loader
menu
© 2024 Eddyburg

Un esauriente esame degli aspetti ambientali inerenti alle produzioni industriali connessi alle città, in occasione della riedizione del libro di Daniele Biacchessi "La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa". Casa della cultura, Milano, online, 25 novembre 2016 (c.m.c.)

La riedizione, in occasione del quarantesimo anniversario dello storico disastro di Seveso, del libro di Daniele Biacchessi - La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa (Jaca Book, 2016) - riporta alla mente le immagini spettrali del comune brianzolo dove, tra strade deserte e abitazioni evacuate, si aggiravano fantasmi bianchi muniti di tute e maschere integrali (1).

Evoca cioè nella memoria collettiva il trauma dell'incidente all'Icmesa del 10 luglio 1976: un evento cruciale per chi si occupa di storia del rapporto tra industria e ambiente per due ragioni fondamentali. Per la prima volta, l'opinione pubblica prese diffusamente coscienza del potenziale distruttivo degli apparati industriali e da quel momento non fu più possibile sottovalutare il problema della convivenza dei luoghi dell'abitare con le industrie, specie quelle pericolose.

Industria e artificializzazione dell'ambiente urbano -

Storicamente la formazione delle città non ha mai comportato una drastica frattura con la campagna. Anzi, per millenni sono state la ricchezza e la fertilità dell'ambiente naturale a determinarne la localizzazione. Con la civiltà termoindustriale - ovvero con il diffondersi delle tecnologie basate sulle combustioni dei fossili - questa relazione vitale con la campagna e l'ambiente naturale si è via via allentata fino alla rottura. La città si è cioè sempre più trasformata in un ambiente artificiale. Questo, sia perché funzionale alla diffusione delle industrie - di cui i cittadini tendevano a diventare semplici protesi come rappresentarono profeticamente film quali Metropolis (1927) di Fritz Lang o Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin - sia perché la meccanizzazione e la standardizzazione della produzione agricola ha allontanato sempre più la campagna dalla città.

Da questo punto di vista appare esemplare la vicenda, vera, dell'allucinante illusione di poter trarre bistecche dai cascami del petrolio, per cui vennero costruiti due grandi impianti per la produzione di bioproteine a Saline Joniche in Calabria e a Sarroch in Sardegna, fortunatamente mai entrati in funzione (2), o quella, fantascientifica, narrata dal suggestivo film Soylent green (1973) di Richard Fleischer che racconta di una città che riesce a vivere del tutto artificialmente alimentandosi e riproducendosi con la sostanza dei cadaveri riciclata con processi chimici industriali.

Probabilmente discende da questa sorta di perversione subita dalla città moderna, dal suo trasformarsi in tecnosfera, altra dalla biosfera, l'accumularsi e l'aggrovigliarsi di criticità in una sostanziale disattenzione e indifferenza generale, fino alla traumatica esplosione del reattore del triclorofenolo dell'Icmesa di Meda e la pioggia di diossina sugli abitanti di Seveso. Lo shock fu violento, ma l'elaborazione da parte di politici, amministratori e urbanisti della necessità di un cambiamento radicale nel rapporto industria, città e ambiente, almeno in Italia, fu assai lenta.

"Autocolonizzazione" e "autosfruttamento" distruttivi del territorio -

Uno sguardo a volo d'uccello sui principali siti inquinati che l'industrializzazione novecentesca ci ha lasciato in eredità fa emergere un processo apparentemente dissennato di distruzione di territori e di centri urbani di altissima qualità ambientale, paesaggistica e storico-architettonica. Ne citiamo alcuni: Laghi di Mantova-Mantova, Mestre-Laguna di Venezia, Laguna di Grado, Trieste, Ravenna, Pitelli-La Spezia, Livorno, Piombino, Orbetello, Napoli-Bagnoli, Falconara, Manfredonia, Bari, Brindisi, Taranto, Crotone, Porto Torres, Sulcis Iglesiente, Milazzo, Augusta-Priolo, Gela.

Pur essendo praticamente prive di petrolio e di ferro nel sottosuolo, l'Italia è riuscita a ridurre alcune delle sue zone più belle a piattaforme per mega impianti siderurgici, petrolchimici e raffinerie con capacità produttiva di gran lunga superiore al fabbisogno (e infatti in buona parte oggi o in crisi o dismessi). Sembrerebbe un accanimento mirato a colpire proprio quelle magnificenze naturali, paesaggistiche e culturali incantevoli che, prima dell'industrializzazione, il territorio dell'allora Belpaese offriva quanto mai generoso, tanto che, tra Settecento e Ottocento, il viaggio in Italia era meta d'obbligo per le élite europee che riempivano i loro carnet di disegni, incisioni, resoconti di viaggio.

Ebbene, su quell'ecosistema - unico per varietà ma anche fragilità - si è abbattuta, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, un'industrializzazione scriteriata, che ha fatto del territorio e delle matrici ambientali - acqua, aria e suolo - risorse offerte a titolo gratuito e senza alcuna limitazione a quello che venne con enfasi celebrato come "miracolo economico". Questa sorta di "colonizzazione" pervasiva del territorio sembra essere avvenuta in Italia ad opera di iniziative industriali prevalentemente autoctone, per cui, potremmo forse parlare di "autocolonizzazione" e di "autosfruttamento" del proprio ambiente di vita. In sostanza, i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali (sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma nel caso italiano sono messi in opera da forze interne che appartengono allo stesso Paese che - se così si può dire - si "autosfrutta" in un contesto democratico e con il consenso pressoché unanime delle forze sociali e delle rappresentanze politiche.

Intendiamoci, di quella modernizzazione industriale violenta non si sono avvantaggiati tutti nella stessa misura: quegli anni sono stati anche il teatro del più duro conflitto di classe tra il profitto capitalista e la spinta emancipatrice dei lavoratori. Ma non sembra esservi dubbio che oltre quel conflitto, ambedue i contendenti calpestavano senza alcun riguardo lo stesso ambiente. Forse un unico soggetto, il mondo contadino, aveva avuto fin da subito percezione del danno arrecato, ma non aveva voce, considerato ormai un fardello di una storia proiettata verso la produzione industriale. Infatti, la legittimazione di quell'immane scempio avvenne in forza della necessità dell'Italia di superare d'un balzo il ritardo nei confronti dei Paesi industrialmente avanzati, sfruttando il vantaggio competitivo delle risorse ambientali a costo zero (3).

Questo "peccato originale" rappresenta una pesantissima eredità che si rivela oggi nella vastità e profondità della devastazione ambientale che, all'esaurirsi del secolo termoindustriale, finalmente siamo in grado di "vedere" proprio in alcune delle aree più incantevoli della penisola e delle isole ma che, seppur con intensità differenti, investe pressoché l'intero Paese.

Un'ingombrante eredità: i siti industriali inquinati -

A questo proposito, i numeri sono davvero impressionanti. Com'è noto, i Sin, ovvero i Siti di interesse nazionale ai fini della bonifica, erano in un primo censimento 57, per un territorio di circa 9.000 kmq che coinvolge circa 10 milioni di abitanti esposti ad agenti inquinanti. Nel 2013 sono stati ridotti a 39 con il declassamento di 18 a Sir, Siti di interesse regionale (4).

Un'operazione compiuta da Corrado Clini, allora Ministro dell'Ambiente, che appare più un maldestro tentativo di ridimensionare il problema e di attenuare le responsabilità della classe politica data la pressoché totale e ultradecennale inazione governativa. Per una valutazione complessiva di quanto è stato, o meglio, non è stato fatto per le bonifiche dei Sin in 13 anni, a partire dal Dm 471/1999, rimane ancora valido quanto ha sancito la Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, del 12 dicembre 2012:

«Il settore bonifiche, almeno fino ad oggi, è stato fallimentare [...]. All'interno dei 57 siti di interesse nazionale (Sin) (mega-siti contaminati) ricadono le più importanti aree industriali della penisola, tra cui: i petrolchimici di Porto Marghera, Brindisi, Priolo, Gela; le aree urbane ed industriali di Napoli Orientale, Trieste, Piombino, Taranto, La Spezia, Brescia, Mantova. […] All'esito dell'inchiesta della Commissione, il quadro risulta desolante non solo perché non sono state concluse le attività di bonifica, ma anche perché, in diversi casi, non è nota neanche la quantità e la qualità dell'inquinamento e questo non può che ritorcersi contro le popolazioni locali, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico. Come già evidenziato, nel nostro territorio i siti di interesse nazionale sono 57, coprono una superficie corrispondente a circa il 3 per cento del territorio italiano e, sebbene il riconoscimento quali Sin per taluni di essi sia avvenuto diversi anni fa (talvolta anche oltre dieci anni fa), i procedimenti finalizzati alla bonifica sono ben lontani dall'essere completati (5)».

Se si escludono alcune Regioni come la Lombardia, il Trentino Alto Adige e l'Emilia Romagna, anche per i Sir la situazione non è confortante. Pur tenendo conto che le anagrafi sono lacunose e realizzate con criteri disomogenei che ne rendono difficile la lettura comparata risulta che i Siti di interesse regionale potenzialmente contaminati inseriti/inseribili risulterebbero infatti 15.122; 6.132 i Sir potenzialmente contaminati accertati; 4.314 i Sir contaminati; 4.879 i Sir con interventi avviati; 3.011 i Sir bonificati. Per concludere: le bonifiche in realtà non si fanno a causa dello stesso perverso meccanismo che è stato all'origine delle distorsioni del passato (6).

Leggi di tutela ambientale ignorate o inesistenti -

Occorre ricordare che ai primordi dell'industrializzazione il tema della tutela dei centri urbani e dei luoghi dell'abitare dai possibili inquinamenti prodotti dalle manifatture era già presente nell'ordinamento legislativo. La prima fondamentale legge sanitaria dell'Italia unita del 22 dicembre 1888 n. 5849 all'art. 38 intendeva disciplinare proprio le attività delle industrie insalubri dettando norme omogenee su tutto il territorio nazionale e superando la difformità di criteri preesistenti, quando ogni determinazione era demandata al giudizio pressoché esclusivo delle autorità locali.

La stessa legge del 1888 prevedeva l'istituzione di un elenco delle industrie insalubri che però doveva essere compilato dal Consiglio Superiore della sanità per tentare unificarne l'applicazione a livello nazionale. In questo elenco "le manifatture e le fabbriche [...] che possono riuscire [...] pericolose alla salute degli abitanti" erano distinte in due classi. E per quelle di prima classe - le più inquinanti - la norma di primo acchito appariva perentoria - "debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni" -, mentre immediatamente dopo apriva il campo alle eccezioni:«Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato».

La legge dunque non determinava con esattezza quale dovesse essere la distanza minima di queste industrie dall'aggregato urbano e dalle abitazioni sparse nelle campagne, evidentemente per non creare vincoli maggiori alle iniziative imprenditoriali. Ogni considerazione al riguardo - come pure quelle sull'efficacia delle "speciali cautele" che eccezionalmente consentivano la convivenza con l'abitato - erano demandati all'autorità locale, al sindaco e all'ufficiale sanitario. Per sollecitare gli adempimenti di questi ultimi venne emanato nel 1901 - con Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio - il regolamento generale sanitario che esplicitava le competenze del potere locale:

«La Giunta comunale, sopra proposta dell'ufficiale sanitario, determinerà con apposito regolamento le speciali cautele da osservare negli stabilimenti di manifatture, fabbriche e depositi insalubri o in altro modo pericolosi alla salute degli abitanti (7). […] Spetta alla Giunta comunale, sovra proposta dell'ufficiale sanitario, di ordinare la chiusura dei predetti stabilimenti e l'allontanamento dei depositi insalubri o pericolosi, salve nei casi di urgenza le facoltà attribuite al sindaco (8). […] In base all'elenco compilato dal Consiglio Superiore di Sanità, giusta l'art. 38 della legge, delle manifatture o fabbriche che spandano esalazioni insalubri o possano riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti, la giunta municipale dovrà, a richiesta dell'ufficiale sanitario, procedere alla classificazione dei predetti stabilimenti in attività nel territorio comunale e determinare se quelli compresi nella prima classe siano sufficientemente isolati nelle campagne, e lontani dalle abitazioni (salva l'eccezione fatta dall'art. 38 della legge, 5° capoverso), e se per gli altri siano adottate cautele speciali necessarie ad evitare nocumento al vicinato(9)» .

Ora, è facilmente comprensibile quale fosse il "tallone d'Achille" di quella normativa soprattutto alla luce di quel processo che abbiamo definito di "autocolonizzazione" del territorio. Le città e le amministrazioni che le rappresentavano hanno fatto a gara per attirare insediamenti industriali, non solo recando in dono il proprio territorio, ma in una certa fase - con la Cassa del Mezzogiorno e le politiche per le aree depresse - concedendo anche contributi e agevolazioni. Ovviamente, in questa competizione, non potevano trovare spazio preoccupazioni o vincoli di tutela dell'ambiente o della salute dei cittadini. È altresì noto che il rapporto perverso tra industria e urbanizzazione si è scaricato in particolare sulle periferie, sui quartieri popolari normalmente adiacenti alle fabbriche stesse, mentre gli ambiti urbani abitati dai ceti più abbienti sono stati tenuti il più possibile al riparo da «esalazioni insalubri o che [potessero] riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti».

Questa situazione è stata favorita dagli incredibili ritardi con cui il nostro Paese ha adottato normative efficaci per tutelare le matrici ambientali e quindi la salute dei cittadini: la legge sugli scarichi industriali, la cosiddetta Merli, è del 1976; la prima normativa sui rifiuti industriali è del 1982; la direttiva Ue del 1982 sui rischi di incidenti rilevanti, detta "Seveso", venne recepita in Italia solo nel 1988; la prima normativa sistematica sull'inquinamento delle acque e dei suoli è del 1999. Non è stato un caso. La mancanza di tutele ambientali rappresentava infatti uno dei pochi vantaggi competitivi del nostro sistema industriale (insieme ai bassi salari, al petrolio allora a basso costo, alla capacità di imitazione creativa delle altrui innovazioni).

La cementificazione del territorio -

Dovremmo avere la capacità di voltar pagina: ma ne abbiamo la volontà? Ci sono buoni motivi per nutrire qualche dubbio. Una serie di segnali sembrano poco confortanti: dalla recente vicenda delle trivellazioni marine per la ricerca di idrocarburi, al decreto cosiddetto "Sblocca Italia" che ha meritato una critica serrata da parte di numerosi studiosi (10) proprio perché intenderebbe confermare quello sciagurato modello produttivo il cui rilancio richiederebbe ancora una volta l'allentarsi dei vincoli di tutela ambientale e territoriale.

Ma altrettanto si può dire della difficoltà a varare una legge nazionale davvero vincolante, come lo fu quella per la tutela dei centri storici, tesa a salvaguardare quel poco di terreno naturalizzato e fertile che rimane dopo le varie ondate cementificatorie che hanno investito il nostro territorio soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Gli allarmi ricorrenti dell'Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale - passano nei mass media senza lasciare traccia. Eppure l'impermeabilizzazione del suolo e dunque il suo consumo, in particolare in alcune aree del Paese come la Pianura Padana e la megalopoli Milano-Venezia, è ormai giunta oltre i limiti di guardia. Che cosa comporti ce lo ricorda l'Ispra anche nel suo ultimo Rapporto:

«L'impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, suscita particolare preoccupazione allorché vengono ad essere ricoperti terreni agricoli fertili e aree naturali e seminaturali, contribuisce insieme alla diffusione urbana alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale (Antrop, 2004; Commissione Europea, 2012). È probabilmente l'uso più impattante che si può fare della risorsa suolo poiché ne determina la perdita totale o una compromissione della sua funzionalità tale da limitare/inibire il suo insostituibile ruolo nel ciclo degli elementi nutritivi (APAT, 2008; Gardi et al., 2013). Le funzioni produttive dei suoli sono, pertanto, inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell'ecosistema, di garantire la biodiversità e, spesso, la fruizione sociale. L'impermeabilizzazione deve essere, per tali ragioni, intesa come un costo ambientale, risultato di una diffusione indiscriminata delle tipologie artificiali di uso del suolo che porta al degrado delle funzioni ecosistemiche e all'alterazione dell'equilibrio ecologico (Commissione Europea, 2013). La risorsa suolo deve essere, quindi, protetta e utilizzata nel modo idoneo, in relazione alle sue intrinseche proprietà, affinché possa continuare a svolgere la propria insostituibile ed efficiente funzione sul pianeta e perché elemento fondamentale dell'ambiente, dell'ecosistema e del paesaggio, tutelati dalla nostra Costituzione (ISPRA, 2015; Leone et al., 2013) (11)».

Ciò che impressiona è l'ostinata inerzia della lobby dei cementificatori che hanno perseverato nel costruire anche dopo la crisi edilizia del 2008 e l'insostenibile accumulo dell'edificato invenduto che rischia di trascinare con sé nell'inevitabile collasso anche parte del sistema bancario. Il caso della Lombardia è emblematico al riguardo: il Centro di Ricerca sui Consumi del Suolo (Crcs) - fondato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano (Dastu), dall'Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) e da Legambiente - ha dimostrato che l'87% dei Pgt recentemente approvati prevede ancora un ulteriore consumo di suolo (12).

Ora, in questa situazione procedere ostinatamente sulla strada dissennata dell'autosfruttamento del territorio è oggettivamente arduo e controproducente - anche il limone a un certo punto non si può più spremere -, sia per la penuria di spazi fisici da sfruttare, sia per l'emergere di nuove forme, accanite e radicali, di resistenza da parte delle popolazioni locali (13).

La resistenza delle popolazioni locali - L'attuale ceto dirigente vive ancora con il mito e la nostalgia del "miracolo economico", del fantastico boom, preso nella trappola di un'economia neoliberista che per funzionare ha la necessità di crescere di continuo e a dismisura. Emblematiche le motivazioni dell'attuale premier a sostegno delle Olimpiadi a Roma nel 2024: «Le Olimpiadi del 1960 - ha affermato Renzi - ci hanno trasformato nel Paese più simpatico del mondo: boom economico e Dolce Vita. Perché non si fanno le Olimpiadi?(14)».

Sta di fatto che, per questo ceto politico, sviluppo, crescita, modernizzazione e infrastrutture sono ormai dei mantra, assiomi assoluti e indiscutibili da perseguire "a prescindere". Si comprende quindi l'irritazione che si manifesta laddove a livello locale comitati di cittadini comuni, donne, uomini, ragazzi hanno l'ardire di ostacolare queste poco lungimiranti strategie. Negli ultimi anni l'attivismo delle popolazioni locali sembra incontenibile: non vi è ipotesi di nuovo impianto per trattare i rifiuti, di nuova centrale, di nuova autostrada, che non produca subito, in opposizione, un comitato di cittadini, spesso svincolato dai partiti e dalle associazioni ambientaliste istituzionali, e quindi difficilmente controllabile, ricco di creatività e inusitata radicalità, capace di acquisire rapidamente competenze tecniche e robuste argomentazioni.

È questa la grande novità dell'oggi che, giustamente, preoccupa più di ogni cosa l'attuale ceto dirigente. Per contrastare il fenomeno la strategia messa in campo è quella a cui, da che mondo è mondo, ricorrono i potenti: "il bastone e la carota". Il "bastone" - che a volte si materializza anche come strumento della "forza pubblica", come nel caso della Tav Torino-Lione - viene agitato con furore contro la "miopia campanilistica" di chi per salvaguardare "egoisticamente" il proprio "cortile" ostacola gli interessi generali del Paese, la sua modernizzazione, l'aggancio all'Europa, la crescita che beneficerà tutti. Della "carota" diremo nel prossimo paragrafo.

Il ruolo del Nimby Forum - A partire dal 2004 il Ministero delle Attività produttive in accordo con il Ministero dell'Ambiente sponsorizza la promozione di Nimby Forum, promosso da un'associazione no profit, Aris (Agenzia di Ricerca Informazione e Società): si tratta del "primo Tavolo di lavoro pubblico-privato e primo Osservatorio Media italiano per studiare il fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali", una struttura di ricerca per il monitoraggio costante che organizza convegni scientifici per studiare questa nuova e pericolosa "malattia sociale", la "sindrome Nimby" (dall'inglese "Not In My Back Yard").

Nimby Forum si propone, quindi, di elaborare «una politica del consenso intrinseca ai progetti impiantistici, che ne faciliti l'iter burocratico di approvazione e ne renda possibile la successiva fase costruttiva» con "l'obiettivo di individuare le più efficaci metodologie di interazione tra le diverse parti in causa per ridurre il fenomeno dei conflitti territoriali ambientali". Insomma il compito che si è assunto Nimby Forum non è dei più semplici, anche se fin troppo eloquente nella sua ingenua (?) formulazione: «Che cosa si può fare per mettere sullo stesso piano progresso e tutela del territorio, interessi pubblici e privati, impresa e governo, sviluppo e sostenibilità?»

A questa impresa titanica hanno dato direttamente il loro sostegno le più importanti aziende energetiche, dei rifiuti e delle infrastrutture, tra cui Actelios SpA/Gruppo Falck, AEM Milano SpA, Amsa Milano SpA (ora A2A), Assoelettrica-Confindustria, Atel Energia SpA, Autostrade SpA, Edison SpA, Enel SpA, Endesa Italia SpA, Fondazione Fiera Milano, Gruppo Enia SpA, Gruppo Impregilo, Gruppo Italgest, Gruppo Teseco, Hera, Siemens Italia, Stretto di Messina SpA, TAV SpA-Ferrovie dello Stato, Terna Spa, Waste [Rifiuti] Italia Spa, Trans Adriatic Pipleine. In diverse occasioni, hanno poi assicurato la loro partecipazione anche alcune blasonate associazioni: Amici della Terra, ACU Associazione Consumatori Utenti, Cittadinanzattiva, CMC Coop.

Dunque, tutto lascia intendere che la mission di Nimby Forum sia quella di offrire un supporto agli operatori pubblici e privati alle prese con le resistenze delle comunità sul territorio. Questo agendo su due fronti. Da un lato si tiene alto l'allarme rosso per i troppi progetti strategici bloccati che aumenterebbero ogni anno in modo preoccupante: i 140 impianti contestati nel 2004 in un decennio si sono più che raddoppiati e anche l'ultimo rapporto rinnova l'allarme evidenziando che "è nuovamente in crescita il numero degli impianti contestati: 355 i casi censiti nel 2014 contro i 336 del 2013 (+5%)" (15). Dall'altro si suggeriscono le misure opportune per addolcire quelle "resistenze" - la "carota", per l'appunto - come componente essenziale della strategia di "persuasione partecipata", come si usa dire.

Da Nimby a Pimby -

Non possiamo fare a meno di ricordare qui, per inciso, una singolare iniziativa, inventata da incalliti promotori dello sviluppo, di quel tipo di sviluppo, incuranti del ridicolo, come degno corollario di Nimby Forum: il premio Pimby, acronimo di "Please In My Back Yard"! L'idea era sbocciata nel "pensatoio" di veDrò [l'Italia del futuro] fondato da Enrico Letta con Anna Maria Artoni - presidente della Confidustria dell'Emilia Romagna - e altri (manager, accademici, ecc.), nell'agosto 2006, con l'autorevole partecipazione di Giulia Buongiorno - illustre avvocato e all'epoca deputato An - nel corso di un seminario con 300 partecipanti, «deliziati col dibattito, Da Nimby a Pimby. Lui [Letta] vuole l'Alta Velocità, le infrastrutture, le centrali elettriche, la modernizzazione. Non a caso il 'totem' lettiano è la centrale elettrica parzialmente dismessa di Dro, in Trentino, da cui il nome del think thank veDrò e il progetto politico: Far ripartire la scintilla per dare energia all'Italia» (16).

Per il Comitato scientifico di Pimby si è trovato anche un degno presidente: Chicco Testa - già presidente di Legambiente, poi di Enel, quindi membro consultivo di Carlyle Europa, la finanziaria della famiglia Bush, managing director di Rothschild Italia, presidente di Assoelettrica e altre cose ancora - con il solito corredo di esperti "trasversali" provenienti dal mondo accademico, imprenditoriale, mediatico ed associativo. Il tutto con il patrocinio del Ministero dello sviluppo economico, della Provincia di Milano e con il contributo di importanti aziende energetiche, tra cui Enel, Cofathec (gruppo di servizi energetici europeo) e Gaz de France. Il primo premio Pimby venne consegnato il 29 novembre 2007 a realtà locali esemplari per la benevola accoglienza di impiantistica impattante. Dopo qualche anno, di Pimby si è persa traccia.

