ciò che è stato distrutto. Ad affermarlo non sono solo le ragioni del cuore. Sono anche le ragioni della ragione. Ma ora bisogna fare i conti anche con le ragioni della realtà. C’è in mezzo un passaggio doloroso, ma inevitabile e obbligato.

    Non è possibile, con una terra che continua a ribellarsi, chiedere ora semplicemente di restare. C’è la necessità impellente di dare assistenza a chi non ha più la sua casa, il suo negozio, la sua scuola. La notte, già adesso, il termometro si avvicina agli zero gradi. Le tende non possono bastare. E a breve non sarà possibile costruire nemmeno delle casette di legno. C’è la necessità di sgomberare le macerie. Di verificare la stabilità degli edifici. È una parola orribile, ma per la sicurezza dei cittadini, per evitare nuovi danni, per superare la paura, c’è di mezzo un periodo di “esodo”.

    C’è però un modo per accompagnare questo necessario distacco, questa triste separazione e per rendere evidente fin da subito che si tratta di un passaggio, non di una nuova, definitiva condizione. C’è un modo per tenere accesa ogni giorno la speranza che l’amatriciana non perderà la sua patria, che Castelluccio continuerà ad essere il paese delle lenticchie, che Norcia tornerà ad avere al centro la meravigliosa chiesa di San Benedetto.

    Bisogna fidarsi dei sindaci, bisogna garantire che paesi temporaneamente abbandonati siano presidiati e che non si trasformino in terra di nessuno. Nel momento della demolizione già si ragioni sulla ricostruzione. Si mettano insieme le forze e le esperienze migliori del nostro Paese, si facciano progetti, programmi condivisi, tenendo conto delle soluzioni che i sindaci propongono.

    E, nel frattempo, ai sindaci — ma, si sa, che il loro è un lavoro duro — tocca anche un altro compito. Siano, come già stanno facendo i portavoce dei loro cittadini, ma siano anche i garanti del rapporto con le altre istituzioni. Nelle decisioni quotidiane, nelle scelte che riguardano il futuro, le istituzioni, a ogni livello, abbiano come punto di riferimento i sindaci di quei paesi che non vogliono morire. E i primi cittadini non consentano che le loro comunità si disperdano. Trovino il modo — e i sindaci conoscono le realtà che amministrano e spesso conoscono anche uno per uno i loro cittadini, e dunque sanno come farlo — perché chi ha dovuto lasciare la propria casa possa sapere cosa sta succedendo nei luoghi che ha dovuto abbandonare.

    Continuino, quando è possibile, a riunire, e unire, la propria comunità, a celebrare il patrono, a creare momenti di socialità e solidarietà. Facciano momenti di incontro, di informazioni, di trasparenza, dicendo la verità, anche quando si debbono fare scelte difficili che, come in alcuni casi avvenuti, possono portare anche contestazioni.

    So bene quanto è difficile, quanto è doloroso, quanto, in alcuni casi, è anche rischioso però solo alimentando e rafforzando il rapporto di fiducia, e coinvolgendo i cittadini, è possibile porre le basi per non arrendersi alla rassegnazione, per non spegnere la speranza, per credere in un futuro possibile e per evitare che si spezzi il filo che lega ognuno al luogo in cui s’è svolta la sua vita.

    I media tacciono i numerosi esempi di ricostruzioni virtuose e i meriti delle soprintendenze quando i governi le facevano funzionare, e si lascia trionfare l'odio per la tutela di Matteo Renzi, l'inconsistenza del suo ministro, l'utilizzazione strumentale della disgregazione d'una parte significativa e del patrimonio comune. Articolo 21, online 30 ottobre 2016

    Dov’è finito il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini? Dov’è finito il suo Ministero e con esso le Soprintendenze? Nelle cronache televisive del sisma fra Umbria e Lazio non sono praticamente mai apparsi. La scena se l’è presa tutta Matteo Renzi, accompagnato dai tecnici della Protezione Civile e da Renzo Piano. Come se la prese all’Aquila, tutta quanta, Berlusconi col fido Bertolaso. Ricordo dei più sinistri, visto che la ricostruzione aquilana è una delle meno riuscite, delle più sbagliate, delle più tardive. Anche lì Soprintendenze emarginate, quasi nascoste. Ma non come oggi.