Nonostante questa controffensiva mediatica - oggettivamente un po' sgangherata - è piuttosto semplice per i comitati locali in un Paese come l'Italia - che supera ampiamente ogni sostenibile livello di guardia della "saturazione" impiantistica, infrastrutturale e cementizia - dimostrare che certi impianti propagandati come strategici non s'hanno da fare "né qui né altrove".

Ed è probabilmente superfluo ricordare che i vari Nimby non sempre si limitano al "no", ma sempre più frequentemente elaborano alternative "dolci", ragionevoli e facilmente praticabili sui singoli problemi che si trovano ad affrontare: per esempio, riduzione e riciclaggio spinto dei rifiuti invece di inceneritori e discariche; risparmio energetico e fonti rinnovabili efficienti invece di centrali e rigassificatori; prevenzione e riduzione del traffico e del bisogno trasportistico invece di nuove autostrade e aeroporti; rinnovamento e potenziamento dello sgangherato sistema ferroviario ordinario invece della Tav.

Alternative meno costose, anche in termini economici, che forse proprio per questo non soddisfano i soloni dell'ambientalismo del sì perché escludono quel sì che per loro conta davvero: quello alla crescita del business che ne consegue.

La "carota" della monetizzazione dell'ambiente -

Di fronte all'irriducibile opposizione delle comunità locali a un certo tipo di progetti scatta spesso la monetizzazione dell'ambiente, ovvero: la "carota", il varco individuato per piegare, corrompere, comprare la loro resistenza. Ormai abitualmente, manager e imprenditori presentano agli enti locali un "pacchetto" già confezionato con le opportune dotazioni "ambientali e sociali": una discarica con l'asilo nido per i residenti; un inceneritore con parchi pubblici alberati, piste ciclabili, piscina; una lottizzazione con oneri di urbanizzazione sovrabbondanti che promettono opere pubbliche fantastiche.

Le procedure di Via (Valutazione di impatto ambientale) - spesso ridotte nel nostro Paese a pedissequa applicazione di programmi informatici dagli esiti prevedibili - di sovente minimizzano gli effetti sulla salute di certe opere e, al tempo stesso, enfatizzano oltre misura le cosiddette "opere di mitigazione e compensazione ambientale". Anche nel processo di cementificazione selvaggia in corso negli ultimi anni nel Paese la pratica della "monetizzazione dell'ambiente" si è istituzionalizzata in due meccanismi perversi che si alimentano reciprocamente: da un lato, c'è la sostanziale deregolazione urbanistica che ha messo i Comuni nella condizione di disporre a piacimento del loro territorio; dall'altro ci sono gli oneri di urbanizzazione che vanno spesso a surrogare le strette di bilancio imposte dal processo di risanamento finanziario dello Stato.

Una situazione che ha fatto sì che le Amministrazioni comunali si dimostrassero particolarmente sensibili alle pressioni della speculazione immobiliare ed edilizia, attratte dai fondi prodotti dagli oneri per le nuove edificazioni, ma incuranti del lascito in termini di compromissione del paesaggio e del territorio che erediteranno le future generazioni.

L'ambiente non si vende: una questione etica - Il punto inaccettabile di queste pratiche è che la "vendita" di un ulteriore pezzo del proprio territorio, in un contesto di generale grave compromissione, viene compiuta da chi nell'immediato ne gode solo i vantaggi economici, scaricando i costi ambientali, ormai elevatissimi, sulla popolazione e le future generazioni. Insomma, vi è qui un comportamento profondamente immorale che fa il paio con la storia dell'autosfruttamento della salute dei lavoratori prima del Sessantanove operaio. In breve: negli anni Cinquanta il lavoratore che decideva di percepire un'indennità di rischio nello svolgere lavori pericolosi metteva a repentaglio, sbagliando, non solo la propria salute ma anche la sua integrità morale perché di certo non favoriva la ricerca di soluzioni atte a proteggere la sua salute e quella di quanti sarebbero venuti dopo di lui.

Sullo stesso piano possiamo mettere oggi quell'imprenditore che ricava enormi vantaggi economici da una discarica, da un inceneritore o da una lottizzazione pagando il misero prezzo di qualche opera pubblica e lasciando per il futuro problemi spesso enormi dal punto di vista ambientale, potenzialmente irreversibili e comunque costosissimi da risolvere. Problemi che il più delle volte vanno ben oltre i confini dei comuni che beneficiano delle "elargizioni", in termini di opere pubbliche, dell'imprenditore.

Una discarica o un inceneritore, com'è noto, stanno fisicamente dentro i confini di un comune ma i loro impatti a breve e a lungo termine si fanno sentire in aree ben più grandi, per la semplice ragione che l'aria e l'acqua non sono imbrigliate nei confini amministrativi. Lo stesso vale per le lottizzazioni, se consideriamo, ad esempio, l'aumento di traffico veicolare indotto o il fabbisogno di servizi e infrastrutture collettive. Va quindi condotta innanzitutto una battaglia culturale. Va rispolverata una parola poco di moda, ma pregnante in questo caso, l'etica. Va stigmatizzata l'immoralità di quegli amministratori che per qualche soldo in più di entrate straordinarie nei comuni di cui si trovano temporaneamente a reggere le redini, prendono decisioni che andranno a incidere sulla vita delle popolazioni di quei contesti attuali e future. In un Paese come l'Italia, già stremato da un dissennato assalto all'ambiente e al paesaggio, la parola d'ordine urgente da adottare a tutti i livelli è che l'"ambiente non si vende".

Dalle parole ai fatti -

A questa affermazione di principio devono però seguire provvedimenti innovativi e coerenti sui processi decisionali circa l'uso dell'ambiente e del territorio. L'assunto è che la "sindrome Nimby" non è una malattia, bensì l'estrema salutare reazione di "difesa immunitaria" dell'ambiente aggredito. Piuttosto che combattuta, va dunque favorita ed estesa proprio per la sua capacità di combattere quella che appare come una vera e propria "metastasi sviluppista".

Ma come? Innanzitutto depotenziando il sistema degli incentivi alla monetizzazione dell'ambiente agendo in due direzioni. In primo luogo, occorre introdurre un vincolo per cui vi sia un limite quantitativo molto rigido, rapportato al numero degli abitanti, per le entrate straordinarie (oneri di urbanizzazione, Ici, contributi e compensazioni economiche varie, ecc.) dovute a opere che sottraggono territorio all'uso agricolo e naturale, distruggono il paesaggio e impattano sull'ambiente.

In secondo luogo, va obbligatoriamente prolungata almeno a un decennio dalla conclusione dei lavori la durata delle fideiussioni che i costruttori sono obbligati a depositare per far fronte a eventuali imprevisti o conseguenze indesiderate che si manifestassero a medio termine. Le spese sostenute per rimediare ai danni da inquinamento prodotti dalle industrie devono essere pagati dalle industrie stesse, non dalle comunità locali o dalla collettività nazionale. Infine, ed è questo un punto decisivo, è assolutamente indispensabile che si corregga l'attuale deregolazione pianificatoria per cui al singolo Comune è di fatto concesso un uso del tutto discrezionale del proprio territorio.

Da un lato i vincoli paesaggistici devono cioè diventare davvero stringenti e non aggirabili da parte di nessuno, con un potere e una capacità di controllo delle Sovrintendenze decisamente potenziati. Dall'altro, oltre a rafforzare il potere di pianificazione territoriale delle Regioni (o Province, qualora si decidesse che questi livelli di governo locale debbano sopravvivere ed essere rilanciati), occorre introdurre una norma per cui le decisioni che concernono opere che consumano territorio, alterano il paesaggio e impattano in modo significativo sull'ambiente devono essere assunte congiuntamente e con pari poteri non solo dal Comune ospitante, ma anche da tutti i comuni limitrofi coinvolti e potenzialmente toccati dagli effetti a breve, medio e lungo periodo delle opere stesse. Alle obiezioni di quanti ritengono che in questo modo si bloccherebbe la "crescita" o la "modernizzazione" del Paese, rispondiamo che invece così si salvaguarderebbe quel poco di paesaggio e di ambiente naturale che ancora non abbiamo deturpato. Bloccheremmo cioè la dilapidazione della maggiore risorsa "non-rinnovabile" del Paese, un patrimonio fondamentale per la vita di tutti noi.

Fuoriuscire dalla trappola della crescita - Dopo oltre un trentennio di globalizzazione senza regole e dopo che il nuovo millennio ci ha regalato una crisi finanziaria da cui non si intravede una via di uscita, forse sarebbe il caso di tirare le somme e fare il punto della situazione. La cura che ci è stata somministrata dai depositari del verbo neoliberista a dosi sempre più massicce non sembra abbia prodotto gli effetti auspicati. In realtà, la crescita appare sempre più un miraggio che continua inesorabile a sfuggire all'Italia, nonostante gli innumerevoli tentativi di "agganciarla" messi in atto dai tanti governi che si sono susseguiti.

Forse dovremmo oggi essere sufficientemente lucidi per vedere che la globalizzazione senza regole non ha come obiettivo quello della "crescita" e di un diffuso benessere, ma soprattutto quello di permettere alle multinazionali di realizzare il massimo profitto, traendo spregiudicatamente vantaggio da un mercato del lavoro globale che in troppi Paesi si presenta con forme di vera e propria schiavitù. Purtroppo, sempre più frequentemente anche qui in Europa dove i grandi manager globali hanno potuto spesso aggirare le conquiste civili, i diritti dei lavoratori, le tutele dell'ambiente che si sono realizzate in decenni di cultura democratica e di lotte sociali (17).

Dunque, se consideriamo il bisogno di giustizia dei popoli di tutto il mondo e quello della salvaguardia dell'ambiente naturale, comprendiamo facilmente che la globalizzazione senza regole non funziona. Sono più d'uno gli economisti che auspicano una graduale de-globalizzazione rivalutando, contro l'idolo del mercato, il ruolo indispensabile dello Stato nell'economia, perché questa torni ad essere al servizio del bene comune. Una prospettiva che va nella direzione di garantire a tutti gli uomini e le donne del pianeta condizioni dignitose di vita (cibo, casa, salute, istruzione, lavoro, energia, internet…) assicurando alle generazioni future un ambiente vivibile e dunque pulito e non del tutto dilapidato.

Favorire la cura del territorio -

In Italia, in modo sempre più compulsivo nell'ultimo decennio, si è cercato di far leva esclusivamente sulla competitività manifatturiera nei mercati globali per perseguire la mitica "crescita". Più recentemente nel nostro Paese - ed è una singolarità nel contesto europeo - i diversi schieramenti della politica istituzionale (salvo rare eccezioni) si sono dimostrati in apparente competizione, ma di fatto sembrano mirare agli stessi obiettivi: determinare le condizioni per una "nuova crescita" dell'economia e per quella che chiamano "modernizzazione" del Paese attraverso la realizzazione di infrastrutture: autostrade (anche quelle inutili come la Bre-Be-Mi) Tav, rigassificatori, ecc. ecc.

Insomma l'attuale ceto dirigente italiano (politico, imprenditoriale, manageriale, accademico e culturale) sembra essere fondamentalmente unito (ripeto, fatte salve lodevoli e minoritarie eccezioni) nel prospettare al Paese una direzione di marcia che ha già dimostrato tutti i suoi limiti.Nel contempo è stata del tutto trascurata la più preziosa risorsa per il benessere del Paese, il territorio. Sono enormi i costi che dobbiamo pagare come collettività per i danni prodotti ciclicamente dal dissesto idrogeologico, dalla mancata prevenzione antisismica, dalle mancate bonifiche e dall'evidente impatto sui costi sociali e sanitari.

La cura e la bonifica del territorio per secoli hanno permesso a tante generazioni di vivere dignitosamente attraverso il prosciugamento delle zone paludose, l'innervamento di una capillare rete idrica per l'irrigazione delle zone aride, la sistemazione dei versanti montuosi per la coltivazione, la cura dei boschi per prevenire le frane. Ora, invece, sembra che il territorio non abbia più alcun valore, che possa essere del tutto trascurato e lasciato deperire. Eppure è solo dal territorio che può venire per la nostra economia e la nostra società un riscatto duraturo e su basi solide, perché non esposto all'aleatorietà della globalizzazione: è una battaglia culturale e politica durissima che non possiamo permetterci di perdere.

Verso una "decrescita serena" - Sembra non si voglia accettare la realtà di condizioni storiche mutate che rendono oggi improponibile e irrealistica la prospettiva di un nuovo "boom economico". Quella crescita a due cifre fu possibile grazie a un'illimitata (in apparenza) disponibilità di combustibili fossili a basso costo, grazie a materie prime ottenute a prezzi di rapina dai rapporti neocoloniali imposti dal primo al terzo mondo, grazie a un patto sociale che permetteva di redistribuire una parte del benessere ai lavoratori.

Queste condizioni non ci sono più e non si ricostituiranno facilmente. Anzi, il contesto della globalizzazione ci prospetta un drammatico peggioramento: non solo la produzione di beni tende inesorabilmente a un continuo decremento, ma quel che è peggio è che ciò si associa a una crescita esponenziale dell'ingiustizia sociale, a una redistribuzione alla rovescia del reddito prodotto da chi ne possiede meno a chi ne gode di più, nonché a un progressivo degrado ambientale. Diversi economisti concordano sulla prospettiva di una Stagnazione secolare in Occidente prefigurata da Larry Summers (18) che inevitabilmente sarebbe seguita ai Trenta anni gloriosi, ovvero all'età dell'oro - per citare la definizione dello storico inglese Eric Hobsbawm - collocabile tra il 1945 ed il 1974, data del primo oil shock (19). E del resto non è pensabile una crescita quantitativa della produzione di merci e dei consumi illimitata in un pianeta che illimitato non è (20). Secondo Serge Latouche si tratterebbe di una superstizione che stride con il buon senso e la ragionevolezza (21). Crescita è una parola presa in prestito dalla biologia, dagli organismi viventi: questi, però, nel loro flusso vitale, si sviluppano fino alla maturità, dopo di che declinano per essere riassorbiti e rigenerati nei grandi cicli naturali della biosfera. Negli organismi viventi la crescita smisurata e incontrollata è letale, frutto avvelenato delle neoformazioni tumorali. Ebbene, l'economia moderna ha avuto la presunzione di far meglio della natura, di dar vita a una macchina della crescita senza limiti, che non raggiungerebbe mai la maturità, che dovrebbe procedere all'infinito secondo una linea continua ascendente. Smascherare l'inganno è il compito che si è proposto Latouche, assumendo il punto di vista delle popolazioni che necessariamente da questo sviluppo sono escluse e incrociando la migliore cultura ecologista, in particolare la straordinaria intuizione dell'"impronta ecologica" con cui si dimostra come questo tipo sviluppo per alimentarsi ri-chiederebbe le risorse non di uno, ma di due, tre, cinque o più pianeti, soprattutto se volessimo estenderlo a tutti i popoli. Insomma, su questa strada l'umanità prima o poi va a sbattere, come fa intravedere l'odierno caotico scenario internazionale, sconvolto dall'incontrollabile deflagrazione di conflitti cruenti e da migrazioni bibliche ingovernabili, alimentate da diseguaglianze abissali ed insopportabili. L'erranza di Latouche lo porterà a coniare espressioni fulminanti come "decrescita serena" e "abbondanza frugale", apparentemente contraddittorie se si rimane ancorati alla logica di uno sviluppo senza limiti, ma in realtà anticipatrici di una nuova e feconda prospettiva per l'umanità. "Decrescita serena", infatti, non ha nulla a che vedere con l'attuale recessione, ovvero con il disastro di una società programmata per la crescita, ma condannata a non raggiungerla mai: disoccupazione, debito pubblico, disuguaglianze e degrado ambientale aumentano, mentre peggiora la qualità della vita.

La "decrescita serena" richiede ben altre politiche generali e comportamenti individuali e collettivi che Latouche riassume nelle 8 R: rivalutare, ovvero liberare l'immaginario dal giogo della logica di uno sviluppo illimitato; riconcettualizzare, nel senso di ridefinire i valori fondanti di una società "frugale" ed equa; ristrutturare, emancipandosi dalla crescita quantitativa, per un riordinamento qualitativo; ridistribuire le risorse e le ricchezze nel segno dell'equità; rilocalizzare le produzioni e le attività umane invertendo il processo dì globalizzazione; ridurre i consumi superflui a partire dagli sprechi, sia energetici che di merci; riutilizzare i beni contrastando l'attuale obsolescenza programmata dei prodotti; riciclare e rigenerare i materiali per ridurre il fabbisogno di risorse e la pro-duzione di rifiuti.

Quindi, se i dogmi dello sviluppo a ogni costo hanno spalancato l'abisso di una crisi senza fine, l'alternativa radicale, secondo Latouche, è uscire dall'economia, nelle pratiche e nell'immaginario. L'unica strada percorribile per lui, e per tutti gli obiettori della crescita, è quella di recuperare una prosperità non mercantile, ma relazionale. Peccato che, in generale, l'attuale classe dirigente non possa o non voglia permettersi il lusso di una visione di lungo periodo, non riesca a sporgere il proprio sguardo sulle condizioni tra cinquanta o cento anni, in termini di quantità e qualità delle risorse naturali disponibili, per un'esistenza dignitosa e salubre dell'umanità sulla terra.

La pesante eredità per le future generazioni -

Chi avesse a cuore i giovani e le generazioni future dovrebbe preoccuparsi della pesante eredità che lasceremo loro: non solo un enorme debito pubblico ma, per esempio, oltre 10 milioni di ettari di superficie agraria e forestale distrutta dalla cementificazione selvaggia. Mentre 50 anni fa un italiano aveva a disposizione mediamente una superficie produttiva pari ad un campo di calcio, oggi questa si è ridotta a un terzo. Un territorio, dunque, a tal punto devastato dal disordine urbanistico che, in molte aree del Paese, basta un acquazzone troppo intenso per provocare frane e inondazioni con danni incalcolabili alle cose e alle popolazioni. Un patrimonio edilizio che in generale fa acqua da tutte le parti, sia in termini di dispersione energetica che per assenza di strutture antisismiche. Soprattutto dal secondo dopoguerra, Italia si è infatti costruito troppo e male, senza tener conto che ci troviamo su una delle faglie più attive e che terremoti si verificano con regolare periodicità.

Nel Paese del sole, i nostri sistemi di approvvigionamento energetico dipendono ancora in gran parte da combustibili fossili importati e comunque destinati all'esaurimento. Lasciamo in eredità alle future generazioni innumerevoli siti industriali inquinati e migliaia di discariche abusive o incontrollate, con importanti e diffuse contaminazioni dei suoli, delle acque superficiali e di falda, e con prevedibili impatti negativi sulla salute di centinaia di migliaia di abitanti attuali e futuri di quelle aree. Lasciamo una Pianura Padana con livelli di PM10 che normalmente superano di due o tre o volte il limite che l'Ue prescrive come insuperabile per la tutela della salute umana, smog che gli esperti stimano accorci di 3 anni la vita media delle persone, con diverse migliaia di morti all'anno.

Sono solo alcuni esempi del pesante fardello che carichiamo sulle spalle delle future generazioni, di cui nessuno si occupa davvero, salvo nelle dichiarazioni rilasciate in occasione di eventi catastrofici, frettolosamente archiviati quando si spengono i riflettori dei mass media. Eppure sono debiti che hanno a che fare, non con la volatilità della finanza e con la stabilità dello spread, ma con questioni essenziali per la sopravvivenza umana: la sicurezza alimentare; la salubrità dell'acqua, dei suoli e dell'aria; l'energia indispensabile per la riproduzione della vita e per l'organizzazione della società; la garanzia di un'abitazione sicura per la propria famiglia e di scuole non pericolanti per i nostri figli, al riparo dagli effetti distruttivi, ma prevenibili, delle cosiddette "calamità naturali".

Una necessaria "conversione ecologica" - È di questi debiti che la nostra società deve farsi carico, oggi, attraverso una necessaria "conversione ecologica". Un concetto elaborato tanti anni fa da quel profeta tragico che fu Alex Langer, che richiede un'imprescindibile coerenza etica nello stile di vita per cui ognuno, qui ed ora, deve costruire innanzitutto nel suo piccolo il futuro che propugna. In questa prospettiva gli stili di vita, l'etica del quotidiano, la sobrietà sono qualcosa di indispensabile verso cui effettivamente negli ultimi anni si sono compiuti passi importanti tanto che non si contano le pratiche virtuose che vanno in questa direzione: dal consumo critico ai bilanci partecipati, dai gruppi di acquisto al commercio equo e solidale).

Passi che, tuttavia, non sono sufficienti se slittano verso un atteggiamento di rinuncia quasi pregiudiziale al terreno della politica e del governo istituzionale. Senza di ciò, questo processo molecolare dal basso probabilmente non riuscirà ad aggredire quei "debiti di sistema" a cui si faceva riferimento. Per questo è indispensabile che la "conversione ecologica" sia sostenuta da una parallela "conversione politica", cioè da una nuova buona politica, intesa come servizio disinteressato al bene comune dei cittadini e dell'ambiente, capace di valorizzare la partecipazione dal basso e anche di traguardare gli autentici bisogni di delle generazioni future.

Risanare le città -

Prima di rimodellare le città, dobbiamo liberarle dal fardello dell'inquinamento ereditato dal passato. L'obiezione più comune è che bonificare comporta ingenti investimenti in larga parte "a perdere". Invece, come ci spiega l'economista Andrea Di Stefano, sarebbero straordinariamente redditizi sul lungo periodo:

«Sarebbe interessante un'analisi reale sui costi che la collettività ha sopportato nell'ultimo secolo a causa di "innovazioni" che hanno lasciato, e lasciano, pesanti eredità, dirette e indirette, per la salute umana. Temiamo che nessun istituto di ricerca pubblico riceverà mai le risorse necessarie per effettuare questo studio. Proprio per questo crediamo che debba essere acceso un riflettore sui siti da bonificare. Decine di milioni di persone in tutta Europa stanno pagando e pagheranno costi umani e sociali altissimi per l'inquinamento di attività produttive che creano un danno ingentissimo.

Sappiamo che le attività di bonifica sono il primo passo per tentare di mettere un argine alla voragine economica che il mancato intervento sta già producendo. Investendo 100 euro in attività di risanamento è possibile risparmiare da 15 a 40 volte i costi connessi all'insorgenza delle patologie più o meno gravi connesse ai fattori di inquinamento e da 10 a 14 volte i danni fondiari riconducibili al deprezzamento del valore di aree e immobili presenti nelle aree confinanti con quelle da risanare.

Che le bonifiche siano convenineti sul lungo periodo anche sul piano economico lo dimostrano, infatti due studi recenti. Il primo, Policies to clean up toxic industriai contaminateti sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis, è stato pubblicato nel 2011 su una prestigiosa rivista internazionale, "Environmental Health", da un'equipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medicine, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa) e prende in considerazione due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano.

Per bonificare l'area di Gela servirebbero 127,4 milioni di euro e 774,5 milioni per Priolo di contro ad un beneficio economico, sui 50 anni, che ammonterebbe rispettivamente a 6 miliardi e 639 milioni ed a 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.), senza contare le 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, che si eviterebbero ogni anno. Il secondo prende spunto dal progetto di legge approvato in Israele nel 2011 per regolare tutti gli aspetti relativi alla contaminazione del suolo e disciplinare le bonifiche. Uno studio condotto da Lavee et al., finalizzato a valutare il rapporto costi/benefici economici delle bonifiche, che considera due tipi di benefici: quelli diretti (aumento del valore della terra bonificata) e quelli indiretti (aumento del valore delle proprietà circostanti).

A fronte di un costo stimato di 670 milioni di dollari i benefici totali sarebbero di circa 9.6 miliardi, cosicché le operazioni di bonifica porterebbero a vantaggi economici considerevoli, risultanti in particolare in un rapporto costi/benefici di 1:14. Le bonifiche, che non sono quindi un costo, rappresentano il punto di partenza per testimoniare il valore del limite economico e sociale e, per questo, è indispensabile concretizzare al più presto le attività operative, utilizzando le risorse disponibili, a cominciare dai fondi strutturali comunitari. È venuto il tempo di rompere gli indugi per una rivoluzione economica che può avere importanti ricadute sui sistemi locali, non solo sul fronte prettamente del risanamento ambientale (22)».

Perché "Casa Italia" non sia solo un annuncio -

Mettere mano a una grande, immensa, opera di riqualificazione del territorio non è più procrastinabile. Questa è evocata anche dal Piano "Casa Italia" ma perché non si riduca a essere uno dei soliti annunci che cadono nel vuoto, vanno preliminarmente chiariti alcuni punti essenziali. Il primo è che bisognerebbe finalmente decidere con vincoli stringenti lo stop a nuovo consumo di suolo e a nuova cementificazione: una legge chiara e coerente in tal senso sarebbe fondamentale. Il secondo è che occorrerebbe compiere una severa revisione delle altre presunte "vere priorità" legate alle cosiddette "grandi opere infrastrutturali".

Le risorse sono scarse e vanno necessariamente impiegate con oculatezza. È necessaria una direzione chiara verso indirizzare gli investimenti. Non si può fare tutto e il contrario di tutto: ad esempio, rilanciare la ricerca dei combustibili fossili o l'idea di fare del Sud Italia un grande hub del metano con il gasdotto Tap e nel contempo investire per sviluppare le energie rinnovabili. Politiche errate producono errori che si potrebbero evitare con grande risparmio di risorse pubbliche. Si pensi, per fare un esempio, a quelle infrastrutture recentemente realizzate che si stanno rilevando pressoché inutili come l'autostrada Bre-Be-Mi: in questo caso non si tratta solo di spreco di denaro che poteva essere meglio impiegato, ma di distruzione irrimediabile di una vasta estensione di suolo fertile. I progetti per le "grandi opere" andrebbero dunque rivisti tenendo conto della nuova prospettiva in cui ci troviamo, che non può essere quella di un nuovo "miracolo economico". Insomma, non possiamo permetterci di buttare soldi in "grandi opere infrastrutturali" dall'utilità controversa, mentre preme l'urgenza e la priorità assoluta dell'unica vera grande opera buona, ovvero la riqualificazione delle città e dell'insieme del territorio: quello che potremmo chiamare Progetto Belpaese (23).

Qui le azioni possibili sono molte e ci sarebbe spazio per la ricerca scientifica, l'innovazione tecnologica, l'economia e l'occupazione. Facciamo cenno solo ad alcune. Di attualità (ma ancora per quanto tempo?) è la ristrutturazione antisimica dell'edificato, con l'avvertenza che in quest'opera, come ricorda Vittorio Emiliani, vengano coinvolte le Sovrintendenze, onde garantire che la messa in sicurezza degli edifici storici sia coerente con la loro tutela. Questa linea di intervento potrebbe cioè essere l'occasione per la programmazione di interventi di manutenzione del patrimonio architettonico e culturale, onde evitare che al prossimo "inaspettato" crollo si gridi alla scandalo. Al contempo, si dovrebbe operare per una ristrutturazione energetica degli edifici, sia nella direzione del risparmio (nelle città lombarde, oltre il 60% degli edifici si trovano ancora delle ultime due classi energetiche) che dell'uso dell'energia solare.

Occorrerebbe poi liberare le città dai rifiuti che come ricorda l'Ue, con la nuova direttiva sull'economia circolare, dovrebbero essere trattati non come residui da "smaltire" in discariche o inceneritori (la Lombardia ne ha 13, un'enormità!) ma come materiali post consumo da rigenerare, recuperare, riciclare: dunque bisognerebbe a tal fine riprogettare i processi industriali e i prodotti incorporandone la possibilità tecnica di un completo riciclo; bandire gli "usa e getta" e i prodotti ad obsolescenza incorporata, premiando la durabilità degli stessi; e infine sviluppare tutta la filiera della raccolta intelligente di questi materiali e della loro riutilizzazione: solo così potremo evitare alle nostre città il destino di Leonia delle Città invisibili di Italo Calvino che a forza di produrre e smaltire rifiuti attorno a sé si ritrovò sommersa rovinosamente dalla "monnezza".

Avremmo poi bisogno di sistemi di trasporto "dolci" che rendano sempre meno conveniente l'uso dei mezzi a motore privati nelle città, come già avviene spesso nel centro e nord Europa (per esempio, a Monaco, Amsterdam, Berlino, Budapest). Infine bisognerebbe reintegrare la città con il territorio naturale circostante. Innanzitutto rendendo quest'ultimo di nuovo amico dell'abitare, con quell'altra grande opera buona e urgente di un riassetto idrogeologico capace di prevenire gli effetti boomerang indesiderati sulle residenze causati da un suo uso dissennato e da decenni di incuria. In secondo luogo diffondendo la pratica degli orti urbani e scolastici e sviluppando il consumo di alimenti di prossimità e di qualità con i gruppi di acquisto solidale. Infine, la "conversione ecologica" dovrebbe investire anche l'agricoltura (24) emancipandola dalla chimica tossica e dai combustibili fossili.

Città: né camere a gas, né isole di calore -

Il degrado della città contemporanea è stato recentemente descritto con grande efficacia dall'urbanista Paolo Berdini (25). Mi limito a segnalare qui un aspetto che sta rendendo i nostri ambiti urbani difficilmente vivibili, soprattutto per i soggetti più fragili, anziani e bambini: in inverno diventano "camere a gas" e in estate "isole di calore". Nel caso di quelle della Pianura Padana incide anche la conformazione orografica a "catino" che impedisce la ventilazione e determina una stagnazione dell'aria, anche con fenomeni di inversione termica nei periodi freddi che comprimono l'aria (e le emissioni) al suolo.

A ciò si aggiunga la consistente soppressione della copertura arborea dei suoli urbani e l'estesa cementificazione che hanno determinato una riduzione delle correnti d'aria endogene, le cosiddette "brezze". In questo quadro le emissioni prodotte dalle combustioni industriali e dai motori dei veicoli trasformano la Pianura Padana in una delle 4-5 zone del mondo con l'aria maggiormente inquinata, in particolare di ossidi di azoto che in inverno danno origine alle PM10 e PM2,5 e in estate all'ozono.

La letteratura scientifica sui danni per la salute dell'inquinamento atmosferico è sterminata, ma basti qui ricordare che il 17 ottobre 2013 l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Oms ha dichiarato che lo smog è cancerogeno certo per l'uomo. Il Decreto Ministeriale n. 60/2002 di recepimento della Direttiva 1999/30/CE del Consiglio del 22 aprile 1999, stabilisce che, per ciò che concerne le PM10 il valore limite di 50 ?g/m3 non si può superare "per più di 35 volte per anno civile". L'art. 17 del citato D.M. stabilisce che tale valore è il limite massimo volto alla "tutela della salute umana". Tale limite è entrato in vigore il 1 gennaio 2005 e da quella data l'Italia, come tutti i Paesi Ue, avrebbe dovuto rispettarlo. Ovviamente, com'è noto, nelle città della Pianura Padana (ma non solo), dal 2005 a oggi, i giorni in cui invece è stato superato sono stati mediamente da 2 a 3 volte quelli indicati. Cosicché, il 19 dicembre 2012, accompagnata dall'assordante silenzio dei media, è giunta anche la prima condanna della Corte di giustizia della Ue per inadempimenti del diritto comunitario in relazione al limite per le PM10 (26).

In estate, oltre all'inquinamento da ozono tossico per l'uomo, si verifica il meno noto fenomeno delle "isole di calore". Il tema fu studiato in un lontano passato da Laura Conti (27), poi ripreso, a partire dal 2007, da Legambiente (28). L'espressione "isole di calore" è stata coniata per descrivere l'ambiente e il clima delle aree urbane durante i periodi caldi. Il fenomeno si verifica un po' ovunque nel mondo, in particolar modo nelle grandi metropoli divenute veri e propri deserti di cemento e asfalto.

Nelle città, infatti, il surriscaldamento del pianeta si esaspera e diventa più percepibile che altrove a causa della concentrazione di combustioni civili, energetiche, trasportistiche e industriali in condizioni di sostanziale assenza di verde. Un fenomeno che rischia di tradursi in emergenza sanitaria oltre che in un significativo peggioramento della qualità delle vita nelle aree cittadine. L'eccesso di caldo è responsabile dell'aumento di decessi: nel 2003, in Italia, dove le temperature furono per settimane intorno ai 40 °C in molte città, le morti durante l'estate sono state 18.000 in più rispetto all'anno precedente (29). E il fenomeno si è ripetuto nel 2015 alla cui calda estate vanno in parte addebitati i 68.000 morti in più rispetto al 2014 (30).

Nel 2015 ricercatori dell'Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr hanno sviluppato, per le più popolose città italiane, mappe relative alla distribuzione spaziale del rischio diurno e notturno da caldo urbano per la popolazione anziana (soggetti di età superiore a 65 anni). I risultati di questo studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista "Plos One" (31). Ma al di là della mortalità, la vita in città d'estate è diventata spesso estremamente disagevole: una questione la cui rilevanza è dimostrata dal fatto che l'Unione europea ha recentemente elaborato il Progetto Uhi con cui intende fronteggiare proprio il fenomeno delle isole di calore (urban heat island - Uhi) attraverso la pianificazione territoriale (32).

La "città intelligente" è prima di tutto salubre -

Per tutte le ragioni sopra esposte, l'obbiettivo delle città italiane dovrebbe essere quello dell'abbandono dell'attuale modello termoindustriale, incompatibile con il proposito di ottenere una buona qualità dell'aria e con la necessità di liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (green economy). Ciò sarebbe, in sostanza, quanto viene indicato dall'Europa per realizzare le cosiddette "città intelligenti" che dovrebbero essere prima di tutto salubri. Una significativa riduzione delle combustioni (70-80%) può essere ottenuta agendo su tre fronti: le combustioni industriali, le combustioni domestiche, le combustioni dei veicoli

Per le combustioni industriali: a) andrebbero gradualmente smantellate quelle facilmente evitabili, come quelle necessarie per l'incenerimento dei rifiuti urbani e speciali: questi andrebbero recuperati come materia, con benefici economici, occupazionali, ambientali; a tal fine andrebbe generalizzata una raccolta differenziata di qualità, sia domestica sia presso le singole unità commerciali e produttive; b) andrebbero drasticamente ridimensionati i cementifici, in relazione all'obiettivo di perseguire la "crescita zero" del suolo edificato e delle infrastrutture viabilistiche, assolutamente inderogabile in un territorio congestionato in cui la copertura verde e i terreni agricoli sono già sotto i limiti di soglia per conservare un accettabile equilibrio ecologico; c) andrebbero tendenzialmente chiuse tutte le centrali termoelettriche, alimentate con i più diversi combustibili (carbone, gas, "biomasse", rifiuti, olio di colza o di palma, reflui zootecnici): questo processo andrebbe accompagnato da una drastica riduzione delle domanda energetica conseguita con interventi di risparmio sia nel settore industriale (ridimensionamento dei settori ad alto consumo energetico come l'elettrosiderurgia), sia nei consumi domestici; andrebbe inoltre sviluppato un processo di diffusione capillare della piccola produzione decentrata con fonti rinnovabili (piccolo eolico, microidroelettrico, fotovoltaico); il fotovoltaico è l'opzione strategica, purché non venga implementato su terreni agricoli o comunque verdi; si può infatti calcolare che coprendo i tetti civili, commerciali, industriali della pianura lombarda con pannelli fotovoltaici (nell'ordine di un 2% del territorio di pianura, dimensione facilmente inseribile sull'attuale edificato e cementificato), si potrebbero installare circa 20.000 MW elettrici, molto vicini alla produzione fornita dal termoelettrico da combustibili fossili); d) andrebbe ridimensionato, anche in relazione alla crisi strutturale in corso, tutto il settore della metallurgia secondaria, fortemente energivoro e inquinante: è sempre più illogico e antieconomico rastrellare rottami a migliaia di chilometri di distanza, laddove potrebbero essere facilmente rifusi in loco; in sostanza, al massimo, la dimensione potrebbe essere commisurata alla disponibilità di rottame prodotto sul territorio stesso della Pianura Padana.

Per le combustioni domestiche: a) le abitazioni, gli uffici, i luoghi di lavoro, dovrebbero essere riscaldati a precise condizioni: innanzitutto con una coibentazione ad alta efficienza; in secondo luogo bisognerebbe rendere accettabile una temperatura ambiente anche in inverno inferiore ai 20° con apposite campagne tese a spiegare come una maglia di lana in più e calze pesanti permettano condizioni di comfort accettabili e un considerevole risparmio energetico; così pure, bisognerebbe prevedere interventi di aerazione, di diffusa piantumazione di alberi in città e di coperture arboree degli edifici tesi a garantire anche in estate temperature accettabili così da non rendere necessario il condizionamento dell'aria; tali interventi dovrebbero essere sostenuti sviluppando al massimo l'impiego del solare termico (che sottrae calore agli edifici in estate e che può trovare parziale impiego anche nelle stagioni fredde) e della geotermia locale, con effetti benefici, quest'ultima, di raffrescamento in estate e di riscaldamento in inverno; in questo quadro, bisognerebbe procedere alla progressiva dismissione dei grandi sistemi di teleriscaldamento che provocano un enorme spreco di energia termica prodotta con combustioni e in estate contribuiscono al surriscaldando delle città.

Per le combustioni dei veicoli: la bussola, in questo caso, non può che essere quella della drastica riduzione dei veicoli a combustione interna, a partire da quelli diesel, molto più inquinanti di quelli a benzina. In particolare: a) le risorse disponibili per le infrastrutture viabilistiche, inutili e controproducenti, dovrebbero essere dirottate verso il potenziamento del trasporto su rotaia, delle merci e delle persone, sviluppando attorno alle città efficienti reti di metropolitane di superficie, sia tranviarie che ferroviarie, utilizzando al meglio la rete esistente; il modello potrebbe essere la città di Monaco dove la mobilità è garantita da un simile sistema, per cui l'automobile risulta perfino non necessaria; b) per le merci, si tratta anche di prevenire il bisogno di trasporti, incentivando la cosiddetta filiera corta, il "chilometro zero", mentre andrebbero ridotti i settori ad alta intensità trasportistica (come, ancora una volta, la metallurgia); nei trasporti urbani, andrebbero del tutto sostituiti gli autobus, molto inquinanti, con i filobus, tenendo conto che quelli più moderni dotati di accumulatori al litio, non richiedono l'installazione della rete elettrica nei centri storici, che possono attraversare in totale autonomia; c) l'uso dell'automobile andrebbe quindi drasticamente ridimensionato: l'obiettivo a breve potrebbe essere quello di ridurre il traffico automobilistico, da record mondiale, presente ad esempio in Lombardia, allineandoci a Paesi più all'avanguardia come l'Olanda: si tratterebbe di abbassare le attuali 65 automobili circa ogni 100 cittadini lombardi, alle 45 auto ogni 100 cittadini olandesi: una riduzione del 30%, possibile mantenendo una qualità della vita elevata; ciò sarebbe realizzabile offrendo valide alternative: un sistema di trasporto pubblico, possibilmente a trazione elettrica, capillarmente diffuso ed efficiente; un sistema di piste ciclabili, anch'esso capillarmente diffuso e tutelato rispetto al traffico veicolare (da questo punto di vista la città di Ferrara insegna che la bicicletta può essere padrona della mobilità urbana); d) per scoraggiare l'uso dell'automobile andrebbero poi adottati provvedimenti quali: la chiusura dei centri storici alle auto; targhe alterne per tutti i periodi critici; ecopass; forte tassazione, progressiva in ragione della cilindrata e del tipo di motore; incentivi per le auto ibride (benzina-elettriche) e le auto elettriche.

Dunque, riprogettare le città a 40 anni da Seveso appare un compito di eccezionale portata perché si tratterebbe di attuare in primo luogo una sorta di rivoluzione antropologica e culturale. Da questa però non possiamo prescindere per la nostra stessa sopravvivenza e per quella di chi verrà dopo di noi: l'intelligenza delle città e delle collettività che le abitano si coglierà soprattutto dalla loro capacità di dimostrare di aver appreso la lezione del passato e di aver agito di conseguenza.

Note

(1) Oltre a questo libro (la cui prima edizione risale al 1995 per i tipi di Baldini & Castoldi), sul disastroso incedente di Seveso v. anche: AA. VV., Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Mazzotta, Milano 1976; B. Leonci, G. Nebbia, L. Notarnicola, Industria e ambiente. Il caso Seveso, "Quaderni di merceologia", 16, 2, maggio 1977, pp. 177-209; M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa, Seveso. La tragedia della diossina, Edizioni GR, Befana Brianza 1977; L. Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978; M. Ramondetta, A. Repossi, (a cura di) Seveso vent'anni dopo. Dall'incidente al Bosco della Querce, Fondazione Lombardia per l'ambiente, Milano 1998; L. Centenari, Ritorno a Seveso. Il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione, Bruno Mondadori, Milano 2006.
(2) P. Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Feltrinelli, Milano 1980.
(3) P. P. Poggio, M. Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano: industria, chimica e ambiente, Fondazione Micheletti-Jaca Book, Milano 2012, pp. 1-35.
(4) DM 11 gennaio 2013.
(5) Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia, Roma 12 dicembre 2012, pp. 658-660.
(6) M. Ruzzenenti, Le bonifiche in Italia, in "Lo straniero. Arte, cultura, scienza, società", a. XVIII, n. 170/171, agosto-settembre 2014, pp. 81-89.
(7) Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio 1901, art. 93.
(8) Ibidem, art. 94.
(9) Ibidem, art. 102.
(10) T. Montanari (a cura di) - con scritti di P. Maddalena, G. Losavio, M. Bray, E. Salzano, P. Berdini, V. De Lucia, S. Settis, A. Donati, M. P. Guermandi, P. Dommarco, D. Finiguerra, A. M. Bianchi, A. Caporale, C. Petrini, Wu Ming, L. Martinelli, P. Raitano -, Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro, Altraeconomia, Milano 2014.
(11) Ispra, Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi eco sistemici. Edizione 2016, Roma 2016, p. 2. http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_consumo_suolo_20162.pdf
(12) Ivi, p. 80.
(13) M. Ruzzenenti, L'ambiente non si vende, in Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2008, pp. 53-73.
(14) Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, intervistato da Gianni Riotta alla festa dell'Unità di Firenze, l8 settembre 2016, in T. Rodano, Uno scomodo Riotta: "Matteo come va?", "Il Fatto quotidiano", 10 settembre 2016, p. 6.
(15) http://www.nimbyforum.it/area-stampa/comunicati
(16) "Affari e Finanza - La Repubblica", 11 settembre 2006.
(17) M. Revelli, "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi". Vero, Laterza, Bari-Roma 2014.
(18) L. Summers, The Age of Secular Stagnation: What It Is and What to Do About It, http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/
(19) E. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991. L'era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.
(20) Club di Roma, I limiti dello sviluppo, Napoli 1972.
(21) La bibliografia di Serge Latouche è molto ampia. Segnaliamo solo: Decolonizzare l'immaginario. Il pensiero creativo contro l'economia dell'assurdo, EMI, Bologna 2004; Per un'abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2011; La scommessa delle decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.
(22) A. Di Stefano, Bonificare è meglio che curare, "Missioneoggi", n. 1, gennaio 2014, pp. 25-26.
(23) M. Ruzzenenti (a cura di), Progetto Belpaese. Una grande opera per l'Italia, dossier di "MissioneOggi", n. 1, gennaio 2014, http://www.ambientebrescia.it/ProgettoBelpaeseMO_gennaio_2014.pdf.
(24) P. P. Poggio, Le tre agricolture, Fondazione Micheletti - Jaca Book, Milano 2015.
(25) P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma 2015.
(26) http://curia.europa.eu/juris/document/document_print.jsf?doclang=IT&text=&pageIndex=0&part=1&mode=lst&docid=131974&occ=first&dir=&cid=169804#Footnote
(27) L. Conti, Che cos'è l'ecologia, Mazzotta, Milano 1977, p. 57.
(28) Legambiente, Città, il clima è già cambiato. Rapporto, settembre 2007; Il clima cambia le città, Conferenza a Venezia, 23-24 maggio 2013, http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/climacitta_atticonferenza.pdf ; le città italiane alla sfida del clima, Roma 2016, http://www.qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/le_citta_italiane_alla_sfida_del_clima_2016.pdf.
(29) Plan B Updates - 56, Setting the Record Straight - More than 52,000 Europeans Died from Heat in Summer 2003.
(30) C. Tromba, Caldo, grande guerra e influenza. I segreti del boom dei decessi, "Il Fatto quotidiano" 9 febbraio 2016.
(31) http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0127277 (32) http://eu-uhi.eu/it/

N.d.C. - Marino Ruzzenenti - storico, docente e attivista ambientale - si è a lungo occupato di tematiche ambientali e sociali. Ha svolto attività sindacale, organizzato convegni, tenuto conferenze e promosso iniziative volte alla diffusione di una cultura sensibile ai temi dell'ambiente, della tutela dalla salute, del rispetto della dignità dei lavoratori. Nel 1994 è stato tra i soci fondatori di "Cittadini per il riciclaggio" (associazione che si è battuta contro il megainceneritore Asm di Brescia); ha partecipato fin dalla fondazione, nel 2014, al Forum delle associazioni per un ciclo dei rifiuti sostenibile di Brescia e al tavolo Basta veleni; ha collaborato, fino al 2015, con il Coordinamento dei comitati ambientalisti della Lombardia. Dal 2007 gestisce il sito web di informazione e documentazione ambientale sul Bresciano (www.ambientebrescia.it) e, dal 2013, per la Fondazione Luigi Micheletti, cura il sito www.industriaeambiente.it. È membro del comitato di redazione della rivista on line, diretta da Giorgio Nebbia, "altroNovecento. Ambiente, tecnica e societa" e collabora - come membro del comitato scientifico - con "Medicina democratica". Nel 2010 ha promosso, con altri, la fondazione dell'Associazione culturale "Ripensare il mondo" (www.ripensareilmondo.it).

Tra i suoi libri: Il movimento operaio bresciano nella Resistenza (Roma: Editori riuniti, 1975); La 122^ Brigata Garibaldi e la resistenza nella Valle Trompia (Brescia: Nuova ricerca, 1977); Libro e moschetto... : storie di ragazzi nella Brescia fascista: invito al mestiere dello storico (S. l.: Studio Ikon, 1995); Operai contro: la resistenza al fascismo dei lavoratori della OM di Brescia e di Gardone Valtrompia 1940-1945 (Brescia, 1995); con P. Costa e G. Nebbia, A come ambiente: corso di educazione ambientale (Firenze: La Nuova Italia, 1998); (a cura di) con M. Soana, Il pericolo non è il mio mestiere: la cultura della prevenzione per un lavoro sicuro (Brescia: Azienda sanitaria locale - Provveditorato agli studi, 1999); con R. Cucchini, Gastone Sclavi e la stagione dei Consigli (Brescia: Micheletti, 2000); Un secolo di cloro e... PCB: storia delle industrie Caffaro di Brescia (Milano: Jaca Book, 2001); L'Italia sotto i rifiuti: Brescia: un monito per la penisola (Milano: Jaca Book, 2004); La capitale della RSI e la Shoah: la persecuzione degli ebrei nel Bresciano, 1938-1945 (Rudiano: GAM Editrice, 2006); Bruno, ragazzo partigiano: Giuseppe Gheda 1925-1945 (Rudiano: GAM Editrice, 2008); L'autarchia verde: un involontario laboratorio della green economy (Milano: Jaca Book, 2011); Shoah: le colpe degli italiani (Roma: Manifestolibri, 2011); (a cura di) con P. P. Poggio, Il caso italiano: industria, chimica e ambiente (Brescia: Fondazione Luigi Micheletti; Milano: Jaca Book, 2012); Le donne della Caselo (Castiglione delle Stiviere: Associazione culturale presenARTsi, 2013).

«La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici».Il Fatto Quotidiano online,, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

L’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 22 novembre scorso ha portato finalmente alla ribalta nazionale la vicenda, davvero surreale, del progetto di Passante ferroviario Alta Velocità di Firenze. Che cos’è questa infrastruttura, la più grande che si vorrebbe realizzare in città? Sarebbe una linea sotterranea di collegamento tra le tratte AV che, da nord e da sud, arrivano a Firenze; è composta da un doppio tunnel di circa sette km e una stazione interrata 25 metri sotto il livello del suolo, completamente scollegata dal restante trasporto ferroviario.

Opera estremamente impattante e dalle difficoltà di realizzazione enormi, tanto che lo scavo dei tunnel non è nemmeno iniziato per il problema di smaltimento delle terre di scavo e dai rischi enormi di cedimenti e danni per parecchie migliaia di appartamenti e alcuni monumenti come la Fortezza da Basso.

Il progetto risale ai tempi del denaro facile. La scelta di scendere con la ferrovia nel sottosuolo non è dovuta agli scarsi spazi in superficie ma ad una decisione presa dalla classe politica toscana per attrarre risorse miliardarie in città. Un primo progetto prevedeva il potenziamento delle linee esistenti, ma nel frattempo a Bologna avevano ottenuto oltre un miliardo di finanziamento per realizzare un sottoattraversamento AV. Forse per invidia, certamente per appetiti inconfessati, anche Firenze volle i suoi tunnel e i suoi miliardi che poi sarebbero andati a finanziare le cooperative amiche (infatti la gara fu vinta da Coopsette, nel frattempo fallita, oggi l’appalto è passato Condotte SpA di Caltagirone).