    Tutto il contrario di quanto avvenne nelle ricostruzioni più riuscite: a Tuscania semidistrutta nel 1971 e come rinata, in Friuli con una stretta intesa fra tecnici del MiBACT e della Regione, soprintendenti e comunità locali decise, soprattutto a Venzone, a ricostruire “com’era e dov’era”; anche in Irpinia dove la delega per gli edifici monumentali, civili e religiosi, fu affidata ad un soprintendente della qualità di Mario De Cunzo (a Napoli agiva la Soprintendenza speciale per il terremoto guidata da Giuseppe Proietti).

    Nel ’97 in Umbria-Marche, a partire da Assisi, dove la Basilica di San Francesco rischiò di scivolare tutta quanta a valle, il governo Prodi e il ministro Veltroni ebbero l’idea vincente di affidarsi ai tecnici più sperimentati: Antonio Paolucci commissario straordinario per l’Umbria e Maria Luisa Polichetti per le Marche, avendo quali collaboratori Bruno Toscano, gran conoscitore umbro (i Manuali del territorio) e Marisa Dalai con alle spalle svariate esperienze fra le quali il Friuli. Per la Basilica Superiore di Assisi il grande regista fu Pippo Basile dell’Istituto Centrale del Restauro espertissimo di terremoti. Con lui collaborarono a fondo due strutturisti del valore di Giorgio Croci (chiamato in ogni parte del mondo) e Paolo Rocchi.

    In questi giorni si è parlato molto di Renzo Piano, ma, con tutto il rispetto, qual è la sua esperienza specifica in materia di ricostruzioni post-terremoto? Anche in tv compaiono ovunque sismologi, geologi, mai strutturisti i quali spieghino cosa si è già fatto in Italia con tecniche d’avanguardia e cosa si può fare senza ricominciare sempre da zero.

    Domenica Dario Franceschini ha rilasciato a Repubblica una lunga quanto generica intervista al termine (soltanto al termine) della quale tesse l’elogio dei Soprintendenti coi quali “è orgoglioso di lavorare”. E’ la risposta al sindaco di Matelica (Macerata) il quale lamentava lo stato di semi-paralisi in cui versano le Soprintendenze, con pochi mezzi, unificate d’autorità per essere poi trasferite (legge Madia, un parto geniale) sotto il comando delle Prefetture (Piemonte sabaudo 1859, che progresso!).

    Risposta retorica. Parole parole parole. Come tante altre in cui si snocciolano cifre mirabolanti per la tutela. E’ vero, c’è stato un aumento, ma in percentuale sul bilancio dello Stato si va verso un modesto 0,30 per cento contro lo 0,40 di sedici anni fa (governo D’Alema). E’ vero, c’è un concorso per assumere 500 funzionari, ma i “buchi” nei quadri ministeriali sono falle enormi, l’età media è sui 55 anni, archivi e biblioteche stanno molto peggio e rischiano di chiudere per mancanza di dirigenti e di personale di ruolo. Certe Pinacoteche Nazionali aprono da tempo a orario ridotto. Il caos amministrativo e gestionale accompagna la riforma Renzi-Franceschini-Madia e intanto l’Italia trema, crolla, smotta, si sbriciola.

    Ma i soprintendenti vanno tenuti nascosti, come si faceva coi gozzuti, messi in cantina, quando Vittorio Emanuele II visitava le città della provincia sabauda. Il presidente Renzi li detesta fin da quando era sindaco di Firenze. “Sovrintendente (sic!) è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?” Così nel suo “vangelo” intitolato “Stil novo”. Ora capite perché si affida ad altri e mette in un canto la tutela.

    «Il precedente dell’abbazia di Montecassino, di nuovo in piedi in soli dodici anni dopo essere stata rasa al suolo.Una sfida, per certi versi, analoga a quella che ora, dopo il terremoto, ci troviamo ad affrontare nell’Appennino, cuore e spina dell’intero Paese». La Repubblica, 31 ottobre 2016 (c.m.c.)

    “Succisa virescit”. La scure del tempo l’ha colpita più volte: disastri e sciagure, terremoti e distruzioni belliche, ma la vecchia quercia che simboleggia l’Appennino, raffigurata nello stemma dei benedettini, non muore. Non morirà. “Tagliata ricresce”, promette il motto dei monaci di San Benedetto, e la quercia gemmerà di nuovo su crinali e vallate.

    Gemmerà sulla catena montuosa che percorre tutta la penisola e fa da spina dorsale all’Italia. “Succisa virescit” e, quindi, sono certo che la badessa e le monache benedettine di via delle Vergini, a Norcia, appena dissipato il polverone delle macerie troveranno modo di riprendere, con silenziosa determinazione, il lavoro quotidiano — “Ora et Labora”, appunto — di sempre. Quello che, quando sono stato a trovarle, le vedeva occupate nell’orto curato con commovente perizia. E attorno alle arnie delle loro api, agli allevamenti dei conigli e dei pulcini.

    Esattamente come, a pochi chilometri di distanza, risalendo lungo la provinciale 475 che va da Norcia a Preci, quando due estati fa sono capitato all’abbazia di Sant’Eutizio, ora ferita dal sisma, ho visto l’esiguo manipolo di monaci che allora vi risiedeva ospitare una quindicina di ragazzi arrivati dalla Francia per godersi le vacanze in quello scrigno di silenzio e di verde che è la valle Castoriana.

    Ragazzi con la sindrome di down, accolti dai monaci in obbedienza al motto “Bussate e vi sarà aperto” ma, anche, all’impegno prezioso, spesso sottovalutato anche dai “decisori” pubblici, di abitare in questi monumenti sparsi per l’intera penisola non per difendere polverose reliquie ma per farli rimanere in vita.

    Perché i monasteri, come tutti i centri storici delle “aree interne” d’Appennino, sopravvivono, anche ai terremoti, quando si è capaci di averne cura ma, soprattutto, se c’è un progetto per tenerli vivi. Quindi vissuti, e abitati, ogni giorno.

    Del resto la promessa del “Succisa virescit” da oltre quindici secoli intreccia il destino dell’Appennino, di abitarlo e di farne una delle filigrane irrinunciabili della nostra memoria e cultura, col cammino dell’ordine fondato da San Benedetto che, proprio da Norcia, nel cuore dell’Umbria, muove i primi passi.
    La basilica crollata a Norcia sotto le recenti, brutali scosse del terremoto, era stata costruita, dice la tradizione, sui resti della casa natale di Benedetto.

    Da qui il fondatore del monachesimo occidentale era partito, assieme a Scolastica, sua sorella, per studiare a Roma ma, ben presto, inorridito per gli scandali, lascia la capitale. Si rifugia a Subiaco, nello Speco, la grotta dove per due anni si nega al mondo. Chi arriva lì, alzando gli occhi, vede un masso enorme che, da tempo immemorabile, resiste anche ai terremoti: sta minacciosamente a penzoloni proprio sopra gli edifici e sul giardino che li circonda. Al centro di un’aiuola c’è la statua di San Benedetto, le braccia alzate verso la roccia incombente e, accanto, la scritta: “Fermati o rupe”.

    Il cammino di Benedetto si conclude a Montecassino, mentre i benedettini si spargono nei secoli successivi nel mondo intero (ora sono circa ventimila). Il monastero di cui Benedetto è stato il primo abate e dove è sepolto ha subito invasioni e assedi, incendi e crolli per terremoti. Più volte è stato distrutto. L’ultima volta nel 1944 quando gli alleati — che lì nella battaglia contro i tedeschi hanno perso migliaia di soldati — sotto pressione dell’opinione pubblica anglo- americana decidono di raderlo al suolo.

    Convocano a pochi chilometri di distanza tutti i corrispondenti di guerra e, praticamente in diretta, danno il via al bombardamento a tappeto che riduce in macerie il monastero.“Succisa virescit”: una dozzina di anni dopo Montecassino è in piedi. Ricostruito con una tempestività che oggi sembra incredibile ma che dice parecchio sulla vitalità di un’Italia appena uscita dal conflitto e decisa non solo a rimettere in piedi la produzione industriale ma determinata a conservare e valorizzare il suo patrimonio culturale. Una sfida, per certi versi, analoga a quella che ora, dopo il terremoto, ci troviamo ad affrontare nell’Appennino, cuore e spina dell’intero Paese.

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