I cantieri furono aperti nel 2009 addirittura senza avere i permessi per lavorare: furono imposti alla città da una cinica volontà per far trovare i cittadini davanti al fatto compiuto. Iniziò da allora la litania dell’«ormai è troppo tardi per tornare indietro». Le critiche dei comitati cittadini, supportati da ricercatori e dall’Università, dimostrarono invece le insormontabili difficoltà ad andare avanti, ma le orecchie della politica rimasero accuratamente serrate davanti agli appelli al buon senso.

Oggi, a oltre 20 anni dalla proposta del progetto e 7 anni dopo l’apertura del cantiere, i nodi vengono al pettine e le difficoltà, unite all’aumento vertiginoso dei costi, hanno indotto le FS a ripensare a tutto. All’inizio dell’estate il sindaco di Firenze Dario Nardella – membro di primo piano con l’ad delle Ferrovie Renato Mazzoncini, renziano fedelissimo – disse che il progetto di sottoattraversamento della città sarebbe stato accantonato e che le FS avevano un progetto di potenziamento delle linee di superficie.

Immediatamente e con una virulenza insospettata la vecchia guardia del Partito Democratico toscano, all’interno del quale era nato e prosperato lo sperpero dovuto al progetto, fece muro e iniziarono trattative di scambio tra le due correnti del partito: all’ala renziana sta molto a cuore la costruzione di un inceneritore e soprattutto del nuovo aeroporto intercontinentale di Firenze, all’ala del vecchio Pci interessa molto lo scavo dei tunnel.

Da quel momento è cominciata una girandola di ipotesi le più fantasiose: tunnel di qua, tunnel di là, stazioni sotterranee, per finire con un tunnel senza stazione. Anche i cittadini più disinteressati hanno cominciato a chiedersi quale tarlo rodesse le meningi dei nostri politici che erano arrivati all’assurdo di voler scavare senza nemmeno una fermata in città. Consci della illogicità delle proposte si è passati ad abbandonare la megagalattica stazione sotterranea progettata da Norman Foster per approdare ad una “miniFoster”, una stazione più piccola senza i 30.000 m2 di centro commerciale previsto. L’illogicità permane perché lo scavo iniziato non è per una mini-stazione, ma per una struttura interrata di tre piani, ciascuno di circa 20.000 m2.

Ma l’apoteosi dell’insensatezza è dovuta al fatto che, nonostante si voglia abbandonare la realizzazione della megastazione, i lavori fervono in quel cantiere come mai si è visto in tutti questi anni: i cantieri sono sempre stati semideserti e addirittura si arrestarono, nel 2014, durante le due inchieste che la magistratura avviò sul progetto con accuse pesantissime di truffa, corruzione e infiltrazioni mafiose.

All’improvviso, in occasione delle dichiarazioni di Nardella di voler abbandonare la stazione, i cantieri si sono riempiti di lavoratori e in pochi mesi si sta realizzando il solaio del primo piano con strutture in acciaio che saranno difficilmente riutilizzabili; centinaia di lavoratori si affannano in turni serrati lavorando anche di domenica per un’opera che non sarà mai né finita, né utilizzata.

Proprio nelle ultime ore c’è stato un accordo tra Rfi, il costruttore e i sindacati confederali perché i cantieri vadano avanti fino a febbraio «per garantire il lavoro a 50 operai che erano a rischio licenziamento». Questo assurdo ricatto si aggiunge alla lista sterminata delle incongruenze Tav: ci sono i cantieri infiniti di una tranvia di cui non si vede la fine che sono ormai una barzelletta in città perché sempre vuoti, ci sono i poveri terremotati che, se sapessero come vengono sperperati tanti soldi in opere da demolire, avrebbero molto da dire a tutti questi protagonisti dello spreco. Ci si chiede cosa si aspetta a dire stop e fermare questa emorragia finanziaria: le FS, che sono il committente dell’opera, tacciono e lasciano andare, idem il governo e le istituzioni locali.

La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici. D’altronde la seconda inchiesta sul Tav fiorentino (detta “Sistema”) e quella attuale aperta sui lavori del Terzo Valico (detta “Amalgama”) lo spiegano bene: sono enormi problemi che aspettano risposte politiche che non arriveranno mai dalle attuali maggioranze. Non è un problema di mele marce, ma di un frutteto in putrefazione.

«Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale». La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 novembre 2016 (c.m.c.)

In Italia le alluvioni autunnali sono tutto tranne che imprevedibili. Sono la norma: a causa del dissesto del territorio nazionale, e del mutamento climatico globale.

Si può fare qualcosa? Sì, si DEVE fare qualcosa. Si deve finalmente comprendere che l'unica Grande Opera Utile, l'unica opera di interesse strategico nazionale è la messa in sicurezza del territorio. Il che include anche la prevenzione antisismica. Oltre al dovere di fare la propria parte in un'accelerazione del superamento dell'uso dei combustibili fossili, prima causa del riscaldamento globale e della tropicalizzazione del nostro clima, monsoni inclusi.

Per fare tutto questo non ci sarebbe bisogno di cambiare la Costituzione: basterebbe cambiare la classe politica.

E invece cosa fa questa classe politica? Cambia la Costituzione scrivendo che l'interesse strategico del Paese sta nella «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale», (articolo 117 come riscritto dalla riforma a firma Renzi, sulla quale voteremo il 4 dicembre).

Non solo non si scrive che l'interesse strategico degli italiani è non morire affogati nelle alluvioni da cemento. Ma si scrive, al contrario, che l'interesse strategico nazionale è ancora cemento, sempre cemento, solo cemento. Un cemento sul quale deciderà solo il governo centrale.

Roberto Saviano ha scritto in Gomorra: «La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana». Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui «sviluppo» era uguale a «cemento». In cui per «fare» era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.

Non è dunque un caso se il Presidente del Consiglio ha aperto la campagna del Sì annunciando la costruzione del Ponte sullo Stretto di fronte ad una platea di imprenditori del cemento. È questo il vero interesse che guida la politica, come si apprese ai tempi dello Sblocca Italia e delle relative dimissioni dei ministri Lupi e Guidi. In altri termini: la Questione Ambientale è una parte della Questione Morale.

Lo capì perfettamente Enrico Berlinguer, che parlando al Comitato Centrale del Partito Comunista del 4 giugno 1974 disse che bisognava porre fine «al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere».

Se piove non si può dire «governo ladro». Ma se la pioggia fa i danni che fa oggi, invece si può dire. Si deve dire.

Una testimonianza dell'ex sindaco di Sesto Fiorentino. Storie individuali e storie collettive legate tra loro per più di un secolo. Spezzato questo filo, entrano in gioco i soliti noti: real estate, cordate, banche. Presidiare questa vicenda è importante per tutti, non solo per gli abitanti e i lavoratori di Sesto Fiorentino. (m.b.)

Ginori annunciati 87 esuberi.Qualcuno l’aveva detto, anche in campagna elettorale, che il problema non era il Museo ma il rischio di far diventare museo fabbrica e lavoratori.Ma era più facile fare interrogazioni su una cosa naif che impegnarsi in operazioni difficili quali rendite immobiliari, piani industriali, appetiti fondiari, destinazioni urbanistiche, in sintesi interessi economici complessi. Tralascio le foto in posa con gli amministratori della fabbrica.

Riepiloghiamo:le aree della Ginori sono l’ultimo grande e pregiato spazio edilizio nelle aree urbane della Firenze Nord Ovest. Interessano imprenditori immobiliari dal 2004, data di nascita della Ginori Real Estate e del conferimento a questa dei terreni. La società, da tempo in liquidazione, era ed è proprietà di due soggetti: Ginori 1735 e Trigono, entrambi possiedono il 50% della proprietà. L’amministratore delegato della stessa era l’ex proprietario di Btp Riccardo Fusi.Per anni, dal 2004 al 2013, si sono succedute cordate, quasi sempre sotto sotto orientate alla valorizzazione immobiliare delle aree.

Il Comune, allora (ero Sindaco) , fece due cose:
- cancellò qualsiasi previsione di edificazione sull’area (prevista dal piano strutturale del 2004);
- dichiarò pubblicamente una disponibilità a ragione, con un’unica proprietà (industriale ed immobiliare) e con un piano industriale di rilancio, anche un’eventuale messa a reddito di una porzione delle aree in questione, con l’obiettivo di tenere la Ginori a Sesto (anche in un’altra area) e di rilanciare la produzione manifatturiera di qualità.

Quando la Ginori fu messa in liquidazione ci fu chi sostenne che per fare quel prodotto, nel mercato attuale fossero sufficienti molti meno dipendenti (150-160). A questo tutti ci opponemmo tant'è che l’offerta irrevocabile di Gucci all'asta fallimentare del 2013 prevedeva il mantenimento dell’occupazione al livello 230 con l’impiego delle eccedenze in attività collaterali del gruppo.In questi anni la nuova proprietà non ha risolto né il nodo dei terreni, né quello del rilancio del prodotto che, seppur rinnovato nel design non ha aggredito in nessun modo i mercati mondiali del lusso e del tabellare.

Andava e va guardata la luna e non il dito. Del Museo parleremo a tempo debito, per fortuna c’è un vincolo apposto dal Ministero dei beni culturali in accordo con il Comune che impedisce qualsiasi speculazione e spostamento dell’edificio e del patrimonio. Ora è della carne viva dei lavoratori che dobbiamo occuparci.Va attivato immediatamente il tavolo nazionale per trovare un accordo sui prezzi dei terreni e liquidare per sempre gli appetiti fondiari e va respinto un piano industriale che non preveda investimenti e rilancio anche ricordando che Gucci comprò per un tozzo di pane (appena 13 milioni di €) la fabbrica.La formula, benchè alla crisi aziendale si sia sommata quella mondiale, è sempre quella
- La Ginori deve stare a Sesto Fiorentino;
- La produzione deve rimanere manifatturiera;
- L’occupazione deve essere la più alta e qualificata possibile.

Forza ragazzi siamo sempre con voi!!!Ps Qualcuno ha visto gli industriali toscani? O saranno, come al solito, dietro ad aeroporti e poli espositivi?

«Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa». il manifesto, 25 novembre 2016 (c.m.c.)

In Valnerina è rimasto sotto la macerie anche l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica.

Non si riesce a trovare, almeno nella storia postunitaria, un disastro paragonabile: dopo il 24 agosto non siamo riusciti non dico a puntellare le chiese – e nessuno oggi può dire cosa sarebbe successo se fosse stato fatto –, ma nemmeno ad asportarne le opere mobili: pale d’altare (spesso straordinariamente importanti), sculture, oreficerie, arredi. Mentre il ministro Dario Franceschini farneticava di ‘caschi blu della cultura’, non succedeva assolutamente nulla.

E dopo la terribile scossa del 30 ottobre, ancora nulla: fino a che i sindaci non hanno invocato a gran voce il diritto di fare da soli. È quel che il commissario Vasco Errani ha concesso: tornando indietro di oltre un secolo, è passata l’idea che non ci sia bisogno di tecnici per gestire le emergenze del patrimonio culturale. Come far operare al sindaco un ferito grave, perché l’ambulanza, da giorni, non arriva.

E così oggi ammiriamo le ruspe sui cumuli degli affreschi, e vediamo che sono i carabinieri (peraltro eroici, come sempre) a portar via le opere mutile dalle chiese in rovina. Così: adagiandole sui prati bagnati, senza fare una fotografia, senza mezzi speciali, senza alcun protocollo. Così, come se fossimo non l’Italia – patria della più avanzata tutela del patrimonio –, ma l’ultimo fra i più barbari dei paesi.

Ma com’è possibile che siamo arrivati a questo punto di non ritorno?

È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. […] Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto».

Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze cosiddette ‘olistiche’, la disarticolazione degli archivi delle vecchie soprintendenze, il rimescolamento deliberato di un personale che oggi si trova a tutelare un territorio che gli è ignoto, il dirottamento di tutti i fondi sui «grandi attrattori turistici», lo sbilanciamento estremo verso la valorizzazione (con il tentativo di introdurre in Costituzione anche il concetto di ‘promozione’, affidandolo alle Regioni), la sottoposizione ai prefetti, il mancato turn over (i 500 che prenderanno servizio nel 2017 non basteranno neanche a rimpiazzare l’ultima ondata di pensionamenti, e in Umbria c’è oggi un solo archeologo!). Tutto questo, unito all’atavica carenza di fondi e di personale, ha condotto al disastro che è sotto gli occhi di tutti.

Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa. Ma in questo caso c’è stato un imprevisto: il terremoto, che ha svelato troppo presto che il sistema della tutela, semplicemente, non esiste più. Passata l’emergenza, d’altra parte, si farà leva anche su questo tragico tornante: e si dirà che se i sindaci sono stati capaci di gestire l’emergenza, allora potranno a maggior ragione governare la tutela ordinaria. E così finalmente si potranno chiudere le soprintendenze.

La testa di Sandro Bondi rotolò per un danno infinitamente meno grave di quello ora provocato dalle scelte scellerate di Dario Franceschini: ma quest’ultimo gode di una vastissima indulgenza mediatica, dovuta al fatto che, controllando ancora i gruppi parlamentari del Pd, viene considerato una riserva strategica per il dopo 4 dicembre, comunque vada. Dovremmo, tuttavia, ricordarci, con Voltaire, che «i particolari e i congegni della politica cadono nell'oblio, ma le buone leggi, le istituzioni e i monumenti prodotti dalle scienze e dalle arti sempre sussistono».

Ebbene, se vogliamo che il nostro patrimonio culturale abbia qualche speranza di sussitere ancora, è vitale e urgente cambiare ministro, e cambiare politica. Anche su questo si vota, il 4 dicembre.

Il Fatto Quotidiano online, 23 novembre 2016 (p.d.)

Ci sono 4.764.900 euro che il Gabinetto del ministro ha stanziato per le “Attività volte a garantire il conseguimento delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo”. Poco di più di 36,2 milioni di euro vanno ai lavori pubblici, quasi 12,3 milioni di euro per la tutela dei beni archeologici e poco più di 175mila euro per la sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura. Le cifre sono quelle del bilancio del Mibact per il 2016. Appena approvato dal Consiglio superiore dei beni culturali. A poco più di un mese e mezzo dal nuovo anno.

“Il bilancio della cultura, tornato nel 2016 per la prima volta dopo otto anni sopra i due miliardi di euro, è il cuore e l’anima della manovra economica del Governo. La fine della lunga stagione dei tagli é segnalata dalla crescita del 27% delle risorse del Mibact, con nuovi fondi per la tutela del patrimonio e i grandi progetti culturali. La programmazione del fondo per la tutela ha assegnato 300 milioni di euro a interventi di restauro e messa in sicurezza dei musei nel triennio 2016-2018”. Il resoconto di “Due anni di Franceschini” pubblicato sul portale del Mibact nel febbraio 2016 riempie il cuore. “La stagione dei tagli è finita”, ha dichiarato a settembre il Ministro in visita in Sicilia. Eppure a leggere le cifre del bilancio 2016 qualche dubbio resta.

La salvaguardia del patrimonio storico-archeologico colpito dal sisma è tema d’attualità. Modalità, tempi e risorse impegnate sono sotto la lente d’ingrandimento. Tra i numeri del Segretariato Generale ecco la cifra “Per il coordinamento e monitoraggio ai fini della sicurezza del patrimonio culturale a fronte di emergenze e calamità di qualsiasi natura”. Per il 2016 disponibili 175.020 euro. Cifra che peraltro si prevede di assottigliare a 162.275 nel 2017 fino a 160.744 nel 2018.

Non va meglio analizzando i dati della Direzione Generale archeologia belle arti e paesaggio. Per la “Attività di tutela paesaggistica sul territorio nazionale” previsti 28.849.395 euro. Tanto in confronto alle “Attività in materia di tutela dei beni archeologici”, capitolo per il quale ci sono 12.276.383 euro. Molto meno rispetto ai 36.182.135 euro a disposizione della “Tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio”. Cifre che vanno suddivise per le diverse Soprintendenze del territorio nazionale. Comprese quelle, ad esempio, della Campania e del Lazio, nelle quali si concentrano un numero tutt’altro che modesto di aree archeologiche e di immobili di riconosciuto interesse. Naturalmente é contemplata anche la “Attività di tutela nel territorio di competenza in materia di concessioni di scavo”, per cui sono stati predisposti 4.409.961 euro.

Un capitolo a parte meritano i lavori pubblici. Per l’archeologia ci sono 7.595.018 euro, disponibili per una vasta gamma di interventi. Passando agli stanziamenti regionali, per il Lazio 2.431.500, per la Campania addirittura di meno, 607.500 euro. Seicentosettemilaecinquecento euro per l’anfiteatro romano di Nola, il Museo e la Villa romana di Sala Consilina, i siti archeologici del territorio casertano, le aree archeologiche e Palazzo Reale di Napoli, oltre all’anfiteatro romano di Avella. Tutto il resto escluso da finanziamenti! In coda l’Abruzzo, con 94.854 euro.

Passando al settore Belle arti, figurano 13.207.234 euro. Qui il Piemonte ha avuto 2.320.000 euro ma, ad esempio, la Toscana delle Ville medicee 1.144.275 euro. L’Umbria e le Marche, regioni dal patrimonio storico-artistico più che cospicuo, rispettivamente, 250.000 e 257.000 euro.

Per il settore Poli museali non autonomi, stanziati 6.477.953 euro. Per gli Istituti a disposizione 1.483.279 euro. Gli archivi beneficeranno di 4.870.331 euro. Infine, per le biblioteche ci sono 2.656.311 euro.

Così nel complesso risulta che lo stanziamento dei lavori pubblici per il 2016 ammonta a 36.290.126 euro, mentre la richiesta, presente nella programmazione provvisoria, era di 80.040.898 euro. Insomma per l’anno in corso per i lavori pubblici si registra un divario di 43.750.771 euro. Non uno scarto esiguo, considerando che le richieste delle diverse Soprintendenze già sono “al ribasso”.

Nel 2015 la somma complessiva era stata di 35.287.163 euro, nel 2014 di 41.537.783 euro, nel 2013, di 47.777.663 euro. Numeri che tradotti in percentuale significano circa un 3% in più per l’anno in corso rispetto al precedente, ma circa un 13% in meno rispetto al 2014 e oltre il 24% in meno nei confronti del 2013.

Mancano ancora numeri importanti, quelli relativi ai 20 musei autonomi. Ma da quel che si può apprezzare, nonostante il leggerissimo incremento delle risorse, sembra non possa dirsi realmente invertito il trend degli ultimi anni. “Le pietre di cui sono fatti i Beni culturali ci ricordano le fatiche e la sapienza che sono servite per realizzarle. Abbiamo il dovere di tutelarle” ha detto Franceschini il 31 luglio 2015 all’Expo di Milano, di fronte alle delegazioni dei ministri della Cultura di tutto il mondo. Sarà molto difficile rispettare l’impegno con le risorse a disposizione.

«Roma. Divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente,mentre i cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile; Serve una grande coalizione culturale per salvarla dal degrado». La Repubblica, 23 novembre 2016 (c.m.c.)

Roma, per antonomasia la “Città Eterna”, rischia oggi di disfarsi sotto la spinta di fenomeni diversi ma convergenti: il traffico, la sporcizia, la crisi dei trasporti, l’inadeguatezza dei servizi, la mancanza di un chiaro indirizzo pubblico. Affrontarli tutti insieme sarebbe probabilmente più giusto, ma ci farebbe correre il rischio della genericità e dell’approssimazione. Preferisco fermarmi su quello che rischia, anche se forse non del tutto a ragione, di apparire il più evidente di tutti: il degrado del decoro urbano, l’aggressione commerciale ai suoi aspetti monumentali più straordinari, la dissoluzione e lo spopolamento dei vecchi quartieri storici.

In questo senso non basta parlare semplicemente di degrado. È, invece, come se Roma fosse letteralmente divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente. Non c’è più né limite né freno all’invasione (le altre “città d’arte” italiane, per esempio Venezia e Firenze, condividono in pieno questo destino).

Locali per la refezione e il dissetamento, per il commercio e lo svago, fioriscono dappertutto; le strade e le piazze, anche le più famose, sono invase da tavolini, sedioline, fioriere, sbarramenti cementizi abusivi di ogni genere; al di fuori dei negozi di oggetti religiosi o di gadget, l’esposizione delle merci annulla ogni possibile idea di “decoro urbano”. I vecchi cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile.

Questo è ormai del tutto evidente e riconosciuto. Quello che invece meriterebbe che cominciassimo a dire e sottolineare, è che non c’è risposta. Non c’è risposta pubblica, non c’è risposta istituzionale, non c’è risposta politica. Non c’è, per dirla con un termine un po’ logorato dall’uso, strategia: solo chiacchiere a vuoto. Faccio l’esempio che di questi tempi risulta ai miei occhi più clamoroso, e che, come capita, mi sta di più sotto gli occhi: ma che, contemporaneamente, presenta anche un’evidenza generale addirittura solare. Quello dell’apertura di un locale fast food, precisamente un McDonald’s, nella zona di Borgo e di San Pietro.

Si tratta di un locale gigantesco (538 metri quadri), destinato a rimanere aperto dall’inizio del giorno fino a notte fonda, nel cuore del rione Borgo, vicinissimo al Vaticano e a San Pietro. Per dare, a chi non ne ha esperienza alcuna, consistenza visiva alle mie affermazioni, ho percorso lento pede le distanze che lo separano da alcuni luoghi eminenti della cristianità. Solo settantadue dei miei passi separano il fast food dalla porta di Sant’Anna, il valico più consistente e prestigioso che attraverso le Mura Vaticane immette nella Città Santa. Sull’altro versante, il locale dà direttamente su piazza della Città Leonina, e quindi a venti passi dal leggendario Passetto di Borgo: e, appena un poco più avanti, a cinquanta dal colonnato di San Pietro (sì, quello del Bernini).

È nel pieno centro del rione Borgo: è destinato a snaturarlo definitivamente nella sua prestigiosa identità storica, oltre che a mandare in rovina i numerosi ristoratori tradizionali della zona, spesso presenti lì da decenni. I locali sono affittati a McDonald’s dall’Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica presieduta dal cardinale Domenico Calcagno.

Ci sono state anche in questo caso lamentazioni e proteste. Ma anche in questo caso nessuna risposta. Il I Municipio, che ha concesso la licenza, tace e sta a guardare. Il Comune dichiara che la responsabilità è del I Municipio. Il Ministro dei Beni Culturali, Franceschini, spiega che la cosa non lo riguarda. Tace perfino l’Unesco, sotto la cui giurisdizione cade tutto il centro storico di Roma. Ma soprattutto non c’è un politico, un uomo o una donna delle istituzioni, insomma, uno o una che sta lì perché eletto o eletta da noi, che apra la bocca per dire: sì, avete ragione; no, non avete ragione; avete ragione solo in parte, vediamo ora cosa si può fare.

L’unico luogo istituzionale dove s’è avvertito un fremito è stato il Vaticano. L’ha documentato efficacemente questo giornale, presentando affiancate le interviste al cardinale Elio Sgreccia e al cardinale Calcagno, presidente dell’Apsa.

Uno scontro di tale portata fra eminenti personaggi della Chiesa, non si vedeva dai tempi del Concilio di Nicea (il primo, intendo, quello del 325 d.C.). Sgreccia vi rappresenta le posizioni trinitarie, ossia la “consustanziazione” del Figlio col Padre, che apre le porte a una visione autenticamente cristiana del mondo. I valori del cardinal Sgreccia possono essere talvolta discutibili, ma fuor di dubbio sono valori: «Non basta pensare solo agli affari e ignorare la natura finale delle attività che si vanno ad aggiungere al contesto. Ripeto, la megapanineria a Borgo Pio è un obbrobrio…».
Il cardinal Calcagno interpreta invece piuttosto la parte dell’ariano che, riducendo la natura divina solo al Padre, gli attribuisce un potere illimitato e indiscutibile. In questa chiave l’unica legge a dominare, dal punto di vista del potere, è quella vetero-capitalistica della domanda e dell’offerta, e cioè l’”affare”. Inequivocabili le sue affermazioni: «C’è stata una trattativa per l’affitto. Gli Uffici tecnici dell’Apsa hanno ritenuto congrua e giusta l’offerta dei dirigenti dell’azienda americana e l’accordo è stato stipulato. Non vedo lo scandalo».

Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che anche in questo caso dall’Empireo vaticano sia calato sulla vicenda il più impenetrabile dei silenzi. Dunque, non c’è nessuno neanche in Vaticano che possa autorevolmente decidere se, quando un “affare” può essere ragionevolmente definito un “obbrobrio”, è il caso di intervenire ad esaminare ed eventualmente correggere l’errore?

Torno, per concludere, alle considerazione di ordine generale. A Roma, la “Città Eterna”, “Caput Mundi”, ci sono migliaia di situazioni come questa. I poteri pubblici hanno dimostrato di volta in volta o impotenza o connivenza. Il Vaticano, quando è toccato a lui, non si è comportato molto diversamente. La politica non se n’è accorta, ma chi va ancora tra la gente comune può dire tranquillamente questo: si sta manifestando un’ondata crescente di scontentezza e di rabbia, che ormai va al di là della fenomenologia grillina, sempre più avvertita anch’essa come perfettamente istituzionalizzata e partecipe del potere (e cioè: «anche i grillini sono come tutti gli altri»).

Se le cose stanno così, Roma da sola non può farcela. Solo un’inedita (e inaudita) alleanza fra Enti locali, Stato e Regione potrebbe garantirle la forza necessaria per uscire dal gorgo in cui sta rapidamente sprofondando. E fra loro anche il Vaticano? Sì, anche il Vaticano. Per esempio, decidere insieme quando e come inondare la città di milioni di pellegrini. Ma il Vaticano è una potenza universale, come fa a mettersi d’accordo con il Comune di Roma e il Governo del paese per decidere e regolare avvenimenti del genere? Sì, il Vaticano è una potenza universale ma contemporaneamente è un Rione di Roma, un suo quartiere privilegiato, e condivide la vita e il destino della città.
La sua millenaria vicenda si è sempre basata su una duplicità operosa di tale natura. Per questo può essere inserito in una storica alleanza a favore di Roma: a patto, naturalmente, che ne rispetti le regole e gli interessi. Anche dei suoi cittadini, s’intende.

«La Rete Adriatica. Viaggio lungo il percorso del gasdotto Snam, tra le faglie più pericolose e i borghi demoliti dagli ultimi terremoti. Per il governo però rimane “un’opera strategica”». Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2016, con postilla (p.d.)

Siamo a poche curve da Sulmona, ai piedi del monte Morrone e all’ombra delle belle torri di Pacentro. Di fronte si stende la piana verde che sarà sacrificata alla centrale di compressione del gas. L’impianto della Snam (Società nazionale metanodotti) occuperà un’area di 12 ettari.

I portavoce del comitato cittadino fanno l’elenco dei danni (l’inquinamento ambientale, quello acustico, i terreni abbandonati, gli ulivi abbattuti) e contano gli spazi mangiati dal cemento (“una zona estesa quanto 16 campi da calcio e mezzo”). Ma la centrale è appena una parte delle loro preoccupazioni. Sarà lo snodo di un’opera molto più grande: qui passerà la “Rete Adriatica”, un serpente sotterraneo di 687 chilometri. L’ha raccontato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano del 15 novembre: il gasdotto della Snam attraverserà l’Italia da Massafra (Taranto) a Minerbio (Bologna). Un cantiere gigantesco diviso in cinque progetti autonomi. Uno parte proprio dalla città di Ovidio: i tubi della Snam riforniranno la centrale di Sulmona, tagliando attraverso il Parco nazionale del Gran Sasso, per puntare verso l’Umbria. Attraverseranno l’Appennino sotto l’Aquila, Onna e Paganica, devastate dal terremoto del 2009. Poi, sempre più a nord, il gasdotto sfiorerà Amatrice e Norcia, infine Visso e Ussita, dove le scosse proseguono praticamente ogni giorno. I 168 chilometri del metanodotto tra Sulmona e Foligno sono immersi nella zona a più alto pericolo sismico d’Italia (quella di grado 1, segnata in viola nella cartina a fianco).

Il progetto originale è datato 2005. Negli ultimi dieci anni, in questo territorio, i terremoti hanno spostato montagne e squarciato città, ma non hanno cambiato i piani della Snam, né quelli dei governi che si sono succeduti.

Le ferite della Maiella
“Sono venuti qui perché pensavano che gli abruzzesi fossero docili, che non avrebbero trovato alcuna resistenza. E invece questi quattro contadini gli danno ancora filo da torcere”. Giovanna Margadonna è una delle voci del comitato per l’ambiente di Sulmona che contesta il progetto della Snam. I “quattro contadini” che ci guidano lungo la traccia virtuale del gasdotto – Mario, Flora, Anna Maria, Lola, Clotilde – hanno professioni diverse, ma ognuno di loro ha imparato a raccontare la sua terra con le parole dei sismologi. Indicano cartine, mostrano le ferite invisibili nelle pareti delle montagne. Citano il lavoro di una geologa, Giusy Lavecchia (professore ordinario all’Università di Chieti), presentato l’anno dopo il disastro aquilano: “Il bacino di Sulmona è una depressione tettonica bordata ad est dal sistema di faglie dirette del Monte Morrone”, l’altopiano che domina l’area dove sarà costruita la centrale. Le due fenditure “in profondità, sono collegate in un unico piano di faglia che si sviluppa fino a 12-14 chilometri”. Le conclusioni del documento non sono incoraggianti: “L’area aquilana e quella del bacino di Sulmona sono le zone a più alta pericolosità dell’Italia centrale”. All’Aquila è andata come sappiamo, mentre per Sulmona e la Maiella “l’ultimo terremoto di magnitudo 6.6-6.7, probabilmente associato alla faglia del Morrone”, è avvenuto nel III secolo a.C.

“Sono passati circa 2000 anni e questo è proprio il tempo di ricarica previsto da queste strutture. Inoltre, è notorio che quanto maggiore è il tempo di ricarica di una faglia, tanto maggiore è il terremoto atteso”. Come se non bastasse, conclude il documento, “Sulmona si trova su un bacino continentale che può causare effetti di amplificazione locale dell’energia sismica”.

La zona rossa, le new town e i 30 km nelle Marche
In sostanza, si vive nell’attesa di una scossa imminente e violenta. “È davvero necessario – chiedono i ‘No Snam’ – che la centrale sia costruita su un territorio del genere? È davvero il caso di scavare sottoterra, infilarci dei tubi di 120 centimetri di diametro e farli correre attraverso linee di faglia attive, nelle aree più sismiche d’Italia?”.

Proseguendo lungo il tragitto del serpentone della Snam, si attraversa la Valle Peligna, le sorgenti del Pescara a Popoli (dove il gasdotto, secondo l’amministrazione comunale, “minaccerà uno dei bacini imbriferi più grandi d’Europa”), la piana verde di Navelli. L’arrivo a l’Aquila è annunciato dalle gru e dalle impalcature dell’infinita ricostruzione. Poco fuori dalla zona rossa, c’è la struttura “provvisoria” (ormai dal 2009) che ospita la sede della Regione. Pierpaolo Pietrucci è un giovane aquilano, consigliere del Pd, il partito del governatore Luciano D’Alfonso. Il presidente è criticato dai comitati per l’opposizione “timida”al gasdotto. Pietrucci invece non si nasconde: “Non bastano i tetti che ci crollano in testa? C’è bisogno di piazzare una potenziale bomba sotto i nostri piedi? Il progetto originale della Snam prevedeva un tracciato offshore, in mare, lungo la costa. Perché hanno deviato? Questo gasdotto taglierà parchi nazionali e boschi millenari, patrimonio dell’Unesco. Inciderà su territori che già rischiano lo spopolamento: sarà la condanna dell’Appennino”. Il consigliere ha inviato una lettera al premier, ma non ha ancora ricevuto risposta. “Caro Matteo, sono aquilano, tuo coetaneo: ho vissuto in prima linea, da capo di gabinetto del sindaco Massimo Cialente, il dramma del terremoto del 2009. Conosco il terrore, gli occhi delle persone, la voglia di tornare e l’improvvisa consapevolezza della sacralità della normalità. Quella che hanno perso gli abitanti di Amatrice, Accumoli, Norcia, Ussita, Visso e tutti gli altri splendidi borghi colpiti dai terremoti da agosto agli ultimi giorni”.

Il serpentone punta proprio verso quei borghi, dopo essersi lasciato alle spalle anche le “new town” di Onna e Paganica, subito fuori l’Aquila, nate sopra le rovine e i crolli del 2009.

Le Marche sono interessate da circa 30 chilometri del tracciato, alcuni dei quali sfiorano il versante ovest del monte Vettore, spaccato dal sisma di ottobre. Il responsabile del comitato No Tubo marchigiano-umbro si chiama Aldo Cucchiarini: “Non c’è solo l’assurdità di costruire sopra le faglie – spiega – ma anche un problema ambientale sottovalutato. Per posare una condotta di 120 centimetri a 5 metri di profondità, bisogna aprire uno sterrato largo 40 metri sui fianchi delle montagne. Bisognerà creare strade e piste per far spostare i mezzi speciali fino ai cantieri. Si crede che siccome i tubi vanno sotto terra, ’impatto ecologico non sia devastante: una follia”.

Il pubblico, il privato e il botto di Mutignano
Snam è una società quotata in borsa, detiene il monopolio nella gestione della rete del gas italiano. È un gigante da oltre 3 miliardi e mezzo di fatturato e 1,2 miliardi di utili netti nel 2015. Non sorprende che i “quattro contadini” che affrontano la Rete Adriatica siano stati respinti, nel tempo, senza particolari affanni.

In tutti questi anni gli interessi dell’azienda privata sono stati garantiti dai governi che si sono dati il cambio a Palazzo Chigi. Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. Nell’ultima legislatura, il gasdotto Massafra-Minerbio è stato oggetto di almeno 5 interpellanze e interrogazioni tra Camera e Senato, firmate dai parlamentari di Sel e Movimento 5 Stelle. Le risposte dell’esecutivo – da Flavio Zanonato (ex titolare dello Sviluppo economico) a Claudio De Vincenti (ex vice del Mise, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi) – sono state sempre le stesse. Si basano, in buona sostanza, su un’“autocertificazione” della Snam. “Il tracciato dei metanodotti – si legge nella relazione di Zanonato, ma con parole simili anche nelle repliche di tutti i ministri, compreso l’attuale titolare del Mise Carlo Calenda – è stato definito scegliendo i lineamenti morfologici e geologici più sicuri (...), le dimensioni del progetto adottate per la trincea di posa della condotta, unitamente alle caratteristiche di duttilità e flessibilità delle tubazioni in acciaio, permettono di sopportare agevolmente le eventuali deformazioni indotte dal sisma”. In poche parole, per la società il tracciato è il migliore possibile, e il test sui tubi (il cosiddetto “shaking”) è andato bene. I peggiori terremoti degli ultimi 40 anni – argomentano all’unisono l’azienda e i ministri – non hanno prodotto incidenti sui gasdotti in funzione in Italia.

L’opera è considerata “strategica”: malgrado i consumi di gas siano in calo, la Rete Adriatica potrebbe garantire un ruolo centrale nel mercato energetico europeo. I profitti saranno privati (si stima una resa di 26,5 milioni l’anno), mentre il denaro investito è anche pubblico: nel 2009 la Banca europea per gli investimenti ha versato 300 milioni di euro all’azienda italiana per coprire metà della spesa sul tratto Massafra e Biccari e su un altro gasdotto in Lombardia.

Insomma, tranquilli: il serpentone si farà, e non c’è pericolo. Garantisce la Snam. Meglio non pensare alla lunga lista di incidenti degli anni passati: in Italia sono 8 dal 2004. A marzo 2015 è toccato proprio all’Abruzzo, con l’espolosione del metanodotto Snam di Mutignano, in provincia di Teramo. Un piccolo smottamento ha divelto un tubo di 600 millimetri di diametro. Le fiamme, alte fino a 10 metri, hanno carbonizzato un costone della collina (le foto sono a centro pagina). Per fortuna senza uccidere nessuno.

postilla

Aggiungiamo che con la riforma costituzionale proposta nel referendum del 4 dicembre, le scelte riguardanti la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, nonché tutte le infrastrutture dichiarate come strategiche dal governo nazionale (insieme a tante altre materie fino ad ora considerate "concorrenti" fra Stato e amministrazioni locali), diventerebbero di esclusiva competenza statale. Cioè nelle mani del Governo e del Primo minisro. Tutto in nome della governabilità che, rottamando in una unica soluzione la corretta pianificazione e governo del territorio, riduce i cittadini in sudditi, con il preciso intento di rendere ininfluenti ed inefficaci le opinioni e le rimostranze delle amministrazioni locali, delle associazioni e delle persone che, vivendole quotidianamente, ben conoscono le loro terre.

Dopo il male prodotto dall'autore dell'articolo (15 anni fa era assessore all'urbanistica con il sindaco-filosofo) viene il peggio: con l'urbanistica di Luigi Brugnaro siamo scesi ancora più in basso. La Nuova Venezia, 19 novembre 2016, con postilla

Oltre 15 anni fa, dopo due anni di elaborazione, innumerevoli incontri con le commissioni consiliari, con i quartieri (che allora erano 23) con le forze politiche, con le rappresentanze istituzionali, rispondendo a oltre mille osservazione dei cittadini, prima il consiglio comunale poi gli organismi sovraordinati hanno approvato lo strumento urbanistico generale di Venezia, che, indipendentemente dal successivo Pat, detta ancora oggi le regole di trasformazione della città.

Uno dei princìpi fondanti di quel Piano era una profonda revisione delle tendenze allora in atto relativamente al sistema degli accessi in città. Tale revisione prevedeva l’allontanamento del traffico improprio da Mestre e da Venezia, bloccando tutti gli arrivi turistici nei terminal di Tessera e di Fusina, la trasformazione del ponte transalugunare in una strada urbana di collegamento per chi vive e lavora tra Mestre e Venezia, l’abbassamento sostanziale del traffico in arrivo o in transito per piazzale Roma attraverso interventi che portavano a una sua sostanziale pedonalizzazione: il ponte di Calatrava che favorisce gli arrivi via treno, il people mover che rende il Tronchetto il vero punto di approdo automobilistico a Venezia, il sottopasso del garage comunale che allontana oltre 500 mila passaggi da piazzale Roma.
Assieme a questi interventi si prevedeva l’esclusione di ogni parcheggio all’inizio del ponte della Libertà per impedire che il traffico improprio fosse attirato fino alle porte di Venezia e si prevedeva la realizzazione di un garage per 1.200 posti auto, esclusivamente riservato ai residenti e dunque volto a favorire la residenzialità veneziana, nelle aree portuali inutilizzate.
Dopo di allora è evidentemente stato fatto un altro Piano che non conosco perché non è stato mai discusso da nessuna parte e perché nessuno degli organismi democratici lo ha mai approvato in quanto tale, ma ne ha approvate via via delle piccole parti che insieme costituiscono un disegno unitario di segno del tutto opposto al piano ufficiale e vigente. Questo nuovo piano prevede che il terminal di Fusina venga dato alla Save, che nelle aree a verde pubblico urbano dei Pili venga fatto un parcheggio di 600 auto, che a piazzale Roma si raddoppi il garage San Marco, che nelle aree dismesse del Porto si faccia una garage turistico di 1.200 posti e un albergo per 300 stanze (illegittimamente perché si tratta di aree del demanio, quindi di tutti, che il Porto dovrebbe retrocedere allo Stato visto che tra le sue finalità istituzionali non c’è quella di fare alberghi a Venezia), oltre ad altre amenità.
Facendo due semplici calcoli, tra le altre cose (distruzione del più importante esempio di archeologia industriale della città storica, degrado delle aree di arrivo in città, depauperamento ambientale là dove verranno fatti parcheggi al posto del verde pubblico) queste previsioni comporteranno circa cinque milioni di nuovi passaggi automobilistici dentro a Mestre e sul ponte della Liberà ogni anno e renderanno definitivamente impraticabile l’ipotesi di rendere strada urbana il ponte della Libertà e di civilizzare lo scandalo di piazzale Roma.
L’idea che sta alla base di questo nuovo piano è quella di incentivare il più possibile gli arrivi turistici in città nella loro forma più deleteria, il mezzo automobilistico privato, e di aumentare lo sfruttamento turistico della città lagunare. In quanto ai residenti, essi costituiscono un noioso accidente che va sopportato e blandito con affermazioni vuote di difesa della città, mentre gli si tolgono le condizioni materiali di un vivere civile, a partire dalla possibilità di avere un posto auto facilmente accessibile dalla propria abitazione.
Naturalmente questo nuovo Piano che nessuno conosce, perché non c’è e non c’è perché coloro che lo portano avanti nei fatti non hanno neppure il coraggio civile di renderne pubblici i veri effetti, risponde a interessi particolari precisi e immediatamente identificabili. Ma, al di là dei singoli soggetti che traggono vantaggi immediati su ciascuna di queste scelte, esso ha una sua forte ispirazione generale: la città storica ormai priva di difese civili, va sfruttata quanto più possibile a uso e consumo di chi ha la possibilità di farlo. Tutto chiaro. Una sola cosa mi sfugge: come siamo arrivati a questo punto di imbarbarimento nella capacità di vedere, valutare, progettare, scegliere?

postilla

Roberto D'Agostino è stato assessore all'urbanistica a Venezia nella giunta capeggiata da Massimo Cacciari, ed ha "corretto" nel 1996 il piano allora vigente (approvato pochi anni prima come lascito di un lavoro iniziato dalle giunte di sinistra) nel 1992. Nella sostanza il piano D'Agostino si caratterizzava per l'eliminazione di tutti i "lacci e lacciuoli" che impedivano di mutare le utilizzazioni residenziali in atto. Chi vuole comprendere meglio troverà su eddyburg un'ampia documentazione. Rinviamo in particolare alla lettera di Luigi Scano del 2007 e alla sua puntuale analisi critica nello scritto "Quale piano per il centro storico di Venezia". Oggi Brugnaro ci aggiunge del suo. Quod non fecerunt barbari, fecerunt barbarissimi.

Non tutti gli abitanti vivono in quelle che chiamiamo città. Le recenti elezioni Usa hanno reso evidenti le differenze. Non è solo questione da "urbanisti". O almeno, non dovrebbe. Se i mass media e la politicafossero un po' più attenti.... Millenniourbano, online,16 novembre 2016

Nei giorni immediatamente successivi alla elezione di Donald Trump le mappe che visualizzavano la distribuzione del voto per stati e contee mettevano in evidenza la profonda divisione elettorale tra aree urbane, suburbane e rurali. La transizione tra le alte percentuali di voto per Clinton nelle aree centrali delle grandi citta che si ribaltano nel massiccio consenso per Trump nelle contee rurali passa attraverso la densità insediativa. Nei cinque distretti urbani di New York City, ad esempio, solo a Staten Island – il più suburbano per caratteristiche insediative, con una densità di abitanti per chilometro quadrato che è meno di un terzo di quella media della metropoli – ha prevalso il voto per Trump.

La popolazione americana per circa due terzi vive in aree urbane, ma oltre la metà di essa abita gli sterminati suburbi che definiscono le Metro Areas, dove al centro c’è appunto la città vera e propria. Per Sarah Palin, già candidata alla vice presidenza e fondatrice del Tea Party, la “vera America” è rappresentata dalle piccole cittadine attorniate da vasti territori rurali. L’avversione per le città e per la pianificazione urbanistica, che ad esempio emergeva dalla piattaforma elettorale del Partito Repubblicano nel 2012 , riguarda lo stile di vita americano – basato sulla proprietà privata della terra, sulla casa unifamiliare, sull’auto e sulla mobilità individuale – messo in discussione dalla regolazione dell’uso del suolo di cui le città hanno più bisogno. Secondo questa visione gli investimenti pubblici nelle infrastrutture urbane sono un attacco diretto all’individualismo tipico dell’American Way of Life.

Tuttavia la visione negativa delle grandi città negli USA ha una storia bipartisan: se i conservatori hanno descritto le città come focolai del vizio e del crimine, con un livello eccessivo di diversità etnico-culturale e di regolamentazione governativa, molti liberals si sono schierati a favore dei centri di piccole dimensioni, sostenendo il decentramento della popolazione urbana in insediamenti in cui le persone avrebbero potuto formare ciò che era visto come una forma più autentica di comunità. Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, attraverso la sua agenzia Resettlement Administration, ha promosso la realizzazione di insediamenti decentrati – sul modello delle comunità cooperative autosufficienti ispirato alle Garden City britanniche – che avevano l’obiettivo di far fronte alla carenza di alloggi popolari nei grandi centri urbani e di impiegare la mano d’opera disoccupata per la loro realizzazione.

Le tre Greenbelt community effettivamente realizzate nelle aree metropolitane di Washington D.C. (Greenbelt), Cincinnati (Greenhills) e Milwaukee (Greendale), pur realizzate da una agenzia governativa, hanno anticipato il successivo sviluppo suburbano attuato dal settore immobiliare provato nel quale si è riversata la classe media e bianca nel secondo dopoguerra e che ha incarnato l’individualismo della casa unifamiliare e dell’auto privata.

La linea di demarcazione tra città e sobborghi ha così finito per coincidere con la questione razziale che oggi è alla base delle affermazioni di Trump contro le inner city. Quando egli afferma che le aree centrali delle metropoli americane sono un disastro il rimando alla estrema diversità etnica come problema non può non essere colto. Se qualcuno avesse dubbi in proposito provi a dare una occhiata al sito di informazione Breitbart.com, già diretto dall’attuale consigliere politico di Trump Stephen Bannon, e vi troverà numerosi articoli in cui le grandi città americane sono associate all’aumento degli omicidi, del crimine e delle rivolte razziali (Black Lives Matter).

Eppure – afferma Steven Conn che due anni fa ha pubblicato Americans Against the City: Anti-Urbanism in the Twentieth Century (Oxford University Press) – non si può non notare che si è innescato un processo di controtendenza rispetto alla fuga dalla città degli anni 50 e 60. Al di là dell’Urban Renaissance che sta riguardando le aree centrali delle grandi città americane – oggi molto desiderabili e sempre più inaccessibili ai redditi medio-bassi – numerosi sobborghi stanno in realtà diventando progressivamente più urbani. Costruiti in origine come antitesi alla città, questi insediamenti vogliono ora dotarsi di strade percorribili a piedi, di mezzi pubblici e di quelle funzioni che caratterizzano le città. Si tratta di un processo di riconoscimento dei vantaggi della vita urbana trai quali vi è anche la diversità sociale e etnica. Ciò spiega la loro crescente diversificazione in quanto a composizione demografica.

Sarà in grado questo processo di rimodellare, nel lungo periodo, l’attitudine dell’americano (bianco) medio verso le grandi città? Il contro esodo nelle inner city di coloro che hanno tra i 20 e i 30 anni e in maggioranza non hanno votato Trump sembra indicare che l’America urbana e multietnica, che ha in larga parte contribuito ad eleggere il primo presidente di colore, potrà in futuro essere decisiva per evitare l’esacerbarsi delle differenze basate su appartenenza etnica, censo e luogo di residenza. Con l’elezione di Trump ha vinto l’America che odia le città ma quella che invece le apprezza potrebbe forse diventare decisiva alla prossima tornata elettorale, ammesso che vivere lì non diventi un privilegio di coloro che riescono a far fronte a valori immobiliari in forte crescita. A questo riguardo il ruolo dei sindaci – per lo più democratici nelle grandi città americane – sarà decisivo nel confronto con un governo federale marcatamente anti-urbano.

«Tentativo di blitz per stravolgere con un documento attuativo la legge del 2014 a tutela del territorio. Contro la proposta della giunta leghista insorge l’opposizione: "Così si prendono in giro i cittadini"». Corriere della Sera, ed. Milano, 18 novembre 2016
Insieme al Veneto la Lombardia detiene il record italiano di cementificazione di territorio: almeno l’11 per cento del suolo regionale è coperto da opere dell’uomo. Per arginare il fenomeno, e sulla spinta delle associazioni ambientaliste, la giunta leghista di Roberto Maroni aveva deciso che uno dei suoi primi atti sarebbe stata l’approvazione di una legge regionale che ponesse un freno al consumo di suolo. Non fu una gestazione facile, ma dopo qualche compromesso la maggioranza regionale riuscì due anni fa ad approvare una legge che stabiliva soglie di territorio consumabile per ogni tipo di intervento urbanistico o infrastrutturale, ovviamente prevedendo la possibilità di deroghe per casi che si sarebbero dovuti definire in sede tecnica. Allora tutta l’opposizione votò contro, perché non teneva conto dei 530 milioni di metri quadrati di futura edificazione già previsti nelle pianificazioni comunali.

Ieri sono però arrivate le deroghe «tecniche» annunciate e che certo non piaceranno alle associazioni ambientaliste: in Commissione territorio è spuntato uno dei documenti attuativi predisposto dalla giunta che se approvato renderebbe la legge «meno efficace». Il riferimento è al lungo elenco di opere «di interesse pubblico o generale» che la Regione intende sottrarre al meccanismo delle soglie, e che quindi non verrebbero in ogni caso conteggiate come consumo di suolo. Si tratta di strade, autostrade, aeroporti e pressoché ogni tipo di intervento infrastrutturale. E ancora ospedali, case di cura, scuole, ma anche cave, discariche e inceneritori. Interventi importanti, spesso fondamentali, ma la cui sottrazione dal meccanismo delle soglie poste in legge contro il consumo di territorio è operazione forse impropria. O almeno così la pensano i consiglieri del centrosinistra che denunciano l’allentamento dei vincoli a tutela dell’ambiente. «L’interpretazione della maggioranza porterebbe a stravolgere il senso stesso della legge. Il centrodestra sta prendendo in giro i cittadini e i Comuni che attendono da due anni di poter applicare la legge contro il consumo di suolo», attacca il consigliere dem Jacopo Scandella: «La Lombardia è la Regione italiana che ha subito la maggior cementificazione negli ultimi anni, Maroni a parole aveva assicurato di voler invertire la tendenza ma i fatti lo smentiscono. Oggi abbiamo le amministrazioni comunali che vorrebbero contenere l’edificazione ma che non lo possono fare per i ritardi e le interpretazioni controverse di Palazzo Lombardia. Se questo documento venisse approvato la legge contro il consumo di suolo diverrebbe definitivamente carta straccia».

La Commissione del Pirellone si prenderà comunque un’altra settimana di riflessione. Il voto finale è in calendario per giovedì prossimo, ma il centrodestra sembra comunque intenzionato a rendere la legge «più flessibile».

Una riflessione su lavoro, volontariato, cittadinanza responsabile e accoglienza dei migranti. Non bastano un po' di militari per riportare sicurezza, ma soprattutto vivibilità, nelle periferie di una grande città. Le inutili, e demagogiche, scorciatoie del sindaco Sala. La Repubblica, ed Milano, 17 novembre 2016 (m.c.g.)

Nelle ore che sono seguite alle dichiarazioni del sindaco Sala sulla necessità che vengano inviati a Milano altri militari, in molti mi hanno domandato se fossi pro o contro questa scelta. Me lo chiedono, immagino, in ragione del fatto che da anni mi muovo nell’universo composito delle periferie, un mondo attraversato da contrasti e contraddizioni e, a volte, anche da violenza, ma spesso capace di risposte inedite e positive. Il punto della questione, però, non credo sia essere favorevoli o contrari alla presenza dell’esercito per le strade, ma capire in che modo una città come Milano possa realmente rispondere al bisogno di sicurezza, reale o percepita, che avvertono molti suoi residenti.
Non si tratta di un bisogno ideologico, di una richiesta che appartiene a questa o a quella parte politica, ma di una necessità trasversale che io ritengo fortemente collegata alla domanda di coesione sociale. Per questo motivo non bisogna cedere alle semplificazioni e alle scorciatoie, né delegare solamente alle forze dell’ordine e ai militari un tema che rimane di valenza sociale. Più militari, più telecamere e più controlli rassicureranno alcuni e inquieteranno altri. Sicuramente da soli non serviranno a risolvere i problemi di città come Milano, il cui presente è costellato da contrasti sociali.

I problemi, certamente, ci sono e sono complessi e quindi, per prima cosa, vanno conosciuti a fondo. Un conto è parlare delle pandillas, le bande latinoamericane che operano in alcune zone della città, un altro è affrontare il massiccio spaccio di droga nella zona di Rogoredo e San Donato, solo per fare due esempi saliti recentemente all’attenzione della cronaca. Fenomeni come questi possono essere affrontati solo in ottica di ordine pubblico. Oppure possono essere studiati da un osservatorio e risolti con un approccio diverso, che sappia mettere insieme interventi di deterrenza e contrasto alla criminalità con investimenti e azioni di carattere sociale, che facciano sentire la vicinanza delle istituzioni, che facciano vedere che ci si può prendere cura di queste situazioni, come avevamo fatto alcuni anni fa lanciando lo slogan “Milano Si-Cura”, per dire che il tema della sicurezza si può affrontare anche in un’ottica di coesione.

Mi auguro allora che, se come pare, dovessero arrivare 100 militari nei nostri quartieri, il Comune sia anche in grado di mettere in campo altrettanti educatori di strada, assistenti sociali, mediatori culturali... Sono tutte figure che servirebbero a potenziare i servizi di prossimità destinati ai soggetti più fragili come gli anziani, a immaginare progetti di collaborazione tra l’amministrazione comunale e i residenti di quei condomini, anche di proprietà privata, più esposti al degrado e a rilanciare i luoghi di aggregazione per giovani e meno giovani. C’è un gran bisogno di spazi ed eventi culturali diffusi e capillari, popolari e accessibili, che facciano tornare la voglia di vivere in alcune zone, che riattivino le risorse, la vivacità e il protagonismo della cittadinanza.

Aspetto la presentazione, a metà dicembre, del piano periferie annunciato dal sindaco. Mi auguro che affronti le tante questioni di carattere strutturale ancora irrisolte, come il grande tema delle case popolari liberate dalle occupazioni, ristrutturate ma ancora vuote, e che invece vanno consegnate al più presto a chi ne ha bisogno. È uno dei passi concreti che, forse più che un maggior numero di militari, può contribuire a rispondere alla domanda di vivibilità, sicurezza e coesione sociale che Milano ancora oggi esprime.

Scompaiono giorno per giorno gli spazi e le istituzioni che consentivano l'incontro, il dibattito, il confronto tra cittadini. Cancellati anche i poteri delle municipalità. Il Trumpino in saòr, sindaco protempore, prosegue il suo lavoro. La Nuova Venezia, 17 novembre 2016

È da anni che si parla del rischio che Venezia si trasformi in semplice meta turistica perdendo la connotazione di “città normale”, pur nella straordinarietà del suo patrimonio artistico, architettonico, ambientale. Una città, infatti, non è più tale se non ci sono ragazzi che vanno a scuola e giocano nei campi, cittadini che fanno la spesa nei mercati, se non ci sono ferramenta in cui comprare chiodi e pittura, mercerie, panetterie, luoghi in cui i cittadini si identificano. Su questo tema si sono mosse numerose associazioni e ultimamente un gruppo di giovani ha promosso iniziative e manifestazioni. Questo dà particolare speranza.

Pur sapendo che casa e lavoro (magari un lavoro che non guardi solo all’economia turistica) sono gli elementi principali per garantire la residenzialità, oggi vorrei soffermarmi su tre questioni che considero emblematiche perché fanno parte dell’identità stessa della città, l’hanno connotata e in esse le cittadine e i cittadini si riconoscono.
Parto dalla Bevilacqua La Masa, un’istituzione che rappresenta un’esperienza unica nel panorama italiano e internazionale, lascito di Felicita Bevilacqua La Masa che, con grande lungimiranza, ha pensato alla promozione dei giovani artisti. Nella Galleria di Piazza San Marco, nel Palazzetto Tito, negli studi di Palazzo Carminati e dell’ ex Convento di Ss. Cosma e Damiano si sono formati nomi poi diventati protagonisti della scena culturale internazionale. Costa pochissimo al Comune, è riconosciuta - e invidiata - da tanta parte del mondo culturale nazionale ed europeo. I presidenti hanno lavorato gratuitamente, per puro spirito di servizio. Ricordo ancora Luca Massimo Barbero che la notte prima dell’inaugurazione di qualche mostra era lì con gli attrezzi del mestiere a darsi da fare per sistemare quadri e installazioni. Ma la stessa cosa vale per gli altri, Chiara Bertola, Angela Vettese.
Poi c’è l’Ufficio cinema. Se a Venezia insulare c’è ancora il cinema è solo perché, attraverso l’apposito Ufficio, si è lavorato per realizzare sette sale (due al Giorgione, tre al Rossini, due all’Astra) e assicurare una programmazione diversificata e di qualità. Non si è trattato di una scelta ideologica: si è anche cercato di stimolare imprenditori privati ma di fronte alla loro risposta negativa (perché considerata economicamente non conveniente) il Comune ha deciso di fare da sé, valutando che sarebbe stato scandaloso che la città, sede della più prestigiosa Mostra del cinema del mondo, restasse senza un cinematografo. Anche quest’attività non comporta grandi costi per l’amministrazione comunale. Lo stesso cinema all’aperto, chiuso dall’Amministrazione precedente, stava sostanzialmente in equilibrio finanziario.
Infine il Centro donna, nato negli anni ’80 come spazio per la ricerca e l’elaborazione di culture e politiche delle donne, nella molteplicità dei linguaggi e dei campi d’azione. So che ci sono altre strutture del Comune che meritano attenzione, come il Centro Pace (come non ricordarsi che il primo piano di Ca’ Farsetti, trasformato in Presidio per la pace nel 2002, durante l’assedio alla Basilica della Natività di Betlemme, era l’unico luogo in cui scrittori, giornalisti, esperti cristiani, ebrei, musulmani si incontravano e interloquivano fra di loro?) e l’Ufficio politiche giovanili, ma mi sono dilungate sulla Bevilacqua, l’Ufficio cinema e il Centro donna perché emblematici e caratterizzanti la città stessa, la sua storia . È vero, la giunta Brugnaro ha garantito che non ci sarà alcuna soppressione. Non si tratta neppure di rivendicare ulteriori finanziamenti. Il problema è quello di assicurare la loro identità non omologandoli ad altri servizi, perché queste specifiche realtà si salvaguarderanno e potranno svilupparsi solo mantenendo una gestione autonoma e se intorno a esse continueranno a esserci e a portare il loro contributo gli artisti, le donne, gli appassionati cinefili di questa nostra stupenda e complessa città.

«Gli effetti dell' ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria». ArcipelagoMilano online,15 novembre 2016 (m.c.g.)

Per la serie delle cose fatte a metà, le Province sono state abolite ma non troppo. Con la “legge Delrio” se ne è eliminata l’elezione diretta e ridotti risorse e personale. Inalterata invece la permanenza di quelle nate per recente duplicazione con l’effetto di mantenerle in vita anche se piccole deboli e screditate.

In verità il governo Monti cercò invano di riaccorparle con decreto-legge, purtroppo col risultato non casuale di cadere proprio l’ultimo giorno utile per la relativa conversione. Vedi ora il caso della provincia di Lecco, presunta corresponsabile del disastro del ponte crollato sulla superstrada 36 Milano-Valtellina e interprete del più classico scaricabarile burocratico, ma pure vittima di un’ambiguità del sistema di governo locale e intermedio.

Intanto il ministro Delrio, che nel frattempo ha cambiato mansione, naturalmente apre un’inchiesta. Ma sarebbe opportuno che indagasse pure sul pasticcio istituzionale di cui è il principale responsabile in quanto ministro proto-renziano del governo Letta, forzato – sotto la minaccia “populista” dell’esito elettorale 2013 – ad abolirle perlomeno dalla imminente scheda elettorale 2014. Pasticcio peraltro destinato ad aggravarsi nel caso del Si alla modifica costituzionale del Titolo V tra province cancellate e “città metropolitane” fittizie mantenute.

Se dunque, sul punto del fatto, non si vede la differenza tra competenze residue delle ex-province cancellate dal ruolo costituzionale ed ex-province mantenute con l’escamotage di promuoverle nominalmente a “città metropolitane”, sul punto del diritto cambierebbe la natura della cittadinanza tra “provinciali” e “metropolitani” col paradosso che – a parità di elezione indiretta dei rispettivi Consigli – i primi possono comunque eleggere il proprio Presidente mente i secondi devono accettare il Sindaco del capoluogo “di diritto” metropolitano.

Paradossale dunque anche il combinato disposto tra eventuale nuovo Titolo V e legge 56/14 per quanto assai sottovalutato nella pur accesa e prolungata campagna referendaria, a differenza dell’altro “combinato” divenuto celebre grazie all’intreccio con la legge elettorale nazionale. Tuttavia gli effetti di tale presente e futura ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono ancora risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria.

Intanto il 26 ottobre si è tenuta la seduta inaugurale del nuovo Consiglio metropolitano milanese con la prolusione del sindaco Sala che, al netto di auguri auspici ringraziamenti e buoni sentimenti, ha fatto un fugace riferimento alla governance, ovvero il cuore della questione («dobbiamo chiederci se la costituzione lenta e complessa della nuova struttura amministrativa e di governo chiamata Città metropolitana di Milano abbia un senso»), con due enunciati che meritano qualche riflessione. Una: «i soggetti costitutivi la città metropolitana vanno connessi non annessi». L’altra: occorre evitare che «enti dotati di competenze generali si sovrappongano gerarchicamente come in una matrioska».

Il primo in senso orizzontale: «Milano è il cuore di un arcipelago» composto da città e comuni come «isole autonome e radicate» appunto da connettere. Interessante il riferimento al termine “arcipelago” che ha una doppia etimologia: mare principale e, trattandosi per antonomasia dell’Egeo, aggregato di isole. (Tra parentesi tale appropriata definizione consente a questa rivista di riversare settimanalmente opinioni e riflessioni, studi e proposte nel mare aperto di una variegata sinistra senza soffocare le eventuali idee e ragioni appunto “isolate”).

Il secondo in senso verticale: evitare la sovrapposizione di poteri paralleli che, se non regolati da una sano principio di sussidiarietà ascendente, genera conflitti di competenza, duplicazioni e sprechi, rimpalli di responsabilità come appunto ancora nel caso del disgraziato ponte crollato.

Su questi temi decisivi si è scritto ampiamente e ripetutamente su ArcipelagoMilano e si dovrà tornare con una discussione seria e critica se si vorrà evitare che il secondo mandato del Consiglio metropolitano ripeta la abulica esperienza del primo, contrassegnata dalla svogliata reggenza di Giuliano Pisapia, che ha relegato una potenziale forma di governo moderna ed europea nella condizione di sostanziale irrilevanza politica e istituzionale (al punto che l’attuale Sindaco si chieda se “abbia un senso”!).

«Tutto a vantaggio dei turisti, ma il Comune non fa una piega, quando potrebbe invece trattare da posizioni di forza». Potrebbe. ma non vuole. Comune e Porto, l'intesa è perfetta. Due crani, un solo pensiero: sfruttare la città finché si può. La Nuova Venezia, 17 novembre 2016

La “dittatura” del Porto sulle aree dismesse della Marittima. La contestata questione del nuovo garage - con albergo da 300 stanze, area commerciale e persino una discoteca - da 2350 posti che l’Autorità Portuale vorrebbe far realizzare nell’area delle ex locomotive, senza neanche un posto riservato ai veneziani, riapre una polemica sempre viva. Quella sollevata anche di recente con una lettera al viceministro veneziano all’Economia Enrico Zanetti - dopo che era rimasta senza risposta quella inviata al sindaco Luigi Brugnaro - dall’Associazione Venezia Cambia, tramite il suo portavoce Marco Zanetti. «La questione è facilmente sintetizzabile.

Secondo Paolo Costa, presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, le aree del demanio portuale sono tali in perpetuo e su di esse l’Autorità Portuale può lucrare concedendole a terzi, a prescindere dal fatto che gli utilizzi siano connessi alla portualità. Dovrebbero invece passare al demanio civile (all’Agenzia del Demanio, e da questa, auspicabilmente agli enti locali, trattandosi in genere di aree sostanzialmente urbane o di sicuro interesse urbano».
È quello che sta accadendo per le aree dismesse da decenni alla Marittima, dove doveva sorgere in origine - secondo gli accordi tra Comune e Porto di oltre dieci anni - un garage riservato ai soli veneziani, per dare sollievo ai circa 1200 cittadini in lista da tempo per un posti all’autorimessa comunale. Divenuto poi un garage diviso tra veneziani - con circa 1200 posti-auto a loro riservati - e crocieristi (altri 1100 posti circa). E divenuto nell’ultima versione dell’accordo stipulato tra Costa e Brugnaro un garage da 2.100 posti riservati tutti ai crocieristi, visto che i 250 posti riservati gratuitamente al Comune non andranno a una porzione di residenti, ma diventeranno un “benefit” riservato a imprenditori interessati a investire sulla città.
Tutto a vantaggio dei turisti, ma il Comune non fa una piega, quando potrebbe invece trattare da posizioni di forza. Un decreto del Presidente della Repubblica ha ad esempio già imposto al Porto che lasciasse al Comune la gestione degli approdi turistici di Riva degli Schiavoni e Sette Martiri che invece teneva per sé. Il Porto affida a caro prezzo - con tanto di causa per esiguità del canone - gli spazi che non usava più a San Basilio all’Iuav per usi universitari e dunque pubblici. Concede nell’ex sede della Capitaneria di Porto in Marittima la possibilità di realizzare un nuovo albergo con piscina per crocieristi, come sta per avvenire. E ora si prepara a chiudere il nuovo business del parcheggio multipiano per crocieristi con albergo. L’ultima parola - per la modifica al piano particolareggiato - spetterà però al Consiglio e i “mal di pancia” abbondano a sinistra e a destra, visto che per i veneziani non c’è proprio nulla.

Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente ... (segue)

Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente sia per rivolgimento della composizione sociale: gli operai residenti (e gli assimilati), ancora oltre il 40% degli attivi al censimento del 1971 (esisteva anche una massa di 430.000 addetti industriali - segno di una forte domanda verso l’esterno), man mano spariranno, come sparirà l’industria per pura abolizione o per delocalizzazione (i due fenomeni - il sociale e l’economico - non erano direttamente collegati, valse forse di più il disinteresse dei governi locali verso il bisogno di case popolari). I lavoratori milanesi imprimevano alla città un marchio di classe, a suo tempo un’antinomia alla borghesia produttrice, classe dominante che si avvierà ben presto a tradire se stessa abbandonando la produzione, dedicandosi invece ai giochi finanziari valutari e borsistici e alla speculazione fondiaria e edilizia.

Quando le Mani sporche, con l’avanzare degli anni Ottanta, dispiegheranno in pieno la loro potenza corruttiva nella politica, negli affari, nell’urbanistica, nell’edilizia e si approprieranno delle risorse milanesi, il fronte minoritario di difesa dei valori civili e urbani non potrà che arretrare su posizioni poco esposte al pericolo, com’era nelle seconde e terze linee di trincea nella Guerra mondiale. Così il craxismo, diserzione irreversibile dal socialismo riformatore, integrando a sé anche parti corrotte o corruttibili del Partito comunista, potette mescolare al latrocinio prima l’immagine poi una falsificata realtà di città redistributiva del benessere, gaudente, festaiola, all’usanza di un’epoca come di Ballo Excelsior.

Lo slogan «Amaro Ramazzotti Milano da bere» perdette l’amaro e il titolo. Rimase «Milano da bere», logotipo della nuova ditta craxiana che ci invitava ad ubriacarci. Intanto il salasso di popolazione continuava, la vecchia linfa del confronto-scontro fra produttori rinsecchiva, a bere la città era un ceto incorporeo emerso dalla crisi delle classi e man mano uniformatosi mediante l’adattamento ai batteri della corruzione. Stava ancora dietro l’orizzonte verso la Spagna una movida estesa e irruenta (cose di giovani…). Era la moda-donna, sfilate e modelle, atelier e saloni a creare occasioni e grilli d’esserci. Quando la festa toccherà il culmine sarà Mani pulite, ossia l’azione della Procura milanese a tentare di sgombrare la sporcizia. Ci riuscirà in una certa misura e fino a un certo momento, quando il «sistema» le scatenerà addosso una furiosa ritorsione: per insegnare che il nostro paese non avrebbe potuto liberarsi mai dei tumori che lo infettano da sempre. Lo si vedrà, a Milano, con l’avvento o l’espansione di altri tipi di criminalità (mafia e ‘ndrangheta) anche nella moderna allegrezza dell’Expo e dell’oggi.

Il periodo del passaggio alla stagione di apparenza primaverile con le amministrazioni di centrosinistra, dopo un intermezzo autunnale (1993-97) in cui la conquista della poltrona a sindaco (Marco Formentini) fu per la Lega Nord il distintivo svanito di una diversità di breve durata, avvenne attraverso berlusconiani governi di centrodestra. Furono questi, prima e principalmente col sindaco Gabriele Albertini (due tornate), poi con Letizia Brichetto Moratti (una sola, sufficiente a ottenere l’Esposizione in una risibile gara con Smirne) a stamburare la grandezza e la bellezza di nuove urbanistiche, nuove edilizie e architetture anche quando fossero l’inverso: mancanza di pianificazione (p. es. un grande quartiere alla Bicocca fuori di piani generali, sulle ceneri di una delle più importanti industrie milanesi) o clamorose violenze all’unità degli spazi e delle cortine architettoniche. Violenze del resto già abbozzate da assessori delle giunte di sinistra. Con questi cominciarono in sordina, con gli altri furono inarrestabili, con l’avvento del centrosinistra proseguirono:

1) il massacro di piazze, viali, giardini…, in ogni caso luoghi quasi sempre alberati, per realizzare garage sotterranei multipiano nel centro urbano. L’intensificazione poi, non solo abolirà centinaia di spazi pubblici, ma funzionerà da calamita attirando più automobili verso quel centro da cui si sarebbe voluto (dovuto) tenerle lontane mediante un pedaggio d’ingresso (sindaco Moratti, 2008 con l’Ecopass, confermato dal centrosinistra);

2) la concessione di migliaia di interventi «fuor di senno» per il «ricupero abitativo dei sottotetti» (anche quando finti) in ogni tipo di case, compresi, come in un’accelerazione accecata, fior di palazzi del neoclassicismo, dell’eclettismo, del Liberty, del Novecento; addirittura approdata, elusa qualsiasi attinenza con la normativa originaria, dapprima a un incredibile «ricupero di sottotetto» in costruzioni con la copertura piatta, dopo, sbracandosi i controllori della giustezza e bellezza di tanti posti da me creduti fissi nella storia urbana, a innaturali stridenti sopralzi spesso non di un solo piano. Che tuttavia non basteranno a soddisfare le aspettative di proprietari e impresari per più forti guadagni. Ci penserà una strana, demenziale provvidenza, non ricordo quando varata ma in voga col centrosinistra: il «ricupero in altezza delle superfici lorde di piano (slp)», di sotterranei, piani terra e via a elencare nel «basso» da proiettare in «alto», scontando l’aleatorietà dei calcoli dunque la certezza degli abusi nel passaggio dallo stato esistente a quello sviluppato in altezza per un numero variabile di piani.

Il 10 dicembre 2003 (tredici anni fa!) apparve in eddyburg, poi in una raccolta della Libreria Clup, Parole in rete, 2005, un primo articolo di cui basta citare il titolo, La distruzione della linea del cielo milanese, per comprendere quali effetti perversi avesse già provocato l’applicazione della «legge dei sottotetti». Stime davano per sicuri 4.500 casi nel 2002-2003 cui se ne dovevano aggiungere diverse migliaia precedenti o in via di attuazione. Durante gli anni successivi tale maniera di costruire la città si moltiplicò secondo una funzione pressoché esponenziale (e altri articoli non mancarono di contestarlo) fino a saldarsi con la nuova fase delle concessioni ingiustificate a sopralzare di x piani a prescindere dai sottotetti e, peggio, come introdotto sopra, ad applicare l’utilizzo spropositato e incontrollato delle slp: persino dieci e più piani inventati da preesistenza zero, se così posso esprimermi. L’immagine a fianco (fotografia di Sergio Brenna) rappresenta il «ricupero in altezza della slp sotterranea di precedenti officine» (dizione regolamentare). Sorprende (per modo di dire…) che nessuno, appartenente a qualunque grado amministrativo, regionale o comunale, e nemmeno gli ordini professionali abbiano mai preteso la secca cancellazione dell’anomalia.

La città sembrava non aver ancora esaurito la riserva di furore distruttivo dei suoi caratteri d’elezione. Eppure quell’incessante distorsione dell’operare a regola d’arte sarebbe bastato per giudicare perduta in buona parte la conservazione del patrimonio in case e palazzi ben definiti nella conformazione da terra a cielo e capaci nell’insieme di dar lezione di architettura urbana. Invece un altro fronte d’attacco si mise in moto col centrodestra del sindaco Albertini accompagnato da un assessore, ingegner Gianni Verga, proprio lui già promotore in veste di amministratore regionale della «legge dei sottotetti». Cominciava l’epoca delle «Nuove Milano», in aree svuotate da edifici non più utilizzati per scelta immotivata (ex Fiera, sostituita dal nuovo insediamento ai margini occidentali della città) o in vaste parti scomposte del territorio comunale prima oggetto di concorsi urbanistico-architettonici, poi gettate nel secchio di impari accordi del municipio con potenti immobiliaristi, non essendo disponibile il primo ad affermarsi come autore almeno di piani di indirizzo se non, come sarebbe stato d’obbligo, di piani particolareggiati di attuazione (viale della Liberazione (Varesine), Porta nuova, Isola, Garibaldi, Repubblica… et al.).

Nel verso di un allineamento del governo locale al più sregolato neoliberismo mondiale, sindaci, assessori, giornali e giornalisti embedded, architetti e urbanisti, quelli condizionati da relazioni professionali costrittive, ordini professionali: complici l’analfabetismo di numerosi cittadini (comprensibile) e di qualche associazione (inaccettabile), anche «un analfabetismo diffuso sui rapporti che intercorrono fra habitat e convivenza civile» (G. Consonni, Habitat e condizione umana, in Id., Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, Chieti 2016, p. 63), quei dotti si misero a cantare la bellezza di inediti insediamenti edilizi: soprattutto dell’avvento, finalmente anche qui (trascurando qualche precedente discordante), della «forma» grattacielo indice di internazionalismo e relativa «attrattività» (ah… ah…). Cruda forma, appunto, quanto più inusitata, in-architettonica, stravagante, mattacchiona, storpiata negatrice della nitida drittezza statica. Destinazione d’uso? Chissà, l’interno avrebbe potuto essere vuoto o pieno di m…. nessuno se lo sarebbe chiesto; non sarebbe cambiato nulla. L’essenziale oggigiorno risiede in un mercato futuribile in cui la rendita fondiaria-edilizia si riproduce anche negli oggetti abbandonati. Il modello? Nel Medioriente, qualsiasi Dubai dei sette emirati o città nuove saudite; nel mondo, qualsiasi Kuala Lumpur o Bangkok o Shanghai o Manila o Rio o Buffalo o Johannesburg…

Un’omologazione che dà ragione allo psicoterapeuta James Hillman, al cui pensiero critico ricorro non per la prima volta. Siamo inconsci della bellezza, siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi, sicché vince la bruttezza titanica, la nostra vera nemica che colpisce gli occhi, gli orecchi, altre parti del corpo. Le persone dotate di sensitività improntata al principio di selezione sono le sole che, provando profonda rabbia dinnanzi allo spettacolo dis-umano, riescono a captare gli echi del mondo che danno al nostro corpo e al nostro spirito informazioni su come essere, su cosa accettare e cosa detestare (cfr. Politica della bellezza, Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 64-67 ). Altro che giudizi, falsati da condizionamenti consci o inconsci, sulla base di «mi piace/non mi piace”, o “può piacere o non piacere” (famosa ex assessora all’urbanistica Ada Lucia De Cesaris), o «è bello ciò che piace» o, e basti, «è questione di gusti».

Le prime manifestazioni di arroganza verso i contestatori delle novità architettoniche (meglio dire, in diminuendo, edilizie) incentrate sull’erezione di grattacieli quanto più insensati per essere spettacolari e vantati dalle amministrazioni comunali quale segno di modernizzazione e primato, risalgono al Comune di centrodestra oltre dieci anni fa. Era appena all’inizio l’edificazione sull’area dell’ex Fiera campionaria, «enorme processo di riqualificazione» secondo il sindaco Albertini (intervista al Corriere della Sera, 20 aprile 2006), conosciuto per aver paragonato la guida di una grande città all’amministrazione di un condominio. Per la verità, ampliò i propri richiami culturali definendo i progettisti dei tre grattacieli, Hadid, Isozaki e Lebeskind, legati al gruppo di imprese aggiudicatario degli appalti, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», e l’asfittico verde, previsto in ritaglio fra i tre colossi circondati da densi e alti gruppi residenziali, «nostro Central Park»: come se non sapesse che il parco newyorkese misura quattro milioni di metri quadrati e l’intera nuda superficie dell’ex-Fiera 255.000 mq. Nella realizzazione lo spazio avrebbe potuto essere riorganizzato rispetto al progetto giacché il grattacielo di Lebeskind non sarebbe stato costruito subito. Al contrario…

«Siamo stati a City Life: vale il viaggio. Una landa desolata con tanto di cratere (in cui è stato sprofondato un campo da golf), due nuclei (gated communities camuffate) che catturano larga parte del verde residuo ecc. ecc. dove si dimostra come si possa fare cippirimerlo agli standard e mandare in soffitta il disegno urbano. Il tutto mentre gli osanna dei media non cessano: un vero fuoco di sbarramento», lettera di Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, 21 ottobre 2016.

Gli osanna traboccano da City Life agli altri luoghi della Nuova Milano (vedi sopra) tutti coinvolti in un trionfale e stupefacente disordine urbanistico procedente verso quell’esclusiva stravolta immanenza dei tipi-forme-grattacielo che ho descritto. Gli architetti internazionalisti propensi soprattutto a esaltare se stessi sono «naturalmente» estranei alla nozione di contesto, insegna della scuola di architettura milanese; non gl’importa niente del retaggio sentito vividamente dai cittadini più anziani, il carattere peculiare delle loro opere è l’indifferenza, garantito complice della bruttezza. Per parte loro i media sembrano impediti a percepire la realtà da qualche imperscrutabile intoppo interno, come un groppo nelle viscere umane.

Scrivono di meraviglie della falsa «piazza», qatarina al 100 per cento, intitolata a Gae Aulenti e offendono l’autentica bellezza delle piazze che l’Italia può ancora esibire. Decantano il risanamento del «fangoso» parco dei divertimenti nell’area delle ex-Varesine, ma non immaginano che percorrendo viale della Liberazione in auto (impossibile a piedi!) chi detiene un pizzico di discernimento resta tramortito dalla visione di una caos a doppia faccia, la disposizione a caso degli edifici e, di questi, gli spropositi, i pasticci «architettonici» (virgolette necessarie). Dicono di respiro internazionale alitante all’ombra dei più alti grattacieli e ignorano che ora a Milano respirano a grandi boccate mafie e ‘ndranghete penetrate con capitali ripuliti nella finanza, nel commercio, nei cantieri; e tengono a latere le notizie sulla corruzione ritrovata persino negli appalti e subappalti dell’Expo creduta illibata. Inneggiano all’aumento dei turisti e non vedono che il turismo, qui, è del tipo che Carla Ravaioli definiva «inquinante», all’opposto di una prospettiva sociale e culturale (Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005). Il campo di coltura è la vendita di abbigliamento (moda italiana d’altronde omogenea alla forma mondiale), con le concatenazioni richieste da soggiorni anche brevi (hotel, ristoranti-bar-pizzerie…).

La conoscenza dei monumenti e delle opere d’arte, al di là del confine di Piazza Duomo con la cattedrale, spetta solo a piccoli gruppi preparati. La Curia poi, è entrata in pieno con Santa Maria Nascente e dintorni nel circuito commerciale più retrivo, è penoso constatarlo ogni giorno: non solo perché l’ingresso alla chiesa si paghi ma per l’effettiva vendita delle solite cose desiderate dal consumatore conglobato, dentro un ampio negozio ligneo (dovrebbe imitare i barconi che trasportavano il marmo di Candoglia al piede della costruzione) appiccicato alla fiancata di sinistra.

Conclusione. «Fuoco di sbarramento» contro le critiche concentrate sulle Nuove Milano, giacché è su queste che gravita il trionfalismo del Comune e dei media: tuttavia qualche divergenza passa sulla stampa, per lo più enunciata da architetti indipendenti (p. es. Corriere della Sera 21 ottobre, idem 24 ottobre 2016). L’ultima risposta di chi non vuole cambiare idea è però una specie di offerta per un compromesso metaforico, basato sul gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Prima (si intende la città piatta, inerte, forse triste) vedevamo la metà vuota del bicchiere, c’era poco o niente di cui rallegrarsi, ora siamo invitati a vedere quella piena e c’è molto da festeggiare. È ritornata la «Milano da bere».

Un'anticipazione della renziana de-forma costituzionale. «L’affermazione del sindaco NO TAR, che denuncia l’insofferenza del potere politico amministrativo nei confronti della magistratura, si pone fuori da ogni cornice democratica». Perunaltracitta.org, 14 novembre 2016

Proprio poche ore prima che la sentenza di annullamento da parte del TAR dell’Autorizzazione Unica Ambientale (AUA) per l’inceneritore di Firenze fosse resa nota, il sindaco Dario Nardella invocava una «moratoria sui ricorsi al TAR» e il loro «congelamento».

L’affermazione di Nardella al Consiglio generale della Cisl si inquadra nella complessa vicenda della Piana fiorentina che vede l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze – fortemente voluto da Renzi e oggi fermo al Ministero per la VIA – interferire anche con la realizzazione dell’inceneritore a Sesto Fiorentino. I due progetti, che insistono su terreni contigui, sono incompatibili per almeno due motivi tecnici: l’altezza delle torridell’impianto di incenerimento prospicienti la pista, e il Bosco della Pianache parzialmente ricadrebbe nell’area interessata dalla costruzione del nuovo aeroporto. Proprio il bosco di 24.000 alberi costituiva l’opera di compensazione dell’inceneritore che (non attuata) ha determinato l’annullamento del procedimento. Su entrambi i progetti pendono ricorsi al tribunale amministrativo; in quello contro l’inceneritore, presentato da comitati ed altre sigle, si sono accodati anche i comuni di Sesto e di Campi Bisenzio.

L’affermazione del sindaco NO TAR, che denuncia l’insofferenza del potere politico amministrativo nei confronti della magistratura, si pone fuori da ogni cornice democratica. «Se la politica delega al TAR le decisioni dei cittadini, è finita», insiste Nardella, che pure dovrebbe sapere che i cittadini si rivolgono al potere giudiziario proprio perché impossibilitati a influire sulle decisioni nelle sedi appropriate, e perché la politica non fa proprie le loro ragioni. In un suo comunicato, la Rete dei comitati per la difesa del territorio incalza il sindaco: «i politici non solo non ascoltano i cittadini, ma neanche rispettano leggi, regole e procedure che dovrebbero, se applicate, tutelare la salute, la sicurezza e la qualità della vita della gente, come sta avvenendo nel caso dell’aeroporto di Firenze o dell’inceneritore di Case Passerini. Ci si aspettava dal sindaco Nardella un solenne impegno di ottemperare a quanto è prescritto dalla legge e la promessa che d’ora in poi la politica non si sarebbe sostituita alla tecnica nel prendere decisioni ad alto rischio per ambiente, paesaggio e benessere della popolazione. Viceversa ciò che Nardella chiede è che nessuno si opponga alle violazioni della legge».

Per ora, a Firenze, il catalogo è questo. Qualora poi entrasse in vigore la cosiddetta “riforma” della Costituzione, il riscritto titolo V rafforzerà in senso centralistico il governo del territorio e la pianificazione delle infrastrutture. Il nuovo assetto dell’articolo 117 ricanalizzerà la potestà legislativa su tali ambiti – oggi esercitata “in concorrenza” tra Stato e Regioni – verso lo Stato medesimo, signore e padrone che non ammetterà opposizione dai territori. Insomma, ancora un motivo, il prossimo 4 dicembre, per votare NO.

«E’ tempo di dare finalmente spazio a conoscenze e professionalità , perché la credibilità di una classe dirigente si misura anche dalla capacità di studiare proposte valutandone correttamente la sostenibilità».la città invisibile online,16 novembre 2016 (c.m.c.)

Ci siamo: a leggere le velenose polemiche tra il Presidente Rossi ed il Ministro Galletti, condite dalle inevitabili repliche di tecnici tirati in ballo sulla responsabilità di ipotizzati ritardi procedurali, l’aereo proveniente da Roma che porterà in dono a Firenze la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) del nuovo aeroporto di Peretola sembra stia per atterrare.

Manca veramente poco e poi finalmente il PARERE POSITIVO, cum summo gaudio, sarà annunciato non dal Papa ma quasi, vista la folta e qualificata rappresentanza dei favorevoli, che partendo dal Presidente del Consiglio, passa da Ministri e Sottosegretari, attraversa le istituzioni regionali e locali, coinvolge gran parte delle associazioni di categoria, e trova appoggio incondizionato nella stampa, mi pare senza eccezioni. L’Annunciazione, come andrebbe correttamente definita, sarà celebrata con un coro giubilante più numeroso di quello della Scala.

I giornali titoleranno con grande enfasi l’esito positivo della procedura, e accoglieranno con tante virgolettature le entusiastiche dichiarazioni dei padri di questa opera prodigiosa, perché pensando trattasi di una vittoria, tanti saranno quelli che se ne attribuiranno il merito. E d’altronde anche Flaiano diceva, a modo suo, che un vizio degli italiani è sempre stato quello di salire sul carro del vincitore.

Ma attenzione a non farsi trarre in inganno dal luccichio della festa, perché in questo caso, diversamente da come dice il proverbio vedrete che, il topolino partorirà la montagna.

La Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente (il topolino), da mesi sotto assedio, produrrà probabilmente un documento che in premessa riporterà la locuzione PARERE POSITIVO (forse anche in grassetto e sottolineato come tante volte fatto), ma non mancherà di aggiungere un lungo, se non lunghissimo, elenco di prescrizioni riguardanti tutti i temi ambientali (dal rumore alla sicurezza idraulica), tutte le interferenze infrastrutturali, le necessarie tutele sanitarie e della salute pubblica, senza mancare di citare anche il tema della sicurezza del volo verso i trasportati e la cittadinanza e forse un passaggio sulle necessarie garanzie finanziarie visto che i costi dell’opera, anche solo per dare attuazione a tutte le richieste, lieviteranno a dismisura (e tutto questo costituirà la montagna).

Una montagna di prescrizioni (azzardo un numero: più di 100, se si conteranno anche tutte quelle ulteriori sub-indicazioni che le stesse prescrizioni potranno contenere al pari di un atto normativo suddiviso in articoli e commi) che schiacceranno l’intero progetto rendendolo irrealizzabile, come già successo per altre grandi opere similmente controverse e discusse. Una per tutte: l’autostrada tirrenica, che qualcuno considerò come già realizzata quando il Ministero dell’Ambiente concluse positivamente la procedura di VIA, e che a oggi sembra sia ancora in grembo a Giove, e d’altronde non poteva essere diversamente visto che il parere VIA su di essa fu accompagnato da oltre 150 prescrizioni che – di fatto – costituirono una bocciatura mascherata.

Perché è bene essere chiari su una cosa: in tema di valutazioni ambientali, il rapporto tra “progetto” e ”valutazione” è direttamente proporzionale: più il progetto è scarso o carente di contenuti più è alto il numero di prescrizioni ad esso attribuite, al fine di sopperire a quanto non è stato approfondito nella proposta.

E d’altronde, se non c’è la volontà di bocciare l’iniziativa, se si pretende di mantenerla in vita (perché così si è deciso e non si vuole tornare indietro), ma c’è la consapevolezza che la documentazione non risponde ai canoni di accuratezza previsti (e l’aeroporto di Firenze, non vi è dubbio, sarà assunto come esempio di approssimativa se non pessima progettazione), l’unica via di uscita onorevole per chi ha un ruolo tecnico è legata alla possibilità di predisporre una accurata elencazione di tutto ciò che non è stato fatto e che dovrà essere necessariamente fatto prima che l’opera sia realizzata.

Che non sia il caso di vantarsi eccessivamente di tali compromessi, credo ne convengano in molti. Cosi come molti pensano che sia giunta l’ora di pretendere progettazioni rispettose delle leggi, all’altezza delle aspettative, fatte da tecnici indipendenti, professionalmente qualificati e competenti.

E’ tempo di dare finalmente spazio a conoscenze e professionalità troppo spesso relegate in ambiti marginali del processo decisionale dove invece eccelle la mediocrità, perché la credibilità di una classe dirigente si misura anche dalla capacità di studiare proposte valutandone correttamente la sostenibilità.

A prescindere da ridicole diatribe tra politici alla disperata ricerca di un colpevole da mettere alla gogna per nascondere i propri limiti, se tali principi non entrano nel sentire comune, topolini, ahimè, continueranno a partorire montagne.

«L'allarme. Sui tavoli della Cop22 irrompono gli ultimi dati diffusi dall’Organizzazione metereologica mondiale. Il 2016 ha tutte le carte in regola per divenire l'anno più caldo di sempre». il manifesto, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

Non vi è nulla di realmente nuovo o inatteso nell’allarme lanciato ieri sui tavoli della Cop22 dalla Wmo, l’Organizzazione metereologica mondiale. In un comunicato diffuso durante la giornata di apertura della 2a settimana di lavori a Marrakech, l’agenzia Onu ha confermato che il 2016 ha tutte le carte in regola per divenire l’anno più caldo di sempre. Si tratterebbe del terzo record di fila dopo i primati registrati dal 2014 e dal 2015.

Nello specifico l’aumento è di 0,88° in più rispetto al periodo 1961-90 e di ben 1,2 gradi in più rispetto all’epoca pre-industriale. Un aumento che rende sempre più vicina la soglia +1,5°, considerata da molti la soglia massima da non superare per garantire la sopravvivenza di ampie regioni del pianeta.

Il trend esponenziale delle temperature globali è confermato anche da un altro dato: 16 dei 17 anni più caldi sono stati registrati proprio nel XXI secolo. Aumentano inoltre gli eventi climatici estremi, inondazioni e ondate anomale di calore.

A ottobre la Wmo aveva diffuso altri dati riguardanti il raggiungimento delle 400 ppm (parti per milione) di Co2 in atmosfera. La novità rispetto al passato è che tale quantità non si registra più soltanto in alcune zone e per periodi particolari, ma a livello globale e lungo l’intero anno ed è destinata a non scendere per diverse generazioni.

Il segretario generale della Wmo Petteri Taalas ha aggiunto che in alcune regioni artiche della Russia si registrano temperature di 6-7 gradi superiori alla media, mentre sono salite di 3 gradi le temperature di altre regioni settentrionali, tra cui Alaska e Canada nordoccidentale. Il 21 luglio 2016 la società meteorologica Wunder Ground aveva diffuso il dato record registrato a Mitribah, in Kuwait: una temperatura di 54°. Se questi trend verranno confermati, il continente africano potrebbe letteralmente bruciare.

La desertificazione minaccia un quarto delle terre del pianeta e un miliardo di persone allocate in circa 110 paesi, ma è in Africa che si registra la situazione più drammatica. La siccità in Somalia ha portato a un +32% della popolazione malnutrita e a 431.000 rifugiati in Kenya, cui si uniscono i 300.000 profughi interni. Secondo la Banca Mondiale, con un aumento delle temperature medie globali tra +1,5° e +2° tra il 40% e l’80% delle terre agricole dell’Africa subsahariana non sarà più adatto alle coltivazioni di mais, miglio e sorgo già tra il 2030 e il 2040. A causa delle minori rese agricole stima un aumento tra i 35 e i 122 milioni di persone in condizioni di povertà estrema.

Una delle conseguenze sociali più drammatiche connesse ai dati sopra elencati riguarda il crescente fenomeno delle migrazioni climatiche: nel 2015, su 27,8 milioni di sfollati interni, 14,7 milioni sono stati determinati da eventi climatici estremi. Il rapporto The Human Cost of Weather Related Disaster afferma che, negli ultimi 20 anni, i disastri naturali sono stati determinati per il 90% da eventi climatici estremi. Tra i paesi più colpiti anche Cina, Filippine, Indonesia e Usa.

Oltre ai rischi interni, gli Stati Uniti rischiano di dover affrontare l’aumento dei migranti provenienti dal Messico: secondo le stime saranno 900.000 le persone in più spinte ogni anno verso la frontiera dal deserto che avanza sul 60% del territorio messicano. La domanda è d’obbligo: Trump è davvero convinto di poter affrontare queste emergenze investendo con una mano nell’energia fossile e con l’altra edificando attorno al paese migliaia di km di muro di cinta?

«Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza». La Repubblica, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

Col suo enorme senso pratico, forse oggi Gian Lorenzo Bernini penserebbe che sarebbe stato meglio se papa Alessandro VII avesse scelto l’altro progetto che l’artista gli aveva presentato: un grande Ercole che reggeva a fatica l’obelisco, incredibilmente storto tra le sue mani. Invece papa Chigi volle proprio l’Elefante, antico simbolo della sapienza orientale, raffigurato mentre portava nella Città Eterna questo obelisco, rinvenuto nel tempio di Iside, che stava sotto il tempio di Minerva che stava sotto la chiesa della Madonna, in quella spettacolare stratificazione della storia che si chiama Roma.

E non c’è dubbio che vedere oggi spezzata quella zanna che Ercole Ferrata scolpì seguendo il modello di Bernini colmi il cuore di tristezza. Ma bisogna pur ricordare che il patrimonio culturale della nazione è in lutto per perdite incomparabilmente superiori: quelle causate dal terremoto dell’Italia centrale, e soprattutto dal terribile smantellamento della tutela, che ha impedito prima di mettere in sicurezza e poi di soccorrere le opere e le architetture.

Se c’è un filo che unisce queste perdite così diverse per cause e dimensioni, è il nostro largo analfabetismo figurativo. Già, perché l’unico presidio vero del patrimonio è la diffusione della cultura artistica, che passa in primo luogo attraverso l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole.

Un insegnamento tradizionalmente del tutto insufficiente, ulteriormente tagliato dai governi Berlusconi e che questo governo ha annunciato di non voler ripristinare. Eppure l’unica difesa possibile di un patrimonio così capillarmente diffuso sarebbe la consapevolezza dei cittadini, che inibirebbe i singoli atti inconsulti e censurerebbe le politiche che minano la tutela: gradi diversi di un unico vandalismo, in ultima analisi dovuto all’ignoranza. Vandali, diceva Antonio Cederna e prima di lui Raffaello, siamo tutti noi.

L’unica cosa da non fare ora è riaprire il dibattito sulla sostituzione delle opere con delle copie o, peggio, sulla chiusura di piazze, scalinate, sagrati. L’Italia è l’Italia perché la bellezza è offerta a tutti: papa Chigi non volle l’Elefantino in un chiostro, o in un cortile aulico, ma nel mezzo della pubblica piazza, in una Roma che nel 1665 era – per quanto sia difficile crederlo – assai più sporca, maleodorante e anarchica di quanto non lo sia oggi.

Sarebbe davvero paradossale che fosse una democrazia moderna a sequestrare ciò che un monarca dell’antico regime volle pubblico. Dobbiamo prendere atto che la bellezza dell’arte è fragile, e che la sua unica difesa è la conoscenza. D’altra parte è proprio per questo che ci è così cara: perché il suo corpo condivide la stessa sorte del nostro.

«A venticinque anni dalla sua approvazione, il Senato, snaturandone i presupposti, approva modiche inadeguate alla legge sulle aree protette che ha garantito la conservazione della natura e la salvezza di una parte cospicua del territorio italiano». Carteinregola online, 14 novembre 2016 (c.m.c.)

Il 10 novembre il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di modifica della legge 394/91 sulle aree protette (in calce in download), che adesso passerà alla Camera. 17 associazioni che si sono battute per apportare miglioramenti al testo hanno diramato un comunicato stampa che denuncia i numerosi e preoccupanti punti critici, dalla modifica della governance delle aree protette in cui viene prevista la presenza di portatori di interessi specifici, all’assenza di competenze specifiche in tema di conservazione della natura di Presidente e Direttore degli Enti Parco, alla mancata definizione di strumenti di partecipazione dei cittadini e la mancata previsione di comitati scientifici, a una norma che attraverso la “gestione faunistica”, con la governance prevista, acuirà le pressioni del mondo venatorio, al mancato divieto delle esercitazioni militari nei parchi e nei siti natura 2000…

COMUNICATO

«Né il Senato, né il Governo hanno accolto le osservazioni e le proposte di 17 Associazioni Ambientaliste e di centinaia di esperti e uomini di cultura, che hanno criticato in modo fermo e elaborato proposte migliorative. Risultato: una riforma sbagliata che chiediamo con forza venga modificata alla Camera».

Così le Associazioni subito dopo il voto con cui Palazzo Madama ha approvato, in prima lettura, il disegno di modifica della legge 394/91 sulle aree protette.
«Non volendo cogliere il senso costituzionale che vede la tutela della natura in capo allo Stato, la riforma non valorizza il ruolo delle aree protette come strumento efficace per la difesa della biodiversità e non chiarisce il ruolo che devono svolgere le Comunità del Parco.

Un testo che doveva rafforzare il ruolo e le competenze dello Stato centrale nella gestione delle aree marine protette, ma che in realtà continua a lasciare questo settore nell’incertezza e senza risorse adeguate.

Perché non possiamo non sottolineare che questa riforma viene fatta senza risorse, che la legge approvata non riesce a delineare un orizzonte nuovo per il sistema delle aree protette e senza migliorare una normativa che, dopo 25 anni di onorato servizio, non individua una prospettiva moderna per la conservazione della natura nel nostro Paese».

Numerosi e tutti molto preoccupanti sono i punti più critici del disegno di legge approvato al Senato:
Una modifica della governance delle aree protette che peggiora la qualità delle nomine e non razionalizza sufficientemente la composizione del Consiglio direttivo, in cui viene prevista la presenza di portatori di interessi specifici e non generali come deve essere. Non vengono definiti strumenti di partecipazione dei cittadini né la previsione di comitati scientifici;

Una governance delle Aree marine Protette che non prevede alcuna partecipazione delle competenze statali e individua Consorzi di gestione gli uni diversi dagli altri;

L’assenza di competenze specifiche in tema di conservazione della natura di Presidente e Direttore degli Enti Parco;

Un sistema di royalties che, pur legato ad infrastrutture ad alto impatto già esistenti, deve essere modificato per evitare di condizionare e mettere sotto ricatto i futuri pareri che gli enti parco su queste dovranno rilasciare;

Una norma che attraverso la “gestione faunistica”, con la governance prevista, acuirà le pressioni del mondo venatorio;

L’istituzione di un fantomatico Parco del Delta del Po senza che venga definito se si tratti o meno di un parco nazionale, quando peraltro la costituzione di questo, come Parco Nazionale, è già oggi obbligatoria ai sensi dalla legge vigente;

Non si vietano le esercitazioni militari nei parchi e nei siti natura 2000;

Non si garantisce il passaggio delle Riserve naturali dello Stato, del personale e delle risorse impegnato, ai parchi.

Sono alcuni dei motivi che fanno di questa riforma una riforma sbagliata, incapace di dare soluzioni ai problemi delle Aree Protette, ma addirittura tale da avvicinare troppo sino a sovrapporre pericolosamente i portatori d’interesse con i soggetti preposti alla tutela, svilendo la missione primaria delle aree protette e mettendole in ulteriore sofferenza.

Alla luce di ciò, gli elementi utili introdotti dalla riforma, soprattutto in termini di pianificazione, di classificazione e gestione dei siti della rete Natura 2000, di considerazione dei servizi ecosistemici, appaiono sostanzialmente depotenziati.

«Abbiamo dato la massima disponibilità al confronto, elaborando argomenti seri e proposte dettagliate. Con infinito rammarico siamo costretti a dover prendere atto di mancate risposte del relatore, della maggioranza e del Governo, con il risultato doppiamente negativo di perdere l’opportunità di miglioramenti costituzionalmente coerenti e di determinare un grave scollamento tra la politica italiana ed un approccio alla conservazione della natura coerente alle indicazioni ed agli obblighi internazionali», continuano le Associazioni ambientaliste che concludono:

«A venticinque anni dalla sua approvazione, il Senato, snaturandone i presupposti, approva modiche inadeguate alla legge sulle aree protette che ha garantito la conservazione della natura e la salvezza di una parte cospicua del territorio italiano. La questione ora si sposta alla Camera dei Deputati dove le Associazioni Ambientaliste faranno di tutto per far sentire una voce va ben oltre loro e coinvolge tutto il mondo della cultura e della scienza del nostro Paese».

Le associazioni che hanno chiesto modifiche al Senato

Ambiente e Lavoro
AIIG – Associazione Insegnanti di Geografia
Club Alpino Italiano
Centro Turistico Studentesco
Ente Nazionale Protezione Animali
FAI – Fondo Ambiente Italiano
Greenpeace Italia
Gruppo di Intervento Giuridico
Italia Nostra
LAV – Lega Antivivisezione
Legambiente
Lipu
Marevivo
Mountain Wilderness
Pro Natura
SIGEA
WWF Italia

http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/45868.htm
http://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2016/11/Modifiche-alla-legge-6-dicembre-1991-n.-394.pdf

Distruggere il bello che ci ha regalato la storia delle nostre città non è un vizio recente degli abitanti della penisola. Ce lo ricorda un libro ricco di storie e d'immagini. La Repubblica, 12 novembre 2016



Attilio Brilli, Il grande racconto delle città italiane (Il Mulino, pagg. 624, euro 50).

E il viaggiatore d’oggi può predisporsi a esplorare gli angoli paesaggistici più riposti e intatti che ci siano in Italia, risalendo la Valnerina verso i mitici monti della Sibilla». A leggerle oggi queste parole di Antonio Brilli mettono i brividi: ci voleva un terremoto devastante per svelarci, e contemporaneamente rubarci, l’altra faccia del nostro Paese. Restituire l’Italia agli italiani attraverso lo sguardo dei più celebri visitatori è esattamente il progetto de Il grande racconto delle città italiane (il Mulino), un libro sontuosamente illustrato e magnificamente scritto da uno dei più profondi conoscitori della letteratura di viaggio europea dell’età moderna.

Era il 1858 quando Carlo Cattaneo scrisse che «la città è l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua»: i resoconti dei viaggiatori che Brilli seleziona, antologizza e monta in una narrazione avvincente rendono visibile questa intuizione, almeno per il tratto che va dal Settecento fino quasi all’oggi. E, anche grazie al sostegno dello sceltissimo apparato iconografico, questi testi rari e preziosi vengono offerti in nutrimento a nuovi, moderni visitatori decisi a non arrestarsi alla superficie dei “grandi attrattori turistici”.

Tra i moltissimi itinerari impliciti che innervano il libro, quello forse meno prevedibile ci guida a leggere, attraverso lo sguardo fieramente critico degli stranieri, le violente trasformazioni di Firenze e Roma all’indomani dell’unificazione. Evidentemente tradizionale è la difficoltà dei fiorentini di comprendere che il cambiamento può essere anche in peggio: «Tutto cominciò un mattino di primavera del 1865 - racconta Brilli - allorché si svegliarono di soprassalto alle deflagrazioni delle prime mine che segnavano l’avvio dell’abbattimento delle mura medievali. Boati sordi e spasimi del terreno segnavano l’agonia del portentoso anello che per secoli aveva protetto la città come un talismano». Negli anni che vanno dal 1865 al 1870 - scrive un testimone contemporaneo - «si può dire senza esagerazione, che ogni ventiquattro ore spariva qualche cosa di vecchio e appariva qualche cosa di nuovo». Alla fine di tutto questo non valeva più l’ironia con cui, ed era il 1850, Théophile Gautier aveva annotato che «Firenze ha il corsetto annodato da una cerchia di fortificazioni, e fa la difficile quando si bussa di sera alla sua porta»: iniziava così una stagione di “apertura” che - per rimanere nella metafora - ha progressivamente fatto di Firenze una città fin troppo disponibile, approdando a una prostituzione esplicita che è stata ritratta davvero forse solo dalla penna di Antonio Tabucchi.

Devastata Firenze, la febbre della “capitalizzazione” aggredisce Roma. E sembrano uscite dalle cronache di oggi le pagine in cui Brilli ritesse le voci che si levarono a difendere le meravigliose ville cardinalizie destinate a trasformarsi in enormi agglomerati di cemento e mattoni. Tra tutte, quella di Hermann Grimm, storico dell’arte innamorato dell’Italia - figlio di uno dei due grandi filologi tedeschi che tutti conosciamo come favolisti, i fratelli Grimm - che nel 1886 scrive: «Potrei qui forse concludere che questa distruzione della villa Ludovisi debba essere riguardata come un esempio di ciò che incontrastabilmente è vandalico. Ma non vorrei alfine essere ingiusto verso i Vandali, i quali con una certa ingenuità rovinavano in fin dei conti le sole proprietà degli stranieri. Essi non le distruggevano per guadagnare denaro, né imperversavano in questo modo contro se stessi». Nulla bastò a salvare «il più bel giardino del mondo», e nella conclusione di Grimm si avverte una forza che dopo avrebbe sorretto solo le pagine di Antonio Cederna: «È proprio dei nostri nuovi tempi che quando ci sia realmente da guadagnare milioni, in un batter d’occhio le condizioni mutino, e si passi ogni misura: senza che - e anche questo è un segno del tempo - nessuno ci veda niente di straordinario, o che apparisca anche possibile il porvi riparo».

Accanto alle altre grandi capitali - la Torino “decapitalizzata”, la Milano che ruota intorno alla “gran macchina” del Duomo, una Venezia morente già nelle pagine di John Ruskin, Napoli «nelle cui strade non compare mai uno spazzino» (Maupassant), Palermo («non mi sarei immaginato di vedere cose così belle dopo quello che avevo visto in Oriente», scrive Ernest Renan) - ecco i nessi meno ovvi: il sogno di Camus su Siena (vista sorgere «nel tramonto con i suoi minareti, come una Costantinopoli di perfezione, arrivarci di notte, senza denaro e solo, dormire presso una fontana ed essere il primo sulla Piazza del Campo in forma di palma, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande»), l’amore viscerale di Mario Luzi per Pienza («mi mancherebbe fieramente se mi fosse impedito di venirci di tanto in tanto»), la commozione del tedesco Johann Gottfried Seume, che nel 1802 guarda Siracusa dall’alto del Castello Eurialo: «Considero questa mezzoretta una delle più belle di cui abbia mai goduto, sol che potessi cancellare la malinconia che la permeava, una tristezza di noi tutti esseri umani».

Insomma: «Qui in Italia le città sono tutte capitali», come annotava Lord Byron. Meravigliosi, infine, gli ammonimenti d’autore verso i conformismi del turismo seriale. E tra tutti indimenticabile questa tirata contro coloro che fingevano di andare in deliquio di fronte alla larva del Cenacolo di Leonardo, a Milano: «Che pensereste di un individuo il quale, guardando una vecchia baldracca, cieca, sdentata, sfigurata dal vaiolo, dicesse: “Che bellezza! Che anima candida! Che espressione mirabile!”. Costui avrebbe il talento di vedere cose che non esistono. Ecco quello che pensai sostando dinanzi all’Ultima Cena, ascoltando persone che esaltavano qualità scomparse cento anni prima che costoro fossero nate». Correva il 1869, a scrivere era Mark Twain.
«Siamo qui, come residenti, perché non vogliamo che Venezia, che è già diventata Disneyland, si trasformi a breve in Pompei: un cumulo bellissimo di pietre senza nessuna anima». Articoli di Roberta De Rossi e Elisa Lorenzini, La Nuova Venezia e Corriere del Veneto -Venezia, 13 novembre 2016 (m.p.r.)


La Nuova Venezia
CORTEO CON LE VALIGE
«SALVIAMO VENEZIA»

di Roberta De Rossi

VENEZIA.«Tutti a Mogliano, andiamo tutti a Mogliano, tutti a Moglianooooo...» cantano cinquecento veneziani - chiara allusione alla residenza del sindaco Brugnaro - tirandosi appresso il loro trolley. Sfilano tra le calli del centro dietro al Doge e alla sua enorme valigia rosso fuoco stile Roberta di Camerino, pronto a imbarcarsi in gondola davanti a Ca’ Farsetti, per prendere la via dell’esilio e consegnare definitivamente la città ai turisti. Ieri, tra campo San Bartolomeo e la sede del Comune, è andato in scena #Venexodus (come recitava il grande striscione che ha avvolto il Ponte di Rialto), nuova manifestazione dei residenti veneziani contro lo spopolamento della città, scesa sotto quota 55 mila.
Così, dopo le 300 lenzuola colorate che a luglio hanno avvolto le case della città per #Veneziaèilmiofuturo; il corteo con i carrelli della spesa organizzato dai giovani di Generazione 90, ieri è stata la volta dell’ironica protesta colorata firmata Venessia.com (la stessa del funerale alla città di qualche anno fa e del conta abitanti in campo San Bartolomeo), alla quale hanno aderito una quindicina di comitati.
I perché. «Siamo qui, come residenti, perché non vogliamo che Venezia, che è già diventata Disneyland, si trasformi a breve in Pompei: un cumulo bellissimo di pietre senza nessuna anima. Vanno prese subito misure per contrastare questo declino», dice Matteo Secchi, portavoce dell’associazione, «perché il nostro è un siparietto ironico per accendere i riflettori sul problema, ma seriamente chiediamo all’amministrazione impegni certi per una politica della residenza a favore degli abitanti, che comprenda ad esempio il fatto che chi affitta ai turisti deve pagare molte più imposte rispetto chi affitta ai residenti».
Al corteo che si è snodato tra campo San Bortolo - con partenza davanti al contatore fermo su 54.926 abitanti - e Ca’ Farsetti, è seguito un lungo incontro tra una delegazione e la giunta, assente il sindaco Brugnaro fuori Venezia. «Ci hanno promesso un secondo incontro, che non è un granché, ma non è fine a sé stesso», dice all’uscita Secchi, «noi abbiamo dato disponibilità ad aiutarli: ma non aspettiamo tanto. Per ora sono solo parole, ma se non lavoriamo tutti assieme ai fatti, non saltano fuori le case promesse per il social housing e non si interviene sui flussi e gli affitti turistici, tra un mese facciamo tutti di nuovo casino». «Hanno aperto a progetti di autorecupero degli immobili da parte degli inquilini, che è quello che chiediamo da tempo», dice Chiara, dell’Agenzia sociale per la casa, che occupa alcuni appartamenti in città.
«C’è stato un importante impegno all’ascolto», interviene Giampietro Pizzo, ex candidato sindaco, che nel corteo aveva vivacemente polemizzato con alcuni assessori, «ma vogliamo chiarezza sui programmi, i tempi, le risorse ed essere coinvolti passo passo». «Abbiamo ricordato che il Pat obbliga l’amministrazione nella redazione del piano degli interventi a politiche per la residenza anche a scapito della ricettività», sottolinea Marco Caberlotto, tra i volti di generazione 90, che ha proposto al Comune di seguire l’esempio di Barcellona e Firenze e stringere con Airb&b un patto per la riscossione delle imposte di soggiorno dai turisti che affittano un alloggio attraverso la piattaforma, per reinvestire i fondi sulla residenza.
La polemica. Ma che ci fanno in corteo l’intera giunta e molti consiglieri di maggioranza, in una manifestazione che chiede proprio all’amministrazione politiche certe su casa e turismo per bloccare lo spopolamento? Ci sono la vicesindaca Colle e gli assessori Boraso, De Martin, Venturini, Zaccariotto, Romor, D’Este, Mar, il capodigabinetto Ceron e la presidente del Consiglio Damiano e molti consiglieri di maggioranza. Ogni tanto un gruppo dal corteo intona “Consiglieri infiltrati”. Gli aderenti al gruppo 25 aprile lasciano la manifestazione per protesta. .
L’amministrazione. «Desideriamo tutti lo stesso obiettivo», dichiara in una nota la vicesindaco, Luciana Colle al termine della (quasi) due ore di incontro con la delegazione di manifestanti, «sul tema casa continueremo nel processo di riorganizzazione, riordino, riassegnazione delle emergenze abitative». La giunta ha annunciato che presto verranno azzerati i bandi Social Housing e Erp per accelerare i tempi di assegnazione.«Il tema che deve vederci tutti uniti», continua Colle, «dev’essere quello del rifinanziamento immediato e urgente della Legge speciale per provvedere alla manutenzione della città storica e superare il gap di extracosti ma anche per favorire le ristrutturazioni delle abitazioni residenziali e rilanciare il lavoro dei piccoli artigiani. Un'altra priorità - è stato sottolineato - è creare nuovi posti di lavoro per far rimanere i giovani che studiano nelle nostre università e il rilanciare Porto Marghera».
L’amministrazione si è poi impegnata con i manifestanti ad operare perché «venga rivista, per il centro storico di Venezia, la legge regionale sui Bed&breakfast, così come l'opportunità che venga considerata la specialità di Venezia a livello nazionale sulla questione Airbnb». L’opposizione. M5s attacca per voce del consigliere Davide Scano: «Anziché dimostrare con i fatti la volontà di fermare l'esodo degli abitanti in laguna, la giunta fa passerella. Le delibere votate, o da votare, dicono in realtà che ai nuovi amministratori va benissimo il trend in corso: meno abitanti e più alberghi. Basti pensare, alle due delibere sui cambi d'uso che hanno coinvolto pure un'esponente della lista civica del sindaco, alla vendita di immobili per farne nuovi hotel anziché abitazioni oppure alla scelta di rinunciare ai park per residenti nell'area della Marittima per lasciare tutto ai turisti e autorizzare, in aggiunta, due nuovi alberghi con più di 400 camere»

Corriere del Veneto - Venezia
TROLLEY E CARTELLI
VENEZODUS PER 500
«CASE E SERVIZI, VOGLIAMO VIVERE QUI»
di Elisa Lorenzini

Un dossier di proposte a Ca’ Farsetti. Mezza giunta in corteo, esplodono le proteste


Venezia. Si sono presentati in oltre 500, ieri mattina, per protestare contro lo spopolamento in città, armati di trolley, valigie e cartelli con la scritta #venexodus, alla manifestazione ideata dai Venessia.com. In testa il Doge accompagnato dalla sua maxi valigia, tre metri per due e dietro un fiume di cittadini. Come Annalisa Pastrello con un trolley nero: «La città è svenduta non ci sono più case per i giovani, mia figlia abita in un condominio affittato a turisti, arrivano ubriachi, fanno disastri». Come Patrizia Capuzzo: «Ormai aprono solo negozi per stranieri, questa non è più una città vivibile». Come il fotografo Andrea Avezzù, uno tra i più giovani a sfilare: «Questo è un grido contro lo spopolamento inesorabile, Airbnb va fermato è il colpo di grazia alla residenzialità». Tra i tanti ci sono anche Marco Capitanio e Maria Giulia Manente, due giovani sposi: «Viviamo a Venezia perché avevamo la casa di famiglia, altrimenti non ce l’avremmo fatta». Maria Giulia fa la pendolare con Jesolo: «Servono più servizi per i residenti, dai trasporti ai parcheggi, il comunale non basta».

L’orologio conta residenti in campo San Bortolomio ormai scende in picchiata, la soglia dei 55 mila è già superata. Il corteo ieri è salito sul ponte di Rialto dove è stato srotolato uno striscione con lo slogan della giornata. Tra i 500 c’è chi pensa che il «nemico» sia il turismo tout court, chi punta l’indice contro le masse dei pendolari. «Serve un limite alle botteghe-spazzatura - dice Alberto Bettin - e vanno favorite le imprese culturali che attraggano turismo di qualità». E chi punta il dito contro tanti veneziani. «La gente affitta ai turisti perché guadagna di più - dice Giovanna Massaria, immobiliarista che affitta solo a non-turisti - e i controlli non ci sono, è una situazione nata con la connivenza dell’amministrazione».

Ma in mezzo al corteo c’è anche metà giunta guidata dalla vicesindaco Luciana Colle, con l’assessore al Turismo Paola Mar e la presidente del Consiglio Ermelinda Damiano e uno stuolo di consiglieri fucsia. Una presenza che ha scatenato qualche defezione, abbandoni in corsa e proteste anche contro gli organizzatori. «Avevamo aderito a un corteo di protesta, non a una manifestazione di regime travestita», tuona Marco Gasparinetti del Gruppo 25 Aprile. E Giampietro Pizzo di Venezia Cambia: «Chi ha oggi la responsabilità di decidere non può presentarsi come un cittadino qualsiasi». Protesta anche il presidente della Municipalità di Venezia Andrea Martini che «sventola» l’accordo di programma (bocciato dal parlamentino) di Comune e Porto sulla nuova Marittima con hotel e parcheggi per turisti. «Le delibere della giunta - dice il consigliere Davide Scano (M5S) - dicono che ai nuovi amministratori va bene il trend in corso: meno abitanti e più alberghi».

A Ca’ Farsetti, mentre il Doge, simbolo dell’esodo, parte in gondola lasciando la città, gli assessori hanno ricevuto una delegazione di manifestanti con un dossier di proposte, dall’autorestauro dell’Assemblea Sociale per la Casa, alle maggiori tasse per chi affitta a turisti di Venessia.com. «Ci rivedremo a gennaio - spiega dopo l’incontro il portavoce Matteo Secchi - siamo disponibili a lavorare assieme ma non ad aspettare a lungo, è un’emergenza». Pizzo aggiunge: «Vogliamo chiarezza dall’amministrazione, deve rispondere ai cittadini, non a interessi corporativi».

Nel dossier dell’Espresso online, di cui abbiamo ripreso l’ampia introduzione di Paolo Biondani, non è riportato l’unico articolo sul condono edilizio (l’unico a prucurare danni irreversibili al suolo), che era uscito sull’edizione cartacea del 6 novembre. Lo riprendiamo oggi. L’Espresso, 6 novembre 2016

Il condono edilizio è peggio del condono fiscale e finanziario, di quest’ultimo con il passare degli anni si perderà la memoria. Non è così per la sanatoria edilizia perché le ferite inferte al paesaggio e alle città sfidano i secoli. Restano sfigurate per sempre le coste dell’Italia meridionale, principalmente di Campania, Calabria e Sicilia, e le periferie di città grandi e piccole. Ma quando si parla di condono edilizio si parla soprattutto di Roma. Italo Insolera diceva che l’abusivismo non è solo un fenomeno perverso che ha condizionato la vita di Roma, ma è un modo d’essere di Roma. Il totale delle domande di condono relative alle leggi dal 1985 al 2003 è impressionante, oltre 600 mila, delle quali un terzo ancora da esaminare. 600 mila abusi su una popolazione di meno di tre milioni di abitanti, un abuso ogni cinque abitanti uno ogni due famiglie, è un dato pauroso, senza confronti con il resto d’Italia, che legittima i peggiori convincimenti sulla diffusione dell’illegalità nella capitale.

Un terzo del territorio urbanizzato di Roma, con più di mezzo milione di abitanti, è formato da migliaia di lottizzazioni abusive disseminate in ogni parte della sconfinata periferia. Aggregati di case di varia tipologia (dalle villette a alle ville anche di lusso, alle palazzine a più piani) a perdita d’occhio, quasi del tutto privi di spazi collettivi, verde e attrezzature, con infami servizi di trasporto pubblico. Non ci sono piazze, i luoghi d’incontro e di socializzazione sono i centri commerciali.

Eppure a Roma non sono mai mancati intellettuali, architetti, urbanisti, giornalisti con un occhio di riguardo per il condono e l’edilizia abusiva accreditata come spontanea. Quegli stessi pronti a scatenarsi contro Corviale, Laurentino 38 e altre complesse architetture dell’edilizia pubblica hanno visto nelle politiche di condono il riconoscimento di importanti valori tradizionali e popolari. Nel 1983 alla “città spontanea” fu dedicata un’importante mostra che confrontava Roma con Algeri, Tunisi, Il Cairo, Maputo, Bogotá e Città del Messico. Una mostra che spianò la strada alla prima legge di condono edilizio, quella del 1985 voluta del governo di Bettino Craxi (ministro dei Lavori pubblici Franco Nicolazzi). Le leggi successive, del 1994 e 2003, sono opera dei governi Berlusconi (ministri consenzienti Giulio Tremonti, Roberto Radice, Pietro Lunardi).

La conferma di Roma capitale dell’abusivismo si ebbe il 17 febbraio del 1986. Si svolse in quel giorno un’altra marcia su Roma – meno tragica di quella di 64 anni prima, non foriera di lacrime e sangue ma anch’essa politicamente terribile –, la marcia dei sindaci abusivi siciliani, capeggiati da Paolo Monello sindaco comunista di Vittoria (una città quasi tutta abusiva in provincia di Ragusa), sostenuti da Lucio Libertini responsabile dell’urbanistica del Pci. La marcia dei sindaci siciliani era contro la legge per il condono del 1985, ma nel senso che volevano renderla più permissiva e meno onerosa.

La Sicilia, dopo Roma, è l’altro grande teatro in cui recitano da protagonisti abusivismo e condono. Ricordo solo le villette nella Valle dei Templi di Agrigento, gli scempi di Pizzo Sella sopra Palermo, e il parco archeologico di Selinunte, sulla costa Sud occidentale dell’Isola, che affaccia sulle repellenti lottizzazioni di Triscina e Marinella.

Pochissimi i casi in cui a perdere è stato il condono. Indimenticabili le demolizioni degli ecomostri di Fuenti in Costiera amalfitana e di Punta Perotti a Bari

© 2024 Eddyburg